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Concilio Ecumenico Vaticano II, Costitu

«Predicate il Vangelo»: una valutazione globale

La rivista italiana «Jesus», da molti anni uno dei periodici più rilevanti su temi culturali di carattere religioso nel mondo italofono e anche al di fuori di esso, ha pubblicato, a cura di Vittoria Prisciandaro («Riforma a metà» - 5/2022, pp. 55-59), un’intervista a Pierluigi Consorti, docente all’Università di Pisa, presidente di Adec (associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso) sulla costituzione «Predicate il Vangelo». Ne pubblichiamo qualche stralcio particolarmente significativo, ringraziando il periodico italiano per quanto continua a fare a favore della diffusione di una cultura religiosa intelligente ed appassionata.

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Rispetto alla «Pastor bonus», la precedente costituzione apostolica sulla Curia quali sono le novità?

Alcuni elementi che sono stati messi in evidenza come grandi novità – ad esempio la partecipazione dei laici o l’accorpamento di alcuni dicasteri – in realtà sono già stati realizzati nel passato, ma non in maniera organica. Per esempio il dicastero per le Comunicazioni era già diretto da un laico (ndr: Paolo Ruffini, già direttore di RAITRE e Tv2000) così come l’istituzione della Segreteria per l’economia. La costituzione da questo punto di vista mette ordine tra cose già fatte.

Al n. 5 della Praedicate Evangelium si dice che qualunque fedele può presiedere un dicastero. Cosa cambia rispetto al passato?

[…] Il n. 5 della nuova costituzione precisa che la curia ha una «indole vicaria»: significa che le funzioni curiali non impegnano necessariamente la potestà ordinaria che compete solo al Papa. Insomma non coinvolge obbligatoriamente funzioni riservate a chi è insignito dell’ordine sacro. Certo negli anni ’60 l’idea di affidare a fedeli laici compiti che sostengono l’autorità del Papa poteva sembrare eccessiva […] Adesso i tempi sembrano più maturi per comprendere che le competenze di un capo dicastero non coincidono necessariamente con i caratteri dell’ordine sacro e non dipendono dal cardinalato.

Il Papa può farsi aiutare anche da laiche e laici in tutti i servizi?

Certo, perché no! Nella linearità del diritto canonico non c’è ragione per cui una donna non possa ricoprire un ufficio ecclesiastico non espressamente riservato a fedeli ordinati.

Parliamo di Conferenze episcopali: ora cosa cambia nel rapporto tra Roma e le Chiese locali?

Le Conferenze episcopali sono organi di raccordo pastorale, prive di poteri propri. I poteri spettano ai vescovi nelle loro diocesi e talvolta questo comporta una visione assoluta del potere ecclesiale, concentrato nel vescovo in Diocesi e nel Papa per la Chiesa universale. Questa idea della funzione episcopale come potere costituisce una tipica tentazione clericale, dalla quale non è stata esente la Curia. Forse qui si poteva cambiare un po’ di più.

Lei che cosa si sarebbe aspettato?

Mi sarebbe piaciuto trovare un’aggressione più chiara al blocco di potere che si nasconde dietro i meccanismi curiali tradizionali. Sia chiaro: non penso a gruppi o lobby, ma ad una mentalità che non riesce a fare propria la visione laica, trasparente ed efficiente del governo della Chiesa universale. Siamo in parte prigionieri di una concezione antiquata, che accentra il potere amministrativo nelle mani del titolare del dicastero, dimenticando l’importanza del ruolo permanente della macchina amministrativa. Per fare un paragone, i ministri cambiano, ma i ministeri restano. La forza di un apparato di governo sta nella competenza e nella capacità di chi opera al suo interno, supportando chi temporaneamente lo guida. La Chiesa, invece, si struttura con tempi paradossalmente troppo lunghi e troppo brevi. Chi ricopre incarichi ecclesiastici immagina di esercitare un potere assoluto, che può condizionare anche i vertici dell’apparato. Esiste una tradizionale diffidenza verso l’apparato curiale, che impedisce di esprimerne le potenzialità. L’idea del potere assoluto, della potestà di governo come esercizio di una potestà sacra e addirittura sacramentale, non aiuta a declericalizzare il ruolo di chi opera nella curia, specialmente ai livelli più alti. Questa mentalità costituisce un dispositivo di blocco: il vizio sta lì.

A questo proposito la nuova costituzione prevede di rimandare in diocesi i vari officiali, dopo 5 o 10 anni. Questo periodo di tempo è sufficiente per costruire serie professionalità all’interno di un organismo burocratico amministrativo?

No, sono troppo pochi. Questa limitazione può essere utile negli incarichi apicali e solo se l’apparato funziona bene, è stabile, preparato, competente e in grado di esprimere una certa flessibilità quando cambino i prefetti, i capi dicastero. Sarebbe stato utile studiare le grandi amministrazioni laiche e imparare dai loro pregi, senza assumerne i difetti. Anziché un limite quinquennale si poteva prevedere un periodo di prova, la fissazione di un limite massimo esprime un po’ la paura che chi ricopre certe posizioni possa affezionarsi troppo e voglia restarci per sempre.

Forse l’esperienza dà ragione di questa paura, incarichi quasi a vita con prelati che poi non sono più andati via…

Sì, perché esercitavano un potere. Capisco anche l’insistenza con cui si dice che i curiali devono fare attività pastorale, perché non bisogna confondere l’ufficio con ciò che concerne la vocazione presbiterale. Ho studiato alla Lateranense e ricordo bene i miei colleghi non laici, che erano lì per andare poi in Curia o nei tribunali pontifici: essere preti per loro era secondario. Come per certi cappellani militari, ottimi militari, ma pessimi preti.

Cosa servirebbe a suo parere per toccare anche questo profilo della riforma?

Uno spirito laico e persone competenti. Se per questa riforma avessero chiamato qualche esperto di diritto amministrativo o qualche canonista

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