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pensato di impersonare un gagà senza vestirsi come un gagà.Totò invece rubò al suo cuoco la più lisa e striminzita giacchetta bianca, assolutamente fuori moda e sottrasse al guardaroba di sua moglie un rotondo cappellino di feltro, ma quando apparve alla ribalta la sera, come un disegno animato tracciato da un caricaturista feroce, tutti compresero che più è meglio d’un critico tagliente egli scriveva in quel momento la definitiva stroncatura del gagà.Totò crea il personaggio per distruggerlo ma prima vi gioca a lungo, con astuzia beffarda, con perfidia felina, come il gatto e il topo. Egli per qualche istante abbandona la sua preda. Esce dal personaggio e sgambetta, ballonzola felice, lanciando al pubblico quelle parlanti occhiate da sotto in su, come per dire: Avete visto come l’ho conciato? Ma non è abbastanza. Aspettate e vedrete. E rientra con violenza nei panni d’un gagà, d’un Orlando furioso, d’un Pinocchio, d’uno sci-sci caprese, d’un nevrastenico viaggiatore di vagone letto, per ricominciare il suo gioco più serrato, più sfrenato, eccitandosi fino all’ebbrezza».Totò si trova ancora una volta al centro di un nuovo capitolo del teatro italiano di rivista, di un crocevia in cui si saldando in un organismo unitario la satira e il musical, l’irruenza farsesca e lo sfarzo coreografico. Al culmine della sua parabola di animale da palcoscenico, l’attore si scatena in tutta la genialità plebea accanto a una commediante di grande temperamento, aggressiva e popolaresca come Anna Magnani, lasciando il segno in più di una generazione di spettatori che ancora ricordano la grandiosa vena comica dei loro sketch.

Poter considerare il fotogramma come un palcoscenico in cui muoversi senza regole, rappresentò un’occasione unica nell’intera filmografia di Totò

mente reinterpretava, facendolo diventare l’occasione di una esibizione personalissima in cui sfogare una comicità insieme distruttiva e sorniona, irresistibile e sfuggente. Era la sua grande forza». Totò risolve tutto nella mimica, nella obliquità permanente dello sguardo, nella inesauribile cangiabilità di un volto che può atteggiarsi nella bonomia o scatenarsi nella cattiveria, nella mobilità disarticolata del corpo che si fissa nel manichino o si libera nel Pinocchio o si agita nel finto pazzo, straordinarie sedimentazioni di una lunga esperienza teatrale fondata sulla scansione dei movimenti, sul ritmo dei tempi scenici, sulla matematica delle entrate e delle uscite. Senza dimenticare il Totò che traduce la violenza parodistica, il gusto di contraddire e di sbeffeggiare nel sovvertimento della lingua, nella contaminazione dei materiali linguistici con cui, tra un «eziandio» e un «tampoco», tra un «a prescindere» e un «è d’uopo», manda all’aria le convenzioni della burocrazia e dell’autorità. Il cinema di Totò è sin dall’inizio un cinema della fretta

e dell’improvvisazione. Non ci vuole molto a accorgersi che i deserti infuocati sono soltanto la spiaggia di Fiumicino, che la giungla è stata ricostruita a Cinecittà, che l’aldilà è stato girato alle Solfatare di Pozzuoli, dove se si accende un pezzo di carta fuma tutta la montagna. Gran parte dei film sono girati alla svelta, tirati via in due o tre settimane al massimo, sulla base di copioni raffazzonati alla meglio. Ma è un fatto che il cinema di questo straordinario attore dell’eccesso è per molti aspetti ancora vivo, fresco, immediato, nonostante le cadute di tono, i limiti farseschi, le approssimazioni. Questo Totò ultimo della classe, da zero in condotta e zero in profitto, finisce miracolosamente con il sopravvivere a tanto serioso cinema del dopoguerra che, a differenza delle gloriose “totoate”, ci sembra invecchiare a vista d’occhio. Se le sue prime affermazioni avvengono nel mondo estroso e irrequieto del varietà italiano in crisi, l’attore partecipa tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, alla ristrutturazione del-

lo spettacolo minore, in cui la ricerca di una formula coincide con il rinnovamento del pubblico. Quando diventa capocomico, si presenta con una sua compagnia nei vari cinemateatro della penisola: è il grande momento dell’avanspettacolo, di cui diviene ben presto uno dei protagonisti più osannati. Si tratta di una stagione che ha profondamente segnato più di una generazione di spettatori per i quali le luci del varietà hanno coinciso con questo mondo sgangherato e un po’ guitto, punteggiato da golose apparizioni carnali e da risate irrefrenabili. Se non è certo da solo nella grande esperienza collettiva dell’avanspettacolo - che ha visto impegnati attori come Erminio Macario, Nino Taranto, Guido e Giorgio De Rege, Carlo Dapporto, Renato Rascel, Tino Scotti, spesso alla testa di proprie compagnie - resta, se non il più rappresentativo di una fase di transizione dello spettacolo minore che forse esige interpreti meno egocentrici, certamente il più geniale. Il fatto è che il grande comico non si risolve nell’avanspettacolo, non coincide con il tratto di strada che fa con gli altri, viene piuttosto tesaurizzando anche questa esperienza, che si stratifica nella composita archeologia del personaggio, costruito a misura della sua irriducibile ecceziona-

lità. Nello stesso periodo si avvia la collaborazione con Michele Galdieri, che sarà l’autore di quasi tutte le riviste interpretate da Totò tra guerra e dopoguerra, da Quando meno te l’aspetti a Volumineide, da Che ti sei messo in testa? a Con un palmo di naso, da C’era una volta il mondo a Bada che ti mangio! Sintonizzato sulle reali possibilità dell’attore, nonostante gli eccessi crepuscolari e le indulgenze piccolo-borghesi, favorisce l’approfondimento che la maschera di Totò conosce negli anni Quaranta, in cui meglio si definiscono le risorse di ammiccante partecipazione satirica agli avvenimenti contemporanei, mentre si affermano in sketch leggendari le sue originali qualità di mimo. «Chi non ricorda Totò-gagà nella sgangherata garçonniere con un pretenzioso bar istallato in un comodino da notte?», si chiedeva Galdieri.

«Il gagà era a quel tempo un personaggio vero, vivo, preso da Via Veneto e portato alla ribalta; sedotto da questa grottesca verità Totò se ne impadronì e trovò forse per la prima volta il coraggio di tradire la sua tradizionale rendigote e di separarsi per qualche minuto dalla sua inconfondibile bombetta. Ma non volle indossare la sgargiante giacca a quadri che il costumista gli aveva preparato. Era anche quella una verità ed egli doveva deformarla a suo modo. Nessun attore al mondo avrebbe mai

pagina III - liberal estate - 27 agosto 2011


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