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he di cronac

La società non deve esigere nulla da chi non si aspetta nulla dalla società

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George Sand di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 1 GIUGNO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Senato dà il via libera alla riforma del lavoro: sì a tutti gli emendamenti del governo. Ora tocca alla Camera

«Più Europa, meno tasse» Il Governatore: la ripresa è vicina. Ma bisogna sostenere la crescita Ignazio Visco è ottimista mentre Draghi punta al salvataggio delle banche spagnole. Ma Monti invita Bruxelles a non abbassare la guardia: «Il contagio è ancora possibile» Verso il vertice di fine giugno

Nel pomeriggio c’è stata un’altra forte scossa

«Quindici anni per salvare il territorio dai terremoti» È la proposta del ministro dell’Ambiente: «Un piano per i suoli è l’infrastruttura più urgente». Crolli e perdite per due miliardi: ormai siamo all’1% del Pil nazionale Francesco Lo Dico • pagina 7

L’affondo dell’economista Giulio Sapelli

«Ma senza unità politica la Ue è un fantasma» di Errico Novi ale è la cautela con cui ci si rivolge alla Germania perché cambi strategia, che comincia a insinuarsi un sospetto. E cioè che in realtà i partner del monolite di Berlino credano pochissimo nell’efficacia delle loro pressioni e confidino piuttosto in un sempre più esplicito intervento di Washington. Su questo, sull’assenza cronica di una politica unitaria europea insiste con liberal il professor Giulio Sapelli. a pagina 3

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Gli Angelabond. Ecco il piano segreto della Merkel per mediare con Francia e Italia Sì ai titoli europei, ma solo fino al 60% dei debiti pubblici e con tasse e privatizzazioni di copertura; via libera agli investimenti e ammorbidimento delle riforme del lavoro. In vista del summit risolutivo, la Germania ha pronto un compromesso. Che ricalca il modello della riunificazione Enrico Singer • pagina 4

Intanto, un ostaggio tedesco è stato ucciso durante un blitz

Nigeria, un altro rapimento La solidarietà e la lezione del lavoro

Vi spiego cosa c’è dentro quelle fabbriche ferite di Savino Pezzotta l terremoto, con il suo carico di dolori e di distruzione, è entrato prepotentemente nella nostra vita. Non è una cosa lontana di cui possiamo parlare per sentito dire o perché l’abbiamo letta sui giornali: è lì davanti a noi sullo schermo della tv. È costantemente presente nei messaggi che riceviamo sui nostri cellulari e smartphone, strumenti ormai entrati nella nostra quotidianità. a pagina 6

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

Sequestrato un ingegnere italiano di settant’anni di Antonio Picasso

Al via la Conferenza di Istanbul

italiano rapito ieri in Nigeria si chiama Modesto Di Girolamo. È un ingegnere siciliano, ha 70 anni e lavora per la Borini & Prono costruzioni, compagnia edilizia piemontese impegnata nella realizzazione di infrastrutture stradali nel Paese fin dal 1952. Filtrando la riservatezza della Farnesina, sembra che il sequestro sia avvenuto lunedì nello Stato Kwara.

L’

Prove di pace per la Somalia di Giovanni Radini ille e una Somalia. Frase a effetto ma anche dovuta, visto che tra oggi domani è a Istanbul che si tiene la seconda conferenza internazionale sulla Somalia con la partecipazione dei rappresentanti di 57 governi, per l’Italia il ministro Terzi. a pagina 13

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• ANNO XVII •

NUMERO

104 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Per Bankitalia dopo il 2012 in recessione, dal 2013 l’economia potrebbe ripartire. Il Senato approva la riforma del lavoro

I tre passi per la ripresa

Monti: più crescita. Il Governatore Visco: meno tasse. Draghi: la Ue deve ricapitalizzare le banche. Ecco la strategia per rimettersi in moto di Riccardo Paradisi er tutto il 2012 ci terremo la recessione ma è legittimo sperare che nei primi mesi del 2013 possa partire la ripresa. Prima il bastone, poi la carota: ecco i due tempi dell’analisi che il governatore della Banca Ignazio Visco ha fatto nel corso dell’assemblea annuale di Banca d’Italia. Sono le sue prime ”Considerazioni finali” dopo l’avvicendamento con Mario Draghi che dalla guida della Bce ieri metteva in guardia dai rischi di un contagio in Europa, in un momento in cui sui mercati è tornata «incertezza e volatilità».

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È la stessa preoccupazione del resto che ha espresso Mario Monti allarmato dalle nuove impennate dello spread che rappresentano una «minaccia di contagio causata dalla debolezza del sistema». Rischiando di vanificare o almeno rendere meno efficaci le misure di rigore che il Paese sta adottando. «Lo spread a questi livelli – dice infatti Visco nelle Considerazioni finali – è non solo un ostacolo alla crescita ma anche una fonte di rischio per la stabilità finanziaria e pesa sul Pil per l’1% annuo». Ma lo stesso Visco, pur non minimizzando la motivata paura nei confronti d’una situazione estremamente critica, spinge anche il pedale della speranza. Esiste una strada per uscire dal tunnel e può essere percorsa. Il lavoro del governo andrebbe in questa direzione. Visco indica quelle che dovrebbero essere le priorità dei provve-

dimenti da adottare: tagli, rimodulazione della spesa e soprattutto riduzione della pressione fiscale. Ma non sarà una passeggiata di salute. «La classe politica italiana deve tradurre la voglia di rinnovamento della nostra società: per uscire dalla crisi, i costi ci saranno per tutti ma bisogna improntarli all’insegna dell’equità». Il volano principale di questo percorso deve essere però secondo Visco «la diminuzione della pressione fiscale arrivata a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta». Per questo l’ inasprimento dei tributi «non può che essere temporaneo. Occorre trovare, oltre a più ampi recuperi di evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale». Visco spezza poi una lancia a difesa delle banche, «esposte in misura rilevante nei confronti delle famiglie e delle imprese meritevoli di credito». Un passaggio controverso del suo discorso che non risulterà molto popolare ma che viene bilanciato da alcune critiche agli istituti di credito.

L’impegno da eseguire già dai prossimi mesi secondo Visco deve essere «sfoltire e razionalizzare le norme, non far salire la spesa pubblica complessiva». In questo senso neanche le banche possono sottrarsi a un nuovo regime di sobrietà. Anche loro dovranno tagliare a partire dai consigli di amministrazione troppo ”affollati e costosi”: «Alle aggregazioni tra banche non

hanno fatto seguito snellimenti incisivi dell’articolazione societaria dei gruppi e una riduzione nel numero dei componenti degli organi amministrativi». Le banche devono assumersi anche le loro responsabilità «La gestione delle banche deve essere corretta e ove emergano incongruenze devono essere cambiati i vertici e deve essere avviata la collaborazione con l’autorità giudiziaria».

Dal governatore della Banca d’Italia arriva anche un elogio della Bce: «Il suo contributo a sostenere i mercati e la liquidità resta essenziale; l’uscita dall’attuale assetto è oggi del tutto prematura». Anche perché «l’Europa stenta sulla crescita economica e i processi decisionali sono ancora lenti e farraginosi e per questo serve un cambio di passo. Alla lunga l’unione monetaria è più difficile da sostenere, sono necessari passi avanti concreti nella costruzione europea, va definito un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale». Indispensabile, nella gestione della crisi, il ruolo della Banca centrale europea: ha evitato che si abbattesse «una restrizione del credito rovinosa senza gli interventi dell’Eurosistema l’effetto della crisi sui debiti pubblici sarebbe stato maggiore». Da Bruxelles, presentando il primo rapporto annuale del Comitato europeo per il rischio sistemico (Esrb), è il presidente dell’Eurotower Draghi a rilanciare:


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«Senza politica, l’Europa è un fantasma» Giulio Sapelli attacca: non c’è la forza di cambiare, dobbiamo sperare che la Spd cacci la Merkel di Errico Novi

ROMA. Tale è la cautela con cui ci si rivolge alla Germania perché cambi strategia, così misurati e sorvegliati sono gli appelli per una svolta di sviluppo (e peraltro la moral suasion proviene quasi esclusivamente da italiani, almeno nelle ultime ore) che comincia a insinuarsi un sospetto. E cioè che in realtà i partner del monolite di Berlino credano pochissimo nell’efficacia delle loro pressioni e confidino piuttosto in un sempre più esplicito intervento di Washington. Neppure le nuove sollecitazioni inviate da Mario Draghi paiono in grado di smuovere la Merkel. Su questo liberal interpella il professor Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica dell’Università di Milano e componente del board dell’Ocse. Dobbiamo aspettare gli americani, professore? Guardi, gli Stati Uniti sono già intervenuti sull’Europa quando hanno imposto Mario Draghi alla Bce. Qualcosa c’è già stato. Draghi assume l’incarico dopo le dimissioni di un presidente e di un illustre componente tedesco del direttivo. E soprattutto dopo diverse visite europee di Geithner. Il futuro di Draghi è Oltreoceano come il suo passato. Quella da governatore di Bankitalia potremmo definirla una parentesi in attesa di collocazione. Bene, l’attuale vertice di Francoforte ha compiuto scelte, come quelle sul Fondo salva-Stati, che sono fuori dallo spirito dello statuto della Bce. Nelle sue parole non si distingue l’intonazione: tutto questo la rassicura o no? L’Europa non ha la forza per riformare se stessa. Lo dimostra l’irrilevanza del suo Parlamento Nei giorni scorsi a Strasburgo gli eurodeputati del Ppe e del Pse hanno votato mozioni bipartisan per limitare l’azione delle banche d’affari. La commissione di Bruxelles se n’è altamente infischiata. Da sè, quindi, l’Europa secondo lei non potrà risollevarsi. L’Europa politica non esiste. Quindi l’Europa, in assoluto, è impotente, non funziona. Non c’è nient’altro che la creazione folle di una moneta unica. Tutto concorre a confermare questo quadro.

Si riferisce anche alla grande prudenza con cui gli altri leader si rivolgono alla Merkel? Certo che sì. Le stesse teorie elaborate su Hollande non reggono. Il nuovo presidente francese è una delusione, Monti non mi pare abbia l’autorevolezza necessaria. Lui è appartenuto per un po’ di tempo a quella tecnocrazia che però non c’entra con l’Europa politica. Chi è autorevole in Europa? È proprio questo il punto: a decidere, in Europa, sono ancora i singoli Stati, punto. Dobbiamo limitarci a dire che se la Spd manda a casa la Merkel siamo tutti contenti. Ma tutto questo, per tornare al punto di partenza, ci suggerisce semplicemente che agli Stati Uniti in realtà non importa nulla dell’Europa. Basta che ci siano le basi in Italia casomai l’Iran facesse un colpo di testa, i missili in Polonia per fare paura a Putin, poi basta. Ecco, l’intonazione adesso è chiara: lei è molto pessimista. Fino a poco fa c’era la crescita: l’Europa non esisteva ma non ce ne accorgevamo. Ora che è arrivata la crisi ci rendiamo conto di che

Arginare la speculazione, ecco il nodo. Ma quando l’Europarlamento vota mozioni per limitare le banche d’affari, la Commissione se ne infischia

incoraggiando le autorità nazionali di controllo del sistema bancario ad «agire in modo compatto per gestire la crisi e mettere in campo un meccanismo credibile per la ricapitalizzazione degli istituti dell’Eurozona». I leader dei paesi europei insomma dovranno chiarire quale sarà il futuro dell’Euro, come l’Euro si presenterà tra diversi anni anche perché «Quanto più si specifica il futuro della moneta unica tanto più sarà meglio per tutti».

Draghi ricorre a una metafora:

cos’è l’Europa. Chi vi ha visto una sorta di manna sono state le banche d’affari. Sulle banche Draghi propone una sorveglianza centralizzata. Lasci perdere. Queste sue idee mi ricordano i Ghostplan dei Paesi comunisti, lui sembra l’ultimo dei sovietici. Non riusciamo a realizzare la disciplina delle banche su scala nazionale, figurarsi se il sistema si amplia e diventa europeo. Cosa dovrebbe fare la Bce? Draghi dica piuttosto quello che cominciano a chiedere alcuni banchieri centrali, e cioè che bisogna spezzare le reni alla speculazione finanziaria, che le banche d’affari vanno distin-

il Fondo salva Stati permanente dell’Eurozona lo strumento per ricapitalizzare direttamente le banche in difficoltà in uno Stato membro, senza che questo paese debba per forza ricorrere ai programmi di aiuto della Troika (Bce-Commissione europea-Fmi). «Oggi i governi possono accedervi per ricapitalizzare le banche solo dopo aver sottoscritto un protocollo d’intesa. Invece noi vogliamo che l’Esm possa essere usato di più e in

te da quelle commerciali. Se lo facesse, temo, le grandi centrali della finanza internazionale, che poi è il mondo da cui lui lui proviene, lo bacchetterebbero. Ma una sorveglianza europea davvero non servirebbe a imporre regole più efficaci? Ma ha notato o no che quando le banche europee sono state sottoposte agli stress test hanno cambiato in corsa i criteri di contabilità e nessuno ha aperto bocca? L’unico argine alla speculazione è appunto nella cancellazione delle varie leggi Amato che con nomi diversi esistono ovunque, cioè nella separazione tra banche d’affari e commerciali. ...magari nel divieto di acquistare i titoli di Stato senza corrispettivo, come pure è avvenuto nelle fasi più calde degli attacchi speculativi. Appunto. Abbiamo una costruzione tutta orientata all’accentuazione del rischio. Passerà almeno il principio che spese legate a catastrofi come il terremoto in Emilia vanno stralciate da tutto? Colpisce per la verità che il governo italiano, per voce del suo vertice, affermi di non voler aiutare le imprese colpite. Ce ne sono 3500 che chiuderanno. Spesso si tratta di aziende del biomedicale collegate alle multinazionali e decise a scappare da un Paese in cui non si pensa, di fronte a un terremoto, a un piano di aiuti. Ma qual è l’obiettivo di Monti? Così l’industria nazionale si distrugge, anche la liberalissima Inghilterra adotta misure straordinarie in casi difficili. Comunque non c’è dubbio che se l’Europa non tiene fuori almeno spese per casi simili, vuol dire che siamo in mano a una banda di matti. Di fronte al terremoto di Lisbona, il massone Voltaire ebbe una reazione più umana.

ulteriore centralizzazione della vigilanza bancaria è necessaria – ha detto Draghi – specialmente per i grandi gruppi sistemici, e non necessariamente se hanno carattere transfrontaliero, visto che Bankia ha carattere sistemico ma non transfrontaliero». Senza misure per la crescita, che lascino intravvedere ai cittadini che ”vale la pena” perseguire il rigore tutto questo però rischia di essere inutile.

blica si volterà contro le raccomandazioni europee per la disciplina di bilancio se passerà la convinzione che i sacrifici sono inutili».

Monti lancia anche un avvertimento all’eurocrazia: «Come devoto europeo non ho mai detto che le riforme ce le chiede l’Europa…Dobbiamo accelerare gli sforzi per limitare il contagio e stimolare la crescita in caso contrario, si distruggerebbe il sostegno alla disciplina fiscale». Anche perché l’Italia i suoi compiti a casa li sta svolgendo. Ieri il Senato ha approvato con 231 voti a favore, 33 contrari e 9 astenuti la riforma del mercato del lavoro che ora passerà all’esame della Camera. «L’obiettivo della riforma del lavoro ma anche quello dell’attività di governo è di mandare un messaggio di fiducia ai giovani», definendo la stessa riforma una legge ”di profonda struttura”.

«Le banche non possono sottrarsi a un nuovo regime di sobrietà - dice il governatore Visco - anche loro dovranno tagliare a partire dai consigli di amministrazione troppo affollati e costosi e vigilare sulla gestione

«Ci troviamo nel bel mezzo di un fiume da guadare, con una forte corrente e una nebbia che impedisce di vedere l’altra sponda. Tenuto conto che nel fiume la corrente continuerà sempre ad esserci occorre eliminare la nebbia». Insomma rendendo più strategica la governance si contribuirà a sedare le fibrillazioni degli spread sui titoli di Stato». Nell’idea di Draghi dovrebbe essere

modo più utile». Un problema è emerso con il caso della banca spagnola Bankia che Madrid vorrebbe ricapitalizzare con fondi europei senza chiedere un programma di aiuti della Troika, come invece sono stati costretti a fare Irlanda, Portogallo e Grecia. «Bankia è un altro esempio da cui trarre la lezione che una

È il premier italiano Mario Monti a sottolineare questo concetto da Bruxelles. Esortando la Germania a riflettere sul rischio che venga meno il sostegno alla disciplina di bilancio. «Più passano i mesi, con la società italiana sottoposta a forti sforzi di consolidamento fiscale, più, mese dopo mese, l’opinione pub-


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l’approfondimento

Circola in Europa la bozza di un progetto molto articolato per il superamento del conflitto tra la Merkel e il resto dell’Unione

Gli Angelabond

Sì ai titoli europei, ma solo fino al 60% dei debiti pubblici e con tasse e privatizzazioni di copertura; via libera agli investimenti e ammorbidimento delle riforme del lavoro. In vista del vertice del 28 giugno, la Germania ha pronto un compromesso. Che copia il modello della riunificazione di Enrico Singer n mese per arrivare a un accordo. Un mese fitto di appuntamenti che peseranno sul risultato finale. Le elezioni politiche in Francia (primo turno il 10 giugno, ballottaggio il 17) che dovrebbero dare forza anche in Parlamento al nuovo capo socialista dell’Eliseo, in contemporanea con un altro voto ancora più importante e molto più incerto, quello che deciderà il futuro della Grecia in Europa e nell’euro, domenica 17. Il G20 del 18 e 19 in Messico al quale Barack Obama, François Hollande, Angela Merkel e Mario Monti hanno già dedicato la teleconferenza di mercoledì per trovare una linea comune. Poi il vertice a quattro Merkel-Hollande-Monti-Rajoy che si terrà a Roma il 22 su iniziativa italiana, ultima tappa preparatoria del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno. Il momento della verità si avvicina a grandi passi in un intreccio di segnali che autorizzano a sperare in una conclusione positiva del braccio di ferro che è in atto su come conciliare il rigore con la crescita, ma

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che non sono ancora sufficienti per dire che l’intesa ci sarà. La pressione combinata del fronte esterno, guidato da Francia, Italia e Spagna con l’appoggio degli Usa, e di quello interno con il successo dell’Spd nelle ultime consultazioni regionali, ha già ottenuto, però, un risultato rilevante. Angela Merkel, finora inflessibile frau nein, è finalmente disposta ad accettare un compromesso. Perfino a considerare possibile l’introduzione degli eurobond, purché in forma ridotta e in salsa tedesca come titoli per alimentare quel Debt redemption fund che fu proposto nel novembre del 2011 proprio dalla commissione di cinque saggi costituita dal governo di Berlino e che la Cancelliera ha tenuto in sonno finché ha potuto. Ma che adesso sembra destinato a fare parte dell’accordo. Assieme a un piano in sei punti per il rilancio delle economie più deboli che il settimanale Der Spiegel ha anticipato nel suo ultimo numero. La sensazione, insomma, è che la Germania sia pronta a fare concessioni. A patto di poterle presentare – so-

prattutto ai suoi cittadini che andranno alle urne nell’autunno del 2013 – come l’ennesima affermazione del modello tedesco in Europa. Una concessione di forma che gli altri partner potrebbero accogliere in nome della sostanza.

La struttura del possibile accordo si muove su un doppio binario. Prevede un meccanismo per ridurre la massa del debito pubblico, che è particolarmente pesante in Italia, Spagna e Portogallo, oltre che in Grecia, ricorrendo a un nuovo strumento

Sul summit peseranno le elezioni in Francia e in Grecia

finanziario e non soltanto per effetto di tagli di spesa e altre misure di austerità che inevitabilmente soffocano la ripresa e che, tra l’altro, incidono più sul deficit corrente che sui debiti accumulati nel tempo. E mette in campo misure per favorire la crescita con la creazione di zone a fiscalità agevolata e con ulteriori privatizzazioni. Il primo binario è quello che sbloccherebbe la partita degli eurobond. Secondo quanto sostengono fonti tedesche solitamente bene informate, Angela Merkel avrebbe ormai accolto l’idea di costituire un fondo europeo per la riduzione del debito che eccede il 60 per cento del Pil, rapporto considerato sostenibile dai criteri di Maastricht e dallo stesso fiscal compact. Nel caso dell’Italia, che ha un debito pubblico pari al 120 per cento del Pil, questo sistema consentirebbe di accedere ai nuovi bond del redemption fund esattamente per la metà del totale: come dire per quasi mille miliardi di euro. Il German council of economic experts ha calcolato che, in tutto, verrebbero emessi almeno

2.300 miliardi di questi bond che sarebbero garantiti dalle tasse raccolte a livello nazionale e da asset pubblici dei Paesi assistiti dal fondo per la riduzione del debito. In pratica, la soluzione accettata da Berlino non metterebbe in comune l’intera massa del debito pubblico dei Paesi di Eurolandia – la temuta “collettivizzazione dei debiti”, secondo la formula di Angela Merkel – da finanziare attraverso titoli europei (gli eurobond, appunto), ma limiterebbe l’intervento rendendolo più accettabile per i Paesi virtuosi – Germania in testa – e comunque utile per chi è in difficoltà. Gli Stati sarebbero tenuti a rimborsare questo speciale fondo entro un periodo di 20-25 anni: un arco temporale che dovrebbe consentire a tutti gli Stati di assestarsi sulla soglia del 60 per cento di rapporto debito/Pil.

Le garanzie nazionali non sarebbero totali e incrociate (ogni Paese non garantisce tutto il debito degli altri) perché la solidità del fondo sarebbe assicurata dal trasferimento di una


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quota della riscossione delle tasse a livello nazionale e di asset pubblici. Anche il rischio di favorire quello che la Merkel definisce “azzardo morale” (in sostanza l’allentamento delle politiche di rigore per effetto della condivisione dei debiti) sarebbe contenuto. Il possibile compromesso sulla creazione del redemption fund e dei suoi titoli è ben visto anche dall’opposizione socialdemocratica tedesca che nelle elezioni delle scorse settimane nei Länder del Nordreno-Westfalia e dello Schleswig-Holstein ha lanciato il guanto di sfida alla Cancelliera per il 2013. E l’atteggiamento della principale forza di opposizione ha avuto di sicuro un’influenza sulla svolta della Merkel. L’Spd e i Verdi hanno anche minacciato di non votare il fiscal compact – e quindi di bloccarne l’iter di approvazione in Parlamento che richiede la maggioranza dei due terzi – se non si introdurranno anche misure per la crescita. «Il fiscal compact potrà esistere soltanto se sarà accompagnato da precise misure per la crescita: la situazione in Europa deve essere stabilizzata in modo da evitare che la Germania sia costretta ad importare la disoccupazione dei Paesi confinanti”, ha spiegato il segretario dei socialdemocratici, Sigmar Gabriel. Parole pesanti per la coalizione di governo formata dalla Cdu di Angela Merkel e dai liberali dell’Fdp che vuole far passare il fiscal compact e il meccanismo europeo di stabilità (Esm) prima della pausa estiva, ma ha bisogno dei voti dei socialdemocratici e dei verdi per ottenere la maggioranza qualificata del Bundestag e del Bundesrat. Parole che avrebbero convinto la Cancelliera a modificare la sua strategia e a giocare d’anticipo per togliere argomenti ai tuoi avversari.

Anche la seconda parte del piano che la Merkel sta facendo circolare con sapienti anticipazioni può essere letta in questa chiave. L’obiettivo è salvare i Paesi di Eurolandia in difficoltà adottando ancora una volta il modello tedesco. Quello che ha consentito alla Germania di vincere la scommessa della riunificazione. Il settimanale Der Spiegel ha scritto che il progetto è in sei punti e che ha per fulcro la creazione di zone economiche speciali a fiscalità agevolata per attirare investitori stranieri e favorire la ripresa con regole meno stringenti. Spagna, Italia, Irlanda, Grecia, Portogallo dovrebbero inoltre istituire «fondi speciali per avviare la privatizzazione delle numerose imprese ancora controllate dallo Stato» e potrebbero riformare il mercato del lavoro secondo l’esempio tedesco dell’apprendistato duale che prevede la frequentazione di Berufsschulen (scuole professionali) e, contemporaneamente, l’apprendistato al-

Pressata dalla Spd, dopo la vittoria della governatirce renana Hannelore Kraft, Angela Merkel pare intenzionata a cedere, almeno in parte, sull’introduzione di bond europei. Le linee guida, in Europa, sono due e fanno capo una all’Italia e alla Spagna e una all’ex leader socialdemocratico tedesco Helmuth Schroeder. La prima punta sull’esclusione degli investimenti per la crescita dal fiscal compact, la seconda invece propone una rimodulazione del mercato del lavoro con grande attenzione alla formazione e ricalca il piano che venne attuato in Germania, dopo l’unificazione, per contrastare la disoccupazione a Est

l’interno delle imprese. In questo modo, ha scritto Der Spiegel, «si potrebbero alleggerire le norme sui licenziamenti e aprire la strada a contratti di lavoro gravati da meno tasse e contributi». Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il sole dal momento che il piano in sei punti ricorda molto da vicino l’agenda di riforme proposta per l’Europa dall’allora cancelliere Gerhard Schröder e che riprende molte idee forti messe in pratica dieci anni prima per favorire il recupero del ritardo dell’ex Germania Est nel processo d’integrazione. Dalle aree a statuto speciale alle Treuhandalstalt, le fiduciarie che gestirono il processo di privatizzazione dell’industria statale della Germania comunista. Anche il sistema duale di formazione professionale era inserito nel progetto di Schröder ed è stato uno degli strumenti usati con successo dalla Germania per combattere l’alto tasso di disoccupazione dei primi Anni Duemila, quando il numero dei senza lavoro aveva pericolosamente oltrepassato la soglia dei cinque milioni.

Il piano in sei punti, soprattutto in alcune sue parti, come quella che prevede regole più favorevoli agli investimenti, sembra venire incontro alle esigenze di maggiore flessibilità poste dall’Italia, dalla Spagna, dal Portogallo e, naturalmente, dalla Grecia. Ma come nel caso degli eurobond, che Berlino vuole limitare a titoli del redemption fund, ci sono delle differenze non di poco conto. La proposta di Mario Monti di non considerare nel passivo del bilancio dello Stato gli investimenti produttivi e quella delle zone economiche a fiscalità agevolata della Merkel seguono due logiche diverse. Per la Cancelliera la preoccupazione maggiore rimane quella di evitare che dietro gli strumenti per la crescita si nascondano interventi pubblici e, quindi, nuovi debiti. Non solo. Riproponendo in sede europea i modelli che hanno consentito alla Germania di superare i suoi due peggiori momenti di crisi degli ultimi vent’anni – le difficoltà della riunificazione e la stagnazione economica – Angela Merkel spera di far risalire il suo indice di gradimento nell’opinione pubblica che sta per trasformarsi in corpo elettorale che dovrà giudicare tra poco più di un anno il suo operato. Ma nel compromesso, se compromesso alla fine ci sarà, Berlino deve concedere qualche cosa. In particolare a Parigi, l’altro polo di un asse politico che è in crisi, sì, ma che è quasi condannato a trovare un rapporto di collaborazione perché Germania e Francia restano comunque le due maggiori potenze d’Europa. Ecco, allora, che tra le voci sul possibile accordo al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno a Bruxelles spunta fuori anche

quella che ipotizza il via libera tedesco ai project bond che sono un’altra declinazione degli eurobond in chiave di finanziamento di grandi progetti d’infrastrutture. Circola già anche una lista delle opere che potrebbero essere realizzate grazie a questi titoli europei e accanto a progetti come il gasdotto Nabucco ce ne sono alcuni che riguardano direttamente la Francia, come il completamento del sistema di navigazione tra Marsiglia e Amsterdam via canali fluviali che di sicuro fa piacere a François Hollande.

Ma il piatto forte resta quello della forma che prenderanno i bond europei. Sul tavolo c’è anche la proposta sostenuta dal presidente della Commissione europea, Manuel Barroso. Si tratta degli stability bond (o blue bond dal colore che dovrebbero avere materialmente) che sarebbero sempre limitati a finanziare i debiti pubblici nazionali fino al 60 per cento del Pil, ma senza quelle garanzie di

Tra le «grandi opere» da finanziare si pensa a gasdotti e canali navigabili una quota dalle tasse raccolte a livello nazionale e da asset pubblici dei Paesi assistiti dal redemption fund pretese dai consiglieri economici del governo tedesco. Prima di arrivare al vertice di Bruxelles e di verificare quale sarà il livello del possibile compromesso, però, ci sono da superare gli appuntamenti elettorali in Francia e in Grecia. Non è davvero un caso che Mario Monti abbia organizzato il pre-vertice di Roma per la seconda metà di giugno in modo da attendere il doppio verdetto che uscirà domenica 17 dal ballottaggio delle elezioni per l’Assemblea nazionale francese e dal nuovo voto anticipato dei greci che meno di un mese fa non sono riusciti a esprimere una maggioranza in grado di governare il Paese. I sondaggi fanno prevedere che in Francia il nuovo capo dell’Eliseo riuscirà a conquistare anche Palais Bourbon, la sede del Parlamento, mentre molto più aperta e difficile è la battaglia in Grecia, anche se stanno lentamente aumentando le possibilità di recupero dei partiti che vogliono tenere il Paese nell’euro e nella Ue. Se il verdetto che pronunceranno gli elettori greci sarà diverso, anche la strada per un accordo diventerà più stretta.


società

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I capannoni crollati, gli operai morti e la ”fretta” di tornare subito alla produzione: il dramma del terremoto ci ha ricordato che il lavoro non è solo conflitti, ma anche culla del vivere sociale

Nelle fabbriche ferite di Savino Pezzotta l terremoto, con il suo carico di dolori e di distruzione, è entrato prepotentemente nella nostra vita. Non è una cosa lontana di cui possiamo parlare per sentito dire o perché l’abbiamo letta sui giornali: è lì davanti a noi sullo schermo della tv. È costantemente presente nei messaggi che riceviamo sui nostri cellulari e smartphone, strumenti ormai entrati nella nostra quotidianità che ci aiutano a comunicare, ci portano dentro le notizie che a loro volta entrano in noi. Quando il dolore è cosa reale e non solo immagine e notizia, c’è però il rischio di arrendersi alla virtualità.Ti verrebbe voglia di andare subito là dove il terremoto ha colpito ma poi pensi all’ingorgo che si creerebbe se tutti accorressero e allora ti fermi.

I

Davanti a un cataclisma di questa portata, capisci quanto sia cambiata la percezione del mondo, degli eventi e l’interpretazione dei fatti. Capisci come la nuova cultura riesca a trangugiare tutto. I nostri vecchi vedevano negli avvenimenti molte altre cose. Le catastrofi diventavano occasione per porsi domande che andavano oltre la necessità e interrogavano sul senso della vita comune e sulla precarietà della nostra esistenza.

Questi pensieri mi sono venuti sentendo di nuovo il termine “fabbrica”, da tempo caduto in disuso. I giornali e le televisioni ci hanno mostrato lavoratori e imprenditori intenti a salvare o ricostruire la “fabbrica” e qualcuno ci ha lasciato anche la vita. I morti sono tanti. Ma perché, mi chiedo, questo è accaduto? Ci sono ragioni profonde? Cercare risposte non è facile. Non serve abbandonarsi a riflessioni filosofiche. Occorre guardare ai comportamenti delle persone colpite e rilevare co-

me l’umano reagisce all’imponderabile, alla disgrazia che gli è caduta addosso. Da un lato mi sembra di vedere crescere il senso del limite della potenza umana. Ci si rende conto che la forza vera sta nel legame tra i viventi, il solo che possa ricomporre un principio di convivenza che non aggiunga la distruzione umana a quella naturale. Emergono anche i sedimenti culturali, la forza di un ethos popolare che la “modernità” sembrava aver sepolto sotto la coltre pesante dell’individualismo, degli interessi economici e del consumismo. Siamo di fronte alla dimostrazione che l’individuo non esiste e che, essenzialmente, la persona umana è essere sociale votato alla comunità. Ora l’urgenza è soccorrere e preparasi a ricostruire ciò che è stato distrutto. Allo stesso tempo si deve cercare di preservare e valorizzare le risorse deltraendole dalla l’umano, profondità della sua cultura esistenziale e storica. Il presente può preparare il futuro se mantiene un collegamento profondo

con le sue radici che affondano nel passato.

Mi sono venuti questi pensieri di fronte alle morti degli operai impegnati con gli imprenditori a salvare o ricostruire“la fabbrica”. Per troppo tempo si è sottolineata l’esistenza di un conflitto permanente tra i soggetti del lavoro. È un dato di fatto, ma non si è tenuto conto che un’impresa è anche - oserei dire - un fatto di relazione sociale che non si regge solo sulla dimensione economica del salario e del profitto. C’è qualche cosa in più che la nostra mania di socializzare e politicizzare tutto non ci ha permesso di vedere. Chi ha vissuto l’esperienza di fabbrica non si meraviglia nel vedere - anche a rischio della morte - operai e imprenditori accomunati nello sforzo di salvare quello che è un bene comune. Ultimamente si sono fatte tante ironie sul luogo di lavoro ma dobbiamo ricordare che è un bene comune perché gli uomini per riconoscersi hanno bisogno di stanzialità. La mobilità esiste nel-

la misura in cui si parte e si può ritornare. Questo vale anche per il lavoro. La fabbrica - in particolare quella medio/piccola che si è affermata come fondamentale per il nostro sistema produttivo è un luogo complesso e ricco di relazioni, di tratti comunitari. Chi ha vissuto per anni l’esperienza di fabbrica sa che è un luogo di produzione, di lavoro e che, come tutte le aggregazioni umane, non è aliena al conflitto. Ma è anche un luogo di relazioni sociali e solidali e più piccola è, più la relazione s’impone. È il luogo dove si sperimenta nel concreto la dinamica dell’economia civile, che il modello di organizzazione tayloristica del lavoro (chiara matrice liberista e pertanto generatrice del conflitto sociale) aveva cercato di sopprimere.

La vita di fabbrica è comunque un’esperienza unica. Ha attraversato le fasi dello sfruttamento, del dominio e dell’oppressione, ma alla fine ha fatto emergere


società che per funzionare bene ha bisogno della relazione cooperativa dei soggetti che la compongono. Nel linguaggio comune delle lavoratrici e dei lavoratori, la fabbrica è sempre la“mia”. Con questo non voglio affermare che sia un luogo idilliaco e dimenticare che la condizione del lavoro - e in particolare del lavoratore dipendente - porta con sé una sorta di malheur permanente che nasce da un’oggettiva relazione tra il soggetto lavoratore e i concreti presupposti del suo operare.

Riconoscere questo dato di fatto significa allora adoperarsi per elaborare una «scienza della partecipazione». L’esperienza di fabbrica è, per come io l’ho vissuta, una vera e propria officina antropologica, di formazione sociale e politica. I luoghi della produzione non sono soltanto la sede deputata all’estrazione del plusvalore come sosteneva l’analisi marxista, o delle formidabili macchine attrezzate per produrre merci e profitto. Sono questo e qualche cosa di più che non si spiega solo con le logiche economicistiche e sociologiche di vario tipo. Esigono una visione sociale complessa e articolata, oserei dire di carattere antropologico. Sono i luoghi in cui, davanti a catastrofi come quelle del terremoto, della guerra, delle crisi economiche, ci si stringe insieme, ci si scorda o si accantonano i contrasti per rimettere in sesto o salvaguardare ciò che è stato distrutto. Oggi - quando pare ormai essere divenuta una questione di bon ton intellettuale negare l’esistenza stessa di una condizione operaia - guardare con attenzione a quanto succede nei territori colpiti dal terremoto e alla volontà di far ripartire “la fabbrica” sarà un buon antidoto per uscire dalle tante visioni stereotipate sul mondo del lavoro e per marcare la differenza che passa tra conoscenza e ideologia. Salvare la fabbrica è salvare la

Il crollo dei capannoni, con relativo strascico di morte e disoccupazione, è uno degli elementi più drammatici e simbolici del terremoto che ha annichilito l’Emilia

vita e la possibilità di un futuro. La storia del movimento dei lavoratori e del sindacalismo, quanto è depurata dall’ideologia della lotta di classe, dimostra che il posto del lavoro è, anche quando è attraversato dal conflitto, uno dei luoghi importanti del vivere civile: salvaguardare questi luoghi dalla distruzione del terremoto e dall’interesse meramente economico è un’operazione di grande intelligenza sociale. È da questa cultura profonda, radicata nel cuore e nella mente delle persone, incardinata nei territori, che può nascere una risposta ai problemi dell’oggi. Il lavoro di ricostruzione non potrà solo essere affidato alle tecnicalità necessarie e utili, ma anche e soprattutto alla volontà, alla passione delle persone, alla solidarietà e allo spirito comunitario.Vediamo vite sacrificate e sofferenze che condividiamo ma non possiamo abbandonarci alla compassione. Vogliamo trarne una lezione che valga per il Paese e per la sua ricomposizione.

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Nel pomeriggio, un’altra forte scossa: 4.0 di magnitudo

«Servono quindici anni per salvare il territorio»

Il ministro dell’Ambiente: «Un piano per la sicurezza dei suoli adesso è l’infrastruttura più urgente» di Francesco Lo Dico

ROMA. L’Italia trema ancora con due nuove scosse avvenute poco dopo le 17, per fortuna senza altre conseguenze, La prima è stata registrata nel modenese, dove non si sono registrati nuovi crolli. La seconda, con probabile epicentro ai confini dell’Emilia è stata avvertita nitidamente in tutto il Veneto. Due nuovi episodi di una saga sismica che sembra non avere fine, e che seguono a un’altra nottata di angoscia. A dieci giorni dall’inizio del sisma, la terra aveva tremato già altre settantasette volte. Secondo i rilievi dell’Ingv (Istituto nazionale di Geofisica e vulcanologia), delle scosse registrate dalla mezzanotte alle 5 del mattino la più forte è stata in territorio lombardo alle 4:16, con magnitudo 2.7. Il panico dunque non cessa, e anzi si diffonde. Tanto che a Firenze, intorno alle 9 e 30, una scuola media è stata evacuata dopo che un’insegnante ha affermato di aver avvertito una scossa, che però non è stata registrata dai sismografi. Dopo circa mezz’ora docenti e alunni sono tornati in classe. Per fortuna un falso allarme. Cresce la paura anche a Massa Carrara, dove sono state segnalate crepe sempre più larghe sui pavimenti e sui soffitti della prefettura.

gna che per bocca di Michele Camorati quantifica in 15mila le persone sfollate. A Bologna, le case popolari di uno stabile di via Libia sono state evacuate in seguito alla segnalazione di alcune lesioni delle scale interne. Le undici famiglie coinvolte sono state immediatamente trasferite in altri appartamenti, tranne quattro anziani che hanno trascorso la notte in albergo prima di avere a loro volta altri alloggi in assegnazione. E sempre in tema di anziani, la SpiCgil parla di 100mila over 65, il 13 per cento del totale della popolazione di questa fascia d’età, alle prese con situazioni di disagio o difficoltà provocate dal sisma in Emilia. E ci sono poi casi particolarmente tristi come quello di uno sfollato della tendopoli di San Carlo che ieri ha tentato il suicidio con il gas di scarico della sua auto, e quello di una donna di 38 anni abitante a Finale Emilia che ha perso ieri il bambino che aspettava ed è tuttora in gravi condizioni.Visto il quadro di disagio in costante evoluzione, la Croce Rossa ha potenziato l’assistenza alla popolazione con una tendopoli a Crevalcore (Bologna), un campo di accoglienza a Correggio (Reggio Emilia), due cucine per oltre tremila pasti, 160 addetti e altri mezzi.

La Protezione civile fa sapere che è impossibile prevedere quando finirà il sisma. Cresce la paura: i turisti disdicono le vacanze

La situazione resta comunque tesa, e la Protezione civile ha invitato tutti a restare all’erta con un comunicato che da una parte smentisce le voci di altre pesanti scosse imminenti. E che dall’altra non lascia certo spazio a facili rassicurazioni: «Gran parte del territorio nazionale è caratterizzato da pericolosità sismica e, quindi, non si può escludere che in qualsiasi momento possano verificarsi terremoti anche di forte intensità», ha fatto sapere il Dipartimento nazionale alle prese con l’emergenza. Dire se e quando il terremoto potrà tornare a colpire con durezza è quindi impossibile. E non si può far altro, ha spiegato Corrado Clini, che attuare una strategia a lungo termine. «Ho cominciato a parlare di un piano nazionale per la sicurezza del territorio», ha detto il ministro dell’Ambiente, «non appena mi sono insediato. Un piano che duri quello che deve durare ma almeno 15 anni». Clini ha parlato della messa in sicurezza del territorio nazionale come di «una priorità, una grande infrastruttura per il nostro paese», di cui «l’evento sismico di questi giorni ha richiamato la necessità». Una necessità come mettere in sicurezza le scuole: secondo l’indagine Ecosistema scuola 2011 di Legambiente solo il 10,30 per cento degli edifici itlaiani è stato costruito secondo criteri antisismici. Intanto prendono corpo i primi parziali bilanci del disastro, con la Croce Rossa dell’Emilia Roma-

Cominciano a circolare

intanto le prime proiezioni dei danni economici provocati dal terremoto in un’area che conta su 60mila aziende e rappresenta l’1 per cento del pil nazionale: dovrebbero aggirarsi intorno ai due miliardi di euro. Ma il ministro degli Interni, Annamaria Cancellieri, ha precisato che «la stima dei danni riguarda per ora solo le attività produttive» ed è pertanto «in via di evoluzione». Anche perché ce ne sono altri in arrivo: cominciano ad arrivare le prime disdette da parte di italiani e stranieri non solo nelle zone colpite dal sisma ma in tutta la riviera romagnola e addirittura in località del Veneto e sul lago di Como. L’Enit e la Struttura di missione per il rilancio dell’immagine dell’Italia lanceranno nelle prossime settimane una campagna straordinaria di comunicazione sui mercati esteri per rassicurare coloro che avevano prenotato o che si apprestano a farlo. Anche ieri l’Italia ha mostrato il suo volto bifronte. Se i dipendenti di Emil Banca hanno donato 300 ore di lavoro ai terremotati, e l’Ordine degli architetti di Firenze ha messo a disposizione agli abitanti prestazioni professionali gratuite, a Bologna sono scattate le indagini contro alcuni sciacalli che spacciandosi per operatori della Protezione civile hanno “consigliato” a molti di abbandonare le loro case in fretta e furia.


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forse un segno dei tempi che il concetto di apocalisse - sul quale la tradizione ha meditato i suoi più profondi pensieri - si sia ridotto a sottogenere editoriale, a moda mediatica, in una parola a parodia. Che altro è del resto l’attesa new-age del verificarsi delle profezie maya per il corrente 2012 se non un millenarismo aggiornato alle fisime postmoderne della società dello spettacolo? Eppure meditare seriamente il paradigma apocalittico dovrebbe essere un compito che il pensiero laico e religioso dovrebbe assumersi visto che l’archetipo apocalittico è ormai in vibrazione nella psiche collettiva di questa epoca di svolta.

È

Marco Guzzi, filosofo e saggista, studioso e interprete della grande cultura della crisi europea, ha affrontato il tema dell’apocalisse declinandolo in tre recenti opere dalla cifra diversa, in una gradazione via via più interiore che va dal saggio Dalla fine all’inizio (Paoline, 152 pagine, 13 euro) passando a Dodici parole per ricominciare (Ancora, 127 pagine, 14 euro) per finire con Il cuore a nudo (Paoline, 147 pagine, 13 euro) sul modello del De consolatione di Boezio. Dalla fine all’inizio è una riflessione che entra nel nucleo incandescente dello spirito del tempo, nello zeitgeist apocalittico appunto, sostanziato di cambiamenti profondi e traumatici. Un sommovimento intuito e descritto dal grande pensiero della crisi novecentesco da Heidegger a Renè Girard passando per Jung e per i grandi russi: Soloviev e Dostoevskij; ma che attende ancora d’essere compreso in tutte le sue implicazioni apocalittiche.“Manca ancora una nuova cultura escatologica scrive Guzzi - e cioè semplicemente una nuova cultura occidentale e cristiana che sappia pensare messianicamente i fini della fine, la direzione di questo sfinimento e il ricominciamento con cui esso è strettamente intrecciato”. E del resto ciò che si muove nella cultura contemporanea - ridotta alla propria caricatura fatta di mondanità, passerella, narcisismo, gioco di potere e pettegolezzo - è un pensiero astratto, dialettico, strumentale, spento alla sua luce, in una parola morto. Perché dunque stupirsi che quasi più nessuno - a parte le professoresse che leggono Repubblica - lo prenda più sul serio? Che di fronte alle sue residue pretese pedagogiche, intonate a una profilassi post-ideologica e politicamente corretta del nichilismo, si reagisca opponendole un individualismo selvaggio, un relativismo ideologico e pratico secondo il quale tutto equivale a tutto? Come reazione a questo relativismo nichilista, devastante nelle sue conseguenze sociali e relazionali, la tarda modernità ha elaborato qualcosa di ancora peggiore, un doppelganger ad esso simmetrico: l’ideologia reazionaria del neofondamentalismo. Che con l’alibi di combattere la decadenza la replica rendendola se possibile ancora più micidiale rievocando “poteri sacri, violenza, ignoranza, principi inviolabili e ottenebramento delle coscienze”, come se non fossero bastati i totalitarismi novecenteschi.

il paginone «Dalla fine all’inizio», «Dodici parole per ricominciare» e «Il cuore a nudo»: tre saggi di Marco Guzzi ci spiegano come orientarci nel moderno caos e governare l’èra della globalizzazione

Vademecum per cav

di Riccardo A dimostrazione che il grande inquisitore di Dostoevskij - per cui la sicurezza del vecchio ordine vale di più della verità e della libertà - è vivo e lotta in mezzo a noi. Pronto a materializzarsi quando cresce la paura. Ma è proprio la paura il demone che va esorcizzato, imparando a scorgere e aspettare l’estremo del mattino nell’estremo della sera.“Vedere escatologicamente”come invita a fare Guzzi, oltre la tarda modernità che ha prodotto la dialettica laicismo-fondamentalismo: “Figure estenuate di una forma di umanità che in questa fine si sta liquidando”. E del resto non è l’intero corso del ventesimo secolo - attraverso le sue convulsioni e le sue tragedie - ad aver preparato la grande prova del vuoto che stiamo attraversando? Dove ogni appartenenza di ceto, di cultura, di etnia e nazione sembra saltare in aria obbligando ciascuno - che non voglia consegnarsi alla sclerosi di antiche sopravvivenze o al nulla - a trovare la propria sussistenza e il proprio centro di gravità in un Io più vasto e profondo? Un Io non fondato sul terreno accidentato della psicologia e della storia ma capace di poggia-

re sull’abisso del suo mistero. E certo questo cambiamento, questa metanoia, costa dolore e smarrimento essendo appunto una prova del vuoto su scala planetaria. Ma chi ha il coraggio di lasciare indietro il suo vecchio io e di aprirsi alla trasformazione s’accorge d’avere a disposizione una forza che fa nuove tutte le cose. Non a caso Guzzi parla dell’“emersione sempre più decisa della nuova figura della divino-umanità inseminata dal Cristo nella carne di ognuno

domandarsi in quale forma ci stiamo trasfigurando. Perché il problema della liquidazione delle identità belliche, nazionali, sociali e religiose potrebbe condurre puramente e semplicemente al nichilismo. Al caos dove vige la guerra di tutti contro tutti in mezzo a condizioni che, come avrebbe detto Nietzsche, non valgono nulla. Il bivio che ci si para davanti insomma è tra il nichilismo post-moderno e un ricominiciamento radicale fondato sull’io umano originario liberato da-

Come reazione al relativismo nichilista, devastante nelle sue conseguenze sociali e relazionali, la tarda modernità ha elaborato qualcosa di ancora peggiore e ad esso simmetrico: l’ideologia reazionaria del neofondamentalismo di noi”. Ma attenzione, non si tratta d’una dogmatica enunciazione di fede, di un invito alla regressione devozionalista. “Parliamo di una rivoluzione antropologica che per compiersi richiede la libera personale e consapevole partecipazione degli esseri umani. Uno per uno… ecco perché questo passaggio epocale ci sta sconvolgendo tanto dentro e fuori”. Un sommovimento che si manifesta “tanto con rivoluzioni politiche, crolli di imperi, catastrofi nazionali e guerre mondiali quanto con tracolli psichici, pandemie depressive, nevrosi ossessive, psicopatologie della vita quotidiana e crisi di identità dilaganti”. Se dunque non è il caso di rimpiangere il buon tempo andato d’un ordine in decomposizione è opportuno

gli antichi retaggi e dalle antiche obbedienze tradizionali alle loro rigide gerarchie di status e di valori. Tradizione che se da un lato ha sostenuto gli individui e le masse, conferendo loro un orizzonte di senso e una tenuta codificata, dall’altro ne ha limitato l’autonomia e il pieno processo di individuazione.

Ma si tratta di intendersi circa l’io a cui si riferisce Guzzi. Se fosse l’io psicologico, proteiforme narcisista e artificiale dell’uomo post-moderno che sogna consumi illimitati, successo e un’esistenza cinematografica il dilemma sarebbe risolto. Avrebbe cioè ragione Nietzsche che nella sua furia iconoclasta e disperata sosteneva che l’ultimo uomo, libe-


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In queste pagine: Il filosofo Marco Guzzi; le copertine dei suoi saggi “Dalla fine all’inizio”, “Dodici parole per ricominciare”, “Il cuore a nudo”; il celebre dipinto “L’Urlo” (1895) di Edvard Munch e “I Cavalieri dell’Apocalisse” (1887) rappresentati da Victor Vasnetsov

valcare l’Apocalisse

o Paradisi randosi dalle catene degli antichi vincoli, era riuscito nel compito di liberarsi dall’ultima protezione prima di diventare uno schiavo completo, carcerato senza speranza in una prigione senza muri, in una sottomissione al nulla pienamente e tacitamente accettata, scambiata con la felicità.

No, l’io a cui fa riferimento Guzzi è ontologicamente un’altra cosa, riassumibile in un paradosso audace e provocatorio. Ossia che il nostro vero io è quello degli altri, l’io fondato sulla dignità e la libertà dell’altro. Un io relazionale le cui radici non affondano nel terreno d’un vago umanesimo o nella pur nobile filosofia personalista ma nella realtà palpitante d’una umanità radicale. Per cui l’altro diventa il prossimo, il fratello. Un io incapace nel profondo di odio o di

parodia scimmiesca. Ed è evidente che questa conversione contempli un percorso e un combattimento interiore. Si entra nell’io in relazione attraverso “l’esperienza di una sorta di morte, che diventa la soglia misterica di un processo di nascita rigenerante”. Un’ascesi opposta a quella del costruttivismo eroico della filosofia classica capace di produrre uomini d’eccezione, statue stoiche impassibili alla gioia e al dolore. No, l’ascesi di cui Guzzi ripropone la funzione è quella della tradizione cristiana fondata sulla vicenda storica e cosmica del Cristo. Sulla sua perdurante presenza in questa terra e negli io umani, sul suo essere Logos, parola e sostanza originaria di ogni uomo. È l’esperienza che Marco Guzzi esperisce con i gruppi “Darsi pace”da lui fondati dove la parola torna ad essere meditata alla luce dell’esistenza

Ma chi ha il coraggio di lasciare indietro il suo vecchio “io” e aprirsi alla trasformazione ha con sé una forza che fa nuove tutte le cose: «L’emersione decisa della nuova figura della divino-umanità inseminata dal Cristo nella carne di ognuno di noi» contrapposizione avendo cessato di sentirsi separato con l’io dell’altro. È evidente che si tratti come specifica Guzzi d’un ideale regolativo o meglio del traguardo d’una iniziazione a una nuova vita. Del risultato d’una conversione radicale che rispetto alla quale la recita moralistica o buonista indotta dalla società delle buone maniere è una

Un’esperienza di ascesi e di ricerca che dimostra come il cristianesimo sia un movimento dinamico e in continuo sviluppo capace di fare nuove tutte le cose partendo da un evento che è avvenuto una volta e che continua ad avvenire sempre.“Questo io ci si rivela essenzialmente come un essere che ama e crea: che ama creando e che crea per amore,

come il padre eterno di cui è un’immagine sempre più perfetta”. È dunque chi si abbandona senza resistere alla propria trasfigurazione, “rinunciando ad ogni possesso della propria identità - scrive Guzzi nel capitolo Speranza in Dodici parole per ricominciare che ritroverà la propria verità e la propria vita nel mistero del suo divenire eterno, del suo fluire verso l’agognato compimento”. L’epoca sismica e critica che stiamo attraversando è paragonata da Guzzi al tempo archetipale della pasqua: ebbene il cristiano è l’essere umano più avvantaggiato in questo tempo cruciale di fine del mondo. Dove “la sua speranza non si appanna ma anzi rifulge con luce crescente. È infatti tra il venerdì di passione e la domenica di resurrezione che noi vediamo come l’inaugurazione già qui sulla terra di un’esperienza di vita umana divinizzata avvenga attraversando un punto di massimo abbandono e di rinuncia ad ogni possesso identitario di sé”.

Ecco dunque che l’esperienza mistica dell’estrema rinuncia diventa esplosione di vita nuova, “la dinamo di una creatività inedita e messianica che rigenera ogni ambito della vita aprendola al respiro sanante dell’eterno amore”. Sull’onda di questo movimento di pensiero l’apocalisse in corso assume allora il volto della rivelazione, una rivoluzione a cui aderire senza resistenze con tutto il proprio essere. È Il cuore a nudo di cui infine nel suo ultimo lavoro di meditazione filosofica e poetica parla Guzzi. Un libro coraggioso fino all’estremo di dialoghi personali con il principio operante dello spirito resi pubblici non per narcisismo ma al contrario per un senso di profonda umiltà. Che dona la consapevolezza del fatto che la nostra vita è unica ma al tempo stesso vicenda universale. Per questo il cuore a nudo di Guzzi e i pensieri che ne scaturiscono, le ispirazioni che il filosofo registra come rivelazioni dello spirito sono uno specchio sul quale ognuno può contemplare le proprie paure e miserie come la propria più profonda. Un libro esemplare per chiunque abbia cominciato a capire che occorre diventare “il campo aperto dell’ascolto di una parola più originaria…campo che non è la nostra mente filosofica ma tutta la nostra esistenza incarnata. Ascoltiamo la parola che ci salva e corrispondiamo alla sua chiamata solo se lasciamo che essa ci trasformi”. Una trasformazione che sta già avvenendo e il cui avvenire sarà quella rivoluzione compiuta che è il ritorno all’originaria nostra condizione solare. Di quando “Egli sarà tutto in tutti”.


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grandangolo La congiuntura politica è buona, ma la confusione è ancora troppa

Kurdistan, un sogno che potrebbe diventare realtà

Con le rivoluzioni arabe, i curdi hanno cominciato a recuperare una coscienza nazionale e la speranza di poter conquistare l’indipendenza. Dall’Iran alla Turchia, dalla Siria all’Iraq, le comunità hanno compreso di trovarsi di fronte a un’occasione storica per l’ottenimento dei loro diritti. Che potrebbe non ripetersi... di Khurshid Dalli e rivoluzioni della Primavera araba hanno riportato ai curdi sparsi per il Medioriente la speranza di una nuova epoca che porti con sé la realizzazione delle loro rivendicazioni e dei loro diritti nazionali dopo anni di negazione e discriminazione. Queste rivoluzioni, esplose dalla volontà di sbarazzarsi dei regimi dittatoriali, hanno spianato la strada per una presa di coscienza sulla questione della libertà intesa come questione necessaria alla costruzione di uno stato moderno fondato sui criteri della democrazia e sul riconoscimento dell’altro, dei suoi diritti e della sua dignità. Come conseguenza di un tale clima, la questione della coscienza nazionale curda è entrata in una nuova fase, trasformandosi in perseguimento dei diritti e del riconoscimento della propria identità, a partire dai dati della realtà storica, sociale e culturale, sotto forma di recupero della coscienza nazionale curda dopo che, durante gli anni passati, i regimi autoritari avevano nascosto tutto ciò attraverso slogan ideologici inneggianti all’unità contro ogni divisione.

L

A questo punto, le domande che si pongono da sole sono molte, ad esempio: come vedevano e vedono i curdi la Primavera araba? Che approccio hanno avuto con i movimenti rivoluzionari? Esistono forse, delle visioni comuni tra i curdi riguardo la Primavera? C’è confusione tra la questione della libertà e

dei diritti, e quella del loro destino nazionale? Senza dubbio, questi ed altri interrogativi si impongono con forza negli ambienti curdi dall’inizio dell’ondata di sollevazioni, rivoluzioni e proteste che ha travolto la Tunisia, l’Egitto, la Libia, lo Yemen e la Siria, con la possibilità di estendersi anche ai grandi paesi della regione come Iran e Turchia. In realtà, esiste la convinzione comune tra i curdi che quanto sta succedendo nella regione cambierà la situazione geopolitica ed economica attraverso la creazione di un nuovo ordine dove interessi e ideologie si intersecano; in una tale pro-

I vari leader nazionali non hanno ancora capito se puntare alla creazione di un singolo Stato o alla secessione spettiva i curdi vedono l’occasione storica e decisiva per ottenere il riconoscimento dei propri diritti nazionali e, forse, per fondare uno stato indipendente, dopo che tutto ciò fu loro negato dagli accordi e dagli interessi internazionali

dopo la prima guerra mondiale, diversamente dalla maggior parte degli stati arabi, nati in seguito agli accordi di Sykes-Picot; è per questo dunque che possiamo capire come i curdi abbiano innalzato il livello delle loro richieste come conseguenza della diffusione della Primavera Araba.

I curdi iracheni hanno posto in primo piano il loro diritto all’autodeterminazione e alla creazione di uno stato indipendente mentre i curdi siriani hanno fissato un programma politico che, per la prima volta, fa riferimento a un sistema federale, mostrando però sia le divisioni esistenti per quanto riguarda le alleanze, sia il livello delle varie rivendicazioni. I curdi turchi sono tornati a proporre un’ampia autonomia di governo che strizza l’occhio a un sistema confederale, mentre la situazione dei curdi iraniani rimane poco chiara per diversi motivi come la mancanza di informazioni disponibili sul movimento curdo, risultato del controllo da parte dello stato sui mezzi d’informazione, o altri legati alla debolezza del movimento curdo iraniano rispetto a quelli di Iraq,Turchia e Siria, pur ricordando che i curdi iraniani sono stati i primi ad annunciare la creazione di uno stato indipendente nell’epoca moderna; mi riferisco alla repubblica di Mahabad che fu istituita grazie al sostegno dell’Unione Sovietica nel 1946 e non resistette neanche un anno prima che l’esercito

iraniano riuscisse ad entrare nella sua capitale eliminando il presidente Qazi Muhammad e i più importanti esponenti della dirigenza curda. Nonostante i segnali che ci mostrano come i curdi nel loro insieme non si trovino d’accordo su un programma politico unico, mentre potrebbero invece dividersi fino ad entrare in conflitto sulle varie posizioni e quindi sulle alleanze, possiamo tuttavia sostenere che la Primavera araba ha risvegliato il sogno dei curdi di vedere riconosciuti i propri diritti nazionali, giungendo persino alla creazione di uno stato indipendente, recuperando la coscienza nazionale e traducendola in un movimento politico e popolare il più ampio possibile.

Anche il declino dei regimi dittatoriali e lo sfaldamento di raggruppamenti regionali a favore delle identità locali fino ad ora oppresse ed escluse da questi regimi, ha messo in luce coma la storia, la geografia e la società ricoprano un grande ruolo nella mobilitazione dei popoli e della loro coscienza sull’importanza della questione della libertà, e nella creazione di uno stato civile e democratico lontano dai principali slogan ideologici che hanno mantenuto il controllo sulla scena araba durante gli ultimi decenni. Tutto questo è giunto a vantaggio della coscienza nazionale curda ed ha spazzato via la polvere della storia, degli accordi e di tutto ciò che ha sempre pesato sul popolo curdo. In realtà, oltre ad aver ri-


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Nel Paese i ribelli si spaccano. E Assad libera 500 prigionieri

Ban Ki-moon: «In Siria situazione catastrofica». Ma il mondo non cede di Luisa Arezzo li Sati Uniti non escludono più un’azione in Siria al di fuori del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Con tutti i se e tutti i ma di ordinanza, Susan Rice, ambasciatore Usa presso il Palazzo diVetro, ha avvertito che se il governo siriano non si atterrà al piano Annan, il Consiglio di sicurezza dell’Onu dovrà assumersi le sue responsabilità e aumentare la pressione su Damasco. Ma qualora questo non dovesse fermare la violenza (che significa, qualora Russia e Cina dovessero continuare a porre il proprio veto ad ogni risoluzione), «i membri di questo Consiglio e della comunità internazionale saranno lasciati con l’unica opzione di dover valutare se sono pronti ad assumere azioni al di fuori del piano Annan e dell’autorità del Consiglio». Un chiaro monito a Mosca e Pechino, dunque: se continuerete ad opporvi a un giro di vite contro Damasco, l’Occidente potrebbe fare da solo. La Francia, da parte sua, che solo tre giorni fa aveva ventilato l’ipotesi di un’azione diretta in Siria (possibilità che aveva provocato risposte e rimbrotti da molti Paesi Ue, Germania in testa), alle parole della Rice ha fatto un passo indietro. E per bocca del Quai d’Orsay ha fatto sapere di essere disposta ad «esaminare tutte le opzioni per la soluzione della crisi, ma solo nell’ambito del Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Di fronte a tale stallo, è entrato a gamba tesa Ban Kimoon, segretario generale dell’Onu. Che da Istanbul (dove è in corso una conferenza sulla Somalia, vedi pag. 13) ha messo in guardia tutti sul rischio di una «catastrofica guerra civile», soprattutto se si verificheranno nuove stragi come quella di Houla, dove sono morte 108 persone e in gran parte bambini. «Un altro massacro - ha detto Ki-moon - potrebbe fare sprofondare la Siria in una catastrofica guerra civile dalla quale il paese potrebbe non rialzarsi». Perchè «In Siria - ha affermato - c’è una tirannia che cerca di restare aggrappata al potere, e nel cercare di mantenersi al potere minaccia di esacerbare le tensioni fra i vari popoli siriani, come accadde nell’ex-Jugoslavia 20 anni fa».

G

svegliato il sogno curdo, fino a rendere possibile una sua concretizzazione, la Primavera araba ha messo in mano ai curdi una carta fondamentale da giocare negli attuali conflitti. Infatti, è impossibile nascondere all’osservatore attento la portata della competizione tra Turchia ed Iran sul Kurdistan iracheno, che si colloca in un più ampio contesto di lotta per acquisire maggiore influenza sulla scena irachena e sul Vicino Oriente in generale. I curdi siriani sono rimasti oggetto di competizione tra il regime e l’opposizione, ciascuna parte per i suoi calcoli politici legati al potere; nonostante l’assunto che i curdi possano giovare di questo scontro sulla base della cooperazione con chi meglio riconosce i loro diritti e realizza per loro maggiori conquiste, tale presupposto ha scatenato contemporaneamente la competizione

Il resto del mondo, pensa al massimo di concedergli un riconoscimento etnico in seno ai diversi Paesi. Senza spingersi oltre tra i curdi stessi per chi debba giocare un ruolo centrale nella questione nazionale curda a livello regionale. E se è sicuro che Mas’ud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, aspiri ad un ruolo chiave per Erbil nella soluzione della questione o delle questioni curde nella regione – come è apparso durante la sua ultima visita in Turchia e dall’ospitalità da lui offerta per l’organizzazione di una conferenza dei curdi siriani ad Erbil, prima tappa verso una conferenza nazionale aperta ai curdi di tutto il mondo – d’altra parte il Pkk, che può vantare molti elementi di forza e di radicamento sulla scena curda, si muove come fosse il più adatto ad accollarsi il peso delle responsabilità nazionali curde, o al meno dà prova di poter collocarsi allo stesso livello di Erbil. Nella lotta dei curdi per la conquista dei loro diritti si scorge una certa confusione nel loro discor-

so politico, tra l’aspirazione alla libertà, l’eliminazione dei regimi dittatoriali e la creazione di uno stato democratico da un lato, e la rivendicazione dei diritti nazionali che suggerisce invece la secessione e l’indipendenza dall’altro, come se l’intero movimento attuale fosse un movimento nazionalista e niente più.

Questo è ciò che ha fatto nascere i timori di più parti a proposito delle rivendicazioni nazionali curde, che si tratti dei regimi o delle varie opposizioni, giacché si ha a che fare con un punto di profonda divergenza tra i curdi e le altre componenti etniche principali della regione come arabi, turchi e persiani. I curdi ritengono che non ci può essere una reale libertà senza il riconoscimento dei loro diritti nazionali sullo stesso piano delle “etnie” appena citate, mentre la maggior parte dei paesi e delle potenze nella regione tutt’al più guardano alla questione o alle questioni curde in un contesto democratico che ne sancisca il riconoscimento a livello costituzionale e attraverso un processo politico e di sviluppo, senza spingersi oltre. In realtà a prescindere dall’attuale controversia, la Primavera araba ha risvegliato il sogno curdo nella maniera più eclatante, ed ora questo popolo sembra in qualche modo scommettere politicamente su qualsiasi fattore in grado di cambiare gli equilibri politici e gli assetti regionali: i curdi iracheni si trovano a scommettere di riuscire a convincere Ankara che il suo rapporto con Erbil possa costituire un’alternativa a quello con Baghdad in seguito all’aggravarsi del contrasto tra le due parti; i curdi siriani si trovano a scommettere su qualunque parte, nell’attuale crisi, offrirà loro i maggiori benefici; i curdi turchi dal canto loro si preparano ad una primavera che presto si trasformerà in una bollente estate, come ha detto la parlamentare Sabahat Tuncel; mentre i curdi iraniani pensano che la prossima primavera sarà sicuramente la loro. La verità è che i curdi, ovunque si trovino, hanno cominciato a trovarsi in una condizione di recupero della coscienza nazionale, e della sensazione di avere la capacità di esercitare influenza e indurre un cambiamento. Essi sentono di trovarsi di fronte ad un’occasione storica per l’ottenimento dei loro diritti, che potrebbe non ripetersi. © Al Jazeera

L’Occidente cerca intanto di convincere la Russia ad assumere una posizione più flessibile riguardo alla crisi siriana. Ieri Hillary Clinton, segretario di Stato Usa, è stata risoluta riguardo alle scelte di Mosca: «i russi mi di-

cono che non vogliono una guerra civile. Ma gli ho detto che la loro politica porterà alla guerra civile». Frasi cadute nel vuoto, visto che il Cremlino ha subito ribadito (lo aveva già dichiarato mercoledì) di non avere alcuna intenzione di cambiare politica. E questo proprio alla vigilia della visita di Vladimir Putin a Parigi e Berlino (e ieri la Merkel, in una giravolta politica, ha detto che Putin ha collaborato «in maniera costruttiva» in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla crisi siriana). «La posizione russa è ben nota, equilibrata, coerente e assolutamente logica: affermare che tale posizione cambierà sotto le pressioni di chicchessia non è corretto», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, nella giornata in cui Putin ha riunito il proprio Consiglio di Sicurezza per discutere i dossier che saranno sul piatto dei prossimi incontri, quello siriano in particolare.

Damasco, dal canto suo, dopo la partenza di Kofi Annan, inviato speciale per l’Onu e la Lega araba, ha ordinato il rilascio di 500 detenuti coinvolti nelle manifestazioni anti-governative ma «che non si sono macchiati di reati di sangue». Una goccia nell’oceano, vista la quantità di arresti sommari, ma pur sempre una goccia. E questo mentre nell’opposizione si apriva una spaccatura tra vertici dell’Esercito libero siriano (Esl) all’estero e ranghi che combattono all’interno della Siria: il colonnello Riad al Assaad, formalmente comandante in Turchia dell’Esl, ha smentito il suo ufficiale di riferimento in patria e parigrado Qassem Saad ad Din, che ieri dalla regione di Homs aveva lanciato un ultimatum al regime di Damasco. «Non c’è alcun ultimatum», ha detto Assaad parlando alla tv al Jazeera. «Vogliamo che Kofi Annan dichiari il fallimento del suo piano in modo da poter esser liberi di lanciare operazioni militari contro il regime», ha aggiunto Assaad. La risposta di Saad ad Din, portavoce del Comando congiunto delle brigate dell’Esl che operano in Siria, non si è fatta attendere: «Solo il Comando dell’Esl all’interno della Siria ha il diritto di diffondere comunicati, di prendere decisioni e di parlare di operazioni», ha detto su Facebook. «Da ora in poi le decisioni saranno prese dall’interno».


mondo

pagina 12 • 1 giugno 2012

Sullo sfondo l’incubo dell’esecuzione. Ieri i ribelli hanno ucciso un ostaggio tedesco

Un altro italiano rapito in Nigeria Modesto di Girolamo, 70 anni, è stato catturato nel nord del Paese. La Farnesina attiva l’unità di crisi di Antonio Picasso

italiano rapito ieri in Nigeria si chiama Modesto Di Girolamo. È un ingegnere siciliano, ha 70 anni e lavora per la Borini & Prono costruzioni, compagnia edilizia piemontese impegnata nella realizzazione di infrastrutture stradali nel Paese fin dal 1952. Di Girolamo opera da molti anni in Nigeria dove ha lavorato anche per altre ditte. Filtrando la riservatezza della Farnesina, sembra che il sequestro sia avvenuto lunedì, quando il nostro connazionale si era recato a ispezionare un sistema di drenaggio lungo la Bishop Road, una via di Ilorin, capitale dello Stato Kwara. Finora comunque non si è avuto alcun contatto da parte dei sequestratori. Si torna a parlare quindi di Nigeria, ma anche di sequestri. Negli ultimi mesi, abbiamo assistito a molti casi che si sono conclusi positivamente. Maria Sandra Mariani, la 53enne di Firenze, sequestrata il 2 febbraio 2011 mentre si trovava in viaggio turistico nel Sahara algerino è tornata a casa a metà aprile. Nello stesso periodo, si è concluso altrettanto positivamente il rilascio dei sei marinai italiani della nave Enrico Ievoli, caduta nelle mani dei pirati alla fine dell’anno passato. Il 25 marzo – dopo 11 giorni di pri-

L’

gionia presso i maosti indiani dell’Orissa – è stata la volta di Claudio Colangelo, seguito di qualche settimana dal suo compagno Paolo Bosusco. Tragica invece la fine che ha fatto Franco Lamolinara, anch’egli ingegnere e finito nelle mani di una cellula autonoma del movimento jihadista nigeriano Boko Haram. L’8 marzo Lamolinara e il suo collega britannico Cristopher Mc Manus sono stati uccisi dopo che un

Esteri, in quanto avendo doppia cittadinanza, italiana e sudafricana, viene seguito dalle autorità di Johannesburg. Salvo turisti sprovveduti o spavaldi che vanno dove non devono, la maggior parte dei sequestri prende come bersagli i tecnici occidentali che operano in Paesi dalla bassa soglia di sicurezza. Ingegneri e consulenti di Ong sono tra le figure più a rischio. Le motivazioni sono varie. La prima è ovviamente politica. In un con-

L’8 marzo Francesco Lamolinara e il suo collega britannico Chris McManus sono stati uccisi dopo il fallimento del blitz delle forze speciali inglesi

blitz delle forze speciali britanniche e nigeriane per liberarli era totalmente fallito.

Con il rapimento dell’ingegnere siciliano salgono a quattro gli italiani ostaggi nel mondo. Rossella Urru, cooperante sarda sulla quale più volte si sono inseguite voci infondate di una sua liberazione, è stata sequestrata il 23 ottobre 2011 nel campo profughi Sahawari in cui lavorava da due anni, insieme ai colleghi spagnoli Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons. Giovanni Lo Porto, 38 anni, siciliano e operatore presso una Ong tedesca, è stato rapito in Pakistan il 19 gennaio dal gruppo Tehrik-e-Taliban Pakistan, capeggiato da Hakimullah Mehsud. Infine Bruno Pellizzari, ostaggio dei pirati somali dal 10 ottobre 2010, il quale però non rientra ufficialmente nell’elenco del ministero degli

testo come quello nigeriano, chi decide di far sparire un occidentale è spinto dall’opportunità di facile potere contrattuale che la pratica può presentare. Liberazione dei propri compagni agli arresti nelle carceri federali, riscatto monetario, dialogo con le autorità nigeriane e anche straniere. Queste ultime, che si sentono chiamate in causa perché spinte dall’interesse al rilascio del proprio connazionale, vengono messe implicitamente sotto pressione. Sia dai rapitori, sia dagli attori interni al Paese: impresa di appartenenza del rapito, famiglia dello stesso, stampa. Quindi, anziché stare al gioco del governo di Abuja, recitano affinché il rilascio avvenga in tempi brevi e senza tante spese. Economiche, umane, militari. Questo magari anche a costo di un compromesso tra sequestratori e la stessa Abuja. Il canovaccio è uguale un pò per tutti.

Sopra, Francesco Lamolinara, l’ingegnere italiano ucciso in Nigeria l’8 marzo scorso. A sinistra: due ribelli dei Boko Haram. A destra, Hillary Clinton Che si parli degli indipendentisti del Mend, operativi nel delta del Niger, come i jihadisti del Boko Haram. O persino i guerriglieri di varia tipologia che animano lo scontro Islam-cristianesimo in corso negli Stati federali dell’interno del Paese. Lo si è

detto: è il contesto a offrire l’elevata frequenza di sequestri. La Nigeria pretende di assurgere a potenza regionale dell’Africa subsahariana. Una sorta di competitor, a livello continentale, del Sudafrica.

Viste le disponibilità demografiche, economiche e di risorse naturali, idrocarburi in primis, la si potrebbe anche vedere realizzare il progetto. Ma è forse questo che non vogliono le milizie eversive, indipendentiste e il jihad interni. Mantenere alto il livello di insicurezza significa screditare il presidente Goodluck Johnathan di fronte alla comunità internazionale.Vuol dire confermare che la Nigeria resta un Paese africano a tutti gli effetti. Con i suoi limiti strutturali. Se aggiungiamo poi la drammatica situazione del confinante Mali, la cui crisi ha già sconfinato in Nigeria, concludiamo il quadro pessimistico della regione. Del resto, come può reagire un governo straniero nel momento in cui si trova palesemente sotto scacco? Dipende dal governo straniero. Facciamo il caso. Di ingegneri cinesi in Africa, tanti sono proprio in Nigeria, non si parla mai come vittime di rapimenti. Il che vuol dire: o che i sequestri avvengono, ma noi non lo sappiamo perché la censura di Pechino fa il suo mestiere, oppure che il governo cinese è bravo a stringere accordi sotto banco con Mend, Boko Haram e quant’altro per evitare problemi di sorta.


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Al summit verrà stabilita la convocazione di un’Assemblea costituente

Il futuro della Somalia si gioca a Istanbul Si apre in Turchia un vertice per stabilizzare il Corno d’Africa. Ma è un’impresa impossibile di Giovanni Radini ille e una Somalia. Frase a effetto ma anche dovuta, visto che tra oggi domani è a Istanbul che si tiene la seconda conferenza internazionale sulla Somalia appunto. Mercoledì il presidente somalo, Abdiweli Muhammand Ali, si è incontrato con il premier Recep Tayyp Erdogan, per un vertice bilaterale, che ha confermato l’interesse del governo di Ankara ad accompagnare la stabilizzazione del Corno d’Africa. Poi oggi comincia il summit allargato, che la partecipazione dei rappresentanti di 57 governi – per l’Italia il ministro Terzi – ma soprattutto dei tanti soggetti che, in questi ultimi due decenni, hanno preso parte alla disgregazione dello Stato fallito per eccellenza. Somalia infatti vuol dire disastro politico, di sicurezza e ancor più umanitario. Non è chiaro se il primo responsabile sia l’Onu oppure l’Occidente con gli Usa in testa. Tuttavia, il summit di Istanbul innesca una lunga serie di perplessità. Partiamo da un presupposto. Durante la conferenza di Londra di fine febbraio, è stato indicato il mese di agosto come termine conclusivo della transizione. Dopo di allora, il Governo di transizione nazionale dovrà convocare un’Assemblea costituente «che sia rappresentativa delle opinioni della popolazione di tutte le regioni del Paese e in cui le donne abbiamo un ruolo nel processo politico». Ed è proprio a Istanbul che si dovrebbe arrivare alla definizione dei dettagli per la convocazione dell’Assemblea Costituente. A leggere gli atti dell’incontro di tre mesi fa, sembra che Mogadiscio sia instradata verso la pacificazione del Paese e la ripresa del controllo da parte di un’autorità unitaria nazionale. Non è proprio così.

M

Chi fa del bene cooperazione, porta lavoro, costruisce – è un occidentale e resta quindi un nemico. È questa l’intimidazione lanciata alla comunità del Kwara Tornando al caso italiano, Eni, Agip e tante compagnie di costruzione sono le più bersagliate. Stiamo parlando di imprese danarose, che i sequestratori presumono disposte a versare un riscatto pur di avere indietro il proprio dipendente. Per forza di cose, i tecnici occidentali devono andare sul territorio a coordinare i lavori. Una volta che l’ingegner Di Girolamo della situazione viene rapito, questi si interrompono bruscamente. A farne le spese è una filiera di vittime collaterali. La famiglia, la Borini & Prono, il ministero degli Esteri, ma anche i dipendenti locali della compagnia di costruzione. «Voi non lavorate per l’uomo bianco». È questa l’intimidazione lanciata alla comunità del Kwara. Stesso dicasi per una come la Urru. Chi fa del bene – cooperazione, porta lavoro, costruisce – è un occidentale e resta quindi un nemico. Senza distinguo tra indipendentisti del Niger o jihadisti del nord. O peggio ancora criminali comuni interessati solo al riscatto.

mate: retaggio della lunga guerra civile. Signori della guerra e capi tribali soprattutto. A questi si sono poi affiancati gli shabab – in arabo significa semplicemente giovani. Vale a dire la succursale in loco di al-Qaeda. Contro di essi gli Stati Uniti hanno minacciato di imporre sanzioni all’intero Paese se lo status di insicurezza dovesse proseguire. In merito, gli shabab non hanno battuto ciglio. Non ha avuto successo invece la richiesta di Abdiweli, per cui il Pentagono sarebbe dovuto intervenire con un proprio raid. Operativamente, la missione sarebbe un gioco da ragazzi. La base franco-Usa di Gibuti è a poche centinaia di chilometri dall’obiettivo. Un intervento diretto degli Stati Uniti, tuttavia, avrebbe i suoi risvolti politici non certo produttivi. I governi vicini, Arabia Saudita oltre il mar Rosso e Sudan a nord – sono solo due esempi – avrebbero certamente da obiettare sul fatto che Obama si mette a sparare anche in Africa.

D’altra parte, non è un segreto che Washington stia portando avanti da anni una guerra per procura, tramite l’Unione africana, ma soprattutto l’Etiopia. Anche questo è uno spreco di ricorse però. Visto lo sterile risultato raggiunto. A questo punto, non restano che Turchia e Qatar: nuovi ma influenti attori internazionali che da qualche tempo si sono affacciati sul versante somalo. La prima ha scaricato nel Corno una ben organizzata macchina umanitaria. La Red Crescent di Ankara ha una visione globale. La seconda si sente forte del suo biglietto da visita mediatico. Al-Jazeera resta – anche se impropriamente – il faro della comunicazione nel mondo islamico. Sarà presente anche il segretario dell’organizzazione degli stati islamici (Oci) Ekmeleddin Ihsanoglu (nato al Cairo, ma turco fino al midollo). Ci sarà ovviamente anche l’Europa. Con Gran Bretagna e Italia in testa. Entrambi i Paesi vantano retaggi coloniali e una presenza di immigrati. Questo permette loro di prendere la parola con maggiore cognitio causae rispetto ai nostri partner continentali. Il problema però non è alzare la mano. Ma cosa dire della Somalia.

Non è certo un segreto che da anni Washington porti avanti una guerra per procura tramite l’Unione africana

Non fosse altro che per l’indipendenza dichiarata unilateralmente da Puntland e Somaliland, i quali già tra loro si stanno contendendo alcuni territori di confine. Non fosse altro per la presenza massiccia di un fenomeno di pirateria di fronte alle coste del Paese. L’esecutivo al momento può dire di avere solo il controllo della capitale. Almeno quella. Visto che per anni è rimasto al sicuro a Nairobi. Molte delle regioni extraurbane sono invece nelle mani di bande ar-

e di cronach

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pagina 14 • 1 giugno 2012

Sarà la Nona di Beethoven, diretta dal “maestro scaligero” Daniel Barenboim, a dare il benvenuto al Pontefice

Benedetta Milano

Oggi l’arrivo del Papa nel capoluogo lombardo per il VII Incontro mondiale delle Famiglie di Vincenzo Faccioli Pintozzi

MILANO. Sarà la Nona di Beethoven, diretta dal “maestro scaligero” Daniel Barenboim, a dare il benvenuto a Benedetto XVI nella sua visita pastorale alla diocesi di Milano e al VII Incontro mondiale delle Famiglie. Una delle sinfonie più famose della storia della musica, nella suggestiva cornice della Scala meneghina, farà dunque

da colonna sonora alla prima giornata del pontefice fuori dal Vaticano. Il programma di oggi, per il Papa, ovviamente non si conclude con il concerto: prima di arrivare al teatro, infatti, Benedetto XVI incontrerà la cittadinanza in piazza del Duomo. In attesa poi di accoglierne sabato l’abbraccio con la Festa delle Famiglie e le cresime dei giovani. Grande attesa per il suo discorso, che dovrebbe lasciare per un attimo da parte i veleni dei corvi vaticani e sottolineare invece l’importanza della famiglia nel contesto cattolico.

D’altra parte, in un periodo storico in cui se non si appare non si è, l’Incontro mondiale delle Famiglie in corso a Milano porta all’attenzione del mondo - e di un’Italia sempre più secolarizzata e sempre meno capace di cogliere la dimensione spirituale dell’uomo - proprio l’esempio delle fa-

miglie cattoliche e il loro apporto alla società. Un apporto che risponde con la semplice testimonianza e con la presenza viva agli scandali e ai problemi che affliggono la Curia vaticana. Questa testimonianza, unita all’importanza economica del settore familiare, rappresenta il succo degli incontri che si sono susseguiti ieri a FieraMilano City: dal cardinal Tettamanzi al presidente della Cei, cardinal Bagnasco, passando per un gran numero di relatori si è voluto sottolineare l’apporto “familiare” al consesso civile di ogni Stato. Nella lectio divina con cui ha aperto la seconda giornata dell’Incontro, l’arcivescovo di Genova ha posto un primo appunto: «Siamo sollecitati ad impegnarci con serietà ma senza dimenticare che esistono dei limiti che nessuna fatica può superare, obiettivi che sono fuori della portata umana. Perdere il senso del limite ha portato il mondo su strade sbagliate e dannose: il progresso, la libertà, la competizione, il consumo… Se sono senza misura, prima o dopo si ritorcono contro l’uomo. In quel “non si può allungare la vita”, di cui parla il Vangelo, è riassunta la saggezza e l’intelligenza delle cose». Un monito che va contestualizzato: il cardinal Bagnasco non intende dire che i fattori presentati siano in sé dannosi, ma piuttosto che l’arroganza dell’uomo - del “consumatore”propriamente detto - portino questi fattori oltre la misura entro la quale possono essere contenuti. Questo monito viene condiviso dall’altro porporato intervenuto all’Incontro. In conferenza stampa, l’arcivescovo emerito di Milano card. Dionigi Tettamanzi ha detto ai giornalisti: «Devo confessare un peccato: non ho indicato il titolo della mia relazione. Il titolo suona “Famiglia e lavoro oggi in una prospettiva di fede”, ma la concretezza con cui ho parlato oggi ho cercato di illuminarla alla luce della parola di Dio. Il lavoro va bene ma non deve distogliere l’uomo dal respiro divino che lo anima». Per spiegare il concetto, il presule ha aggiun-

Durante la visita, Ratzinger incontrerà la cittadinanza in piazza del Duomo. In attesa di accoglierne sabato l’abbraccio con la Festa delle Famiglie e poi le cresime dei giovani to: «Il lavoro è sotto lo sguardo di tutto noi, ma è sotto lo sguardo di Colui che ha creato l’uomo e la donna. Questo sguardo aiuta tutti a essere attenti alle difficoltà, ma nel segno di una grande speranza per il futuro. I traguardi positivi che siamo sollecitati a raggiungere sono sotto l’aiuto di Dio. Ed è per questo che ho voluto affrontare nella parte finale della mia relazione Cristo nella sua vita di Nazareth, ovvero il figlio di un falegname. Colui che ha lavorato con mani di uomo». Il concetto, espresso due giorni fa in maniera magistrale dal cardinal Ravasi, sembra il leitmotiv dell’impegno nel sociale della Chiesa: Cristo come maestro, Cristo ovviamente figlio di Dio ma anche lavoratore.

«La mia impressione - ha continuato Tettamanzi - è che Milano in questi giorni sia divenuta un incrocio fra la mondialità e la quotidianità. La mondialità è data dalla presenza di persone di tutto il mondo in

questo Incontro, una spinta a ritrovare la spinta che ci unisce. Penso che questo Incontro sia un vero e proprio miracolo, la spinta a essere in tanti e nello stesso tempo una persona sola al cospetto di Dio uno e trino». Ma il cardinale non si ferma qui e lancia una sorta di “rivoluzione” nella considerazione della “dimensione familiare del lavoro umano”. Nella società contemporanea, ha detto, «non è abituale mettere a tema il rapporto tra la famiglia e il lavoro, mentre è diffusa la considerazione del rapporto tra la persona soltanto e il suo lavoro, in seguito alla cultura post-moderna con il suo accento sull’individuo, sulla persona spogliata delle sue relazioni, come se non esistessero o fossero realtà irrilevante. L’esperienza però ci dice che tutti noi siamo frutto di molteplici relazioni, da quella che ci ha generato a quelle che ci hanno fatto crescere».

Da questo vengono molte conseguenze importanti: il valore della gratuità anche nel lavoro, perché «non è affatto vero che siano il massimo profitto e la massima utilità economica a muovere l’agire dell’uomo: la vera e più esplosiva motivazione è la carità, con l’energia che ha di suscitare e sostenere relazioni nuove, fraterne appunto, in ogni famiglia, in ogni impresa e nell’intera grande famiglia umana!»; l’umanità non è finalizzata al lavoro, ma al Sabato [nel senso del riposo, ndr]... Il tempo del lavoro, infatti, «inevi-


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1 giugno 2012 • pagina 15

Parla il presidente del movimento “Rinnovamento nello Spirito Santo”

«Ritorno a Nazareth, dove tutto ebbe inizio»

Salvatore Martinez: «Vi racconto il Centro internazionale per le famiglie che sorgerà nella città di Gesù»

Un’immagine di Benedetto XVI. A sinistra, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. A destra, il presidente di Rinnovamento nello Spirito, Salvatore Martinez tabilmente differenzia e divide; quando invece si riposa e si fa festa, le stesse disuguaglianze sociali appaiono attenuate: si familiarizza, si condivide, si comunica»; infine, la denuncia più forte, «poiché è importante la persona che lavora, si rischia «un’ingiustizia scandalosa quando si paga poco il lavoro manuale e vi sono retribuzioni «fuori misura» per altri lavori che movimentano “enormi capitali”. Forse che il tempo, le forze fisiche e psichiche, si chiede il porporato, «le responsabilità dell’ultimo lavoratore valgono di meno del tempo, delle forze e delle responsabilità di un alto dirigente di finanza o di industria o di governo o

di partito o di sport?». Andrea Olivero, presidente nazionale delle Acli - le Associazioni cattoliche dei lavoratori italiani - sottolinea: «Per quanto riguarda il tema famiglia e impresa, la riflessione relativa alla rilettura della Dottrina sociale della Chiesa e in particolare la lettura della sfida lanciata con la Caritas in Veritate credo che illumini questa tematica e dia un orientamento molto forte. La famiglia non è più in questa prospettiva un oggetto di politiche e di attenzione richiesta dai cittadini allo Stato, ma diventa grande soggetto economico e propulsore, in grando non soltanto di andare a modificare alcuni degli assetti economici e sociali - pensiamo alle imprese familiari, parte rilevante dell’economia non solo italiana - ma in qualche misura anche la potenzialità di andare a ri-umanizzare l’economia, a “civilizzarla”. Da questo punto di vista, la famiglia oggi deve essere considerata un’importantissima fonte di senso: il senso della gratuità che può davvero trasformare la società dall’interno. Davanti alla crisi economica che ci sgomenta, nella famiglia vediamo la salvezza dalla situazione critica in cui ci troviamo».

Le realtà presenti oggi a Milano sembrano testimoniare questa speranza. E la grande attesa è che Benedetto XVI, nella sua visita al capoluogo lombardo, dia il proprio avallo a questa rivoluzione.

MILANO. Quando parla, Salvatore Martinez dimostra di credere in quello che dice. Un dono raro e una caratteristica che lo rendono simpatico a chi lo ascolta. Anche quando tratteggia con le parole la creazione e l’operato di un Centro internazionale per le famiglie che sorgerà a Nazareth e che aspira a divenire «non soltanto un punto di sostegno per i nuclei familiari locali, ma anche un centro di pace». Martinez guida il movimento del Rinnovamento nello Spirito Santo, una delle realtà cattoliche più vivaci degli ultimi tempi. Lo scorso sabato, in Vaticano, Benedetto XVI lo ha ricevuto insieme agli aderenti al movimento e ha detto loro: «La vostra opera apostolica ha contribuito alla crescita della vita spirituale nel tessuto ecclesiale e sociale italiano, mediante cammini di conversione che hanno condotto molte persone ad essere risanate in profondità dall’amore di Dio, e molte famiglie a superare momenti di crisi. Non sono mancati nei vostri gruppi giovani che hanno generosamente risposto alla vocazione di speciale consacrazione a Dio nel sacerdozio o nella vita consacrata. Di tutto questo rendo grazie a voi e al Signore!». Sempre a loro, il Papa ha

ne, per evitare che lo schiacciamento porti alla rimozione della famiglia». Lo stato dell’arte del progetto è alle sue prime fasi: «Entro un paio di anni, se le cose vanno nel migliore dei modi, il Centro potrà vedere la luce. Noi abbiamo una dotazione economica, ma siamo nel pieno della raccolta fondi, da privati e da aziende, che vogliano sostenerci». Un conto dedicato presso l’Istituto opere religiose raccoglie questi fondi, destinati al Centro e ai primi programmi di sostegno per le famiglie locali. La visione del Centro nasce diversi anni fa: come ricorda Martinez, «è stato Giovanni Paolo II che nel 1997 immagina questo Centro durante il II Incontro mondiale delle Famiglie di Rio de Janeiro». In occasione del viaggio pastorale in Terra Santa, Benedetto XVI torna sul progetto: «Qui nella città di Gesù, Maria e Giuseppe… come segno promettente per il futuro, benedirò la prima pietra di un Centro internazionale per la Famiglia, che sarà costruito a Nazareth. Preghiamo affinché esso promuova una forte vita familiare in questa regione, offra sostegno ed assistenza alle famiglie ovunque, e le incoraggi nella loro insostituibile missione nella società». Il Centro Internazionale per la famiglia sorgerà sulla sommità della collina che domina la città di Nazareth e la Basilica dell’Annunciazione. In una posizione di particolare bellezza paesaggistica, il Centro si affaccerà su un panorama che spazia dal Monte del Precipizio al Monte Tabor, fino al Monte Carmelo. Promosso dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, sarà affidato a una Fondazione di diritto Pontificio gestita dal Movimento ecclesiale Rinnovamento nello Spirito Santo, che provvederà all’accoglienza dei pellegrini e dei visitatori e all’animazione spirituale delle attività previste.

La fede si addice prima ai cuori, poi alle intelligenze. Questo è un tempo che non ha bisogno di analisi, ma di passione per la vita

voluto ricordare che «la casa costruita sulla roccia non crolla», riferendosi agli scandali che attraversano il Vaticano. Parlando con liberal durante il VII Incontro mondiale delle Famiglie in corso a Milano, Martinez spiega che lo scopo del Centro in costruzione «è duplice. Da una parte c’è un aspetto spirituale e dall’altra ce ne è uno sociale. Dal punto di vista spirituale io credo fermamente che si possa salvare la famiglia ripartendo da Nazareth, ovvero da dove tutto è cominciato. Ricordando una cosa: mentre la percentuale dei cristiani a Gerusalemme e in Israele non supera l’1,5%, a Nazareth essi sono il 40% della popolazione. Nella Nazareth storica, non quella che è stata costruita negli ultimi anni dagli ebrei, una roccaforte della famiglia può rappresentare il rilancio del cristianesimo». C’è poi un aspetto sociale: «La desacralizzazione della famiglia è comune alle tre religioni monoteiste, e forse quella più desacralizzata è proprio la famiglia cristiana. Ma anche ebrei e musulmani soffrono questo modernismo, che attraverso un’etica non ispirata dalla religione e dai suoi valori attraversa questo fenomeno». C’è poi un problema di esodo per le famiglie cristiane: «Non hanno casa, non hanno lavoro, non hanno prospettive: sono schiacciate dal confronto fra arabi musulmani ed ebrei. Diventa quindi molto importante riposizionarsi, in questa situazio-

In conclusione, Martinez traccia un profilo di questo incontro di Milano: «La speranza è quella di rivivere anche qui in Italia lo stesso prodigio di Maria e Giuseppe, che si aprirono alla volontà di Dio credendo nell’impossibile. La fede si addice prima ai cuori e poi alle intelligenze, e questo è un tempo che ha bisogno non di giudizi o analisi, di cui siamo pieni. Ci vuole invece un supplemento di passione per la vita, un supplemento di comunione fra tutti noi. Questa sfida ha il grande valore di farci ritrovare l’unione: bisogna rimettere al primo punto la famiglia, che non è il problema ma la soluzione. È la famiglia che salverà lo Stato e la nostra società, se la mettiamo nelle condizioni di esprimere la sua pro(v.f.p.) pria soggettività».


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