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he di cronac

Un vincente trova sempre una strada, un perdente trova sempre una scusa

Lao Tzu

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 3 FEBBRAIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il raìs sfida Usa e Europa e annuncia di voler restare in carica fino alla fine

Mubarak: «Morirò in Egitto» Ancora scontri e vittime: cammelli e cavalli contro la folla di Pierre Chiartano

Parla l’esperto di affari arabi, Karim Mezran

opo i tanti no affermati dal Faraone Hosni Mubarak, martedì in televisione, è arrivato ieri anche il colpo di coda: i primi violenti scontri di piazza tra filogovernativi e il popolo della protesta al Cairo, Ismailia e Suez. L’ex direttore dell’Aiea e leader dell’opposizione in Egitto, Mohamed ElBaradei, ha dichiarato di essere preoccupato per gli scontri in piazza Tahrir e ha accusato il governo di usare «tattiche minatorie» contro i manifestanti. Dopo la pacifica manifestazione di massa di martedì, a Tahrir e nella zona adiacente sono scoppiati ieri dei violentissimi scontri: il bilancio delle vittime è ancora incerto. a pagina 10

«Ormai è troppo tardi, lo scontro è inevitabile»

D

di Martha Nunziata In Egitto «ci sono solo due strade percorribili: una prevede la negoziazione fra l’opposizione, cioè El Baradei e i Fratelli Musulmani, e il regime, sia esso rappresentato da Mubarak o da Omar Suleiman, dai militari, dalle forze di sicurezza, o dall’élite vicina al presidente. L’altra strada possibile, invece, è l’implosione dell’Egitto». L’opinione di Karim Mezran. a pagina 11

Oggi la Commissione bicamerale vota il decreto sulla fiscalità municipale: l’esecutivo “spera” in un pareggio

Il federalismo delle tasse

Aumentano le imposte locali. E l’Istat: le famiglie non reggono più Pressing su Baldassarri che incontra il premier: Calderoli, pur di ottenere il sì, tratta a oltranza con tutti. Ma i dati ufficiali parlano chiaro, altri balzelli sono insostenibili: tutti i redditi sono in calo record TRATTATIVE E POLEMICHE

Il Cavaliere raccoglie l’appello di Napolitano

Le incognite di una riforma senza numeri

Ora Berlusconi gioca a fare il buono: «Basta scontri»

di Gianfranco Polillo

di Marco Palombi per le inserzioni? Se aveste dato un’occhiata anche alla prima pagina avreste visto cosa dice il presidente della Repubblica». Gianni Letta, se è lecito dire una cosa del genere del felpato sottosegretario, era fuori dalla grazia di dio martedì pomeriggio, quando ha visto il comunicato stampa del Pdl che annunciava una mobilitazione contro i giudici: per questo s’è attaccato al telefono e ha fatto un educato cazziatone al portavoce del partito Daniele Capezzone. Giorgio Napolitano, d’altronde, era stato molto chiaro parlando col direttore del quotidiano romano: «Ho avuto nei giorni scorsi fondati motivi per esprimere allarme di fronte al moltiplicarsi ed acuirsi di conflitti che travalicano l’ambito politico ed investono le istituzioni». Nel giorno in cui si espone il capo dello Stato, era il ragionamento di Letta, noi annunciamo moti di piazza contro la magistratura? segue a pagina 2 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

l federalismo, municipale o regionale che sia, non è ancora nato e già fa discutere. Si discute se l’Imu – l’imposta che sostituirà la vecchia Ici sulle seconde case – sia o meno una nuova imposta patrimoniale, seppure camuffata, come sostiene Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, secondo il quale le vittime sacrificali saranno artigiani e commercianti. Tesi peraltro non condivisa da altri esponenti del suo partito, visto le dichiarazioni in senso contrario di Simonetta Rubinato della Commissione bilancio della Camera, che ha scritto alla direzione nazionale: attenti a non apparire come i difensori dello status quo – ha detto – il Nord non ce lo perdonerebbe. a pagina 5

I

ROMA. «Ma voi Il Messaggero lo leggete solo

Parla Nicola Rossi

«Il governo dei paroliberisti» «Per Berlusconi, Tremonti e Bossi bastano le parole per risolvere i problemi. Quanto alla legge voluta dalla Lega: è vero, porterà nuovi balzelli». I conti italiani visti dall’economista, da ieri ex senatore ed ex Pd

I QUADERNI)

Franco Insardà • pagina 4 • ANNO XVI •

NUMERO

23 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 3 febbraio 2011

prima pagina

il fatto Oggi la «bicameralina» vota sulla fiscalità municipale: in gioco c’è molto più che la riforma voluta dalla Lega

L’enigma federalista

Calderoli porta Baldassarri dal premier per cercare di ottenere il sì della commissione. Il nodo è l’aumento delle tasse locali il retroscena

di Francesco Pacifico

ROMA. «Sul federalismo ho pre-

sentato un piano organico. E se volete il mio sì non basterà certamente l’approvazione di due emendamenti...». Il concetto, Mario Baldassarri, l’ha ripetuto prima in mattinata a Silvio Berlusconi e a Roberto Calderoli, quindi ai colleghi del Pd e del Terzo Polo preoccupati che si rompesse il fronte nella Bicameralina che oggi – oltre a decidere del destino del nuovo fisco municopale – potrebbe dire la parola definitiva sull’esistenza del governo. Se non del berlusconismo.

La giornata di ieri è stata molto complessa. E non soltanto perché il titolare della Semplificazione ha presentato la quinta bozza dell’ultimo decreto sul federalismo fiscale. Tanto che la centrista Linda Lanzillotta ha dipinto il ministro leghista come «un juke box che ormai vaneggia sull’Iva senza calcolare l’impatto sul sistema tributario. È un inaccettabile segno di improvvisazione». Ma al centro di tutto c’è sempre il finiano Baldassarri: è su di lui ieri che si sono concentrate le pressioni della maggioranza per evitare un pareggio tra favorevoli e contrari in commissione che gioco forza apparirebbe con un bocciatura. Il che potrebbe da un lato costringere l’esecutivo a presentare un nuovo decreto, dall’altro aprire quel vaso di Pandora che sono i malumori leghisti verso un alleato (Berlusconi) non in grado di garantire né la governabilità né l’approvazione del federalismo. Accompagnato dall’ex An Andrea Augello, Baldassarri è stato convocato ieri mattina a Palazzo Grazioli da Berlusconi. Qui il premier e il ministro Calderoli gli hanno promesso di accettare sia la sua proposta di agganciare l’addizionale comunale all’Iva e non più all’Irpef sia quella di istituire un fondo di detrazione a favore degli inquilini, per riequilibrare una cedolare secca che invece premia soltanto i proprietari. A quanto se ne sa, avrebbe preso tempo l’economista cresciuto alla scuola di Modigliani e spesso in contrasto con Tremonti: e avrebbe spiegato di voler attendere l’esito del voto sugli emendamenti e il parere dei colleghi del Terzo Polo, prima di annunciare il suo voto. Gli alleati, però, hanno fatto sapere che restano fermi sul loro no.

Il premier risponde a Napolitano che chiedeva: «Basta contrapposizioni»

Berlusconi fa il buono: «Da ora, basta conflitti» di Marco Palombi segue dalla prima Per lo stesso motivo un altro saggio consigliere berlusconiano s’è affrettato a diffondere la sua opinione: «Un comunicato politicamente criminale – ha fatto sapere Giuliano Ferrara, anticipando un suo editoriale pubblicato ieri - ha rischiato di dirottare nel grottesco l’iniziativa politica del presidente del Consiglio di un piano nazionale per la crescita». Insomma, la strategia dei “buoni” è chiara: le faccende giudiziarie si risolvono in tribunale - e magari in Parlamento, ma senza esagerare – adesso, tanto per provare una cosa nuova, perché non cominciare a parlare di politica? Per questo ci si affanna intorno alla battaglia contro la patrimoniale (voluta, peraltro, solo da una minoranza della minoranza del Pd), per questo si rispolvera il piano per il Sud, l’inutile riforma dell’articolo 41 della Costituzione, per questo si fa risuonare la grancassa attorno al mostro a tre teste del federalismo fiscale.

ca, quelli che riguardano i cittadini e l’interesse generale». Il presidente della Repubblica, dal canto suo, è venuto incontro al Cavaliere denunciando lo «spazio abnorme» che «i tg dedicano alla cronaca nera e giudiziaria» a danno, ad esempio, dei fatti internazionali e rammaricandosi per il fatto che è «ormai quasi impossibile nella sfera della politica sentire giudizi misurati». Non proprio una difesa del premier per il caso Ruby, ma insomma, anche un invito al buon senso può tornare utile ad un governo periclitante.

Due sono però gli scogli contro cui rischia di andare a sbattere la linea dell’appeasement istituzionale propagandata dal duo Ferrara-Letta: uno è la realtà dei pochi numeri parlamentari, dei nulli fondi a disposizioni, dello scontro di personalità e ambizioni in atto nella maggioranza (ancora ieri Maroni spiegava: «Non so quanto durerà questo governo»), l’altro è lo stesso premier. Il Cavaliere, da quando Ruby gli è esplosa in faccia, procede a caso, incapace di darsi una linea, di imporsi strategia o tattica, accidente che confligge (con esiti ancora sconosciuti) con l’ontologia politica berlusconiana: «l’eversione delle classi dirigenti» l’avrebbe chiamata Gramsci. Non c’è bisogno di intercettazioni per questo, bastano le pubbliche telefonate in tv, i suoi discorsi a braccio e persino i comunicati stampa. In prima fila, oggi, stanno gli arnesi del colto Novecento politico Letta e Ferrara, dietro il premier, confuso e arrabbiato, nelle stalle per ora sotto chiave - i lanzichenecchi a cavallo che vogliono morire pugnando con Sansone, i filistei e chiunque altro si presenti sotto mano. È solo questione di tempo, di rinvii a giudizio, di multe per Mediaset, di irritazioni da anziano malmostoso, perché il padrone decida di dare libero sfogo ai soldatini con le torce.

C’è la mano di Gianni Letta dietro la (momentanea) riappacificazione con il Quirinale

In attesa del mondo meraviglioso che verrà con le riforme, ci si attrezza a procedere alla maniera del manzoniano Conte zio: «Sopire, troncare. Troncare, sopire». Per questo ieri il presidente del Consiglio ha provveduto a diffondere una nota di tono assai poco berlusconiano: «Il Governo condivide pienamente l’appello del Capo dello Stato a interrompere “una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma”». Un appello a «tutte le forze parlamentari e politiche responsabili», che però «non toglie nulla alla libertà e alla serietà del conflitto politico, ma restituisce al paese la capacità, offuscata da comportamenti extra o anti istituzionali e da qualche errore di tutte le parti in causa (inedita autocritica, ndr), di tornare ai contenuti più impegnativi della politi-

«Il giudizio sul decreto», fa sapere Linda Lanzillotta, «rimane assolutamente negativa. Calderoli sta facendo di tutto per ottenere il voto delle opposizioni, ma finisce soltanto per fare la figura del dottor Stranamore dei tributi. Emblematico al riguardo che il fondo per gli inquilini venga istituito senza un euro, perché Tremonti non gli concede un centesimo. Almeno, nella prima stesura, c’erano 400 milioni per questo capitolo». In serata, in un vertice a San Macuto, Pd, Terzo Polo e Idv hanno deciso di approvare l’emendamento della maggioranza sull’Iva, ma confermando nel complesso un voto negativo. Lo stesso Baldassarri ha spiegato che «il singolo paletto, se non c’è tutta l’impalcatura, non sta in piedi». Eppure il giallo resta, perché il senatore di Fli ieri si è mosso come un navigato giocatore di poker: quando è arrivato in votazione il primo emendamento della giornata – firmato dal pd Walter Vitali e comprensivo della tax service che non piace al professore – il finiano si è astenuto, facendolo decadere. Ma sulla successiva proposta ha votato con le altre opposizioni. A Baldassarri, da sempre critico verso Tremonti e l’appiattimento del Pdl verso la Lega, piacerebbe passare alla storia come quello che è riuscito a modificare un federalismo che, «rischia di aumentare le tasse e le tariffe».

È per questo che ha presentato con i colleghi Gian Luca Galletti (Udc) e Lanzillotta (Api) una progetto organico di emendamenti che, tra aggancio all’Iva dell’addizionale e quoziente familiare per aiutare i nuclei più numerosi, arriva perfino a rimodulare la tassa di soggiorno sulle camere affittate e non sui singoli vacanzieri. A ben guardare l’offerta di Calderoli si nota uno iato rispetto alle richieste dell’economista finiano. Sull’addizionale del 2 per cento il ministro parla di compartecipazione all’Iva anzichè all’Irpef come fonte di finanziamento, ma non può concedere una ripartizione del tributo su base comunale, ma soltanto comunale. Per quanto riguarda il fondo ad hoc in favore degli inquilini non viene quantificata la sua dotazione, lasciando questo compito alla Legge di Stabilità. Un po’ uno scambio al buio tanto che Baldassarri ha mandato a dire: «Se in quel fondo non c’è almeno un mi-


la statistica Record nel 2009: la nostra ricchezza è calata del 2,7%

L’allarme dell’Istat: «Famiglie mai così giù» Per la prima volta da più di 15 anni diminuiscono i guadagni. Al Nord la situazione diventa grave di Alessandro D’Amato

Roberto Calderoli ieri è stato protagonista di trattative a oltranza sul federalismo. Nella pagina a fianco, Gianni Letta. A destra, il presidente di Rete Impresa Italia, Giorgio Guerrini

liardo, io voto contro». Ma l’esecutivo spera anche nelle divisioni del Pd: sia gli esponenti del Nord sia l’Anci di Sergio Chiamparino fanno pressioni per un sì. Il timore è che un no potrebbe diventare un boomerang mediatico, con il Carroccio che avrebbe gioco facile a bollare il centrosinistra come centralista. Non ha di questi problemi Nichi Vendola, che ha parlato del federalismo come di «un osso di seppia che si trova sulla spiaggia quando c’è bassa marea e che annuncia un ciclone che sta per travolgere la Lega». La quale, a livello elettorale, può «cantare vittoria per l’approvazione del federalismo o brandire l’affronto del no. Ma che in realtà si trova di fronte a un mostro». L’incertezza del Pd, che ufficialmente annuncia una bocciatura, la si legge nelle dichiarazioni del relatore di minoranza Massimo Barbolini: «Sull’Iva è positiva la proposta. Del resto l’avevamo avanzata noi. Ma non basta». Oggi, verso l’ora di pranzo, si si

vota sul decreto. E sono in molti a scommettere su un 15 a 15. Il presidente della commissione Enrico La Loggia ha annunciato che «anche nel caso ci sia parità, la legge prevede che il governo possa comunque varare il decreto sul federalismo». Non è esclusa anche una mozione alla Camera per rafforzare l’intesa stretta con l’Anci. Di diversa idea è Linda Lanzillotta, secondo la quale il mancato parere «costringerebbe il governo a tornare al decreto originario sul federalismo municipale approvato in consiglio dei ministri». Vuol dire un anno di lavoro perso. In questo scenario si aspetta di capire come si muoverà Tremonti: ieri Berlusconi l’ha convocato a Palazzo Grazioli per discutere dei provvedimenti economici attesi domani in consiglio dei ministri. Ma pare che il Cavaliere abbia dovuto anche fare ammenda dopo che un articolo del Corriere annuncia la volontà del premier di licenziare il suo ingombrante ministro dell’Economia.

ROMA. Entrate in calo, con sorpresa. Nel 2009 il reddito delle famiglie è sceso del 2,7%: lo dice l’Istat, registrando che si tratta della prima flessione dal 1995. L’ultima rilevazione, quella del 2006, quindi prima della crisi finanziaria, aveva registrato un aumento del 3,5%. Ma i dati riservano alcune sorprese. La prima è che risultano più penalizzate le regioni industrializzate, dove evidentemente hanno pesato molto la perdita dei posti di lavoro e la Cassa Integrazione da un lato, e la battuta d’arresto della distribuzione degli utili da parte delle imprese dall’altro. Mentre il Sud e il Centro hanno tenuto di più, probabilmente per l’apporto dei redditi da lavoro fanno capo alla Pubblica Amministrazione e che non hanno subito contraccolpi significativi. Infatti il decremento del reddito disponibile delle famiglie italiane è stata del 4,1% nel Nord-Ovest, del 3,4% nel Nord-Est, dell’1,8% al Centro e dell’1,2% nel Mezzogiorno. Nel periodo 2006-2009 il reddito disponibile delle famiglie italiane si è concentrato, in media, per circa il 53% nelle regioni del Nord, per il 26% circa nel Mezzogiorno e per il restante 21% nel Centro. Nel periodo considerato la distribuzione ha mostrato alcune variazioni che hanno interessato principalmente il Nord-ovest, che ha visto diminuire la sua quota di 0,6 punti percentuali (dal 31,1 del 2006 al 30,5% nel 2009) a favore di Centro e Mezzogiorno (+0,4 e +0,2 punti percentuali rispettivamente).

Piemonte e della Lombardia, e pertanto il primato del livello maggiore di reddito disponibile pro capite è passato dal NordOvest al Nord-Est grazie a Bolzano, che ha scavalcato l’Emilia Romagna.Tra le Regioni del Centro la situazione migliore è quella della Toscana. Per riassumere, l’andamento del 2009, così diverso da quello degli anni precedenti, non ha comunque modificato i fondamentali sulla distribuzione del reddito in Italia: al Nord-Ovest va imputato il 30,5% del reddito nazionale (era il 31,1% nel 2006), la quota del Nord-Est è rimasta invariata al 22%, al Mezzogiorno va il 26% e il restante 21% al Centro. Sicilia, Calabria, Puglia e Campania rimangono le Regioni italiane con il più basso reddito disponibile per abitante, (da 12.400 a 13.200 euro annui), Emilia Romagna, Valle d’Aosta e provincia di Bolzano sono quelle con il reddito più alto, da 20.300 a 21.500).

E proprio oggi Unicredit e Rete Imprese Italia hanno siglato un accordo con l’obiettivo di supportare le piccole e medie imprese nella fase di rilancio dell’economia. All’iniziativa hanno partecipato, tra gli altri, il direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro, e il presidente di Confartigianato e Rete Imprese Italia, Giorgio Guerrini. Il nuovo progetto si basa su 5 punti: 1) ripresa del ciclo economico attraverso una serie di prodotti designati specificatamente per accompagnare le aziende nella fase di ripresa del ciclo produttivo; 2) competitività e innovazione; 3) formazione, per cui, in stretta collaborazione con Rete Imprese Italia, saranno organizzati percorsi destinati a giovani e neolaureati; 4) internazionalizzazione; 5) rete di impresa: il fenomeno dell’aggregazione delle pmi può rappresentare una chance importante per uscire dalla crisi e Unicredit vuole sostenere questo fenomeno. «L’assiduità degli interventi si è dimostrata la ricetta vincente nel rapporto di collaborazione tra Unicredit e le piccole imprese», ha commentato il presidente di Rete Imprese Italia, Giorgio Guerrini: «Il nuovo accordo Ripresa Italia si pone nel segno della continuità di attenzione alle esigenze creditizie degli artigiani e delle pmi e può offrire loro un importante sostegno in una fase in cui, nonostante forti criticità, si intravedono i primi segnali di ripresa degli investimenti e degli ordini». Da parte sua, Unicredit rivendica che «nel 2010 ha supportato l’economia con oltre 10 miliardi di euro di nuovi finanziamenti a quasi 200 mila piccole aziende», come ha concluso il direttore generale Roberto Nicastro.

Unicredit e Rete Imprese Italia hanno siglato un accordo per aiutare le piccole e medie imprese nella fase di rilancio della produzione

La crisi ha modificato la distribuzione del reddito tra le Regioni. Calabria e Sicilia sono le uniche due regioni italiane in cui il reddito disponibile delle famiglie ha mostrato tassi di crescita lievemente positivi; in tali regioni, peraltro, anche la dinamica del Pil è stata migliore che altrove. Le regioni meridionali hanno anche beneficiato di una tenuta degli interessi netti ricevuti dalle famiglie, spiegata in parte dalla minore propensione delle famiglie meridionali agli investimenti rischiosi. Se infatti in passato le famiglie meridionali avevano guadagnato meno, perché affidavano i propri risparmi magari ai depositi postali, o ad altre forme d’impiego poco remunerative, questa caratteristica nel 2009 è diventata vincente: nelle altre Regioni le perdite sono state maggiori, a causa della diminuzione degli interessi attivi dovuti alla crisi. Persino la maggiore difficoltà delle famiglie meridionali ad accedere ai finanziamenti bancari nell’anno peggiore della crisi ha giocato a loro favore: non hanno sofferto l’aumento degli spread sugli interessi passivi. Le performance peggiori sono state quelle del


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l’approfondimento

Giudizio sospeso sulle liberalizzazioni, le misure per il Mezzogiorno e la ridefinizione del piano Casa all’esame del prossimo Consiglio dei ministri

I paroliberisti

«Per Berlusconi, Tremonti e Bossi bastano le parole per risolvere i problemi. Anche il federalismo era una buona occasione, invece così porterà solo nuove tasse». I conti italiani visti da Nicola Rossi, da ieri ex senatore ed ex Pd di Franco Insardà

ROMA. «Il federalismo, quello vero, può rappresentare un cambio di passo. E per me il federalismo vero significa autentica responsabilità degli enti locali». Il senatore dimissionario del Pd Nicola Rossi, economista ed ex capo del Dipartimento economia di Palazzo Chigi durante il governo D’Alema, conferma la sua idea sulla riforma in discussione. Ma aggiunge che con questo federalismo «è evidente che esiste il rischio che possano aumentare le tasse e nulla al momento attuale esclude che questo possa accadere».

Sul ruolo dei comuni e, quindi, sulle misure che interessano il federalismo municipale Rossi aggiunge: «Penso che i comuni vadano ricondotti ai loro compiti specifici. Questo può significare i molti casi ridurre le loro attività, ma non ha senso, come accade oggi per esempio, che siano organizzatori di eventi, invece di realizzare le fogne assistere chi ne ha bisogno. Insomma dovrebbero

svolgere le attività proprie di un comune. Per organizzare eventi ci si può rivolgere anche ad altri». Sulle polemiche legate alla cosiddetta patrimoniale patrimoniale a danno di commercianti e artigiani rimanda alla posizione espressa dalla segreteria del Pd aggiungendo: «Ho la netta sensazione che la maniera con cui il provvedimento sul federalismo comunale è stato preparato limiti molto, se non annulli quasi la potestà autonoma di imposizione dei comuni». Ritenendo, comunque, che il provvedimento sul federalismo municipale è ormai caricato di significato politico e la maggioranza «è intenzionata a portare comunque il provvedimento in aula».

Maggioranza che ha in agenda un corposo pacchetto di liberalizzazioni, una serie di misure per il Sud e la ridefinizione del piano Casa sulle quali il giudizio di Nicola Rossi è sospeso: «È difficile esprimersi senza aver visto nello specifico le misure. Vorrei ricordare che

non più tardi di qualche settimana fa in Parlamento c’era un provvedimento sulla riforma della professione forense che era un inno alla rendita e alle corporazioni che andava in direzione completamente opposta a quella delle liberalizzazioni. Se la maggioranza nel frattempo ha cambiato idea siamo tutti lieti».

Per quanto riguarda la richiesta di accelerazione da parte del ministro Brunetta della riforma fiscale dice: «Ho la

«Bisogna cambiare i meccanismi di spesa per il Sud»

massima stima per il ministro Brunetta, ma ci sono una serie di questioni tra le quali la riforma fiscale, delle quali ho sentito parlare tante volte, che sarebbe opportuno discuterne con il provvedimento davanti». Boccia, invece, la proposta di patrimoniale per ridurre il debito lanciata da Giuliano Amato: «Ritengo sia inopportuno questo tipo di dibattito e infondate le motivazioni che sono state addotte, perché si basa sull’assunto che lo Stato non dà più i servizi essenziali, quando,

invece, direttamente o indirettamente il prodotto interno passa almeno per la metà per l’ambito statale. Credo che ci sia molto più spazio per la riduzione di spesa e per la privatizzazione del patrimonio».

Riferendosi, poi, alle misure che il governo intende adottare per il Mezzogiorno e su eventuali rischi che possa trattarsi di fondi a pioggia l’economista pugliese è chiaro: «Ormai considero completamente superata l’epoca degli incentivi e penso che la strada da percorrere vada nella direzione che tutte le risorse abbiano la forma della riduzione d’imposta». Quello delle risorse per il Mezzogiorno è un argomento sul quale Rossi ci tiene a chiarire che«da quarant’anni a questa parte, e soprattutto nell’ultimo decennio, sono state sbagliate le politiche. Ma certamente la colpa non è del Sud. Oggi, per fortuna, alcuni provvedimenti che si vorrebbero adottare costituiscono l’inizio di ripensamento delle follie degli ultimi


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In attesa del voto di oggi, il testo continua a cambiare in cerca di convergenze

Tutte le incognite di una riforma che è ancora «senza numeri» Imposte che aumentano e altre che cambiano nome: la battaglia sul federalismo finirà per incidere soprattutto sui costi per i cittadini di Gianfranco Polillo l federalismo, municipale o regionale che sia, non è ancora nato e già fa discutere. Si discute se l’Imu – l’imposta che sostituirà la vecchia Ici sulle seconde case – sia o meno una nuova imposta patrimoniale, seppure camuffata, come sostiene Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, secondo il quale le vittime sacrificali saranno artigiani e commercianti. Tesi peraltro non condivisa da altri esponenti del suo partito, visto le dichiarazioni in senso contrario di Simonetta Rubinato, membro della Commissione bilancio della Camera. Presa carta e penna non ha esitato a scrivere alla direzione nazionale: attenti a non apparire come i difensori dello status quo – ha detto – il Nord non ce lo perdonerebbe. C’è poi chi vorrebbe estendere il balzello alla stessa prima casa per pareggiare l’eccesso di generosità rispetto alla cedolare secca sugli affitti, i cui costi sarebbero ben maggiori di quelli stimati dalla Ragioneria dello Stato. Insomma una grande confusione, che riguarda sia gli aspetti di dettaglio che alcuni elementi cardine del provvedimento. Da parte del Pd, ad esempio, sono stati sollevati dubbi sulla cosiddetta aliquota di equilibrio: quella che dovrebbe consentire di sostituire l’irpef sui redditi fondiari relativi agli immobili non locati, l’addizionale Irpef a livello locale e l’Ici. Per realizzare un gettito pari al vecchio prelievo, che la Ragioneria stima in 11,570 miliardi, la norma prevede un’aliquota pari allo 0,76 per cento del nuovo imponibile. Per alcuni esponenti del Pd, l’asticella dovrebbe essere invece alzata allo 0,82 per cento.

I

Sulla querelle, gli Uffici della Camera dei deputati non si sono pronunciati. Dal punto del vista del metodo, le stime della Ragioneria generale dello Stato sembrano attendibili, ma chi può dirlo con sicurezza? Ed ecco allora la rispo-

sta: l’«analiticità, non corredata, nella relazione tecnica, di dati aggregati riguardanti le singole fasi del procedimento, non rende agevole una verifica tecnica della quantificazione stessa. Si sottolinea, in proposito, che lo stesso disposto normativo (articolo 4, comma 5) prevede la possibilità di modificare l’aliquota inizialmente fissata dal decreto, nel rispetto dei saldi di finanza pubblica ed a seguito di ulteriori analisi». Che è come dire chi vivrà, vedrà.

Il precedente dell’algoritmo matematico per definire in che modo ripartire le risorse Del resto un margine d’incertezza è inevitabile. Se il clima complessivo del Paese fosse più sereno, si potrebbero prevedere, fin da ora, correttivi più potenti. Ma non è questo il momento. Anzi esso esaspera il confronto politico e tende a far prevalere logiche di schieramento su ogni altra cosa. Questo è forse l’aspetto più preoccupante. I numeri in Commissione indicano una quasi certa parità. Il che rende drammatica la rincorsa all’ultimo voto che potrebbe essere scongiurata da un possibile rinvio della decisione, come pure ventilato. Per questo si sta adoperando il presidente Enrico La Loggia. Nel frattempo piovono le richieste di emendamento che alla fine rischiano di essere inglobate nel testo, facendo tracimare i costi e alimentando la rincorsa affannosa verso le possibili forme di copertura. Questo è stato il caso dell’emendamento presentato dai sindaci e accolto dal ministro Calderoli: l’istituzione di un fondo perequativo per garantire a tutti i Comuni d’Italia di poter continuare a fornire i livelli essenziali dei

servizi. Il Fondo dovrebbe scattare dal 2014 ed essere finanziato da una compartecipazione dei Comuni – pari al 30 per cento – delle imposte dovute a seguito della vendita degli immobili. Altro tema in discussione è quello della compartecipazione: dovrà essere sull’Irpef o sull’Iva, come reclamano gli esponenti del Terzo Polo? Si vedrà oggi in Commissione. In una fase così convulsa ogni valutazione oggettiva, circa la reale portata finanziaria del provvedimento, incontra serie difficoltà. Si va avanti a sensazioni, più che per convinzione. Ed è allora che – seppur a malincuore – è necessario ricorrere a quel rozzo strumento. Non sarà facile rispettare le previsioni iniziali dell’invarianza dei saldi di finanza pubblica. Ballano troppe cose e il clima politico complessivo, motivato dall’importanza della posta in gioco che riguarda il perdurare della legislatura, non consente di andare troppo per il sottile. Se dovessimo scommettere, punteremmo su un onere maggiore, con le conseguenze che ne deriverebbero.

Ci conforta, in questo, l’esperienza passata. Quando Piero Giarda, allora sottosegretario al Tesoro, varò il primo provvedimento sul “federalismo fiscale” – eravamo alla fine dello scorso millennio – elaborò un complesso algoritmo matematico per definire in che modo ripartire le risorse disponibili. La proposta fu accolta senza battere ciglio anche perché era difficile discutere, in Parlamento, un’equazione che richiedeva conoscenze algebriche di livello superiore. L’anno successivo, il Governo varò il Dpcm che, sulla scorta di quelle premesse, distribuiva effettivamente le risorse. E fu subito guerra. Ci si accorse, con il senno del poi, che alcune regioni avevano diritto a risorse maggiori – una soprattutto: l’Emilia Romagna – e che altre – la Lombardia - erano penalizzate. Ma soprattutto che il Mezzogiorno finiva nel tritacarne. La conseguenza fu semplice: l’abbandono del provvedimento. Oggi, per fortuna, il livello di sofisticazione e di maturità politica è maggiore. Vale tuttavia il vecchio proverbio: la coda del diavolo si annida nei particolari. Quelle cifre, appunto, che ancora ballano.

quindici anni. Va sicuramente sottoscritta l’idea di concentrare i fondi su poche iniziative. Si tratta di segnali che fanno intuire che, probabilmente, si è capito quanto danno è stato fatto al Sud, ma anche in questo caso bisognerà vedere all’atto pratico che cosa effettivamente si si riuscirà a realizzare». Bisogna comunque tener presente, secondo Rossi che «i problemi del Sud sono legati certamente alle risorse, ma soltanto in secondo momento. Bisogna cambiare prima di tutto i meccanismi di fondo della spesa pubblica, altrimenti aggiungendo delle risorse non si risolvono problemi. Tutte le volte che una questione si affronta tenendo presente soltanto le risorse non si va molto lontano». E sulle responsabilità della classe politica meridionale aggiunge: «Le responsabilità sono innegabili, ma bisogna riconoscere che è stata educata a pensare che le risorse siano l’unico problema».

Ieri, intanto, ha esaminato la richiesta di dimissioni del senatore Nicola Rossi che è stata respinta con 194 voti contrari, 62 a favore e 8 astenuti. Dimissioni esposte in un’intervista al Sole 24Ore: «C’è certamente molta stanchezza per la politica. Quindici anni fa, quando ho deciso di dedicarmi alla politica attiva, non pensavo che la mia occupazione quotidiana sarebbe stata, da un lato seguire le vicende personale del premier, dall’altro vedere il mio partito che non riesce a dar un’identità. Avevo in mente di darmi da fare per cose concrete e questo non accade. Mi sembra questa una fase in cui forse non c’e’ bisogno delle mie competenze». Sia i gruppi di maggioranza che di opposizione, nelle loro dichiarazioni di voto, hanno ribadito la stima per l’economista e ne hanno sottolineato le qualità e il contributo offerto. Il vicepresidente dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, ha dichiarato il voto contrario aggiungendo: «Abbiamo imparato ad apprezzare l’indipendenza di spirito e la capacità critica pur in presenza di un comportamento che è sempre stato disciplinato e che ha sempre tenuto nel debito conto le indicazioni della parte della quale il collega Rossi ha fatto riferimento». Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd, ha auspicato che il voto contrario di Palazzo Madama possa convincere Rossi a fare un passo indietro sulle dimissioni perché «il Parlamento sarebbe per tantissimi motivi più povero senza la sua presenza». Sull’argomento Nicola Rossi a liberal aggiunge solo: «Quello che dovevo dire l’ho detto in Aula. Ho ringraziato tutti per la stima che mi è stata dimostrata. Il Senato mi ha fatto sapere la sua opinione ora deciderò sul da farsi».


diario

pagina 6 • 3 febbraio 2011

Fabbrica di fuochi esplode nel Sannio

Scende ancora il rating dell’Irlanda

BENEVENTO. Tragedia del lavoro nel Sannio. Ruggiero De Blasio di 32 anni è morto nell’esplosione di una fabbrica di fuochi pirotecnici, la Piroflash di San Giovanni di Ceppaloni in provincia di Benevento, di cui era il titolare. I vigili del fuoco hanno rinvenuto i resti del corpo addirittura a 700 metri di distanza dallo stabile distrutto. Secondo una prima ricostruzione l’uomo era andato come ogni giorno ad aprire la sua attività quando, probabilmente a causa di un problema tecnico, la fabbrica, che era in regola con licenze e autorizzazioni, è saltata in aria. La vittima era parente di Sandra Lonardo Mastella, per l’esattezza figlio di un cugino anche lui morto tragicamente in un incidente analogo.

DUBLINO. Standard & Poor’s taglia il rating dell’Irlanda di un gradino ad «A-» da «A», confermando il creditwatch negativo. A pesare sulla valutazione dell’agenzia, le preoccupazioni sullo stato di salute del sistema bancario. Mentre l’agenzia di rating internazionale Fitch ribadisce il rating emesso sull’Irlanda, che è «BBB+» con outlook «stabile», e che rappresenta il giudizio più basso tra i paesi europei. «Il taglio rispecchia la revisione del settore bancario irlandese», spiega S&P, sottolineando che «gli istituti dipendono direttamente dalla Bce». Il creditwatch (la valutazione per il futuro) resta negativo perché «ci sono ancora incertezze sulla cifra che Dublino necessita per sostenere le banche», conclude S&P.

Cassazione, Tanzi torni in carcere ROMA. Tanzi deve tornare in carcere. Ne è convinto il sostituto procuratore generale della Cassazione Vito Monetti che, ai giudici della quinta Sezione penale, ha chiesto il rigetto del ricorso presentato dai legali dell’ex patron della Parmalat. In pratica la Procura della Cassazione, chiedendo l’arresto di Tanzi, è convinta che ci sia il pericolo di fuga così come aveva sostenuto il Tribunale della libertà di Milano il 27 settembre del 2010 che aveva appunto chiesto l’arresto di Tanzi. Nel maggio scorso, era stato condannato dalla Corte d’Appello di Milano a 10 anni di reclusione per aggiotaggio e ostacolo all’attività di vigilanza oltre a 100 milioni di euro da rifondere ai risparmiatori truffati nella vicenda Parmalat.

Il presidente a Bergamo per i centocinquant’anni dell’Unità e il leader Fli a Roma rilanciano l’impegno per la ricerca

I giovani «ri-costituenti»

Il Colle e Fini d’accordo: «Il Paese riparta dalle nuove generazioni» di Riccardo Paradisi ontinua la strategia di distensione del presidente Napolitano. Dopo gli inviti dei giorni scorsi ad abbassare i toni, il disappunto fatto trapelare per lo scontro istituzionale in atto e per le frizioni tra presidenza della Camera e del Senato, dopo che da un mese l’inquilino del Colle si appella alla responsabilità di tutti per non dar mostra d’un paese lacerato senza pudore proprio nell’anniversario della sua unità, eccolo esternare senza più indugi e schermi sull’identico tema da Bergamo, dove si trova in visita ufficiale per le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia. «Per poter percorrere il cammino delle riforme – ammonisce il presidente – si deve uscire da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma». Anche perché a pagarne le conseguenze è il Paese e sono i giovani italiani. Sulla condizione dei quali, dopo il discorso di Capodanno, Napolitano è tornato anche a Bergamo, con parole di incoraggiamento e questo mentre a Roma si svolgeva un convegno bipartisan su una legge per favorire il controesodo dei giovani talenti italiani costretti a emigrare all’estero.

«Serve un’idea di Nazione vitale e moderna, una Nazione non richiusa nella paura, nella nostalgia e nel minimalismo bensì aperta, intraprendente e fiduciosa»: è con queste parole che Gianfranco Fini ha cominciato a descrivere la sua idea di futuro per l’Italia introducendo la lectio magistralis del Nobel per l’Economia Edmund Phelps

C

Un intervento molto forte con avvertimenti a 360 gradi: «Per portare avanti riforme che sono all’ordine del giorno e mi rivolgo a quanti sollecitano decisioni annunciate in nome del federalismo e ormai giunte a buon punto -, per portare avanti l’attuazione di quel nuovo Titolo V della Costituzione, che fu condotto dieci anni fa all’approvazione del Parlamento e del Corpo elettorale da una maggioranza di centrosinistra ed è stato avviato a concrete applicazioni da una maggioranza di centrodestra, è stato decisivo ed è decisivo tuttora un clima di corretto e costruttivo confronto in sede istituzionale». Il presidente della Repubblica ha ricordato anche come il suo ruolo istituzionale non sia quello di

«intervenire e interferire nella dialettica fra le forze politiche e sociali, ma piuttosto il fondamentale dovere di rappresentare l’unità nazionale che si esprime nel complesso delle articolazioni delle istituzioni». L’unità della Nazione e dello Stato – dice Napolitano – «hanno più che mai senso proprio in un mondo globalizzato e frammentato, nel quale un’Italia divisa o una macro regione italiana sarebbe solo un irrilevante frammento». Di fronte ai tanti tricolori che lo hanno accolto a Bergamo Napolitano si appella a che «tutti si riconoscano nel tricolore senza che nessuno rinunci alle sue idee e convinzioni». Rivolgendosi poi ai giovani presenti al Teatro Donizetti - dove tiene il discorso ufficiale - Napolitano li esorta a creare nella vita pubblica ”lo stesso spirito che ha consentito di dare alla luce la Costituzione repubblicana”: «Dovete impe-

gnarvi per dare il vostro contributo per ricreare il clima positivo di allora, nell’interesse vostro e dell’Italia, in un mondo sempre più competitivo».

Il presidente spende poi parole positive per il ruolo svolto dalle Province malgrado nel dibattito pubblico torni ad affacciarsi ciclicamente l’ipotesi della loro abolizione. «Nel nostro Paese si va a ondate, ma non sono avviate ipotesi di riforma del Paese al di sotto del livello regionale. Credo che le province siano, soprattutto in alcune parti del Paese, entità reali in cui i cittadini si riconoscono. Fra le forze politiche e con le forze sociali c’è qui un clima più sereno che nella capitale e questo è un bene. In queste istituzioni si affrontano le differenze e i contrasti con uno sforzo dialettico unitario». Parole, che incontrano naturalmente l’apprezzamento del presidente

dell’Upi (Unione delle province italiane) Giuseppe Castiglione: «Siamo grati al presidente Napolitano. Ma anche della lega che dell’abolizione delle provincia non ha mai potuto sentir parlare». Tornando però ai pericoli della contrapposizione frontale tra forze politiche e poteri istituzionali Napolitano evoca anche il paragone coi terribili anni della guerra: «La mia generazione ha visto la guerra e un’Italia spaccata ma non si è scoraggiata. Nonostante le divisioni politiche ed ideologiche si riuscì a fare la Costituzione nel segno dell’unità perché forze politiche fra loro anche distanti trovarono un punto di incontro». Ma le ”aperture”alla Lega non finiscono con il riferimento alle provincia: «Nel 150/mo dell’Unità d’Italia bisogna rievocare con serietà storica e con rinnovato rispetto tutte le anime e le maggiori personalità del moto unitario ed anche la comples-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Obbligatorio il parere delle Regioni per costruire una centrale nucleare

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri

ROMA. La Corte costituzionale ha parzialmente bocciato l’articolo 4 del decreto legislativo sulla costruzione delle centrali nucleari: prima del via libera della Conferenza unificata, hanno deciso i giudici delle leggi, ci vuole il parere della Regione interessata. Sul provvedimento, la Consulta - relatore della decisione il presidente Ugo De Siervo - ha dichiarato inammissibili o infondati tutti gli altri ricorsi presentati nella quasi totalità dalle regioni Puglia,Toscana ed Emilia Romagna, ma ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31 (Disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché misure compensative e campagne informative al

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

pubblico, a norma dell’articolo 25 della legge 23 luglio 2009, n. 99) nella parte in cui non prevede che la Regione interessata, anteriormente all’intesa con la Conferenza unificata, esprima il proprio parere in ordine al rilascio dell’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari». La decisione non potrà non avere delle ricadute sul piano di rilancio dell’energia nucleare varato dal governo.

Qui, Enrico Letta, Gianfranco Fini e Maurizio Lupi. Nella pagina a fianco, il presidente Giorgio Napolitano

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato

sa dialettica fra quelle personalità. In particolare è giusto richiamare la grande figura di patriota e di pensatore di Carlo Cattaneo, a cui ancora non e’ stata dedicata l’attenzione che merita».

Nel Dopoguerra Norberto Bobbio ha rilanciato l’eredità di Cattaneo, ha ricordato Napolitano, «mettendo in luce alcuni capisaldi del suo federalismo che ha una visione dell’unità nel riconoscimento delle distinzioni, di una unità pluralistica e non indifferenziata, fondata su istituzioni di autogoverno che rendono possibile la maggior partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica». Dunque la visione di un «federalismo come forma di unita in cui meglio puo’ incarnarsi il principio di liberta». Pronta la Lega a raccogliere l’assist per voce del presidente della Regione Veneto Zaia: «Come sempre colgono nel segno le parole del Presidente Napolitano sulla figura e la rilevanza storica di Carlo Cattaneo. Non sono tanti quelli che, in un clima diffuso di neocentralismo, si ricordano di Cattaneo, il quale, come tanti altri illustri federalisti, è stato cancellato dai libri di storia e quindi dalla memoria collettiva di questa nazione». Ma è soprattutto il premier Berlusconi a prendere al balzo la proposta di distensione: «Il governo condivide pienamente l’appello del Capo dello Stato a interrompere una spirale insostenibile di contrapposizioni, arrocca-

«La mia generazione ha visto la guerra e un’Italia spaccata. Eppure riuscì a fare la Costituzione», ha detto Napolitano menti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma, con un riferimento esplicito al federalismo e al carattere decisivo di un clima corretto e costruttivo confronto in sede istituzionale. La nostra condivisione non è di parte ed è esente da ogni strumentalismo» si affretta ad assicurare Berlusconi. Ma sono spiegazioni che non convincono per niente Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato. «Se c’è qualcuno che in questi mesi ha acuito tensioni politiche e istituzionali, ha ignorato i continui appelli del Capo dello Stato alla moderazione e al confronto sui problemi reali del Paese è proprio il Capo del Governo. L’unico contributo che il premier può dare al bene del Paese quello delle sue dimissioni».

Un esile filo di dialogo per la verità ieri è stato annodato, come si diceva, alla Camera dove a un convegno sull’innovazione presieduto da Fini – ”Rifare l’Italia”– e presenti Corrado Passera di Intesa San Paolo, il rettore del Politecnico di Torino Francesco Profumo, Irene Tinagli, è stata presentata la legge bipartisan sul controesodo dei giovani talenti italiani emigrati all’estero. A parlarne il vicepresidente del Pd Enrico letta e l’esponente del Pdl Maurizio Lupi l. «La condizione dei ventenni e trentenni oggi è spaventosa - ha detto Letta – I trentenni del boom facevano figli, lavoravano e mantenevano i genitori. Oggi non lavorano, non fanno figlie sono i loro genitori a mantenerli. La politica italiana deve prendere atto che i giovani italiani che se ne vanno dal loro paese sono quattro volte quelli tedeschi e francesi. A questo spreco di energie, di talenti occorre mettere riparo e il fondo per il controesodo può essere un primo passo». Sulla stessa linea Lupi: «Il fattore capitale-umano è cruciale nell’innovazione e nello sviluppo. Dobbiamo continuare a tener fermo questo principio anche se la crisi sembra portarci indietro a una vecchia logica di distribuzione delle risorse».A ben vedere non manca qualche cenno autocritico nei confronti dei partiti di appartenenza. Napolitano lo saluterebbe come un primo timido passo verso un clima diverso.

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il paginone

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Tra filosofia politica e ricetta di governo, la “lettura sociale” del Cardinal Sottile ha subìto colpi profondi e lodi smisurate. Oggi più che mai va riletta (e interpretata) di Francesco Iacobini ur avendo lasciato da qualche anno la guida della Conferenza Episcopale e poi quella del Vicariato di Roma, il cardinale Camillo Ruini continua a essere considerato un protagonista della scena italiana, soprattutto sul piano dei rapporti tra Chiesa, società e politica. Nel tempo dei parlamentari selezionati con i casting, dei partiti personali e delle classi dirigenti smarrite e precarie, simpatizzanti e antipatizzanti guardano al Cardinale Sottile con quel misto di curiosità e rispetto che comunque si riserva ai grandi. In realtà, però, le lenti con cui si considera la sua esperienza sono quasi sempre deformanti, facendo da filtro a valutazioni di ordine squisitamente politico e lasciando che il giudizio su un uomo di Chiesa si colori quasi esclusivamente delle tonalità e dei riflessi in uso per leader di partito e uomini di governo.Qualcuno gli attribuisce tra le righe persino la colpa del lungo successo berlusconiano, e non si capisce davvero in forza di quali frustrate e amare elucubrazioni. La cosa si spiega anche con l’ammirazione per la capacità di guida e di leadership di Ruini, che gli ha consentito di traversare oltre un ventennio ai vertici della Cei mantenendone dritta la barra nei mari tempestosi e insieme melmosi dell’infinita transizione italiana. Ma resta il fatto che il metro del giudizio politico è inadeguato e insufficiente per comprendere una figura e una vicenda che sono anzitutto ecclesiali, e che solo sul piano della Chiesa possono essere lette nel loro senso profondo. Inoltre, sarebbe utile giudicare il “ruinismo”con un minimo di approccio storico, stabilendo dei nessi tra il prima e il dopo, e avendo ben chiari i cambiamenti epocali della fine del Novecento. Risulterebbe impossibile, infatti, farsi un’idea della complessiva esperienza del cardinale di Sassuolo senza inquadrarla dentro le coordinate di massima di quel tempo, e ciò del resto dovrebbe stare a cuore anzitutto ai suoi detrattori, generalmente sensibili alla completezza delle valutazioni e dichiaratamente alieni da

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spirito fazioso… Qui è possibile solo tratteggiare alcune grandi tappe del cammino del Vicario di Roma ai vertici della Chiesa italiana, per cercare tutt’al più di coglierne i dati di fondo.Camillo Ruini assume la Segreteria Generale della Cei nel 1986.Viene da Reggio Emilia, dove è stato professore di teologia, prete impegnato nella pastorale della cultura, formatore di giovani e vescovo ausiliare.

Sin da giovane non è ascrivibile alle schiere degli integralisti, è duttile e crede nel valore positivo della laicità. Ha dato buona prova di sé nell’organizzazione del Convegno Ecclesiale di Loreto del 1984, dove il Papa Giovanni Paolo II ha delineato la sua proposta per il cattolicesimo in Italia, chiamato a un “ruolo trainante” nella società e all’impegno visibile e attivo nei suoi diversi ambiti. Sono anni difficili, perché il post-Concilio ha visto la Chiesa italiana, e soprattutto il laicato, attraversati da una crisi da “smobilitazione”, con la riduzione progressiva del ruolo e della presa dell’associazionismo tradizionale, la diffusione del dissenso (manifestatosi anche simbolicamente con la Lega Democratica dei cattolici per il NO al referendum sul divorzio), il disimpegno dalla DC, l’insidia di teologie politiche in odore di orizzontalismo e di legami col marxismo. La crisi trova risposte parziali nel fiorire di nuovi Movimenti ecclesiali, che sull’onda dell’entusiasmo, trascinati dai “carismi” dei rispettivi fondatori e quasi sempre animati da indiscutibile fedeltà al Papa ma in rapporti difficili con i Vescovi diocesani, sopperiscono alle difficoltà e ai vuoti lasciati dalle vecchie sigle associative. Questa situazione provoca tensioni, perché si contrappongono linguaggi, priorità, talvolta persino ecclesiologie, e la sensazione complessiva è quella di una dispersione di energie e di una divisione montante. I Vescovi stessi sono a

Qualcuno gli attribuisce tra le righe persino la colpa del lungo successo berlusconiano, e non si capisce davvero per quali frustrate elucubrazioni disagio, in quanto da una parte colgono l’esaurimento delle classiche forme di organizzazione e presenza del laicato, dall’altra fanno fatica a ricondurre l’attivismo dei Movimenti dentro una logica istituzionale e una sintesi unitaria. L’elezione di Giovanni Paolo II, inoltre, costituisce un’altra prova per l’Italia, perché il Papa polacco è obiettivamente un estraneo per la mentalità invalsa sia nella Curia Romana che nel nostro Paese. La sua proiezione missionaria, l’abbandono del linguaggio della mediazione, le innovazioni di stile e di comunicativa, lo scontro a viso aperto col comunismo, tutte que-

La lezione del porporato re

Il Ru ste cose rendono Karol Wojtyla un pontefice amato ma poco capito dall’intellighentsia cattolica di casa nostra, e anche dall’episcopato dei primi anni’80. Il Papa vuole per l’Italia un rinnovato cattolicesimo di popolo, uno slancio diverso, una Chiesa radicata e presente nella società, la visibilità del fatto cristiano, la capacità di incidere – nelle forme laiche della proposta culturale, sociale e politica – nella vita della società. Ecco quindi che il giovane vescovo Camillo Ruini è chiamato a realizzare questo difficile compito al vertice della Chiesa italiana, costruendovi il possibile equilibrio con i confratelli e dando il via a un’operazione di riassetto complessivo del cattolicesimo nazionale che superi, con l’impegno per la nuova evangelizzazione, i ritardi, gli equivoci e le dispersioni di una stagione di crisi troppo lunga. Questo lavoro si sviluppa nell’arco di più di vent’anni, e affronta le fasi, gli imprevisti e le emergenze di una traversata irripetibile. La linea essenziale, però, non muta, e si articola in pochi ma radicati punti fermi che restano visibili per tutta l’epoca ruiniana. Il primo punto è l’affermazione convinta dell’originalità e della non dissimulabilità della proposta cristiana, in anni in cui molti tentativi di dialogo e di rapporto col mondo sembravano portare a un’autodiminuizione e a un alleggerimento della rico-


il paginone cattolico formato, qualificato, e soprattutto unito, capace di collaborare tra le sue espressioni, in un rapporto proficuo con i vescovi, pronto a mostrare, pur nelle legittime differenze di sensibilità, la dovuta compattezza e l’attitudine a trovare la sintesi più che a coltivare ed esasperare le differenze. Questi tratti, a ben guardare, scandiscono l’intero operato di Ruini.Agli inizi, si trova come incastrato nelle guerre fratricide tra cattolici della mediazione e cattolici della presenza. È un contrasto tutt’altro che nominalistico, che in realtà investe spesso due differenti visioni di Chiesa e che riguarda non solo settori del laicato ma anche della gerarchia e del clero. Sul fronte esterno, egli sostiene convintamente la Democrazia Cristiana, della quale non ignora limiti, ritardi e tradimenti, ma sulla cui esperienza complessiva da un giudizio storico positivo, ritenendola lo strumento con cui i cattolici italiani hanno partecipato alla costruzione della democrazia e determinato le condizioni per lo sviluppo e la crescita del Paese.Lo scoppio di Tangentopoli e la furia delle campagne mediatico-giudiziarie dirette anche contro la classe dirigente cattolica trovano in lui un interprete lucido, per quanto accorto, della necessità di non assecondare giustizialismi e condanne ommarie, non del tutto estranei anche a certi settori cattolici.

egge alle prove difficili di questo panorama distorto

Ruinismo noscibilità del cristianesimo, magari col supporto di teologie autorevoli o più semplicemente di letture suggestionate e tendenziose (basti pensare alle infinite citazioni a sproposito della lettera a Diogneto). Per Ruini, e prima ancora per Wojtyla e per l’allora cardinale Ratzinger, al vertice della Congregazione vaticana per la Dottrina dal 1981, il cristianesimo si esprime in un fatto visibile e percepibile anche a livello sociale, con segni riconoscibili. Agli accenti sul Maritain dell’autonomia delle realtà terrestri, tanto cari ai seguaci di Lazzati, si affianca ora la sensibilità degli estimatori del “Cattolicismo” di Henri de Lubac e del“Distintivo cristiano” (Unterscheidung des Christlichen) di Romano Guardini.

Il secondo punto è che lo sguardo della Chiesa sul mondo non è più viziato da alcuni irenismi del post-Vaticano II, che si erano espressi soprattutto in una certa estasi contemplativa sulla bontà dei “segni dei tempi”, non priva di conseguenze anche negative per la Chiesa, talvolta quasi incapace di esprimere giudizi chiari e forti sulla contemporaneità e sulle sue derive. La Chiesa di Wojtyla/Ratzinger e di Ruini torna a una diagnosi realistica sul secolo, e il mondo non è più anzitutto lo spazio di una contaminazione, ma il destinatario di un annuncio di salvezza, un

luogo in cui i cristiani hanno una verità da testimoniare. Terzo aspetto importante è la consapevolezza, nutrita di realismo e sensibilità storica, che il terreno potenziale ed effettivo di una cultura cristianamente ispirata in Italia non coincide esattamente con quello della fedeltà e dell’assiduità sacramentale, ma è più vasto. Ruini sa bene che il cristianesimo ha prodotto nei secoli un sostrato profondo di umanesimo popolare.

Ed è quindi anche su questo piano che si deve situare l’impegno per il discorso culturale e la presenza sociale dei cristiani, in un’ottica in cui il livello della fede feconda gli altri ma non li esaurisce, e in cui è ben chiaro che il rilievo è dato alle funzioni del cittadino e non solo alle qualità del fedele. Un ulteriore punto è la presa d’atto, fattasi più urgente negli ultimi anni, che le acquisizioni tecnico-scientifiche, unite alla rapidità e alla fruibilità delle informazioni nel tempo della rete, implicano una radicale messa in questione non solo della tradizionale immagine dell’uomo e delle sue caratteristiche fondamentali di persona, ma anche delle forme e delle possibilità dell’educazione, in una frammentazione di concetti colta come il portato di un tempo insieme fugace e parcellizzato. L’ultimo aspetto è la convinzione che un tempo così richieda un laicato

Il Presidente della Cei cerca di supportare generosamente il rinnovamento della DC/Partito Popolare, ma quando si rende conto che i tentativi sono inutili, anche perché le beghe e le divisioni tra esponenti dell’associazionismo ecclesiale rimbombano dentro il partito sino a farlo deflagrare, ne prende atto e riesce a far sì che la Chiesa italiana non sia trascinata nella voragine del crollo del vecchio regime. La fine della Prima Repubblica coincide, del resto, con cambiamenti epocali che non riguardano solo il sistema dei partiti, ma un intero universo geopolitico e le stesse condizioni del mondo. Nella visione di Ruini, la stessa vicenda della crisi della DC ha mostrato i limiti insuperati del laicato cattolico, e la sua difficoltà di articolare un discorso culturale organico , ben diverso dalla fiera di voci singole e disperse. Ciò è invece tanto più urgente di fronte ai tempi nuovi. Arriva quindi il momento del“Progetto Culturale orientato in senso cristiano”, varato a metà degli anni’90 e che chiama a raccolta energie e sensibilità nel tentativo di organizzare e qualificare una nuova presenza dei cristiani sui fronti aperti dalla modernità. La partenza è lenta, perché il vasto corpo ecclesiale recepisce i cambiamenti con difficoltà e non senza resistenze, gli stessi vescovi sono in alcuni casi restii, le disponibilità limitate, e lo scotto delle vicende politiche ha reso molti ambienti sospettosi e guardinghi. Eppure la macchina del Progetto si muove, e accompagna - almeno ai livelli di vertice - la nuova fase della vita della Chiesa in Italia, senza più filtri di partiti politici di riferimento, in una dinamica di relazioni dirette e non di rado necessariamente esposte con le istituzioni, i poteri, le nuove realtà politiche, così diverse dalle precedenti anche nello stile. Nel disordine che accompagna la transizione politica, la Chiesa guidata da Ruini acquista una visibilità e un ascolto mediatico sempre maggiori. Non è difficile comprendere come nel mare magnum di partiti, movimenti, ribaltoni, scontri e turbolenze di ogni tipo, essa svolga una funzione di riferimento e stabilizzazione, valendosi anche del proprio radicamento terri-

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toriale, vicino alla gente comune, in grado di registrarne bisogni e attese. In questo quadro, si arriva sino alla fatidica primavera del 2005, in cui la consultazione sulla Legge 40 – promossa e sostenuta da un fronte molto forte in settori cruciali dei media, tra gli opinion maker e gli intellettualivede la sconfitta dei referendari a opera di un fronte costruito grazie all’accortezza pragmatica del Presidente della Cei, che intuisce come la somma di contrari e astenuti consenta di far mancare il quorum. Si tratta di una vicenda emblematica, che da un lato rende evidenti le nuove sfide cui i cristiani sono chiamati (la “questione antropologica”), e dall’altro mostra l’ambizione e la possibilità concreta di un lavoro culturale capace di incontro e di intesa con segmenti di opinione pubblica anche non cattolica o non credente. Si ottiene la prova, inoltre, che ciò che negli organi di informazione e presso potenti cattedre sembra forte sino ad apparire scontato non trova, in realtà, puntuale corrispondenza nell’anima profonda del Paese. Dalla battaglia del referendum la figura di Ruini esce quasi mitizzata, ma sempre e solo nel senso – pur fondato - dell’abilità politica e persino della spregiudicatezza tattica. Il cardinale,

Il prelato sa che questa nuova epoca obbliga i cristiani a dare un giudizio sulla realtà e a misurarsi anche duramente con essa invece, non si lascia impressionare dal successo e resta attento ai dati importanti. Egli sa che questa nuova epoca obbliga i cristiani a dare un giudizio sulla realtà e a misurarsi anche duramente con essa, affinchè i dati fondamentali dell’umanesimo e della civiltà non siano stravolti da fattori pervasivi, dotati di ogni mezzo economico e lobbistico, capaci di mutare i connotati dell’umano e in un certo senso la stessa valenza del linguaggio.

Egli sa, infine, che il mondo cattolico che ha trovato nel 1986, nonostante le nostalgie degli scontenti di professione, versava in condizioni peggiori di quello che ha lasciato. Era un mondo mormorante e incerto, litigioso, che si divideva e si lanciava reciproche scomuniche in modalità anche scandalose. Era un universo destinato all’irrilevanza, ma non tanto nell’ordine della politica, quanto in quello della capacità percepibile di significato, di accoglienza e di giudizio. Il cardinale Ruini, per volontà di Giovanni Paolo II, ha cercato di spingerlo fuori dalle secche e di creare le condizioni per una stagione nuova.Certo, sono stati pagati dei prezzi. Prezzi sul piano del pluralismo interno, prezzi per le urgenze organizzative di un tempo convulso, prezzi di sovraesposizione e talvolta di incomprensione. Oggi i cattolici sono in campo, hanno qualcosa da dire e da offrire per il domani dell’Italia: l’intuizione del Cardinal Sottile ha preso corpo, ma non mancano alcune sviature che devono ancora essere colmate. Il merito è anche del Cardinale Sottile, che si è assunto responsabilità difficili, ci ha messo la faccia, ha mostrato che la rassegnazione non è l’unico destino e che la consapevolezza della propria identità e del proprio compito non è un’arma contundente, ma la condizione più utile e onesta per concorrere a costruire la buona società.


la crisi egiziana

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A Obama si uniscono l’Unione europea e l’Onu: «Il governo favorisca la transizione». El Baradei: «Crimini contro l’Egitto»

La sfida di Mubarak Il Faraone respinge le richieste del mondo: «Resto in carica fino alla fine. E morirò qui» di Pierre Chiartano opo i tanti no affermati dal Faraone Hosni Mubarak, martedì in televisione, è arrivato ieri anche il colpo di coda: i primi violenti scontri di piazza tra filogovernativi e il popolo della protesta al Cairo, Ismailia e Suez. L’ex direttore dell’Aiea e leader dell’opposizione in Egitto, Mohamed ElBaradei, ha dichiarato alla Bbc di essere preoccupato per gli scontri in piazza Tahrir, al Cairo. ElBaradei ha accusato il governo di usare «tattiche minatorie» contro i manifestanti. Dopo la pacifica manifestazione di massa di martedì, a Tahrir e nella zona adiacente sono scoppiati ieri dei violentissimi scontri: il bilancio delle vittime è ancora incerto, ma alcuni media, fra cui la Bbc, parlano di centinaia di feriti e anche di vittime. Diverse centinaia di sostenitori di Mubarak – alcuni su cavalli e cammelli – sono entrati nella piazza dove erano presenti migliaia di manifestanti, molti dei quali vi avevano passato la notte dopo la «marcia del milione»: dopo una mattinata di tensione i due gruppi sono entrati in contatto con lanci di pietre e bottiglie, mentre alcune persone sareb-

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bero state travolte dalla folla che cercava di allontanarsi dal luogo degli scontri. Secondo al Jazeera vi sarebbero stati dei colpi di arma da fuoco. Anche una troupe della Cnn è stata assalita dalla folla.

«C’è stato sicuramente un input del regime, ma sembra essere un’operazione pianificata da tempo e portata a compimento in ritardo. Potrebbe servire al presidente per prendere tempo – la crisi sta assumendo

sibile in equilibrio la situazione, attraverso però l’uso limitato della forza nella piazza. Una moderata azione di violenza che mantenga le forze impegnate nel processo di dialogo». Insomma, i militari vogliono restare al tavolo delle trattative e riempire più caselle possibili del dopo-Mubarak. «Sono ancora un pilastro dell’establishment. Abbiamo visto generali assai pragmatici anche quelli più vicini al presidente, preoccupati di contene-

Dopo la pacifica manifestazione di martedì, ieri ci sono stati duri scontri al Cairo e in altre centri. Gruppi filogovernativi, forse organizzati da spezzoni del regime, hanno acceso la violenza nelle piazze connotati molto diversi da quelli che tutti si aspettavano e in tempi più rapidi – e per dare respiro a Mubarak nel cercare una destinazione fuori dal Paese. È difficile pensare che abbia un futuro in Egitto». Lo afferma a liberal Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies di Roma, in procinto di partire per il Cairo. «L’interesse dell’esercito come della variegata opposizione è quello di mantenere il più pos-

re la crisi». Nessuno ha ancora sparato per fare un favore al regime di Mubarak. «Gli uomini in divisa hanno dato un grande segnale di maturità politica». L’altra struttura veramente organizzata dopo l’esercito sono i Fratelli musulmani. «Non sono stati gli ispiratori delle proteste e neanche l’anima» ha concluso Pedde. Nel mezzo dei tumulti un gruppo di dimostranti si è inginocchiato in preghiera verso la Mecca,

mentre attorno a loro proseguivano le violenze. Almeno sei «cavalieri» sono stati circondati dalla folla, disarcionati e picchiati a sangue. L’esercito ha sparato in aria per proteggere il Museo archeologico dal lancio di alcune molotov. Secondo un comunicato diffuso da alcune organizzazioni dell’opposizione anche la polizia avrebbe fatto il suo ingresso nella piazza, dove sarebbero presenti molti agenti in bor-

ghese alcuni dei quali infiltrati nei gruppi filo-Mubarak. Il ministero degli Interni ha negato qualsiasi coinvolgimento delle forze di sicurezza, ma al Jazeera ha mostrato alcuni distintivi e documenti di identità delle forze dell’ordine che sarebbero stati strappati agli “infiltrati”. ElBaradei ha confermato di «non avere interesse in alcun ruolo» nel nuovo governo egiziano, quando ci sarà il passaggio di poteri. «Sono qui per

Parla Karim Mezran, Direttore del Centro Studi Americani di Roma, autore di: «I fratelli musulmani nel mondo»

«È troppo tardi: lo scontro è inevitabile» di Martha Nunziata er le vie del Cairo e nella grande piazza Tahrir scorre ancora il sangue degli egiziani: ieri è stata una giornata drammatica, con scontri fra sostenitori di Hosni Mubarak e manifestanti antigovernativi: oltre 500 persone sono rimaste ferite nella battaglia: ai manifestanti, abbiamo chiesto a Karim Mezran, direttore del Centro studi americano di Roma, non basta l’impegno di Mubarak di non ricandidarsi alle elezioni presidenziali e di cambiare la Costituzione? Quali sono secondo lei le strade della transizione prima delle nuove elezioni di settembre? Intanto bisogna vedere se realmente ci saranno elezioni a settembre. Detto

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questo, ci sono solo due strade percorribili: una prevede la negoziazione fra l’opposizione, cioè El Baradei e i Fratelli Musulmani, e il regime, sia esso rappresentato da Mubarak o da Omar Suleiman, dai militari, dalle forze di sicurezza, o dall’élite vicina al presidente. Un’élite settlement, come si definisce in politica una negoziazione di questo tipo, comporta però una ripartizione tra i poteri; e questi verranno suddivisi nell’ordine di 60 a 40: il regime, cioè, accorderà una serie di riforme, una serie di concessioni all’opposizione, tra cui la legalizzazione dei Fratelli musulmani, non come partito islamico, ma come movimento politico, e l’abolizione delle leggi di emergenza e tutti quei passi che

devono esser fatti, in cambio di un appoggio per la formazione del governo. L’altra strada possibile, invece, è l’implosione dell’Egitto, ossia lo scontro testa a testa fra le forze armate e i dimostranti e l’opposizione. I militari lasceranno il potere? I militari sono al potere da 50 anni, ricevono aiuti e miliardi di dollari dall’estero, fanno parte integrante della casta al potere: perché se ne dovrebbero andare? O perché dovrebbero rinunciare alla gestione del loro potere? E senza combattere, poi: la vedo difficile. I militari, per adesso, hanno preso una posizione neutra, per aspettare e guadagnare tempo, ma già il ministero della Difesa ha mandato segnali chiari ad El Baradei,

come dire “abbiamo capito, abbiamo ricevuto le vostre richieste, ma adesso ve ne tornate a casa e a riportare l’ordine ci pensiamo noi”. Anche perché se si va allo scontro, l’esercito non sarà quello che abbiamo visto impiegato nelle immagini televisive di questi giorni, cioè poche unità. Io però sono convinto che si arriverà ad uno scontro, anche se si sta cercando di evitarlo attraverso la negoziazione politica. Secondo lei questo è solo l’inizio di un qualcosa che potrebbe addirittura degenerare in una rivoluzione? Il passo indietro di Mubarak non basterà? No, non basterà. Non ci sono alternative. Se la negoziazione non sarà rag-


la crisi egiziana

essere sicuro che l’Egitto si trasformi da regime oppressivo e autoritario in una democrazia», ha spiegato.

I Fratelli Musulmani, principale gruppo dell’opposizione egiziana, hanno fatto sentire la loro voce, dopo un avvio in sordina nei primi giorni della protesta. Hanno respinto l’ipotesi che Mubarak resti alla guida dello Stato fino a settembre, data delle elezioni alle quali il rais ha annun-

ciato martedì di non volersi presentare. È chiaro però che il regime voglia allentare la tensione. Le promesse del vecchio Faraone però, a Barack Obama e ai milioni di manifestanti non sono bastate. Il numero uno della Casa Bianca ha parlato ancora una volta con Mubarak, dopo il suo discorso al Paese, dicendogli che la transizione dei poteri in Egitto «deve essere significativa, pacifica e deve cominciare ora». Obama non ha chiesto esplicitamen-

giunta e Mubarak non sarà convinto ad andarsene ci sarà lo scontro diretto tra le forze in campo. E questo sarebbe lo scenario più tragico, con l’implosione dell’Egitto. La rivoluzione. Devo riconoscere d’altronde che Mubarak ha fatto un discorso molto serio, ha dimostrato il suo patriottismo, dicendo «io non sono Ben Ali (il deposto leader tunisino, ndr.), io resto qui, sono egiziano e morirò sul suolo egiziano, per mandarvi via mi dovete sparare». Si tratta di un messaggio chiaro mandato all’opposizione, che non pensi di poter manipolare il regime come vuole. Comunque il gioco è molto più complesso: io non credo né che Mubarak abdichi né che l’esercito lo tradisca. Saranno decisive le prossime ore. Lei crede che saranno sufficienti nuove elezioni per dire definitivamente addio al vecchio regime e aprire la strada verso la democrazia? E che tipo di democrazia sarà? Uno dei motivi per cui è aumentato il risentimento popolare è proprio perché l’attuale sistema elettorale è considerato dal popolo una vera truffa. Prima del-

te che Mubarak rassegni le dimissioni prima di settembre, quando in Egitto si terranno le elezioni, ma secondo il Washington Post, per la Casa Bianca la promessa del presidente egiziano non è sufficiente soprattutto per il popolo egiziano sceso nelle strade per chiedere le dimissioni immediate di Mubarak. Poi il presidente Usa ha incitato l’opposizione a partecipare alla formazione di un nuovo governo. E ha lodato i giovani manifestanti

I militari non lasceranno il potere. Stanno lì da 50 anni, ricevono aiuti e miliardi di dollari dall’estero, sono parte integrante della casta

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egiziani per «l’esempio che stanno dando a tutto il mondo», e l’esercito per aver evitato grandi spargimenti di sangue. Intanto tutto il personale diplomatico Usa giudicato non indispensabile è stato invitato a lasciare il Paese. Anche il tycoon più ricco d’Egitto, Naguib Sawiris, presidente di Wind, si è schierato contro il regime. «Questa non è una rivoluzione islamica, non è un altro Iran – sottolinea in un’intervista a un quotidiano – è la rivolu-

le elezioni popolari devono essere previste le elezioni legislative: è questo il nervo centrale della negoziazione per poter permettere la partecipazione libera ai partiti dell’opposizione e creare una partecipazione reale e legale. Solo dopo si potrà parlare delle elezioni presidenziali. Sono queste le tappe della negoziazione: se queste hanno successo si arriva ad una transizione pacifica che porterà l’Egitto ad una semi-democrazia, ad un qualcosa di più libero di oggi. L’Egitto è un paese che ha una storia, una cultura, una élite colta, che ha avuto premi Nobel, ricercatori, scienziati, nemmeno paragonabili ai paesi vicini C’è un grande fermento nel mondo islamico e un desiderio di democrazia: Tunisia, Albania, Giordania, Siria ed Egitto chiedono un profondo cambiamento. C’è qualcosa che accomuna questi movimenti di piazza? E perché solo adesso? Si tratta di un effetto emulazione: dopo anni e anni di dittature, di atrocità e di diritti negati, la ribellione in Tunisia ha dato coraggio prima agli algerini, poi

zione di internet, di una nuova generazione. Tutti i figli dei miei amici ricchi sono scesi in piazza». Anche l’accesso a internet ieri è stato parzialmente ripristinato, dopo oltre cinque giorni di oscuramento. Nel nono giorno di proteste il Parlamento egiziano ha sospeso le sedute, in attesa di una revisione dei risultati delle ultime elezioni legislative, che si sono svolte tra novembre e dicembre, ritenute irregolari dall’opposizione.

agli egiziani e a tutti gli altri. È un vento che arriva da lontano, questi paesi sono stati sempre sotto dittatura, abituati alla repressione più brutale: alla fine la situazione diventa insostenibile ed esplode, anche perché la popolazione molto giovane non ha più nulla da perdere Quanto potrà incidere la situazione in Egitto e in Medioriente, nei prossimi mesi, sugli equilibri e sul nuovo assetto sia geopolitico che per l’Italia in particolare? Sicuramente l’Egitto non proietterà più potere e non sarà in grado di svolgere il ruolo che ha svolto o ha cercato di svolgere nel processo di pace con Israele o nell’unificare un fronte arabo in funzione anti-iraniana. É comunque un rapporto in stand-by: tra gli analisti c’è chi afferma che questo ruolo di libertà, indebolendo i regimi laici e secolari, comunque anti-islamici, favorirà chi sull’Islam ha una certa influenza, cioè l’Iran. Io personalmente non ci credo perchè l’Iran ha una influenza limitata a sciiti e sunniti. In ogni caso siamo entrati in una nuova era.


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la crisi egiziana

Gli scontri in Libano nascono da ragioni completamente diverse da quelle in Egitto. Ma non per questo sono meno pericolosi

Il Cairo chiama Beirut

Il Paese dei Cedri è in crisi. Hezbollah, dopo aver fatto cadere il premier Saad Hariri, sta adesso tentando di rimpiazzare Najib Miqati, incaricato di formare il nuovo governo, perché poco incline a bloccare il Tribunale speciale dell’Aja ria di crisi anche nel Paese dei Cedri, ma si tratta di qualcosa di assai diverso di ciò che sta accadendo lungo la costa nordafricana. Diverso e, con buona probabilità, nemmeno collegabile. Anche se i soliti noti, prima o poi, cercheranno di inzuppare il pane anche lì. Ma al momento al-Qaeda e affiliati, battuti sonoramente e messi in fuga dalle forze regolari dell’allora capo dell’esercito libanese, ora presidente, Michel Suleiman, non hanno alcuna parte nei disordini. Come non ne hanno la disoccupazione, la fame o il desiderio di maggior libertà democratica. In Libano la questione è diversa e trae origine dal fatto che all’Aja il Tribunale Speciale, attivato sotto l’egida dell’Onu per far luce sull’assassinio nel febbraio 2005 dell’allora primo ministro Rafiq Hariri, ha iniziato a esaminare l’atto di accusa che indizierebbe pesantemente alcuni capi dell’ala militare del “partito di Dio”, il movimento Hezbollah sostenuto da Siria e Iran. Ovviamente questo, che nel frattempo aveva conseguito elettivamente posizioni di governo, è pronto a tutto pur di non finire sul banco degli im-

A

di Mario Arpino putati, pretendendo persino che Saad Hariri, figlio del defunto Rafiq e primo ministro del composito governo di unità nazionale, prendesse le distanze dal Tribunale, disconoscendolo. La pressione era stata alta anche da parte di Siria e Arabia Saudita, e l’opposizione aveva offerto ad Hariri una serie di incentivi, ivi compresa l’assicurazione che sarebbe rimasto primo ministro qualora avesse bloccato le indagini del controverso tribunale.

Ma Hariri ha giustamente rifiutato e così, con l’immediato ritiro degli 11 ministri di Hezbollah, il suo governo è caduto dopo solo 14 mesi di operatività. La misura era stata presa in modo plateale, con comunicato attraverso la Reuters proprio nel momento in cui il primo ministro, in visita negli Usa, stava entrando alla Casa Bianca per il primo colloquio con Barack Obama. Crisi istituzionale, quindi, con un parlamento dove su 128 deputati 57 sostengono Hariri, mentre altri 57, di cui 30 musulmani e 27 cristiani, sostengono la coalizione a guida Hezbollah. Fino a

sabato scorso restavano in sospeso gli 11 voti dei deputati del partito dei drusi di Walid Jumblatt, che, dopo vari tentennamenti e numerosi viaggi del leader a Damasco, hanno deciso di passare all’opposizione, che così, improvvisamente, è diventata maggioranza. Anche qui, al solito, circa la metà dei drusi disapprova questa decisione, temendo di trovasi prima o poi anche sotto schiaffo degli sciiti, oltre che dei sunniti. Assieme alla compagine del movimento armato, ora fanno parte della nuova coalizione il Movimento Patriottico Libero del cristiano ex presidente Michel

Hamas controlla dei militari più efficienti di quelli dell’Esercito regolare

Aoun, il partito sciita Amal del presidente del parlamento Nabih Berri e il gruppo dei drusi. Un patto costituzionale del 1943, più volte emendato, prevede che il presidente sia sempre un cristiano, il primo ministro un sunnita e il presidente del parlamento uno sciita. Questo deve essere formato per metà da deputati cristiani e per l’altra metà da mussulmani, nelle varie componenti sunnita, sciita, alawita, ismailita e drusa, spesso in discordia tra loro. La scelta per la sostituzione di Hariri deve comunque cadere su un candidato sunnita, che però, a questo punto, deve ave-

re anche la caratteristica di essere gradito - se pur non necessariamente subordinato - alla coalizione di maggioranza.

I moti di piazza a Beirut e, sopra tutto a Tripoli, sono stati originati appunto dalla protesta dei sunniti sostenitori di Hariri, che ritengono un golpe quello che noi ci limiteremmo a chiamare “ribaltone”. Naturalmente, l’attuale maggioranza si aspetta - ma non è detto venga soddisfatta - che l’uomo prescelto si adoperi per il disconoscimento del Tribunale Speciale per il Libano. In prima opzione, quest’uomo sarebbe il cinquantacinquenne miliardario sunnita - ma di fatto laico nella vita quotidiana - Najib Miqati, laureato alla prestigiosa università americana di Beirut e non nuovo all’esercizio del potere. Già ministro delle infrastrutture nel 1998, al tempo della ricostruzione, nel 2005, dopo l’assassinio del padre di Hariri fu nominato dall’allora presidente Emile Lahoud primo ministro di un governo ad interim, ricevendo ben 110 voti su un parlamento di 128. Evidentemente, era stato giudicato accettabile sia per il gruppo di Hariri che per l’opposizione


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Dal ministro francese Alliot-Marie alla baronessa Ashton della Ue solo tanta inettitudine

Tutti gli errori dell’Europa (e degli Usa) in Medioriente Il Vecchio Continente avrà una responsabilità epocale se ci sarà una disfatta. L’unico con le idee chiare è Tony Blair di John R. Bolton l relativamente nuovo ministro degli Esteri francese, Michelle Alliot-Marie (adesso nell’occhio del ciclone, ndr.), ha avuto una duro battesimo sulle questioni arabo-israeliane lo scorso venerdì, quando il suo entourage è stato attaccato a Gaza dai sostenitori di Hamas. Ha rischiato di essere ferita, per poco non è stata colpita dal tiro di una scarpa e una persona del suo staff ne ha pagato lo scotto quando i manifestanti hanno sfogato il loro disappunto per il sostegno di Alliot-Marie alla liberazione del prigioniero di Hamas, il soldato israeliano Gilad Shalit, che come è noto ha doppio passaporto (sia francese che israeliano). Epperò, la violenza che l’ha accolta a Gaza avrebbe dovuto essere un segnale sia per la Francia che per l’intera Europa, sul fatto che le politiche dell’Unione Europea in Medioriente stanno fallendo amaramente. Sfortunatamente sembrano esserci poche prospettive di cambiamento. La Francia, e di conseguenza l’intera Unione Europea, soffrono di impulsi contraddittori che rendono le loro politiche impotenti e addirittura nocive sia per i loro interessi che per la stabilità del Mediorientale. Nel corso della stessa visita, ad esempio, Alliot-Marie rispondendo a una domanda di un giornalista del quotidiano israeliano Haaretz ha detto che la Siria «è un attore fondamentale nell’area, che può e deve svolgere un ruolo costruttivo per la stabilità regionale». La Francia ha una cecità particolare verso il Medioriente perché insiste col suo ruolo storico in Siria e Libano dai tempi delle Crociate, sebbene i leader arabi credono che abbia molto più a che fare con i resti dell’imperialismo francese del XIX secolo e con il mal consigliato accordo Sykes-Picot con la Gran Bretagna nel corso della Prima Guerra Mondiale.

I

Nonostante tutto questo, adesso ci troviamo davanti a un Libano sull’orlo di perdere la rivoluzione dei cedri e di cadere sotto il controllo inequivocabile dell’organizzazione terroristica finanziata dall’Iran, Hezbollah. In effetti, nello scenario più preoccupante, ma allo stesso tempo più probabile, tutti i progressi raggiunti dal 2005 nell’aver costretto gli eserciti siriani a ritirarsi e nell’aver ripristinato una vera indipendenza del Libano, sembrano molto a rischio. Naturalmente, gli Stati Uniti sono troppo spesso complici degli errori dell’Europa. La decisione di Barack Obama di inviare un ambasciatore americano a Damasco dopo cinque anni di assenza è un atto di stupidità ed è difficile distinguerlo dall’erronea ricerca di sistemazione da parte della Francia con il governo autoritario della Siria. Almeno gli Stati Uniti possono dire di non aver commesso lo stesso errore del presidente francese Nicholas Sarkozy quando

due anni fa ha lodato il regime dell’ormai deposto presidente tunisino Zine Al Abidine Ben Ali per «aver fatto progredire la libertà e i diritti umani». Eppoi, visto che al peggio non c’è mai fine, sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti restano devoti ai Colloqui dei 5 + 1 con l’Iran, che sono ripresi due settimane fa in Turchia. Come era assolutamente prevedibile, questi si sono chiusi senza alcun progresso sull’eventuale passo indietro iraniano in tema di armamenti. Per essere chiari: non c’è e non c’è mai

Nessun segnale positivo arriva dalla Casa Bianca, che continua ad avere una politica estera poco realista stata dall’inizio di queste tortuose negoziazioni, nemmeno la minima traccia che l’Iran avesse intenzione di rinunciare a questo obiettivo. Obiettivo che non è stato mini-

manente scalfito nemmeno con le successive ondate di sanzioni economiche contro l’Iran, né con il dichiarato scopo di obbligare l’Iran a serie trattative. Piuttosto, il regime di Tehran ha sistematicamente e costantemente usato i colloqui per acquistare tempo, per poter superare i molteplici ostacoli scientifici e tecnologici e raggiungere il suo ventennale scopo: possedere testate nucleari.

Ironicamente, mentre l’infatuazione dell’Ue con l’Iran è ora guidata dalla sua ministra degli Esteri, la Baronessa Catherine Ashton dal Regno Unito, è proprio l’ex primo ministro inglese Tony Blair ad aver capito meglio di tutti come bisogna agire con i mullah di Tehran. Dopo la riuscita invasione dell’Iraq per rovesciare Saddam Hussein, Blair aveva dichiarato: «Occorre affrontare e cambiare l’Iran, ve lo dico con tutta la passione che posso avere. Ad un certo punto l’Occidente dovrà uscire da quella che io ritengo una politica sventurata o una posizione di apologia per aver creduto che siamo noi la causa di quello che stanno compiendo gli iraniani e gli estremisti. Dobbiamo tirare fuori la testa dalla sabbia. Perché loro non approvano il nostro stile di vita e continueranno a contrastarci finché non si troveranno davanti determinazione e, se necessario, forza». Nella dichiarazione di Blair c’è una chiarezza che è assolutamente assente nella visione dell’amministrazione Obama, ma che era assente anche nella politica del presidente Bush negli ultimi anni del suo mandato. Sfortunatamente, ci sono molte ragioni per pensare che le questioni in Medioriente peggioreranno. Mentre l’amministrazione Obama sta sgombrando il campo per la campagna elettorale del 2012, e compie cambiamenti strategici verso il centro della politica americana per aiutare a raggiungere questo obiettivo, non c’è alcun segno che la politica estera del presidente si stia spostando verso una valutazione più realistica delle minacce e delle sfide che colpiscono gli Stati Uniti nell’arena internazionale. Visto che non c’è alcuna possibilità che gli Usa riconquistino i propri appoggi in politica estera prima delle elezioni presidenziali del 2012, gli europei, giustamente preoccupati per il futuro di tutto l’Occidente, hanno una speciale responsabilità. Per quanto possibile, devono cercare di mantenere la posizione finché gli elettori americani avranno la possibilità di ribaltare l’esito delle elezioni del 2008, proprio come hanno fatto ampiamente lo scorso novembre a livello congressuale.

guidata da Hezbollah. Secondo Forbes, il patrimonio di Miqati supera i due miliardi e mezzo di dollari, cosa che lo piazza al 446° posto tra i più ricchi del mondo. Saad Hariri, con “solo” 1,6 miliardi, è “appena” al 552° posto. I sostenitori di Hariri sono scesi in piazza, ma, come si vede, in questo caso non si tratta proprio di lotta tra disoccupati diseredati, come in Algeria, in Tunisia e in Egitto. È tutt’altra cosa. Il presidente Suleiman gli ha già conferito l’incarico di formare il nuovo governo, ma il miliardario sta procedendo con estrema cautela.

Amico personale del siriano Assad, ha cominciato col dichiarare che, pur riconoscendo di essere stato designato da Hezbollah, ciò non significa affatto la sua piena identificazione con le loro posizioni. Rivolgendosi poi agli Usa, si è dichiarato fiducioso che il sostegno al Libano possa continuare. Una diplomatica presa di distanza dagli indiziati, che però sembra non sia stata bene accolta dal Partito di Dio, che ha già pronta la proposta di riserva. Si tratterebbe del settantasettenne Omar Karami, ovviamente sunnita, anch’egli già primo ministro alla fine degli anno ’80 e, come Hariri, a suo tempo colpito negli affetti famigliari da un assassinio politico. Tutto ciò significa che il Libano è e resta una polveriera. Comunque vada questo rimpasto di governo, la situazione, in termini di stabilità, continuerà a rimanere precaria. Con un ulteriore vantaggio di Hamas che, oltre alla rappresentanza in parlamento, ha come braccio armato una forza militare assai più efficiente ed addestrata dell’esercito regolare libanese. Il quale, secondo la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, coadiuvato dai presidi di Unifil, dovrebbe svolgere la missione militarmente e politicamente impossibile di disarmare ogni milizia non governativa - leggi Hezbollah - e impedire il flusso di rifornimenti attraverso il confine siriano. La stessa Unifil, tuttavia, all’interno del Libano è percepita come una forza schierata dall’Onu a protezione delle milizie armate contro l’irruenza di Israele, piuttosto che una equanime forza di interposizione. In queste condizioni, il rischio di una nuova guerra esiste. I mediatori ufficiali, anche per quanto riguarda il Tribunale dell’Aja, sono l’onnipresente Turchia e il Qatar, mentre l’Arabia Saudita si sta defilando. Resta però ancora una speranza: Najib Miqati è uomo d’affari abile e di consumata esperienza. C’è da augurarsi che gli interessi del business internazionale ed il potere economico, almeno nel suo periodo, siano in grado di porre in secondo piano le lotte intestine della politica.


cultura

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Arriva in libreria “La figlia segreta”, struggente romanzo d’esordio della scrittrice canadese di origine indiana Shilpi Somaya Gowda

Una bambina per due di Martha Nunziata

a figlia segreta, opera d’esordio di Shilpi Somaya Gowda, canadese di origine indiana, è un affresco sulle contraddizioni dell’India, nel quale trovano spazio i volti diversi di un Paese dove convivono molte culture. Ma è soprattutto un romanzo sulla maternità, sull’abbandono, sulla perdita, sulla adozione, sull’accettazione, sul senso di colpa incolmabile e sull’impotenza di fronte agli eventi della vita. È la storia di due madri che vivono in due mondi distanti, che non si incontreranno mai, ma pur nelle diversità sanno di essere comunque madri, nonostante la questione di sangue. Un romanzo per il quale l’autrice ha tratto ispirazione dalle sue esperienze di volontaria negli orfanotrofi indiani: «È vero - conferma a liberal Shilpi - l’ispirazione è arrivata durante un’estate trascorsa in un orfanotrofio in India, dove erano ospitati 100 bambini. Avevo 19 anni e mi sono aperti gli occhi: quella era una parte dell’India che non conoscevo. Molti anni dopo, quando pensai di scrivere un libro, tornai a quella esperienza, a quei ricordi e a quei bambini. Fu quello lo spunto del racconto, anche se per scriverlo ci sono voluti circa due anni». È un racconto struggente, che non si dimentica; i suoi personaggi esprimono una forza primordiale, come le protagoniste, che lottano disperatamente per la propria famiglia, in modi diversi, anche in silenzio, fino alla fine.

L

Una storia che porta a riflettere sul dramma dei diritti umani negati in India, dove centinaia di bambine scompaiono alla nascita ogni giorno. «Ancora oggi - sottolinea l’autrice - c’è tanta discriminazione nei confronti delle bambine, soprattutto in alcune regioni dell’India, quelle più rurali. Con lo sviluppo economico delle città, però, grazie alla crescita del livello di istruzione delle famiglie, sono sempre di più le opportunità, anche economiche, date alle donne, che permettono che tale pratica vada a scemare. Il fenomeno sta dimi-

nuendo, in effetti, ma è ancora molto diffuso». La figlia segreta è anche la storia di due donne, due madri, che vivono agli angoli opposti del mondo: una in un piccolo villaggio indiano, l’altra in California: le accomuna l’essere madre della stessa figlia.

Anche Shilpi è figlia di culture diverse, ma non c’è nulla di autobiografico, nel libro: «Io sono canadese - dice - ma anche un pò americana e un pò

indiana; ho questo senso di appartenenza a culture diverse che rappresentano tante sfaccettature della mia identità, quelle che ho cercato di esplorare nel libro. Asha, la figlia segreta, appartiene a due mondi e

a due culture, come il padre adottivo e sua madre che unisce queste due realtà diverse. Questa idea di appartenere a tanti mondi, a universi diversi mi sembrava intrigante, ma a parte queste somiglianze tematiche, nel libro non c’è niente di me, nessun personaggio mi somiglia. È pura finzione». L’asse portante del romanzo è la storia di Kavita, una donna indiana, che dà alla luce una bambina, Usha, l’alba, nata in un contesto culturale in cui le bambi-

spirata nascita del maschio sarà motivo di un ulteriore senso di colpa. Sommer è una pediatra in carriera, che vive nella ricca California, e diventa la madre adottiva di Usha, la piccola bimba indiana strappata all’orfanotrofio, ma il suo senso materno vive in un continuo stato di inadeguatezza. Il suo nuo-

ne sono considerate un peso: una figlia è un conto in perdita per una famiglia indiana, per la dote, per le nozze, una bocca in più da sfamare. Un libro che fa pensare allo sterminio silenzioso delle bambine con l’aborto selettivo, soppresse alla nascita o fatte morire di stenti. E sul peso del disprezzo che subiscono le madri che hanno la colpa di aver messo al mondo una femmina.

Un affresco sulle contraddizioni dell’India, attraverso la storia di due madri che vivono in due mondi distanti, entrambe legatissime alla piccola Asha-Usha

Kavita vive la maternità con

In alto, madri indiane stringono tra le braccia i figli e la scrittrice Shilpi Somaya Gowda. Sopra, il suo libro “La figlia segreta”

sofferenza e senso di colpa, che la accompagneranno per tutta la vita; per salvare la vita alla figlia, per non vederla sopprimere in quanto femmina, com’era accaduto alla primogenita, è costretta ad abbandonarla perché considerata dal marito e dalla sua comunità solo un peso. Kavita lascia la neonata in un orfanotrofio di Mumbai, ma questo ricordo doloroso cancellerà ogni istante di felicità e anche la tanto so-

vo ruolo la rende insicura, lei tipica americana si sente esclusa dal rapporto profondo tra Usha, nel frattempo divenuta Asha, speranza, ed il padre: il marito è indiano, come la figlia, e questo li rende complici di un’affinità impossibile da raggiungere per Sommer. I due mondi spesso non si incontrano, ma il loro legame profondo è più forte di qualsiasi diversità. Jasu, il marito di Kavita, non sa che la moglie ha salvato la seconda figlia e pensa che essa sia morta dopo il parto.

L’uomo troverà solo alla fine una qualche forma di riscatto. Personaggi diversissimi tra loro, quelli usciti dalla penna di Shilpi, ma nessuno al quale lei si senta legata di più: «Non c’è un particolare personaggio a cui mi sento affezionata - dice a liberal Mi identifico un po’ con tutti, perché quando devi inventare un personaggio devi essere nella sua testa, devi sviluppare un senso di empatia con ognuno di loro. Io l’ho fatto, anche se non mi rivedo in nessuno di loro». Le protagoniste principali del romanzo sono le due madri, che vivono la maternità in uno stato di continua lotta interiore, ma anche Dadima, la nonna paterna di Asha, che introduce il lettore in una realtà profondamente diversa dallo slum, la baraccopoli nella quale Kavita lotta per sopravvivere, dove non esistono i servizi igienici, un accesso all’acqua, un giaciglio dignitoso. La nonna vive in un altro mondo, letteralmente; rappresenta la comunità indiana evoluta, benestante ai limiti dell’opulenza, divisa in caste, ma capace anche di accettare il diverso.

E poi Usha-Asha, la figlia divisa tra l’amore per la madre adottiva e quella biologica, mai conosciuta, ma sempre sognata ed inseguita. Un amore che la riporterà in India, alla ricerca delle sue radici; un viaggio interiore che la porterà ad amare profondamente la sua terra di origine ma anche a scoprire una verità indicibile. Un libro da leggere tutto d’un fiato, il cui successo ha sorpreso anche la stessa autrice: «Non avrei mai immaginato tanto successo. Il sogno che avevo era quello di vedere un giorno il mio libro sugli scaffali di una libreria, con il nome sulla copertina; già questo è stato un sogno, figurarsi tutto il resto, con il libro tradotto in tante lingue, arrivato fra i bestseller in molti paesi. Ancora oggi stento a crederci».


cultura l rapporto della cultura italiana con la storia del fascismo è interessante. Per un motivo semplice, almeno una volta che è stato individuato: il regime di Mussolini è stato descritto e visto come un “male assoluto” - anche al di là della stessa definizione di Gianfranco Fini - e la democrazia che è nata nel dopoguerra si è sempre detta antifascista come se con il fascismo non avesse alcun punto di contatto, eccezion fatta per averlo combattuto e vinto. In realtà, questa è una visione ideologica dei rapporti tra il Ventennio e la Prima repubblica (ma nel conto si può mettere tranquillamente anche quella che chiamiamo Seconda repubblica e che, in realtà, è un lungo “secondo tempo” della Prima repubblica). Se spostiamo l’ideologia e guardiamo la storia e la storia istituzionale e sociale ci rendiamo conto che tra il “prima” e il “dopo” c’è una evidente continuità. Due libri che recano lo stesso titolo, Lo Stato fascista, ma che sono stati scritti da autori diversi, da Sabino Cassese e Francesco Perfetti, ed editi da Il Mulino e Le Lettere, ci aiutano a capire meglio.

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In entrambi i testi ci si sofferma sul corporativismo che fu un’invenzione del fascismo e che, al di là di facili entusiasmi e cambiamenti di facciata, è una pratica e una consuetudine che sono state ereditate dalla storia repubblicana. Francesco Perfetti concentra la propria attenzione soprattutto sul processo di costruzione dello Stato fascista e mostra come l’edificazione del regime avvenne gradualmente per un motivo concreto: per non andare oltre la linea di demarcazione costituita dalla fedeltà allo Statuto albertino. Se, infatti, ciò fosse accaduto i “fiancheggiatori”che fino a quel momento avevano chiuso un occhio si sarebbero trasformati in avversari diretti e irriducibili. La ricostruzione di Perfetti apre un altro capitolo: i rapporti tra il fascismo e ciò che c’era prima del fascismo. In questo modo il regime fascista è “perfettamente” inserito nella storia d’Italia e non è possibile espellerlo come un incidente di percorso del tutto casuale. Secondo Sabino Cassese il corporativismo, anche se non fu portato a compimento, non fu una superflua architettura del regime; bensì fu «un manuale di pratiche anti-concorrenziali». Ecco perché ciò che fu creato all’epoca mussoliniana si trasportò con naturalezza nel successivo regime antifascista: «L’ordine corporativo scomparirà nel secondo dopoguerra, ma la rappresentanza di interessi rimane nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, così come gli enti che furono chiamati di privilegio, le pianificazioni di settore, le partecipazioni statali rimarranno e si rafforzeranno nel

3 febbraio 2011 • pagina 15

A fianco, un’immagine di Mussolini. Qui sotto, Francesco Perfetti e la copertina del suo nuovo libro “Lo Stato fascista”. In basso, Sabino Cassese e la copertina della sua ultima fatica, anch’essa intitolata “Lo Stato Fascista”

Luci, ombre e contraddizioni del Ventennio nei nuovi libri di Cassese e Perfetti

L’eredità fascista nell’Italia antifascista di Giancristiano Desiderio quarantennio che va dal 1948 alla metà degli anni Novanta, periodo nel quale si registra, invece, una svolta».

Effettivamente le partecipazioni statali non ci sono più.

porativismo, infatti, non c’è più ma la società italiana è rimasta fatta di tanti corpi e ogni corpo difende se stesso. Un caso esemplare è senza dubbio quello degli ordini professionali (non escluso, natu-

ralmente, neanche l’ordine dei giornalisti).

Oggi il libro di Sabino Cassese sarà presentata a Montecitorio da Ernesto Galli Della Loggia e Guido Melis. Il lavoro di

In entrambi i testi ci si sofferma sul corporativismo, che fu un’invenzione del fascismo e che, al di là di facili entusiasmi e cambiamenti di facciata, è stata una pratica, anzi una consuetudine, ereditata dalla storia repubblicana Tuttavia, possiamo dire con tutta sicurezza che lo spirito corporativo costruito nel fascismo e continuato e nella rafforzato repubblica non ci faccia ancora tanta bella compagnia? Periodicamente ritorna l’argomento della necessità di liberalizzare: il cor-

Cassese, al di là della ricostruzione storiografica o forse proprio in sua ragione, sarà certamente “utilizzato” per leggere non solo il passato della storia italiana, ma anche il nostro presente. Del resto, l’oggetto della storia - per dirla con uno dei maggiori storici del Novecento come Marc Bloch - non è il passato e la studio storico non è «la scienza del passato»: la storia, invece, riguarda l’uomo, o meglio gli uomini. La storia, scriveva Bloch nella sua Apologia della storia o Mestiere di storico, «è la scienza degli uomini nel tempo», la scienza che, «senza posa, necessita di unire lo studio dei morti a quello dei viventi». Il lavoro dello storico non è quello dell’antiquario. Un altro grande storico, il belga Henri Pirenne, diceva: «Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io non sono uno storico. È per questo che amo la vita». E, visto che siamo in vena di citazioni, ci piace ricordare anche l’apparente paradosso che amava ripetere Benedetto Croce: «Non è la storia ad essere maestra di vita, ma è la vita ad essere maestra di storia». Insomma, il passato ci riguarda più di quanto non si immagini, anche perché la vera ricerca storica affonda le sue radici nei problemi morali del presente. Questo è il caso specifico dei libri di Cassese e Perfetti accomunati fin dal medesimo titolo. Ma c’è anche un altro argomento che i due testi condividono.

Il fascismo si proclamò totalitario e corporativo, ma non fu o non riuscì ad essere né l’uno né l’altro. Disse di voler fare una rivoluzione e di erigere un nuovo Stato, ma riutilizzò in abbondanza quanto inevitabilmente gli passo lo Stato liberale. Questi due aspetti - dittatura e non totalitarismo, eredità e riutilizzò delle istituzioni del regime precedente - si ritrovano nei testi dei nostri due autori (ma si potrebbero in tal senso gli studi di Domenico Fisichella e anche il giudizio di Hannah Arendt). In entrambi le ricostruzioni il regime di Mussolini non si presenta come un blocco unico e unitario, piuttosto sono messe in luce le molte facce e la varietà del fenomeno che, in fondo, accomuna un po’ tutta la storia d’Italia. Per noi oggi interessa soprattutto sia l’inizio del regime, quindi il suo legame con lo Stato liberale e come si costruì il “nuovo”Stato, sia la fine del regime, quindi il suo lascito allo Stato democratico della Repubblica che, come si capisce dalla lettura di Cassese, è stato molto più cospicuo di quanto non si pensi o non si voglia ammettere.


ULTIMAPAGINA Alfatti Appetiti racconta i personaggi di Bonelli in “All’armi siam fumetti”

L’eminente dignità di Alan Ford e Maltese, moderni di Francesco Lo Dico ivertiti fino a una certa età, poi pentiti e vai oltre». Apostata felice del precetto agostiniano, Roberto Alfatti Appetiti non ha mai declinato le parole sprezzanti che l’highbrow nazionale ha da sempre riservato al fumetto. Cresciuto insieme ad Alan Ford e Corto Maltese, Zagor e Mister No, il giornalista del Secolo non ha mai avvertito l’esigenza di denunciare i segreti compagni di carta all’occhiuto doganiere dello Strapaese intellettuale. Quello che“appartato e schizzinoso”, secondo la lezione di Michele Serra, tira giù la sbarra di fronte a fenomeni popolari clandestinamente importati nella sacra terra del radical-chic. Ecco perché All’armi siam fumetti (Il Fondo, 210 pagg. 12,50 euro), giunge in libreria come una ventata d’aria fresca. Tanto più sferzante, quanto il tono signorile disegna con sagacia una traccia storica spesso depistata e scomodamente inattuale. Ci voleva l’“intelligenza dissoluta” di Appetiti, per mandare gambe all’aria l’ordine dei segni che incardina il fumetto nelle camerette dell’adolescente brufoloso.

«D

Ma nonostante Andy Capp e soci abbiano le carte in regola per assurgere a eroi della letteratura disegnata, il nostro non cerca sponde nell’ufficio brevetti della bottega aristotelica. Ciò che gli importa non è fare istanza di appello perché la storia del fumetto entri nei curricula accademici. L’autore sa bene che la canonizzazione spegnerebbe per sempre il fuoco sovversivo che agita gli

ro dispensata dal critico, ma la libera cittadinanza del piacere e dell’avventura. Una nota stonata, nel coro polifonico dell’impegno politico a tutti i costi. Perché l’avventura, come ogni sortita nelle terre selvagge, si pretende nichilista, anarchica e individualista. E se risulta eroica è un problema altrui, perché è un bisogno o una necessità, e preferibilmente la si affronta controvoglia.

Nelle pagine di Appetiti sfila la dunque la piccola controstoria di un mondo che ci è stato raccontato in modo univoco dagli anni ’60 ai giorni nostri. E la cronaca di un pianeta, fatto di nuvolette parlanti finché si vuole, che racconta però di uomini con i piedi per terra. Che ad ogni passo sollevano la polvere di sogni residuali e battaglie

ANTIEROI perdute, di viaggi da fermo e tenaci resistenze ai circuiti spediti dell’embedded. È il caso di Andy Capp, «figliolo di china» del mai troppo compianto (e misconosciuto) Reginald Smythe. «Ha rappresentato l’altro 68 – chiosa Appetiti a proposito dell’uomo più attaccato alla poltrona che l’antipolitica abbia

C’è la sensazione di assistitere a uno spettacolare detournement: Dylan Dog e soci seminano finalmente scompiglio nell’ordine dei segni della cultura ufficiale eroi. A sentirsi nominare come “influenti esponenti dell’arte sequenziale”, Dylan Dog e Tex Willer menerebbero cazzotti che non ti dico. E d’altra parte, ciò che stava a cuore ai loro padri – da Sergio Bonelli che creò Mister No, alla coppia Bunker e Magnus che si inventò spauracchi come Kriminal e Satanik – non era la corona d’allo-

ti sfodera l’arma più seducente di questo All’armi. Alzato il sipario, dissipata la nuvoletta, l’eroe di carta svela le sembianze dell’uomo che ne fa le veci. Ed ecco Pratt spiegare che «con la fine delle ostilità, arrivò l’obbligatorio impegno per l’impegno. La parola avventura fu messa al bando. Non è mai stata ben vista, né dalla cultura cattolica, né da quella socialista. È un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro, porta scompiglio e disordine. L’uomo di avventure, come Corto, è apolide e individualista, non ha il senso del collettivo». Dalle nuvole alle zolle accidentate della storia. Alfatti ci mena per l’aria fresca del

mai conosciuto – quello anglosassone: nessuna velleità ideologica di stampo marxista, neanche una briciola di luoghi comuni. Bandita ogni retorica. Non c’è in lui rabbia né frustrazione. La lotta di classe non lo sfiora, non è affar suo. Della società se ne frega e ne è ricambiato con reciproca soddisfazione. In confronto a lui Paperino è un arrivista». Ma di questa prattiana figliolanza «desiderosa di sentirsi inutile», il critico non trascura neppure l’eroe più avventuroso e disperatamente romantico cresciuto nel clima postbellico. Inquieto marinaio, un po’per piacere e un po’per bisogno, Corto Maltese emerge negli scritti di Appetiti come simbolico deracinè salpato verso un porto del tutto invisibile. Superstite in un mondo nel quale non può e non vuole fare scalo, Maltese è un proscritto. E qui, come in molti altri casi, Alfat-

fantasy, per farci cascare ogni volta nella cronaca rimossa del secolo scorso. Accade così per i tanti personaggi che dagli anni Sessanta ai giorni nostri, si accompagnano sempre in questo saggio in un’originale intrico di valor artistici e snodi storici. Da Nathan Never, per l’autore novello paradigma del modello sicurezza di Bossi e soci, a Dylan Dog, indagatore di incubi ben più concreti degli zombie come l’eutanasia e l’annoso dibattito che la sviscera. Inevitabile non lasciare queste pagine, con la sensazione di aver assistito a uno spettacolare detournement: tutti gli eroi a fumetti in campo a seminare scompiglio nell’ordine dei segni, negli altari della cultura officiata, a impadronirsi degli spazi vuoti per esprimere il non detto nella straniante fissità della singola tavola.

Ecco perché ridurre il lavoro di Appetiti a un’arguta controstoria ideologica sarebbe uno sgarbo imperdonabile. Ci perderemmo infatti ciò che forse più di ogni altro preme negli intenti del nostro. Gli eroi dei fumetti non sono null’altro che l’accettabile sineddoche dell’aspirazione umana. Una parte di uomini, che vivono ribelli, solitari, giusti, ad esprimere tutti gli altri. Conviviali per necessità, conformisti per spavento, prudenti per principio. Ma non ancora disposti ad abbandonare del tutto i propri sogni. Di gloria o di ozio che siano. Sono gli uomini che vorrebbero camminare da soli. Che poi rinunciano perché si chiedono: «Chi mai vorrebbe camminare con me?».


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