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speciale/nobel

ma, visceralmente legata a una summa di esperienze di chi l’ha delineata». Vogliamo divertirci a seguire questa lezione, correndo appresso a un piccolo cuy arrosto? Cambio di campo, sulle interminabili presidenziali che tra 1988 e 1990 avrebbero portato il creatore di don Federico a peregrinare per il Perù più profondo. A narrare è dunque suo figlio Álvaro, portavoce di quella campagnia. «Mio padre, malgrado la stanchezza, era psicologicamente adeguato a questo ritmo, e preferiva mille volte parlare nelle pubbliche piazze dell’interno che stare a Lima». «Invariabilmente doveva ballare il huayno con qualche donzella locale, e allora riportava alla luce i ricordi dell’epoca in cui, trenta anni prima, aveva fatto il giro della Spagna come membro di un gruppo di danza folkloristica peruviana». Unico problema, l’alimentare: «detestava il cuy per il suo aspetto di topo, ma aveva dovuto abituarsi a mangiarselo ogni volta che glielo mettevano davanti». Possiamo proprio immaginarcelo a rovesciare indietro la testa ribelle in cui si indovina il giovane capellone sposo di zia Julia, a degluire cuy con lo stesso amabile sorriso conigliesco per cui da ragazzo lo chiamavano Bugs Bunny e al Collegio Militare Leoncio Prado “il Coniglio della Morte”.. Un sorriso che, dicono, «lo precede quando entra in un posto». Forse a volte un po’ dolciastro, ma non bisogna dimenticare che la sua natia città di Arequipa ha dato il suo nome a un ”dolce di latte”famoso in tutte le Americhe.

Più difficile, magari, è vederselo volteggiare in poncho e cuffia multicolore al suono dolcemente sfiatato di sikus e zampoña, i caratteristici flauti di Pan andini. Lui, di cui l’impeccabile eleganza anglo-sassone fa dire in America Latina che «va vestito da premier europeo». Ma non è la sola esperienza insospettabile che emerge dalla sua bohème giovanile. Subito dopo il matrimonio, per mantenersi si mise a fare sette lavori tutti insieme. E

tra questi c’era anche una ricerca ”storica”tra i loculi di un cimitero di epoca coloniale, a «decifrare quanto dicevano le lapidi di quelle tombe e far liste con i nomi e le date» al macabro cottimo di un sol a morto. Un altro di quei sette lavori era la redazione di un testo di educazione civica per le scuole. Anche in seguito un po’ bohème lo è rimasto. Non ha vagabondato più tra i lavori, ma ha cambiato oltre 40 case. Ed erra tra le biblioteche, suo luogo

Tre curiose espressioni di Mario Vargas Llosa: lo scrittore peruviano (nella pagina a fianco con Roberto Saviano) ha sempre avuto un rapporto contrastato con i mass media prestandosi anche ad essere utilizzato per furiose polemiche

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di lavoro preferito. «Quella di Madrid, dove feci il dottorato, era tanto fredda che dovevo tenere il cappotto addosso. Quella Nazionale di Parigi aveva una collezione meravigliosa, ma i posti erano tanto stretti che non si poteva stirare le braccia senza sgomitare i vicini. Però una volta mi trovai seduta davanti Simone de Beauvoir. Quella del British Museum fu la mia favorita, finchè non l’hanno chiusa. Ma la più sorprendente è quella Pubblica di New York, l’unica al mondo dove per prestarti i libri non ti chiedono alcun documento. C’è un fracasso d’inferno, ma New Tork è New York». Qualche detrattore afferma che ha vagabondato anche tra le idee: dal breve esordio marxista alla lunga parentesi di militanza nella Dc peruviana degli anni ’50. Pronubi alcuni amici ma paradossale, visto che all’epoca aveva già perso la fede, per il contraccolpo dell’insidia ricevuta, bambino, da un frate pedofilo. Poi ci furono le simpatie castriste, fino a quando a Cuba non arrestarono il poeta Heberto Padilla. La socialdemocrazia. La finale conversione al liberalismo.

È un’evoluzione che in molti dicono che gli ha ritardato il Nobel per decenni e che molti altri si ostinano ancora a giudicare “incomprensibile”, ma che invece è perfettamente in linea con la sua passione per le“regole del gioco” e il ”dato nascosto”. «A volte gli economisti scrivono romanzi più belli degli scrittori», ha detto. Allevato dai nonni materni, coccolato dagli zii, e coniugato fin quasi all’incesto. La sua autobiografia del ’93 inizia la prima delle due vicende paralle-

le della sua vita con lo shock infantile di quando, a 11 anni, la mamma lo informa che il “papino in cielo”per cui prega tutte le sere è vivo e vegeto, e si è ripresentato. E la seconda con lo shock da adulto dell’affermato scrittore 51enne che sente alla radio il populista “presidente ragazzino” Alan García (38 anni) annunciare la nazionalizzazione ”paternalista” di banche, società assicuratrici e finanziarie. Tutte e due le storie finiscono infine con un simbolico viaggio verso l’Europa faro di libertà, sotto la premurosa tutela di una donna del clan Llosa: a Parigi a 22 anni con Julia; a Londra a 54, dopo la clamorosa sconfitta elettorale, con la seconda moglie Patricia, figlia della sorella di Julia, che era sposa del fratello di sua madre. Madre dei suoi figli, dopo essere stata la tenera tiranna che da ragazzina lo svegliava con bicchierate di acqua gelata in faccia «per farlo arrivare in tempo all’Università».

«Elogio della matrigna», è il titolo di un suo famoso divertissment erotico. Ma anche elogio della zia, elogio della cugina... Molte ipotesi sono state avanzate sulla misteriosa scazzottata che ruppe l’amicizia con Gabriel García Márquez, dopo la tesi di dottorato di “Varguitas” su Cent’anni di solitudine. Che Gabo ci avesse provato con Patricia, che l’avesse avverrtita su una sua relazione con una modelle americana, che avesse svelato come il mitico colonnello Aureliano Buendía in realtà era il nonno di Gabo… Ma c’è pure chi dice che Gabo gli tolse il saluto per aver scritto che sul libro aleggia «lo spettro dell’incesto»...


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