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cultura

pagina 20 • 28 ottobre 2009

In basso, la copertina del libro che raccoglie i due saggi di Weizman “Il male minore” e “Attacco legislativo”. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

editore Nottetempo ha raccolto in uno dei suoi agili volumetti due saggi brevi dell’architetto israeliano Eyal Weizman: Il male minore, che dà il titolo al libro e ne chiarisce subito il tema, e Attacco legislativo, in cui la discussione filosofica di questo tema si applica al conflitto tra lo Stato ebraico e i palestinesi. Nelle prime pagine Weizman ricorda la critica condotta da Hannah Arendt al concetto di «male minore» nel caso concreto dei Consigli ebraici: organismi attivi sotto il nazismo i quali, spesso nell’intento di limitare i danni, divennero loro malgrado veri e propri collaboratori degli aguzzini. A partire di qui, l’autore imposta una analisi-requisitoria in cui stupisce che non ritorni ancora il nome della Arendt: i concetti manovrati da Weizman finiscono sempre per intersecarsi con le analisi della pensatrice tedesca.

L’

Il bersaglio del libro è infatti l’idea che nella vita pubblica si possa eseguire un «calcolo del bene e del male» simile a quello che si compie in vista di fini circoscritti e “artigianali”. La legittimità di questo calcolo è il punto di partenza di ogni utopia: cioè di quella architettura della politica che, come la Arendt ha spiegato in Vita activa, tende indebitamente a equiparare l’opera dell’homo faber, che si muove tra mezzi e fini in forma di oggetto, alla radicale incontrollabilità delle interazioni umane. La questione si può poi afferrare anche dall’altro capo, come fa la stessa filoSulla sofa nello scritto violenza, constatando che l’agire basato sul criterio del male minore è tanto meno giustificabile quanto più si allontana l’obiettivo (il massimo della legittimità va appunto alla legittima difesa, il minimo invece al ricatto finalistico di organizzazioni che impongono ai loro membri piccoli o grandi delitti in nome di una palingenesi futura ma invisibile). Se dando conto del problema posto da Weizman insistiamo con i paralleli arendtiani, è perché il silenzio su questi paralleli - dopo l’iniziale citazione, circoscritta guardacaso alla storia ebraica è a nostro avviso spia di una delle più evidenti ambiguità del suo discorso: che punta subito il dito sui bersagli di sempre, ossia sull’Occidente in apparenza liberaldemocratico ma in realtà tecnocratico e sulla sua appendice israeliana. Sia detto chiaramente: molte delle critiche sono condivisibili. Ma è la visione d’insieme da cui scaturiscono a lasciarci diversi dubbi; e a suggerirci

Libri. Nottetempo rimanda in stampa due saggi brevi dell’architetto israeliano

Tra il bene e il male c’è di mezzo Weizman di Matteo Marchesini perché buona parte dell’opera arendtiana, pur essendo imperniata sulla denuncia dei machiavellismi contemporanei, si riveli salutarmente inutilizzabile ai fini dell’autore. Proviamo a spiegarci meglio. Weizman è

a un’agenzia non governativa etica, e questa agenzia deleghi allo Stato la sua pretesa di efficienza», e come questa alleanza tenda ad assuefarci ai conflitti a bassa intensità. Assuefazione pericolosa, perché «la durata complessiva» di simili con-

conclude che, dove è ancora possibile sfuggire al male minore, la scelta più feconda potrebbe essere quella di rifiutare l’aut-aut imposto e «non fare nulla», ci lascia quantomeno perplessi. E non perché noi si sia assetati di azione; ma per-

Molte delle critiche dell’autore sono condivisibili. Ma è la visione d’insieme a lasciarci dei dubbi e a suggerirci perché parte dell’opera della Arendt, da cui prende spunto, si riveli salutarmente inutilizzabile molto acuto quando, in un passo che fa da ponte tra il primo saggio “teorico”e il secondo “pratico”, osserva come negli scenari a metà tra guerra e controllo di polizia internazionale «lo Stato esternalizzi la propria coscienza etica

flitti potrebbe allungarsi a tempo indefinito «e, alla fine, potrebbero essere commessi più mali minori, con il risultato di un grande male raggiunto cumulativamente». Fin qui, dunque, l’analisi non fa una grinza. Tuttavia, quando l’autore ne

ché il 900, oltre a educarci sul rischio implicito in ogni omissione di soccorso, ci ha insegnato che esistono azioni capaci di spezzare il meccanismo di ritorsioni a catena da Weizman giustamente denunciato. Per dirla in modo più chiaro, c’è

una differenza essenziale tra il «non fare nulla», o anche tra il “fare” del pacifismo astratto, e le pratiche della nonviolenza: parola che Weizman, sintomaticamente, non pronuncia neanche per sbaglio - nemmeno per escluderne l’efficacia in situazioni di terrore. Anche di recente, l’Europa ha potuto sperimentare questa differenza. Davanti a una guerra in Iraq fomentata dalla menzogna, anziché puntare sulla richiesta di esilio per Saddam che il parlamento italiano appoggiò a maggioranza dopo un’azione nonviolenta dei radicali, i molti oppositori dell’amministrazione Bush vicini all’ipotesi Weizman mobilitarono le masse in nome di una astratta e inerte “pace”. Questa lacuna sulla diplomazia nonviolenta chiarisce perché Il male minore sia un libro stimolante ma in ogni senso discutibile; e lascia intuire perché l’analisi in situazione del secondo saggio si svolga secondo una linea non del tutto equa. Riferendosi alla repressione della seconda intifada e all’attacco contro Gaza a cavallo tra 2008 e 2009, Weizman denuncia la scelta israeliana di elasticizzare il diritto internazionale, abbassando patologicamente la soglia del vietato e creando complicità perverse tra ong, esercito, intellettuali. Fin qui, il timore è più che giustificato. Ma non è giustificabile che l’autore paragoni il diverso atteggiamento israeliano durante la prima e la seconda intifada, omettendo poi di paragonare le due intifade tra loro. Né è giustificabile che dopo una critica serrata alle organizzazioni internazionali puntelli la propria denuncia ricordando le risoluzioni Onu contro Israele, senza ricordare che le Nazioni Unite mantengono verso il mondo arabo un atteggiamento assai più indulgente.

Tuttavia, critiche puntuali a parte, la domanda di fondo che l’autore non smette di porsi lungo tutto il libro resta assillante e angosciosa: «Dovremmo discutere di diritto con gli avvocati militari, entrare nel calcolo economico della morte e della distruzione, del “corretto” rapporto di proporzionalità, e così anche nella battaglia sulla linea elastica? La nostra nozione di crimine deve necessariamente derivare da quella della legge esistente?». Difficile rispondere. Ma noi ci auguriamo che questo libro venga ristampato con l’aggiunta di un terzo saggio, in cui Weizman voglia analizzare l’unica azione pubblica capace di sfuggire all’aut-aut in modo non inerte: quella nonviolenta. Le sue «armi di attrazione di massa» possono talvolta produrre gli unici due eventi in grado, secondo la Arendt, di arrestare i peggiori effetti a catena della scena politica: il patto e il perdono.


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