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La differenza tra dittatura

di e h c a n cro

e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini

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Charles Bukowski di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 28 OTTOBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Berlusconi: «Si è autoescluso dal Popolo della libertà». Imperversano le ipotesi sull’esito di un grave scontro politico

Il tramonto di Tremonti

Serrate trattative tra il premier, Bossi e il Pdl.Tutto finisce con un comitato per controllare Giulio. Il ministero più importante è ormai delegittimato. Con tanti saluti al senso di responsabilità… PDL E PD: CRISI PARALLELE

«Anche il partito di Bersani è in crisi: serve una forza che unisca, non una che divida in due il Paese»

Chi mangia i suoi figli e chi li perde: il bipolarismo sta crollando di Giancristiano Desiderio l Pdl sembra il mitico regno dei figli di Crono in cui si nasceva vecchi e si moriva bambini. Su tutti, dèi e uomini, regnava Crono che divorava i suoi figli come il tempo divora gli anni. Il Crono del Pdl indubbiamente è Berlusconi: passano il tempo e le “morte stagioni”, ma il leader è sempre lì, come un conte Ugolino che addenta il “fiero pasto”. Ora tocca al figliol prodigo che già una volta andò via per poi rientrare a via XX Settembre, all’ombra della statua di Quintino Sella; questa volta, però, Giulio Tremonti ha contro di sé proprio Crono.

I

segue a pagina 2

Rutelli: «Comincia una nuova stagione» di Errico Novi

Il politologo Paolo Pombeni

«Lui non rimuove, licenzia» «Il premier si comporta come il capo di un’azienda» di Pierre Chiartano • pagina 3

Viaggio nel “popolo” del Carroccio

La Lega: tutti con Giulio. Forse L’elettorato lumbàrd non pare disposto alla guerra di Valentina Sisti • pagina 4

La maggioranza è diventata un vertice permanente. Sarà per la scarlattina di Berlusconi, ma Arcore è il crocevia attraverso il quale passano i destini di Tremonti e del governo. Lì Bossi è andato a cercare una ricomposizione del conflitto tra il premier e il suo ministro economico.Tremonti aspettava fuori dalla porta, pronto a entrare se il padrepadrone decideva di perdonarlo. Perché alla fine una mediazione, una pace si troverà, ma il destino di Tremonti è segnato: Berlusconi continua a «mangiare i suoi figli» o, più precisamente, eliminare i possibili successori. a pagina 2

La Corte d’Appello ribadisce la sentenza che tira in ballo il premier

Mills, condanna confermata «Il Cavaliere lo pagò e lui testimoniò il falso» di Marco Palombi

ROMA. Anche per la Corte d’appello di Milano David Mills è stato corrotto da Silvio Berlusconi per mentire o comunque celare la verità nel suo ruolo di testimone dei processi All Iberian e tangenti alla Guardia di Finanza, due procedimenti che negli anni Novanta videro coinvolti il premier e il suo gruppo. La corte presieduta da Flavio La Pertosa ha confermato la condanna di prima grado a 4 anni e sei mesi, accettando implicitamente quella versione dei fatti l’avvo-

cato inglese, mente e artefice della struttura segreta estera di Fininvest, ricevette dai manager della società 600mila euro per tacere davanti ai magistrati sulle pratiche illegali del gruppo. La condanna in Appello non cambia il destino dell’eventuale processo a Berlusconi dopo la bocciatura del Lodo Alfano: di fatto, non ci sono i tempi perché prima della prescrizione (aprile 2011) si possano celebrare i tre gradi di giudizio. a pagina 6

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

Dopo le primarie il Pd cambia pelle: i capigruppo lasciano. Marrazzo si dimette: addio alla politica

• ANNO XIV •

NUMERO

213 •

di Francesco Capozza

MILANO. Un «tragitto differente» rispetto al Pd è quello che vede Francesco Rutelli davanti a sé e a chi vorrà seguirlo. Dinanzi alla prospettiva di una «rottura nel Paese», e di un Pd che «ripercorre strade del passato», occorre iniziare un «tragitto differente», unendo «persone diverse che hanno culture diverse, ma la capa-

cità di mettersi al servizio» del Paese, un’Italia «operosa» che si contrapponga all’Italia «del rancore». Intanto il Pd cambia pelle (i capigurppo si sono dimessi per permettere il ricambio dopo l’elezione di Bersani) e Marrazzo si dimette e dà l’addio alla politica.

PARLA ENZO CARRA

RISPOSTA A PEZZOTTA

«Con Casini, ma subito»

Non temiamo il fattore Binetti

a pagina 8

di Gabriella Mecucci

di Luigi Zanda

Enzo Carra, uno dei politici vicini a Francesco Rutelli, non ne apprezza le ultime uscite. «Non lo capisco, non mi piacciono i proclami. E poi prima bisognava discuterne e capire le mosse di Bersani. No, per ora non seguirò Rutelli: semmai, mi interessa di più la Costituente di centro lanciata da Casini».

Caro Pezzotta, la tua lettera aperta pubblicata su liberal affronta questioni serie e importanti e sviluppa argomenti che in gran parte condivido. Anch’io non sopporto il dibattito politico quando diventa violento e intollerante. Anch’io detesto i “linguaggi aggressivi”, le “demonizzazioni”, le “intemperanze verbali”.

a pagina 8

a pagina 9

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 28 ottobre 2009

Scomuniche/1. Contro il Professore è stata pronunciata l’ennesima fatwa: la mediazione di Bossi ha un valore solo formale

Dieci piccoli indiani

Come nel giallo di Agatha Christie, Berlusconi punta a eliminare i candidati alla successione. Ora è il turno di Giulio Tremonti di Errico Novi

ROMA. Paolo Bonaiuti gonfia il petto, in campagna elettorale, quando enumera i leader del centrosinistra fatti fuori dal Cavaliere. Ma nell’entourage di Silvio Berlusconi nessuno si sofferma mai sulla lunga lista di presunti avversari interni o possibili aspiranti al trono che il premier ha infilzato in questi anni. Eppure l’elenco è forse anche più lungo del primo. Ricco di nomi illustri, di figure magari “compromesse” da mera onestà intellettuale. Ora rischia di finire in quell’elenco, per la seconda volta, Giulio Tremonti. Su di lui, il presidente del Consiglio è stato sul punto di avventarsi con cieca furia vendicatrice, almeno fino all’incontro di ieri sera ad Arcore “facilitato” ancora una volta da Umberto Bossi. La condanna sembrava già scritta: sarebbe stata eseguita con una formale messa al bando dal Pdl. «Giulio si è chiamato fuori dal partito», si è sentenziato nell’incontro celebrato sempre ad Arcore, lunedì scorso, con i triumviri. Non asseconda, il ministro, le correzioni di rotta richieste innanzitutto da Berlusconi prima ancora che da molti colleghi di governo, e dunque non avrebbe nemmeno più diritto di cittadinanza politica.

Da Palazzo Chigi arriva in mattinata l’ormai rituale nota di smentita: «Le frasi attribuite tra virgolette al presidente Berlusconi nei confronti del ministro Tremonti, apparse su alcuni quotidiani, sono destituite di ogni fondamento, mai pronunciate e neanche pensate». Quindi non è vero per esempio che l’altro ieri a Villa San Martino sarebbero risuonati anatemi del tipo «prendo un Draghi, un tecnico qualsiasi, e mando Giulio a casa». Nessun però nel Pdl sembra intenzionato a smentire alcune ricostruzioni, secondo cui il congedo del ministro dell’Economia avrebbe dovuto consumarsi giovedì della prossima settimana: per quel giorno a Palazzo Grazioli resta comunque convocato l’ufficio di presidenza del partito, e in quella sede potrebbe ancora essere deciso a maggioranza di avviare un nuovo corso per la politica economica del governo. Potrebbero essere messe in campo quelle proposte per «rilanciare l’ economia», dalla

road map per arrivare alla riduzione dell’Irap a un intervento sull’età pensionabile, che il responsabile del Tesoro considera incompatibili con lo stato di salute generale del Paese.

Avrebbe poco da scegliere, Tremonti, di fronte a un’iniziativa simile: sarebbe costretto o a riconsiderare quasi per intero la linea del rigore, aprendo di fatto a una gestione condivisa dell’economia, oppure a incassare una sostanziale “sfiducia ad personam”. Certo sarebbe una beffa, per lui, se il monarca assoluto Berlusconi ricorresse proprio agli strumenti della democrazia costituzionale per metterlo all’angolo. C’è qualcosa di spietato nella soluzione individuata al vertice del Pdl per chiudere il caso Tremonti. Delle numerose sentenze inappellabili emesse da Silvio contro i nemici interni questa sarebbe forse la più tremenda. Quanto meno lo sarebbe la sua esecuzione. In altre circostanze ci si è limitati tutto sommato a forme di isolamento dolce. L’elenco appunto non è breve e si possono citare solo i casi più eclatanti. Sono i piccoli indiani del berlusconismo.

Uno che ha pagato la sua ambizione politica fino a bruciarsi le ali per ben due volte è Claudio Scajola. Prima instancabile capo-macchina di Forza Italia e dimesso dal ruolo di coordinatore nazionale per aver allevato attorno a sé una vera e propria corrente interna, quindi autocondannato con un paio d’imscivoloni perdonabili (uno grave su Marco Biagi) e invitato a lasciare il Viminale. Non

Mangiare i figli o perderli: è il bipolarismo che crolla di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Mentre all’epoca se la dovette vedere solo con uno dei suoi fratelli di sangue politico, ossia quel Gianfranco Fini che da tempo ha offerto la sua testa e il suo partito in dono sacrificale per la continuità del regno di Crono. Chissà chi sarà la prossima vittima. Se ci si volta indietro si vede con chiarezza e distinzione quanti aspiranti leader o anche semplici uomini politici che volevano portare il loro contributo alla creazione di un bipolarismo decente sono caduti nell’oblio del tempo berlusconiano. Nessuno può avvicinarsi troppo a Berlusconi senza rimetterci la vita politica. Che stranezza: Berlusconi, proprio lui che è popolare e si concede volentieri ai bagni di folla, è inavvicinabile e intoccabile. Sopravvive solo chi non lo discute.

Tremonti Giulio non è uno qualsiasi. Forse, non sarà un “cofondatore”del Pdl, ma è difficile sostenere che non abbia contribuito alla nascita della Cdl prima e del Pdl poi dal momento che ha sempre interpretato il ruolo dell’uomo-cerniera prima recuperando la Lega alla Casa e poi legandola al Pdl. Oggi, però, il ministro dell’Economia si sente dire che si è messo «fuori dal Pdl». La discussione è ridotta a meno dell’osso: chi non condivide è «fuori dal Pdl». L’opinione diversa apre direttamente la porta di uscita dal partito di maggioranza relativa che dovrebbe essere la prima salda gamba del bipartitismo. Quale sarà il destino ministeriale e politico di Tremonti lo sapremo nelle prossime ore. Ciò che fin da ora si può dire è che è una storia che si ripete e ogni volta che si ripete, al contrario di quanto si possa immaginare, si indebolisce il bipolarismo invece che rafforzarlo. Per usare un’altra metafora: il Pdl, e chi lo impersona, ritiene di essere una sorta di macchina schiaccia sassi che distrugge chiunque si collochi fuori dalla sua area politica e culturale di riferimento. Ma l’esistenza dell’Udc che fuori dal Pdl cresce e non scompare dimostra che la logica talebana del bipartitismo infinito è già finita. Anche nel Pd si assiste al medesimo naufragio, sia pure con qualche modifica. La fine della breve stagione veltroniana è stata teorizzata proprio da D’Alema e Bersani come la ricomposizione di un altro centrosinistra. Dunque, il Pd per sua stessa volontà non è la seconda gamba del bipartitismo. Questa stagione si è chiusa o, come dice Rutelli, non è mai nata. Chi esce dal Pdl e dal Pd sa che oggi non si troverà né in mezzo a una strada, né in un deserto ma in un centro moderato che è la via obbligata per ridisegnare la democrazia dell’alternanza. Le parole di Silvio Berlusconi indirizzate al suo ministro dell’Economia assumono così, per una strana eterogenesi dei fini, il sapore di un nuovo programma politico-culturale: fuori dal Pdl e, si aggiunga, dal Pd. Il mondo bipolare come lo abbiamo conosciuto non è più ormai l’unico mondo possibile. È lo stesso “vecchio mondo”che, osservato in prospettiva, ci lascia intravedere il nuovo mondo. Ma la cosa più sorprendente è, se volete, un’altra: questa volta Berlusconi rappresenta il vecchio. Non è più ciò che supera, ma ciò che va superato. Alla fine Crono mangiò se stesso

poteva che essere deviata su una sorta di linea secondaria la promettente carriera politica di Roberto Formigoni, uno dei più titolati a raccogliere l’eredità del Cavaliere ma tenuto puntualmente a distanza dall’epicentro romano del potere. Che dire poi di personalità colpevoli semplicemente di esercitare un ruolo critico all’interno della maggioranza, come l’ex presidente del Senato Marcello Pera, oggi considerato inavvicinabile dai suoi timorosi colleghi di partito. Poteva andare peggio a un uomo di qualità ed esperienza come Beppe Pisanu: si porta sul groppone alcune analisi lucide sullo sbilanciamento a destra della coalizione e soprattutto l’inesistente colpa di non aver impedito i presunti brogli con cui l’Unione prodiana avrebbe vinto le Politiche del 2006.

Se non proprio inceneriti sono stati tutti energicamente dissuasi dal lanciare l’assalto al cielo del leader. In fondo la stessa cosa è successa a Gianfranco Fini, al quale è stato addirittura chiuso un partito. Nel suo caso la missione si è compiuta a metà, visto che il ruolo di presidente della Camera gli consente pur sempre una certa libertà critica. Anche Pier Ferdinando Casini è finito al centro del mirino per aver preteso di obbedire a un principio di coerenza anziché alle intimazioni ultimative: con lui però l’operazione è andata a vuoto, e oggi Berlusconi si trova a fare i conti con un partito moderato, l’Udc, dalle idee evidentemente più chiare rispetto al suo Pdl. Va però considerata anche una cosa: molte delle vittime del berlusconismo (si sono qui citate le principali, ma se ne potrebbero aggiungere tante altre, da Raffaele Della Valle in poi) non hanno avuto il coraggio di difendere i compagni di sventura. Oggi Giulio Tremonti non riceve alcuna solidarietà né da Scajola, che anzi è il capofila dei giustizieri pur avendo trascorso pessimi quarti d’ora, né da Fini, che pure si batte da tempo contro la mancanza di spazio dialettico all’interno del Pdl. È un errore che commettono quasi tutti, in nome di una cautela forse non del tutto comprensibile. Nessuno osa più insidiare il trono, dopo esserne stato brutalmente allontanato.


prima pagina E poi non ne rimase nessuno MARCELLO PERA Marcello Pera è stato presidente del Senato e, prima di uscire di scena, è stato indicato come uno degli spin doctor più influenti di Berlusconi

28 ottobre 2009 • pagina 3

Le abitudini del premier e il suo «saturnismo»

«È un uomo d’azienda, non rimuove, licenzia» «Ma dietro lo scontro con il superministro c’è anche un nodo politico»: dice Paolo Pombeni di Pierre Chiartano

BEPPE PISANU Beppe Pisanu, colonna politica di Forza Italia, fu “licenziato” da Berlusconi per la sconfitta elettorale del 2006. Il recupero, ora, all’Antimafia, è solo parziale

CLAUDIO SCAJOLA Claudio Scajola è pur sempre ministro, si dirà: ma la sua vera aspirazione era la leadership politica del Pdl, bocciata a più riprese dal padre-padrone del partito

ROBERTO FORMIGONI Formigoni aspirava alla guida del centrodestra: deve accontentarsi della Lombardia. E per di più deve strapparla con i denti alla Lega

GIANFRANCO FINI Gianfranco Fini, dalla presidenza della Camera, ha qualche difficoltà a fare battaglia politica interna. E poi, per combattere non ha più An, il “suo” partito

GIULIO TREMONTI Giulio Tremonti è l’ultima vittima: gli è stata fatale l’aspirazione di sedersi sul trono dell’imperatore, dopo la caduta. Con l’aiuto di Bossi

ROMA. Sulla peculiare personalità del premier e sul suo stile nel risolvere le dinamiche interne e politiche del partito di maggioranza, abbiamo voluto chiedere un parere al Paolo Pombemi, ordinario di Storia dei movimenti e dei partiti politici all’Università di Bologna. Formigoni, Fini, Tremonti: incomincia ad essere lunga la lista dei delfini del centrodestra dimissionati o ridimensionati politicamente dal premier. Potremo definirlo un saturnismo politico di Berlusconi o c’è un’altra chiave di lettura possibile? Penso che sia una questione più politica che personale. Una vicenda che segue due linee, da una parte Tremonti che difende il suo prestigio come economista conscio che non ci possiamo permettere nessun volo pindarico nella finanza. Dall’altro lato ci sono le esigenze del Pdl che ha bisogno di consenso, in vista delle elezioni regionali. Purtroppo spesso il consenso si raccoglie con delle regalie di denaro pubblico. Quindi niente di personale nell’eliminazione di ogni delfino si affacci all’orizzonte del premier? Non credo che il problema principale sia questo. Silvio Berlusconi è anomalo rispetto al mondo politico. Chi lo dovesse sostituire, non lo farà perché è riuscito a scalzarlo, se mai succederà perché il premier cambierà postazione istituzionale. Il premier non da l’idea di uno che si preoccupi di essere sostituito. Poco tempo fa il cavaliere si vantava di aver distrutto la carriera politica di numerosi leader del centrosinistra, non trova che la lista di “terminati”cominci a essere lunga anche nel recinto dell’attuale maggioranza? È tipico di certe personalità politiche che hanno successo, indipendentemente dall’origine della loro forza. Questo tipo di persone non tollerano l’idea di avere intorno persone alla pari. C’è una famosa frase di Pio XII che recitava «Non voglio collaboratori, voglio aiutanti» un modo per sottolineare la necessità di aver vicino persone che facciano ciò che decide il leader. È un atteggiamento tipico della psicologia di certe persone. L’affermazione attribuita al premier, ieri, «Tremonti è fuori dal

Pdl», non denota uno stile al di fuori di qualsiasi canone democratico? Verrebbe il paragone con Vladimir Putin, ma il premier russo sta più attento alla forma, ultimamente. È chiaro che uomini che vengono da esperienze aziendali – dove il padrone è il padrone – tendono a travasare anche in politica questo modo di fare. C’è da dire che Berlusconi sembra molto irritato dal fatto che il ministro del Tesoro non tenga conto delle esigenze di raccolta di consenso. Specialmente al sud, che è abituato ad avere regalie, senza porsi problemi di finanza pubblica. Non è un caso che Tremonti sia difeso dalla Lega, che ha elettori più vicini all’Europa e a un certo rispetto dei canoni di spesa. Conoscono i danni causati da una finanza statale fuori controllo. In difesa di Tremonti è sceso in campo anche il presidente della Camera Gianfranco Fini oltre la Lega. In questa vicenda bisogna vedere quanto Bossi sia disposto a fare per difendere Tremonti. È come per l’uso dell’atomica, se si va fino in fondo si otterranno certi obiettivi, ma Berlusconi ne uscirebbe ridimensionato. Il cavaliere non è disponibile ed è abbastanza irresponsabile per non tenere conto delle conseguenze. Alla fine ci potrebbe essere un forte scossone. Non le sembra che il premier tratti con i gestori di consenso, vedi Lega e in parte Formigoni, e vada per le spicce con i ”nominati”? Il cavaliere si porta dietro la mentalità da imprenditore. Valuta chi ha di fronte a seconda della forza che esperime. Chi ha consenso, ha un potere da spendere di cui Berlusconi tiene conto, il ”nominato” è solo un professionista che può essere licenziato. Che danni può provocare a una democrazia questo stile politico? Il danno è commisurato alle persone. Cacciare il custode del rigore nei conti pubblici ha ricadute pesanti. In altri casi può non essere così. Nella prassi democratica va distinta la figura del tecnico da quella di politico. Il tecnico è difeso solo dal suo prestigio personale. Berlusconi cerca di avere intorno un mix tra politici e professionisti, ma prefersice gli ultimi, perchè facilmente licenziabili.

Ci sono leader di successo che non tollerano l’idea di avere intorno persone alla pari. E per questo le combattono


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Scomuniche/2. Il ministro dell’Economia è ancora al suo posto, ma già circolano i nomi di chi potrebbe sostituirlo

Il fantasma di Draghi

Parte il toto-successore nel caso Tremonti non rimanga. E da questa partita dipende anche il futuro della Lombardia di Riccardo Paradisi ll’interno del Governo «Non c’è alcun braccio di ferro tra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ed il ministro dell’ Economia, Giulio Tremonti». Non è un compito agevole quello del ministro della Difesa e coordinatore del Pdl, Ignazio La Russa. Dire che tutto è sostanzialmente tranquillo mentre all’interno della maggioranza è in corso la tempesta quasi perfetta che ha come epicentro proprio i rapporti tra il premier e il ministro dell’Economia, è davvero impegnativo.

A

Considerando soprattutto il nuovo faccia a faccia tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi a villa San Martino ad Arcore. Dove Il leader della Lega nord è andato accompagnato dal capogruppo del Carroccio alla Camera Roberto Cota. Incontro che ha proprio la funzione di sbrogliare la matassa e allentare le tensioni nell’esecutivo: dal puzzle delle regionali al caso Tremonti. Due questioni che si condizionano a vicenda come vedremo. Intanto Giulio Tremonti si è reso invisibile. Ha cancellato tutti gli appuntamenti dalla sua agenda, se ne sta defilato, misurando quanto all’interno del Pdl si vogliano davvero le sue dimissioni. Soprattutto quanto e quando le gra-

direbbe il premier, che con lui sembra davvero molto arrabbiato: «Mi aveva assicurato che nessuno in Europa avrebbe tagliato le tasse, invece in Francia e Germina lo fanno. E poi viene a dettare legge in casa mia». A Berlusconi Tremonti non piace più. Però, come dicono gli amici del ministro, di Tremonti «è più facile parlarne male che farne a meno». Con chi sostituirlo infatti? Il 29 ottobre è la «giornata del risparmio». All’annuale incontro a palazzo della Cancelleria, sponsorizzato dalle Casse di risparmio, sono previsti due interventi, quello di Tremonti e quello del governatore di Bankitalia Mario Draghi. Se l’anno scorso tra i due sono volate stilettate che cosa c’è da aspettarsi quest’anno visto che uno dei nomi che si fanno nell’entourage berlusconiano per un’eventuale sostituzione di Tremonti è proprio quello di Draghi? Mario Draghi è il nome che nel caso di dimissioni di Tremonti è quello che si fa più spesso. Il governatore della Banca d’Italia in effetti potrebbe essere uno dei pochi, se non forse l’unico, a sostituire Tremonti senza lasciare scoperti quei rapporti vitali per il governo che sono le relazioni con l’Europa e le fondazioni

I malumori lumbard

T ut t a la L eg a i n c ampo p er di fe nd er e l a poltro na di Giulio . Forse

di Valentina Sisti

bancarie. Un ruolo che potrebbe assolvere anche Mario Monti, che infatti è l’altro papabile, almeno nei rumor e nelle indiscrezioni, che potrebbe essere candidato a un’eventuale successione a via XX settembre. Senonchè sembra improbabile che soprattutto Draghi possa essere interessato ad accettare un’offerta simile in un momento incerto come l’attuale. Per questo c’è chi non esclude un colpo di teatro azzardando l’ipotesi che Berlusconi possa chiedere a Luca Cordero di Montezemolo di entrare nell’esecutivo nel ruolo di ministro dell’Economia. Ma questo sembra davvero uno scenario ardito, considerando anche il fatto

nella pubblica amministrazione e l’attuale ministro del Welfare Maurizio Sacconi, che gode buoni rapporti con il sindacato. Un’entratura fondamentale a fronte di un’autunno che con le temute ristrutturazioni aziendali si annuncia molto caldo. Si dà il caso però che nessuno dei due scalpiti troppo per sostituire Tremonti. Con Sacconi Tremonti ha un asse di ferro mentre Brunetta sa che 3 milioni e mezzo dello scudo fiscale dovrebbero finire negli aumenti agli statali senza i quali lui non riuscirà mai a chiudere la riforma sulla Pa. Si spiega anche così la difesa a spada tratta di Tremonti da parte di

l’Economia infatti non è indipendente dalla trattativa del Carroccio per il Lombardo-veneto.

che Montezemolo non gode di grande popolarità negli ambienti berlusconiani. Un’ipotesi low profile è anche quella di lasciare il timone Vittorio Grilli, direttore generale del ministero del Tesoro. Nel totoministro che si sta facendo dentro la maggioranza è stata fatta anche l’ipotesi di una successione interna all’esecutivo: Renato Brunetta, gradito a Confindustria per la sua azione

Brunetta: «È il miglior ministro dell’Economia d’Europa, ha affrontato al meglio questa crisi sociale, fiscale e bancaria con gli ammortizzatori giusti». La difesa di Bossi e la reiterata sponsorizzazione leghista per una promozione a vicepremier non aiuta però Tremonti. Su cui pesa anche la partita delle candidature per le regionali di marzo. Il ruolo dell’attuale ministro del-

Si perché il fuoco concentrato finora sulVeneto potrebbe essere un falso scopo e la Lega potrebbe invece puntare proprio alla presidenza della Lombardia. Regione che Berlusconi cederebbe volentieri alla Lega ottenendo così senza colpo ferire la chiusura del caso Galan in Veneto e avendo in Lombardia un governatore leghista amico, come Castelli o Maroni. Insieme a un ridimensionamento territoriale di Tremonti. Sarebbe la quadratura del cerchio anche per Bossi: metterebbe le basi per una Baviera leghista ed eviterebbe che la Lega veneta, con cui i lumbard non sono mai andati troppo d’accordo, assuma troppo potere inVeneto e sistema. E Formigoni? A Roma finalmente dove il governatore della Lombardia sogna di venire da tempo temendo il logoramento al vertice di una regione che rischia di diventare il suo orto concluso. Ma è a gennaio che queste linee di tendenza avranno i loro esiti. Per questo c’è chi dice che la situazione di Tremonti resterà in stallo fino a quando questo puzzle del nord non troverà adeguata sistemazione.

MILANO. «Il rapporto fra Umberto e Tremonti è antico e profondo, e coinvolge anche le rispettive consorti, Manuela e Fausta. L’attacco a Tremonti l’ha visto come un affronto personale»: Giuseppe Leoni è amico di casa Bossi, non foss’altro perché è stato lui ad arredare la nuova dimora del senatur a Gemonio. La sua lettura della battaglia di Bossi sul ministro dell’Economia va sul piano personale. «Umberto gli vuol bene e lo difende, anche se nella Lega in molti sono gelosi dello spazio che Tremonti si è ritagliato con il partito». Ma anche Leoni è convinto che «non ci sarà rottura, alla fine si metteranno d’accordo. Umberto è consapevole della posta in gioco e non ha voglia di far cadere il governo, né tantomeno di elezioni anticipale».

con più forza lo suo scettro del comando. Con il Pdl, ma anche nel Carroccio stesso. Bossi non ha dimenticato, infatti, la vicenda di cinque anni fa che vide Tremonti costretto a lasciare, per l’aut aut di Gianfranco Fini imposto a Silvio Berlusconi, il quale non esitò a sostituirlo con Domenico Siniscalco. Bossi era in ospedale, fuori gioco, e Calderoli e Maroni dovettero abbozzare. Ma ora la Lega ha accresciuto le sue pretese, aspira a percentuali a due cifre e il braccio di ferro sul superministro dell’Economia gli consente di mostrare i muscoli. Nel pieno di una trattativa nella quale il ritorno di Fini nella plancia di comando del Pdl può rimettere in discussione tutto, dalla Campania al Veneto. Ma nessuno crede a un passaggio di Tremonti in quota Lega, non lo accetterebbe Berlusconi, innanzitutto, ma neanche al Carroccio conviene: Bossi punta solo a riportarlo all’ovile: una volta era

Giulio a garantire per Umberto, ora le parti sembrano invertite, e il senatur sa che questo non fa altro che accrescere il suo ruolo. Berlusconi nel colloquio di ieri mattina ad Arcore gli ha chiesto di non insistere sulla sua promozione, perché questo non fa altro che peggiorare la situazione. E Bossi non vuole tirare la corda più di tanto. Certo, anche la ”Padania” ieri titolava, con il senatur, «Sì a Tremonti vicepremier», ma nessuno dice che altrimenti è rottura. Nemmeno Bossi, l’amico del cuore di Giulio, figurarsi i suoi. Basta pronunciare la parola Tremonti e nessuno, fra i big del Carroccio, vuol dire una parola. Nessuno osa smentire il capo, ma neanche c’è chi è disposto a dare battaglia, sul ministro dell’Economia. Ed allora, quale sia davvero la posta in gioco lo si capisce da quanto si lascia scappare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, il quale ribadisce che il Veneto è della Lega,

Il governatore della Banca d’Italia potrebbe essere uno dei pochi, se non forse l’unico, a rimpiazzare Tremonti senza lasciare scoperti i rapporti con l’Europa e le fondazioni bancarie

In molti nella Lega però sono convinti che Bossi stia usando la vicenda Tremonti per esibire


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«Per la ripresa, le scelte in economia devono cambiare»: parla Massimo Corsaro

«Ma il Pdl ha un’altra politica» di Franco Insardà

ROMA. «Nessuno ha contestato a Tremonti quello che ha fatto. Si discute, invece, dell’opportunità che la linea di politica economica debba continuare a essere la stessa anche per il futuro». Sintetizza così il momento politico dei rapporti tra il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e la sua maggioranza, l’esponente del Pdl Massimo Corsaro. Onorevole Corsaro la vicenda è politica? Il fatto che il ministro dell’Economia, autorevole esponente del Pdl, abbia deciso o, addirittura, subito di farsi rappresentare e difendere dalla Lega in un confronto dialettico all’interno della maggioranza certamente non gli ha giovato sia in termini di equilibri interni sia in termini di disponibilità. Tremonti è un ministro del Pdl ed è giusto che le sue scelte siano valutate e concordate con il suo partito. Quella dell’economia non è una delega attribuita dal premier alla Lega. La personalizzazione del governo dell’economia come si coniuga con la condivisione dialettica auspica dai triumviri del Pdl? Fino a oggi Tremonti ha deciso tutto, la politica, invece, deve anche provare a fare le nozze con i fichi secchi, decidendo, cioè, dove raschiare il barile e dove aumentare le disponibilità. Bisogna capire come intervenire per intercettare la ripresa. A quale partito s’iscrive: a quello del rigore o a quello della spesa?

Dall’alto verso il basso: Giulio Tremonti, Giampaolo Grilli, Mario Draghi, Mario Monti, Luca Cordero di Montezemolo, Maurizio Sacconi

La mia formazione economica mi porta a considerare sempre che i bilanci si fanno tenendo presente i costi e i ricavi. Una scelta secca tra l’una e l’altra mi fa propendere per il rigore, perché gli effetti dell’aumento della spesa sarebbero negli anni dannosissimi, senza riuscire a risolvere il problema. È con Tremonti o con gli altri? Con la parte del partito che pensa che occorra cambiare sistema. Come si coniuga la politica economica dei tagli alle tasse con la linea di rigore voluta da Tremonti? La cura Tremonti ha funzionato e non è un caso che quelle scelte siano state adottate, magari con qualche mese di ritardo, a livello internazionale per fronteggiare la crisi. Ora si tratta di intercettare la ripresa. Con quali misure? Occorre che ci sia una maggiore disponibilità non dico a spendere, ma almeno a ragionare sulle scelte economiche da fare. Bisogna fare delle scelte di politica economica precise che non siano soltanto un taglio indiscriminato e orizzontale alla spesa. Il taglio dell’Irap e gli sgravi fiscali al-

lora sono manovre al di là da venire? Il taglio dell’Irap è prima di tutto una questione etica, perché da sempre ci siamo detti contrari a una tassa che fa pagare alle imprese dei soldi, dal momento che non riconosce la deducibilità fiscale delle spese del personale e degli oneri finanziari. Bisogna trovare un sistema alternativo per finanziare le regioni, basato su principi di maggiore equità. Nel programma dl Pdl si prevedeva di ridurre le tasse e poi? Non c’è dubbio che rispetto al nostro programma politico, presentato in una fase antecedente alla crisi, la si è dovuto registrare un rallentamento. Più tasse e più spese richiamano la politica del governo Prodi, non quella del Pdl e della Lega. In un’ipotesi del genere ci sarebbero pochi dubbi dei danni ai quali si andrebbe incontro. Pensa che Tremonti riuscirà a trovare un accordo con la sua maggioranza? La soluzione la troverà Berlusconi.

Il taglio delle tasse alle imprese è prima di tutto una questione etica: bisogna trovare un sistema alternativo per le Regioni

Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, dà consigli a via XX Settembre

Confindustria: «Via Irap e Irpef» di Francesco Pacifico

ma poi aggiunge, alla “padana”: «Speriamo che nel casino alla fine, arrivi la Lombardia...».

Eh sì, perché lo stato maggiore del Pdl ha già messo in cassaforte la regina del Nord per Roberto Formigoni, ma Bossi (al quale del Piemonte, in realtà, non interessa niente, perché sa che difficilmente un leghista potrebbe farcela) un pensierino alla Lombardia non ha mai spesso di farcelo. Certo, Formigoni ha buoni rapporti con l’Udc, mentre Bruno Tabacci e Savino Pezzotta insistono per rompere con il Carroccio. «Ma noi non abbiamo bisogno dell’Udc», replica il segretario della Lega lombarda Giancarlo Giorgetti. E forse non è un caso che il più tiepido nella battaglia per Tremonti sia Roberto Castelli, potenziale candidato del Carroccio. E se Umberto riesce a calmare Giulio, vuoi vedere che si prende anche la Lombardia? I leghisti, ma solo loro per ora, ci sperano.

ROMA. «Per le imprese questo è un punto importante: occorre predisporre un piano di riduzione della fiscalità e della spesa generale». Al direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli, non piace intervenire nelle scelte del governo. Figurarsi polemizzare con una maggioranza andata in frantumi proprio sulle tasse e che s’interroga già su chi potrebbe sostituire il tributarista pavese alla scrivania di Quintino Sella. Eppure Galli non nasconde che «sarebbe un bene per tutti trovare un accordo per ridurre l’Irap». A quanto dovrebbe ammontare il taglio dell’Irap? Non voglio dare numeri. Bisognerebbe realizzare un progetto fiscale di medio termine, che con-

senta innanzitutto un taglio dell’Irap. Ma non sarebbe sbagliato guardare anche a un intervento sul carico fiscale dei lavoratori dipendenti. Il tutto in coerenza con i conti pubblici Dove si possono trovare le risorse necessarie? Si possono recuperare fondi intervenendo sulla spesa improduttiva. Oggi al Senato si inizia a discutere degli emendamenti alla Finanziaria. E noi auspichiamo che si mettano in campo interventi per sbloccare il problema dei pagamenti della pubblica amministrazione verso le aziende. È tutto fermo? Al momento si stanno chiudendo i pregressi delle amministrazioni centrali. Che però sono una minima parte rispetto al mare magnum dei 60 miliardi di euro complessivi dovuti alle imprese.

I fondi necessari per intervenire sui livelli di tassazione vanno innanzitutto recuperati ritoccando la spesa generale

Avete altre richieste? Auspichiamo anche la proroga di alcune misure che sono state decise con la Finanziaria del 2008 ma che vanno a scadenza a fine anno. In particolare sarebbe utile mantenere, ma rafforzandoli, gli incentivi per le aggregazioni delle piccole e medie imprese. Intanto L’Istat ha comunicato una crescita congiunturale della produzione industriale a ottobre dello 0,3 per cento. Il dato in verità è modesto. Soprattutto viene dopo un trimestre all’insegna di variazioni positive. Il che ci indica che non si ripeterà lo stesso recupero dei livelli di produttività registrato negli ultimi quattro mesi. Di conseguenza? In altre parole, non rivedremo il dato, molto positivo, del terzo trimestre. Direttore Galli, per l’Italia la ripresa è ancora un miraggio? No. I livelli di attività precedente alla crisi segnavano un 21 per cento in più. Quindi se è vero – e lo è – che si è arrestata la caduta, restano imprevedibili i tempi di ripresa. Che saranno lunghi.


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diario

Testimonianze. La Corte di Milano ribadisce la condanna che chiama in causa direttamente il premier Berlusconi

Mills fu corrotto. È confermato L’Appello: «L’avvocato disse il falso perché pagato dalla Fininvest»

ROMA. Anche per la Corte d’appello di Milano David Mills è stato corrotto da Silvio Berlusconi per mentire o comunque celare la verità nel suo ruolo di testimone dei processi All Iberian e tangenti alla Guardia di Finanza, due procedimenti che negli anni Novanta videro coinvolti il premier e il suo gruppo. La corte presieduta da Flavio La Pertosa ha confermato la condanna di prima grado a 4 anni e sei mesi, accettando implicitamente quella versione dei fatti (per i particolari bisognerà attendere le motivazioni): l’avvocato inglese, mente e artefice della struttura segreta estera di Fininvest, ricevette dai manager della società 600mila euro per tacere davanti ai magistrati sulle pratiche illegali del gruppo. Questo “racconto”, si ricorderà, nasce da prove dovute in parte allo stesso Mills: è lui che in una lettera del febbraio 2004 al suo commercialista parla del“regalo”fattogli dagli uomini di Berlusconi per “il modo in cui avevo saputo testimoniare (non avevo mentito, ma avevo saputo evitare punti spinosi, per dirla in modo diplomatico)” che aveva “tenuto il signor B. fuori dai guai nei quali avrei potuto cacciarlo se avessi detto tutto quello che sapevo”. Nel luglio dello stesso anno, interrogato dai magistrati italiani, confermerà questa versione e dirà che i soldi gli furono versati dal manager Fininvest Carlo Bernasconi: “Mi disse che Silvio Berlusconi, a titolo di riconoscenza per il modo in cui io ero riuscito a proteggerlo nel corso delle indagini giudiziarie e dei processi, aveva deciso di destinare a mio favore una somma di denaro”. Passano altri quattro mesi e Mills ritratta sia la lettera che il verbale di interrogatorio: quei 600mila dollari, sostiene, glieli diede un altro cliente, l’armatore Diego Attanasio (che però smentisce).

Come che sia, in sole quattro udienze, la Corte d’Appello ha dato il suo consenso a questa versione dei fatti, rifiutando tutte le richieste della difesa e sancendo per la seconda volta – ancorché indirettamente – che il presidente del Consiglio è un corruttore. Alessio Lanzi, uno degli avvocati di Mills, è stato molto duro dopo il verdetto: “Credo che questa sia una decisione che mette a dura prova la nostra fede nella giustizia”. Federico Cecconi, altro membro del collegio di difesa, preannuncia l’ovvio ricorso in Cassazione: “Non è finita qui: riteniamo di avere elementi forti per riformare la sentenza”. Al di là della ricostruzione della vicenda, in realtà, il vero scontro giuridico – e prossimamente politico – riguarda i tempi di prescrizione del reato, che sono prossimi. L’accusa ha fissato il reato nei primi mesi del 2000, quando la somma frutto della corruzione

di Marco Palombi

In attesa della decisione sul ricorso del Cavaliere

Lodo Mondadori sospesa la multa MILANO. Il presidente della Seconda Sezione della Corte d’Appello di Milano ha sospeso in via provvisoria l’efficacia esecutiva della sentenza sul «lodo Mondadori». Come si ricorderà, il Tribunale di Milano, il 3 ottobre 2009, aveva condannato la holding della famiglia Berlusconi a pagare 750 milioni di euro nella causa Cir/Fininvest. Del resto, la sentenza civile recepiva quella penale che aveva condannato in via definitiva Cesare Previti e il giudice Vittorio Metta, colpevoli di aver pilotato in modo illegale la vendida di Mondadori a Finivest. «Il presidente della Seconda Sezione della Corte d’Appello di Milano, con provvedimento inaudita altera parte, ha oggi disposto, in via provvisoria, la immediata sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza emessa dal Tribunale di Milano il 3 ottobre 2009 nella causa Cir/Fininvest», si legge nel comunicato emesso dalla Fininvest, che conclude aggiungendo che l’udienza in Camera di Consiglio per la decisione definitiva sulla istanza di sospensione presentata appunto da Fininvest è stata fissata al 1° dicembre.

venne usata da Mills: in questo caso il reato si estingue in dieci anni (erano 15 fino all’approvazione della legge Cirielli, nel 2005) e quindi, secondo i calcoli, alla fine di aprile dell’anno prossimo. Le difese però eccepiscono che, ammesso che quella somma fosse il prezzo del silenzio dell’avvocato inglese, il reato avvenne nel 1998, cioè al momento in cui Finivest pagò i 600mila dollari: in questo caso tutta la vicenda sarebbe già prescritta dall’anno scorso. I tempi, in ogni caso, sono strettissimi: stando ai si dice, la Corte depositerà le motivazioni a tempo di record, entro 15 giorni, dopodiché la difesa avrà 30 giorni per ricorrere in Cassazione e quest’ultima solo quattro mesi per arrivare alla sentenza definitiva.

E qui rientra in ballo Silvio Berlusconi, corruttore non condannato. Il processo a suo carico – dopo lo stralcio dovuto al Lodo Alfano – dovrebbe ripartire da zero entro quest’anno: nonostante la prescrizione sia stata interrotta proprio dal Lodo (e scada quindi nell’aprile 2011) è impossibile che una sua eventuale condanna diventi definitiva, ma una in primo grado basterebbe per renderlo un impresentabile in qualsiasi consesso internazionale. Nel palazzo si dice che Niccolò Ghedini, che ha già definito “illogica” la sentenza di ieri, abbia già pronta, oltre alla difesa tecnica, anche quella “politica”: un testo, da approvare in qualche settimana, che chiarisca senza ombra di dubbio che la prescrizione va applicata “in favore” dell’imputato. Tradotto nel processo Mills: il reato è avvenuto nel 1998, alla consegna dei soldi, quindi è prescritto da più di un anno. Altra norma su cui si dovrà accelerare è quella che prevede l’inutilizzabilità delle sentenze passate in giudicato in altri processi. Risultato: tutta la vicenda Mills andrebbe ricostruita fin dall’inizio nel dibattimento in cui Berlusconi è imputato. Il legale deputato e il Guardasigilli devono muoversi in fretta, in Senato, già nelle more della sessione di bilancio: di tutto il pacchetto giustizia – riforma del processo penale e ddl intercettazioni compresi - discuterà già nel tardo pomeriggio di oggi la Consulta della Giustizia del Pdl (una riunione prevista ieri è stata appunto spostata a questa sera).


diario

28 ottobre 2009 • pagina 7

Il presidente Jannotti Pecci si scaglia contro il boom di finte strutture

Il paziente, 56 anni, era già affetto da patologie croniche

Federterme: troppe Spa sono semplici centri relax

Influenza A, seconda vittima al Cotugno di Napoli

ROMA.

L’industria termale chiede un bollino di garanzia contro le troppe “imitazioni”. Il j’accuse è stato lanciato dal presidente di Federterme, Costanzo Jannotti Pecci, all’assemblea generale dell’associazione tenutasi ieri a Roma. Jannotti Pecci si è scagliato contro «l’utilizzo improprio ma sempre più diffuso, ancorché contra legem, del termine Spa da parte di iniziative di estetica e di relax, prive di alcun collegamento termale».

Una tendenza che «contribuisce a far crescere la confusione tra i consumatori» tanto che il leader di Federterme ha chiesto «al governo di intervenire contro quella che è a tutti gli effetti pubblicità ingannevole». Federterme ha annunciato che sono in crescita i ricavi del settore termale italiano, forte di 378 tra aziende e stabilimenti. Nel 2008 gli incassi ha raggiunto quota 774 milioni di euro con un aumento del 3 per cento rispetto al 2007. A tirare è soprattutto il comparto specifico delle cure termali, giunto sempre nel 2008 a 419.269 milioni di euro, con un +2,5 per cento su base annua. Questi alcuni dei dati diffusi oggi da Federterme nel corso dell’Assemblea 2009 dell’organizzazione confindustriale. Ha superato i 118 milioni di euro, invece, i rimborsi concessi dal Sistema sanitario nazionale per le prestazioni termali

Evasione, blitz del Fisco contro le banche svizzere Nel mirino le filiali in Italia e San Marino degli istituti elvetici di Franco Gaudio

ROMA. Accanto alla nomina di viceministro, Giulio Tremonti dimostra di avere un altro pallino fisso: scardinare l’ostruzionismo della Svizzera allo scudo fiscale. Ieri c’è stato un blitz dell’Agenzie delle Entrate in settantasei filiali di banche svizzere e di uffici bancari collegati a intermediari elvetici o situati nei pressi di un altra “caverna di Ali Baba”, come la chiama il ministro, cioè San Marino. Un blitz in piena regola, con centinaia di finanzieri e funzionari del Fisco all’opera per tutta la giornata di ieri. Ma, a quanto pare, questo non sarà l’ultimo.

Va da sé che i rapporti tra Roma e Berna sono destinati soltanto a peggiorare. Al prudente ministro delle Finanze elvetiche, Hans-Rudolf Merz, non è bastato mandare segnali di distensione verso il suo collega italiano: «La Svizzera», ha detto ieri in un’intervista al Sole 24Ore, «è pronta a collaborare con tutti i Paesi che lo desiderino, e spero che l’Italia e il ministro Tremonti lo desiderino quanto noi». Come si sa, il governo punta molto sui fondi da far rientrare con lo scudo per avere risorse fresche contro la crisi. Ma la cosa non va giù alla Confederazione elvetica, che rischia di perdere una fetta importante della sua clientela. Non a caso Merz, non nuovo a polemiche verso Roma, ha chiesto che «la Svizzera non deve figurare su nessuna black list in Italia. Le tre black list di cui dispone l’Italia saranno sostituite dalle white list, le quali avranno come criterio un effettivo scambio di informazioni ai fini fiscali». E a Tremonti che ha spesso lamentato l’eseguita della tassazione, ha fatto sapere: «Secondo il desiderio dell’Italia la Svizzera ha proposto la revisione della convenzione di doppia imposizione tra i nostri due Paesi, applicando gli standard dell’Ocse sullo scambio di informazioni. La palla è ora nel campo dell’Italia». Muro anche sul segreto bancario, messo a dura prova dopo l’accordo tra Ubs e gli Usa. «La protezione della sfera privata dei clienti svizzeri ed esteri delle banche contro gli inter-

venti ingiustificati da parte dello stato è assicurata. Il segreto bancario è mantenuto Le possibilità di accedere ai dati bancari da parte di autorità fiscali estere sono limitate a richieste concrete e fondate, inoltrate caso per caso». Senza dimentica che questa facoltà «non copre i reati fiscali né altri delitti o crimini. In materia di cooperazione internazionale, la Svizzera è un partner attivo. Noi siamo aperti al dialogo con l’Italia». Il blitz di ieri apre una serie di controlli a tappeto, che stanno molto a cuore al ministro quanto al direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera. I quali in più occasioni hanno ripetuto che dopo il termine ultimo di adesione allo scudo fiscale, lo Stato non avrebbe avuto più pietà nella lotta all’evasione. In una nota l’Agenzia delle Entrate hanno fatto sapere che al centro dell’operazione c’è il corretto adempimento da parte di banche e intermediari finanziari degli obblighi di comunicazione all’Archivio dei rapporti finanziari. Soprattutto per quelle che la legge 248 del 2006 e il decreto legislativo 231 del 2007 definisce operazioni svolte al di fuori di rapporti continuativi. Cioè i trasferimenti improvvisi di danaro tramite conticorrente diversi da quelli utilizzati di solito, assegni superiori ai 1.500 euro o pagamenti destinati fuori confine.

Da Berna il titolare delle Finanze, Merz, avverte Tremonti: «Pronti a collaborare, spero che il ministro lo voglia quanto noi»

convenzionate. Boom nel Nordest con 53,4 milioni di Drg. Promette aiuto al settore il sottosegretario alla Salute, Francesca Martini: «Credo che il termalismo debba avere un sostegno non solo nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale, ma anche a livello informativo, vale a dire tra i medici di famiglia, e questo perché può essere utile per la prevenzione e la riabilitazione». Aggiunge il direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli: «Giusto l’obiettivo del Governo di contenere la spesa sanitaria, ma alcune cure possono produrre notevoli risparmi».

NAPOLI. Seconda vittima dell’influenza A all’ospedale Cotugno di Napoli. Lo ha annunciato ieri all’AdnKronos Salute il direttore sanitario Cosimo Maiorino. Si tratta di un medico chirurgo del Policlinico universitario Federico II del capoluogo campano. Claudio Petrè, classe ’53, «era già affetto da patologie croniche», spiega il presidente dell’Ordine dei medici di Napoli, Gabriele Peperoni. Petrè era «affetto da uremia cronica, anemia, obesità e cardiopatia ipertensiva, è arrivato nel nostro ospedale il 26 ottobre in gravi condizioni da stress respiratorio per polmonite bilaterale, ed era positivo all’influenza A», ha confermato in una nota Maiorino. Il quadro

L’archivio, in vigore dal 2005 a oggi, ha finora censito 950 milioni di rapporti ed oltre 90 milioni di soggetti con operazioni extra-conto. Obbligati a comunicare i pagamenti a questa banca dati sono gli istituti di credito, le Poste, gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimento collettivo del risparmio, le società di gestione del risparmio e ogni altro operatore finanziario. In totale circa 13.000 operatori. Va da sé che in questa chiave finiscono in primo luogo le filiali italiane di banche svizzere e quelle di banche italiane di emanazione elvetica o comunque ricollegabili ad intermediari elvetici o con sedi territorialmente vicine a San Marino.

clinico «ha determinato la necessità di ricovero in Rianimazione e di ventilazione meccanica assistita. La causa della morte - conclude la nota - è stata la gravissima insufficienza respiratoria». Il decesso è avvenuto alle ore 11.45 circa di ieri.

«Il collega Petrè - ha spiegato una fonte del Dipartimento di Chirurgia generale, oncologica, bariatrica e videoassistita dell’Azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli - non era assolutamente in dialisi. Ha lavorato con noi fino a venerdì scorso, quando ha iniziato ad avvertire i primi sintomi», ha aggiunto. «Questo decesso - ha quindi sottolineato Peperoni - ci deve comunque far riflettere sull’opportunità da parte dei sanitari di aderire alla vaccinazione contro il virus H1N1». Intanto il viceministro alla Salute Ferruccio Fazio, ieri a Roma a margine di un convegno organizzato da Federsanità Anci sulla nuova influenza, ha fatto sapere che al vaglio dell’Unità di crisi contro la pandemia di nuova influenza A «c’è anche l’ipotesi di una vaccinazione per i parlamentari». Nel frattempo sta partendo la vaccinazione per le categorie a rischio di complicanze, come le donne nel secondo e terzo trimestre di gravidanza e i malati cronici fino ai 64 anni d’età.


politica

pagina 8 • 28 ottobre 2009

Divorzi. Il “fondatore” spiega le ragioni del suo addio al Pd: «Serve un partito che unisca il Paese, non uno che lo divida»

Rutelli, il nuovo inizio «Un tragitto diverso con altre persone» Ecco la squadra e i tempi dell’ex-sindaco di Francesco Capozza

MILANO. Un «tragitto differente» rispetto al Pd è quello che vede Francesco Rutelli davanti a sé e a chi vorrà seguirlo. Dinanzi alla prospettiva di una «rottura nel Paese», e di un Pd che «ripercorre strade del passato», occorre iniziare un «tragitto differente», unendo «persone diverse che hanno culture diverse, ma la capacità di mettersi al servizio» del Paese, un’Italia «operosa» che si contrapponga all’Italia «del rancore». Così il presidente del Copasir, intervenendo brevemente alla presentazione, ieri a Milano, del suo nuovo libro, La Svolta. Lettera a un partito mai nato, ha in pratica spiegato la sua uscita dal Pd. «L’Italia - ha esordito - sta conoscendo un cambiamento, uno spostamento politico di cui grande parte dei cittadini non si accorge, calata com’è in un conflitto che sta snervando il Paese».Tra un centrodestra «diventato destra» e un centrosinistra «imperniato nel Pd, che ritrova le sue fondamentali ragioni di sinistra riformista, alleato con il movimento dipietrista», occorre che «l’offerta politica nel nostro Paese sia cambiata da persone di buona volontà e razionalità, consapevoli che c’è un altro grande rischio dinanzi a noi: che l’Italia si divida». Occorre iniziare un «tragitto differente, unendo persone diverse che hanno culture diverse, capaci di mettersi al servizio» del Paese, ha quindi sottolineato l’ex vicepremier. Non sono bastate, quindi, le parole del neosegretario, Pierluigi Bersani, e l’invito alla riflessione da parte di Beppe Fioroni, a convincere Rutelli a dare un’altra chance al partito.

Non si è fatta certo attendere una reazione, seppur sommessa, da parte dell’Udc: «Se Francesco Rutelli riterrà di incrociare la nostra strada, sarà il benvenuto» ha detto il vice capo gruppo dell’Udc alla Camera Michele Vietti. «Credo che in questo momento - ha spiegato Vietti - vada rispettata la libertà di Rutelli, la maturazione della sua riflessione senza incalzarlo e senza stargli con il fiato sul collo. Se riterrà di incrociare la nostra strada sarà il benvenuto.

Enzo Carra: «Non lo seguo, prima bisognava discutere»

«Ma allora, è meglio subito con Casini» di Gabriella Mecucci

ROMA. Enzo Carra, descritto come uno dei politici vicini a Francesco Rutelli, non ne apprezza però le ultime uscite. «Non lo capisco - dice. Ho condiviso con lui alcune battaglie nel passato ma oggi quello che fa non è convincente». Che cosa non funziona? Non mi piace questa politica degli annunci che cercano l’effetto sorpresa. È un metodo che non mi convince. Le scelte devono essere discusse e preparate. E poi si fanno. Resta nel Pd, onorevole? Guardi, io sono stato fra i primi a valutare la possibilità di andarmene. Quando ho sentito certi proclami di Bersani, ho dichiarato che se fosse passata quella linea mi sarei chiesto: che ci sto a fare in un partito così? Ho fatto la mia battaglia in congresso e nella campagna delle primarie sostenendo lealmente Franceschini che era, fra i candidati, quello a cui mi sentivo più vicino. Abbiamo perso, adesso voglio vedere almeno le prime mosse del vincitore. Le scelte che presenterà il 7 novembre per formare la nuova rete di dirigenti. Non ho ambizioni personali, ma insieme ad altri amici, guarderò con attenzione le proposte di Bersani. Valuteremo attentamente e poi prenderò le mie decisioni. Non toglierò il disturbo prima di sapere davvero dove andrà il Pd, una forza politica che ho contribuito a fondare. E nella quale mi sono impegnato molto avendo anche ruoli di responsabilità. Rutelli va, in prospettiva, con Casini... Non ho capito bene. Leggo che vorrebbe costruire un gruppo parlamentare, ma ci sono i numeri? Per fare un gruppo occorrono venti eletti. Mi sembra che Rutelli cerchi

di staccarsi la targhetta di cattolico dopo averla voluta: ha detto di recente che con i teodem lui non c’entra niente. Ne deduco che voglia costruire un partito tipo la Margherita. Per la verità sembra voler andarsene dal centrosinistra... Sì, ma non capisco che farà. Vuol fare un gruppo, un partito che partecipi alla Costituente di centro? Non so. La Costituente è una buona proposta, ma bisognerebbe chiedere a Casini se è ancora dell’idea di farla. Quanto a Bersani, non gli leverò le castagne dal fuoco andandomene prima che abbia dato segni precisi della sua volontà.

Anche la Binetti ha detto che ora la palla passa a Bersani... Ho letto la sua intervista e ho visto che anche lei è molto prudente. Eppure ha una grande amicizia per Rutelli. Anche io ho condiviso con lui molto battaglie, ma questa volta non mi ha convinto. Insomma, non andrà con lui se fonderà un gruppo o un partito? La risposta è no. Dove va allora? Non vado con Rutelli. Potrei entrare nell’Udc, o meglio ancora, potrei prendere parte alla Costituente di Centro. Ma è tutto al condizionale. Prima di decidere, voglio vedere bene cosa succederà nel Pd.

MICHELE VIETTI

giorno dello strappo. Dunque il Pd farà a meno di lui, e Se Rutelli vorrà viceversa. Per il preincrociare sidente del Copasir la nostra strada, si apre la strada di sarà il un raccordo con benvenuto. Casini, Pezzotta e Per ora bisogna forse con quel rasrispettare semblement centrii tempi della sua sta come sogna Luriflessione senza ca Cordero di Monstargli con tezemolo. Proprio il fiato sul collo ieri mattina, dal popolare Beppe Fioroni, era arrivato un Siamo poi contenti - ha aggiun- invito esplicito a restare: «rito il parlamentare Udc - che fletta, quegli oltre due milioni e con Bersani abbia vinto la linea mezzo alle primarie sono un della non autosufficienza del dato che non può non essere Pd, che si pensi alla possibilità preso in considerazione». Allo di fare delle alleanze e si ragio- stesso tempo, l’ex ministro delni su con chi farle. L’Udc sarà l’Istruzione chiedeva a Bersani interlocutore del nuovo segre- di lavorare per evitare «fuoriutario, ma ricordiamo che ci so- sciti». «Se Bersani riuscirà a fano dei paletti difficili da supe- re questo non credo ci saranno rare: è nota la nostra alternati- liste di 10,15 o 20 che se ne anvità rispetto all’Idv e alla Sini- dranno». stra “radicale”».Tornando a Rutelli, l’ex leader della Margheri- Fuorisciti, o «fuoriuscendi», ta ha contestato alcuni articoli l’interrogativo è oggi quanti di giornale che ieri ricordavano seguiranno Rutelli nella sua la sua adesione a quattro parti- avventura, nel «Grande Centi (Radicali, Verdi, Margherita, tro» o «Kadima italiano», coPd). «Credo - ha sottolineato il me lo si voglia chiamare. Dopresidente del Copasir - che og- po la vittoria di Pierluigi Bergi nel Pd ci sono altre persone sani, l’area cattolica dei demoche hanno aderito a quattro partiti. Chi GIUSEPPE viene dal Pci è pasFIORONI sato al Pds, poi ai Ds e infine al Pd. Il Ma io lo invito problema è che ancora molti di questi sono a riflettere: convinti di essere quegli oltre sempre nello stesso due milioni partito mentre la die mezzo alle scontinuità del Pd è primarie sono stata la sfida alle un dato che sue stesse origini». non può non Rutelli, quindi, non essere preso in dice in modo diretto considerazione «me ne vado», ma di fatto ieri è stato il


politica

28 ottobre 2009 • pagina 9

Risposta a Savino Pezzotta sull’etica in politica

«No, non temiamo il fattore Binetti» di Luigi Zanda aro Pezzotta, la tua lettera aperta pubblicata su liberal affronta questioni serie e importanti e sviluppa argomenti che in gran parte condivido.

C

Marrazzo si dimette «Addio alla politica» ROMA. «Piero Marrazzo ha rassegnato le dimissioni da Presidente della Regione Lazio». Poco dopo le 17 l’ufficio stampa della giunta regionale ha comunicato la decisione adottata dal «governatore» di cui si è parlato per tutta la giornata. Lo showdown del giornalista non si è dunque avuto a novembre, come aveva lasciato intendere lunedì l’attuale reggente della giunta Esterino Montino, ma è arrivato subito. Già in mattinata si erano diffusi alcuni rumors che annunciavano un’accelerazione nella vicenda. La decisione ha un effetto politico immediato, ovvero la crisi e di seguito il voto anticipato, così come richiesto a gran voce dal Pdl. Nel pomeriggio era stato lo stesso Montino ad ammettere che l’uscita di scena fosse imminente: «Non posso essere categorico, ma credo che il presidente Piero Marrazzo si dimetterà entro oggi». A quel punto non si trattava più solo di rumors. L’Ansa, pochi minuti dopo la dichiarazione di Montino, ha diffuso le parole dello stesso governatore, raccolte da alcuni dei suoi collaboratori e poi da questi riferite all’agenzia di stampa: «Basta, voglio chiudere, non avere più nessun contatto con la mia vita politica». Una sorta di conferma indiretta, insomma, dell’addio imminente. Il centrodestra, del resto, ha presentato al ministro per i Rapporti con le Regioni, Fitto e al ministro dell’Interno, Maroni, un’interrogazione urgente nella quale si chiede di verificare l’esistenza della delega a Montino per l’esercizio delle funzioni. Ora si andrà ad elezioni, che sono comunque già fissate per marzo. «Tecnicamente abbiamo 90 giorni per indire le elezioni e poi 45 giorni elettorali, ovvero abbiamo di fronte un tempo di massimo 135 giorni». Per molti, però, si potrebbe derogare e farle coincidere con l’election day.

cratici è in fermento. «È una cosa seria, se il Partito democratico continua a marciare verso sinistra io me ne andrò» è l’avvertimento chiaro e deciso di Paola Binetti, esponente di spicco di quel gruppo di persone sempre vicine a Francesco Rutelli. Insieme a lei sarebbero pronti - chi con più, chi con meno tentennamenti a fare le valigie altri esponenti dell’area cattolica del Pd. Tra questi, certamente Andrea Sarubbi (giornalista Rai e deputato di strettissima osservanza papalina), Luigi Bobba, Enzo Carra (anche se con qualche perplessità sulle tempistiche, prima vorrebbe capire «cosa farà Bersani»), Marco Calgaro, che però negli ultimi tempi si è avvicinato ad Enrico Letta – quindi alla mozione del neosegretario – Andrea Marcucci e Claudio Gustavino, entrambi colleghi di Rutelli a palazzo Madama. Poi ci sono i rutelliani di non strettissima osservanza, che al momento rimarrebbero dove sono ma lasciando la porta aperta per un’eventuale exit strategy. Tra questi il tesoriere della Margherita Luigi Lusi, Gianni Vernetti e Renzo Lusetti, già più volte critico nei confronti del partito. Non si sa, invece, cosa farà l’ex ministro Linda Lanzillotta, da tempo vicina a Rutelli ma che al momento si nega alla stampa perchè «convalescente dopo un piccolo intervento chirurgico». Ma a seguire l’ex sindaco di Roma nel suo progetto «alternativo al Pd» sarebbero anche esponenti fino a poco tempo fa vicini alla maggioranza, su tutti Giorgio La Malfa, Paolo Guzzanti e, dicono, l’ex presidente del Senato Marcello Pera, ormai da tempo in rotta di collisione con il Cavaliere.

Anch’io non sopporto il dibattito politico quando diventa violento e intollerante. Anch’io, come te, detesto i “linguaggi aggressivi”, le “demonizzazioni”, le “intemperanze verbali”. Né ho mai pensato a quel Pd “chiuso e autoreferenziale”come tu, non so perché, mi attribuisci. Evidentemente quel che ho scritto nella lettera aperta a Paola Binetti, cui tu hai risposto su liberal, non era chiaro. Cercherò di spiegarmi meglio. Considererei gravissimo che la libertà di coscienza dei singoli parlamentari venisse in sottoposta, qualsiasi forma, alla disciplina di partito. Ma in un gruppo parlamentare la libertà di coscienza non può significare assenza di regole comportamentali. Né può spiegare la decisione di Paola Binetti di negare la fiducia al governo Prodi su un provvedimento che solo pochi minuti dopo lei stessa ha approvato. E neanche può pesare nel giudizio di costituzionalità. La costituzionalità di una legge è infatti questione tecnica, esclusivamente giuridica. E non può essere affermata o negata per ragioni di coscienza. L’abitudine di utilizzare il voto sulla costituzionalità per bloccare leggi non gradite è una stortura del Parlamento italiano. Quali sono, quindi, le questioni nelle quali può essere invocata la libertà di coscienza? Ad esempio l’aborto, il divorzio, la fecondazione, l’eutanasia, il matrimonio tra omosessuali. Questi sono temi che mettono in gioco valori profondi di ciascuno. In Parlamento è sempre necessario confrontarsi liberamente. Quando sono in gioco questioni importanti bisogna farlo con la massima ampiezza e con il maggior approfondimento possibile. Spesso sugli argomenti più delicati il Parlamento italiano discute per anni. Non è però pensabile che alla fine, terminata la discussione, non si arrivi a un voto che faccia emergere maggioranze e minoranze. A me è capitato di essere posto in minoranza, ad esempio recentemente sul federalismo fiscale. Ma non me ne sono sentito menomato. È ovvio che su temi di grande rilie-

vo etico l’orientamento della maggioranza non può vincolare il voto del singolo parlamentare. Ma la libertà di coscienza non esime (non solo nel Pd, mi sembra) dal dovere di prudenza e di attenzione nei confronti del proprio partito. Un voto di coscienza diverso dalla maggioranza del gruppo, se correttamente espresso, arricchisce la natura democratica di un partito politico. Ma se è eccessivamente esibito, brandito, il voto diverso può avere effetti distruttivi. Paola Binetti sa bene quanto io abbia sempre difeso la sua libertà di voto, anche quando la pensavamo diversamente. Ma sa anche quanto spesso le abbia suggerito cautela nelle interviste e nelle dichiarazioni alle agenzie di stampa che, quando si ripetono a getto continuo, hanno più a che vedere con le strategie di comunicazione o con le manovre politiche che con la libertà di coscienza. In qualche modo danneggiano persino la stessa causa che si vuole sostenere. Come al solito, gli eccessi provocano danni.

Infine, caro Pezzotta, permettimi un mio personale punto di vista. Conosco la rilevanza dei temi eticamente sensibili. Ma credo che dal punto di vista del bene comune non abbiano meno rilievo grandi questioni su cui in molti della classe dirigente del nostro Paese assistono con sostanziale indifferenza. L’inarrestabile deriva materialista della società. La mortificazione delle istituzioni democratiche a cominciare dal Parlamento, della Corte Costituzionale, della magistratura, degli organi di informazione. Tre milioni di italiani sotto la soglia di povertà alimentare. Il degrado dei costumi e il continuo superamento di ogni limite anche da parte di chi ha responsabilità pubbliche. La diffusione di delitti gravissimi come lo spaccio di droghe, anche pesanti, a bambini e giovani. I fenomeni di bullismo contro disabili, senza tetto e stranieri. La latitanza dello Stato in regioni dove le mafie la fanno da padrone come in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Ecco, credo che queste siano questioni di altissimo valore sociale che, immagino, interessino il nostro Paese e la coscienza dei cittadini, non meno dell’equiparazione dell’aliquota successoria tra coppie sposate e non.


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Polemiche. Una serie di brutti «Classici a fumetti» e la cattiva moda dell’aggiornamento generazionale

Poveri romanzi, ridotti a un sms! di Pier Mario Fasanotti pur vero che Conrad scrisse una frase fulminante come questa: «I lettori sono così stupidi che non vedrebbero il sole che splende, se non glielo indicassimo noi». Una provocazione, almeno mi auguro. Se non fosse un grande scrittore, sarebbe da prendere a schiaffi. In ogni caso prendere sotto gamba chi apre un libro è un’operazione volgare e impietosa: chi legge non dev’essere mai assimilato a un gruppo di idioti creduloni ai quali piace tutto. Va finire che quelli si vendicano, e lo conferma poi il mercato che, se premia principalmente i fabbricanti di best-seller, non importa se di bassa o inesistente qualità letteraria, è anche vero che fa salire nelle classifiche libri che non hanno il previo privilegio di un marketing aggressivo. Ma a proposito del curioso a tutti i costi, confinante con l’insulto o con il clima mental-

È

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

mente e culturalmente nevrotico che si respira oggi, c’è da segnalare un libricino della Cairo editore, intitolato Classici da leggere per chi ha fretta. È a fumetti, l’autore è Henrik Lange. Due paginette con tre disegni per ogni capolavoro, con didascalie che vorrebbero essere spiritosamente riassuntive.

Qualche esempio : Fahrenheit 451. Primo rettangolo: «Il pompiere Guy Montag brucia libri in una società fu-

Hilton. Bella roba la lettura!». Vorrebbe far ridere: penoso tentativo. Fa solo pena. Tra l’altro il micro-testo contiene errori sostanziali. C’è anche la Bibbia tra i classici. Prima vignetta: «In principio Dio creò l’intero ambaradam (niente vacanza)». Seconda: «Un sacco di tempo dopo: nasce il figlio di Dio (in vacanza!) che poi muore sulla croce per i nostri peccati (vacanza!)». Terza: «Tanto alla fine andremo tutti all’inferno. Forse». Da tenerci la pancia dalle

La collana, pensata e scritta da Henrik Lange è pubblicata dall’editore Cairo: un modo per annullare stili, profondità e fascino dei libri tura che ha messo fuorilegge la scrittura». Secondo: «Suo malgrado, il nostro pompiere si appassiona alla lettura. Quando viene beccato, uccide gli altri pompieri e scappa. In cerca di un mondo amico dei libri». Terzo: «Alla fine li trova quelli che non hanno mai smesso di leggere. Ma ci vorrà una guerra perché la lettura ritorni legale. Così nessuno si perderà l’ultimo libro di Paris

risate. Quegli «ingegneri dell’anima» che sono i grandi scrittori sono ridotti in pillole. No: in cacchette di capra.

Tutto all’insegna del far divertire, dello sberleffo utile non si sa a chi: forse ai lettori “forti” come il divulgatore culturale Antonio D’Orrico che sul Corriere della Sera si occupa del falso humour occupando (quasi) un’intera pagi-

na? Il recensore che a cadenza mensile annuncia di aver scoperto il salvatore delle belle lettere date per morte e sepolte (e cincischia sempre con Philip Roth, con parole che hanno un marchio para-religioso: tanta, e reiterata, è la venerazione) scrive: «Il Metodo Lange funziona e ha anche un’utilità sociale. Pensate a un male diffuso come l’analfabetismo di ritorno. Chi si ricorda più una riga di romanzi che credevamo, come il primo amore, di non scordare mai?». Parli per sé. Evidentemente ha labile memoria. O questa ah, il vezzo snobistico - l’attribuisce al volgo. Il libricino è il mirabile specchio di un clima: un misto di forzato, quindi non riuscito, umorismo e riduzione di grandi libri a Sms, per giunta privi di qualsiasi funzione comunicativa. Paul Valéry, a proposito del dovere della brevità, raccomandava: «Prendi l’eloquenza e tirale il collo». Applausi. Ma in questo caso si giochicchia con polli morti, con gran confusione di aie e di allevatori. Si richiede l’intervento dei Nas. Contro il puzzo, l’errore e il cattivo gusto.

Due libri celebrano i novant’anni dell’impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio

Il romanzo (fascista) del «poeta soldato» ovanta anni fa, Fiume. Lì l’ultima impresa del “poeta soldato”: Gabriele d’Annunzio. Il suo temperamento lo aveva portato a compiere gesti audaci e generosi, ma anche teatrali, come il volo su Vienna e la “beffa di Buccari”. Che cosa fu Fiume per l’inventore della “vittoria mutilata”? Il suo ultimo gesto da “poeta soldato”, la sua ultima recita pubblica, ma furono in tanti a seguirlo: altri poeti, altri soldati, arditi, sindacalisti rivoluzionari, avventurieri, nazionalisti che nella città adriatica parteciparono a un’impresa che nel bene e nel male cambiò la storia d’Italia. La città libera divenne il simbolo di un nuovo stile politico nel quale si fondevano e confondevano violenza e antiparlamentarismo, disprezzo per la democrazia e la borghesia, il culto del capo, l’esaltazione della giovinezza come valore in sé, ardimento. Tutto in una parola: antigiolittismo. D’Annunzio era l’antitesi di Giolitti: la demagogia contrapposta alla politica. La marcia su Roma nacque a Fiume.

N

Due libri ricordano oggi i novanta anni dell’avventura fiumana. Il primo è un romanzo ed è stato scritto da Gabriele Marconi: Le stelle danzanti (Vallecchi).

Il secondo è un saggio storico e autore ne è Giuseppe Parlato: Mezzo secolo di Fiume (Cantagalli). Il romanzo è un atto d’amore e ammirazione per gli arditi e il loro sogno. Il romanzo racconta le vicende di Giulio Jentile e Marco Paganoni, due giovani arditi che hanno stretto una salda amicizia al fronte. Dopo la vittoria, nel dicembre del 1918 si recano a Trieste per far visita a Daria, crocerossina ferita in battaglia di cui i due sono innamorati. Dopo alcuni giorni i due amici soldati ritorneranno alle loro famiglie, ma non per molto. L’inquietudine che si portano dentro non li lascia e nel febbraio del 1920 sono lì, a Fiume, per sé, per l’Italia, per Daria. La città bolle: patrioti, artisti, rivoluzionari e avventurieri di ogni parte di Europa affollano la città in un clima rivoluzionario e liberti-

no. La storia dei giovani scorre nella storia di Fiume e nella vita nazionale ed europea che c’è sullo sfondo. Ma perché la storia si diede appuntamento a Fiume? Perché proprio lì? Che cos’era Fiume e cosa divenne? Le risposte si possono leggere nel libro di Giuseppe Parlato che ci presenta Fiume come «un’amalgama di modelli politici e culturali». Quattro i modelli a cui fa riferimento lo storico: l’autonomismo, l’irredentismo antislavo, il dannunzianesimo, il sogno svanito. «Fiume è stata per mezzo secolo - osserva Parlato una sorta di laboratorio politico: autonomismo istituzionale e commerciale; irredentismo; sindacalismo rivoluzionario e primato dell’estetica nella politica; “fascismo di frontiera”. Dei quattro modelli, certamente quello che scomparve

per primo fu proprio quello che aveva caratterizzato Fiume per diversi secoli, l’autonomismo. Fu sconfitto dalla prima guerra mondiale, nell’ottica dei grandi stati nazionali e della politica delle masse».

Finita con la prima guerra mondiale e con la scomparsa degli imperi centrali l’autonomia della città adriatica, ecco il “fiumanesimo”. Un’invenzione di d’Annunzio che annuncia la fine del vecchio e l’inizio del nuovo mondo che porterà fascismo e totalitarismi. La “città di vita” divenne così l’espressione di uno Stato sindacal-rivoluzionario nel quale sistema corporativo, autonomie locali, diritti femminili, democrazia diretta, mito del capo carismatico, egualitarismo e difesa dei popoli oppressi contro i popoli ricchi si fusero in qualcosa che indubbiamente superava la semplice rivendicazione dell’italianità di Fiume. Il modello politico e più che politico elaborato a Fiume accomunò, poi, fascisti e antifascisti. Fiume fu un problema che Nitti non seppe risolvere, che Giolitti si illuse di aver risolto e che Mussolini utilizzò prima appoggiando con distacco d’Annunzio e poi abbandonandolo al momento del Trattato di Rapallo.


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Anniversari. Il tifoso della Lazio venne ucciso il 28 ottobre di 30 anni fa. Un libro di Maurizio Martucci ricostruisce la tragedia

Vincenzo Paparelli, il “racconto criminale” di Antonella Giuli ono sicuro che ci basterà leggere queste pagine per riflettere ragionevolmente. Per capire gli errori del passato, preservando l’elevata maturità oggi conquistata». Conclude così la sua breve introduzione il giornalista e scrittore Maurizio Martucci, autore del libro Cuore tifoso, appena pubblicato da Sovera edizioni (Roma, 16 euro).

«S

Oltre duecento pagine corredate di fotografie in calce al volume che, a trent’anni esatti dalla tragedia, ripercorrono meticolosamente l’uccisione di Vincenzo Paparelli, il giovane tifoso della Lazio che il 28 ottobre del 1979, nel corso del derby contro la Roma allo stadio Olimpico della Capitale, venne ammazzato da un razzo sparato dalla Curva giallorossa. Il volume ricostruisce pezzo pezzo non solamente quella drammatica domenica di sangue e quel che accadde nei giorni e mesi immediatamente successivi,

ma con l’aiuto dei racconti di Gabriele e Vanda (figlio e moglie di Vincenzo Paparelli), di alcune interviste a calciatori e testimoni dell’epoca, e di di-

di quella società romana della domenica (ma non solo) e dei differenti gruppi ultras che frequentavano e animavano lo Stadio alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta, dagli Eagles Supporters agli Irriducibili, dai Boys ai Fedayn.

Quel 28 ottobre del 1979 i coniugi Paparelli, giovani romani sostenitori biancocelesti, entrarono in Curva Nord per assistere alla partita. L’atmosfera di quell’in-

nero sparati in sequenza due razzi nautici ad alto potenziale. Volteggiarono in aria per circa 200 metri, attraversando tutto il rettangolo di gioco. Il secondo razzo colpì mortalmente al volto Vincenzo Paparelli, 33 anni, padre di due bambini. Fu il primo caso in Italia di un tifoso morto in uno stadio di calcio». E quel primo caso, quel tifoso morto in uno stadio di calcio, segnò una linea di demarcazione invisibile eppure così pesante che Gabriele, il figlio piccolo

In “Cuore tifoso”, non solo il dramma di quella domenica di sangue, ma anche una fotografia della generazione-ultras “interrotta” dal post 1979

verse testimonianze degli amici e della galassia ultras di ieri e di oggi, Martucci ci regala un vero e proprio fermo immagine di una generazione,

contro ce la racconta bene Martucci nella quarta di copertina: «L’attesa spasmodica dell’ingresso in campo delle due squadre, il clima bollente delle tifoserie organizzate, i cori dei primi gruppi ultras, il rullo dei tamburi, gli striscioni al fulmicotone per gli avversari». Poi la tragedia: «A circa un’ora dal fischio d’inizio, dalla Curva Sud giallorossa ven-

di Vincenzo Paparelli (appena 8 anni all’epoca), non è mai riuscito a oltrepassare lasciandoselo neanche per un momento alle spalle: «Gli anni della fanciullezza sono finiti lì - spiega Gabriele nel libro - dirò di più: tutti i miei 38 anni sono rimasti imprigionati intorno a quella giornata. Tutta la mia vita è come se si fosse stretta e poi racchiusa al momento in cui dalla Curva

Satelliti. Malgrado la condanna di Milano, Mediaset continua la battaglia contro Sky

La Rai va alla guerra del Biscione di Alessandro D’Amato ublitalia, la concessionaria di pubblicità delle reti Fininvest, ha tenuto un comportamento “anti-concorrenziale”rifiutandosi di mandare in onda lo scorso settembre le promozioni di Sky «al solo fine di avvantaggiare l’offerta di Mediaset Premium». Ma le reti Mediaset non saranno obbligate a riprendere la trasmissione della pubblicità perché l’autorità giudiziaria non ha il potere di imporre «vincoli contrattuali sostituendosi alla volontà delle parti». Che sia una vittoria di Sky, come dicono a via Salaria, o un pareggio, come ribadiscono a Cologno Monzese, la sentenza del tribunale di Milano che ha dato ragione al gruppo Murdoch non costituirà certo la fine guerra tra le reti per la conquista del pubblico televisivo. Un po’ perché la torta in ballo è troppo ampia per pensare anche solo lontanamente che qualcuno possa cedere. Un po’ perché in questo confronto il partito Rai-Set è più agguerrito che mai.

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se hanno pensato di cominciare ad oscurare i programmi incentivando così i telespettatori del satellitare ad abbandonare la piattaforma più conosciuta e diffusa e valutare strade alternative che stanno a cuore sia a Rai che a Mediaset. Soprattutto in questa fase in cui il digitale, che non sta rendendo molto felici gli italiani, visti i numerosi casi di inefficienza del segna-

La sfida della «pennetta» non penalizza le reti di Berlusconi ma solo l’azienda di Viale Mazzini che ormai lavora ad un futuro senza parabola

Le pubblicità di Sky su Mediaset torneranno, anche se non si sa quando. Ma intanto anche dalle parti di Cologno Monze-

le, potrebbe far orientare gli utenti verso il più pericoloso dei concorrenti. Nel frattempo la piattaforma TivuSat, nata grazie all’alleanza dei due colossi con quello che dovrebbe essere suo concorrente, La7, servirà a fermare, nelle zone del paese raggiunte da un segnale digitale debole, i telespettatori scontenti potrebbero facilmente andare a rinvigorire la già nutrita schiera dei clienti del concorrente. E ieri il governo ha fatto capire per l’ennesima volta da che parte sta: «La chiavetta lanciata da Sky, che da dicembre consentirà di vedere anche la programmazione gra-

tuita del digitale terrestre, è una scelta commerciale che riguarda pochissime persone» e in ogni caso «non risolve il problema del decoder unico», ha ribadito il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani. «Ma il problema vero - ha continuato - è che alla fine del 2012, quando sarà completato il processo di digitalizzazione del paese, ci dovrà essere un decoder unico. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessario che ognuno rinunci al proprio protocollo. Sky finora lo ha tenuto gelosamente segreto e ha conservato il controllo della propria piattaforma».

Poco importa, evidentemente, che il decoder HD sarà appannaggio entro un paio d’anni della maggioranza degli abbonati di Sky. E che così la Rai perderà i 300 milioni di euro che avrebbe reso in sei anni l’”affitto” della sua piattaforma. Tanto, paga il padrone della tv pubblica, no?

Sud un ragazzo di soli 18 anni innescò quel razzo nautico. Sono trascorsi trent’anni, ma io sto ancora lì». Sono passati trent’anni esatti, e il figlio di Vincenzo Paparelli ha voluto raccontare insieme a sua madre Vanda, per la prima volta, come la loro vita sia stata spezzata per sempre dal quel gesto sconsiderato.

Una domenica di follia, una morte assurda, una storia incredibile ripercorsa tutta d’un fiato in un libro che, spiega ancora Martucci, ha come obiettivo quello di «incastrare l’eternità nei tasselli del mosaico della memoria, che oggi è un pezzo prezioso del nostro passato prossimo», e anche di «offrire ai protagonisti del terzo millennio, senza inutili banalità e senza sterile retorica, una fotografia realistica di quel drammatico anno, marchiato per sempre come “1979”». L’anno cioè che determinò «uno spartiacque per l’intero mondo calcistico e per tutta la nostra società civile. Quella domenica di trent’anni fa rappresentò un divisorio generazionale».


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tiamo procedendo verso l’unità dei cristiani attraverso la progressiva chiusura degli scismi che, apertisi tra XI e XVI secolo. Hanno diviso tra loro le Chiese? O siamo entrando in un’era di nuovo contenzioso, dal quale potrebbero uscire sia un decisivo nuovo passo sull’autentica via dell’Ut unum sint, sia un’ulteriore conferma che quel traguardo è ancora lontano e il cammino da percorrere ancora lungo? Durante una conferenza stampa in Vaticano, autorevolmente presieduta dal Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, cardinal William Levada, è stato ufficialmente annunziato che la santa sede si appresta a pubblicare una Costituzione apostolica che aprirà le porte ai vescovi e ai sacerdoti anglicani i quali, non desiderando far ulteriormente parte della Comunione anglicana, ambiscono far ingresso in quella cattolica.Va da sé che gli anglicani che accetteranno di passare alla chiesa di Roma (o, se vogliamo vedere la cosa dalla parte di essa, di “rientrarvi”) dovranno accettare sia il catechismo della Chiesa di Roma, sia il magistero petrino, vale a dire la dottrina della superiorità papale e dell’infallibilità del pontefice quando parli ex cathedra.

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Inoltre, i sacerdoti anglicani (i quali sono ordinariamente sposati) potranno entrar a far parte del sacerdozio cattolico; lo stesso non avverrà tuttavia per i vescovi, ai quali sia la Chiesa cattolica sia le ortodosse e orientali richiedono il celibato (anzi, in queste ultime per tradizione i vescovi provengono solo dal “clero bianco”, cioè dai monaci). Questa “apertura” della Santa Sede riguarda ovviamente non solo gli anglicani della Chiesa inglese, ch’è una Chiesa di stato a capo della quale è il sovrano (ora, la regina), ma anche quelle cosiddette “anglicane libere”di Galles, d’Irlanda e di Scozia e la cosiddetta episcopaliana d’America (le quali sono soggette a un regime di disestablishment, di “separazione”rispetto a quella inglese). Bisognerà aspettare il documento definitivo della Santa Sede per comprendere a fondo la portata di una scelta che potrebb’essere epocale. Il punto è che, fino ad oggi, la chiesa cattolica non ha riconosciuto le nuove ordinazioni sacerdotali secondo il rito della Chiesa anglicana, a differenza dei cosiddetti “Vecchi Cattolici”, gli Altkatholiken fondati in Germania nel 1871 da alcuni prelati che non riconoscevano il dogma dell’infallibilità pontificia proclamato l’anno precedente e che, diffusi in Austria e Svizzera si unirono in seguito con la Chiesa giansenista di Utrecht per creare nel 1889 la cosiddetta “Unione di Utrecht”che nel 1932 accettò l’intercomunione con la Chiesa anglicana. Questi “cattolici semiscismatici” (o “semiriformati”?) sono poche migliaia tra Germania, Austria, Svizzera e Olanda, ma il provvedimento pontificio potrebbe preludere alla fine del loro semiscisma e all’instaurazione di un nuovo clima ecumenico che potrebb’estendersi fino all’America settentrionale. Sono maturi i tempi, per tutto ciò? Qualcuno esita e pretenderebbe di no; ma qualcun altro ribatte che, in verità, già nel 1920 la conferenza dei vescovi anglicani aveva rivolto a tutti i cristiani l’“appello di Lambeth” per l’unità delle

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Stiamo entrando in una fase di progressiva chiusura degli scismi (che s Bisognerà aspettare il documento definitivo della Santa Sede per comp Chiese: e su quella base si erano tenuti, tra ’21 e ’25, le “conversazioni di Malines” durante le quali si affermarono le tesi che già dall’inizio del XIX secolo erano state vive all’interno di parte dell’“Alta Chiesa” anglicana, quelle cosiddette “anglocattoliche”le quali proponevano una Chiesa anglicana unita a quella romana per quanto da essa non assorbita. Il “movimento di Oxford”, autorevolmente rappresentato da H.J. Newman, sosteneva in particolare con molto vigore la continuità della successione apostolica, l’importanza della vita sacramentale, la validità delle esperienze monastiche.

Bisogna dire che se queste tendenze non si erano mai troppo affermate ciò era avvenuto non tanto e non solo per le resistenze delle alte gerarchie anglicane e della stessa corte, quanto piuttosto per quelle della Chiesa cattolica d’Inghilterra, che agli anglicani non ha mai perdonato non tanto lo scisma di Enrico VIII stabilito dall’“Atto di Supremazia” del 1534 (che si arrestava sostanzialmente

Da Roma a Canterbury, andata e ritorno Con l’apertura di Benedetto XVI alla Chiesa anglicana, maturano dopo secoli i frutti dell’ecumenismo. Sarà fusione o assorbimento? di Franco Cardini

alla questione gerarchica e disciplinare, collegando il clero d’Inghilterra alla corona), quanto piuttosto i “trentanove articoli di fede anglicana” promulgati nel 1562 da Elisabetta I e profondamente influenzati dalla dottrina calvinista per quanto attiene la Scrittura, la salvezza, la predestinazione, i sacramenti, da quella luterana per quanto riguarda l’ecclesiologia, per quanto il Book of Common Prayer promulgato con l’Atto di Uniformità del 1559 recuperasse molto della dottrina cattolica sul piano propriamente liturgico. Si può pertanto affermare che, nel complesso, cattolici, anglicani ed episcopaliani non siano per nulla distanti dal considerare l’ipotesi di un comune e rapido cammino verso la rinnovata unità, cui guarderebbero con favore anche le Chiese orientali (meno propense appaiono invece le ortodosse, specie russa e greca). Se in passato era stata l’Alta Chiesa anglicana a manifestare un orientamento spiccatamente filocattolico contro una Bassa Chiesa fatta di preti che si sentivano piuttosto prossimi ai “pastori” protestanti, oggi il clima è cambiato per quanto non si possa certo giungere a poter parlare di un vero e proprio rovesciamento. Sono i membri del basso clero a premere, sono loro che mostrano maggior entusiasmo, o perplessità meno accentuate, per la via della ricostituzione dell’unità della Chiesa

occidentale. La strada è lunga ma il cammino, difficile, non è disagevole. Che la Santa Sede abbia comunque intrapreso la via dell’intensificarsi del dialogo, magari affrontando tutti i rischi di una scelta che potrebbe sembrare unilaterale e quindi “provocatoria”. Le date degli eventi e delle testimonianze sono senza dubbio rivelatrici: un breve e sommario elenco cronologico è rivelatore. Il cammino si era andato indirizzando su un itinerario più sicuro fin da-

Cattolici, anglicani ed episcopaliani non sembrano per niente distanti dal considerare l’ipotesi di un comune e rapido cammino verso una rinnovata unione, cui guarderebbero con favore anche le Chiese orientali gli ultimi mesi del pontificato di Giovanni Paolo II. Nel 2003 la decisione della Chiesa episcopaliana statunitense di legittimare la consacrazione di un vescovo che intratteneva una relazione omosessuale e l’adozione da parte della diocesi anglicana canadese di New West-

minster di un rito di benedizione pubblica per le coppie omosessuali avevano provocato in seno alla comunione anglicana forti e decise opposizioni, favorevolmente commentate in sede cattolica. I primati anglicani chiedevano all’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, d’istituire al riguardo una commissione, la Lambeth Commission, con l’incarico di presentare sollecitamente una serie di risoluzioni in grado di organizzare una vita comunitaria ordinata. Nell’ottobre successivo, il più importante prelato anglicano veniva ricevuto dal papa e s’incontrava con il cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. In seguito a un’iniziativa dell’arcivescovo Williams si giungeva a coordinare i lavori in una Commissione Internazionale Anglicana-Cattolica romana per l’unità e la missione (Iarccum) per precisare l’enunziato congiunto dei fondamenti ecclesiologici d’una prospettiva unionista (la koinonia).

Fino dal 2004 le relazioni cattoanglicane avevano registrato una svolta grazie al “processo di valutazione” avviato, tra molte tensioni, nella Comunione anglicana: ne era testimonianza l’importante Windsor Report. Nel gennaio del 2005 il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani accoglieva il rapporto di monsignor Donald Bolen sulle relazione an-


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si sono aperti tra l’XI e il XVI secolo) o in un’era di nuovo contenzioso? prendere a fondo la portata di una scelta che potrebbe essere epocale

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ereditarono con molta decisione ma che negli ultimi anni in molti ambienti cristiani occidentali è sembrata oggetto quanto meno di discussione (mentre nelle Chiesa orientali il tema è ancora tabù). Se la questione del sacerdozio femminile segna una distanza notevole tra le due Chiese, sull’orientamento riguardante le coppie omosessuali anglicani e cattolici appaiono uniti, e sono semmai gli episcopaliani statunitensi a mostrar segni d’un orientamento possibilista che ha poche probabilità di venir condiviso.

Quindi, unione o assorbimento? La prima soluzione, ambiziosa e rigorosa, non sembra prossima; la seconda appare piuttosto un ripiego e gli osservatori anglicani sembrano ritenerla una sorta di soperchieria strisciante. Certo, la possibilità che singoli membri della Chiesa anglicana passino alla cattolica romana sembrerebbe aggirare il problema: che si porrebbe, viceversa, laddove s’intavolassero generali e organiche trattative di unione. Qui le posizioni sembrano in

Gli anglicani che accetteranno di passare alla Chiesa di Roma (o, se vogliamo vedere la cosa dalla parte di essa, di “rientrarvi”) dovranno accettare sia il catechismo della Chiesa di Roma, sia il magistero petrino, vale a dire la dottrina della superiorità papale e dell’infallibilità del pontefice quando parli ex cathedra glicano-cattoliche. Dopo altri documenti importanti, come quello di Seattle sul ruolo di Maria nella Chiesa, si procedeva ad altri passi di rilievo. Il 12 maggio 2005, a Londra, si presentava alla presenza dei due copresidenti della commissione anglicano-cattolica, l’anglicano Mark Santer, vescovo di Birmingham, e il cattolico Cormac MurphyO’Connor, vescovo di Arundel e Brighton, un documento congiunto. L’“Osser-

vatore romano” dell’11 febbraio scorso ricordava l’intervento del cardinal Cormac Murphy-O’Connor al sinodo generale sul tema “L’unità della Comunione anglicana essenziale per il dialogo con i cattolici”. Poteva sembrar un episodio “minore”, e difatti per qualche mese non se ne parlava più. Ma il 13 ottobre l’autorevole quotidiano vaticano, che non pubblica mai nulla a caso né per caso, tornava sul tema dell’anglicanesimo

porgendo attenzione alle nuove proposte del Revision Committee della Chiesa d’Inghilterra a proposito del dibattito, vivissimo in quella sede, sui poteri delle donne-vescovo: un tema che presuppone quello, ben più delicato per i cattolici, delle ordinazioni ecclesiali delle donne. Al riguardo, la gerarchia cattolica sembra molto rigorosamnente indirizzata al mantenimento dell’interdizione ebraica, che le Chiesa cristiane

effetti ancora lontane, anzi hanno l’aria di essersi ulteriormente distanziate negli ultimi anni. Il problema si pone pertanto in termini di strategia generale. La Chiesa cattolica è disposta a una politica d’unione – il che presuppone una trattativa su singoli punti – o si limita a rendere più facile l’assorbimento di singoli membri di quella anglicana, cioè nella pratica il passaggio senza condizioni da una Chiesa all’altra e l’indulgenza di quella che accoglie per quanto riguarda il passato di colui che vi è accolto? La “nota informativa” sugli ordinariati personali per gli anglicani che entrano nella Chiesa cattolica presentata sempre sull’Osservatore romano del 21 ottobre scorso si annunziava come «una risposta ragionevole e necessaria per una comunione piena e visibile»: la “Congregazione per la Dottrina della Fede” parlava di una «dichiarazione congiunta Williams-Nichols», conseguenza del dialogo ecumenico, e – secondo Salvatore Mazza – papa Benedetto XVI sta aprendo le porte agli anglicani e stanno maturando i frutti dell’ecumenismo. La strada appare lunga e in salita, ma la marcia è spedita.


mondo

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Sanità. Entra nel vivo il dibattito parlamentare negli Stati Uniti per il nuovo assetto assicurativo. L’aspetto che rende civile un Paese

Una riforma necessaria Barack Obama va alla conta dei voti per uno dei caposaldi della sua politica di Anna Camaiti Hostert he plot thickens, si usa dire in inglese quando una situazione si complica. È il caso della riforma sanitaria negli Stati Uniti, che si trascina ormai da mesi con alterne vicende. Il dibattito in Parlamento entra infatti in una nuova fase adesso che la commissione finanze del Senato ha quasi completato il procedimento legislativo per ridescrivere complessivamente il sistema sanitario. La commissione, che ha fino ad ora respinto il progetto della cosiddetta opzione pubblica (che in-

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che conoscono di prima mano il sistema sanitario: i medici e il personale sanitario di tutti gli Stati Uniti». La situazione sanitaria negli Stati Uniti è complessa e frazionata.

Ma di una riforma che elimini gli sprechi e certe patenti ingiustizie c’è un assoluto bisogno, come dimostrano i numeri dell’Associazione Nazionale dei Centri Comunitari della Sanità: 60 milioni di americani sono senza assistenza medica. Il Centro Nazionale delle Statistiche Sanitarie ha scoperto inol-

Per i democratici, la riforma unisce «una sorta di senso comune condiviso dalla maggior parte degli americani di ambedue le parti politiche. Non c’entrano razza, fede religiosa o colore della pelle» vece è sostenuta da una parte consistente della classe medica) si prepara a completare i suoi lavori. Per i Democratici il problema essenziale è che il livello di complessità di questo procedimento non vada a intaccare la possibilità per le classi medie di pagarsi l’assistenza sanitaria. Il presidente Obama la scorsa settimana ha ricordato a tutte le parti politiche l’importanza di un dibattito franco sui problemi concreti, accusando gli oppositori politici di diffondere false informazioni sul suo progetto.

tre che c’è un gap enorme nei test diagnostici tra coloro che sono assicurati e coloro che non lo sono (ad esempio tra le donne che vanno dai 40 ai 64 anni il 73 per cento di coloro che sono assicurate si sottopongono annualmente ad una mammografia rispetto al 33 per

cento di quelle non assicurate). Nel 2006, 22mila persone sono morte per la mancanza di assistenza sanitaria, secondo una ricerca compiuta dal non partisan Istituto Urbano. E uno studio compiuto da entrambe le università di Harvard e dell’Ohio e pubblicato nel giugno scorso dall’American Journal of Medicine ha concluso che circa il 62 per cento di tutti i fallimenti economici nel 2007 sono stati causati da “problemi di natura medica”.

Gli oppositori della riforma si sono spinti così in avanti nelle loro accuse che un commentatore radiofonico del canale Fox News, Glenn Beck, ha affermato che il progetto di Obama è «una sorta di riparazione in sordina», una forma di rimborso razziale pagato ai neri d’America per la loro condizione di segregazione. Un’affermazione abbastanza contorta considerato che proprio durante la campagna presidenziale Obama ha affermato che il suo programma politico più che indirizzarsi verso riparazioni e affirmative ac-

tions si sarebbe concentrato su target primari come la povertà, l’istruzione e altri problemi sociali sulla base dei bisogni reali più che sul colore della pelle. Obama ha inoltre affermato che «il progetto di un’assistenza sanitaria universale… avrà sicuramente un impatto sproporzionato sulle persone di colore perché sono sproporzionatamente senza assicurazione».

Lo stesso vale per la politica degli alloggi e della ricerca di un lavoro. E questi fatti sono difficilmente contestabili. «Le convinzioni di Obama di aiutare coloro che hanno più bisogno indifferentemente dalla

razza, dalla fede religiosa o dal colore della pelle - scrive il commentatore nero Clarence Page sul Chicago Tribune - è una sorta di senso comune condiviso dalla maggior parte degli americani di ambedue le parti politiche. Considerato inoltre il fatto che il numero di bianchi di basso reddito supera quello dei neri anche se il numero dei neri che vive in povertà è superiore a quello dei bianchi, più bianchi riceveranno aiuti economici rispetto ad altri americani». Ma Beck insiste che «la riforma sanitaria nazionale, il college aperto a tutti e i cosiddetti mestieri verdi sono una riparazione razziale in sordina». E sembra

Le posizioni altalenanti del leader democratico aprono a sinistra e annullano il ponte con il Gop

La versione (a zig zag) di Harry Reid di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Il suo appello in favore dell’approvazione della riforma sanitaria avvenuto in pubblico alla Casa Bianca e accompagnato dalla presenza di 50 medici, provenienti da tutti gli Stati del paese, cade giusto prima che la commissione parlamentare voti la sua versione del procedimento legislativo sulla riforma sanitaria e apra un dibattito che si prevede molto acceso in ambedue le ali del parlamento. «Abbiamo sentito fino ad ora le ragioni di ambedue le parti - ha detto Obama accusando i suoi oppositori di diffondere falsi allarmi riguardo alla possibilità governativa di impadronirsi della riforma sanitaria - ma adesso è il momento di agire». «È indicativo ha continuato il presidente che i più accaniti sostenitori di questa riforma siano coloro

l senatore democratico Harry M. Reid, leader della maggioranza al Senato statunitense, ha annunciato il desiderio di includere un’assicurazione governativa nella riforma sanitaria allo studio dei legislatori. Si tratta di una concessione enorme alla corrente liberal, che aveva minacciato di opporsi a un decreto senza la cosiddetta public option. Ma la decisione di Reid rappresenta anche un enorme voltafaccia rispetto a due settimane fa, quando sembrava invece incline a mettere da parte l’ipotesi in cambio dell’appoggio dei moderati. Ora che il decreto sembra oramai pronto, rimangono i dubbi sui voti che riuscirà ad ottenere durante il dibattito senatoriale. Annunciando la sua decisione, il senatore ha spiegato: «Abbiamo speso migliaia di ore, negli ultimi giorni, a consultare quei senatori che mostrano un vero interesse per la riforma sanitaria. Credo che ci sia un forte consenso per la decisione che ho pre-

I

so». Il riferimento è all’introduzione della cosiddetta opt-out: ogni Stato, in pratica, avrà il diritto di rinunciare alla public optino senza obiezioni da parte del governo centrale. Ma Jim Manley, portavoce di Reid, non ha fornito i dettagli tecnici di questa opzione, definendo «ancora in corso» i particolari allo studio dell’Ufficio del Congresso per il budget.

Secondo il funzionario, infatti, all’Ufficio «sono state presentate diverse possibilità di scelta. Vedremo cosa fare quando arriveranno le stime di spesa per le varie politiche proposte». Quella che può sembrare la quadratura del cerchio ha scatenato una ridda di reazioni - a favore o contrarie - che hanno animato le ultime ore del dibattito politico statunitense. Secondo il senatore Charles E. Schumer, si tratta di «un compromesso fra i moderati (che vogliono il minor intervento possibile da parte del governo centrale) e i libera-

li (che invece preferiscono un sistema a pagamento singolo e individuale). In ogni caso, l’introduzione dell’opt-out - di cui ancora non si è dibattuto nelle aule di Washington - ha già fatto una vittima eccellente: la senatrice Olympia J. Snow, repubblicana del Maine, l’unica del suo schieramento a sostenere fino a ieri gli sforzi riformatori di Obama. Dichiarandosi infatti «profondamente irritata» per la decisione di Reid, la Snow ha annunciato il suo voto contrario alla proposta. Alcune voci interne all’esecutivo volevano il presidente americano «riluttante» all’idea di perdere l’appoggio della senatrice, anche per il suo valore simbolico. Eppure, ieri il portavoce della Casa Bianca ha dichiarato: «Siamo felici che il Senato abbia deciso di introdurre un’opzione pubblica». L’annuncio (rilasciato dall’onnipresente Gibbs) non ha accontentato la fazione liberal del Senato, che ora chiede un intervento deciso dello stesso Obama. Secon-


mondo

avere il supporto di un altro grande commentatore radiofonico, il conservatore Rush Limbaugh, che si spinge ancora più avanti affermando

È davvero difficile pensare alla politica post razziale e post partisan di Obama in questi termini, considerato inoltre il fatto che i conservatori in questo Paese si

Secondo i conservatori, la Casa Bianca punta in realtà a una «redistribuzione della ricchezza sul territorio nazionale. Una sorta di programma socialista di cui Obama è un fervente sostenitore» che tutta la politica di Obama è una sorta di riparazione razziale il cui scopo principale è «la redistribuzione della ricchezza sul territorio nazionale. Una sorta di programma socialista di cui Obama è un fervente sostenitore».

sono fieramente opposti a due grandi riforme che ormai sono parte integrante della società americana e che rappresentano conquiste sociali che nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione: la pensione sociale (Social Security) e l’assistenza

medica gratuita agli ultra sessantacinquenni (Medicare). Purtroppo tuttavia l’impatto di questi programmi radiofonici, assieme alle iniziative che vanno dai tea party alle accuse infuocate degli incontri neli municipi locali è tenace e continua a inquinare un dibattito che richiede fatti e programmi più che chiaramente ideologiche prese di posizione.

È giunto il momento per gli Stati Uniti di avere un sistema sanitario più razionale, più esteso e più economico che elimini gli sprechi e assicuri a tutti i cittadini l’assistenza medica, permettendo a quello che si definisce un Paese evoluto di chiamarsi tale.

do il senatore dell’Ohio Sherrod Brown (uno dei trenta a intervenire direttamente su Reid per l’introduzione dell’opzione pubblica) «è arrivato il momento del presidente. Io spero che parlerà il prima possibile e con la massima forza a favore di questa ipotesi. La riforma del sistema sanitario ha bisogno di lui, della sua presenza fisica. Deve spiegare molte cose, dal costo alla questione dei sussidi». Ancora più pesante il parere di Darcy Burner, che guida la Fondazione progressista per la politica, secondo cui «la Casa Bianca ha come alzato le mani sulla questione. Hanno costretto di fatto Reid e gli altri leader democratici a intraprendere rischi politici che non avrebbero probabilmente corso. Obama

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I loghi di alcune delle più famose società di assicurazione sanitaria degli Stati Uniti. Ad oggi, sono principalmente le aziende a garantire le prestazioni mediche per i loro dipendenti. In alto, il presidente spiega le linee guida della riforma. In basso, il leader democratico Harry Reid

non ha dimostrato una forte leadership, in questa battaglia». Rimane il fatto che, alla conta dei voti, sarà necessario l’appoggio convinto e schierato di tutti e sessanta i senatori democratici: il rischio è quello di un arrembaggio da parte dei repubblicani, pronti a colpire al cuore la riforma su cui Obama ha fondato la sua presidenza.

Nonostante le incertezze, Reid ha dichiarato che «omettere l’opzione pubblica lascerebbe troppe poche garanzie per gli americani». Ma in realtà la partita si gio-

ad abbassare i costi e migliorare la qualità del servizio medico». Secondo i democratici, invece, si tratta di un buon modo per controllare i costi. Questa tesi è contestata dagli esperti delle polizze assicurative, che in pratica sostengono la posizione della Ignagni e temono una drastica riduzione delle parcelle mediche. Ora la parola spetta al dibattito parlamentare, dove dovranno essere presentati i risultati dell’Ufficio budget e si conosceranno finalmente costi e ricadute fiscali della manovra. Non va infatti dimenticato che la sanità vale circa un sesto dell’intera economia americana, e che smantellare i giganti assicurativi potrebbe voler dire mettere un freno al loro dominio sul mercato, ma potrebbe anche provocare una drammatica ricaduta in termini di occupazione. A tutto questo Washington ha già risposto, assicurando che i danni saranno contenuti e assolutamente irrisori rispetto ai benfici che il Paese trarrà dalla riforma. Tuttavia, senza i dati definitivi, è molto difficile esprimere un parere informato sulla questione. E in ogni caso è improbabile che l’inattivisimo di Obama in materia termini nei giorni cruciali del dibattito.

L’introduzione dell’opt-out ha già fatto una vittima eccellente: la repubblicana Olympia Snow, l’unica del suo schieramento a sostenere fino a ieri gli sforzi di Obama ca sui costi dell’opeazione: una proposta prevede infatti l’interruzione del taglio delle tasse per chi ha l’assicurazione medica pagata dall’azienda. Secondo Karen Ignagni, presidente dell’Associazione che riunisce le compagnie di assicurazioni sanitarie Usa, il dibattito sull’opzione pubblica «è un ostacolo alla riforma. Questa ridurrà i pagamenti ai medici e agli ospedali, senza portare una vera riforma tesa


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Scenari. La sapiente e tentacolare offensiva diplomatica di Ankara a visita di Stato in Iran del Primo ministro turco Racip Erdogan, iniziata ieri, è l’ultimo atto di una politica estera che Ankara sta conducendo in modo dinamico, ottenendo risultati di rilevanza storica. Primo fra tutti l’avvio dei negoziati per un trattato di pace con l’Armenia. Il vertice di Teheran va incorniciato nelle intenzioni turche di affermarsi come mediatore indispensabile nella crisi del nucleare iraniana. Ma è anche dettato da ragioni economiche. Gli scambi commerciali fra Turchia e Iran ruotano intorno ai 12 miliardi di dollari, entrambi i governi però si stanno impegnando per portarli a 20 miliardi entro il prossimo biennio. Non per nulla la delegazione anatolica atterrata ieri nella capitale iraniana è composta prevalentemente da rappresentanti dell’industria e del commercio turchi, interessati a fare da ponte – e quindi trarne proprio vantaggio – tra l’Iran piegato dall’embargo delle Nazioni Unite e il mercato occidentale, poco incline a seguire alla lettera i dettami delle sanzioni internazionali.

L

Tuttavia, di fronte a questo progetto, stride l’intervista rilasciata lunedì al Guardian in cui Erdogan prendeva una posizione nettamente favorevole nei confronti di Ahmadinejad, definito «molto più amico della Turchia rispetto al Presidente francese Sarkozy«, e verso il programma nucleare del Paese vicino, «ispirato non da ambizioni militari, ma con fini unicamente energetici». Al di là della frecciata verso Parigi – di cui sono note le riserve in merito all’ingresso della Turchia in Europa – non è la prima volta, in queste ultime settimane, che il governo di Ankara prenda posizioni contrarie a quelle dei suoi alleati nella Nato e dei suoi prossimi partner dell’Unione europea. I tentativi di dialogo con Hamas e la cooperazione ormai consolidata con la Siria costituiscono i precedenti più importanti rispetto a quest’ultima dichiarazione di simpatia nei confronti dell’Iran.Tutto ciò ha turbato gli osservatori Usa. Washington da sempre investe nell’alleanza con la Turchia perché questa le garantisce una presenza affidabile – in termini strategici, politici e geografici – senza pari nella macroarea del Medio Oriente e del Mar Nero. Ciò non toglie che le ultime iniziative di Ankara siano apparse alla Casa Bianca un po’ troppo spregiudicate. Ben più negativo è stato il giudizio di Israele, la cui amicizia con la Turchia non è mai stata fonte di discussione. Tuttavia, il governo Netanyahu si è sentito in diritto di criticare la scelta di Ankara di

Erdogan e la politica delle (mille) mani tese Iran, Europa, Usa, Russia: perché la Turchia ha interesse ad avere buoni rapporti con tutti di Antonio Picasso

La meta più ambita è l’integrazione nella Ue. Ma senza dimenticare il tentativo di rafforzamento come potenza regionale confrontarsi con quegli attori locali che negano l’esistenza di Israele. Visti da parte turca, questi gesti di apertura sono dettati da ragioni localistiche. È con la Siria, l’Iran, ma anche con il Kurdistan iracheno e le Repubbliche caucasiche che confina la Turchia a sud e a est. Ciò che il governo anatolico vuole evitare, quindi, è che una qualsiasi crisi in queste aree possa coinvolgere il suo territorio. In una proiezione ancora più lunga, pochi giorni fa Erdogan ha teso una mano anche al Pakistan, definendo le relazio-

ni con quest’ultimo un ulteriore strumento di pace.

Da tutto questo emerge come la Turchia stia sviluppando un’attività diplomatica di tipo sistematico, impostata sulla finalizzazione di obiettivi ben precisi e – elemento altrettanto interessante – fatta in modo che un eventuale fallimento in un settore possa essere compensato da un successo altrove. Sappiamo che la meta più ambita di Ankara è l’integrazione in Europa. Contestualmente si affianca il suo tentati-

vo di rafforzamento sul piano internazionale come potenza regionale, capace di confrontarsi alla pari con gli Stati Uniti e con la Russia, ma anche di gestire più agevolmente di qualunque governo occidentale le criticità di Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale. Tuttavia, nel caso questo ambizioso disegno venisse a mancare o tardasse nella sua realizzazione, Ankara sarebbe costretta a passere a un “piano B” che probabilmente custodisce nel cassetto. Questo potrebbe consistere nel creare una partnership privilegiata con i Paesi vicini, abitati da una popolazione quasi unicamente islamica. È vero, parlare di una immaginaria “unione degli Stati islamici” è fantapolitica. Se

davvero nascesse, significherebbe che sarebbero risolti tutti i problemi del Medio Oriente. Ma non è un’invenzione il fatto che la Turchia tema che alcuni governi europei le blocchino improvvisamente il cammino verso Bruxelles. Ed è per questa eventualità che si sente autorizzata a mantenere il piede in due staffe, confrontandosi con color che ai nostri occhi risultano avversari.

Si tratta, in questo caso, di una sapiente operazione tentacolare. Nel senso etimologico della parola. La Turchia è un Paese abitato da oltre 78 milioni di persone Ha un’economia che già nel 2010 saprà assorbire i contraccolpi della crisi finanziaria. All’interno dell’Alleanza atlantica, la sua forza militare, in termini di uomini (oltre 1,2 milioni di unità), è seconda solo a quella degli Usa. Le sue spese per la difesa superano il 5% del Pil. Infine, la sua posizione geograficamente strategica è sotto gli occhi di tutti. In ambito energetico questo è ancora più evidente. Il Paese è l’unica via di transito per soddisfare la domanda europea di energia con gli idrocarburi dell’Asia centrale. Le istituzioni politiche e con esse la Botas, la compagnia di Stato responsabile del settore, hanno fatto di questa caratteristica lo strumento di maggior potere contrattuale nel confrontarsi sia con i produttori sia con i consumatori. Che si tratti di petrolio del Kazakistan, di gas dell’Azerbaijan, ma anche di risorse irachene o iraniane, Ankara si sta impegnando affinché tutte queste ricchezze passino dalla Turchia, dirette poi in Europa. Sono esemplificativi, in questo caso, gli esempi dei due gasdotti concorrenti, Nabucco e Southstream, il cui segmento sottomarino di quest’ultimo dovrebbe attraversare le acque territoriali turche, onde evitare quelle dell’Ucraina. In entrambi in casi, per la Botas il guadagno è assicurato. Sulla base di tutti questi elementi, perché allora non ambire a un livello superiore di prestigio internazionale? In simili condizioni non dovrebbe sorprendere nessuno se un giorno da Ankara giungesse la richiesta di avere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, oppure l’intenzione di voler iniziare un programma di ricerca nucleare militare. Anche questo spiegherebbe il motivo per cui Erdogan preferisce mantenere buoni rapporti con tutti. Cosa rischia? Farsi strumentalizzare. Il fatto che Ahmadinejad abbia impropriamente lodato la “posizione anti-israeliana” del governo turco non pone quest’ultimo sotto una buona luce di fronte a coloro che oggi sono a tutti gli effetti suoi alleati.


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La ex presidente della Bosnia liberata da un giudice in Svezia

Il regime chiede alcune modifiche, ma la Francia frena

Scarcerata la Plavsic, Karadzic diserta di nuovo

Teheran: «Buono (con riserva) l’accordo Aiea»

L’AJA. Biljana Plavsic, ex presidente dei serbi di Bosnia Erzegovina condannata nel 2003 a 11 anni di reclusione per crimini contro l’umanità commessi durante la guerra in Bosnia Erzegovina, è stata rilasciata ieri in Svezia, dove scontava la pena cui l’aveva condannata il Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. E il tribunale dell’Aja ha ripreso il processo Karadzic anche senza l’imputato. A dare notizia della liberazione di Plavsic è stata l’autorità carceraria svedese. Il governo di Stoccolma aveva approvato la settimana scorsa il rilascio della Plavsic in linea con quanto previsto dalla legge svedese che consente la liberazione dopo che l’imputato ha scontato due terzi della condanna. L’ex leader serbosniaca è stata accompagnata all’aeroporto Arlanda dove è salita su un aereo che la attendeva ed ha quindi lasciato il paese, diretta a Belgrado. «Biljana Plavsic era contenta di essere rilasciata e questo è tutto ciò che la interessava in quel momento», ha dichiarato il direttore generale dell’autorità carceraria, Lars Nylen. Plavsic, 79 anni, ha scontato la pena nel carcere di Hinseberg, 200 chilometri ad ovest di Stoccolma. La

TEHERAN. L’Iran accetta il «quadro generale» della bozza di accordo sul nucleare ma chiede «modifiche importanti». La proposta - redatta durante i negoziati a Vienna con Russia, Stati Uniti e Francia sotto l’egida dell’Aiea - prevede il trasferimento all’estero di parte dell’uranio per ottenere in cambio combustibile. Il piano elaborato da Mohammed El Baradei, presidente dell’Aiea, prevede la consegna di gran parte dell’uranio arricchito al di sotto del 5% perché venga portato in Russia fino a un arricchimento del 20% e trasformato in Francia in combustibile destinato ad alimentare un reattore per la medicina nucleare a Teheran. Se-

Sarkozy-Merkel, appuntamento a Parigi L’11 novembre sarà il giorno dell’amicizia franco-tedesca di Nicola Accardo arà l’appuntamento con la Storia, quello di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Quello mancato da Mitterrand, che nel 1989 temeva che la Germania riunificata potesse di nuovo far paura all’Europa.Vent’anni dopo Angela Merkel assisterà alle celebrazioni per l’armistizio della Prima Guerra Mondiale, l’11 novembre prossimo, sulla tomba del Milite Ignoto che si trova sotto l’Arco di Trionfo, in fondo ai Campi Elisi. È la prima volta che un Cancelliere tedesco compie un tale passo nella riconciliazione franco-tedesca, e forse è il passo finale. Secondo fonti governative Sarkozy lo annuncerà il 9 novembre da Berlino, durante le celebrazioni per i vent’anni della caduta del Muro: l’11 novembre diventerà il giorno dell’amicizia franco-tedesca.

S

Morti ormai tutti i “poilus” (i barbuti, come erano chiamati i soldati i francesi durante la Grande Guerra), non ci sarà più nessun eroe vincitore da decorare, i rancori lasceranno spazio alla riconciliazione e la cancelliera tedesca celebrerà la sconfitta del suo Paese. Il primo passo lo fecero François Mitterrand e Helmut Kohl, che il 22 settembre del 1984 si tenevano la mano a Verdun per commemorare l’interminabile battaglia che fece 290mila morti, poi Jacques Chirac provò invano ad invitare Gerhard Schroeder per le celebrazioni dell’11 novembre 1998. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel sono invece la coppia giusta al momento giusto. La festa franco-tedesca inizia infatti il 9 novembre, nella notte dei Vent’anni: mentre Sarkozy, la Merkel, Hillary Clinton, Medvedev e Gordon Brown ascolteranno a Berlino i racconti di Gorbaciov e il concerto dell’Orchestra di Daniel Baremboin, le solennità si celebreranno anche a Place de la Concorde a Parigi. Un gioco di luci e proiezioni ricostruiranno il muro e la porta di Brandeburgo, sulle facciate dei lussuosi palazzi che incorniciano la Rue Royale scorreranno le immagini degli anni della Guerra Fredda, della ritrovata libertà e infine della recente costruzione europea. Nel cuore della piazza, ai piedi dell’obelisco, un’orchestra renderà a omaggio a

Mstislav Rostropovitch davanti al primo ministro Fillon e a tutti gli ambasciatori. L’assolo con cui il grande violoncellista russo accompagnò i colpi di piccone nel giorno della caduta del muro sarà interpretato da 27 violoncellisti (tanti quanto i paesi membri dell’Ue), mentre il canto dei cori giungerà dai balconi dei palazzi. Perfino le luminarie di Natale dei Campi Elisi verranno accese in anticipo per l’occasione e soprattutto lo show verrà trasmesso a Berlino su uno schermo gigante. Dietro a questo spettacolo commemorativo, così come alle meraviglie del semestre di presidenza francese dell’Ue (la Tour Eiffel colorata di blu ed oro, le dodici stelle della bandiera proiettate sulla facciata dell’Assemblea Nazionale), non c’è Nicolas Sarkozy ma Pierre Lellouche, il primo europeista di Francia, ministro degli affari europei e segretario generale (insieme a Gunter Gloser) per la cooperazione franco-tedesca. «Vogliamo mostrare agli amici tedeschi che questo evento fa ormai parte della nostra storia comune – ha scritto su Le Monde – Vent’anni dopo non possiamo mancare a questo appuntamento con la Germania».

I due leader assisteranno insieme alle celebrazioni congiunte per l’armistizio della Grande Guerra

Svezia aveva recentemente comunicato alla corte dell’Aja della possibilità di un rilascio anticipato per la Plavsic, mossa alla quale la Corte non si era opposta. La Plavsic aveva riconosciuto le proprie responsabilità in quanto vice presidente dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia nella campagna di persecuzione e pulizia etnica attuata dalle forze serbe contro i musulmani e i croati della ex repubblica jugoslava e che portò alla morte di 100.000 persone tra il 1992 e il 1995. Plavsic era diventata presidente della Republika Srpska nel 1996 dopo la fine della guerra e la fuga di Radovan Karadzic. La Plavsic si consegnò volontariamente ai giudici dell’Aja nel 2001 e nell’ottobre del 2002 ha ammesso la propria colpevolezza.

«L’appuntamento mancato» è una definizione dello stesso Lellouche che dal 2005 divide i francesi. Il cavaliere poco galante sarebbe Francois Mitterrand, presidente dall’81 al ’95, responsabile di «sospetti, malintesi – scrive sempre Lellouche –, soprattutto di quella visita a Berlino Est il 20 dicembre 1989», quando Mitterrand cercò di confortare l’identità dei tedeschi dell’Est. Il tentativo di rallentare l’unificazione è stato documentato anche dalla pubblicazione a settembre dei rapporti delle conversazioni con Margaret Thatcher: Pierre Haski, che seguiva Mitterrand per Liberation, da poco ha raccontato cosa disse la sua fonte all’Eliseo, dopo che Helmut Kohl annunciò il suo piano in dieci punti per la riunificazione: «Kohl è un uomo pericoloso, un irresponsabile. La precipitazione degli eventi ci porta al disastro con un tale annuncio e senza concertazione con noi». La Francia mancò l’appuntamento e forse anche la festa, che vent’anni dopo vuole vivere intensamente.

condo la tv iraniana in lingua inglese PressTv, che ha citato «un diplomatico vicino alle trattative», le autorità non accetteranno di inviare tutto l’uranio insieme. La fonte ha aggiunto che la Repubblica islamica darà venerdì una risposta alla bozza d’accordo. «L’Iran, in quanto acquirente - ha sottolineato il diplomatico - sa meglio di tutti quanto uranio arricchito al 19,75% necessita e in base a questo solleverà alcune questioni riguardo alla proposta». Dalla comunità internazionale arrivano le prime reazioni. Il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner ha definito «non un buon segnale» la richiesta di modificare in modo significativo la bozza: «Se questo vuol dire che è negativo, lo lascio dire a loro, ma non è un buon segnale. Non penso che sia molto incoraggiante». Secondo l’omologo italiano Franco Frattini c’è spazio per il negoziato: «Dobbiamo vedere quali modifiche chiederanno, c’è ancora spazio per il negoziato, ma a fine anno dovremo fare il punto». L’Alto rappresentante della politica estera della Ue Javier Solana ha ricordato che la comunità internazionale è in attesa di tre cose per quanto riguarda l’Iran: la ratifica dell’accordo, l’indicazione di un nuovo incontro e la relazione degli ispettori su Qom.


spettacoli

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Tv. Joseph Fiennes interpreta un agente Fbi, tra i protagonisti incaricati di sbrogliare un vero e proprio “mistero temporale”

137 secondi nel futuro Tutto ciò che c’è da sapere su “Flash Forward” la nuova serie-cult nata nella casa della Abc di Pietro Salvatori

ROMA. Li abbiamo visti sparsi per i muri di tutta Italia. All’uscita della metropolitana, sul “6x3”fuori dall’ufficio, dalla vetrata del solito bar. I poster di Flash Forward hanno invaso ormai da giorni il Paese intero. Di cosa stiamo parlando? Nulla di misterioso, anzi. Si tratta dei prosaici effetti del massiccio investimento della Fox, la grande major d’oltreoceano, per promuovere, dopo averne acquistato i diritti per la distribuzione, l’ennesimo gioiello di casa ABC, lo storico network televisivo nato e cresciuto all’interno della galassia Disney, che ha negli anni sfornato serial di qualità e di successo come Grey’s Anatomy, Desperate Housewives e, rullo di tamburi, Lost. Come avrete capito il volto accigliato di Joseph Fiennes, presumibilmente arrovellantesi sulla domanda posta in calce al manifesto («e se potessi vedere il tuo futuro per 2 minuti e 17 secondi?») preannuncia semplicemente l’inizio di una nuova serie, sollucchero per il palato dei fan paganti della tivù criptata, invidia per chi dovrà aspettare qualche mese in più per vederla in chiaro.

Una serie, dunque. L’ennesima? Forse no. Se il prodotto è targato ABC, raramente delude le aspettative. Se, oltretutto si considera il dispendio di mezzi e di risorse della Fox, forse converrebbe indugiare un attimo in più per vedere di che cosa si tratta davvero. Joseph Fiennes (ve lo ricordate con l’accento seicentesco in Shakespeare in love?) è l’agente dell’Fbi Mark Benford, che si trova a dover sbrogliare il caso più intricato della storia dell’agenzia. Un bel giorno, il mondo si è infatti fermato per 137 secondi. Tutti gli abitanti del Pianeta (o quasi tutti...) sono crollati al suolo senza apparente motivo, con tutte le conseguenze del caso, tra disastri automobilistici, incidenti aerei e chi più ne ha più ne metta. Ma come se non bastasse, in quei 137 secondi si

è palesato agli occhi di ognuno uno squarcio del proprio futuro. Un flash forward, per l’appunto, un pezzetto di ciò che sarà da qui a sei mesi nella vita di ognuno. In che modo questo condizionerà le vite dei nostri protagonisti? Quel che si è visto è modificabile, o bisogna piuttosto rassegnarsi anche alla più atroce delle visioni?

Ma soprattutto, perché? Come mai il mondo si è fermato, nello stesso momento, per lo stesso lasso di tempo, provando tutti la stessa sensazione di sal-

to nel futuro? A queste e ad altre domande dovranno rispondere gli sceneggiatori. E l’aspettativa è alta. La ABC sta per perdere il proprio gioiello di famiglia. Stiamo parlando ovviamente di Lost che, giunto alla soglia della sesta serie, raccoglie sempre più un pubblico di fan incalliti faticando ormai ad espandere il pro-

prio zoccolo duro, e che, soprattutto, chiuderà i battenti dopo anni di onorato servizio e di qualche passaggio a vuoto. Non è un caso che Flash Forward, secondo i suoi realizzatori, si ponga proprio l’obiettivo di raccogliere l’eredità dell’illustre predecessore, come sfacciatamente ammette anche il lancio promozionale. Lost puntava, e punta ancora, sulla più classica delle teorizzazioni del mcguffin hitchcockiano (il pretesto narrativo, in breve, che fa muovere la trama). Nessuna importanza riveste l’oggetto del contendere, il mistero da svelare, il rompicapo da risolvere. È tutto solamente un modo estremamente intrigante e suggestivo di portare avanti la storia, in un incastro continuo di scatole cinesi. Qualunque risposta verrà alla fine data, si rivelerà (al netto di colpi di genio), comunque inadeguata alle aspettative create. Ma ormai sarà troppo tardi, saremo all’ultima puntata, e non ci sarà più il tempo di protestare.

mentato a partire dalla quarta serie dell’illustre predecessore, quello del salto avanti nel tempo.

Lì era una necessità che liberava nuovi filoni narrativi, qui è il mcguffin principe, il motivo

Flash Forward riprende e sviluppa fino a farne elemento cardine dell’intera serie - l’espediente speri-

In alto, il cast della serie “Flash Forward”. A destra e a sinistra, alcuni fotogrammi della science fiction. A fianco, la locandina di “Lost”, creatura di J J Abrams (nella foto qui sopra). A destra, il libro di Robert J. Sawyer da cui è stata tratta la serie “Flash Forward”

d’interesse dell’intera serie. Come si muoveranno i protagonisti in relazione al proprio futuro svelato, in che modo le rivelazioni condizioneranno il presente. Queste alcune delle tematiche affrontate a partire dalle prime puntate, lungo le quali si sviluppa il progetto Mosaico, nome in codice dell’indagine dell’agente Benford, ma anche gigantesco social network governativo in cui il popolo della rete è invitato a condividere ciò che ha visto lungo i 2 minuti e 17 (ovviamente il sito ufficiale riproduce una versione arcade del tutto), creato a proprio a partire dal flash forward dell’agente dell’Fbi.

Nel frattempo il papà di Lost, il geniale JJ Abrams, è emigrato televisivamente alla Warner Bros. Negli studios californiani ha messo a punto Fringe, altra serie di culto degli ultimi tempi (anche se i 12.4 milioni di spettatori del pilot di Flash Forward hanno polverizzato il rivale), rispolverando in parte un vecchio modo di fare televisione. Fringe, un bizzarro e affascinante incrocio tra Lost e Xfiles, recupera di quest’ultimo la possibilità di poter fruire di un singolo episodio anche da parte dello spettatore occasionale, che può ben lasciar sfilare


spettacoli

28 ottobre 2009 • pagina 19

I salti nel passato come nel futuro. Dai libri alla tv, fino ai videogiochi

L’eterno fascino dei viaggi nel tempo di Roberto Genovesi a vita su altri mondi e i viaggi nel tempo sono probabilmente i temi più usati e abusati dalla fantascienza. Ma mentre il primo argomento ha sempre risvolti di carattere scientifico e sociale, quando si parla di tempo è inevitabile che il climax della storia produca sfumature filosofiche. La macchina del tempo è lo strumento paradigmatico della fantascienza di scoperta, è lo specchio di un essere e di un divenire ma anche il testimone di un rimpianto. Non c’è variabile, sfumatura, ipotesi legata ai viaggi nel tempo che non sia stata affrontata dagli scrittori di science fiction o dai loro colleghi nel mondo del cinema, della tv o dei videogiochi. Eppure il tempo è una convenzione assolutamente umana e per nulla data. Non starò qui a sciorinare tutte le teorie scientifiche che hanno cercato nei secoli di spiegare il fenomeno del trascorrere del tempo. E come siano state metabolizzate dall’uso sfrenato della fantasia. Ma su una cosa scienziati e creativi concordano sempre: il tempo, in realtà, non esiste. Immaginate di trovarvi a fissare il vostro orologio da polso. Seguite la lancetta che divora i secondi e questo vi fa credere che stia trascorrendo del tempo. Ma non siete in grado di fotografare questo divenire, questo mutamento, perché la lancetta ha il passato nel rintocco appena scoccato, il futuro in quello che verrà e il presente in nessun luogo perché la lancetta non può fermarsi per dimostrarci come sia. Siamo certi che il tempo trascorra solo grazie a testimonianze casuali: una nuova ruga, un altro capello bianco, la crescita di un fiore dove il giorno prima non c’era. Questo divenire, non capiamo nemmeno perché, ci affascina da sempre.

L

via, se lo desidera, gli intrecci del quadro generale, per potersi dedicare unicamente all’avventura della singola puntata.

Tutto il contrario di Lost, un groviglio inestricabile e frustrante se non affrontato con pazienza a partire dal principio. Lasciato andare Abrams ai suoi progetti, la ABC pare aver voluto confermare il format vincente, senza cambiare di una virgola l’impostazione della nuova serie. Pare, perché le prime puntate che abbiamo avuto modo di visionare ancora non svelano l’arcano, ma rivelano molti indizi. Chi perderà il treno delle prime puntate farà fatica a rimettersi in pari in una lunga stagione, che conterà al termine ben 25 episodi, al seguito, così come Lost, di un unico filone narrativo.

Una prova dura quella di Fiennes e soci, che si propongono di irrompere nel panorama televisivo, e narrativo più in generale, come nuovo punto di riferimento del genere. L’avvio ha mostrato da subito qualche incertezza, soprattutto a livello di scrittura, ma anche di gestione delle sequenze e di recitazione.

Ma nel complesso l’idea è di quelle vincenti, il cast è ben assortito, la trama scorre e si lascia vedere volentieri. Non siamo probabilmente ai livelli inarrivabili degli esordi di Lost, ma la ABC ha sfornato l’ennesima storia che con tutta probabilità terrà incollati milioni di spettatori davanti al televisore. Nel (vano?) tentativo di ricostruire un pezzetto di Mosaico.

l’intrigante Life on Mars. Il serial della BBC racconta di un ispettore di polizia britannico che, a causa di un incidente stradale, viene rispedito negli anni 70 a fare lo stesso mestiere ma a vivere con coloro che nella sua vita precedente erano dei placidi pensionati. Probabilmente si tratta della migliore serie tv di fantascienza degli ultimi anni e la levità e la professionalità alla quale ci hanno abituato i prodotti della BBC ci mettono il resto.

Tuttavia Flash Forward si pone l’obiettivo di sparigliare le carte. Basato sul romanzo Avanti nel tempo dello scrittore canadese Robert J. Sawyer, il nuovo serial televisivo interpretato da Joseph Fiennes, parte da Los Angeles ai giorni nostri. È il 6 ottobre 2009 quando un improvviso ed inspiegabile black out proietta la mente di tutti gli esseri umani che popolano il globo per sei mesi in avanti nel futuro. Terminato il corto circuito, tutti ricordano di aver vissuto qualcosa che accadrà il 29 aprile del 2010 e avranno sei mesi di tempo per cercare di cambiare il corso della storia. Flash Forward affronta il livello consequenziale dell’effetto “viaggio nel tempo”: la possibilità di cambiarlo. La domanda etica che il libro così come il serial si pongono è se sia lecito, dovuto o auspicabile che si possa cambiare il corso degli eventi avendo la possibilità di conoscerli in anticipo. Radicalizzando il concetto si arriva al punto di chiedersi se sia un bene, un dono, un vantaggio o solo un grosso disastro conoscere il giorno e la causa della propria morte. Perché il punto, alla fine, è essenzialmente quello. La fantascienza è considerata ormai solo da pochi ignoranti un sottogenere. In realtà nei Paesi anglosassoni, al pari della fantasy e della favolistica in generale è sempre stato considerato un genere in grado di sviscerare gli archetipi e di leggere ed esorcizzare le fobie umane. Una di queste, quella più subdola e sicuramente la più temuta è la paura della morte. Nessuno sa per quale motivo gli esseri umani non impazziscano di fronte all’ineluttabilità della propria fine. Qualcuno sostiene che sia per merito di sostanze che circolano nel sistema cerebrale e che in qualche modo anestetizzano l’unico evento non risolvibile della vita e presente dal momento della nascita. Qualcun altro dice che sia per via della fede in un’altra esistenza. Ma quando, come in Flash Forward, il fato rimette sul piatto la chiave per aprire la porta del futuro non c’è essere vivente che non sia tentato di raccoglierla per sbirciare cosa c’è dall’altra parte.

Tutti noi, almeno una volta, abbiamo pensato che sarebbe stato bellissimo o almeno utile poter vedere qualcosa del nostro domani...

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo pensato che sarebbe stato bellissimo o almeno utile poter vedere qualcosa del nostro futuro. Forse ancor più che il nostro passato. Perché questo ci avrebbe fatto credere di poter controllare la vita ed esorcizzare la morte. Gli autori di blockbuster lo sanno perfettamente perché fa parte dell’istinto di conservazione dell’uomo, è nel suo dna. E così hanno imparato a raccontare il tempo e le sue avventure. Un gioco sottile di mosse e contromosse, di paradossi e controparadossi che hanno dato linfa al fantastico per generazioni e generazioni. Ancora oggi riescono a concatenarsi in sempre più nuove ed interessanti variabili. Come quelle di Flash Forward, la nuova serie tv prodotta dalla ABC e in onda da qualche settimana in Italia su Fox. La risposta americana al-


cultura

pagina 20 • 28 ottobre 2009

In basso, la copertina del libro che raccoglie i due saggi di Weizman “Il male minore” e “Attacco legislativo”. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

editore Nottetempo ha raccolto in uno dei suoi agili volumetti due saggi brevi dell’architetto israeliano Eyal Weizman: Il male minore, che dà il titolo al libro e ne chiarisce subito il tema, e Attacco legislativo, in cui la discussione filosofica di questo tema si applica al conflitto tra lo Stato ebraico e i palestinesi. Nelle prime pagine Weizman ricorda la critica condotta da Hannah Arendt al concetto di «male minore» nel caso concreto dei Consigli ebraici: organismi attivi sotto il nazismo i quali, spesso nell’intento di limitare i danni, divennero loro malgrado veri e propri collaboratori degli aguzzini. A partire di qui, l’autore imposta una analisi-requisitoria in cui stupisce che non ritorni ancora il nome della Arendt: i concetti manovrati da Weizman finiscono sempre per intersecarsi con le analisi della pensatrice tedesca.

L’

Il bersaglio del libro è infatti l’idea che nella vita pubblica si possa eseguire un «calcolo del bene e del male» simile a quello che si compie in vista di fini circoscritti e “artigianali”. La legittimità di questo calcolo è il punto di partenza di ogni utopia: cioè di quella architettura della politica che, come la Arendt ha spiegato in Vita activa, tende indebitamente a equiparare l’opera dell’homo faber, che si muove tra mezzi e fini in forma di oggetto, alla radicale incontrollabilità delle interazioni umane. La questione si può poi afferrare anche dall’altro capo, come fa la stessa filoSulla sofa nello scritto violenza, constatando che l’agire basato sul criterio del male minore è tanto meno giustificabile quanto più si allontana l’obiettivo (il massimo della legittimità va appunto alla legittima difesa, il minimo invece al ricatto finalistico di organizzazioni che impongono ai loro membri piccoli o grandi delitti in nome di una palingenesi futura ma invisibile). Se dando conto del problema posto da Weizman insistiamo con i paralleli arendtiani, è perché il silenzio su questi paralleli - dopo l’iniziale citazione, circoscritta guardacaso alla storia ebraica è a nostro avviso spia di una delle più evidenti ambiguità del suo discorso: che punta subito il dito sui bersagli di sempre, ossia sull’Occidente in apparenza liberaldemocratico ma in realtà tecnocratico e sulla sua appendice israeliana. Sia detto chiaramente: molte delle critiche sono condivisibili. Ma è la visione d’insieme da cui scaturiscono a lasciarci diversi dubbi; e a suggerirci

Libri. Nottetempo rimanda in stampa due saggi brevi dell’architetto israeliano

Tra il bene e il male c’è di mezzo Weizman di Matteo Marchesini perché buona parte dell’opera arendtiana, pur essendo imperniata sulla denuncia dei machiavellismi contemporanei, si riveli salutarmente inutilizzabile ai fini dell’autore. Proviamo a spiegarci meglio. Weizman è

a un’agenzia non governativa etica, e questa agenzia deleghi allo Stato la sua pretesa di efficienza», e come questa alleanza tenda ad assuefarci ai conflitti a bassa intensità. Assuefazione pericolosa, perché «la durata complessiva» di simili con-

conclude che, dove è ancora possibile sfuggire al male minore, la scelta più feconda potrebbe essere quella di rifiutare l’aut-aut imposto e «non fare nulla», ci lascia quantomeno perplessi. E non perché noi si sia assetati di azione; ma per-

Molte delle critiche dell’autore sono condivisibili. Ma è la visione d’insieme a lasciarci dei dubbi e a suggerirci perché parte dell’opera della Arendt, da cui prende spunto, si riveli salutarmente inutilizzabile molto acuto quando, in un passo che fa da ponte tra il primo saggio “teorico”e il secondo “pratico”, osserva come negli scenari a metà tra guerra e controllo di polizia internazionale «lo Stato esternalizzi la propria coscienza etica

flitti potrebbe allungarsi a tempo indefinito «e, alla fine, potrebbero essere commessi più mali minori, con il risultato di un grande male raggiunto cumulativamente». Fin qui, dunque, l’analisi non fa una grinza. Tuttavia, quando l’autore ne

ché il 900, oltre a educarci sul rischio implicito in ogni omissione di soccorso, ci ha insegnato che esistono azioni capaci di spezzare il meccanismo di ritorsioni a catena da Weizman giustamente denunciato. Per dirla in modo più chiaro, c’è

una differenza essenziale tra il «non fare nulla», o anche tra il “fare” del pacifismo astratto, e le pratiche della nonviolenza: parola che Weizman, sintomaticamente, non pronuncia neanche per sbaglio - nemmeno per escluderne l’efficacia in situazioni di terrore. Anche di recente, l’Europa ha potuto sperimentare questa differenza. Davanti a una guerra in Iraq fomentata dalla menzogna, anziché puntare sulla richiesta di esilio per Saddam che il parlamento italiano appoggiò a maggioranza dopo un’azione nonviolenta dei radicali, i molti oppositori dell’amministrazione Bush vicini all’ipotesi Weizman mobilitarono le masse in nome di una astratta e inerte “pace”. Questa lacuna sulla diplomazia nonviolenta chiarisce perché Il male minore sia un libro stimolante ma in ogni senso discutibile; e lascia intuire perché l’analisi in situazione del secondo saggio si svolga secondo una linea non del tutto equa. Riferendosi alla repressione della seconda intifada e all’attacco contro Gaza a cavallo tra 2008 e 2009, Weizman denuncia la scelta israeliana di elasticizzare il diritto internazionale, abbassando patologicamente la soglia del vietato e creando complicità perverse tra ong, esercito, intellettuali. Fin qui, il timore è più che giustificato. Ma non è giustificabile che l’autore paragoni il diverso atteggiamento israeliano durante la prima e la seconda intifada, omettendo poi di paragonare le due intifade tra loro. Né è giustificabile che dopo una critica serrata alle organizzazioni internazionali puntelli la propria denuncia ricordando le risoluzioni Onu contro Israele, senza ricordare che le Nazioni Unite mantengono verso il mondo arabo un atteggiamento assai più indulgente.

Tuttavia, critiche puntuali a parte, la domanda di fondo che l’autore non smette di porsi lungo tutto il libro resta assillante e angosciosa: «Dovremmo discutere di diritto con gli avvocati militari, entrare nel calcolo economico della morte e della distruzione, del “corretto” rapporto di proporzionalità, e così anche nella battaglia sulla linea elastica? La nostra nozione di crimine deve necessariamente derivare da quella della legge esistente?». Difficile rispondere. Ma noi ci auguriamo che questo libro venga ristampato con l’aggiunta di un terzo saggio, in cui Weizman voglia analizzare l’unica azione pubblica capace di sfuggire all’aut-aut in modo non inerte: quella nonviolenta. Le sue «armi di attrazione di massa» possono talvolta produrre gli unici due eventi in grado, secondo la Arendt, di arrestare i peggiori effetti a catena della scena politica: il patto e il perdono.


cultura

28 ottobre 2009 • pagina 21

Mostre. Fino al 29 novembre, alla Fondation Cartier di Parigi, una grande esposizione dedicata ai “tags”: dalla New York anni 70 a oggi

Nuovo «American Graffiti» di Stefano Bianchi

In questa pagina, alcune delle opere che si possono ammirare, fino al 29 novembre alla Fondation Cartier di Parigi, alla mostra Né dans la rue-Graffiti

PARIGI. Escludendo a priori quelle tags senza arte né parte che insozzano i muri delle nostre città, il Graffitismo è ormai entrato nel “mainstream” culturale. Eppure, nonostante l’enorme popolarità, questa scheggia impazzita di contemporaneo continua a evolversi nella periferia dell’arte col risultato di divulgare al grande pubblico poco o nulla della sua storia. Né dans la rue – Graffiti, esposizione kolossal in scena alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi fino al 29 novembre, ha un obiettivo ben preciso: fare lo “screening”, delineare i contorni di questa vasta e complessa forma d’espressione che coinvolge una miriade di tecniche, idee, stili. Tutto ha inizio a New York, allo scoccare degli anni Settanta. E viene documentato nella prima sezione della mostra con maestosi pannelli, schizzi preparatori, suoni, video, foto, ritagli. Nella Big Apple dell’epoca, sull’orlo della bancarotta, si muove un piccolo esercito di sedici/diciottenni ispanici e afroamericani che scrivono i loro nomi sui muri degli edifici abbandonati e sugli autobus in via di rottamazione. Prima a pennarello, poi con la vernice a spray, il writing è un passaparola che si allarga a macchia d’olio: dal quartiere di Washington Heights, al Bronx, fino a Brooklyn. Il movimento, figlio della “working-class”,

debutta con un mordi-e-fuggi di tags. E lo pseudonimo che contraddistingue ogni writer, viene spesso accompagnato dal numero civico del suo domicilio (Julio 204, Taki 183, Joe 182) per comunicare un forte senso d’appartenenza al territorio.

“ready-made”. A colpi di spray sempre più agili e raffinati, rischiano la pelle e la galera. Anche se le barriere di classe e di razza impediscono reali fusioni all’interno del fenomeno, il

A partire dal 1971, i graffitisti scelgono come “tele” i vagoni della metropolitana: prima gli interni e poi, a poco a poco, gli esterni. Per poter essere visibili a tutti (pendolari, pedoni, novelli rivoluzionari di altre periferie), trasformano l’ingenua essenzialità della loro “fir-

ma”in un caleidoscopio di stelle, frecce, saette, simboli ribelli. Spruzzano, sulla pelle della “subway”, un miscuglio di cultura “bassa” e cultura “alta”: ai tipici fumetti dell’underground, affiancano e sovrappongono dettagli grafici di copertine di dischi (soprattutto quelle dello psichedelico Rick Griffin, devote a Grateful Dead, Neil Young e Steppenwolf), marchi della pubblicità, frammenti di “slang” latinoamericano, calligrafie musulmane, Pop Art, Concettualismo. P.H.A.S.E. 2, Blade, Kase 2 e Dondi, lavorano di notte alla loro idea di

In “Né dans la rue”, schizzi e affreschi che ripercorrono l’arte dei “writer” degli ultimi trent’anni, oltre a dieci installazioni di graffitisti contemporanei graffiti style viene dapprima inglobato nella danza (che gli dà una precisa valenza artistica quando nel ’74 la coreografa Twyla Tharp mette in scena

lo spettacolo Deuce Coupe affiancando al corpo di ballo il collettivo degli United Graffiti Artists che elabora in presa diretta un mastodontico spray painting) poi nel Punk e successivamente nella cosiddetta skateboard culture. Dopodiché, tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, il mondo dell’arte s’accorge finalmente dei graffiti: Lee, Fab Five Freddy, Futura, Lady Pink, Crash e Daze, espongono le prime tele nel Bronx (alla neonata galleria Fashion Moda di Stefan Eins) e nel Lower East Side (alla Fun Gallery

di Patti Astor). Lavorano duro nei capannoni, sperimentando nuove tecniche grafiche. In simultanea, tre futuri protagonisti del movimento mettono il loro talento al servizio della strada: SAMO, re delle frasi/slogan destinato a trasformarsi in Jean-Michel Basquiat fra Primitivismo Afro e Art Brut; Keith Haring, che tratteggia col gessetto i primi “subway drawings”; Kenny Scharf, che dipinge surreali fumetti “from outer space”. In più, come documentato dal

film Wild Style (’82) e dal reportage Style Wars (’83), flirtano con la breakdance, l’hiphop e non disdegnano (è il caso di Lee, Dondi, Fab Five Freddy e Futura) di partecipare ai video dei Blondie e dei Clash legalizzando il connubio tra Graffiti Art e New Wave. IGTimes, la prima “fanzine” che focalizza la “contemporary urban youth culture”, riesce a circolare in poche copie anche in Europa (Parigi, Londra, Amsterdam), dove il Graffitismo sta iniziando a muovere i primi passi. Ma è sempre New York, malgrado le violente crociate anti-graffiti, il cuore pulsante del movimento.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, è pronta una nuova generazione di “street artists”: JonOne, West, Ghost, SaneSmith, Sento, Reas, Wane. Che mutano, più che mai, il “visual landscape” di Manhattan e dintorni. Paesaggio visuale che nella seconda sezione di Né dans la rue – Graffiti “divora” letteralmente gli spazi della Fondation Cartier con “affreschi” monumentali di P.H.A.S.E. 2, Seen e Part One, nonché installazioni (in giardino, sulle vetrate dell’edificio) di 10 graffitisti d’oggi, testimoni di un “movement”ben lungi dall’estinguersi: dal cileno Basco Vazko ai brasiliani Cripta e Vitché (esponenti di spicco della pixação), fino allo statunitense Barry McGee e all’olandese Boris Tellegen, in arte Delta.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Le Point” del 27/10/2009

Angola-gate alla francese

Q

uarantadue persone e i loro avvocati, ieri, erano davanti alla Corte. Per ascoltare la sentenza sulla loro responsabilità nel il ruolo che avrebbero giocato nella cosiddetta vicenda Angolagate: i soci in affari Arcadi Gaydamak e Pierre Falcone, alcuni loro ex dipendenti e oltre due dozzine di «eccellenti» ai quali sarebbero state indebitamente versate dazioni in denaro. Come in un opera cinematografica ecco i protagonisti della vicenda, in ordine di apparizione.

Arcadi Gaydamak, 57 anni, fuggito prima in Israele e poi a Mosca, e Pierre Falcone, 55 anni, avrebbero organizzato dal 1993 al 1998, un vasto traffico di armi verso l’Angola, senza l’autorizzazione dello Stato francese. Avrebbero inoltre versato oboli nelle tasche di eminenti personalità angolane e francesi. In particolare, la Procura ha chiesto sei anni di carcere ai due personaggi in affari, per commercio illegale di armi, appropriazione indebita, frode fiscale e anche corruzione (trafic d’influence). I due non hanno contestato il traffico d’armi, ma sostengono che il commercio non sia stato condotto dal territorio francese e quindi non avrebbero avuto bisogno della luce verde da Parigi. Falcone ha detto di aver agito per conto dello Stato angolano, invocando l’immunità diplomatica. Gaydamak non è mai comparso al processo. Poi ci sono le personalità eccellenti alle quali venivano messe a disposizione – per un utilizzo improprio – dei beni aziendali dei due soci. I nomi sono di un certo peso. Charles Pasqua, senatore di 82 anni, ex presidente dell’ente Hauts-de-Seine ed ex ministro degli Interni; Jean-Charles Marchiani, suo consigliere e prefetto del Var, 66 anni: avrebbero ricevuto ognuno più di qualche centinaia di migliaia di dollari, in cambio della loro azione di lobbing in Angola. Il procuratore ha

chiesto 18 mesi per Marchiani, che sosteneva di aver agito nel quadro di misteriose «missioni segrete». Il procuratore ha chiesto tre anni con la sospensione condizionale della pena per Pasqua, cadono anche le accuse per corruzione, per un suo intervento nell’assegnazione dell’ordre national du mérite a Gaydamak. Jacques Attali, 65 anni, ex consigliere di François Mitterrand, avrebbe ricevuto160mila dollari, dal 1997 al 1999, per usare la sua influenza con Bercy e il ministro degli Esteri, Hubert Védrine, per risolvere i problemi fiscali di entrambi i partner nel traffico d’armi. Per lui il procuratore ha chiesto l’assoluzione, sostenendo che Attali aveva effettivamente ricevuto dei soldi, ma a pagamento di un lavoro «vero»: si trattava di uno studio sul microcredito.

Georges Fenech, 55 anni, ex deputato Ump (il partito del presidente Nicolas Sarkozy,ndr), magistrato e presidente del Miviludes (agenzia governativa nata per combattere il radicamento delle sette religiose): l’associazione professionale dei magistrati (Apm) avrebbe indebitamente percepito 15mila euro. Sei mesi con la sospensione condizionale della pena è stata richiesta del pubblico ministero. Jean-Christophe Mitterrand, 62 anni, figlio primogenito del presidente François Mitterrand, con lui era diventato il consulente dell’Eliseo per l’Africa tra il 1986 e il1992: avrebbe ricevuto 2,6 mi-

lioni di dollari in qualità di intermediario, una somma, secondo la tesi difensiva, legata alla retribuzione di una «consulenza». Un anno è stata la richiesta dell’accusa.

Paul-Loup Sulitzer, 63, romanziere, autore di libri su intrighi finanziari: avrebbe ricevuto 380mila euro per usare la sua influenza nel mondo dei media per migliorare l’immagine dei due soci. Nella requisitoria sono stati chiesti 18 mesi con la sospensiva. L’avvocato Allain Guilloux (un anno la richiesta di condanna), l’ex consigliere per l’Africa del Partito socialista, Jean-Bernard Curial (sei mesi), Josée Lyne Falcone, sorella di Pierre (18 mesi con la condizionale), l’ex presidente di Radio Monte Carlo, Jean-Noel Tassez (18 mesi con la sospensiva). Tra gli imputati anche molti dipendenti della società Brenco, a cominciare dalla segretaria Isabelle Delubac, per lei la richiesta del pubblico ministero è stata di un anno di reclusione.

L’IMMAGINE

Sky sostituisce la Rai come servizio pubblico.A che serve pagare il canone? Sembra che Sky sostituisce la Rai come servizio pubblico perché il “contratto di servizio” 2007-2009, tra lo Stato e la Rai, all’articolo 26, prevede che «La Rai si impegna a realizzare la cessione gratuita, e senza costi aggiuntivi per l’utente, della propria programmazione di servizio pubblico sulle diverse piattaforme distributive, compatibilmente con i diritti dei terzi e fatti salvi gli specifici accordi commerciali». Il che significa che la Rai deve far accedere alla propria programmazione anche Sky. Con il fallimento della trattativa per continuare a collocare i programmi Rai su Sky, si viene meno al rispetto del “contratto di servizio”, oltre a produrre un danno da mancanza di introiti per circa 60 milioni di euro l’anno, tra cessazione dell’accordo e perdita della pubblicità, ai quali ci aggiungiamo la perdita di utenti. La Rai non consentirà di vedere Sky mentre Sky consentirà di vedere la Rai, senza ulteriori costi. Insomma, la funzione di servizio pubblico la sta assumendo un privato. Perché pagare il canone, allora?

Lettera firmata

LA CRUDELTÀ DELL’UOMO NON RISPARMIA NESSUNO Zorro è un simpatico volpone che abita nel bosco di Pecol (piccola frazione di Cortina). Zorro ha trovato una persona squisita (la signora Fiorella) che puntualmente gli fa trovare cibo e una buona dose di coccole. È anche “fidanzato” con altri volpi che lo seguono sempre durante le visite a Fiorella. Il tg3 regionale di alcuni giorni fa annunciava una nuova “rivolta” degli abitanti di Pecol. A nulla sono bastati i controlli e le visite per rassicurare gli abitanti di Pecol: per loro le volpi rimangono portatrici di malattie e per questo devono morire. Chiedono l’intervento dei cacciatori per sterminare questi animali incantevoli e intelligenti. La crudeltà dell’uomo non risparmia

nessuno, nemmeno creature che tentano di avvicinarsi amichevolmente sono meritevoli della vita.

Centopercentoanimalisti

GIOVANI RUSSE CERCANO AMORE E BENESSERE IN ITALIA Totalitarismi comunisti hanno mortificato le principali virtù (fonti di progresso): iniziativa, creatività, industriosità, coraggio, indipendenza e attitudine a fronteggiare i rischi. Hanno diffuso indolenza, conformismo e torpore. Anche dopo la caduta di totalitarismi marxisti leninisti, la povertà diffusa permane per inerzia, fino a quando la popolazione si liberi dalla passività, inculcata dal giogo tirannico di tipo sovietico. Ragazze dell’est dimostrano una brama inesausta del Belpaese. Numerose

Piccoli lavoratori Quando il lavoro chiama questo wallaby (fam. Macropodidae) - piccolo marsupiale diffuso in Australia, parente dei canguri - non si tira certo indietro. Abbandonato dalla madre questo cucciolo passa la maggior parte del suo tempo nei marsupi artificiali degli operatori dell’Edogawa Natural Zoo di Tokyo, dove vive. Anche durante il lavoro d’ufficio

si propongono con e-mail (e belle foto allegate) - per amore, matrimonio o compagnia - agli italiani: data l’estesa povertà nelle loro nazioni, sono portate ad agognare l’Italia, idealizzata come Eldorado. Oksana, una di queste giovani, si presenta in modo toccante: «fiore tenero, dolce e romantico», e promette di far percepire al partner sognato «l’inverno come estate e la

sfortuna come felicità». Tante speranze di benessere, amore e fuga dall’ex comunismo reale siano di monito ai collettivisti e ai denigratori dell’italianità e della liberaldemocrazia.

Gianfranco Nìbale

ANTICOSTITUZIONALITÀ Fin quando non si modificherà la Costituzione che è vecchia di

mezzo secolo circa, si moltiplicheranno i lodi di controversa matrice anticostituzionale, perché non ci si può riferire ad una realtà obsoleta per definirne l’ineleggibilità. Potrà sembrare questa una difesa del lodo Alfano, ma è soprattutto una critica verso le motivazioni addotte per annullarlo.

Gennaro Napoli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sulla strada del Paradiso È domenica - ora - John - sono andati tutti in chiesa - le carrozze sono ormai passate e così sono venuta fuori, sull’erba appena nata, ad ascoltare gli inni. Mi hanno seguita tre o quattro galline e ora sediamo vicine - mentre bisbigliano e crocchiano, a te racconterò cosa vedo oggi e cosa desidererei tu vedessi. Te lo ricordi il muro fatiscente che divide la nostra proprietà da quella del signor Sweetser - e gli olmi fatiscenti e i sempreverdi - e altri fatiscenti elementi - che nel volgere di un anno fioriscono, appassiscono e perdono i loro petali - bene - sono tutti qui, e sopra di me cieli più belli dei cieli italiani volgono verso il basso il loro sguardo azzurro. Eccoli, là in alto, a un miglio da qui, sulla strada del Paradiso. E poi qui ci sono pettirossi appena tornati a casa e corvi spensierati e ghiandaie, e ancora - te lo giuro, credimi - qui c’è un bombo, non di quelli che porta l’estate, di quelli seri, virili, ma del tipo vistoso, gradasso dagli abiti sgargianti. Fossi qui con me avrei molto da farti vedere, John, nell’erba di aprile, ma ci sono anche gli aspetti più tristi, qui e là, ali che palpitavano senza sosta lo scorso anno quasi ridotte in polvere, una piuma marciscente, una casa disabitata, dove viveva un uccello. Emily Dickinson a John L. Graves

ACCADDE OGGI

LE PRIMARIE AL CHIUSO Le primarie del Pd si sono organizzate come i soliti fenomeni di baraccone che non sono vissuti tra la gente, ma all’interno delle sedi di partito, dove molti discorsi sono sottesi e altri ancora in attesa di esserlo. Dovrebbero esserlo alla politica, quella propositiva, alternativa o meglio integrativa, sempre che ciò sia poi desiderato sul serio. Esprimere cioè quante più convergenze dialettali con l’esecutivo per il bene del nostro Paese.

BR

ENERGIA NUCLEARE. LE OFFERTE DELLA GIORDANIA Re Abdallah II, nei giorni scorsi in visita ufficiale in Italia, intervenendo al “Business Forum” fra Giordania e Italia, ha offerto il proprio Paese come partner dell’Italia nell’ambito della produzione di energia nucleare. Il re ha ricordato che in Giordania si trova il 3% dell’uranio mondiale, che è nella miniera più grande al mondo e che hanno già firmato un accordo con i francesi di Areva. È bene ricordare che l’uranio è il combustibile per le centrali nucleari e le sue scorie nessuno è in grado di trattarle per renderle innocue; motivo per cui sono oggetto dei più turpi mercimoni coi Paesi poveri che le ospitano o interrate chissà dove senza che si sappia. Questo combustibile per noi sarebbe esclusivamente di importazione. L’offerta della Giordania, come quelle di altri Paesi ai medesimi livelli di ricchezza, sarebbe potenzialmente tra quelle che economicamente

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

28 ottobre 1886 New York: il presidente Grover Cleveland inaugura la Statua della Libertà 1891 Viene fondata, da coloni italiani, Nova Veneza nello Stato di Santa Catarina in Brasile 1900 Parigi: si chiude la II Olimpiade 1919 Stati Uniti: inizia il proibizionismo 1922 Marcia su Roma di Mussolini 1932 Inaugurazione ufficiale della Rovato - Soncino e dell’esercizio della completa linea ferroviaria Cremona - Iseo 1929 New York: lunedì nero in borsa 1940 Seconda guerra mondiale: l’Italia invade la Grecia 1949 Francia: Georges Bidault diventa primo ministro 1958 Roma: eletto Papa Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli) 1965 Papa Paolo VI promulga l’enciclica Nostra Aetate 1995 Baku: un incendio si sviluppa nella metropolitana della capitale, causando numerose vittime

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

attrarrebbero di più il nostro Paese. Che si troverebbe ad avere una dipendenza doppia con l’avvio di queste centrali, non solo l’uranio ma anche la tecnologia (essenzialmente francese). La domanda che noi poniamo è la seguente: vale la pena dipendere da Paesi come la Giordania per l’approvvigionamento energetico, considerando che nei piani del governo questo tipo di energia dovrebbe servire a soddisfare il 4,5% del fabbisogno nazionale? Forse è il caso di aprire bene gli occhi prima di continuare con queste scelte la cui economicità e durata nel tempo è tutto da dimostrare che possa essere utile a consumatori e aziende.

Lettera firmata

USANZE Gli eventi partenopei si ripetono, con periodica puntualità, cambiando solo il nome, oggi Agenzia per l’ambiente: sono entità mascherate per fare prima beneficenza, poi ecologia, poi promesse, poi liste politiche. È difficile sentirsi criminali, se si è partiti dai buoni proponimenti, nonostante che la propria responsabilità politica oltre che professionale, sia stata una delle cause determinanti per far cadere un governo. La considerazione è che ancora una volta è un vento diverso che vince per atti di giustizia aspettati, fermo restando che sono malefatte che vertono sulle cattive abitudini dell’uomo e non la conseguenza di direzioni politiche, che quando si tratta di fare soldi, sono indifferenti al contagio.

ISTITUZIONE E PROMOZIONE DEL BILANCIO SOCIALE (II PARTE) Il bilancio sociale rappresenta un importante strumento di comunicazione che assicura un elevato livello di trasparenza dell’azione pubblica e consente al cittadino di venire a conoscenza sia dei risultati raggiunti dall’ente sia degli eventuali problemi sopraggiunti nella gestione. Allo stesso tempo, nel settore pubblico, redigere un bilancio sociale significa non solo puntare all’efficacia e all’efficienza dell’azione pubblica, ma anche guardare alla coerenza complessiva dell’azione politico-amministrativa, ovvero al rispetto di quei valori etici, civili, sociali e costituzionali, che gli amministratori si prefiggono, quando si assumono la responsabilità della gestione pubblica. Oltre a ciò, il bilancio sociale negli enti pubblici costituisce anche un potente strumento di “autodiagnosi”, in quanto, a qualsiasi livello, tutti gli operatori sono coinvolti nei processi di analisi e di soluzione dei problemi emergenti. Pertanto, il bilancio sociale di un’amministrazione pubblica ha l’obiettivo di far emergere: 1. la componente istituzionale comprendente i valori guida dell’azione; 2. la componente politica riguardante l’efficacia dell’operare; 3. la componente amministrativa attinente all’efficienza della gestione. Un altro aspetto rilevante concerne l’uso, all’interno degli enti pubblici, di altri strumenti di rendicontazione e di controllo (il programma di mandato, la relazione previsionale e programmatica, il bilancio pluriennale, il bilancio annuale, il piano esecutivo di gestione, la relazione della giunta al bilancio) che, però, non riescono a cogliere appieno il crescente bisogno informativo dei cittadini. Infatti, questi documenti risentono di forti limiti rispetto sia alle nuove modalità di gestione sia alle relazioni con tutti gli stakeholder. In particolare: non mettono in evidenza gli aspetti non quantificabili in termini monetari e, quindi, non sono adatti a sostenere una corretta valutazione dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa; non risultano leggibili, fruibili e accessibili da parte dei cittadini; non presentano una visione d’insieme in grado di indirizzare l’azione del network di soggetti, che compongono l’amministrazione e di quelli che partecipano con essa all’attuazione delle politiche. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 30 E SABATO 31, ORE 11, ROMA PALAZZO WEDEKIND - PIAZZA COLONNA “Di cosa parliamo quando diciamo Italia”. Intervengono: Ferdinando Adornato, Pier Ferdinando Casini, Rino Fisichella, Carlo Azeglio Ciampi. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Barbara Roma

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO

Spazio. Ares I-X dovrebbe sostituire gli space shuttle per il nuovo sbarco sulla Luna e le missioni nel sistema solare

Alla prova il razzo che ci porterà su MARTE I di Pierre Chiartano

l tempo, quello meteorologico a volte non aiuta le imprese spaziali. Ma neanche quello dimensionale che leggono i cronometri. Con quelle benedette piattaforme inerziali – il sistema di guida dei missili in mezzo alle stelle – che vanno resettate su finestre temporali molto strette. Sensibili alla rotazione terrestre in ossequio alla legge dei giroscopi. Non ne parliamo quando i due “tempi” si alleano per fare lo sgambetto. La Nasa, ieri, ha dovuto rinviare di 24 ore il lancio del vettore Ares I-X che è sicuramente un primo passo verso

stadio -– non operativo, ma di massa equivalente a quella dei futuri moduli di servizio e di comando – dovrebbe ricadere nell’Oceano. Ieri, dopo aver aperto l’ombrello per ben quattro volte la Nasa ha deciso di rimandare l’esperimento a oggi. Si tratta di un test di volo suborbitale da 445 milioni di dollari, che durerà in tutto 6 minuti e raggiungerà i 50mila metri d’altezza alla velocità massima di 4,7 la velocità del suono. Solo 360 secondi dal lancio allo splashdown nell’Atlantico, per la missione sperimentale sul nuovo razzo, prima tappa del progetto esplorativo Constellation che potrebbe aprire la strada al ritorno dell’uomo sulla Luna e all’esplorazione interplanetaria iniziando da Marte. Finanziamenti permettendo. Nuova accensione dei motori fissata

per oggi. Finestra di lancio di 4 ore a partire dalle 8 del mattino in Florida. ll vettore del test sarà simile per massa e dimensione ad un razzo Ares I contenente la navetta Orion e sarà alimentato da un singolo razzo a combustibile solido a quattro segmenti, analogo a quelli utilizzati nello Space Shuttle, e modificato per includere un quinto segmento inattivo. La navetta Orion e lo stadio superiore saranno sostituiti da modelli.

Nella conferenza stampa pre-lancio il mission manager del nuovo lanciatore Bob Ess non ha nascosto le incognite e le complessità del test di un lanciatore completamente nuovo. Fiducioso? Gli hanno chiesto i giornalisti accreditati alla Nasa che seguono passo dopo passo il progetto. «Certo, molto fiducioso – ha risposto». Ti giocheresti la casa l’hanno incalzato? «No, quella no!». E la casa non è disponibile a scommetterla nemmeno Doug Cooke, responsabile Nasa per i sistemi esplorativi che si è detto consapevole dei rischi che si vanno ad affrontare con questo test. «Ares I – ha spiegato – è un concetto totalmente nuovo, di cui dobbiamo ancora imparare molto, e d’altra parte i test si fanno proprio per questo». Oggi, prima dell’alba, per la Nasa inizia dunque una nuova fase, ma le procedure di sicurezza sul territorio sono quelle di qualsiasi grande lancio: una volta liberato lo spazio aereo intorno al centro spaziale, una volta intitolato al presidente Kennedy – oggi Cape Canaveral – i caccia dell’aviazione saranno mesi in posizione. Saranno pronti a intervenire con altri missili, se si dovesse perdere il controllo del razzo. Insomma, oltre agli ombrelli è utile tenere un dito sul grilletto.

Doug Cooke, responsabile Nasa per i sistemi esplorativi: «Ares I è un concetto totalmente nuovo, di cui dobbiamo ancora imparare molto, e d’altra parte gli esperimenti si fanno proprio per questo». Il test dovrebbe durare solo 360 secondi dal lancio allo splashdown nell’Oceano Atlantico un’impresa nuova, anche se partita fra mille difficoltà e in tempi di crisi. Che qualcosa si debba fare è inevitabile, ma intanto i 400 milioni di dollari spesi per questo volo sperimentale per un vettore che non ha un futuro certo fanno davvero riflettere. All’ente spaziale Usa spiegano che non c’è nessuna ragione per cancellarlo, visto che che smontare un Ares I-X costerebbe più che spararlo verso il cielo.

Per non sottolineare il fatto che, comunque vadano le cose, gli ingegneri della Nasa e delle aziende che hano costruito il missile acquisiranno una montagna di dati utilissimi per un Ares I «alternativo». Il test dovrebbe durare pochi minuti e riguardare essenzialmente solo il primo stadio del razzo: questo verrà recuperato grazie a dei paracadute, mentre il secondo


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