Speciale accoglienza

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Accoglienza
IL MENESTRELLO Speciale
Periodico del Centro diurno del Mendrisiotto .. N°2 2022 .. Via Bossi 11, 6830 Chiasso

INDICE

Editoriale pag.2

SPECIALE ACCOGLIENZA

Il mio nido pag.3

I “primi giorni” pag.5

Il dono dell’accoglienza pag. 7

Bar sorriso pag.9

Il Centro diurno… pag.10

Quando esco di casa pag,11

Sawubona pag.12

Una nuova prospettiva pag.13

Una lettera al Centro diurno pag.14

Il “nostro “ Centro diurno pag.15

Intervista a Donato pag.17

FOCUS: VACANZE E USCITE

Ida e il mare pag. 20

Vacanza Interclub pag. 21

FOCUS: CONVEGNO ETTORE PELLANDINI

Voi con noi pag. 22

Riflessioni post convegno pag. 23

FOCUS: MAD PRIDE

Spinnst du? pag. 25

Mani sudate pag. 26

ALTRI ARTICOLI

Ciao Narghis pag.27

Saluto al Centro diurno pag.28 Reclusione e autoreclusione pag.29

Ikigai pag.31

Colore giallo pag.32

Ricordi dolci e meno dolci pag.33

Collage pag.34

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EDITORIALE

L’accoglienza è apertura. Si apre per lasciar entrare, in uno spazio, in un gruppo o nel cuore.

L’accoglienza è mettersi in gioco, perché si coinvolge l’altr* in qualcosa di proprio.

L’accoglienza è riconoscere l’altr*, è ascolto. L’accoglienza è accettazione, è togliere la distanza tra le persone.

Accoglienti possono essere le persone e accogliente può essere un ambiente. Per indole, per scelta e per principio i club terapeutici fondano gran parte del loro essere sull’accoglienza.

Ecco perché al Centro diurno di Chiasso, sede, lo ricordiamo, del Club Athena, prestiamo una grande attenzione a questo aspetto, sia dal punto di vista interpersonale che dell’ambiente.

Diverse testimonianze, tra gli articoli pubblicati in questo numero, lo confermano attraverso il racconto della propria esperienza al CD. Lo si narra anche attraverso le parole di e per la stagiaire che è stata con noi alcuni mesi e lo spiega bene anche Donato Di Blasi nell’intervista in cui ci racconta Casa Astra, un esempio encomiabile di accoglienza sul nostro territorio.

L’accoglienza è un valore, fatto di diritti e doveri. Il diritto di essere accolt*, per esempio, quando si è costrett* a lasciare la propria casa e i propri affetti per sfuggire a un grave pericolo.

Vivere Chiasso, città di frontiera perlopiù “attraversata” dalle persone, significa anche incontrare la sofferenza di chi approda al Centro federale d’asilo, con tutte le difficoltà trascorse, la fatica di un presente sospeso e l’enorme incertezza nel futuro. Al Centro diurno abbiamo fatto nostra la capacità di accogliere queste persone che spesso vediamo per poco tempo, prima che vengano trasferite, che parlano un’altra lingua a cui ci dobbiamo adattare e che poi sono estremamente grate dell’accoglienza che hanno ricevuto. Per noi sono piccoli gesti e per altre persone significano tanto. E alla fine significano tanto anche per noi, che ne usciamo arricchit* nella possibilità di cambiare prospettiva, di confrontarsi con persone tanto diverse per scoprire quanto abbiamo in comune.

Ecco perché ci stava a cuore dedicare un’edizione del Menestrello al tema dell’accoglienza. Come sempre però vi parliamo anche degli eventi che ci hanno accompagnato negli ultimi mesi, anche se rimandiamo alcuni di questi al prossimo numero – come la vacanza a Roma che abbiamo fatto l’autunno scorso..!

Buona lettura

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MIO NIDO

Un luogo amichevole, cordiale e ospitale, luminoso e caloroso, è pure un luogo accogliente. Vi parlo quindi del mio piccolo mondo fra le 4 mura domestiche, quello che è il mio nido, ossia la mia casa. Scrivo questo articolo in una data non a caso: sono esattamente tre anni che sono qui e mai scelta è stata cosi azzeccata. Ricordo il giorno in cui ho visto il mio appartamento per la prima volta: mi sentivo pieno di pensieri! Sarà l’appartamento giusto per me? Mi piacerà? Ricordo benissimo le parole di una persona che ho a cuore che mi disse: Troverai l’appartamento vuoto e spoglio, ma in ogni caso capirai tu se sarà quello ideale. Aveva pienamente ragione questa persona, che non era altro che Joelle, l’operatrice di riferimento durante il periodo comunitario a Casa Astra. Quel giorno era lì con me a darmi forza, ma la casa l’ho scelta io. Cosa mi ha fatto innamorare in pochi minuti? Beh, la luminosità dell’ambiente non appena ho alzato le tapparelle e la bella vista della città che si può ammirare dal mio balcone. Inoltre, cosa non evidente, il padrone di casa si è dimostrato fin da subito disponibile, continuando ad esserlo anche tutt’ora. Quando lo chiami, lui c’è!

Ma torniamo al mio appartamento, che vorrei descrivere per chi non lo conosce ancora. Il locale principale è il soggiorno che è davvero spazioso e arredato in maniera semplice. Un comodo divano ad angolo, un vecchio tavolo che prima o poi dovrò cambiare e alcuni soprammobili, su uno dei quali c’è la televisione. Le cose più importanti per me sono però affisse ai muri di questo locale. Una bandiera della pace, valore in cui io credo a maggior ragione in questo periodo storico, una carta del mondo perché vorrei riprendere a viaggiare, una tela con appiccicate le foto a cui più son legato, il certificato di primo soccorritore per persone con disagio psichico e alcuni attestati di partecipazione, che non hanno valore legale, ma hanno invece per me grande valore affettivo. Dove vivevo prima avevo alle pareti i miei diplomi lavorativi, che ho voluto mettere da parte in quanto mi legavano troppo a quel passato da cui sto lottando oggi per distaccarmi. In un’altra cornice ho desiderato appendere un certificato di riconoscimento che mi è stato donato dal mio Centro diurno per quello che continuo a fare ogni giorno e di cui sono fiero.

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Non posso dimenticare infine la prima opera artistica del mio nipotino Dorian, che mi è stata donata per il mio compleanno e che ho appeso sul vetro della porta del soggiorno. Ah, dimenticavo! Qui ho appeso pure il gagliardetto della mia squadra del cuore, il Milan, squadra che tifo fin da quando ero bambino. Sul tavolo del soggiorno è presente il mio PC che utilizzo per la scrittura dei miei articoli e in posizione privilegiata. Tante ispirazioni le prendo guardando fuori dalla finestra, come sto facendo ora. Fuori dal soggiorno il mio splendido giardino: sei gelsomini e un’edera di cui ho preso l’impegno di prendermi cura. L’estate scorsa è stata fra le più torride, ma io sono riuscito a mantenere le mie piante in salute, bagnandole ogni giorno. Di questa passione ne ho preso consapevolezza al Centro diurno, durante il gruppo giardino tenuto dall’infermiere Aleks che ringrazio tanto. Un altro locale molto importante per me è la mia camera da letto. Parlo da paziente che ha avuto in passato gravi problemi con la conciliazione del sonno.

Qui è il luogo dove mi rifugio durante la notte, per godermi il meritato sonno. E poco importa se il sonno è determinato dalla terapia farmacologica, l’importante è svegliarsi bene il giorno successivo. Sdraiato sul letto oppure sul divano in salotto amo ascoltare la musica, soprattutto in quei momenti in cui la mia mente e colma di pensieri. Ho scoperto infatti questa strategia da mettere in atto per combattere il silenzio assordante di quei momenti poco sereni oppure quando sono in balia di emozioni non troppo positive. Una strategia che funziona! Un breve accenno anche sulla cucina, piccola ma funzionale, che per me è fondamentale quando desidero sperimentarmi fra i fornelli, altra mia passione. Sono comunque pienamente consapevole che in questi luoghi, così come in qualsiasi altro luogo là fuori, io non sono completamente al sicuro. Tutto dipende da come sono in grado di radicarmi al momento presente, senza far sì che la mente divaghi qua e là. Solo cosi facendo nella mia casa o in qualsiasi altro posto io posso sentirmi veramente protetto.

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“PRIMI GIORNI”

Ci sono dei momenti, nel mio percorso, incisi nella memoria. Nello specifico si tratta di tutta una serie di eventi che hanno in comune un aspetto a mio avviso fondamentale, ossia l’accoglienza. Una serie di date che per me hanno significato molto e che vorrei ricordare attraverso aneddoti simpatici.

Lunedi 30 gennaio 2017 è stato il giorno della prima visita con il mio medico psichiatra. In verità non si tratta di una prima assoluta, visto che da ragazzo ho già frequentato questi particolari studi medici. Si tratta però della prima volta in cui ho volontariamente chiesto e accettato aiuto. Di quel giorno ricordo che ero abbastanza agitato. Già in sala di aspetto non riuscivo a star fermo, tanto che ho sfogliato in maniera compulsiva le riviste che erano presenti. In quel periodo lo si poteva ancora fare, ora a causa del Covid hanno tolto tutti i giornali. Ad un certo punto, in maniera del tutto genuina e spontanea mi rivolgo alla segretaria con questa domanda: “mi scusi, ma il dottore è giovane oppure no?” Lei con occhi sbigottiti mi risponde che il medico è una persona di mezza età. In realtà la domanda che le volevo porgere non si riferiva tanto all’età anagrafica, ma al grado di apertura mentale riguardo alle cure. Una volta entrato nel suo studio il medico mi ha messo subito a mio agio e mi ha chiesto cosa mi facesse soffrire. Le mie preoccupazioni iniziali si sono subito dissipate, capendo che avevo di fronte a me il professionista che cercavo, senza nulla togliere a chi ha idee più conservatrici, definiamole cosi. La prima cosa che abbiamo discusso è stata come migliorare la qualità del sonno, mio tallone d’Achille. Successivamente, egli mi ha aiutato a prendere consapevolezza del mio tono d’umore, attraverso un lavoro certosino. Dovevo infatti disegnare su un foglio di carta, ogni giorno, un grafico raffigurante le mie oscillazioni cercando di capirne le cause. Sempre lui, o meglio grazie a lui, ho preso consapevolezza

qualche tempo dopo di aver bisogno di un ulteriore aiuto, ossia di un ricovero in clinica.

Giovedì 8 dicembre 2018 è la data del primo giorno di ricovero in una clinica psichiatrica, per una presa a carico maggiore e di miglior qualità. Come da prassi al mio arrivo ho svolto la visita di ammissione, davanti al medico psichiatra che sarebbe divenuto poi il punto di riferimento di questa esperienza. E davanti pure al medico osservatore che è stato zitto tutto il tempo. Di questa seconda persona ricordo che indossava un paio di occhiali con delle lenti che sembravano dei fondi di bottiglia e che mi ha suscitato simpatia. Il mio medico invece, Giancarlo il suo nome, era una persona sulla trentina di origine pugliese e con una capigliatura molto alla moda. Una brava persona, che si è messa subito al mio livello, ma soprattutto un bravissimo professionista. Io l’ho capito immediatamente, aprendomi praticamente subito. Quello che mi ha colpito in positivo e fin dall’inizio è che non mi ha mai imposto nulla, anzi quello che erano i miei desideri ha fatto modo che divenissero realtà. A partire dal desiderio di avere delle giornate piene e in mezzo alle altre persone. La mia paura era quella di esser lasciato solo in camera logorato dai miei pensieri. Cosi non è stato, tanto che mi ha fatto avere un programma settimanale pieno di attività oltre che di colloqui con le varie figure che componevano la mia rete di allora. La seconda cosa che ho voluto fortemente è quella di fare le cose con i dovuti tempi. Non volevo forzare o accelerare la mia dimissione e, anche in questo caso, mi è venuto incontro tanto che sono stato ricoverato per 4 mesi. Ricordo che per questi 4 mesi, compatibilmente a come stavo giorno per giorno, ero divenuto praticamente introvabile. Ero sempre con qualcuno a far qualcosa.

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Martedì 26 marzo 2019 è stato il giorno della mia dimissione e contemporaneamente quello del mio arrivo a Casa Astra. Sono stato accolto dai responsabili della struttura, Marco e Donato e da quella che sarebbe stata il punto di riferimento per ogni cosa, ossia la bravissima Joelle, una ragazza in stage. La cosa che mi fa piacere ricordare è che lei ha iniziato questa sua esperienza poco tempo prima che io arrivassi e che l’ha terminata nei giorni in cui io sono uscito da Casa Astra. Inoltre è stata lei ad aiutarmi a trovare la casa in cui ora abito e le sono eternamente grato. Abbiamo percorso ognuno il rispettivo percorso insieme! Del giorno di arrivo ricordo l’accoglienza degli altri ospiti e di quello che sarebbe stato il primo compagno di stanza. Anche la mia cameretta era molto bella e situata in mansarda. Anche qui il colloquio di ammissione, dove mi sono state comunicate le regole di convivenza. Era la prima volta infatti che sperimentavo sulla mia pelle la vita di comunità, ma mi sono adeguato bene fin da subito. La prima sera, come da abitudine, l’ultimo arrivato doveva andare in cucina ad aiutare, ma io non mi sono mai tirato indietro, anzi ne ero felice.

Qualche giorno dopo, per la precisione lunedì 1° aprile 2019, eccomi arrivare al Centro diurno di Chiasso per la prima volta. Ricordo l’accoglienza dell’allora responsabile Michela che con il suo sorriso smagliante mi ha dato il benvenuto presentandomi agli utenti presenti. Non ricordo bene chi c’era allora, ma una persona in particolare sì. Seduta sola ad un tavolo, con in mano l’uncinetto, c’era una simpatica signora dai capelli bianchi, la nostra cara Giulia che da qualche tempo non è più con noi. Quel giorno Michela mi ha mostrato l’intero Centro diurno e spiegato le attività che venivano proposte. Per quel determinato giorno era fissato l’atelier di falegnameria, che però non mi ha mai attirato. Ciò a cui ero interessato era la preparazione dei pranzi e pure la redazione del Menestrello, ma anche il gruppo giardinaggio non era male. Da quel giorno è iniziato un ulteriore percorso che mi ha visto divenire qualche mese dopo Presidente del Club Athena, ossia l’associazione che raggruppa gli utenti che frequentano il Centro diurno di Chiasso. E la storia continuerà ancora a lungo perché il Centro diurno è casa mia, una casa davvero molto accogliente.

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IL DONO DELL’ACCOGLIENZA

Il dono e/o saper accogliere. Praticamente quest’anno potrei festeggiare il quindicesimo anniversario dalla mia entrata nel mondo della psichiatria come paziente. ‘Wow, che festeggiamento’ potreste dire, non c’è molto da festeggiare Ma dentro di me, dietro al mio ego sì, mi sento di festeggiare, proprio di festeggiare, avete capito bene. Sarà forse che ho compiuto quarantasei anni e a trent’anni sono entrata in questo mondo sconosciuto. Ero una contadina, felice sui miei monti, proprio come una Heidi della nostra epoca. Lassù stavo nel mio mondo, ero lì perché io in città, fra la gente, stavo male. Da piccola ero bullizzata, poi oggetto, presa senza il mio permesso. Un giorno il mio dolore, che portavo sulle spalle, divenne così pesante che non riuscivo più ad avere un giorno sereno, lacrime su lacrime fino ad avere attacchi di autolesionismo perché non riuscivo più a sopportare e non riuscivo a buttar fuori la mia rabbia, repressa da anni. Ricordo quei primi giorni all’Adorna, avevo paura perché non conoscevo quell’ambiente: perché la gente era così strana? Chi urlava, chi piangeva, la porta chiusa del reparto. Ero molto spaventata e non capivo cosa mi stesse succedendo. Sapevo solo una cosa: ero finita in un manicomio, quello di Mendrisio per giunta. Oltre ad esser spaventata mi sono auto-inflitta il cartello “malato psichiatrico”. I miei parenti mi parlavano già da piccola dell’esistenza di un posto dove avevano messo dei miei parenti, e che bisognava stare lontani da loro e da quel posto, come se fosse un ambiente di contaminazione. Ma poi col tempo mi sono sempre più sentita a casa, se uscivo dal contesto “clinica” mi sentivo a disagio, guardavo sempre in basso e facevo fatica ad incrociare gli occhi della gente.

Dopo aver spiegato un po’ della mia storia vi vorrei raccontare due fatti appena capitati. Dieci anni fa volevo tornare a fare la contadina, ci tenevo molto, ma in un giorno di gennaio stavo facendo

ricavare le mucche, era una bella giornata, anche se fredda, ma agli animali piace stare fuori dalla stalla a sgranchirsi le gambe. Lavoravo in un’azienda bio e non usavamo la fecondazione artificiale ma avevamo un giovane torello, forse un po’ troppo esuberante. In un breve lasso di tempo in cui stavo legando il bestiame in stalla, quest’ultimo non era proprio contento della mia presenza. Prima mi ha caricato in pieno petto e io mi sono trovata contro una parete. Ho cercato di sfuggire alla sua furia ma mi sono trovata incastrata e senza vie di fuga. L’unica possibilità era usare una mucca tranquilla che stava mangiando per infilarmi sotto il suo ventre. La fortuna ha voluto che lei non spostasse nemmeno una zampa. Il caro “amico” però riuscì a colpirmi di striscio fratturandomi una gamba. Non riuscivo stare in piedi ma dovevo riuscire ad arrivare alla porta. Lì è intervenuta la mia Laika che si è messa con tutte le sue forze a farmi da scudo fino a quando sono riuscita ad uscire e chiudermi dietro la porta. Mi sono ritrovata in ospedale, accompagnata dalla REGA, e in seguito da operazioni e un periodo di terapie. Avevo perso il lavoro, che era la mia casa, non avevo l’AI e nemmeno l’assistenza. Fatto sta che a causa di forze maggiori ho dovuto chiedere all’ARP un sostegno volontario. Gira e rigira mi sono ritrovata a Coldrerio e a quel punto davanti a una sentenza. Ero presso un ufficio del comune di Mendrisio, non ricordo molto, ma mi ricordo una frase: ti teniamo d’occhio. E la mia domanda che da allora mi perseguita: cosa? Non capisco, che male sto facendo? Tanto che quella domanda mi ha portato qui. Da quella volta ho cercato in tutti i modi di dimostrare che non faccio male a nessuno… Poi è arrivato il periodo Covid durante il quale ho scelto una passerella in Valle di Muggio. Lì tutto bene, non conoscevo nessuno e nessuno vedevo perché chiusi in casa. Non mi volevo arrendere, ma è iniziato un cantiere che bloccava l’accesso con l’auto a casa

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mia, con tanta neve che mi ostacolava ancor di più, ma io imperterrita andavo a lavorare al Centro diurno, facendo sempre più fatica a tornare a casa con la spesa e ovviamente a portar via quello che andava buttato. Ma ho sbagliato a non chiedere aiuto, volevo dimostrare che sapevo lavorare e che non volevo esser di peso alla società. Con un fisico anche stremato non riuscivo più ad alimentarmi nel dovuto modo. Mi sono ritrovata con uno sfratto a dover tornare per forza al piano, pur di riuscire a tenere i miei gatti con me: loro sono la mia forza e la mia famiglia anche se mi manca tanto la mia Jolie, il mio cane che ora si trova da mia madre. A marzo una buona notizia: sono stata accettata dalla scuola esercenti, ma abito in una casa che non sento tanto mia. Però la tengo in ordine e sto imparando a dedicare del tempo a me. Un giorno mi sono ritrovata di nuovo davanti a tre membri dell’ARP di Mendrisio, insieme alla mia curatrice e alla mia infermiera. Loro erano a un tavolo lungo rialzato davanti a me come se volessero emettere una sentenza. Alla domanda se andassi d’accordo con il vicinato mi si è stretto il cuore.

L’unica mia certezza è che io non ho mai dato fastidio a nessuno, certezza crollata di fronte a quella domanda. Ma io sono una delinquente? Cosa non vedo di me? Mi sembrano tutti contenti quando parlo con la gente, ho sempre il sorriso, sento il dovere di aiutare il prossimo…

Ma un altro episodio sull’accoglienza è la mia classe di scuola. Io con il timore dei pregiudizi verso di me e il mio auto-stigma pensavo a chissà quali figure e ingiurie avrei dovuto subire. Invece no, ho scoperto una classe molto affiatata, fatta di persone che vengono da altri mondi dove ci si aiuta, dove anche se non sembra ognuno ha avuto momenti bassi e alti. Ora posso dire che ho acquisito un’altra famiglia oltre a quella dell’OSC che sono i miei compagni. La scuola di esercente insegna che la prima cosa è dare sempre un posto accogliente al cliente e saperlo accogliere nel miglior modo possibile. Esatto !

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BAR SORRISO

Il lavoro al Bar Sorriso mi piace e mi fa passare bene il tempo. Mi piace avere pochi stress e fare lavori manuali, ma senza il lavoro al Bar Sorriso sarei per motivi medici disoccupato. Come vorremmo tutti, anche io ho avuto la fortuna di fare un lavoro che mi piace anche in questa occasione. Io lavoro anche al Laboratorio Offset nel parco di Casvegno: fare due lavori è un po’ stressante, ma sono pagato e questo mi fa stare meglio. A causa del lavoro ho rinunciato a diverse cose, ma potrei riaverle quando starò meglio. Senza un laboratorio protetto starei magari peggio, perché le persone in molte occasioni devono avere un lavoro per poter dimostrare di fare qualcosa ed evitarsi ulteriori problemi o giudizi vari. Il lavoro al bar mi fa piacere e funziona: anche se si tratta di un laboratorio protetto, il mio lavoro viene riconosciuto e vengo pagato per quello che faccio.

di autore anonimo

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IL CENTRO DIURNO...

Mi chiamo Maria e vorrei spiegare una delle particolarità più belle che possono capitare nella vita difficile di una persona! Il Centro diurno un posto tranquillo, pieno di possibilità, che ti riempie la giornata. Gente tranquilla, simpatica, gentile. Lavori creativi, cucina, bar, gruppi di parola

Nella nostra vita abbiamo sofferto, chi più e chi meno, ma centri come questo sono d Potrebbe essere dura, ma basta lasciarsi andare!

di Maria

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QUANDO ESCO DI CASA

Ogni qualvolta mi capita di uscire di casa, si apre davanti a me il mondo. Quel mondo che fino a non molto tempo fa sembrava non vedermi, ora è pronto ad accogliermi e a conoscermi. O forse al contrario, sono io che sono pronto ad accogliere e a farmi apprezzare. In passato sembrava che arrivassi da un altro pianeta, sentendomi perfino a disagio quando dovevo uscire di casa. Ora non più! Lungo la mia strada percorsa fin qui ho conosciuto tanta gente, sono entrato a far parte di diversi gruppi, ho costruito una rete di contatti molto estesa . Tutto ciò ha contribuito a far sì che io abbia sviluppato una certa visibilità. Se prima ero un alieno o un fantasma, ora ci sono e si vede. Una cosa che prima non facevo, o lo facevo solo raramente, è quella di vivere ciò che il territorio offre in termini di “vita mondana”. Sto imparando piano piano a lasciarmi andare e divertirmi, cosa assai non scontata. Sono arrivato alla soglia dei 40 anni con un grande vuoto di vita non vissuta, ma ora vorrei recuperare ciò che non ho fatto prima. Qualche settimana fa mi è successo qualcosa di mai accaduto prima. Durante una passeggiata enogastronomica, una delle mie tante passioni, sono stato avvicinato da un gruppo di ragazzi che mi hanno chiesto se volevo unirmi a loro. Persone che non avevo mai visto prima, ma che ho avuto piacere di conoscere. Stessa cosa per loro nei miei confronti, ma ci siamo divertiti tutti trascorrendo una piacevole giornata in compagnia.

Un altro episodio che mi piace ricordare è avvenuto durante il Festival di narrazione di Arzo dello scorso agosto e che ho cominciato ad apprezzare grazie alle esperienze con il Centro diurno. Una sera ho incontrato un mio vecchio collega di lavoro che non vedevo da alcuni anni. Parlando e ricordando ciò che è stato, abbiamo deciso di telefonare ad un amico e collega in comune, che entrambi non vedevamo più da tempo, e insieme abbiamo deciso di organizzare una rimpatriata. Senza contare ciò che accade durante la vita di ogni giorno: quante persone incontro, per esempio, al supermercato, alla posta, sul bus o per strada quando vado a camminare. Non è un caso! Non che prima non uscissi di casa, ma nessuno mi notava. Ricordo che nei momenti più duri della mia vita mi sforzavo di andar fuori casa, cosa per nulla scontata, e mi capitava pure di stare tra le persone. Anche se stavo in una piazza colma di gente, beh, riuscivo a sentirmi solo e ad essere molto a disagio. Per questo motivo rientravo il più velocemente possibile a casa, anche se il mio stato d’animo non cambiava tanto. Ora che tante cose sono cambiate, ma soprattutto sono cambiato io, sento la necessità, ma pure il piacere di non starmene rinchiuso tra le mie 4 mura domestiche.

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SAWUBONA

Io ti vedo, io ti accolgo di Patrick Adro

Il tema di questo nuovo numero del Menestrello, il secondo di quest’anno, non è stato scelto casualmente. Ho desiderato scrivere di qualcosa che ci accomunasse e ci rappresentasse tutti, e non mi riferisco solo a noi utenti del Centro diurno di Chiasso ma a ciascun essere umano che vive su questa Terra. Questa cosa, tanto preziosa, si chiama Accoglienza. Vorrei scrivere di Accoglienza a tutto tondo, non solo parlare del mio vissuto personale, che comunque ha avuto un denominatore comune, l’Accoglienza appunto, e in diverse fasi della mia vita. Ogni essere umano è stato almeno una volta accolto da qualcuno, per questo motivo affermavo prima che l’Accoglienza ci tocca tutti, almeno un po’. Mi vengono in mente due parole: la prima è apertura. Accogliere significa aprire, le porte di casa propria per esempio se vogliamo rimanere in un’accezione più materialistica. Per me le porte si sono aperte quando sono stato accolto prima in Clinica, poi a Casa Astra e successivamente presso il Centro diurno di Chiasso. Se vogliamo però scendere ad un livello più profondo, accogliere significa aprire il proprio cuore e la propria mente all’altro. Aprirsi, affinché i propri pensieri e le proprie emozioni possano giungere al prossimo, ma anche il contrario. E qui, la seconda parola che mi è venuta in mente e legata profondamente alla prima, ossia ascolto.

Anche in questo caso desidero portare la mia esperienza, che è stata pure l’esperienza di tanti altri. Non solo il fatto importante che ci sia stata una casa, in senso lato, che mi abbia aperto le porte, ma pure che ci sia stato qualcuno pronto ad accogliere la mia e la altrui sofferenza. Mi riferisco a chi fa dell’ascolto il proprio lavoro, ossia le varie figure professionali con cui ho imparato ad aprirmi e che ho imparato ad ascoltare. Oggi posso dire che anche io ho imparato ad ascoltare i vari punti di vista e a confrontarmi con gli altri, anche se non si smette mai di apprendere qualcosa. Soprattutto non si smette mai di accogliere o di venire accolti, ciò che avviene con la costruzione ed il mantenimento delle varie relazioni sociali che viviamo ogni giorno. Un'altra sfumatura è la seguente: accogliere significa dare valore alla persona che si vuole accogliere, riconoscerla in quanto tale ed avere la curiosità di conoscere qualcosa di essa. A tal proposito, desidero condividere una bellissima parola che ho appreso recentemente e che è il saluto usato da una tribù africana, ossia gli Zulù. Il termine Sawubona significa letteralmente ti vedo, quindi esisti, con un’accezione ancor più profonda che è ti apprezzo e sei importante…Praticamente, il cuore pulsante di tutto ciò che è, o che dovrebbe essere l’Accoglienza.

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UNA NUOVA PROSPETTIVA

Con questo mio scritto vorrei narrare di come è cambiato, in meglio, il rapporto con le figure terapeutiche della mia rete, riallacciandomi al tema dell’accoglienza. Inizialmente, vedevo la Rete come uno strumento a cui far capo nei momenti più duri. Ricordo che i miei discorsi ricorrenti erano quelli di non essere lasciato da solo e che ci fosse sempre qualcuno accanto a me, anche solo per fare 4 chiacchere. Queste 4 chiacchere erano spesso degli sfoghi, dei momenti in cui avevo necessità di riversare su queste persone le mie emozioni ed i miei pensieri. Il rischio concreto, mai veramente corso, era quello di divenire dipendente da queste persone. In questa prima fase sono sempre stato accolto in maniera concreta dai miei curanti e, allo stesso modo quella che era la mia sofferenza. Successivamente, in una seconda fase, ho imparato a mettere in atto le strategie migliori che ho appreso dai terapeuti e a far capo alle mie forze. Le persone della mia rete erano sempre presenti come prima, ma ho preso maggior consapevolezza di quello che ero in grado di fare io. Sapere di poter contare su di loro era comunque una sicurezza enorme, proprio allo stesso modo di una pastiglia in “riserva”.

Quella paura ancestrale di essere lasciato solo in balia di me stesso è venuta sempre meno, perché so per certo che nessuna persona della mia rete mi tradirebbe in alcun modo. Da qualche tempo il rapporto con la mia rete si è evoluto e anche il mio percorso ne ha beneficiato. Si tratta in entrambi i casi di processi dinamici che corrono in parallelo. Ciò in cui ho sempre creduto, fin dagli inizi, è quella sorta di collaborazione tra paziente e terapeuta, una vera e propria sinergia. Come ho sempre considerato importanti le varie figure professionali con cui ho avuto a che fare e con cui ho interagito, ora sono divenuto importante io per loro. In realtà lo sono sempre stato, solo che ora ne sono divenuto consapevole. Questa novità l’ho accolta con entusiasmo perché credo che così facendo tutti possano ottenere benefici. Sto anche imparando ad aver cura dei miei terapeuti, umani e quindi vulnerabili proprio come lo sono io. Sto soprattutto aiutando i miei terapeuti, portando la mia esperienza e le mie competenze, nell’aiuto quotidiano delle altre persone che hanno bisogno concreto di aiuto.

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UNA LETTERA AL CENTRO DIURNO

La mia testimonianza di Narghis

Questa è stata un’esperienza di crescita per me. Quattro mesi, seppure sembrino pochi, mi hanno permesso di migliorare sia a livello personale che professionale, e questo è merito vostro.

Mi avete accolto in maniera gentile e paziente, lasciandomi il tempo di ambientarmi per poi successivamente portare qualcosa di mio all’interno del vostro spazio che è diventato anche un po’ mio. Sono molto grata del mio percorso e dei legami che ho instaurato durante questo periodo. Nonostante sia stato breve ho tantissimi ricordi preziosi che porterò per sempre con me.

Vi ringrazio tutti e in particolar modo quelli con cui ho instaurato un legame più profondo e che mi hanno accompagnato ogni giorno durante questo percorso.

Ho imparato tanto da voi e so di avere anche lasciato qualcosa e questo penso sia la cosa più importante.

In un clima così accogliente e privo di giudizio sono riuscita anche io a sperimentarmi e imparare molto. Ho fatto la cuoca, la pittrice, la guida turistica, la cantante, e sperimentato molte altre mansioni che non avevo mai sperimentato prima d’ora.

Vi ringrazio sinceramente per tutto.

Un grazie speciale anche ad Ushi che mi ha guidato in questa esperienza permettendomi di crescere e migliorare là dove ce n’era bisogno.

Continuate così!!

Un abbraccio.

Narghis

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IL “NOSTRO” CENTRO DIURNO

Condividendo un’idea nata al Centro diurno di Lugano - quella di un cortometraggio sui Centri diurni - anche noi utenti del Centro diurno di Chiasso abbiamo voluto portare la nostra testimonianza su un luogo di accoglienza. Qui di seguito i racconti di chi ha voluto scrivere della propria esperienza al Centro diurno.

Il Centro diurno è un luogo dove ci si incontra e si fanno delle attività. Inoltre è un luogo dove c’è il contatto sociale, ci sono anche i pranzi il giovedì e il venerdì. Lunedi c’è il gruppo musica, d’estate ci sono le uscite in piscina, ma anche quelle al mare e in montagna con gli altri Centri diurni di Bellinzona, Locarno, Lugano e il Club ‘74 di Casvegno. Poi ci sono le uscite culturali tipo il cinema o andare a vedere la mostra di qualche pittore o artista famoso. Io lo frequento perché mi piace e mi aiuta a combattere la mia solitudine, essendo che sono un tipo solitario per via delle brutte esperienze che mi sono successe in passato. Quindi ringrazio il Centro diurno!

Oliver

Il Centro diurno era per me un posto sconosciuto. Dato che la mia amica Ida lo frequentava già da molto, le ho chiesto se fosse possibile aggregarmi. Mi disse di sì, però era necessario un piccolo scritto da parte dello psichiatra che mi segue da fuori, dato che io risiedo al Tertianum. Quindi, ora posso venire al Centro diurno quando voglio. E’ un posto dove io mi sento a mio agio, perché mi piacciono molto la pittura e i lavori manuali. Mi sento più tranquilla rispetto a dove abito, il Centro diurno è un ambiente diverso e più rilassante. Spero di continuare su questa linea!

Lidia

Mi piace pensare al Centro diurno come una comunità. Non si entra a farne parte per affinità con le altre persone, eppure spesso uno scopo comune permette di creare legami e di sentirsi parte di qualcosa, di un’esperienza, del gruppo. Un aspetto importante è la condivisione di piccoli momenti informali come il pranzo, la quotidianità, ma anche di più o meno grandi progetti, attraverso i quali assumere un ruolo, assumersi un impegno e tro-

a cura del Gruppo scrittura

vare soddisfazioni. Come operatrice mi ritengo fortunata a lavorare in un luogo che è uno spazio nell’anima che mi corrisponde così tanto, perché è un motore, un cuore pulsante che permette di realizzare imprese e portare piccoli e grandi cambiamenti, nelle persone ma anche nel contesto in cui viviamo.

Ushi

Al Centro diurno sono arrivato dopo 10 anni passati a lavorare alla Fondazione Diamante come falegname e devo dire che mi sono sentito subito accolto e accettato. Ho potuto adattarmi con calma ai nuovi ritmi che c’erano e posso dire che mi sono calato bene nella nuova realtà. In seguito mi è stato permesso di lavorare al bar e mi è piaciuto da subito. Questo posto offre molte attività interessanti e stimolanti che riesco però a fare in minima parte a causa della terapia che sto assumendo. Il lavoro al bar mi piace e mi insegna tante cose ogni giorno che le svolgo. Mi piacerebbe riuscire a fare delle attività legate alla mia professione, ossia amministrative e contabili, ma so che presto le potrò di nuovo fare. Magari provare a fare qualcosa legato alle lingue, poiché sembra io sia portato. Per ora comunque va bene così! Reputo tutte le persone con cui ho a che fare ogni giorno in gamba. Matteo

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Se sono qui oggi al Centro diurno di Chiasso lo devo ad una persona in particolare: la carissima e bravissima Giovanna, animatrice di socioterapia ai tempi del mio ricovero in Clinica ad Orselina, che mi aveva parlato bene di questo luogo. Erano tempi difficili quelli, ma Giovanna e tutto il resto della mia rete di allora mi hanno sostenuto ed aiutato. A costruire il mio futuro che era pieno di dubbi e incertezze. Il Centro diurno è diventato il caposaldo delle mie giornate, lo spiraglio di luce che rompeva il buio delle tenebre. Erano i primi giorni del mese di aprile del 2019, sembra passata un’eternità, ma ricordo bene come sono stato accolto al Centro diurno. Mi sentivo bene, come se fossi a casa. In effetti il Centro diurno è diventata la mia seconda casa, il mio mondo. Un mondo fatto su misura per me, proprio come un vestito cucito da un abile sarto e in cui mi sentivo a mio agio, in mezzo a belle persone, utenti e operatori non fa differenza. A quasi 4 anni di distanza dal primo giorno, posso affermare che scelta non fu più azzeccata e che la rifarei cento, mille volte. Visto che mi trovo così bene perché cambiare? Come spesso dico tra me e me, sarebbe da folli farlo. Il Centro diurno è Casa mia!

Sono venuta la prima volta al Centro diurno nell’autunno 2018, sotto spinta di Eva, la mia vecchia infermiera, per fare delle decorazioni di Natale per la bancarella del Club Athena. Essendo abituata a sentirmi in ansia in presenza di persone estranee, ho mantenuto un profilo basso non aprendomi con nessuno. Però continuavo a venire al Centro diurno e osservavo le persone che ci stavano. Nonostante le fragilità, una persona, una donna bionda, mi colpì per la sua intelligenza. In seguito ho avuto il forte desiderio di provare ad essere un po’ migliore di come ero stata in tutti gli anni fino ad allora e riuscire finalmente ad avere delle relazioni soddisfacenti. Così mi sono concentrata su che persona volessi essere nel profondo del mio cuore e ho iniziato, benché non l’avessi mai fatto prima, a comportarmi come il mio cuore dettava. Da lì in avanti ho scoperto che ero in grado di avere delle relazioni soddisfacenti e ho ricevuto amore e affetto da parte di tutti al Centro diurno. Tra le persone all’esterno del Centro diurno, ho coltivato la relazione con mia nonna, fino ad andare a vivere vicino a lei per esserle di sostegno e ho saputo riporre fiducia anche in altre persone, al bar o per strada.

Cecilia

Il Centro diurno: la mia prima volta. La mia prima esperienza al Centro diurno l’ho avuta a Lugano nel 2005. Ero uno psicoterapeuta in formazione e accettai volentieri di dedicare una qualche ora il venerdì a un’attività del Centro diurno. Si trattava di accompagnare l’infermiera a preparare il pranzo. Ogni venerdì alle 09.30 circa ci recavamo al Centro diurno, aprivamo le porte e le persone arrivavano alla spicciolata. Si decideva cosa mangiare, in genere con qualche ospite mi dedicavo alla preparazione dell’insalata o al taglio delle verdure per il soffritto. Poi rimanevo in sala e, con un gruppo di persone, leggevamo e commentavamo articoli di giornale o fatti della giornata precedente, oltre che accogliere i nuovi venuti. A pranzo c’erano decine di persone, molte venivano solo per mangiare. Successivamente, a pranzo finito, si metteva tutto a posto e verso le ore 14.00 uscivo dal Centro diurno per dedicarmi ad altre attività. Ricordo l’atmosfera conviviale e il piacere di ritrovarsi lì per salutarsi e condividere quelle ore assieme. Ricordo con piacere questo appuntamento costante e spensierato. Adesso che ci penso ricordo che però la prima volta al Centro diurno fu a Bellinzona nel 2001, ma questa è un’altra storia

Marco

Sono entrato al Centro diurno e mi sono trovato bene, per ora ho soltanto cucinato e cucito. Sami

Il Centro diurno è come una grande famiglia. Ines

Il Centro diurno è un luogo che offre molte opportunità compresa quella di conoscere altre persone. Emanuele

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Intervista a Donato di Blasi a cura del gruppo redazione

Chi è Donato Di Blasi?

Ho studiato Belle arti e Arti plastiche all’Università di Parigi, e nel 2002 sono tornato in Ticino arrangiandomi a fare un po’ di tutto per campare: ho fatto pulizie, siti internet, il programmatore, il grafico. Dopodiché ho preso contatto quasi per caso con Maria Invernizzi, che faceva parte dell’Associazione Movimento dei Senza Voce, che all’epoca si era da poco formata. Mi sono avvicinato all’Associazione e ad un certo punto abbiamo aperto Casa Astra a Ligornetto. Dopo qualche anno come volontari serviva, visto che iniziavano ad arrivare molte persone residenti, un responsabile che prendesse in mano il progetto per portarlo avanti. Mi sono messo a disposizione e lavoro qui da 18 anni. Ho fatto la formazione come animatore socioculturale alla Supsi e poi delle piccole formazioni continue su diversi temi legati agli ospiti di Casa Astra, come quella di Welfare Community, utile per costruire progetti in rete con altri enti, strutture o associazioni.

Cosa sono Casa Astra ed il Movimento dei Senza Voce?

Il Movimento dei Senza Voce è un’associazione fondata a fine 2001 da persone di diversa provenienza: c’erano persone che venivano dal Partito Socialista come Marina Carobbio e Pelin Kandemir, altre da altri partiti di sinistra, ma soprattutto da persone del Centro sociale il Molino. L’Associazione si preoccupava di monitorare e cercare delle soluzioni per le persone senza permesso di soggiorno con problemi di alloggio e sanitari. In particolare si era concentrata sulla presenza della comunità ecuadoriana che all’epoca era numerosa, attorno alle 150 persone, e che viveva in una situazione abbastanza precaria. C’erano infatti persone che vivevano in auto, furgoni e case abbandonate, tanto che l’Associazione ha iniziato a seguirle grazie per esempio a Marina Carobbio che era medico, o a privati cittadini che hanno cominciato ad accogliere donne e bambini. È stata organizzata una prima petizione per chiedere al Cantone di mettere a disposizione degli spazi per l’inverno. I primi spazi che siamo riusciti ad avere sono stati a Cadro presso la Croce Rossa, dopodiché nel 2004 abbiamo affittato il primo appartamento a Ligornetto che è diventato Casa Astra. Abbiamo cominciato ad ospitare un bel numero di ecuadoriani, una parte dei quali stavano seguendo un progetto del Dipartimento delle istituzioni per organizzare un rientro in Ecuador. Il progetto è totalmente fallito perché sono rientrati solo due ragazzi, mentre gli altri hanno approfittato di una sanatoria che c’è stata in Spagna e quindi hanno potuto acquisire dei permessi di soggiorno e rimanere in Europa. Dal 2004 al 2007 hanno cominciato a chiamarci dalla Clinica (CPC, NdR) per delle persone, soprattutto giovani adulti, che dovevano uscire ma non avevano più un loro appartamento, non erano seguiti dai servizi sociali, non avevano un curatore o una curatrice e non avevano mezzi.

“In ascolto dei bisogni degli ospiti...nessun timore ad accogliere”
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Abbiamo cominciato a seguire queste persone, ma evidentemente queste avevano problemi diversi da quelle della comunità ecuadoriana. C’è stato un primo momento di assestamento, poi gli ecuadoriani sono andati piano piano a sparire, mentre sono aumentati i residenti. Ad oggi il 75% sono residenti, mentre il resto sono persone di passaggio, ossia europei che vengono in Svizzera ed in Ticino per cercare lavoro. Persone che non hanno più mezzi e che finiscono per strada o a dormire in posti insalubri. Spesso queste persone non hanno alcun tipo informazione su come funzioni il mercato del lavoro in Svizzera: da noi ricevono le informazioni necessarie e, se per loro non e possibile rimanere sul territorio svizzero e cercare lavoro, le aiutiamo per un rientro in patria attraverso consolati, ambasciate e servizi sociali.

Quante persone ospita Casa Astra attualmente?

Circa una ventina. Abbiamo 23 posti letto; a Ligornetto avevamo anche più di 30 persone perché nel caso degli ecuadoriani c’erano intere famiglie in una camera. Nel 2007 il Cantone ha cominciato a darci qualche fondo per pagare le spese principali e l’affitto. Quando il Comune si è reso conto che c’eravamo e chi eravamo, visto che non avevamo chiesto permessi per aprire la struttura, ci ha chiesto una domanda di costruzione: è stata fatta in sanatoria e siamo stati ridotti a 12 posti per cambio di destinazione della struttura. Dovevamo dimostrare che l’appartamento rispettasse le norme edilizie. Dopo 10 anni ci siamo detti che se non fossimo riusciti a trovare una sede dove lavorare decentemente avremmo chiuso. Nella sede di Mendrisio stiamo davvero molto meglio. Sono arrivati anche richiedenti asilo la cui la domanda era stata rifiutata e che avevano intenzione di rientrare. Insieme alla Croce Rossa organizzavamo progetti di rientro per queste persone, spesso abbastanza giovani e provenienti dalla Nigeria. La Confederazione metteva a disposizione dei fondi (circa 7000.- franchi) che permettevano a queste persone di iniziare una piccola attività nel proprio Paese d’origine, dove il personale dell’Organizzazione internazionale della migrazione le seguiva per mettere in pratica il progetto. Per

esempio uno degli ospiti che era passato da noi ha aperto a Lagos un piccolo bar chiamato “Bar Ticino”. Con il Regolamento di Dublino sono state sempre meno le persone che rimanevano sul territorio, poiché la Svizzera ha la possibilità di rimandare queste persone al primo paese di passaggio, che in molti casi è l’Italia. Il numero di “sans papier” è diminuito di molto ma ne restano comunque circa 100’000, soprattutto nella Svizzera tedesca e francese e nelle grandi città. Si tratta di persone poco visibili, che sono in Svizzera precariamente anche da più di 20 anni. In alcuni cantoni esistono dei permessi per “casi di rigore”. In Ticino credo non ne abbiano quasi mai rilasciati, qui è un po’ più complicato intraprendere queste strade. Quanti operatori c’erano all’inizio e quanti ce ne sono ora?

Ai tempi c’erano 3 o 4 persone che lavoravano di giorno e 3, 4, a volte 5, che facevano le presenze notturne, non pagati o pagati malissimo. Ora di giorno siamo sempre in 2 o 3: Marco e io al 100% e Roberto, il presidente dell’Associazione, presente un giorno a settimana. Inoltre abbiamo sempre uno o 2 studenti della Supsi in Lavoro sociale, qualche civilista, 6 o 7 vegliatori notturni. C’è infine un cuoco in settimana ed una cuoca per i weekend. Marco si occupa di seguire gli ospiti e l’amministrazione, mentre io mi occupo di ricercare fondi per arrivare a fine mese, facendo salti mortali.

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Quali sono i vostri progetti attuali e futuri?

Da quasi un anno abbiamo un progetto per persone che escono da Casa Astra ma hanno ancora bisogno di essere seguite perché non hanno consolidato i legami con la rete esterna.

Poi c’è Terra Viva, un progetto legato all’orto e alla produzione di miele. Abbiamo il giardino, un orto e una serra che riforniscono la nostra mensa, e dei terreni a Riva San Vitale dove producevamo del mais e patate e ora impianteremo un uliveto. Abbiamo dei terreni, che ci ha dato in usufrutto la Fondazione Galli, al Mulino del Daniello appena ristrutturato e riaperto: sono circa 15-20’000 metri quadri di terreno su cui inizieremo a produrre mais per il mulino, e una coltivazione di gelso nero per produrre marmellate. Abbiamo già dei gelsi bianchi, che arrivano dal Vivaio cantonale, e ci teniamo perché era una coltivazione tipica del nostro territorio che è andata scomparendo. C’è anche un grosso progetto in Valle di Muggio: la ristrutturazione di un piccolo nucleo in collaborazione con la Supsi di Mendrisio. Abbiamo una persona al 50% che si occupa di gestire tutto con delle persone collocate dall’USSI (Ufficio del sostegno sociale e inserimento) attraverso programmi AUP (Attività d’utilità pubblica). È importante cercare di non andare in perdita, anche se potenzialmente c’è un guadagno.

Come funziona l’accoglienza a Casa Astra e come si è evoluta la presa a carico degli ospiti?

Casa Astra è un centro a bassa soglia, quindi non ci sono criteri particolari se non la quantità di posti e la situazione tra gli ospiti. Abbiamo delle stanze singole, doppie e triple e una camera per i vegliatori. Le persone giungono qui su segnalazione dei

servizi sociali, del Cantone, della Polizia, della CPC,

… Alcuni arrivano da soli.

Non mi vengono in mente altre strutture che si mettano a disposizione in questo modo, in ascolto dei bisogni degli ospiti. Il criterio di accettazione è la mancanza di alloggio. I senzatetto in Ticino sono spesso persone di passaggio che dormono all’aperto. Ci sono poi persone sfrattate, buttate fuori casa dai genitori, o che vengono dimesse dalla CPC o da un ospedale e non hanno più un loro appartamento dove rientrare. Persone che rientrano dall’estero, rimpatri di svizzeri che non hanno più nulla in Svizzera e hanno bisogno di un domicilio perché senza non si può attivare nessun tipo di aiuto.

Le persone restano in media 2 mesi, tra la persona che si ferma una notte e quella che deve rimanere 6 mesi perché i problemi da risolvere sono maggiori o più complessi.

C’è un regolamento molto semplice con una decina di punti che servono a ricordare cosa è una convivenza. Per quanto concerne il gruppo c’è stata una costante evoluzione nel tempo, legata alla struttura e al personale. Trovo importante anche il fatto di fare cose insieme, come ad esempio i tavoli e le sedie in legno del nostro refettorio. A volte gli ospiti cucinano: un buon modo di includere i nuovi nel gruppo.

Esiste un’accoglienza primaria, quella dei servizi principali e, nel caso di una permanenza più a lungo termine, si attiva un accompagnamento senza sostituirci ad altri enti esterni o figure professionali; si cerca di lavorare in rete il meglio possibile. Esistono a livello ticinese altre strutture di accoglienza come Casa Astra?

Casa Martini a Locarno è molto simile. Inoltre è in costruzione Casa Marta a Bellinzona, che sarà ultimata tra agosto e settembre 2023.

Cosa è cambiato in 18 anni?

Prima avevo più difficoltà nel capire con chi avessi a che fare. Oggi non ho più nessun problema e nessun timore ad accogliere.

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IDA E IL MARE

Vacanza a Cervia con la Pro Senectute di Ida

Ho proprio vissuto una bella esperienza, la prima di questo tipo. Il viaggio in furgone e in pullman (di 6 ore) dove ero seduta da sola. All’arrivo però, a pranzo, mi sono subito trovata a tavola con altre tre signore. Con una in particolare abbiamo fatto amicizia, tanto chiacchierare, passeggiate e andavamo al mare insieme. Le due responsabili sono state bravissime ed erano così contente di me che, hanno detto, l’avrebbero riferito alla mia curatrice. Sono stata due volte in piscina a fare aquagym: la prima volta avevo un po’ di paura, ma l’ho superata. Anche in spiaggia facevamo ginnastica. Un giorno siamo andate al mercato e mi sono persa! Due poliziotti si sono accorti che avevo bisogno e mi hanno aiutato a ritrovare il gruppo. Ero amica di tutti, è andato tutto bene!

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VACANZA INTERCLUB

Gita Interclub nelle terre vallesane Estate torrida con una forte mancanza d’acqua: una vacanza ai piedi del Cervino ci sta molto bene. Come tutti gli anni si parte con i quattro Centri diurni e il Club ’74 per le vacanze montane, l’anno scorso a SaasGrund. Quella terra che sento anche un po’ mia visto che mio nonno proveniva da questa regione e io ci passavo le estati; non per niente ho scelto la professione di Agricoltore specializzata in quella di montagna.

Di Manuela Cattola

Non è la prima volta che raggiungo i piedi di un ghiacciaio, ma la mia sensazione era un po’ amara e triste nel vedere come questo gran signore che è lì da qualche miliardo di anni si stia sciogliendo come burro sotto a un sole cocente. La mia sensazione era che sudava e percepivo il suo dolore. Comunque ringrazio sempre gli organizzatori di queste colonie, la montagna mi piace ed è la mia terra, nelle mie vene scorre sangue di montagna, e viverla con la mia “famiglia” più cara è un’esperienza che sarà sempre nel mio cuore. Grazie a tutti.

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Una volta terminato il Convegno ‘Io sono ancora qui…’ organizzato l’anno scorso dal Club ‘74, ho sentito il desiderio di fare delle considerazioni. Se ripenso a non molto tempo fa, mai e poi mai avrei immaginato di partecipare attivamente ad un convegno di psichiatria, non quindi solo come semplice spettatore. In realtà, neppure da spettatore mi è mai successo, quindi si è trattato di una “prima volta” in termini assoluti. Una cosa importante che ho imparato nel corso di questi anni è questa: ognuno è responsabile della propria salute psicofisica e della ricerca di un benessere interiore. Questo significa essere curiosi, ma in primis interessarsi a tutto quello che può concernere questo argomento così vasto e complesso e con così tante sfaccettature. Il confronto costruttivo con i terapeuti è un altro modo per occuparsi (e non solo preoccuparsi) della propria salute psicofisica. Questo confronto io non lo intendo solo attraverso le sedute della classica psicoterapia, quella che avviene per capirci all’interno degli studi medici. Significa anche avere il privilegio e l’opportunità di partecipare a questo genere di eventi, dove vi è pure la possibilità di un arricchimento a livello personale. Durante il Convegno in omaggio ad Ettore Pellandini, ho avuto modo di salire su un palco, davanti al pubblico presente in sala. Non la prima volta in assoluto, ma la seconda in quanto è già accaduto l’estate scorsa ad Arzo per la serata di apertura del Festival Internazionale di narrazione, dove eravamo invitati a parlare della mostra di arte pubblica che avevamo realizzato in collaborazione con Ricardo Torres. In questa circostanza invece, sono salito sul palco per una rappresentazione teatrale di mimo. Le settimane precedenti sono state dedicate alle doverose prove, per qualcosa a cui io ho dato molto valore. Intanto perché era un modo per omaggiare Ettore Pellandini, che tempi addietro ha fondato l’Atelier mimo, ma pure perché il teatro in generale sarà uno dei miei obiettivi futuri. Desidero prendermi alcune righe di questo scritto per parlare degli effetti terapeutici che ha il teatro, o quantomeno per descrivere quelli che questa attività ha avuto su di me. Intanto l’impegno settimanale e, successivamente, giornaliero quanto la data del convegno si stava avvicinando velocemente. Poi, la presa di consapevo-

lezza di ciò che stavo facendo in quel momento, lasciando per la durata della rappresentazione che i miei pensieri non mi facessero deviare. Un’altra cosa importante è il rispetto per la presenza sul palco di tante altre persone su una piccola superficie. Ho imparato a vedere il punto di vista degli altri, imparando che lo spazio e il tempo di scena non era solo mio, ma condiviso. Infine, ma non per importanza, l’aspetto puramente emotivo. Sono riuscito a gestire l’ansia da prestazione, ma pure a vivere tante altre belle emozioni. Ho potuto vivere sulla mia pelle i momenti precedenti l’entrata in scena e pure quelli degli applausi del pubblico e del doveroso inchino. Posso certamente riaffermare, dopo questa prima esperienza di teatro, che ve ne saranno altre anche in futuro, perché mi sono per davvero emozionato ma pure divertito. Desidero terminare questo mio scritto con un’ultima considerazione. Il tema del Convegno era la psicoterapia istituzionale. Qui ho avuto la dimostrazione pratica, e non solo teorica, di cosa significhi realmente tutto ciò. Il fatto che pazienti e operatori abbiano lavorato gli uni affianco agli altri per la realizzazione del convegno stesso e dell’atelier mimo. Oltre alla riconoscenza agli operatori che hanno permesso tutto ciò, sento una volta di più di affermare che questo è il mio mondo e che esso continuerà ad esserlo anche in futuro!

VOI CON NOI
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Finalmente, il tanto atteso convegno in onore di Ettore Pellandini, è giunto.

Nella prima giornata di lunedì 30 maggio 2022 il tema predominante è stato quello dei diritti dei pazienti psichiatrici.

Fra i relatori, bravissimi tutti, il Professor Borghi che ha contribuito alla nascita della LASP, la legge cantonale sull’assistenza sociopsichiatrica. Con il suo intervento, egli ha messo però il focus su un’altra questione altrettanto importante: l’effettiva applicazione dei diritti dei pazienti. C’è la legge, è vero, ma bisogna che venga poi messa in atto e non sempre è così. Se un tuo diritto viene leso, esiste la possibilità di fare ricorso, ma che tale ricorso venga accolto, beh, questa è tutt’altra storia. L’esempio portato è quello dei ricoveri coatti, ma ci è stato raccontato anche di quando esisteva ancora la contenzione, una vera e propria privazione della libertà personale, lesione della dignità umana e totale mancanza di umanità.

Libertà, dignità e umanità, tre parole sulle quali desidero scrivere alcuni miei pensieri. La libertà ha varie sfaccettature e diversi significati, a dipendenza dell’ambito in cui ci si focalizza. Su uno però ho desiderio di condividere le mie riflessioni, ossia sulla capacità di autodeterminarsi. L’autodeterminazione è una libertà vera e propria: il paziente che si trova in un momento di difficoltà, deve avere la libertà di rivendicare un proprio diritto e per far ciò deve avere la possibilità di conoscere.

Voglio quindi essere riconoscente al Professor Borghi e a Promentesana per il loro impegno nel tutelare i diritti dei pazienti, ma anche per quel grande lavoro che è la sensibilizzazione degli stessi.

La dignità è il valore che si attribuisce alla Vita propria e a quella degli altri. Dare valore a qualcosa o qualcuno significa riconoscere i principi per i quali ognuno di noi lotta e in cui ci identifichiamo. Quando ho avuto modo di sentire le testimonianze delle persone che hanno vissuto la psichiatria di una volta, mi si è raggelato il sangue. La paura che questo possa succedere ancora e quella che possa succedere anche a me, è un’emozione che mi è capitato di vivere personalmente, ma ho avuto la fortuna di non vivere situazioni simili. Mi è capitato però in passato di riflettere su queste cose ed è il motivo per cui ho deciso di redigere le mie direttive psichiatriche anticipate, con l’aiuto delle assistenti sociali di Promentesana. Il mio desiderio è quello di non vivere mai situazioni in cui la mia dignità personale possa venire lesa.

L’umanità è ciò che ci contraddistingue, o meglio sarebbe bello se fosse realmente così. Ciò che ci differenzia dalle macchine, tanto per fare un esempio, è proprio questa virtù. Cosa vuol dire essere umani? Io do questo significato: provare emozioni, avere dei limiti e, ahimè anche giudicare. Quando parliamo di pazienti, ci riferiamo a delle persone e, allo stesso modo, quando parliamo di terapeuti. Ciò che non tollero è che un terapeuta possa trattare senza umanità un proprio paziente, in nome delle proprie convinzioni mediche. L’umanità è qualcosa che non impari sui banchi di scuola o all’università e non è certificato da un diploma appeso al muro. Puoi essere un bravo professionista, ma essere carente a livello umano; io preferisco chi dà importanza alle relazioni, aspetto decisamente fondamentale. Io ho la fortuna, o meglio il privilegio, di essere circondato da terapeuti validi professionalmente, ma decisamente umani e la riprova l’ho avuta in questi giorni.

RIFLESSIONI POST CONVEGNO
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Giovedì 2 giugno 2022 si è svolto a Casvegno il secondo giorno di convegno.

Molti ospiti illustri sono intervenuti all’evento, parlando di tematiche interessanti e sulle quali anche io vorrei portare le mie riflessioni. La giornata si è aperta con la relazione del filosofo e psicanalista Umberto Galimberti: il tema era quello del senso della Vita.

Io vorrei parlare del legame esistente tra senso della vita, felicità e salute mentale per quanto mi riguarda. Quando ho visto crollare il mondo sotto i miei piedi, tutto aveva perso significato e valore. Non che prima la mia vita fosse fiorente, al contrario, ma c’era qualcosa che mi faceva andare avanti nonostante tutto. Era il mio lavoro che mi dava la possibilità di mantenermi e togliermi anche qualche sfizio, ma che mi stava lentamente e inesorabilmente logorando. Il lavoro era tutta la mia vita, semplicemente perché non esisteva altro. Fintanto che il fisico e la testa hanno resistito, sono andato avanti ma solo per inerzia. Mi stavo spegnendo, metaforicamente parlando e, soprattutto, mi sono ammalato. Il senso della Vita, quello che ho dato io alla mia, è il seguente: prendermi cura di me curando la mia anima sofferente. Ho preso in mano la mia vita e ho preso decisioni coraggiose, come quella del ricovero. Se prima l’emozione predominante era l’angoscia per un futuro incerto e tutto da scrivere, ora posso dire di essere felice di tutto quello che sto facendo, perché la mia vita ha acquisito senso e valore. Inoltre sono pure diventato zio, cosa che mi ha dato ulteriore entusiasmo.

Il secondo intervento è stato quello dello psichiatra Giorgio Callea, il quale ha parlato di alcuni principi cardine della psicoterapia istituzionale. Due sono le parole che ho annotato: quotidianità e accoglienza. Il mio percorso, fin dagli esordi, si è basato in primis sullo strutturare una giornata tipo. Vivere alla giornata significa proprio focalizzarsi su ogni attività essenziale per la vita di ognuno di noi, in gergo aree occupazionali. Per esempio la cura della persona, piuttosto che dell’ambiente, ma pure delle relazioni, del sonno e dell’alimentazione. Durante 4 mesi di ricovero, ricordo che avevo una pianificazione giornaliera e settimanale delle mie attività: colloqui con i terapeuti ma anche momenti di attività motoria e di ergoterapia. La medesima quotidianità sperimentata in Clinica ho voluto ricrearla anche al momento della mia dimissione. Per questo motivo ho iniziato a frequentare fin da subito il Centro diurno e, per qualche tempo, mi sono fatto affiancare da un’ergote-

rapista, la cui funzione è appunto quello di supportare il paziente nelle attività di tutti i giorni. Sul tema dell’accoglienza ho parlato spesso, ma il relatore ha voluto mettere in evidenza un’altra sfaccettatura del termine. Intanto l’accoglienza è un qualcosa di ambivalente: siamo propensi a pensare all’operatore di turno che accoglie il paziente, ma spesso ci dimentichiamo che anche i pazienti accolgono i propri terapeuti. È successo anche a me fin da subito e ne gioisco in quanto, se il mio percorso ha preso una certa direzione, è perché ho imparato ad aprirmi verso in mondo circostante non chiudendomi a riccio. La fiducia che ho riposto nei miei terapeuti è stata immediata e il loro supporto non mi è mai mancato neppure per un istante.

Il terzo intervento, quello del bravissimo psichiatra Dr. Zefiro Mellacqua, si è focalizzato sul tema sociale della psicoterapia istituzionale. Le relazioni e il concetto di rete estesa non solo alle figure professionali, ma pure al tessuto in cui la persona vive. Se ripenso al passato, mi vedo solo e invisibile. Oggi sono circondato da tante persone con cui interagisco ogni giorno. Non parlo solo degli operatori, ma delle amicizie che ho costruito fin qui e che ora so pure mantenere. Mi sento infatti maggiormente integrato nel tessuto sociale e me ne rallegro.

Gli interventi pomeridiani che mi hanno colpito maggiormente sono stati quelli dei relatori della Clinica francese La Borde, il luogo dove si è formato Ettore Pellandini. Due concetti sui quali vorrei riflettere: la libertà di circolazione dei pazienti e l’accompagnamento terapeutico tra pazienti. Sul primo concetto non si dovrebbe nemmeno discutere, ma fa pensare che fino a non molto tempo fa e anche alle nostre latitudini esisteva la contenzione fisica. Non solo: era tutto chiuso, dai singoli reparti alle strutture intere. Ovviamente, ciò non permetteva ai pazienti di incontrarsi e di relazionare, perché lo scopo di tali strutture era ben altro. Sull’accompagnamento terapeutico fra pazienti, la mia mente è corsa alla figura del “peer supporter”, altrimenti detto supporto fra pari o esperto per esperienza. Si tratta di una figura che formalmente ancora non esiste in Ticino, ma che spero arrivi presto anche qui. In realtà c’è già dal momento in cui un paziente presta aiuto in ogni modo ad un proprio pari. Anche più semplicemente, quando una persona aiuta un’altra a inserirsi nel gruppo proprio come succede anche al Centro diurno quando arriva un nuovo utente. A me è già successo di fare entrambe le cose e ne vado fiero.

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SPINNST DU?

Weekend a Berna con il Centro Diurno di Chiasso in occasione del secondo Mad Pride svizzero. Abbiamo viaggiato con le carte giornaliere delle ferrovie federali svizzere, che permettono di viaggiare in tutto il territorio nazionale con 40. - franchi, e in 4 ore eravamo nella capitale. Abbiamo fatto un pic-nic sulle rive del fiume Aare, uno dei tre corsi d'acqua più importanti e lunghi in Svizzera. Colori splendidi, paradisiaci, che ci hanno accompagnato anche nel corteo che ha attraversato il famoso centro storico. Stanchissimi della giornata, siamo andati in hotel per rinfrescarci. La sera siamo stati al ristorante della Reitschule, centro sociale di Berna, ex scuola di equitazione, che ci ha riempito l'animo con le sue decorazioni ed energia e, devo dire, anche la pancia con un buon piatto di pasta non troppo caro.

di Cecilia Norcia

Il dolce, una fetta di torta al rabarbaro, era buonissimo. Mentre eravamo a cena, era in atto un’opera teatrale presso la sala adibita agli spettacoli.

Il secondo giorno abbiamo camminato fino al parco degli orsi, spostati ormai dalla famosa fossa degli orsi per donargli un habitat più stimolante ed ampio, che prende acqua da una curva del fiume che attraversa la capitale. Dopo aver mangiato al ristorante direttamente collegato al giardino zoologico, siamo tornati in zona Banhof (stazione) dove abbiamo preso il treno delle 15.00 per tornare in Ticino con coincidenza a Lucerna.

Sono felice e soddisfatta dell'esperienza. Berna mi ha lasciato un piacevole ricordo.

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MANI SUDATE

Mani sudate impugnano i mazzuoli, grancasse imbrigliate, il fischio da arbitro di calcio fa partire un rullante caldo battito crescente per una partita lunga le vie di Berna.

I gradi meteorologici toccati al rialzo da record fanno da cornice a un ambiente già accaldato da entusiasmi per il Pride dei folli. Un corteo all’insegna dei diritti dei folli, perché nessuno è immune a ciò e tutti, chi più o chi meno, ne fanno parte. Il cuore pulsante ritmico, i fischi, le numerose presenze di adulti, bambini e tanti palloncini colorati, il giallo a farla da padrone fanno da cornice a un ritrovo per dire che anche noi esistiamo. Un tranquillo serpentone, forse un po' tanto accaldato e sudato, si ritrova per finire nella piazza federale circondata da palco e bancarelle varie di associazioni che aiutano nella salute mentale come Promentesana, organizzazione svizzera con una sede anche in Ticino.

Federica Giudici assistente sociale di Promentesana ha invitato i rappresentanti dei Centri diurni con annessi Club a sostenere la causa nella capitale.

Sono stata fiera di aver fatto parte di questo gruppo affiatato a sostenere la causa nonostante la mia difficoltà a smaltire il sudore di quella giornata. In fondo ogni goccia serve anche se si parla di sudore.

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CIAO NARGHIS

Un pomeriggio pieno di emozioni a cura del gruppo scrittura

Venerdì 16 dicembre la nostra allieva Narghis ha terminato il proprio stage presso il Centro diurno di Chiasso.

Cogliendo l’occasione del consueto gruppo scrittura tenuto da Marco, le persone presenti hanno prodotto uno scritto che poi si è condiviso in gruppo. Gli utenti presenti, gli operatori e la stessa Narghis hanno scritto dei bellissimi pensieri che vengono qui pubblicati!

Cara Narghis, ho apprezzato quello che sei stata al Centro diurno. Il tuo carattere delicato e sensibile, è stata una bella presenza. Anche il tuo senso dell’umorismo mi è piaciuto. Cecilia

Narghis, quando ti ho conosciuto mi hai insegnato tanto, hai avuto tanta pazienza e ho imparato tante cose. Quando non avevi tempo, sei sempre stata presente nei miei confronti. Ti auguro tanto successo e tanta fortuna. Fortunato

Narghis, è poco che vengo qui, ma fra le tante persone che ho visto, mi ha colpito subito il tuo viso giovane, specialmente il tuo sorriso, che mi ha dato l’idea che tu sia una persona gioviale e disponibile per tutti in qualsiasi momento. Ti auguro nel futuro che la strada che hai cominciato, ti possa dare tanta gratitudine e tanta felicità. Grazie di tutto! Lidia

Non Avere Rimpianti Gioca Hai Il Sole UN’Anima che Riflette Gioia ancHe solo con il Sorriso.

Grazie di aver reso la tua presenza un’esperienza speciale che non dimenticheremo facilmente. Ushi

Cara Narghis, ti ringrazio per quanto fatto al Centro diurno, sempre con impegno e simpatia e ti auguro un felice proseguimento. Emanuele

E’ stato un piacere conoscere una persona squisita come te, sempre pronta a fare qualcosa e sempre disponibile a parlare e a dialogare. Per me è stato bello parlare con te le volte che ho ne ho sentito l’occasione e mi rimarrà dentro il tuo modo simpatico e gentile di dire le cose. Mi rimarrà dentro anche quello che mi hai insegnato, ossia quello di essere spontaneo il più possibile e aperto a tutto quello che è bello nel mondo. Ti ringrazio di avermi reso una persona migliore. Matteo

Cara Narghis, oggi mi sento un po’ malinconico, ma mi succede spesso quando mi devo separare da qualcuno a cui tengo veramente molto. Fin da subito ti sei fatta voler bene da tutti e sei stata una presenza importante. Non solo perché sei stata una bravissima operatrice (io già ti considero in questo modo ) ma soprattutto per quello che ci hai saputo dare a livello umano. Se fosse per me, vorrei che tu non partissi, ma voler bene ad una persona significa anche separarsi da lei, lasciarla andare per la sua strada. Io ti auguro dal profondo del mio cuore che questa strada tu la possa trovare presto dentro di te, ma soprattutto che tu possa donare agli altri questa stupenda umanità che ti contraddistingue, oltre che il sorriso che ti rende così speciale. Con affetto. Patrick

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SALUTO AL CENTRO DIURNO

Vivere è diverso da fare esperienze di Narghis

Qui per me è stata un’esperienza ricca di emozioni . Ognuno di voi mi ha insegnato tanto e dentro di me ci sono ricordi che non andranno via facilmente. Mi avete cambiata in meglio, mi sento una persona migliore e questo grazie al costante confronto con voi. Insieme abbiamo fatto tante cose che mi portano a dire oggi che mi mancherete. Con alcuni di voi ho creato un legame speciale che spero durerà per molto tempo se non per sempre.

Spero che ci rivedremo un giorno, ma vi tornerò sicuramente a trovare. Quando finirò il mio percorso spero di lavorare in un ambiente stimolante come questo. Grazie a tutti, specialmente a Ushi in qualità di insegnante del mestiere e di vita, Patrick per la sua meravigliosa cucina, Ida che ritengo una donna piena di passioni, Lele con cui ho fatto molte partite e che mi ha insegnato a giocare a carte e Matteo che mi ha dato una mano in tutte le attività con entusiasmo.

Un saluto dalla “nuova” Narghis

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RECLUSIONE E AUTORECLUSIONE

La mia storia di Patrick Adro

Introduzione

Durante gli scorsi mesi ho avuto modo di partecipare ad un concorso letterario internazionale, organizzato fra gli altri dai detenuti del carcere di Milano Opera. Il concorso era suddiviso in varie categorie e il titolo ‘Adotta l’orso per uscire dall’autoreclusione’ - aveva lo scopo di far esprimere le persone su una tematica sensibile, quella dell’autoreclusione appunto, ma sostanzialmente molto simile a chi è veramente incarcerato entro 4 mura. Oltre a questo aspetto si doveva far emergere il percorso di “ritorno alla vita”, anche questo simile a quello dei detenuti nelle carceri. Nei giorni scorsi, con mia sorpresa, sono stato contattato non tanto come vincitore del primo premio, quanto come meritevole di una menzione speciale. Il mio testo era piaciuto alla giuria e mi dovevo presentare qualche giorno dopo a Milano a ritirare un premio, o meglio un attestato. La location era molto bella: un circolo culturale composto da un grazioso cinemateatro, varie sale lettura ed una ricca biblioteca. La giuria era composta da alcuni detenuti del carcere di Opera, che hanno deciso di intraprendere un loro percorso di rinascita e che hanno goduto dei benefici terapeutici della scrittura. Prima di condividere il mio scritto, desidero condividere la motivazione che la giuria ha addotto per premiare il mio scritto:

Pregnante e realistica descrizione di un soggetto che si trova ad intraprendere un percorso verso il basso, verso la più cupa depressione; ma poi, una volta toccato il fondo, decide attraverso scelte coraggiose, di invertire il proprio cammino e di rivolgersi verso l’alto, verso la propria resurrezione.

Ho voluto intitolare il mio scritto in questo modo, una sorta di esortazione: “Patrick, smetti di comportarti come un orso e comincia a vivere!”

A tutti voi, auguro quindi buona lettura!

Sapeste quante volte me lo sono sentito dire e, ancora di più, quante volte ho pronunciato io queste parole, rivolgendole verso me stesso e autocommiserandomi. In fin dei conti, molte somiglianze caratteriali e comportamentali mi accumunavano al simpatico animale plantigrado, specie nei miei primi 38 anni di vita. Di questi 38 lunghi anni, gli ultimi 17 li ho vissuti nella totale oscurità della notte, compresa quella che stava calando dentro di me. Di professione facevo il vigilantes e, per il resto, poco o nulla. Il mio lavoro, che pure mi piaceva, condizionava ciò che rimaneva in termini di tempo e di qualità di vita, partendo dal sonno che era sempre più disturbato. Un aspetto ampiamente trascurato era quello delle relazioni sociali, giorno dopo giorno sempre meno frequenti. Addirittura, sono andato a fare l’eremita in una casa posizionata ai limiti del bosco, tanto che in parecchie circostanze vedevo più animali che esseri umani. Volpi, cervi, cinghiali e camosci erano i miei vicini di casa, mancavano giusto gli orsi per rimanere in tema. Interessi zero, manco a parlarne! Non potevo assolutamente permettermi di coltivare un hobby, visto che dovevo ottimizzare le mie energie residue per il turno di lavoro seguente. Mancava pure il tempo di fare le cose, dato che dovevo anche provvedere a me stesso, tener pulita una casa seppur piccola, andare a fare la spesa, i pagamenti e tante altre cose ancora. Il tutto dopo aver dormito al massimo quattro ore, con tutti i muscoli del corpo che mi chiedevano tregua. La cura della mia persona era divenuta un’impresa titanica: oltre a dormire poco e male, mangiavo anche peggio. Ero sempre più trascurato e mi stavo facendo del male, ma non me ne rendevo pienamente conto. O meglio, ne ero consapevole, ma non potevo e neppure volevo fare nulla per cambiare tale situazione. Chi me lo faceva fare di cambiare? In fin dei conti percepivo un discreto stipendio che mi permetteva di togliermi qualche sfizio. Mi concedevo qualche bella vacanza di tanto in tanto, o viaggio per evadere dalla mia routine. All’inizio mi divertivo pure e mi rigeneravo, ma era una valvola di sfogo i cui effetti duravano sempre meno.

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Stavo in realtà fuggendo da una vita che non sentivo più appartenermi e, attorno a me, stavo facendo terra bruciata e costruendo con le mie mani la mia prigione non proprio dorata. Dalle mie stesse mani la mia vita stava scivolando via inesorabilmente ed in maniera quasi definitiva. Per potersi rialzare bisogna però prima cadere per terra e magari più di una volta. Io l’ho fatto, precipitando nel baratro oscuro della Depressione e rialzandomi ogni volta sempre più forte e consapevole, ma pure pieno di cicatrici visibili e non. Per fare ciò ho dovuto mettere da parte il mio orgoglio e farmi aiutare a più riprese ed in maniera sempre più consistente. La mia prima presa a carico risale a poco più di 5 anni fa, quando ho chiesto per la prima volta aiuto ad uno specialista e iniziato una terapia farmacologica. E’ stato però un anno e mezzo dopo, a fine 2018, che c’è stato il vero cambiamento. Volontariamente, ho deciso per un ricovero presso una clinica psichiatrica che è durato per 4 mesi ininterrotti, fino alla primavera successiva. Amo definire questa esperienza come entusiasmante, ma allo stesso modo anche parecchio dura. Mi sono circondato di una folte rete di persone dal grande profilo umano: mi riferisco sia alle varie figure curanti che agli altri pazienti che come me volevano rigenerarsi. Il resto l’ha fatto la terapia farmacologica di supporto, ma soprattutto la mia voglia di vivere e l’apertura al mondo esterno. Da “orso” come ero precedentemente, musone e malfidente verso il prossimo, ho imparato ad interagire con le altre persone. Ho piacevolmente costatato di essere capace a costruire relazioni sociali di ogni tipo e a mantenerle nel tempo. Ho imparato cosa volesse dire provare emozioni, riconoscerle e distinguerle le une dalle altre: cosa non banale per una persona che fino a poco tempo prima era una sorta di maschera di cera, che non era in grado né di ridere e neppure di piangere. La parola che è stata alla base del mio percorso di crescita e che lo è tuttora è consapevolezza. Sto imparando a riconoscere i miei limiti e a non più oltrepassarli, così come è stato nel mio recente passato. Con stupore mi sono anche accorto di avere dei talenti, che fin lì non sono mai riuscito ad esprimere. Ho appreso a dar voce ai miei pensieri, a vedere le cose sotto altri punti di vista e a tener in considerazione le opinioni altrui, senza però farmi condizionare o manipolare. Terminata la mia esperienza di ricovero, ho aperto una nuova fase della mia vita altrettanto bella: la vita comunitaria. Per circa 6 mesi, prima di tornare a vivere per conto mio in un nuovo appartamento, questa volta

in centro città, ho vissuto con altre persone in un centro di prima accoglienza. Ho imparato cosa volesse dire appartenere ad un gruppo e vivere sotto lo stesso tetto con altre persone. Non ho avuto difficoltà, perché quella della condivisione è una virtu’ che mi ha sempre contraddistinto lungo il mio percorso. Nello stesso periodo ho cominciato a frequentare gli spazi dei centri sociali, luoghi in cui ho cominciato a prestare il mio tempo e le mie competenze a titolo volontario. Ho imparato a strutturare la mia giornata e, conseguentemente, la mia settimana senza tralasciare nulla. Ora ho una casa tutta mia, relazioni sociali importanti, molti interessi, un lavoro che mi permette di tenermi impegnato e soprattutto una vita degna di essere vissuta. In questi anni ho anche maturato una certa predisposizione all’aiuto verso i miei pari. Il mio sogno è quello di diventare un “peer supporter”, anche se a tutti gli effetti lo sono già. La mia missione è quella di divenire un “messaggero di speranza” verso coloro i quali hanno attraversato ciò che ho vissuto io. Ne andrei sicuramente fiero, così come sono orgoglioso di tutto ciò che ho fatto fin qui e grato verso tutte le persone che mi hanno voluto bene.

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Patrick

IKIGAI

Il senso della vita di Patrick Adro

La prima volta in assoluto che ho sentito parlare dell’Ikigai è stata due estati fa, durante il primo workshop autobiografico organizzato da Promentesana. Nonostante di questo concetto ne avessimo parlato poco, esso mi è rimasto impresso, tanto da volerne scrivere un articolo.

Ikigai è un termine di origine giapponese e che fa riferimento al senso della Vita di ciascuno di noi. Un bel significato di Ikigai è che la Vita come tale è degna di essere vissuta. Più semplicemente, il motore che ci spinge ogni mattina ad alzarci dal letto. Di ciò mi rallegro e ne sono grato, perché trattasi di una cosa non evidente, quella di alzarsi dal proprio letto.

Fatta questa doverosa introduzione, provo a spiegare che cosa da senso alla mia Vita. Lo schema che allego come immagine vuole essere solo di aiuto per comprendere meglio, anche considerato il fatto che si tratta di un concetto veramente personale. Il mio senso della Vita è diverso da quello di qualsiasi altra persona. Per iniziare vorrei condividere quelle emozioni scaturite alla vista di questo schema. Il mio percorso mi ha guidato nella consapevolezza di ciò che mi piace, che mi fa star bene e che sono pure bravo a fare, rendendomi anche i giusti meriti. Ho scoperto poco alla volta anche di cosa ha bisogno il mondo attorno a me, ossia quelle persone con cui ho modo di interagire. Ho scoperto che mi piacerebbe essere di esempio, attraverso quello che faccio e come lo faccio, verso quelle persone che come me hanno attraversato o stanno attraversando un momento di difficoltà nella propria vita. Mi sono reso consapevole che, per ciò che faccio, non desidero essere pagato, perlomeno in senso strettamente economico. La mia ricompensa più grande è essere soddisfatto di quello che faccio ogni giorno e che la gente mi apprezzi per come sono. Nulla più. Per questo motivo mi trovo bene a frequentare il Centro diurno, perché riesco a soddisfare diversi

aspetti. Forse un giorno vorrò essere pagato per quello che faccio, magari trovando una professione che mi soddisfi, ma per ora sono contento cosi. Al Centro diurno ho dato un senso alla mia vita e alle mie giornate, che spesso sono piene di impegni e di soddisfazioni. Fuori dal Centro diurno ho un bel numero di persone che hanno imparato a conoscermi e viceversa. I legami sono qualcosa che hanno arricchito la mia vita. Ciò che non ho detto, ma forse è comprensibile, è che l’Ikigai si riferisce ad azioni fatte volontariamente e in maniera spontanea, senza forzature. Ciò che ha permesso di arricchire ulteriormente la mia vita è stato il fatto di diventare zio. Essere un bravo zio è qualcosa per cui ho il piacere di alzarmi dal letto al mattino e ci sto riuscendo benissimo. Ho imparato a prendermi cura di altri esseri viventi e dell’ambiente in cui vivo: ho infatti un bellissimo balcone con sei gelsomini che tratto con rispetto. Sto pure imparando a prendermi cura di me stesso e della mia persona, pur rendendomi conto che non si tratta di nulla di semplice e cosi scontato. La cosa più bella è che, piano piano, sto cominciando a godere di ogni piccola cosa e a vivere il momento presente. Ciò non mi risulta ancora così spontaneo, ma ci sto tentando ogni singolo giorno e non smetterò mai di provarci.

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COLORE GIALLO

Il giallo è il colore della gioia, che è un’emozione fra le più belle e alla quale Beethoven ha dedicato uno dei suoi brani più noti. Ho scelto l’Inno alla Gioia come colonna sonora del mio percorso di cui sono enormemente fiero.

In passato, nello specifico ai tempi degli antichi Greci, il colore giallo era associato alla malattia e al disagio psichico, tant’è che le persone con un problema legato a questa sfera doveva vestire di giallo in modo da essere tenuto a debita distanza.

A giugno 2022 abbiamo partecipato al Mad Pride vestendo di giallo, in risposta ai pregiudizi che ancora patiscono queste persone.

Il presente mi ha visto indossare proprio oggi un paio di pantaloni e di scarpe completamente gialli. Si è trattata di una scelta consapevole, usata come strategia contro il mio umore decisamente basso, ma pure come una sorta di esperimento sociale. Premesso che non ho fatto nulla di male e che ero pure consapevole di ricevere dei giudizi diciamo negativi, ho scelto di vestirmi in giallo totale.

Questo aggettivo è stato usato oggi da alcune persone nei miei confronti, me la sono anche presa in un primo momento, ma poi ho lasciato scorrere queste emozioni. In fin dei conti giudicare è una di quelle cose che l’essere umano sa fare meglio e quindi ho accettato questi pensieri altrui. Mi è stato chiesto: Patrick, volevi farti notare? La mia risposta: al contrario, il mio scopo era l’opposto, quello che gli altri non mi notassero! In effetti, la maggior parte delle persone presenti non hanno notato il mio modo di vestire con colori sgargianti. Se a qualcuno non fosse piaciuto il mio abbigliamento, aveva la facoltà di girarsi dall’altra parte. Un po’ come quando usiamo il telecomando della televisione per girare i canali da trasmissioni che non gradiamo. Nessuno ci obbliga! Per quanto concerne me, non si è trattato per nulla di una questione di coraggio. Coraggio a vestirsi di giallo o colori comunque molto in risalto? Io preferisco affermare di aver fatto qualcosa di assolutamente spontaneo, in riferimento anche ad un mio precedente scritto. Giallo è normale.

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RICORDI DOLCI E MENO DOLCI

Ogni qual volta mi capita di salire a Locarno, l’ultima qualche giorno fa durante un’uscita con il Centro diurno al Locarno Film Festival, il mio sguardo si alza verso la collina dietro la città. La sensazione piacevole è sempre la stessa e la mente torna indietro a quei 4 mesi passati in Cinica oramai più di tre anni fa. Sembra ieri, ma non è cosi, il tempo è passato velocemente e tutto è cambiato, anche io. C’è stato il Covid e non ho più avuto modo di tornare in visita in quel posto. Alcune delle persone che mi hanno avuto in cura non lavorano più lì, ma altre sì e mi piacerebbe incontrarle di nuovo per mostrar loro i miei progressi. Si tratta di un misto di nostalgia, riconoscenza e gratitudine verso chi mi ha reso più forte. Ricordi dolci e sicuramente piacevoli, nonostante si stia parlando di un momento di vera difficoltà. Al contrario, ho pure ricordi molto vivi ma tutt’altro che belli, di altri luoghi che hanno contraddistinto per lungo tempo la mia vita, oltre 17 anni per la precisione.

Adesso meno, ma fino a non molto tempo fa mi creava enorme disagio andare a Lugano, tanto che per quasi due anni, o forse più, non ho valicato il ponte diga di Melide. Ancora oggi, ogni tanto, mi sento a disagio quando per qualche motivo mi devo recare in quelle zone e percorrere quelle strade. Si è trattato di una scelta voluta e sofferta, ma avevo la necessità di mettere una croce su quella mia fase di vita, anche se ancora adesso mi capita di ricordare. La croce l’ho voluta mettere su tutte quelle che erano le relazioni che avevo creato durante quegli anni. Mi riferisco ai miei ex colleghi di lavoro, con i quali, a parte un paio di casi, ho interrotto i contatti in maniera definitiva. Questi ricordi dolci e meno dolci fanno parte di me e del mio vissuto e non li posso né devo cancellare. Riguardano il passato e lì devono rimanere.

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COLLAGE

La mia prima esperienza con la tecnica del collage risale al periodo del mio ricovero in Clinica, durante i molti pomeriggi trascorsi in socioterapia. Le mie giornate erano intense, fatte di colloqui individuali, sessioni di gruppo e attività varie. Tra le attività creative in cui mi sono sperimentato e che mi facevano stare bene, c’era il collage, anche se poi mi sono cimentato in tante altre cose come ad esempio la scrittura e la cucina. In questa attività ho fin da subito imparato a rendere concreti quelli che erano i miei pensieri, senza giudicarli e senza giudicarmi. In fin dei conti la creatività è tutto ciò, e lo affermava anche Steve Jobs con una sua citazione:

La creatività è mettere in connessione le cose!

Anche la parola connessione mi piace un sacco e ho voluta farla mia, perché trattasi di legami. Uno su tutti il legame tra psiche e corpo, in questo caso le mani, strumento fondamentale nell’attività di collage come in tante altre arti creative. Con le mani sto per esempio, in questo momento, digitando i tasti del mio computer e scrivendo questo articolo.

L’esperienza più bella, in cui il collage è stato protagonista, è sicuramente quella che mi ha visto impegnato lo scorso anno. Mi riferisco alla mostra di arte pubblica che mi ha visto protagonista nella realizzazione di alcune opere visive. Quello su cui desidero soffermarmi ora non è tanto il risultato finale, di cui vado fiero, ma le varie fasi realizzative. Un percorso emozionante che ricordo ancora con piacere immenso. La prima fase, quella più lunga durata parecchie settimane, è stata quella forse più bella, a parer mio. Ricordo infatti le ore passate nello sfogliare le riviste, nel ritagliare e nell’incollare sui fogli. Avevo magari un’idea originale che poi si tramutava, come per incanto, in qualcosa di diverso.

Per questo motivo, sento di essere per l’ennesima volta grato a Ricardo, che mi ha sempre incoraggiato a lasciar fluire questa mia creatività, che in realtà abbiamo tutti noi essere umani. La seconda e terza fase sono state quelle del ritaglio delle gigantografie e della loro affissione sui muri delle case, come se queste fossero dei fogli. Quindi, anche in questo caso, si è trattato di un’attività di collage sempre intrigante.

A mesi di distanza dal termine di quella splendida avventura, è capitata una nuova opportunità per sperimentarsi nell’attività di collage. Grazie a Rachele, una delle bravissime psicologhe del Servizio Psicosociale (SPS), ogni martedì pomeriggio nei nostri spazi del Centro diurno di Chiasso, si svolge un gruppo collage, molto apprezzato, durante il quale davvero tanti utenti, ma anche gli stessi operatori, si dilettano in questa divertente attività. Il fatto di essere in un ambiente protetto di non giudizio è di grande aiuto per quegli utenti più in difficoltà a lasciar fluire la propria vena creativa, ma sono felice nel vedere che le persone si lasciano andare e si divertono pure. Parecchie di queste opere sono andate a rendere l’ambiente del nostro Centro diurno sempre più bello e colorato e, anche di questo, sono molto contento. Quando sono a casa e non so cosa fare, oppure quando sono pervaso da mille pensieri, ecco che ho una nuova strategia per stare meglio: il collage.

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Cascata della Froda, Sonogno, Val Verzasca, agosto 2022
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