La fine dell'Europa?

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Presidente onorario

Gianfranco FINI

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

LA FINE DELL’EUROPA?

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno VII - Numero 1 - gennaio/marzo 2012

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

La fine dell’Europa? Trimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VII - n. 1 - gennaio/marzo 2012 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Berlino non vale una messa La tentazione di oggi, di tutti, nessuno escluso, è quello di dire: ci salvi la Germania. Lo deve all’Europa. Noi abbiamo protetto la Germania sotto l’ombrello atlantico, le abbiamo dato un ruolo con la Comunità europea, poi le abbiamo consentito la riunificazione a spese dell’Europa, ora tocca a Berlino fare altrettanto, come fecero gli Stati Uniti per due volte nella prima metà del Novecento e poi con il piano Marshall. La Germania può farlo, o almeno può tentare. Le altre nazioni europee non possono più, troppo piccole e troppo deboli nel mare tempestoso della globalizzazione. La Merkel faccia come Kohl, si accolli il debito dell’Unione così come il suo predecessore e mentore, il grande Helmut, in una notte, da solo, decise la parità del marco, accollandosi d’un colpo il debito di ricostruzione della Germania Orientale. In fin dei conti, fatti i conti, se ci fosse una decisione simile, sarebbe facile per l’Europa nel suo complesso sottrarsi all’assalto della speculazione internazionale. Il debito complessivo del paesi dell’Euro ammonta circa all’80% del loro Prodotto interno lordo, quello degli Stati Uniti ha superato il 100% del proprio Pil, quello del Giappone veleggia oltre il 200%. Ma il debito europeo non è omogeneo, molte formiche e poco cicale, con il tetto negativo della Grecia e dell’Italia e grandi problemi in Belgio, Portogallo, Spagna, FranL’euro ha compiuto cia e persino Austria. Troppe le brecce dieci anni manifestando appieno le sue debolezze sulla muraglia monetaria in assenza di una vera capacità di risposta, della quale strutturali possono invece disporre Usa e Giappone e gli altri Stati che dispongono di una Banca centrale in condizione di stampare moneta e comunque di rispondere in ultima istanza ai creditori internazionali. L’euro ha compiuto dieci anni manifestando appieno le sue debolezze strutturali: quelle di una moneta senza una Banca di riferimento e senza una politica comune. Le vie dell’euro e dell’Unione avrebbero dovuto procedere di pari passo, ma così non è stato. Più veloce l’integrazione monetaria dell’integrazione economica e politica. E ci siamo ritrovati in mezzo al guado proprio mentre il fiume si ingrossava tumultuoso con l’ingresso di altri potenti affluenti, competitori crescenti che abbattono argini e regole reclamando anch’essi di scorrere a valle. È una guerra mondiale combattuta, per fortuna, con altri mezzi. Per acquisire risorse a danno di altri. Non ci sono le armi ma le monete, non gli eserciti ma le azioni, i titoli, le borse.


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VII - NUMERO 1 - GENNAIO/MARZO 2012

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

La fine dell’Europa? Berlino non vale una messa ADOLFO URSO - EDITORIALE

Gran Bretagna, dentro o fuori - 128 MICHELE BELLABARBA

Europa, alla ricerca di un sogno smarrito - 4 DOMENICO NASO

Belgio, il governo della società civile può funzionare - 136 FRANCESCA SICILIANO

Viaggio al centro della crisi - 10 ALESSANDRO MULIERI

Turchia, il paese dal grande futuro - 144 GIUSEPPE MANCINI

Basta compromessi al ribasso serve più ambizione politica - 14 FRANCO FRATTINI

Islanda, dalla speranza capitalista alla realtà del default - 150 LUCIANO CAPONE

Stati Uniti d’Europa, se non ora quando? - 20 INTERVISTA a EMMA BONINO di Pietro Urso

Arrivano i Bric, tra potenzialità e incognite - 154 PAOLO QUERCIA

Nel mito di Europa riscopriamo le nostre radici - 26 INTERVISTA a PIETRANGELO BUTTAFUOCO di Rosalinda Cappello

Alla guerra con gli ortaggi - 160 GIOVANNI BASINI

Seguiamo la rotta dei Padri fondatori - 32 ANDREA RONCHI

Senza le proprie radici culturali non può esistere una civiltà europea 168 MICHELE TRABUCCO

Quello che manca è la leadership europea - 38 INTERVISTA a FEDERIGA BINDI di Matteo Laruffa Il Vecchio Continente è ancora il faro della civiltà - 44 INTERVISTA a GIUSEPPE CONTE di Cecilia Moretti È l’ora di scegliere più Europa - 48 MATTEO LARUFFA Sulle orme di Einaudi per salvare l’Unione - 64 GIORGIO NAPOLITANO Solo gli italiani possono fermare il declino del paese - 70 MICHELE BOLDRIN Gli eurobond sono la vera salvezza (per tutti) - 80 UMBERTO GUIDONI L’euro è figlio di un baratto franco-tedesco - 90 ANTONIO MARIA RINALDI Nazionalità europea - 100 MARIO COSPITO Così è nata la moneta unica - 122 PASQUALE GIORDANO

Occidente, gli ultimi giorni di Bisanzio - 176 GIAMPIERO RICCI

STRUMENTI

WASHINGTON

CITT¸ DEL CAPO

Where Do Muslims Fit in American Society? Un decennio dopo gli attacchi alle Torri Gemelle, l’American Enterprise Institute si chiede se l’Islam si conciliabile con i valori fondanti della società statunitense. Mercoledì 25 gennaio

Paths to progress. Conferenza della FW de Klerk Foundation sul futuro del Sud Africa, 22 anni dopo il discorso dell’allora Presidente de Klerk che mise fine all’Apartheid. Interviene Wilmot James, esponente di spicco dell’opposizione liberale. Giovedì 2 febbraio

WASHINGTON

KLOSTER BANZ

Beyond the Individual Mandate: Why ObamaCare Must Be Repealed. Gli esperti della Heritage Foundation spiegano perché, a loro avviso, la riforma sanitaria del Presidente Obama vada abrogata. Giovedì 26 gennaio

Krisen in der Europäischen Union Alles in trockenen Tüchern? Seminario della Hanns-Seidel Stiftung bavarese sulle prospettive di uscita dalla crisi economica che ha colpito l’Unione Europea. Venerdì 3–5 febbraio

SCHLOSS WENDGR BEN Was hält uns zusammen? Prendendo spunto dal confronto Ratzinger-Habermas, la Konrad Adenauer Stiftung si interroga sui valori che tengono insieme la Germania nel ventunesimo secolo. Venerdì 27–29 gennaio

LONDRA Ten Years of Shaping the Policy Agenda. Il think-tank Policy Exchange celebra i suoi primi 10 anni e presenta il programma per il prossimo futuro. Giovedì 23 febbraio

Documenti - 182 BOZZA TRATTATO EUROPEO, SINTESI COSTITUZIONE EUROPEA, CONCLUSIONE DEL CONSIGLIO EUROPEO 9 DICEMBRE 2011

MINUTA È ora di rompere il metodo cooptativo con il dinamismo giovanile - 212 ANGELICA STRAMAZZI La rete cinese tra censura e opportunità - 224 MARIA ELENA VIGGIANO

RUBRICHE ADELANTE AL SUR Infrastrutture, primo passo per l’integrazione dei paesi in America Latina - 228 SIMONA BOTTONI

BRUXELLES Lessons learned from Copenhagen, Cancún and Durban. Conferenza internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sullo stato della lotta al cambiamento climatico dopo le tre conferenze Onu degli ultimi anni. Martedì 31 gennaio

WASHINGTON The Devil We Don't Know: The Dark Side of Revolutions in the Middle East. La giornalista Nonie Darwish, nata in Egitto e convertita al cristianesimo, presenta un suo libro in cui mette in guardia per il rischio di una svolta islamica dopo le rivoluzioni nel Medio Oriente. Organizza la Heritage Foundation. Mercoledì 29 febbraio

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Simona Bonfante, Rosalinda Cappello, Piercamillo Falasca, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Giampiero Ricci, Biancamaria Sacchetti, Adriano Scianca, Lucio Scudiero, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VI - NUMERO 5 -NOVEMBRE/DICEMBRE 2011

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

La fine dell’Europa? Berlino non vale una messa ADOLFO URSO - EDITORIALE

Gran Bretagna, dentro o fuori - 128 MICHELE BELLABARBA

Europa, alla ricerca di un sogno smarrito - 4 DOMENICO NASO

Belgio, il governo della società civile può funzionare - 136 FRANCESCA SICILIANO

Viaggio al centro della crisi - 10 ALESSANDRO MULIERI

Turchia, il paese dal grande futuro - 144 GIUSEPPE MANCINI

Basta compromessi al ribasso serve più ambizione politica - 14 FRANCO FRATTINI

Islanda, dalla speranza capitalista alla realtà del default - 150 LUCIANO CAPONE

Stati Uniti d’Europa, se non ora quando? - 20 INTERVISTA a EMMA BONINO di Pietro Urso

Arrivano i Bric, tra potenzialità e incognite - 154 PAOLO QUERCIA

Nel mito di Europa riscopriamo le nostre radici - 26 INTERVISTA a PIETRANGELO BUTTAFUOCO di Rosalinda Cappello

Alla guerra con gli ortaggi - 160 GIOVANNI BASINI

Seguiamo la rotta dei Padri fondatori - 32 ANDREA RONCHI

Senza le proprie radici culturali non può esistere una civiltà europea 168 MICHELE TRABUCCO

Quello che manca è la leadership europea - 38 INTERVISTA a FEDERIGA BINDI di Matteo Laruffa Il Vecchio Continente è ancora il faro della civiltà - 44 INTERVISTA a GIUSEPPE CONTE di Cecilia Moretti È l’ora di scegliere più Europa - 48 MATTEO LARUFFA Sulle orme di Einaudi per salvare l’Unione - 64 GIORGIO NAPOLITANO Solo gli italiani possono fermare il declino del paese - 70 MICHELE BOLDRIN Gli eurobond sono la vera salvezza (per tutti) - 80 UMBERTO GUIDONI L’euro è figlio di un baratto franco-tedesco - 90 ANTONIO MARIA RINALDI Nazionalità europea - 100 MARIO COSPITO Così è nata la moneta unica - 122 PASQUALE GIORDANO

Occidente, gli ultimi giorni di Bisanzio - 176 GIAMPIERO RICCI

STRUMENTI

WASHINGTON

CITT¸ DEL CAPO

Where Do Muslims Fit in American Society? Un decennio dopo gli attacchi alle Torri Gemelle, l’American Enterprise Institute si chiede se l’Islam si conciliabile con i valori fondanti della società statunitense. Mercoledì 25 gennaio

Paths to progress. Conferenza della FW de Klerk Foundation sul futuro del Sud Africa, 22 anni dopo il discorso dell’allora Presidente de Klerk che mise fine all’Apartheid. Interviene Wilmot James, esponente di spicco dell’opposizione liberale. Giovedì 2 febbraio

WASHINGTON

KLOSTER BANZ

Beyond the Individual Mandate: Why ObamaCare Must Be Repealed. Gli esperti della Heritage Foundation spiegano perché, a loro avviso, la riforma sanitaria del Presidente Obama vada abrogata. Giovedì 26 gennaio

Krisen in der Europäischen Union Alles in trockenen Tüchern? Seminario della Hanns-Seidel Stiftung bavarese sulle prospettive di uscita dalla crisi economica che ha colpito l’Unione Europea. Venerdì 3–5 febbraio

SCHLOSS WENDGR BEN Was hält uns zusammen? Prendendo spunto dal confronto Ratzinger-Habermas, la Konrad Adenauer Stiftung si interroga sui valori che tengono insieme la Germania nel ventunesimo secolo. Venerdì 27–29 gennaio

LONDRA Ten Years of Shaping the Policy Agenda. Il think-tank Policy Exchange celebra i suoi primi 10 anni e presenta il programma per il prossimo futuro. Giovedì 23 febbraio

Documenti - 182 BOZZA TRATTATO EUROPEO, SINTESI COSTITUZIONE EUROPEA, CONCLUSIONE DEL CONSIGLIO EUROPEO 9 DICEMBRE 2011

MINUTA È ora di rompere il metodo cooptativo con il dinamismo giovanile - 212 ANGELICA STRAMAZZI La rete cinese tra censura e opportunità - 224 MARIA ELENA VIGGIANO

RUBRICHE ADELANTE AL SUR Infrastrutture, primo passo per l’integrazione dei paesi in America Latina - 228 SIMONA BOTTONI

BRUXELLES Lessons learned from Copenhagen, Cancún and Durban. Conferenza internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sullo stato della lotta al cambiamento climatico dopo le tre conferenze Onu degli ultimi anni. Martedì 31 gennaio

WASHINGTON The Devil We Don't Know: The Dark Side of Revolutions in the Middle East. La giornalista Nonie Darwish, nata in Egitto e convertita al cristianesimo, presenta un suo libro in cui mette in guardia per il rischio di una svolta islamica dopo le rivoluzioni nel Medio Oriente. Organizza la Heritage Foundation. Mercoledì 29 febbraio

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Simona Bonfante, Rosalinda Cappello, Piercamillo Falasca, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Giampiero Ricci, Biancamaria Sacchetti, Adriano Scianca, Lucio Scudiero, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Presidente onorario

Gianfranco FINI

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

LA FINE DELL’EUROPA?

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

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Nuova serie Anno VII - Numero 1 - gennaio/marzo 2012

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

La fine dell’Europa? Trimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VII - n. 1 - gennaio/marzo 2012 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Berlino non vale una messa La tentazione di oggi, di tutti, nessuno escluso, è quello di dire: ci salvi la Germania. Lo deve all’Europa. Noi abbiamo protetto la Germania sotto l’ombrello atlantico, le abbiamo dato un ruolo con la Comunità europea, poi le abbiamo consentito la riunificazione a spese dell’Europa, ora tocca a Berlino fare altrettanto, come fecero gli Stati Uniti per due volte nella prima metà del Novecento e poi con il piano Marshall. La Germania può farlo, o almeno può tentare. Le altre nazioni europee non possono più, troppo piccole e troppo deboli nel mare tempestoso della globalizzazione. La Merkel faccia come Kohl, si accolli il debito dell’Unione così come il suo predecessore e mentore, il grande Helmut, in una notte, da solo, decise la parità del marco, accollandosi d’un colpo il debito di ricostruzione della Germania Orientale. In fin dei conti, fatti i conti, se ci fosse una decisione simile, sarebbe facile per l’Europa nel suo complesso sottrarsi all’assalto della speculazione internazionale. Il debito complessivo del paesi dell’Euro ammonta circa all’80% del loro Prodotto interno lordo, quello degli Stati Uniti ha superato il 100% del proprio Pil, quello del Giappone veleggia oltre il 200%. Ma il debito europeo non è omogeneo, molte formiche e poco cicale, con il tetto negativo della Grecia e dell’Italia e grandi problemi in Belgio, Portogallo, Spagna, FranL’euro ha compiuto cia e persino Austria. Troppe le brecce dieci anni manifestando appieno le sue debolezze sulla muraglia monetaria in assenza di una vera capacità di risposta, della quale strutturali possono invece disporre Usa e Giappone e gli altri Stati che dispongono di una Banca centrale in condizione di stampare moneta e comunque di rispondere in ultima istanza ai creditori internazionali. L’euro ha compiuto dieci anni manifestando appieno le sue debolezze strutturali: quelle di una moneta senza una Banca di riferimento e senza una politica comune. Le vie dell’euro e dell’Unione avrebbero dovuto procedere di pari passo, ma così non è stato. Più veloce l’integrazione monetaria dell’integrazione economica e politica. E ci siamo ritrovati in mezzo al guado proprio mentre il fiume si ingrossava tumultuoso con l’ingresso di altri potenti affluenti, competitori crescenti che abbattono argini e regole reclamando anch’essi di scorrere a valle. È una guerra mondiale combattuta, per fortuna, con altri mezzi. Per acquisire risorse a danno di altri. Non ci sono le armi ma le monete, non gli eserciti ma le azioni, i titoli, le borse.


Una parte del mondo che aveva sempre subito sul proprio territorio l’espansione dell’Europa e poi dell’Occidente vuole ripartirsi il territorio e le risorse e quindi il benessere. C’è chi segna l’inizio del conflitto al 2001, quando la Cina fu ammessa nel Wto. Il round di Doha avrebbe dovuto regolare i nuovi rapporti di forza con i paesi emergenti e soprattutto con quelli che oggi sono chiamati Bric (Brasile, Russia, Cina È una guerra senza armi e India), ma nonostante si siano succeduti proposte e vertici, le regole del commercio mone senza eserciti, iniziata diale sono rimaste quelle dell’Uruguay round, nel 2001 con l’ingresso quando Stati Uniti ed Europa detenevano ben della Cina nel Wto più dei due terzi dell’economia mondiale e potevano dettarne le condizioni, come ben sanno i produttori di cotone e di caffè. Di qui la globalizzazione senza regole che l’Occidente ora subisce, come mercati alla mercé dei monopoli. Per reggere il confronto con i nuovi protagonisti, l’Europa avrebbe dovuto procedere più velocemente sulla strada dell’integrazione, perché nella scala dell’economia mondiale ciascuna nazione europea è troppo piccola per reggerne la sfida, come dimostra il duplice sorpasso del Brasile conseguito lo scorso anno. Solo la Germania ha ancora dimensioni demografiche, economiche e monetarie per fronteggiare la competizione nei prossimi vent’anni, a fronte anche dell’emergere di altri nuovi paesi come il Messico e l’Indonesia e chissà cosa accadrebbe se anche le Coree si riunificassero, cosa tutt’altro che improbabile. Gli Stati-Nazione così come noi li abbiamo conosciuti ed esportati sono nati in Europa ma non possono più sopravvivere in Europa. La competizione è tra dimensioni continentali, come certamente sono Cina, India e anche il Brasile, e solo l’Unione come tale potrà in futuro competere con essi. Per farlo, occorre accelerare sulla strada dell’integrazione, ma non solo nelle regole fiscali, fissazione comprensibile per chi vive ancora con i fantasmi inflazionistici della Repubblica di Weimar, anche se non più Occorre creare un’arma giustificabili. monetaria capace Occorre da subito creare quell’arma modi intimorire netaria capace per le sue dimensioni di ingli speculatori globali timorire e scoraggiare la speculazione internazionale. Lo si può fare, a breve, aumentando le risorse del fondo salva Stati, anche se il recente declassamento collettivo di Standard & Poor’s ne ha svuotato la forza; lo si deve fare meglio anticipando l’istituzione dell’European stability meccanism, purché dotato di mezzi adeguati, ma si tratta comunque di argini, nuova tipologia di linea Maginot che rischia però di fare la stessa fine. Forse, l’unica arma decisiva restano gli eurobond in attesa di modificare lo statuto della Bce e farne davvero una banca di ultima istanza, che per sua natura rappresenterebbe quella bomba atomica monetaria capace di scoraggiare ogni assalto all’Europa. Di questo ormai si tratta: nel lunghissimo do-

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poguerra la pace tra i due “blocchi” si resse sul deterrente nucleare, oggi si può ripristinare con il deterrente monetario che solo l’Europa tra i grandi non possiede più. Abbiamo di fatto rinunciato alle Banche nazionali senza però conferire Abbiamo rinunciato alle alla Banca centrale europea analoga possibiBanche nazionali senza lità di stampare moneta, ove necessario, per permettere alla Bce fronteggiare l’assalto. E tutti ben sappiamo di stampare moneta che se salta l’euro salta anche l’Europa. E la Germania, per la terza volta nell’arco di in secolo, se ne assumerà la responsabilità. Ma la Germania da sola non basta. Anche se volesse non può bastare. E dovremmo finirla di invocare la Merkel come abbiamo invocato l’Europa per almeno trent’anni, coprendo così le nostre debolezze. Certo, se la Germania volesse accollarsi il nostro debito, come gli Usa fecero nel dopoguerra con il piano Marshall e come Kohl fece con la Germania Orientale, avrebbe il diritto di guidare l’Europa, come ha inutilmente aspirato a fare, con altri mezzi, per tante generazioni. Ma questo attiene ai tedeschi, non deve essere un nostro auspicio. Non almeno di chi non rinuncia a essere italiano. Nello stato in cui siamo, il realismo ci spinge a chiedere che la Germania osi, e se l’avesse fatto due anni fa quando la crisi si aprì in Grecia, la Grecia sarebbe salva e con essa anche l’Europa ad un costo di gran lunga minore di quanto i tedeschi abbiano già pagato per l’inerzia decisionale della Merkel. Le decisioni tardive sono sempre le più care. Ma anche se la Germania finalmente decidesse di garantire in forme diverse il debito pubblico della zona Euro, noi non dovremmo acconciarci come abbiamo fatto negli ultimi trent’anni nei confronti dell’Europa. Non dovremmo dire: ci obbliga la Germania a fare le riforme, come abbiamo sempre detto: ci obbliga l’Europa. È questa carenza È la carenza decisionale decisionale, questa deresponsabilizzazione delle classi dirigenti delle classi dirigenti che ha svilito il paese, che ha svilito l’Italia svuotandone la coscienza civile ch’era la e la sua coscienza civile nostra forza. Anche se la Germania accettasse di assumersi in pieno le sue responsabilità, questo non ci esimerebbe dal farlo anche noi. Il deficit è stato di fatto azzerato, ora dobbiamo affrontare davvero e senza infingimenti, nell’arco di quest’anno, i due corni del dilemma che impediscono al paese di essere competitivo: la bassa crescita e l’alto debito. Noi abbiamo comunque il più basso tasso di crescita tra i grandi paesi del mondo e uno dei più bassi in assoluto: nel primo decennio del nuovo millennio il nostro Pil è cresciuto di appena il 2.6% e quasi solamente grazie agli immigrati, mentre in Germania è cresciuto dell’8,5 e negli Usa del 17,9. Servono le riforme in tutti i campi, liberalizza-


zioni e non solo, per liberare le energie migliori e soprattutto quelle dei giovani e delle donne che sono drammaticamente compresse. Solo questo può consentirci davvero di ridurre il fardello del debito, raggiungendo in dieci anni l’obiettivo del dimezzamento, dal 121 al 60%, del Pil, altrimenti resteremmo sempre feudo tedesco, sempreché ci vada bene. Anche se accolliamo il costo del rinnovo all’Europa e quindi alla Germania, dobbiamo comunque pensare a come ridurre progressivamente il debito, e dobbiamo farlo noi, per tornare ad essere credibili sul proscenio internazionale. Un governo tecnico sorretto dalle grandi forze politiche non deve rinviare il problema al prossimo governo nella prossima legislatura e tanto meno alla prossima generazione. Occorre da subito mettere in campo un grande Piano nazionale per l’abbattimento del debito, attraverso la realizzazione di un fondo Nuova Italia attraverso un prestito forzoso commisurato ai patrimoni, alle rendite e ai redditi, a cominciare da coloro che vivono con il denaro pubblico, senza aver timore di intaccare i diritti acquisiti ove ciò non fossero più adeguati alle condizioni attuali. Nulla di scandaloso ma anzi doveroso, in proporzione alle Un piano straordinario proprie possibilità e alle fortune accumulate: si per abbattere il debito partecipi al destino comune. Il Fondo così pubblico. La soluzione è creato potrebbe acquisire progressivamente a Roma, non a Berlino beni, azioni e titoli pubblici, dal terremo demaniale agli immobili, alle azioni delle principali società come Eni, Enel, Finmeccanica, da collocare poi successivamente in modo progressivo e quando lo consentiranno le condizioni di mercato. Insomma, troviamo la via per abbattere il debito pubblico nell’arco di in decennio, così da liberarci dal fardello degli ultimi della classe, attraverso dismissioni e privatizzazioni che comunque stimolano investimenti e crescita, innescando nel contempo il clima della partecipazione, cioè del coinvolgimento nel comune destino. Noi non possiamo scommettere sulla fine dell’euro, come fanno coloro che auspicano la disgregazione del paese, e tantomeno accettare di consegnarci alle decisioni di altri. Il nostro destino non è parlare tedesco ma riscattare l’Italia. Non sta a Berlino ma a Roma.

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LA FINE DELL’EUROPA? Domenico Naso

EUROPA, ALLA RICERCA DI UN SOGNO SMARRITO Il progetto comunitario rischia di svanire sotto i colpi di una crisi senza precedenti. Una crisi che non è solo economica e finanziaria, ma innanzitutto politica e che ha bisogno di una risposta forte che faccia appello alla migliore tradizione europeista del Vecchio Continente. di DOMENICO NASO 5

Che fine ha fatto l’Europa? L’obiettivo di intere generazioni, la chimera di un Novecento che sembrava non avere spazio per i sogni di pace e concordia, ha rappresentato la grande vittoria di un continente che aveva superato due guerre mondiali e quarantacinque anni di Guerra Fredda, che aveva messo da parte lacerazioni che sembravano insanabili in nome di un progetto comune: riunire un continente sotto le insegne comuni di un’unione politica ed economica, seguendo il progetto di De Gasperi, Schumann e Adenauer. Cinquant’anni di integrazione comunitaria, raggiunta a fatica e ancora in fieri, rischiano oggi di essere vanificati sotto i colpi di una crisi economica e finanziaria

senza precedenti. E la vittima principale di questa dèbacle comunitaria potrebbe essere proprio il risultato più importante raggiunto dell’Unione europea, quella moneta unica che nel 2002 aveva rappresentato il primo vero segno tangibile di una comunione di intenti e aspirazioni che univa centinaia di milioni di persone. Ma cosa è successo al sogno europeo? Cosa ha trasformato il sogno in incubo? Senza dubbio, prima di prendersela con congiunture economiche sfavorevoli e mercati nervosi, sarebbe necessario fare autocritica, a cominciare dalla leadership comunitaria. Abituati alla statura di gente come De Gasperi e Adenauer, non ci si può rassegnare a


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leader europei che antepongono interessi elettorali e di bottega al destino comune dell’Europa, a primi ministri troppo impegnati a salvare la poltrona nazionale per rendersi conto che gli egoismi particolari sono i primi indiziati in questa durissima (ma forse prevedibile) crisi continentale. I padri fondatori dell’Europa, nel momento in cui diedero il “la” alla realizzazione del sogno comunitario, sapevano perfettamente che ciò avrebbe comportato sacrifici e piccole cessioni di sovranità nazionale in nome di un disegno più alto, di una riunificazione e pacificazione di un continente che per secoli si era fatto la guerra. Statisti del calibro di De Gasperi, Schuman, Spaak e Adenauer, sapevano perfettamente che la comunità europea non poteva, e non doveva, limitarsi solo a pur importanti accordi economici e commerciali. La meta finale doveva essere un’unione politica compiuta e vigorosa, capace di resistere alle spinte centrifughe dei singoli Stati membri e dotata di una forza decisionale tale da divenire interlocutore credibile sullo scacchiere globale. E se pensiamo che il processo di integrazione ha avuto inizio durante la Guerra Fredda, quando il mondo era inevitabilmente diviso tra filamericani e filosovietici, la visione dei padri fondatori assume un valore ancora più eroico. L’Europa voleva e poteva diventare il terzo incomodo in un mondo bipolare. E oggi, in un pianeta multipolare, il compito dovrebbe

essere ancora più facile. Dovrebbe, appunto, perché i risultati sono di segno totalmente diverso. Il sogno europeo ha perso appeal e forza propulsiva, innanzitutto per colpa di chi ha preferito vedere nelle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo un semplice totem poco più che simbolico, un gigante dai piedi di argilla che doveva occuparsi delle misure delle banane piuttosto che della costruzione di una vera e propria unità politica e culturale a livello continentale. E pensare che ancora nel 2004, con l’ingresso nell’Unione dei paesi provenienti dall’ex blocco sovietico, il traguardo di una compiuta unità sembrava a portata di mano. Un ingresso che fa ancora discutere, a dir la verità, e che molti vedono come una delle cause principali dell’attuale crisi dell’Ue. Troppo presto, troppo di corsa, sostengono i critici dell’apertura a Est. Eppure, se le cifre hanno ancora un senso, i paesi dell’Europa orientale sono quelli che hanno sofferto meno la crisi finanziaria ed economica. I piedi d’argilla del gigante comunitario sono proprio quei paesi che nell’Unione europea ci stanno fin dall’inizio dell’avventura comune, o quasi. L’Italia, innanzitutto, membro fondatore fin dal 1957, alle prese da decenni con un debito pubblico abnorme e con una scarsa propensione alla crescita. E poi il Belgio, altro membro fondatore, anch’esso gravato di un debito ingente e incapace di darsi un governo addirittura per 541 giorni. Non sta


LA FINE DELL’EUROPA? Domenico Naso

FOCUS

Adenauer, il padre dell’Europa pacificata Il 5 gennaio 1876 Konrad Hermann Josef Adenauer nasce a Colonia, terzo di cinque figli, da una famiglia impiegatizia del ceto medio, di formazione conservatrice, secondo la tradizione cattolica. Dopo la maturità, studia diritto ed economia a Friburgo, Monaco e Bonn. Comincia la sua carriera politica alla conclusione dei suoi studi in legge, dopo aver svolto il suo praticantato a Colonia. Al tempo della scuola era membro di un’associazione studentesca cattolica. Nel 1905 entra nel partito tedesco di Centro e nel 1917 diviene Primo Borgomastro della città di Colonia. A quell’epoca, con i suoi 41 anni, è il più giovane borgomastro di una grande città tedesca. Nel 1923 parla della possibilità di una emancipazione dei territori del Reno dal Regno germanico e si batte per negoziati con la Francia. Durante la Repubblica di Weimar è più volte tra coloro di cui si parla come candidato alla Cancelleria. Quando nel 1933 si dichiara non disponibile ad accogliere Adolf Hitler che veniva da Berlino per la campagna elettorale e fa rimuovere le bandiere con le croci uncinate, il Nsdap (partito nazionalsocialista tedesco) lo rimuove dal suo ufficio di borgomastro. Subito dopo lascia Colonia e per un anno cerca rifugio nel convento di Maria Laach. In qualità di avversario del nazionalsocialismo viene escluso da ogni incarico e collocato anzitempo in pensione. Viene più volte arrestato per brevi periodi. Gruppi cattolici di resistenza cercano spesso di guadagnare la sua adesione alla lotta contro Hitler. Egli tuttavia respinge tutte le sollecitazioni di questo genere. Alla fine della guerra, nel maggio del 1945, Adenauer viene nuovamente insediato come Primo Borgomastro della città di Colonia dal governo militare americano, ma in ottobre viene rimosso dall’amministrazione militare britannica per “inidoneità”. All’inizio del 1946 diviene il presidente della Cdu appena fondata nella zona di occupazione britannica. Nell’agosto del 1949 diviene, per mandato diretto, membro del primo Parlamento tedesco eletto, e tale rimane fino al 1966. Infine, il 15 settembre 1949, viene eletto con un solo voto di maggioranza primo Cancelliere della Repubblica Federale tedesca. Nella prima dichiarazione ufficiale di governo della Repubblica Federale tedesca fissa la sua politica estera in due principi-guida: “L’unica via che conduce alla libertà è quella per cui noi cerchiamo di ampliare pezzo a pezzo le nostre libertà e i nostri ambiti di competenza in accordo con le alte commissioni alleate”. “Per noi non esiste alcun dubbio che per la nostra origine e la nostra cultura apparteniamo al mondo europeo occidentale. Vogliamo intrattenere buoni rapporti con tutti i paesi, anche di carattere personale, specialmente con i paesi a noi vicini, gli stati del Benelux, la Francia, l’Italia, l’Inghilterra e gli stati del Nord Europa”. 15 marzo 1951 assume inoltre il neonato ufficio di ministro degli Esteri. Il baricentro della sua politica consiste nell’integrazione occidentale della Repubblica Federale tra i paesi occidentali. Il 6 settembre del 1953, alle seconde elezioni parlamentari tedesche, ad ottobre, viene nuovamente eletto Cancelliere federale. 15 settembre del 1957 alle elezioni per il terzo Parlamento tedesco la Cdu/Csu ottiene la maggioranza assoluta e viene eletto di nuovo Cancelliere Federale. Il 7 aprile del 1959 viene candidato per l’ufficio di Presidente della Repubblica Federale ma due mesi dopo si ritira perché non sembra andare d’accordo con il suo successore designato alla cancelleria federale, il ministro del commercio Erhard. Il 7 novembre 1961 viene eletto di nuovo a Cancelliere Federale e il 15 ottobre del 1963 si dimette. Gli succede Ludwig Erhard. Muore il 19 aprile 1967 e viene sepolto nel cimitero di Rhoendorf.

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meglio la Francia, nonostante i proclami da grandeur di un Sarkozy alla ricerca di una difficile riconferma all’Eliseo. E stanno male, malissimo, tutti i paesi dell’Europa mediterranea. Oltre all’Italia, infatti, anche Spagna, Portogallo e Grecia hanno rappresentato il ventre molle di un’Unione già in affanno. Il caso greco è ormai paradigmatico, con una nazione troppo frettolosamente ammessa nel club della moneta comune e altrettanto frettolosamente abbandonata a se stessa nel momento del bisogno. L’unico paese nordico a soffrire la crisi, infine, è stata l’Irlanda, che ha goduto per anni di uno sviluppo tanto tumultuoso quanto effimero basato sulle nuove tecnologie e sull’entusiasmo volatile dell’universo della Rete. Nessuna nazione centrorientale, insomma, a dimostrazione che il problema dell’Unione europea non è stata l’apertura a Est, ma la crisi endemica del cuore del continente, di quelli che dovevano essere i punti saldi di un progetto ambizioso e che invece si sono trasformati nei possibili assassini del loro stesso figlio. E anche chi sta bene (leggasi Germania) dimostra un egoismo figlio di dinamiche politiche interne, che non fa onore alla nazione di Adenauer e di Kohl. “Angela Merkel non è Kohl” è diventato il sospiroso leitmotiv degli ultimi mesi. Purtroppo l’assioma è evidente e lapalissiano e la cancelliera ha ancora poco tempo per dimostrare la propria statura continentale, scrollandosi di dosso gli interessi

di bottega e i calcoli strategici interni. Ma c’è chi preferisce non vedere gli errori contingenti e si affida a interpretazioni più “alte”, storiche o filosofiche, per spiegare la crisi dell’Europa. È il caso, ad esempio, di Wolfgang Munchau, che sul Financial Times del 29 dicembre scorso paragona l’attuale momento di difficoltà del Vecchio Continente alla Guerra dei Trent’anni che, dal 1618 al 1648 squarciò l’Europa e la cambiò per sempre. Entrambi i difficili frangenti storici, secondo Munchau, derivano da avvenimenti piuttosto marginali: la crisi greca nel nostro caso, la famosa “defenestrazione di Praga” per quanto riguarda il conflitto secentesco. E poi giù con altre similitudini che, in verità, sembrano piuttosto fragili. Molto più interessante, così come ha notato Michael Auslin sulla National Review, è la riflessione che Munchau fa sul Trattato di Westfalia, che chiuse quella guerra nel 1648. Si trattò, sottolinea Auslin, di quella comprehensive revolution (rivoluzione di insieme) che Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, vorrebbe realizzare oggi. E visto che ognuno fa il suo mestiere, c’è anche l’interpretazione di Benedetto XVI, secondo il quale la crisi economica europea “si fonda su una crisi dell’etica”. Il Santo Padre, pur sottolineando come “valori come la solidarietà, l’impegno per gli altri, la responsabilità per i poveri siano in gran parte indiscussi”, sostiene


LA FINE DELL’EUROPA? Domenico Naso

che “manca spesso la forza motivante, capace di indurre il singolo e i grandi gruppi sociali a rinunce e sacrifici”. Interpretazione rispettabile e ovviamente in parte vera, ma che non spiega, però, tutta una serie di criticità che sono politiche, non etiche, che riguardano la natura stessa dell’Europa comune e il suo funzionamento. È questione politica, insomma, più che storica ed etico-religiosa. Ed è proprio dalla politica che bisogna ripartire. I leader europei devono riprendere il percorso tracciato dai Padri fondatori e portarlo a compimento con senso di responsabilità e spirito di servizio. Il sogno europeo è troppo grande perché venga mortificato e messo a repentaglio da interessi particolari e nazionali. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, forti del ruolo preminente dei loro paesi, continuano a pensare a un’Europa a guida franco-tedesca, piegata ai voleri di Parigi e Berlino e distante da quello spirito unitario e inclusivo dell’Europa delle origini. Tocca agli altri paesi influenti rimettere al centro del dibattito il destino del Continente e non quello, elettorale, del presidente francese e della cancelliera tedesca. La ricetta, per quanto ci riguarda, non può che essere quella del Partito popolare europeo. Come ha scritto Adolfo Urso nell’editoriale del numero di settembreottobre 2011 di Charta minuta, “l’Europa nasce grazie alla famiglia popolare e cerca oggi di resistere grazie alla famiglia popola-

re. […] L’asse dell’Europa si è sempre sviluppato intorno alla più salda famiglia popolare che nei momenti di crisi indica la rotta e convince gli equipaggi. Oggi più che mai”. Il Ppe è pronto a raccogliere la sfida per salvare l’Unione europea? Forse sì, a cominciare da leader come Mariano Rajoy, fresco premier spagnolo dopo l’era Zapatero, e da un centrodestra italiano che deve ritrovare unità e convinzione. Ma se due esponenti di primo piano del popolarismo europeo come Sarkozy e Merkel si dimostrano ancora troppo egoisti, qualche problema evidentemente c’è. Bisogna fare in fretta per salvare il salvabile e rilanciare il progetto unitario con vigore e convinzione. Bisogna convincere l’asse franco-tedesco che il crollo europeo è il crollo anche di Parigi e Berlino. Bisogna avere il coraggio di rilanciare con proposte ardite, a cominciare dal sogno federalista di Rossi e Spinelli, ad esempio, per trasformare le criticità di un continente ancora frammentato politicamente nel grande obiettivo degli Stati Uniti d’Europa.

L’Autore DOMENICO NASO Giornalista, è direttore responsabile di FareitaliaMag. Collabora con ilfattoquotidiano.it

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Qui Bruxelles

VIAGGIO AL CENTRO DELLA CRISI Mentre l’Euro-crisi impazza, le istituzioni comunitarie rischiano di non avere gli strumenti necessari per affrontarla. Tutta colpa di chi (leggi Francia e Germania) vuole sacrificare gli interessi europei a favore di quelli nazionali. da BRUXELLES ALESSANDRO MULIERI


LA FINE DELL’EUROPA? Alessandro Mulieri

Place de Luxembourg è uno dei centri pulsanti della Bruxelles comunitaria. Situata di fronte al Parlamento europeo, si trova al centro di Ixelles, un quartiere che ospita anche il Consiglio europeo ed è appena contiguo a Schuman, l’area in cui si trovano gli uffici della Commissione. La piazza, non molto grande ma sempre molto curata, è piena di locali che accolgono nelle ore più diverse gli europarlamentari e soprattutto i loro giovani assistenti in cerca di divertimento o in vena di un happy hour e una birra. Farsi un giro per questi locali nel tardo pomeriggio (più o meno quando inizia il rito quotidiano dell’aperitivo) può essere molto istruttivo per capire cosa bolle nella pentola dell’agenda comunitaria. Il folk del parlamento è infatti più dinamico e aperto delle schiere annoiate, grigie e un po’ stagionate che affollano gli scialbi locali attorno alla Commissione. Gli europarlamentari o i loro assistenti sono più disposti a parlare, a raccontare cosa stia davvero succedendo a Bruxelles. Qualcuno direbbe che è naturale perché, essendo gli europarlamentari eletti direttamente dai “popoli” europei, hanno il dovere di interloquire con i media o di rendere conto di quello che succede nell’Unione apertamente. Tuttavia, c’è forse una spiegazione più semplice del perché nel parlamento europeo si parli di argomenti scottanti comel’Euro-crisi in maniera più franca rispetto ad altri luoghi. Il motivo è che i rappresentanti dei popoli europei, a differenza di quelli della Commissione e del Consiglio,

sono di fatto completamente estromessi dalla gestione dell’Euro-crisi. Un giro tra la folla di place de Luxembourg conferma quello che molti esperti, opinionisti, studiosi hanno spiegato dopo l’ultimo eurosummit di Bruxelles. Inutile nascondersi la realtà, ci si dice. L’ultimo eurosummit europeo è stato un’occasione mancata. Non vogliamo chiamarlo fallimento? Allora mettiamola più semplicemente: è stato un accordo debole che, lungi dal risolvere i problemi cronici che affliggono l’eurozona, non garantisce quella maggiore integrazione fiscale e finanziaria che era stata tanto decantata dall’asse franco-tedesco nei mesi precedenti. I leader dei 27 paesi dell’Ue, incontratisi lo scorso 8 dicembre a Bruxelles per un complesso e lungo vertice notturno, hanno ottenuto due risultati principali. Il primo è stato l’accordo per un nuovo trattato in cui si garantiscono una serie di misure soft per la stabilità finanziaria ed economica dei paesi dell’eurozona. Il secondo è stato un trattato a 26 da cui la Gran Bretagna si è tirata fuori (anche se il governo inglese è stato invitato dal presidente del Consiglio europeo Van Rompuy come osservatore ai negoziati che stanno per iniziare). I negoziati effettivi per il prossimo trattato si terranno tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio. Novità importante è il fatto che il nuovo trattato potrà entrare in vigore previa ratificazione di almeno 9 dei 17 paesi dell’eurozona (dunque non si prevede più la clausola dell’unani-

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mità come era ad esempio previsto nel caso del Trattato di Lisbona). Cosa prevede l’accordo? Innanzitutto, le nuove misure non entreranno a far parte di una revisione del trattato di Lisbona, attualmente in vigore. I leader europei dovranno invece negoziare un nuovo trattato e assicurarsi che quest’ultimo non entri in contraddizione con il trattato già in vigore. Questa modalità non è nuova nella storia dei trattati Ue. Basti pensare all’accordo di Schengen che, prima di entrare a far parte dei trattati, era nato come un semplice accordo intergovernativo non sottoscritto da tutti i paesi dell’Unione. Tuttavia, pensare di creare un nuovo trattato che si aggiunga a quello di Lisbona crea due difficoltà principali. Primo, complica il quadro legale e istituzionale all’interno del quale gestire l’Eurocrisi, perché ogni volta che si agirà in base al trattato prossimo venturo ci si porrà il problema di capire come armonizzarlo con quanto previsto da Lisbona. Secondo, il nuovo accordo è la degna creazione di mesi e mesi di incontri franco-tedeschi e dell’idea à la Sarkozy di un’Europa delle nazioni. Il nuovo deal indebolisce in maniera sostanziale il metodo comunitario e ha tutti i caratteri di un accordo intergovernativo che complica lo spazio di manovra della Commissione e della Corte europea di giustizia. Nel dettaglio, la bozza per il nuovo trattato prevede che ogni Stato membro non possa sforare un rapporto deficit/pil annuale dello 0,5%. Questa soglia, si legge nella bozza dell’accordo, potrà es-

sere superata solo nel caso gli Stati membri siano in recessione o in casi eccezionali che devono essere attentamente motivati. Si anticipa inoltre l’Esm (European stability mechanism) al luglio del 2012. Nella bozza conclusiva si legge che il fondo sarà in grado di ricapitalizzare direttamente banche dell’eurozona che si trovano in difficoltà. Rimane da capire come verrà gestito, durante le prossimo consultazioni per il nuovo trattato, il rapporto con il già esistente Efsf, il fondo salva-Stati che attualmente contiene 400 miliardi di euro e che, se unificato con il nuovo Esm, potrebbe totalizzare 900 miliardi di euro pronti per situazioni di rischio o di salvataggio dell’euro. Inoltre, la bozza del trattato prevede che l’Esm entrerà in azione solo previa approvazione dei paesi che rappresentano il 90% del suo capitale (rappresentanza calcolata in base alle quote di capitale che ogni paese membro versa alla Banca centrale europea). Solo in casi urgenti, le decisioni del fondo potranno essere prese a maggioranza dell’85% dei paesi che lo compongono. Si modifica anche la procedura che punisce gli Stati membri con deficit eccessivo. Con le regole attuali, la Commissione può mettere un paese sotto sorveglianza e, in caso uno Stato membro sfori il 3% nel rapporto deficit/pil, decidere di applicare delle sanzioni. Nella situazione attuale, tali sanzioni devono essere approvate da un voto a maggioranza qualificata dei membri. Con le nuove regole, la procedura sarebbe ribaltata. Dopo la de-


LA FINE DELL’EUROPA? Alessandro Mulieri

cisione della Commissione, le sanzioni scatterebbero automaticamente, a meno che una maggioranza qualificata degli Stati membri non decida di bloccarle. L’ultimo punto riguarda il ruolo della Corte europea di giustizia. Quest’ultima potrà intervenire se i paesi membri non hanno adottato correttamente all’interno delle proprie Costituzioni o nei loro ordinamenti legali le regole del trattato europeo sulla stabilita finanziaria. Inoltre, dato che il nuovo trattato è intergovernativo, la Commissione non potrà intervenire direttamente portando i paesi “trasgressori” di fronte alla Corte. Sarà invece compito degli Stati sorvegliarsi a vicenda e portarsi di fronte alla Corte in caso di trasgressione delle regole di bilancio approvate a livello europeo. Un’eventualità, questa, che sembra molto difficile da applicare. Non serve un bambino per capire quanto queste misure siano insufficienti per andare verso quella maggiore integrazione fiscale ed economica di cui l’Unione ha bisogno per risolvere l’Euro-crisi. C’è innanzitutto un problema di prospettiva. Il nuovo trattato azzera o ridimensiona notevolmente il metodo comunitario. La Commissione, la Banca centrale europea e la Corte di Giustizia rimangono attori del tutto secondari, se non trascurabili, nella gestione e/o sorveglianza della disciplina di bilancio degli Stati membri. Questi ultimi continuano a determinare il corso degli interventi necessari in base al peso economico e finanziario che rivestono all’interno del-

l’Unione. Ciò è comprensibile ma non aiuta a creare o aumentare il grado di solidarietà o fiducia necessario tra i paesi Ue per uscire insieme da questa crisi. Un secondo problema riguarda il contenuto del deal che sarà usato per le negoziazioni del nuovo trattato. Non ci sono proposte per una maggiore armonizzazione delle politiche fiscali e dei sistemi di tassazione nazionali degli Stati membri. Una clausola, questa, che ha facilitato la partecipazione al nuovo trattato di paesi come la Repubblica Ceca e l’Ungheria che su questo punto si erano mostrati particolarmente critici. Non ci sono gli eurobond, la Bce continua a non poter comprare debito sovrano sui mercati principali e Commissione e Corte europea continuano ad avere le mani legate quando si tratta di controllare o monitorare la disciplina di blancio dei singoli paesi. Insomma, è improbabile che il trattato che verrà negoziato nei prossimi mesi riuscirà a risolvere i nodi fondamentali dell’Euro-crisi. È indubbio che la crisi dell’euro continuerà a essere protagonista per tutto il 2012.

L’Autore alessandro mulieri Assistente di ricerca e dottorando all’Università di Lovanio nell’ambito di un progetto di ricerca multi. Ha lavorato per 4 anni a Roma come giornalista presso l’agenzia di stampa Dire. Si occupa di affari europei per il portale www.glieuros.eu.

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LA FINE DELL’EUROPA? Franco Frattini

Basta compromessi al ribasso serve più ambizione politica Bisoga tenere ben presente il principio, non negoziabile, che se il castello europeo crolla per egoismi e resistenze di qualcuno, cadremo tutti, perdendo ogni prospettiva per le prossime generazioni. È in gioco il bene dell’Italia e il futuro dei nostri figli. di FRANCO FRATTINI

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L’Europa è dinanzi a sfide anzitutto politiche, cariche di conseguenze per l’andamento delle economie degli Stati membri, per la tenuta stessa dell’euro e, dunque, anche per le dinamiche sociali riguardanti le giovani, ma anche le meno giovani generazioni. Nel mondo globalizzato e interconnesso nessuno può essere al sicuro e le ripercussioni contagiose di una crisi toccano i più deboli così come i più forti. Il primo antidoto è più ambizione politica. Soluzioni alla crisi globale non possono trovarsi in compromessi al ribasso affidati ai tavoli delle burocrazie. Sono i governi e i parlamenti responsabili davanti ai cittadini a dover pro-

porre e attuare iniziative, riforme, ricette complessive per il breve come per il medio-lungo periodo. Non si può prender tempo, come si è fatto erroneamente al momento iniziale della crisi greca, né, peggio, limitarsi all’urgenza e all’emergenza rinviando così sulle future generazioni il peso di decisioni strutturali non prese oggi. Il secondo antidoto è più Europa. Il processo di integrazione europea, proprio perché c’è la crisi, deve accelerarsi e rafforzarsi. Chiusure ed egoismi nazionali sarebbero fonte di debolezza anche se cercassero di nascondersi dietro assi bilaterali o trilaterali apparentemente forti, ma che rileverebbero a ogni occasione tutta la


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loro intrinseca fragilità. L’Euro- fletta le aspettative e gli ideali pa, più Europa, è oggi una ricetta dei popoli, che sappia coniugare obbligata dinanzi a sfide in cui si trasparenza democratica e capaciconfrontano attori globali, stori- tà di decidere senza veti e intranche potenze come gli Stati Uniti sigenze a oltranza. o nuove realtà come Cina, India, Pensiamo che il metodo comuniBrasile ormai in grado di giocare tario e il confronto democratico partite sovranazionali e di condi- sulle politiche da seguire siano zionare gli esiti di grandi dossier elementi imprescindibili per un planetari. L’Europa in tale qua- nuovo Patto che garantisca dro può forse non essere determi- l’equilibrio tra istituzioni nazionante, ma è certo che un’Europa nali ed europee. divisa per gli interessi nazionali Il percorso incompiuto a Maastricht deve essere oggi ripreso e sarebbe e sarà irrilevante. Il terzo antidoto sono le scelte co- completato: una moneta e un raggiose nella sostanza: cedere mercato per l’Europa sono elementi di un quaparti della sovradro istituzionale in nità nazionale ri- L’Europa, più Europa, cui finora è mancachiede determinazione e visione da è una ricetta obbligata ta la guida politica, con un governo parte dei gover- dinanzi a nuove sfide europeo dell’econanti. Occorre canomia e una banca pire e spiegare ai globali e partite con funzioni procittadini che, met- sovranazionali prie, anche di imtere in comune sotto l’egida delle istituzioni co- pulso e sostegno nei casi di crisi munitarie una parte sempre più che, come sta accadendo, colpisca consistente della governance eco- il cuore degli Stati e non solo setnomica rafforza e non indebolisce tori della finanza privata. gli Stati membri perché consoli- Dobbiamo tenere ben presente il principio, non negoziabile, che se da la casa comune. In questo quadro si dovrà raffor- il castello europeo crolla per egoizare grandemente la partecipazio- smi e resistenze di qualcuno, tutne democratica dei cittadini in ti insieme cadremo e che nessuna termini di conoscenza e condivi- prospettiva, in questo o quel Paesione a questo processo complesso se membro, di prossime elezioni e solo apparentemente tecnico, può farci dimenticare che qui ma in realtà altamente politico parliamo invece delle prossime perché è la condizione per lo svi- generazioni, come diceva De Galuppo, oltre che per il consolida- speri, cioè dei nostri figli, che mento, oltre la crisi, di un’unione raccoglieranno il frutto, dolce o di Stati e di popoli di centinaia di amaro dipenderà da noi, delle milioni di persone. La visione che scelte di oggi. vorremmo condividere è quella di Bisogna coniugare l’interesse nauna costruzione europea che ri- zionale dell’Italia con quello


LA FINE DELL’EUROPA? Franco Frattini

dell’Europa fino a farli coincidere tra loro, di non consentire, con il peso dell’Italia unita che lei potrà esprimere, che soluzioni costruite a vantaggio degli uni o degli altri debbano calare sugli italiani, che per il bene comune stanno portando il peso di scelte durissime per la vita quotidiana delle famiglie e delle imprese. Noi abbiamo fatto i compiti, ora l’Europa faccia il suo compito. Allora subito un appello al metodo comunitario, non accordi intergovernativi parziali e limitativi. È arrivato il momento di puntare sul rigore e sull’abbattimento del debito, tenuto conto di tutti i fattori di sostenibilità del sistema paese e quindi anche del valore aggiunto delle riforme strutturali, un ruolo più forte della Banca centrale europea quale prestatore di ultima istanza e serio rilancio del progetto degli eurobond, forte attenzione alla crescita, speciale riferimento alle famiglie, alle medie e piccole imprese in crisi di liquidità. Non vorremmo che l’erogazione di prestiti all’1% della Bce alle banche degli Stati membri fosse per queste ultime ossigeno per reinvestire con notevoli profitti in titoli redditizi, anziché lo strumento vincolato per dare credito alle famiglie e alle imprese. Bisogna chiedere che quel vincolo si ponga e si possa così dissipare l’idea che un circuito europeo alimenti a tassi di favore le banche e da cui i cittadini e le imprese, chi lavora e chi produce, restano esclusi. Io credo in proposito che sia urgente anticipare a prima del 2013 l’applicabilità della di-

IL PERSONAGGIO

De Gasperi, l’uomo che credeva nell’Europa Dal 1946 al 1953 Alcide de Gasperi, nelle sue funzioni di presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, guidò la politica interna ed estera dell’Italia negli anni del dopoguerra. De Gasperi nacque nella regione Trentino-Alto Adige, che fino al 1918 aveva fatto parte del territorio austriaco. Al pari di altri statisti illuminati del suo tempo, fu un attivo sostenitore dell’unità europea. L’esperienza del fascismo e della guerra (trascorse in carcere gli anni tra il 1927 e il 1928, prima di trovare asilo in Vaticano) lo aveva convinto che solo un’Europa unita avrebbe potuto impedire il ripetersi di simili eventi. De Gasperi promosse spesso iniziative per l’integrazione dell’Europa occidentale, lavorando per la realizzazione del piano Marshall e creando stretti legami economici con altri paesi europei, in particolare con la Francia. Egli fu inoltre sostenitore del piano Schuman per la fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e contribuì a formulare l’idea della politica europea di difesa comune.

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rettiva europea che fissa rigorosi termini per i pagamenti delle pubbliche amministrazioni a cittadini e imprese. Infine, nell’apprezzare le riflessioni su forme di tassazione europea nei confronti delle transazioni finanziarie, non parlerei di Tobin tax, perché forse il professor Tobin guardava a tasse di scopo per i paesi in via di sviluppo, ma credo in ogni caso che si debba in modo imprescindibile richiedere che questo prelievo si applichi almeno a tutti i paesi membri, o ancor meglio sia la base per un’estensione del principio anche alle grandi economie extraeuropee. Non vorremmo che l’applicazione della tassa in 24 o 25 paesi innescasse un enorme movimento di volumi di transazioni verso gli Stati che ne rifiutano l’applicazione, a cominciare dalla city di Londra, che non è in coda, mi sembra, alle classifiche dei volumi di transazioni borsistiche. Quello di cui c’è bisogno è al tempo stesso forza e determinazione perché il 30 gennaio l’accordo sia europeo, alto e ambizioso e perché l’Italia in esso esprima il suo impulso storico di paese fondatore, chiedendo più Europa, meno egoismi, più trasparenza e risposta democratica verso i cittadini. Se così non fosse – e sono certo che nessuno di noi se lo augura, i cittadini, in Italia e altrove, si chiederebbero ancor più incisivamente se l’Europa, in fondo, non debba essere fermata, perché, così com’è, non c’è quando

dovrebbe esserci e interviene quando non dovrebbe. Sarebbe una prospettiva devastante, difficilmente arrestabile, che abbiamo tutti il dovere e, forse, il tempo per evitare.

L’Autore franco frattini Ha ricoperto incarichi governativi dal 1994 al 1996 nei governi Berlusconi I e Dini, è stato ministro degli Affari Esteri nel governo Berlusconi II dal 2002 al 2004, Commissario europeo per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza dal 2004 al 2008, nuovamente ministro degli Affari Esteri nel governo Berlusconi IV, dal 2008 al 2011. Deputato del Popolo della libertà, è presidente della fondazione Alcide De Gasperi.



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Una sfida federalista

STATI UNITI D’EUROPA, SE NON ORA QUANDO? Una vera unione politica di stampo federale, che nasca con scelte condivise e che sappia far uscire l’Europa dall’impasse, nel segno della crescita, dell’occupazione, della conoscenza e dell’innovazione. intervista a EMMA BONINO di PIETRO URSO


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Emma Bonino

Presidente Bonino, il declino dell’Europa sembra ormai un processo avviato che neanche il vertice del 9 dicembre è risuscito ad arginare. Molti analisti sostengono che non siano state prese delle decisioni tali da riuscire a tener testa alla crisi economica e finanziaria che ha colpito il vecchio Continente, lei cosa pensa delle misure adottate? Si poteva fare di più e meglio?

Di Europa se ne intende, visto che a Bruxelles c’è stata per anni ed è stato uno dei commissari più apprezzati. E sull’Europa ha le idee chiarissime, Emma Bonino, leader radicale e vicepresidente del Senato. Un’analisi spietata e lucida su come le istituzioni nazionali e comunitarie stanno affrontando il difficile momento economico e finanziario e soprattutto su cosa non è stato ancora fatto. Nell’attesa che i paesi europei (Italia in testa) si decidano ad attuare riforme strutturali e diano vita, finalmente, agli Stati Uniti d’Europa, unico modello, per la il leader radicale, per sperare di salvare il Vecchio Continente.

Si è deciso qualcosa che va nella giusta direzione, però, per una radicale federalista e spinelliana come me, è comunque troppo poco e troppo tardi. È come se fossimo sempre all’inseguimento di qualcosa che scappa in avanti. Il rigore previsto sui conti degli Stati basterà a salvare la moneta unica, a placare i mercati, a bloccare la speculazione? Sarà difficile. A questa fragilità, poi, si accompagna una lacuna di fondo, quella di una visione che non c’è: quale Unione si vuole costruire? Un’Europa asimmetrica che evolve al di fuori dei Trattati? Un’Europa a due velocità, l’eurozona da una parte e i 27 dall’altra? Oppure una vera unione politica di stampo federale, tendenza Stati Uniti d’Europa? Sento che oggi tutti parlano di Stati Uniti d’Europa, compreso un francese, per di più ex-gollista, come Alain Juppé. Quando lo dicevamo noi radicali, già molti anni fa, eravamo considerati dei pazzi. Ora tutti sembrano concordare sul fatto che una Unione fiscale avrà vita breve senza una Unione politica. In questi anni sia la Commissione europea che gli Stati membri hanno com-

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messo diversi errori che alla fine si sono materializzati con la crisi dell’euro e della politica economica dell’Ue. Come giudica, lei che è stata anche Commissaria europea, le modifiche al Trattato che riguardano la Commissione decise al vertice di Bruxelles? Potranno dare un nuovo ruolo a tale istituzione e porre rimedio ai precedenti sbagli?

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Credo che nei prossimi mesi dovremmo lavorare perché l’Unione del rigore possa diventare anche l’Unione della crescita e dell’occupazione, dell’innovazione e della conoscenza, e penso che questo possa solo avvenire con il metodo comunitario, coinvolgendo Commissione, Parlamento e Corte di giustizia. Mi preoccupa la linea intergovernativa spinta da Sarkozy, come pure la creazione di un direttorio, a due o tre che sia. Dobbiamo ritrovare lo spirito comunitario. E, a proposito di Commissione, sono convinta che l’elezione diretta del presidente dell’esecutivo aiuterebbe la causa europeista. Nel suo ultimo intervento al Senato, ha sostenuto che “in Europa continua a prevalere non il peer-review come incitamento alla disciplina e alla buona condotta, ma l’opposto: io non guardo nel tuo orticello a patto che tu non guardi nel mio” e che questo atteggiamento ha portato alla crisi attuale. Qual è la sua ricetta per poter finalmente cambiare questa mentalità che in fondo assomiglia molto a quella italiana?

Questa mentalità al limite andava bene per il bel tempo. Poi è arrivata la crisi che ha dimostrato – anche a chi non lo vedeva, o fa-

ceva finta di non vederlo – che i mercati sono oramai così interdipendenti che nessuno – neppure il paese più virtuoso e che tiene i conti più in ordine – è immune da quello che succede dal vicino. Non si tratta di “lesa sovranità” o di “commissariamento” ma di giusti condizionamenti che ciascun Stato membro ha l’obbligo di esercitare con i partner quando c’è cattivo tempo. Dobbiamo essere consapevoli che ci si salva insieme o si va a fondo insieme. Lei ha individuato che una delle problematiche che deve seriamente affrontare l’Unione europea è il fattore demografico. La popolazione europea negli ultimi cinquant’anni è diminuita e invecchiata e rischiamo di diventare entro il 2050 “una mera appendice dell’Asia”. L’Ue, come la stessa Italia, dovrebbe attivare una politica di integrazione più incisiva. Da dove bisogna partire? Quali passi bisogna fare per tornare a essere un paese all’avanguardia su questo tema?

È vero, in Europa stiamo diventando sempre meno e sempre più vecchi. Visto il tasso di longevità in aumento e la bassa natalità, le previsioni indicano che nel 2050 la popolazione in età lavorativa si ridurrà di 68 milioni, sicché per quattro adulti in età lavorativa ci saranno tre pensionati da sostenere. Si guardi all’Italia: su sessanta milioni di abitanti un quinto ha più di 65 anni. Una nuova linfa vitale non può che venire dagli immigrati. Di conseguenza, urge uno stravolgimento delle politiche dell’immigrazione e dell’integrazione ri-


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Emma Bonino

spetto a quello che abbiamo visto finora. Una “buona” integrazione non è solo possibile ma è vantaggiosa per tutti e una nuova politica della cittadinanza può far molto per facilitare questo processo. Ciò che va evitato è continuare ad affrontare l’immigrazione con soluzioni temporanee, che contribuiscono ad alimentare aspettative e conflitti sociali, mentre serve, e con urgenza, una strategia complessiva e di lungo termine, integrata e coordinata nello spazio europeo. Di fronte ai cambiamenti mondiali di questi ultimi anni e all’aumentare della mobilità in un mondo globalizzato, mantenere lo ius sanguinis come ultimo baluardo contro i flussi migratori non è più sostenibile. Com’è infatti possibile pensare di concedere la cittadinanza in via preferenziale per diritto di sangue, solo perché una persona ha genitori o nonni di un paese col quale non ha però più alcun rapporto? Allo stesso modo, perché non concedere la cittadinanza non solo ad una persona nata su suolo italiano ma anche ad una persona nata altrove da genitori stranieri ma che dopo un certo numero di anni si è perfettamente integrata nel nuovo paese – nel quale paga le tasse, contribuisce al Pil – invece di prevedere criteri talmente restrittivi da rendere questa cittadinanza quasi un miraggio? Allora non sarebbe più ragionevole e al passo con i tempi introdurre non solo lo ius soli ma pure lo ius domicilii, ovvero la residenza, e il "merito", vale a dire un insieme di regole

che disciplinino i criteri minimi di questa cittadinanza: la legalità, un mestiere o un lavoro regolare, la frequenza scolastica per i minori, la conoscenza della lingua. Insomma, su chi se non sulle istituzioni ricade la responsabilità di fornire gli strumenti e di creare le condizioni perché questo stato di cittadinanza allargata si realizzi? Purtroppo, finora è mancata una leadership sufficientemente lungimirante, in Italia come in gran parte d’Europa; piuttosto, continuo a vedere troppe iniziative che alimentano la spirale di una polarizzazione ideologica, aumentando così i rischi di pericolose radicalizzazioni. Ancora troppe sono le paure alimentate in maniera strumentale e le idiosincrasie di alcuni leader europei che continuano a trattare l’immigrazione come una “catastrofe”. Ma attenzione: con la crisi economica l’Europa non è più quell’Eldorado che era e i flussi migratori sono “intelligenti”, vanno, cioè, dove c’è crescita e lavoro. E difatti, in Italia, nel 2010, gli arrivi hanno subito una flessione dell’86%... Londra ha deciso di non firmare i nuovi accordi europei: questa scelta avrà delle ripercussioni politiche ed economiche per la nuova Europa a 26. Invece, per la Gran Bretagna, quali saranno le conseguenze?

La Gran Bretagna, dopo essere stata alla finestra per tre lustri, è entrata nel mercato comune nel 1972 non per afflato europeista ma perché pensava di poter difendere meglio i propri interessi

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facendo parte del club anziché standone fuori. La decisione di Cameron – secondo me mal calcolata ed eccessivamente impulsiva – fuoriesce quindi da questa posizione consolidata nel tempo e avrà la conseguenza di isolare il paese in una fase storica nella quale nessun paese, neppure il più forte, può farcela da solo. Anche perché non solo la sua economia non è poi così florida, ma se la Gran Bretagna dovesse ulteriormente amputare i suoi rapporti con l’Europa, l’altra sua sponda tradizionale, quella transatlantica, non è più forte come una volta. 24

Il governo Monti ha preso degli accorgimento molto drastici per salvare l’Italia e l’Europa, basteranno per uscire dalla crisi? E quali misure servono, invece, per far ripartire la crescita?

Sono una sostenitrice di questo governo e penso che non c’erano alternative al punto dove eravamo arrivati. Ciò detto, il compito che ha davanti è davvero gravoso. Una manovra di questo tipo – non di lacrime e sangue ma di sacrifici, come ha detto Monti – era indispensabile. Anche se avessimo avuto la bacchetta magica e avessimo fatto le riforme mancate negli ultimi dieci anni e che da radicali abbiamo proposto – inascoltati quando non derisi – in tutti i modi – con i referendum, le iniziative parlamentari, le azioni nonviolente – non riusciremmo a vederne gli effetti benefici nel tempo necessario per tranquillizzare i mercati. Dunque i sacrifici

sono obbligatori: si parla tanto di equità della manovra, ma la prima misura di equità è proprio quella di evitare il default perché significherebbe non pagare gli stipendi e le pensioni e sarebbe un grosso guaio proprio per i più deboli. Per la crescita servono quelle misure che ho appena evocato: penso alle nostre proposte sull’apertura del mercato del lavoro, soprattutto a donne e giovani, la flexsecurity, le liberalizzazioni e le privatizzazioni, l’abolizione degli ordini professionali e del finanziamento pubblico ai partiti... Quanto tempo perso! Adesso ci tocca farle sotto il diktat delle istituzioni finanziarie internazionali, senza alcuna gradualità... Poi c’è un’altra priorità che sono legalità e giustizia, senza le quali è difficile attrarre investimenti stranieri. Che cosa pensa degli accordi sul clima presi a Durban? Sono scelte che potranno veramente portare a una seria riduzione dell’inquinamento oppure le ritiene insufficienti?

L’accordo raggiunto a Durban rappresenta un risultato positivo se consideriamo i presupposti d’inizio conferenza che sembravano dover sancire il fallimento di Kyoto, come il recente ritiro del Canada continua a paventare. Certo, lo “spirito di Kyoto” ne esce un pò appannato, soprattutto perché le decisioni prese sono su base volontaria per ora. Poi è mancata l’ambizione necessaria a far fronte a quelle proiezioni dell’Agenzia internazionale dell’energia per la quale l’aumento


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Emma Bonino

della domanda e dei consumi globali di energia nei prossimi vent’anni determinerà quasi sicuramente il raddoppio delle emissioni di carbonio rispetto ai livelli del 1990. Se dunque è positiva la proroga del Protocollo di Kyoto in vista dell’adozione di un accordo vincolante per il 2020, occorre che si pongano obiettivi di rientro, non solo della CO2, ma anche della popolazione mondiale entro ordini di grandezza più contenuti se si pensa all’impatto negativo che la crescita demografica – per tornare all’argomento affrontato prima – ha su una grande parte del pianeta che si sta sviluppando in maniera rapida e tumultuosa. Per questo il diritto umano fondamentale delle donne alle scelte individuali in materia di maternità e salute riproduttiva, come già previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, deve avere pieno riconoscimento. Bisognerebbe anche uscire dalla logica per cui il Pil è l’unico indicatore del benessere e pervenire alla definizione di ulteriori indicatori nella consapevolezza che il debito ecologico può essere governato solo attraverso l’introduzione di quella contabilità ambientale che attende di essere messa in atto dalla Conferenza di Rio del 1992.

L’Intervistato

emma bonino Vicepresidente del Senato della Repubblica dal 6 maggio 2008. È una delle figure più influenti del radicalismo liberale italiano dell'età repubblicana. È stata ministro per il Commercio internazionale e per le Politiche europee nel governo Prodi II, mentre in passato è stata Commissario europeo dal 1995 al 1999, ed eurodeputata a Strasburgo. È stata inoltre membro del comitato esecutivo dell’International Crisis Group (organizzazione per la prevenzione dei conflitti nel mondo), professore emerito all’Università Americana del Cairo, nonché segretario del Partito radicale.

L’Autore pietro urso Giornalista, direttore responsabile di Charta minuta.

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Nel mito di Europa riscopriamo le nostre radici Negli anni hanno vinto i tecnoburocrati i quali hanno generato mostruosità sulle spalle e ai danni dei popoli. L’appartenezza culturale non si costruisce a tavolino. È il Mediterraneo il vero cuore da dove tutto nasce, e come l’Aquila Bicipite, dei grandi imperi del passato, il suo sguardo dovrebbe rivolgersi non solo a Occidente, ma anche a Oriente. 26 intervista a PIETRANGELO BUTTAFUOCO di ROSALINDA CAPPELLO

Ascoltare, leggere Pietrangelo Buttafuoco è come entrare nel mondo delle nuove possibilità. Anche se credi di non essere d’accordo con lui, ti costringe a pensare, a riflettere che le sue considerazioni, per quanto possano sembrare ardite, scomode, a confronto con la rassicurante vulgata banalmente fair play, offrono un punto di vista plausibile. E riesce a farlo perché è un vero intellettuale – e non un semplice giornalista trombone – controcorrente, senza timori reverenziali, che con il suo talento da incantatore della parola, ti conduce agevolmente a spasso nel suo personale iperuranio. Ed è quello che ha fatto anche in questa occasione, raccontando la sua idea di Europa.

Com’è stato possibile che l’Europa, sogno per generazioni di pensatori e politici, si sia trasformata in un incubo?

L’Europa non esiste e non è mai stata un sogno, almeno non quella che abbiamo costruito nella nostra epoca. È una delle tante architetture che hanno generato mostruosità sulle spalle dei popoli, le stesse che noi non siamo abituati a considerare tali perché ormai frutto di esperimenti remoti, come quelli che hanno separato le nazioni dell’Estremo o del Medio Oriente, del Maghreb. Anche il Belgio nasce da un preciso calcolo geometrico fatto per dividere alcune parti di territorio. Tutte invenzioni non costruite sulle aspirazioni dei popoli. Mentre le na-


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Pietrangelo Buttafuoco

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Il Libro Alle radici dell’Europa globale Gabriella Airaldi Dall'Eurasia al Nuovo Mondo Frilli 2007, 208 pp., 14 euro

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Dove possiamo rintracciare le origini della globalizzazione? Dove e quando possiamo cogliere le prime battute della sua elaborazione pratica e concettuale; identificarne i metodi e gli strumenti; individuarne gli spazi e i tempi? E soprattutto: perché gli uomini, che, tra storia e mito, aprono definitivamente le porte del mondo ai grandi paesi europei, sono tutti italiani? In realtà Colombo, Caboto, Verrazano e Vespucci sono le icone intorno alle quali ruota una storia assai più remota. Le sue radici affondano nel cuore dell'Europa mediterranea, dove, nell'età medievale, cresce una storia nella quale mare e mercato, guerra e pace, intrecciandosi, ci raccontano, nelle biografie di maggiori e minori protagonisti, l'intesa, mai conclusa avventura degli italiani e il loro fondamentale contributo all'apertura degli orizzonti mondiali.

zioni si fondano sulle vocazioni di sangue, di combattimento, di aspirazioni, di sudore delle genti. L’Europa, per come l’hanno realizzata, è un non senso in quanto riunisce Stati-nazione e ha come unico collante l’euro. Sta dicendo che la tanto decantata Unione europea è una mistificazione?

Proprio così. E, per di più, una delle più grandi fatte ai danni dei popoli, perché voluta dai tecno-burocrati e dai banchieri, cioè da coloro che tutto hanno fuorché un’aspirazione spirituale, culturale, religiosa. La vera Europa è quella che viene rapita dal toro nella mitologia greca. È quella che si è tentato di realizzare con gli eserciti, da Federico II in poi, e con il coinvolgimento di grandi spiriti come Goethe. L’Europa per esistere dovrebbe necessariamente fondarsi sul Mediterraneo, cosa che quella attuale si guarda bene dal fare. Per esistere, dovrebbe essere il limes con l’Asia. L’unica Europa che ha un senso è quella dell’aquila bicipite con lo sguardo rivolto a Oriente e a Occidente, la stessa che garrisce nelle bandiere della Federazione russa, che nel passato fu il simbolo degli imperi. Servirebbe una vocazione autenticamente universale, insomma?

L’Europa non può essere che imperiale, ed è nella parola “impero” che trova fondamento l’universale, che è ben diversa cosa dal cosmopolitismo. Nell’idea universale alloggiano i popoli,


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Pietrangelo Buttafuoco

con le loro storie, le loro tradizioni e, soprattutto, con le loro differenze. E oggi non c’è niente di tutto ciò. Lo sguardo è rivolto esclusivamente a Occidente e di spirito e tradizione si parla poco, concentrati come si è sulla crisi economica che rischia di far saltare l’euro.

L’unica Europa possibile è quella che sa respirare in un grande orizzonte spirituale, lo stesso che si è costruito sul sacrificio imposto dalla tragedia di settant’anni di potere sovietico che non è riuscito a scardinare nel popolo russo, il suo spirito ma, anzi, l’ha fortificato. L’unica Europa è l’Eurasia, quella che riesce ad ascoltare l’India, quella che è vivificata dall’abbraccio con la grande tradizione persiana, che ha saputo tenere insieme tutte le anime della comune lingua di origine, non l’inglese ma la radice sanscrita, da cui sono derivati il greco e il latino. L’unica vera Europa è quella che riesce a risvegliare questa identità addormentata. È inimmaginabile, e i risultati sono davanti agli occhi di tutti, cercare di ricostruirla attraverso una sorta di solidarietà bancaria che non ha fatto altro che acuire le sofferenze, la marginalità di tutta un’esistenza che se non si riconosce nel canone materialista non riesce ad avere vita. George Simmel nella sua filosofia del denaro ha preconizzato quello che sarebbe diventato il nostro destino, essere soltanto numeri di una cassaforte. L’accanimento

contro la moneta sonante è il tentativo di fare di ognuno di noi prodotti di un unico supermercato facilmente identificabili, non nasce certo dalla lotta alla criminalità. Per questo diventa una questione di dignità. Chiunque sia del Sud, sa perfettamente che il possesso del denaro sonante dà l’idea di una maggiore libertà. Ci irritiamo se qualcuno controlla la nostra banconota come se volessimo spacciare soldi falsi, figuriamoci come sarebbe se a ogni pagamento fossimo costretti a usare la carta di credito, mostrando i documenti, le credenziali. Quindi, chi governa le sorti dei paesi europei non ha capito niente?

Ha capito benissimo, anzi, è il sistema migliore per radunare questo gregge, il sistema libera l-c a p ita listic o è q u e sto , nient’altro che questo. Il problema è che hanno costruito una fortezza destinata a perdere la grande battaglia di cultura con i popoli vivi, con la parte di mondo che riesce a mordere la vita, che sta guadagnando sempre più spazio. Si arriverà anche in Europa a vivere gli incubi filtrati attraverso i film e i romanzi, per esempio in riferimento al sistema sanitario americano, che danno l’idea dell’abbandono dell’individuo, dell’alienazione. Marx aveva ragione in proposito, la società liberale è quanto di più illiberale si possa immaginare, perché trasforma l’individuo in un atomo che deve essere catalogato, classificato e con-

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trollato, in ogni suo momento e movimento. Si è parlato molto, soprattutto qualche anno fa, delle radici giudaico-cristiane come fondamento dell’identità europea. È stato dimenticato qualche altro elemento?

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Quella delle radici monoteiste è una grande sciocchezza, perché la vera Europa è greco-romana, quella sanamente pagana, quella che ci fa parlare con il mondo. Non a caso, l’unica civiltà che ancora resiste è quella indiana, immutata rispetto a diecimila anni fa, che oggi si permette il lusso di essere presente sul mercato divorando la Rover e la Jaguar, simboli dei suoi colonizzatori. Nessuno è riuscito a spegnere la più bella espressione della civiltà umana, la sua grazia, la maestà di Shiva, Vishnu e il velo di Maya, che ci fa ritenere vero tutto ciò che è falso e falso tutto ciò che è vero. Il monoteismo ha distrutto il vero spirito europeo, tutto ciò che è venuto dopo è pura sovversione. Ma se proprio si vogliono recuperare tutte le identità europee, allora, per quanto riguarda l’Andalusia, i Balcani, la Sicilia e gran parte dell’Italia meridionale bisogna ammettere anche quella islamica. La radice islamica, appunto, quella che fa escludere la Turchia dall’Unione.

È stata la sua salvezza non esservi ammessa. Se fosse entrata in Europa, o peggio, nella cerchia dell’euro, non avrebbe raggiunto i successi economico-finanziari che vanta adesso.

Qual è la strada da percorrere per arrivare alla vera Europa?

L’unica possibile è quella di costruire una identità mediterranea. E a farlo dovrebbe essere una nazione con una centralità come quella italiana. Ma questo non mi sembra possibile perché il nostro paese è stato narcotizzato, anestetizzato rispetto a qualsiasi aspirazione ed emozione. Siamo così ignoranti da perdere tempo con l’orizzonte anglo-americano, senza accorgerci che il mondo si sta spostando dall’altra parte. E noi, che siamo gli eredi di Marco Polo, non riusciamo a dialogare, a confrontarci, tanto meno a diventare avanguardia con realtà quali la Cina, l’India, l’intero continente euroasiatico. Noi che abbiamo avuto il privilegio di fondare la scuola dell’orientalistica, non abbiamo salvato nulla di tutto ciò, perché la cecità della società, l’ignoranza e la malafede del ceto politico hanno portato l’Italia a rinunciare alla propria sovranità e ad assecondare soltanto i nostri perdenti padroni del vapore. Proviamo ad alleggerire un po’ questo pessimismo sul nostro futuro. Quale potrebbe essere la colonna sonora di un’Europa rinnovata?

Innanzitutto, partirei dalla bandiera. Quella attuale sembra uno straccio buono per una catena alberghiera, quasi peggio di quella specie di fermacarte che è il simbolo della Nato. Da questo si capisce che è falsa, che non ha nulla di evocativo. Sono riusciti a rendere ridicolo persino Beetho-


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Pietrangelo Buttafuoco

ven e il suo Inno alla gioia. Quando ci fu la guerra tra la Russia e Napoleone, a sfidarsi furono l’inno imperiale russo e la Marsigliese. A un certo punto, il primo sembra soccombere, ma alla fine prende il sopravvento. Siccome non ho obblighi di rispettabilità, dico che l’inno più bello è quello imperiale russo e mi auguro che possa definitivamente cancellare la Marsigliese, che avrà pure una bella musica ma racconta una delle più grandi sciagure dell’umanità, la rivoluzione francese, da cui è cominciata l’effimera società borghese. E tutto ciò che è effimero è inevitabilmente portato alla sovversione.

L’Intervistato

pietrangelo buttafuoco Giornalista e scrittore, ha cominciato la sua attività giornalistica al Secolo d'Italia, quotidiano dell’allora Msi. Tra il dicembre 1995 e il 1996, è direttore del periodico L’Italia settimanale. Prima collabora con Il Giornale e poi viene assunto nella redazione romana, e alla fine degli anni Novanta conduce per due stagioni, su Canale 5 la trasmissione Sali e Tabacchi. Nel 2006 realizza su LA7 Giarabub. Poi lavora per alcuni anni al Foglio di Ferrara, prima di approdare nel 2004 a Panorama. Nel 2005 pubblica per la Mondadori il romanzo Le uova del drago, finalista al Premio Campiello 2006. Da giugno a settembre 2007 conduce su LA7, in coppia con Alessandra Sardoni, la trasmissione Otto e mezzo. Il 5 febbraio 2008 esce il suo secondo romanzo, L’ultima del diavolo. Nel novembre 2009 pubblica il volume Fìmmini. A partire dal novembre 2011 conduce la trasmissione settimanale Questa non è una pipa su Rai5. Nel 2011 pubblica il romanzo Il Lupo e la Luna.

L’Autore rosalinda cappello Giornalista, è redattrice di Fareitaliamag, il periodico online dell’associazione Fareitalia. Ha collaborato con il Secolo d’Italia.

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LA FINE DELL’EUROPA? Andrea Ronchi

Il sogno del 1957 può continuare

Seguiamo la rotta dei Padri fondatori Serve più Europa per uscire dalla crisi, riprendendo il cammino di Schuman, De Gasperi e Adenauer. Per un’Europa comune che non si vergogni della propria identità, ma che anzi la valorizzi puntando senza paura alle sfide del futuro. di ANDREA RONCHI 33

Sono giorni complicati per l’Europa. I colpi inferti dalla crisi finanziaria soffocano l’economia del Vecchio Continente e scuotono dalle fondamenta l’architettura stessa dell’Unione mentre gli Stati membri si interrogano su come riformarne le istituzioni e garantire a quest’ultime la giusta protezione dagli assalti della speculazione. Il terremoto che sta attraversando l’Europa non deve però offuscare la nostra memoria e farci dimenticare lo straordinario cammino che è stato compiuto. Come i ritardi nella risposta alla crisi greca hanno dimostrato, l’Unione europea deve fare moltissimo sul fronte dell’efficacia e della coesione della sua azione. È dunque necessario che l’Europa come soggetto politico prenda

maggiore consapevolezza di se stessa. Ma per fare questo dobbiamo ricordare da dove veniamo e ricordare le ragioni dei fondatori, di Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman. L’Unione europea venne posta in essere allo scopo di mettere fine ai frequenti e sanguinosi conflitti tra paesi, culminati nella Seconda Guerra Mondiale. Negli anni immediatamente successivi alla fine delle ostilità l’Europa fu suddivisa in due blocchi, quello occidentale e quello orientale; iniziò, così, la guerra fredda, destinata a durare per oltre quarantanni. Il primo passo verso la cooperazione tra Stati avvenne nel 1949 con la creazione, da parte delle nazioni dell’Europa occidentale, del Consiglio d’Europa. Tuttavia


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questo non sembrava ancora esse- biamo adottato questo linguagre sufficiente. Quello che viene gio e la prova è in quest’uomo considerato l’atto di nascita lungimirante e lucido che si chiadell’Unione europea, fu la Di- ma Schuman». chiarazione Schuman, redatta il 9 Sette anni dopo, nel 1957, nella maggio del 1950 dal ministro sala degli Orazi e Curiazi in degli Esteri francese; il testo fu la Campidoglio, i rappresentati di scintilla che accese il fuoco del- sei paesi – Francia, Germania, l’integrazione continentale. La Italia, Belgio, Olanda e Lussemdichiarazione, prospettando il su- burgo – firmarono, al suono delperamento delle rivalità storiche la Patarina, la campana del Camtra Francia e Germania (legate al- pidoglio, i Trattati di Roma, la produzione di carbone e accia- istituendo così la Comunità euio), diede l’avvio al processo di ropea con l’obiettivo di favorire creazione della Comunità euro- e implementare la libera circolapea, base concreta per una futura zione di persone, beni e servizi al di là dei confini unione federale. nazionali. Se Francia e Ger- In questo periodo Nel preambolo i mania tracciarono firmatari del tratla strada, l’Italia difficile per Ue tato dichiarano di fu lesta a seguirla bisogna riprendere «essere determinacon assoluta conti a porre le fondavinzione: la sera il cammino che ebbe menta di un’uniostessa del discorso inizio nel 1957 ne sempre più di Schuman l’ambasciatore italiano Pietro Quaro- stretta fra i popoli europei; essere ni telegrafò ad Alcide De Gasperi decisi ad assicurare mediante il testo della dichiarazione. La no- un’azione comune il progresso stra fu la prima nazione ad asso- economico e sociale dei loro paeciarsi a quel piano. Il Presidente si, eliminando le barriere che didel Consiglio pronunciò parole vidono l’Europa; avere per scopo autorevoli: «La collaborazione essenziale il miglioramento cocon la Francia è radicata nel sen- stante delle condizioni di vita e timento della democrazia italiana di occupazione dei loro popoli; rie quando pensiamo a un’Europa conoscere che l’eliminazione desolidale e unita, come non pensa- gli ostacoli esistenti impone re che tale unità diventerà un fer- un’azione concertata intesa a gatile campo di comune progres- rantire la stabilità nell’espansioso?». Nella stessa occasione De ne, l’equilibrio negli scambi e la Gasperi elogiò pubblicamente lealtà nella concorrenza; essere l’attività di Schuman: «Gli uomi- solleciti di rafforzare l’unità delle ni portano già nei loro cuori ciò loro economie e di assicurarne lo che, secondo la parola di Cristo, sviluppo armonioso riducendo le Dio desidera da loro: ut unum sint. disparità fra le differenti regioni e Noi stessi, uomini pubblici, ab- il ritardo di quelle meno favorite;


LA FINE DELL’EUROPA? Andrea Ronchi

essere desiderosi di contribuire, grazie a una politica commerciale comune, alla soppressione progressiva delle restrizioni agli scambi internazionali; voler confermare la solidarietà che lega l’Europa ai paesi d’oltremare e assicurare lo sviluppo della loro prosperità conformemente ai principi dello statuto delle Nazioni Unite; essere risoluti a rafforzare le difese della pace e della libertà e a fare appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale, perché si associno al loro sforzo». Da quel giorno sono stati compiuti passi importantissimi e il compito morale e storico della riunificazione è stato quasi completamente realizzato: libertà, pace e democrazia sono concetti ormai radicati profondamente nel nostro animo. Oggi possiamo salutare un’unione che abbraccia 27 nazioni, 28 dal 2013 quando la Croazia entrerà ufficialmente a farne parte; 27 popoli che hanno scelto liberamente di rinunciare a porzioni sempre più ampie della propria sovranità in favore di un progetto comune. Non possiamo, però, adagiarci sugli allori: lo straordinario cammino finora percorso non deve farci chiudere gli occhi di fronte alle sfide, alle incognite e alle difficoltà che vanno profilandosi all’orizzonte. Siamo riusciti ad abbattere le frontiere, a creare un mercato comune e a coniare una moneta unica, ma non abbiamo ancora raggiunto una politica coordinata tra tutti i paesi europei.

IL PERSONAGGIO

Schuman, l’uomo che creò l’Europa Lo statista Robert Schuman, apprezzato avvocato e ministro degli Esteri francese tra il 1948 e il 1952, è considerato uno dei padri fondatori dell’unità europea. Nato in Lussemburgo, è vissuto nella regione di frontiera tra la Francia e la Germania. Nonostante le esperienze vissute nella Germania nazista, o forse proprio grazie ad esse, si rese conto che l’unità dell’Europa avrebbe potuto basarsi solo su una riconciliazione duratura con la Germania. Deportato in Germania nel 1940, due anni dopo riuscì a fuggire e si unì alla resistenza francese. Malgrado questa esperienza non mostrò alcun risentimento quando, dopo la guerra, assunse la carica di ministro degli Esteri. In collaborazione con Jean Monnet redasse il famoso piano Schuman pubblicato il 9 maggio 1950, giorno che oggi è considerato la data di nascita dell’Unione europea. Schuman proponeva nel piano il controllo congiunto della produzione di carbone e acciaio, le principali materie prime per l’industria degli armamenti. L’idea di base era che chi non dispone liberamente del carbone e dell’acciaio non è più in grado di condurre una guerra”. Schuman informò del suo piano il cancelliere tedesco Adenauer, che subito vi riconobbe un’opportunità per la pace in Europa e lo accolse favorevolmente. Poco tempo dopo reagirono anche i governi di Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. I sei Stati firmarono l’accordo per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio a Parigi, nell’aprile del 1951. In questo senso, l’Europa si fonda su un’iniziativa di pace. Schuman sostenne inoltre la formulazione di una politica europea di difesa comune e fu presidente del Parlamento europeo dal 1958 al 1960.

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Di fronte alla crisi economica e tuire quell’entusiasmo, quella internazionale nella quale versa credibilità e quella forza propulda molti mesi il continente eu- siva che era nelle intenzioni di ropeo, è necessario che l’Europa Schuman e che i cittadini eurosia più Europa; non meno Euro- pei oggi troppo spesso faticano a pa, come sostengono alcuni. Bi- riconoscere nelle istituzioni di sogna rafforzare l’azione comune Bruxelles e di Strasburgo. e stabilire gli strumenti tecnici Nihil est dictu facilius, diceva Puadeguati. L’Europa siamo noi, blio Terenzio Afro; ma il nostro siamo tutti noi e i paesi membri paese ha dimostrato con i fatti, devono lavorare in concerto, per non solo con le parole, di credere affinare il livello di coesione in- nell’Europa, convinti che solo terna in modo da avviare una mettendo da parte gli egoismi profonda riflessione sul legame e nazionali si potrà uscire dal tunil retaggio, per far sì che l’Unio- nel della crisi economica e finanne diventi una vera e propria co- ziaria che ci attanaglia. Il sentimento e le prospetmunità umana, tive filoeuropee sooltre che politica Nell’idea europea no sempre state e giuridica. ampiamente conL’Europa deve cre- di Schuman c’era divise nonché stidere di più in se la capacità di creare molate e supportastessa e per farlo te dalla nostra opinon deve vergo- una solidarietà nione pubblica, gnarsi della pro- tra gli Stati membri pur se all’interno pria identità, al contrario deve esserne fiera. Nel delle normali oscillazioni della momento in cui l’Unione europea dialettica parlamentare. si dà un nuovo quadro giuridico, Lo stesso De Gasperi è stato il politico, istituzionale ed econo- primo di una lunga serie di mico, deve ritrovarsi attorno ai grandi statisti che hanno saputo valori racchiusi nella dichiarazio- dimostrare la forte unità di inne Schuman; valori ai quali ancor tenti degli italiani, nella consaoggi facciamo riferimento, a di- pevolezza che senza l’Europa l’Italia sarebbe stata marginalizstanza di oltre sessant’anni. Schuman, all’atto di redigere il zata, allontanata da se stessa e testo che porta il suo nome, im- dalla propria storia, nonché dalla maginava e sognava un’Europa prospettiva di una modernizzabasata su progetti concreti, capa- zione possibile. Tante volte, ci in primis di creare una solida- troppe forse nel corso di questi rietà di fatto. Oggi è questa soli- anni, il nostro ruolo è stato queldarietà che dobbiamo riportare al lo di spettatori passivi; troppe centro della missione politica volte ci siamo vergognati di tudell’Unione: un compito com- telare l’interesse nazionale; tropplesso ma anche stimolante, e so- pe volte i nostri parlamentari prattutto fondamentale per resti- europei hanno riportato su scala


LA FINE DELL’EUROPA? Andrea Ronchi

continentale le contrapposizioni interne, trascurando la necessità di un’azione condivisa per il bene e il rafforzamento dell’Italia in sede comunitaria. Per questi motivi io credo che, soprattutto in questo momento in cui la crisi bussa alle porte con sempre maggior forza, si debba fare un grande sforzo per acquisire una piena identità politica. È necessario che la nostra nazione divenga consapevole del ruolo politico che può e deve avere in Europa. L’Italia ha bisogno dell’Europa quanto l’Europa ha bisogno dell’Italia e non possiamo tirarci indietro di fronte alla responsabilità che deriva dal suo naturale profilo europeo. È proprio dalla consapevolezza di questa responsabilità che, da cittadini europei, ma soprattutto italiani, dobbiamo dare risposte concrete e incisive per uscire da questo momento di impasse economica. Dobbiamo tornare a costruire all’interno del perimetro della politica, dobbiamo tornare a lanciare ponti e a stimolare il dialogo in Europa e sull’Europa, dobbiamo tornare a credere noi per primi in un futuro migliore per i giovani e per i nostri figli. Vogliamo ispirarci ai valori del popolarismo europeo, gli unici, a mio avviso, in grado di modernizzare, risanare e riformare la nostra nazione; i valori europei del popolarismo quali la libertà, la pace, la democrazia sono vivi e più che mai attuali. L’obiettivo dell’Italia è quello di collaborare alla costruzione di un’Europa efficiente, basata sulla democrazia

come comunità di cittadini uniti dagli stessi principi e dagli stessi valori: libertà, pace, diritti. Per questo motivo è indispensabile diffondere gli ideali di integrazione, fino a farli diventare un solido punto di riferimento per tutti i popoli europei, ma soprattutto per le nuove generazioni. Questi concetti dobbiamo scolpirli a chiare lettere nel nostro animo affinché ci diano la forza, una volta in più, di gettare il cuore oltre l’ostacolo e proseguire verso il sogno europeo.

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L’Autore andrea ronchi Giornalista, deputato, già ministro per le Politiche comunitarie, è segretario generale dell’associazione Fareitalia.


Troviamo il coraggio di alzare la testa

Quello che manca è la leadership europea Serve una campagna d’informazione mirata a far capire che l’Unione porta più benefici che danni e che senza sarebbe un disastro per tutti, in particolare per l’Italia. intervista a FEDERIGA BINDI di MATTEO LARUFFA

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Federiga Bindi, direttrice del centro di eccellenza europeo all’Università di Roma Tor Vergata e docente della cattedra Jean Monnet, spiega carenze e punti di forza, necessità, errori e prossimi obiettivi dell’Unione europea. Se volessimo tracciare il bilancio di questi sessant’anni di integrazione europea, quali crede siano state le mancanze e i risultati del processo di costruzione dell’Ue?

I risultati positivi sono stati tanti e importanti, sicuramente maggiori sia quantitativamente che qualitativamente delle mancanze. Il primo e più importante risultato – e non va dimenticato – è il raggiungimento e il mantenimento della pace nel nostro continente. Questa pace, che le generazioni di oggi considerano normale, non è invece un fatto scontato, come dimostrano i secoli di storia passata e le sfortu-

nate conseguenze della disintegrazione della ex Jugoslavia. Lo sviluppo economico e il benessere nel nostro continente sono anche un risultato corollario del processo di integrazione. Anche e soprattutto nei periodi di crisi, la Comunità/Unione è stata una ciambella di salvataggio importante, specie per il nostro paese. La mobilità è poi un risultato diretto dell’integrazione europea: dalla mia generazione in poi – cioè dai giovani 40enni in poi – siamo cittadini europei e del mondo. Questo è stato reso possibile dai tanti programmi comunitari – si pensi in primis all’Erasmus – ma è anche il risultato del processo di integrazione del mercato unico, che ha eliminato le frontiere fisiche e permesso ai cittadini europei di stabilirsi e lavorare ovunque nell’Unione senza particolari formalità. Ha introdotto la moneta


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Federiga Bindi

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unica, liberalizzato i commerci aerei eliminando i monopoli nazionali e permettendo alle compagnie low cost di volare e a noi cittadini di volare a prezzi davvero bassi che non trovano corrispettivo neanche nelle compagnie low cost americane. E sempre per fare un confronto con gli Usa, lì se un avvocato ha passato l’esame in California e va a New York deve rifare l’esame, se un cittadino si muove da District of Columbia alla Virgina (1 km!) deve rifare la patente. Tutto questo in Europa non esiste e sotto certi aspetti la nostra integrazione è assai più avanzata.

Crede ci siano stati degli errori nel permettere che l'allargamento avvenisse come poi è avvenuto, cioè in modo forse troppo rapido?

Assolutamente sì e l’ho detto e scritto già in tempi non sospetti (cioè nel 2004) ma, si sa, fare le Cassandre serve a poco. L’errore è stato permettere che entrassero i 10 paesi tutti assieme ribaltando quindi il principio degli own merits – principio stabilito al Consiglio europeo di Dublino del 1983 per i negoziati di Spagna e Portogallo, anche se poi alla fine i due paesi iberici entrarono insieme perchè l’ultimo nodo da sciogliere, quello delle quote pe-


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sca, era comune. In tal modo, cosi come già fatto nel 1981 con la Grecia, sì è ripetuto il tremendo errore di fare entrare dei paesi senza che il processo di negoziazione fosse effettivamente concluso e senza che alcuni di questi paesi avessero completato il processo di adattamento. Questo è ovviamente poi risultato in un costo (fisico e morale) sia per l’Unione che per i paesi stessi. Il processo di integrazione è dunque cominciato su un piede sbagliato. Si trattò di un errore di valutazione della Commissione a presidenza Prodi – errore che poi lo stesso Prodi ha riconosciuto – che volle far valere il principio politico, dimenticandosi di come lo stesso principio era stato foriero di gravi problemi nel precedente caso greco – problemi che per altro sono rimasti nel tempo: se ci si pensa bene, la Grecia ha a suo tempo truccato i conti per entrare prima nell’euro – perpetuando quindi un atteggiamento in base al quale in alcuni paesi pare che non ci si preoccupi delle conseguenze delle proprie decisioni affrettate. Quali sono i punti deboli dell’Ue di oggi, da dove derivano e come potremmo intervenire per migliorarli?

Il punto di maggiore debolezza è purtroppo nella leadership europea o – dovrei piuttosto dire – nella mancanza di leadership europea. Gli uomini di Stato di ieri – gente che aveva vissuto almeno la Seconda guerra mondiale e quindi considerava l’integrazione europea una missione – non ci sono

più. Uomini capaci – come Helmut Kohl – di scegliere di perdere un’elezione pur di affermare l’euro. Uomini con il coraggio – come il duo Craxi-Andreotti nel Consiglio europeo del 1984 – di far passare con il voto di maggioranza semplice (sette contro Regno Unito, Danimarca e Grecia) la decisione di cambiare i trattati che poi ha dato vita all’Atto unico, senza il quale non ci sarebbe stato il completamento del mercato unico. O come Andreotti-De Michelis-Carli-Ciampi, che misero in minoranza Margareth Thatcher nel consiglio informale di Roma 1990 affermando quindi il principio della moneta unica. Adesso ci sono solo persone per le quali la cosa più importante sono gli interessi di bottega, ovvero le prossime elezioni, per perpetuare la propria permanenza al potere. Cambiare questo stato di cose è difficile, sicuramente è necessaria una campagna di informazione mirata e diffusa per far capire che l’Unione porta più benefici che altro e che senza Europa (o senza euro) sarebbe un disastro per tutti, in particolare per l’Italia. Si deve avere il coraggio di alzare la testa e lavorare per un cambio generazionale e di leadership che porti alla guida dell’Europa un gruppo di persone che ci creda e sia capace di rischiare per far progredire il processo di integrazione. Si può parlare di una democrazia europea?

Sì, se ci si riferisce alla legittimità dei decision makers. I paesi dell’Unione sono paesi democra-


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Federiga Bindi

tici, che democraticamente eleggono i propri leader. I ministri che rappresentano i paesi europei nel Consiglio dei ministri dell’Unione sono quindi legittimati da un voto popolare – con eccezione dei governi tecnici – e dal sostegno del Parlamento nazionale (sia questo espresso in un voto favorevole specifico come avviene in Italia o con la mancanza di un voto a sfavore come avviene in Portogallo). Il Parlamento europeo è eletto direttamente dai cittadini europei. Quindi i due rami principali del processo legislativo sono democraticamente legittimati. Diverso il discorso della Commissione europea, appositamente pensata da Jean Monnet, che ne creò e presiedette il predecessore (l’Alta autorità della Ceca nata nel 1951), come uno strumento tecnocratico che potesse essere formato dalle migliori menti europee, che a loro volta fossero pagate molto bene, principio che avrebbe dovuto garantirne l’indipendenza. La prima generazione di burocrati europei erano tutte persone che al principio di integrazione credevano fermamente, erano per così dire delle vestali europee, e quindi il sistema ha ben funzionato. Le ultime entries non sempre hanno questo stesso profilo, la commissione si è spesso burocraticamente incartata e ha perso quello slancio che aveva sotto il primo leggendario presidente – Walter Hallestein (1957-67) e poi sotto Jacques Delors (1985-1995). Forse il principio per cui i tecnici (europei) sono meglio va rivisto, cor-

retto e adeguato ai tempi (ma finché il processo di selezione si baserà, come quello recentemente entrato in vigore, su un pre-test attitudinale a crocette e disegnini invece che, come nel passato, su un test che mirasse a valutare la profonda conoscenza europea del candidato, mi pare che si vada poco lontano). L’Ue è un esperimento unico e ancora oggi scienziati politici, giuristi, economisti e altri studiosi si dividono nel darne una definizione. Come definirebbe l’Ue?

Io la definirei una federazione incompiuta perché come detto prima ci sono degli elementi di forte integrazione, maggiori anche agli Stati Uniti. Con un team internazionale di colleghi di altissimo livello stiamo preparando un libro – che sarà pubblicato da Brookings Press – che compara dal punto di vista storico, istituzionale e delle politiche gli Usa e l’Ue. Speriamo con questo di sfatare il mito che l’Ue non funziona perché le istituzioni sono complicate: se l’Ue non funziona è perchè manca la leadership politica. L’Ue oggi sta fronteggiando una crisi economica di portata inimmaginabile, ma come è arrivata questa crisi in Europa, da dove arriva e come si può rispondere alla crisi in modo efficace?

La crisi è arrivata dagli Stati Uniti, cosa che gli americani paiono aver completamente rimosso, se guardiamo al dibattito in corso. Detto questo, l’Europa ha le sue colpe e deve trottare. Il problema principale è che non si

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può aver pensato e continuare a pensare che la moneta comune sia una cosa meramente tecnica. È necessaria più integrazione, non meno: politiche fiscali comuni, gli eurobond, ecc., altrimenti l’unione monetaria è zoppa e finisce per cadere. Detto questo la crisi è soprattutto crisi di vocazione e mancanza di visione del futuro, almeno per le giovani generazioni. Io ho la fortuna di vivere e lavorare da ormai quattro anni per metà in Italia e metà negli Usa. La maggiore differenza – e non è che in America non ci sia crisi, anzi! – è che gli americani non hanno smesso di credere, la loro fiducia in un futuro migliore, nella capacità di cambiare le cose è immutata. Tanto è vero che continuano a far figli – nonostante l’esistenza di politiche di supporto alla maternità e che le scuole costino moltissimo. E del resto, parallelamente, dal punto di vista economico, mentre noi in Europa (e in particolare in Italia) stiamo continuando a fare politiche restrittive che stanno finendo di ammazzare quel che resta della classe media – senza invece agire in modo virtuoso tagliando i veri sprechi e le ingiustizie – la presidenza Obama ha messo in atto politiche keynesiane. Inoltre negli Usa la classe dirigente si pone il problema dell’esempio: il presidente guadagna meno dei nostri parlamentari e l’idea è che si fa politica per servire il paese (si dice infatti to enter the public service) e se ne esce dopo una bril-

lante carriera ma abbastanza presto da guadagnare poi un sacco di soldi nel privato grazie all’esperienza precedentemente acquisita. Cosa dovrebbe cambiare nel nostro paese e in particolar modo nel dibattito politico italiano per rendere l’Italia sempre più europea?

Bella domanda. Stiamo parlando di un paese dove ancora i più autorevoli quotidiani scambiano il Consiglio europeo (organo decisionale Ue) con il Consiglio d’Europa – organizzazione internazionale con base a Strasburgo. D’Azeglio disse che fatta l’Italia si dovevano fare gli Italiani, mutatis mutandi possiamo dire che dobbiamo fare i cittadini europei. I miei studenti del triennio spesso hanno problemi a collocare correttamente la Seconda guerra mondiale, il che vuol dire che la scuola non ha dato loro un’adeguata preparazione storica, necessaria per capire il mondo in cui stiamo vivendo. C’è quindi bisogno di tanta formazione a tutti i livelli, a cominciare delle elementari per finire ai nostri parlamentari, che spesso sono più ignoranti in materia d’Europa degli studenti. La nostra classe politica – e ci sono fior fiore di studi a dimostrarlo – è fortemente localistica e disinteressata a “Bruxelles”. Nella Dc, in cui ho brevemente militato prima che scomparisse, chi si occupava di politica europea era l’intellighenzia della sinistra-Dc, a differenza della maggioranza che si occupava di altro


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Federiga Bindi

e che, per la verità, faceva andare avanti la baracca. Ma in fondo quel sistema politico funzionava meglio, proprio perchè i grandi partiti del tempo potevano permettersi questa specializzazione. Ero ancora una ragazzina ma le discussioni – anche di politica europea – che si avevano nel partito e nel giovanile – erano profonde e appassionanti. Le battaglie che combattevamo a livello europeo – al tempo eravamo alleati con i tedeschi e i paesi del Benelux, che erano pro-europei come noi – erano battaglie importanti perché si combatteva sui valori e i principi su cui pensavamo la costruzione europea dovesse basarsi. Queste discussioni oggi non esistono più, tutto viene deciso nei partiti a livello verticistico e guai a chi si permette di dissentire dalla linea ufficiale. In questo modo l’Europa è stata relegata nell’angolo e ce ne si ricorda solo quando può convenire in termini di immagine (vedi ad esempio la passerella colorata al recente Congresso del Ppe di Marsiglia). Se non si torna a un sistema in cui i partiti sono luogo di dibattito, scelta e formazione (oltre che di potere) come lo erano in passato, dubito che la questione europea possa tornare a essere dibattuta. Forse l’unica cosa che ci rimane è introdurre un pre-test a crocette di cultura generale europea come precondizione all’entrata in parlamento.

L’Intervistato

federiga bindi Detiene la cattedra Jean Monnet e dirige il Centro di eccellenza europeo all’Università di Roma Tor Vergata. Dopo due anni alla Brookings Institution di Washington è da un anno senior fellow al Sais Johns Hopkins, sempre a Washington. Dal 2008 al 2011 è stata consigliere del ministro degli Esteri Franco Frattini per le Relazioni transatlantiche e la Global Governance. Tra gli altri libri ha scritto Italy and the European Union (2011), The EU Foreign Policy (2010), The Fronteers of Europe (2011, con Irina Angelescu), tutti editi dalla Brookings Institution Press.

L’Autore matteo laruffa Fondatore del movimento Giovani per il futuro e già membro del Consiglio direttivo di Generazione futuro. È componente del Consiglio direttivo di FareItalia.

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Dobbiamo avere fede nell’Europa

Il Vecchio Continente è ancora il faro della civiltà Quella che ha fallito è la politica economica guidata dai banchieri e dai burocrati, ma l’Europa è ancora la guida per quanto riguarda la cultura, da quella letteraria a quella musicale. L’immaginario europeo è nato con Dante e Petrarca, ma oggi manca lo slancio e l’entusiamo e ci stiamo solo autocommiserando. intervista a GIUSEPPE CONTE di CECILIA MORETTI


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Giuseppe Conte

Il segreto, per Giuseppe Conte, è continuare a crederci. L’Europa sarà davvero finita se e solo quando cederà alla rassegnazione del declino, dimenticando la sua grandezza di faro di civiltà. Non ne ha dubbi lui, scrittore e poeta, quando sul Golfo del Bengala, in un’India che guarda all’Europa come a un continente ormai in declino e sclerotizzato, parla di Dante ai professori indiani e loro, ancora, vengono completamente sedotti dal fascino intatto del sommo poeta. L’Europa è agli sgoccioli?

L’Europa delle banche, dei burocrati e dei banchieri è in vistosissime difficoltà, e questi stessi soggetti che le difficoltà le hanno create adesso cercano di porvi riparo. Ma l’Europa per così dire culturale non è agli sgoccioli, perché la cultura in sé, quella letteraria, artistica e musicale in particolare, ha sempre sostenuto un’idea di comunità dello spirito valida in tutta Europa. Ci sono esempi altissimi, come Goethe, il vertice della grande borghesia europea, che non ha mai concepito la letteratura tedesca come un monolite a sé, senza influenze inglesi, francesi, italiane. A un certo punto, quando ha pensato a una welt literature, una letteratura del mondo, ha guardato addirittura verso Oriente, scrivendo Il divano occidentale-orientale. Lui aveva ben chiaro che l’Europa è grande quando si apre al mondo, quando è propulsiva, quando prende le proprie idee e le diffonde in ogni dove, prendendo da ogni dove ciò

che di migliore c’è da recepire. Per non parlare di Victor Hugo, che in occasione dell’Esposizione Universale del 1867 a Parigi propugnava addirittura gli Stati uniti d’Europa e all’ingresso, ad accogliere i visitatori di questa esposizione perlopiù commerciale, voleva che ci fossero le statue di quattro giganti della cultura di tutti i tempi: Omero, Dante, Voltaire e Beethoven. Questa Europa della cultura dunque è ancora viva e vegeta?

L’Europa è una comunità degli spiriti ed è evidente per chi pratica la letteratura che ci sono interferenze, intersezioni, prestiti, richiami. Basta pensare a quanto immensamente ha influito la letteratura italiana delle origini, soprattutto Dante e Petrarca, sull’immaginario europeo. Oggi però è successo che a un certo punto l’Europa si è sentita isterilita, priva di slanci e di entusiasmo, e si è messa ad autocommiserare se stessa e la propria crisi, decidendo di non esserci più. Così l’Europa della cultura, dell’arte, della musica, della letteratura, che esiste evidentemente, non scalda più i cuori e rischia di morire. È l’assenza di questo calore culturale che indebolisce la politica europea o è una politica europea non sufficientemente forte che ha provocato il raffreddamento?

È mancato un grande sogno europeo, mentre la politica si costruisce anche con le grandi avventure. Nessuno ha fatto mai politica con i dati di un consiglio di ammini-

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strazione. Ma questa è la verità che la gente oggi non vuole capire, sono tutti rassegnati a fare politica come si fanno i conti. Non funziona così, il consiglio di amministrazione controlla, muove, sposta, ma non inventa, e questo per la politica è fondamentale. Qual è l’origine del sogno europeo?

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Per i letterati, che hanno nel loro compito istituzionale quello di fare profezie e sogni, il sogno europeo esisteva già da tempo, ma la nostra Europa, concretamente parlando, è nata innanzitutto da un’esigenza storica fortissima, ovvero evitare che Germania e Francia si scannassero ancora. È nata dopo le macerie della Seconda guerra mondiale per creare quel fronte franco-tedesco che oggi si stupiscono che esista. Prima di ciò l’Europa è stata anche una guerra civile, tra europei si sono scannati e han perso la guerra con il mondo per farsela tra loro. L’Italia che ruolo aveva?

L’Italia era, assiema a Francia e Germania, tra i tre paesi principali dell’Europa, ma restava pur sempre una nazione sconfitta, rientrata successivamente in gioco. Il continente europeo è nato su un asse più renano che mediterraneo, l’italia sarebbe potuta essere la porta meravigliosa sul Mediterraneo di un’Europa con un grande ruolo nel mondo, ma poi non ci si è riusciti. Dov’è stato l’errore?

Sicuramente, oltre agli inglesi che giocano contro e all’America che

continua a fare la sua politica di potenza, c’è stato un errore economico. Io non conosco il meccanismo con cui è nato l’euro, ma di certo ci sono stati dei giochi economici che son passati sulla testa di tutti. Un po’ come oggi quando si fa un gran parlare dei mercati. Che cosa sono? Chi c’è dietro? Uomini, speculatori che stanno guadagnando soldi su soldi alle spalle nostre e giocando contro l’europa. C’è forse il desiderio che l’Europa non emerga politicamente ed economicamente, c’è forse un piano perché l’Europa rimanga fragile, divisa e non conti più nulla sul piano internazionale? Voreisaperlo anch’io. Lei tiene lezioni in tutto il mondo, come è percepita l’Europa fuori da sé?

Sono rientrato da poco da un viaggio in Asia e lì si respira un’aria estremamente diversa, propulsiva, piena di entusiasmo, vitalità, calore di grandi speranze e di presenza orgogliosa nel mondo, mentre i giornali indiani, quando parlano di Europa, non raccontano che di declino e sclerosi. Il nostro Continente ha fatto un’autocritica così feroce da perdere del tutto il suo orgoglio. Delle colpe le ha avute – quando dominava il mondo non lo faceva con mano leggera – ma se ne è data persino in più e ora non crede più a se stessa e si sente finita. Anche arte e letteratura europee parlano quasi sempre di crisi, mai di speranze e slanci. Invece no, bisogna crederci e ne ho la conferma quando parlo di Dante in India, in una lontana città del Golfo del Bengala, e i


LA FINE DELL’EUROPA? intervista a Giuseppe Conte

professori di là ne restano ancora sedotti. Dobbiamo credere che siamo ancora una grande civiltà, altrimenti siamo finiti.

L’Intervistato

Se potesse dare un consiglio all’Europa?

Non me la sento di dare consigli, quello che posso fare, per quanto mi riguarda, è lavorare perché l’Europa torni a essere un obiettivo esistenzialmente forte per molti, e soprattutto per i giovani. I giovani devono tornare a sentire che è la loro patria e l’unica speranza che hanno di contare ancora al mondo, entusiasmandosi di nuovo per questo sogno europeo. E ritrovando la fede in un’Europa che, quanto a diritti umani e civili e libertà di pensiero e di culto, ha fatto nel mondo più di chiunque altro e può davvero ancora oggi essere uno dei grandi protagonisti sulla scena globale. Anzi, il più grande e meraviglioso faro di civiltà.

giuseppe conte Scrittore e poeta, Giuseppe Conte, figlio di madre ligure e padre siciliano, nasce a Imperia nel ’45 e si laurea a Lettere all’Università statale di Milano nel ’68. Collabora con riviste letterarie e insegna, al liceo e all’università, finché non decide di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Esordisce nel 1972 con il volume La metafora barocca, un punto di riferimento per gli studi secenteschi, nel 1979 in poesia con L'Ultimo aprile bianco, cui segue nel ’83 L’Oceano e il Ragazzo, salutato da Italo Calvino come un libro fondamentale nel rinnovamento della poesia italiana. In seguito, pubblica altre raccolte di poesia, romanzi, saggi, libri di viaggio, libretti d’opera, testi teatrali, collabora con riviste e giornali e racconta la letteratura italiana ed europea in giro per il mondo. Il suo ultimo romanzo, L’adultera, è del 2008.

L’Autore cecilia moretti Giornalista professionista, è redattrice di FareitaliaMag. Collabora con Lettera43.

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LA FINE DELL’EUROPA? Matteo Laruffa

È l’ora di scegliere più EUROPA Per non dover tornare indietro, a dieci anni dall’entrata in vigore dell’euro, dobbiamo andare avanti. Impegnandoci per riuscire a essere protagonisti di un risveglio forte degli obiettivi già ragiunti e consapevole di quelli che potremo ottenere. Questa è una delle lezioni che dobbiamo imparare dalla crisi in atto. di MATTEO LARUFFA 49

Questi ultimi mesi della vita frenetica dell’Ue, sono specchio delle tante debolezze che ancora adesso costringono le nostre istituzioni comuni in azioni incomplete, dovute ai limitativi compromessi tra gli interessi, che gli Stati nazionali dovrebbero continuare a curare con maggiore coraggio e lungimiranza, andando oltre la stanchezza dovuta al metodo intergovernativo e avviando una nuova fase. Quella di una governance comune per l’elaborazione di policy sin dal principio europee, come riferimenti “guida” delle azioni comuni, che si sostituiscano a azioni di coordinamento delle scelte nazionali. L’Unione europea continua la sua

evoluzione lenta e per tanti aspetti unica, con pochi passi, titubanti e indecisi. Ma c’è una ragione in questo procedere timido e sta nel fatto che ancora oggi, l’Unione europea non è sentita dalla gran parte dei cittadini europei, come concreto riferimento istituzionale e politico, in quanto non offre alcun senso di prospettiva nelle scelte di politica né interna né estera. Chiaramente non saper in che direzione andare è esattamente come camminare al buio e quindi significa esser obbligati a avanzare a tentoni con enormi difficoltà. Se l’integrazione ancora non ha prodotto un diffuso senso di appartenenza all’Unione, questo è dovuto in gran parte a una


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pluralità di voci in perenne nego- siglio Europeo (Milano 28-29 ziato, il che è come sentire il ru- giugno 1985). more di un coro i cui cantanti Questa frase riferita al mercato non riescono ad andare all’uniso- unico europeo è emblematica di no. Serve una voce sola. Altra quello che avviene in tutte le causa è che di questo grande pro- scelte dell’Ue. L’Europa non è getto europeo non si vede la fine, nata per seguire uno o più stati perchè sempre rivisto e modifica- membri, non è nata per andare to alla luce delle esigenze nazio- dietro la guida di una o due bannali e della contingenza, come se diere nazionali, ma nasce per esl’Ue dovesse seguire scelte parti- sere guida e riferimento per i citcolari piuttosto che generali e co- tadini europei che dovranno muni, rimanendo sempre un di- competere sempre più non solo tra loro, ma con un mondo che segno incompleto. Dovremmo iniziare a pensare pensa a crescere, senza aspettare che i vantaggi maggiori, posso- che i nostri paesi si riuniscano per decidere su no derivare solo ogni questione. La da un’azione degli Finché l’Europa necessità di avere Stati e delle istiun’Europa con una tuzioni europee non sarà un coro, voce grande e chiaalla luce delle esi- le singole voci ra, piuttosto che genze sovranaziotante piccole voci nali, verso una co- non saranno che fanno rumore, struzione europea mai valide è una necessità alla più consolidata internamente e più forte esterna- quale nei prossimi anni non pomente. Finché non riusciremo a tremo non dare seguito, perché essere un coro che canta all’uni- se nei prossimi anni avremo l’ocsono il nostro rumore non sarà casione di crescere, sarà solo comai una voce valida, rispettata e me Europa. Ma andiamo con ordine e proviaapprezzata nel mondo. «L’Europa si trova ad un bivio: mo a capire cosa è successo prima andare avanti, con risoluzione e di ora, quindi cosa ci condiziona determinazione, o ricadere nella ancora oggi e ci ha reso così vulmediocrità. Possiamo decidere di nerabili alla crisi economica. portare a termine l’integrazione Cosa è stato deciso dal Consiglio delle economie europee oppure, europeo dell’8 e 9 Dicembre per mancanza della volontà poli- 2011 e se davvero quelle decisiotica necessaria ad affrontare gli ni sono delle decisioni-complete enormi problemi che ne deriva- o delle decisioni-a-metà e cosa no, lasciare che l’Europa si svi- credo che manchi all’Unione per luppi semplicemente in una zona fare degli altri passi avanti. Scridi libero scambio» (commissione vere della crisi attuale, non signieuropea in “Completare il merca- fica approfondire solo il tema delto interno” Libro Bianco al Con- la crisi economico-finanziaria, ma


LA FINE DELL’EUROPA? Matteo Laruffa

possibile pensare al funzionamento ottimale dell’euro senza una vera coesione territoriale economica europea. Una moneta non basta a fare l’Unione, ma una vera Unione rende possibile una moneta più competitiva, più solida e sicura. Eurozona e il peccato originale. Il Trattato di Maastricht prevedeva che gli stati membri, che avesCome andare oltre Abbiamo sottovalutato per quasi sero potuto e voluto, abbandonaventi anni le vulnerabilità re le monete nazionali per la nuodell’’Unione economica e mone- va moneta unica europea, l’avrebtaria e in tutto questo tempo, non bero fatto secondo un timing e nel siamo riusciti a affrontare e risol- rispetto di alcune regole, che porvere i problemi della politica mo- tarono alla circolazione della moneta unica dal 1° netaria e dell’euro come sono stati Una moneta non basta Gennaio 2002. Era necessaria una pensati. Non abbiamo ancora svi- a fare l’Unione, ma una convergenza delle luppato gli anti- Unione rende possibile variabili macroeconomiche, per corpi contro alcuni mali congeniti del- un euro più competitivo accedere all’Uem, ma oggi possiamo la nostra Uem, solido e affidabile parlare di successo pensando erroneamente che avremmo potuto rin- di quella strategia di convergenviare più volte, alcuni problemi za? Era sufficiente pensare a una che oggi si sono riproposti aggra- convergenza limitata a alcuni invati da una crisi che ci sfida a viso dici economici e limitata a un periodo di tempo (giusto quello per aperto prepotentemente. Il Trattato dell’Unione europea l’ammissione degli stati all’euro) del 1992, più conosciuto come o serviva e serve ancora oggi una Trattato di Maastricht, ha creato convergenza più effettiva, che in una nuova istituzione europea, la modo graduale, agisca tra le ecoBce, per gestire la politica mone- nomie dei territori dell’Ue? taria dell’Uem. Era necessaria ed La risposta la troviamo già legè necessaria un’istituzione per gendo la storia di questi anni e guidare la politica della moneta delle scelte adottate in passato. unica e oggi si potrebbe dotare la Nei primi anni Novanta infatti i Bce di poteri più effettivi, ma for- paesi membri presentavano una se prima ancora della moneta forte diversità di alcuni valori unica, sarebbe stato necessario co- economici, in particolar modo dei me lo è ancora oggi, tanto altro e tassi di inflazione e dei parametri in particolar modo proporre poli- di finanza pubblica, cioè deficit e tiche consapevoli che era ed è im- debito pubblico. Poca teoria ecocercare i punti di debolezza dell’Ue e lavorando proprio per migliorarli, renderli elementichiave del funzionamento della governance europea e del metodo per portare avanti l’integrazione fra i nostri paesi.

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Il Libro Contro lo strapotere bancario basta meno di una rivoluzione Max Otte Fermate l’euro disastro! Chiarelettere 2011, 96 pp., 9 euro

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Ancora una volta. La denuncia arriva dalla Germania. Il denaro che l’Europa e noi cittadini abbiamo dato alla Grecia, all’Irlanda o al Portogallo, è finito nelle mani dei soliti che si accaparreranno i gioielli di Stato a prezzi ridicoli, sulle rovine dello stato sociale. Il rischio è che ciò accada anche in Italia. Che fare? Proseguendo così continuiamo ad alimentare un mercato che rende più ingiusta la nostra società mettendo in pericolo la democrazia. Dobbiamo allora ribellarci allo strapotere dei grandi gruppi bancari che penalizzano l’economia reale costringendo i cittadini e i lavoratori a pagare per chi si arricchisce. Secondo Otte non è necessaria una rivoluzione, basta molto meno, a patto che le nuove regole siano radicali. Perché l’oligarchia non ha un piano occulto per dominare il mondo, difende semplicemente i propri interessi. A ogni costo.

nomica basta a far afferrare il concetto, secondo il quale, una moneta unica fra paesi diversi, non permette ai singoli stati di svalutare e al contempo rende impossibile un’azione delle banche centrali nazionali in signoraggio per finanziare il debito pubblico (prassi quest’ultima rischiosa e i cui effetti, in primis l’inflazione nel medio periodo, sono fin troppo noti). Una moneta nasce per un’economia il più possibile omogenea e coesa, perché è strumento determinante la crescita e lo sviluppo di quella stessa economia, per questo quando aree economiche distinte decidono di dotarsi di un’unica moneta, dovrebbero premurarsi di fare scelte e adottare delle politiche di convergenza tra le economie, per fare in modo che siano sempre meno distinte e sempre più una cosa sola. Chi ha provato dal 1992 a definire una strategia per l’adozione della moneta unica, ha dato attenzione alle variabili macroeconomiche, ma forse avrebbe dovuto guardare oltre quelle divenute oggetto dei parametri di Maastricht e inerenti alla stabilità dei prezzi, alla situazione delle finanze pubbliche, al tasso di cambio e ai tassi di interesse a lungo termine. I criteri di ammissione previsti dal Trattato di Maastricht, per l’inizio inderogabile (il 1° gennaio 1999) dell’unione monetaria, erano: il tasso di cambio, nel corso dei due anni precedenti all’ammissione, doveva essere all’interno dei valori di massima e


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minima oscillazione previsti dallo Sme; il tasso di interesse a lungo termine osservato in media nell’anno precedente all’ammissione non poteva esser superiore al 2% del valore medio dei tassi di interesse a lungo termine dei tre membri con il più basso tasso di interesse a lungo termine; il tasso di inflazione dell’anno precedente all’ammissione, non deve esser superiore dello 0,5% della media di quelli dei tre paesi con l’inflazione più bassa; il deficit pubblico, attuale o programmato, non doveva essere superiore al 3% del Pil. Il debito pubblico non avrebbe dovuto superare il 60% del Pil. Per la cronaca, la moneta unica fu chiamata euro nel dicembre 1995 dal Consiglio europeo. Se davvero questi criteri fossero stati osservati anche dopo l’ammissione, di certo oggi saremmo stati più forti nell’affrontare la crisi. Invece non solo non è stato mantenuto un rigido controllo dopo l’ammissione di alcuni paesi all’euro, ma non sono stati rispettati neanche al momento della nascita dell’euro. In una fase fondamentale come quella dell’affermazione di una nuova moneta nel mercato mondiale delle valute, è stato trascurato anche il fatto che seppur alcuni paesi erano stati ammessi, ciò non significa che le economie nazionali non possano tornare a allontanarsi le une dalle altre, per mancata coesione. Per evitare che le economie nazionali si allontanassero nuovamente e quindi si potessero sviluppare delle fratture nella struttura

dell’Ume, era stato pensato il Patto di stabilità e crescita. Il Psc sottoscritto nel giugno del 1997, che si richiama agli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma, cioè quello istitutivo della Comunità economica europea (così come modificato con il Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona) e si attua attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit e i debiti pubblici, nonché un particolare tipo di procedura di infrazione, la procedura per deficit eccessivo (Pde), che ne costituisce il principale strumento. Quindi il principale compito del Patto di stabilità e crescita, era quello di vigilare affinché le economie nazionali avessero rispettato le regole condivise, quelle europee appunto. Ma non è mai riuscito a essere ciò per cui era nato, cioè, come si legge anche nella relazione pubblicata sul sito della Commissione: «La concreta risposta dell’Ue alle preoccupazioni circa la continuità nel rigore di bilancio nell’Unione economica e monetaria (Uem)». Qualcuno già tanti anni fa aveva messo in guardia l’Ue della fragilità di un’area monetaria così come l’eurozona era stata progettata. Mi riferisco all’economista canadese Robert Mundell, vincitore del premio Nobel per l’Economia nel 1999, non a caso per «la sua analisi della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e per la sua analisi delle aree valutarie ottimali». Ma prima di parlare di Mundell, onore al merito italiano, che già

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nel 1991, durante i negoziati di al commercio fra regioni; assenza Maastricht aveva detto che quei di shock asimmetrici; un’elevata parametri non sarebbero bastati. mobilità del lavoro. Guido Carli aveva richiesto, in Con riferimento all’Ume, per qualità di ministro delle Finanze quando riguarda gli scambi come sostenuto anche dal presidente merciali fra i paesi membri, il Delors, che tra i parametri da ri- mercato comune (seppur ancora spettare per l’introduzione del- incompleto, come detto anche l’Euro ve ne fosse uno relativo al- nel rapporto Monti del 9 maggio l’occupazione, ma la sua voce è ri- 2010), ha portato a dei risultati sufficienti, ma manca davvero il masta inascoltata. Mundell è stato uno dei primi a rispetto delle altre due condizioni studiare e spiegare quali sono le che permettono a una unione mocondizioni ottimali per il fun- netaria di poter funzionare senza zionamento di un’area moneta- problemi e di poter affrontare con ria. Innanzitutto, come già det- sicurezza e strumenti forti le eventuali crisi. to, nel caso di Infatti le econounione monetaria, I paesi europei sono mie nazionali il tasso di cambio molto disomogenon può più esser più soggetti a shock nee tra loro, sono gestito autono- asimmetrici perché anche quelle più mamente dalle autorità moneta- hanno economie interne soggette a shock asimmetrici e nel rie nazionali, che troppo disomogenee caso dell’eurozona quindi perdono ogni possibilità di utilizzo di i paesi europei presentano redquesto strumento. Il tasso di diti pro capite, livelli di disoccambio permette di aggiustare cupazione e capacità produttive gli squilibri tra i prezzi relativi molto diversi e per questo non di due paesi e rinunciare a que- solo sono più soggetti a shock sto strumento, in un’economia asimmetrici ma anche privi deldove i prezzi e i salari variano lo strumento della svalutazione, poco e difficilmente, ha delle cioè sono meno capaci di reagire conseguenze che dipendono dal- con rapidi aggiustamenti. (Per la forza degli shock asimmetrici approfondire come valutare l’in(cioè cambiamenti imprevisti cidenza degli shock asimmetrici della domanda o dell’offerta ag- all’interno dell’Europa, (si congregata di un paese) che colpi- siglia Emu, countries or regions? scono una zona economica senza Lessons from the Ems Experience verificarsi in altre interne al- scritto da Antonio Fatàs in European Economic Review n° 41 del l’unione monetaria. Mundell sostiene che affinchè 1997). un’unione monetaria possa fun- Il dato però più critico è quello zionare bene, servano necessaria- che riguarda la bassa mobilità dei mente: un alto grado di apertura lavoratori tra regioni nell’Unione


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europea rispetto ad esempio a no che si debba tornare indietro. Ma un dettaglio molto rilevante, quanto avviene negli Usa. Quindi, in poche parole, l’Uem riguarda il fatto che non è mai difficilmente potrà esser conside- stata assicurata, da parte delle rata come un’area monetaria ben autorità europee, una continuità funzionante finché avremo ancora valutaria (neanche a livello di questi problemi di scarsa coesio- monitoraggio), tra le monete nane economica fra paesi e fin quan- zionali “scomparse” e l’euro, do non avremo dotato la nostra quindi questo dovrebbe bastare Ue della possibilità di una politi- per porre fine all’ipotesi di torca fiscale coordinata. In merito a nare indietro. quest’ultimo punto, gli Usa si servono del meccanismo della po- Cosa fare per l’eurozona litica fiscale per ammortizzare le E ecco quindi i due nodi critici distorsioni causate dagli shock da sciogliere: manca la coesione asimmetrici mentre nell’Ue que- economica e sociale dell’Uem; sto non avviene in non esiste una poquanto non esiste Le autorità dell’Ue non litica fiscale coun’autorità di gemune. stione/controllo hanno mai assicurato La partecipazione della politica fisca- una continuità valutaria all’Ume dovrebbe le europea e quindi essere legata alnon esiste una vera tra monete nazionali l’accettazione di e propria politica “scomparse” ed euro regole fiscali cofiscale dell’Ue. muni, perché ci In conclusione, da prima che na- sono due rischi che non possono scesse l’euro si sapeva che per ren- esser trascurati: in un’economia dere forte l’Ume non si potevano chiusa, l’espansione fiscale causa tralasciare questi problemi e li un aumento dei tassi di interesse avremmo potuti e dovuti risolve- abbastanza considerevole, il che re meglio prima che adesso. Ma si traduce in una attenuazione ora, bisogna rispondere con forza della crescita del reddito (tramite alla straordinaria fase economica la caduta degli investimenti pridi crisi per permettere all’Ue di vati). In un’economia aperta inprepararsi come area economica vece l’espansione fiscale non ha solida e all’eurozona, di poter re- un tale effetto, in quanto la vasistere a shock asimmetrici interni riazione del tasso d’interesse sarà e speculazioni. legata alla dimensione del paese. Sull’euro, a distanza di dieci an- L’eurozona è una un’area econoni da quando è entrato nelle no- mica di dimensione intermedia e stre tasche, tanti parlano soste- per questo crea una condizione di nendo che è possibile tornare in- forte iniquità, infatti se un paese dietro alle monete nazionali, al- agisce con manovre di espansione tri e in particolar modo alcuni fiscale, produrrà un miglioraleader politici europei, sostengo- mento del reddito nazionale, ma

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al contempo sarà causa di un aumento degli interessi negli altri paesi dell’Uem (aumento degli interessi che sarà tanto maggiore quanto più grande sarà il paese in questione). Questo significa che un paese membro potrà godere di maggiore benessere, adottando una politica fiscale espansiva, ma questo beneficio, sarà pagato dagli altri paesi dell’eurozona. Ma non è finita, bisogna aggiungere che questa scelta di politica fiscale espansiva adottata senza alcun coordinamento europeo, porterebbe a un apprezzamento dell’euro, che in parole povere significa che calano le esportazioni di tutti i paesi europei; all’inizio di questo articolo, si è scritto che l’introduzione di una moneta unica, priva gli Stati membri dell’eurozona della possibilità di agire usando strumenti come la svalutazione, ma anche il signoraggio, in caso di rischio di mancato rinnovamento da parte del mercato, dei titoli del debito pubblico. Dalla nascita dell’euro quindi, per evitare la bancarotta di uno Stato membro, la Bce dovrebbe intervenire aumentando l’offerta di moneta in tutta l’area euro, per acquistare titoli di Stato. Questo si affianca a un altro fronte preoccupante, che riguarda l’integrazione finanziaria dei paesi membri, che naturalmente aumenta con l’affermazione dell’Uem. Maggiore integrazione finanziaria, significa maggiore diffusione di titoli di Stato in banche, assicurazioni e nelle tasche delle famiglie di altri Stati membri, quindi anche

maggiore rischio contagio da crisi finanziaria. L’eventuale fallimento di uno Stato avrebbe effetti molto pesanti su tutti i paesi dell’Uem. Per dare risposta a queste due problematiche si potrebbe intanto dire con sincerità, che l’utilizzo dei fondi europei non ha portato a tutti i risultati sperati e questo non per scarsità di risorse, ma per le modalità di assegnazione, utilizzo e controllo nella gestione dei fondi europei(un esempio è quanto avvenuto nel nostro Sud che in alcuni casi ha assorbito, secondo la logica sbagliata di un assistenzialismo paternalistico che non porta allo sviluppo duraturo del territorio mentre in altri casi non ha utilizzato le risorse europee, eccetto poche eccezioni). In secondo luogo, avviare un programma di incontri in sede europea, per affrontare con nuove proposte la debole coesione economica europea, con un timing preciso per controllare i risultati delle nuove scelte di coesione e eventualmente correggerli, seppur nella consapevolezza che queste politiche dovranno essere politiche di medio e lungo periodo. Un altro percorso da iniziare è quello previsto da uno degli obiettivi di Europa 2020, cioè quello che riguarda una crescita inclusiva e sotto la voce «occupazione e competenze» parla anche di «modernizzare i mercati occupazionali agevolando la mobilità di manodopera e l’acquisizione di competenze lungo tutto l’arco della vita».

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zione fiscale straordinaria in un solo anno. Ma lo stesso Dpef ribadiva: «la ferma volontà dell’eseLa fragilità di un paese membro è cutivo a raggiungere gli obiettivi la fragilità dell’eurozona. Il caso secondo il calendario previsto dal Italia (quella degli anni ‘93-’97) Consiglio europeo», riconoscenpuò aiutarci oggi per capire che è do anche la possibilità di «accelepossibile risollevarsi e agendo con rare i tempi del processo di condeterminazione e maggiore credi- vergenza». bilità, gli obiettivi anche ritenuti Ciampi aveva capito su cosa punpiù lontani e difficili possiamo tare per raggiungere l’obiettivo raggiungerli. della riduzione del deficit, infatti Per l’Italia, l’ammissione all’Uem era consapevole del fatto che ogni era una priorità, anche se le pro- anno la crescita del deficit è dovubabilità che il nostro paese venis- ta soprattutto all’elevato costo se ammesso era minima. In parti- del debito, che è più o meno elecolar modo alla luvato in base agli ce dell’andamento Il primo obiettivo interessi sui titoli dei mercati e anpubblici che erano che delle dichiara- di Ciampi fu restituire abbastanza alti (il zioni dei principa- credibilità all’Italia 5,6% in più di li economisti itaquelli tedeschi). liani e internazio- convincendo i mercati I tassi di interesse nali. Il rispetto dei sull’affidabilità erano alti perché criteri di ammischi prestava denaro sione era valutato con riferimento all’Italia, tramite il mercato, non al 1997 e l’Italia prevedeva di credeva che l’Italia sarebbe stata raggiungere il 3% del disavanzo ammessa all’Uem. Trovata la causolo nel 1998, cioè con un anno sa si può agire contro la malattia di ritardo che ci avrebbe costretti e questo è quanto fatto da Ciampi a rimanere fuori dall’area euro. in quegli anni. Il primo obiettivo Nella primavera del 1996 Roma- di Ciampi era infatti restituire ni Prodi divenne presidente del credibilità all’Italia, convincendo Consiglio e Carlo Azeglio Ciampi gli investitori sui mercati, che ministro del Tesoro, in seguito l’Italia sarebbe stata ammessa e sarebbe stato eletto presidente questo avrebbe significato anche della Repubblica. Nel Documen- una riduzione dei titoli da pagare to di Programmazione economico sul debito e quindi una riduzione finanziaria che Ciampi presentò del deficit. pochi mesi dopo l’insediamento Le scelte contenute nelle manovre del nuovo governo, si dichiarava finanziarie tra il 1996 e il ‘97 erache non sarebbe stato raggiunto no rivolte proprio a realizzare il disavanzo del 3% nel 1997, questo obiettivo e il primo risulperché questo avrebbe richiesto tato fu, nell’ottobre del 1996, all’economia italiana una contra- l’entrata dell’Italia nello Sme (doOgnuno faccia la propria parte: L’Italia che si impegnò per l’euro come modello

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po l’uscita nei primi anni Novan- Il 3 maggio 1998 anche l’Italia ta), per rispettare il requisito di veniva invitata a far parte dell’euessere membri dello Sme da al- ro e l’ammissione portò al quasimeno due anni (l’Italia rientrò azzeramento del differenziale tra nello Sme due anni e un mese tassi di interesse sui titoli italiani prima dell’avvio della moneta e quelli tedeschi, riducendo molunica europea). Al contempo l’in- tissimo il disavanzo pubblico. flazione si riduceva e questi risul- Questa piccola parentesi della tati avevano un effetto ben più storia italiana dovrebbe guidarci importante, cioè la riduzione del come riferimento per dare nuovo differenziale (oggi più noto come coraggio e maggiore concretezza spread) tra tassi di interesse dei ti- all’azione istituzionale e politica toli italiani e quelli tedeschi (il di un paese che si spera, diventi differenziale tra Btp e Bund calò sempre più un’Italia europea. di 130 punti in pochi giorni). Nelle prime settimane del 1997 Le prossime mosse era ormai evidente Il Consiglio euroche ancora il 3% Misure per rafforzare peo ha deciso non era un risultato un’azione di rilanvicino e questo il Patto di stabilità e cio dell’eurozona e spinse Ciampi a provare a fondare dell’economia delpredisporre un’ull’Ue. Ma basterà? teriore manovra una vera governance Ecco quello che ci correttiva, che dopo economica europea aspetta: una nuova l’approvazione in serie di misure, seguito a numerose polemiche e conosciute come Six pact, in vigocritiche, rese l’obiettivo del deficit re dal 13 dicembre. Il Sp rafforza al 3% a portata di mano. Nella il Patto di stabilità e prova a fonprimavera del ‘97, il differenziale dare una governance economica euscese ancora fino a 30-40 punti. ropea. I punti cardine sono: imLe scelte di Ciampi stavano dan- pegno per i paesi con un rapporto do i primi frutti e la riduzione del debito/Pil superiore al 60% per differenziale causò un rapido ridurlo ogni anno di almeno 1/20 crollo degli interessi sul debito e dell’eccedenza, criteri comuni il disavanzo scese al 2,7%, men- nella definizione dei bilanci, pretre anche il debito iniziava a venzione e riduzione degli squiliscendere. bri, sanzioni automatiche per deLa scommessa di Ciampi, che fa- ficit superiori al 3% e prevenzioceva leva sull’importanza della ne rafforzata. credibilità della politica e della Dovrà esser predisposto un nuovo politica economica del paese, si patto per regole di bilancio defirivelò vincente. L’Italia rispettava nite a Bruxelles, con una golden nei tempi richiesti tutti i para- rule cioè un pareggio di bilancio metri di Maastricht eccetto quel- inserito negli ordinamenti giurilo del debito pubblico. dici nazionali, che consentirà solo

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un minimo disavanzo strutturale che saremo condannati a ripetuti annuo. Il tutto dovrà esser pronto fallimenti» (Paul-Henry Spaak discorso alla Camera dei Rappreentro marzo 2012. Le voci su quanto avvenuto nello sentanti il 14 giugno 1961). scorso Consiglio europeo e sulla È impossibile separare la governanstrategia che dovremo seguire so- ce economica da quella politica no molto contrastanti e quindi è europea. Questi due binari sono meglio aspettare di vedere che destinati a camminare parallelasuccede per discutere dei risulta- mente perché, sebbene sin dal priti, buoni o cattivi, ma dovremo mo trattato abbiamo messo in coimpegnarci affinché siano buoni. mune ambiti economici e ambiComunque sapremo presto se le zioni economiche, da quell’inizio, si è già arrivati a qualcosa di più. misure saranno efficaci. Le mosse eventuali potrebbero es- Ma abbiamo un’Unione che si è sere anche il tentativo di realizza- sviluppata anche per una spinta zione di alcune proposte utili e a democratica, che non ha portato solo al risultato riguardo un’idea, inimmaginabile seppur abbastanza È impossibile separare dell’elezione dei grezza, ma comunque un’idea: la governace economica membri del Parlamento europeo, ma l’obbligo di un da quella politica. Un che indica una dinuovo patto per rezione verso la regole di bilancio binomio che procede quale, silenziosadefinite diretta- parallelamente mente, anche la mente a Bruxelles, potrebbe essere l’occasione per Corte di Giustizia dell’Unione cambiare metodo e quindi non europea ci sta portando. Siamo a provare a mirare solo a dei tagli metà del processo di costituzioalle spese correnti, ma in partico- nalizzazione verso un’Unione più lare a delle riforme strutturali politica. con dei principi comuni e unifor- Le istituzioni europee concretizmi che dovrebbero rinnovare la zano una condizione di reale dipubblica amministrazione dei visione e separazione dei poteri, come non avviene in nessuno stapaesi dell’Ue. to nazionale europeo, ma che dal Serve una nuova governance eu- 1787 rappresenta il meccanismo ropea per la politica e l’economia di funzionamento normale degli «Quanti hanno tentato di risolve- Stati Uniti d’America. Infatti nere i problemi economici posti dal gli Stati Uniti non esiste un Trattato di Roma tralasciandone meccanismo di elezione contela dimensione politica si sono stuale di legislature ed executive, condannati al fallimento e fin mentre nei nostri Stati siamo quando esamineremo questi pro- abituati a legare politicamente blemi solo sul piano economico, poteri formalmente distinti alle senza pensare alla politica temo stesse parti politiche (opinioni


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sostenute da importanti esperti di sistemi politici e istituzionali come Ackerman 1991 e Bellamy 1996). Dare alla governance europea non delle competenze maggiori, né più regole, ma delle regole più credibili perché rispettate da tutti gli attori europei e giuridicamente più solide potrebbe esser un risultato maggiore nella sostanza che nell’apparenza e sicuramente più efficace. Regole più certe oggi appaiono impopolari, ma se pensiamo alla situazione di attualità, questa è il risultato di patti siglati in sede europea ma non rispettati, in alcuni casi neanche dagli stessi promotori. Oggi l’Unione economica e monetaria è un vincolo esistenziale dell’Ue e una lezione si può già trarre da questa crisi. Infatti, “fare debito” significa non solo impegnare internamente il benessere delle generazioni future, ma anche impegnare/compromettere quote di sovranità nazionale. E uso il termine compromettere non per caso, ma per sottolineare che la contingenza può obbligare uno Stato membro particolarmente indebitato a sottostare alle scelte comuni senza alcuna forza negoziale nostra. Quando parte del debito lega insieme più Stati, la responsabilità del debito ha ricadute esterne e quindi siamo forzati ad accettare delle condizioni non puramente europee, considerando anche che quei paesi sono tra i nostri creditori (la Francia possiede circa il 14% del debito pubblico italiano). Se ci fosse un’Ue più sentita e affermata,

CITAZIONI «La federazione europea non si proponeva di colorare in questo o quel modo un potere esistente. Era la sobria proposta di creare un potere democratico europeo». Altiero Spinelli «L’epoca passata, epoca che è finita con la rivoluzione francese, era destinata ad emancipare l’uomo, l’individuo, conquistandogli i doni della libertà, della eguaglianza, della fraternità. L’epoca nuova è destinata a costituire l’umanità;... è destinata ad organizzare un’Europa di popoli, indipendenti quanto la loro missione interna, associati tra loro a un comune intento». Giuseppe Mazzini «Penso che tra popoli che geograficamente sono raggruppati, come i popoli d’Europa, dovrebbe esserci una sorta di legame federale; questi popoli dovrebbero avere in ogni momento la possibilità di entrare in contatto, di discutere i loro interessi, di prendere risoluzioni comuni e di stabilire tra loro un legame di solidarietà, che li renda in grado, se necessario, di far fronte a qualunque grave emergenza che possa intervenire». Aristide Briand «La Comunità europea è l’esempio di un’unione di stati nazionali che non è né un impero né una federazione, ma una realtà diversa e forse una novità assoluta». Michael Walzer La costruzione dell’Europa è un’arte. È l’arte del possibile». Jacques Chirac

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quelle decisioni non sarebbero il risultato di un direttorio che fino a ieri ci escludeva, ma di istituzioni comuni e quindi anche diversamente e maggiormente legittimate e più coerenti con la decisione di dare parte della nostra sovranità “in modo volontario” all’integrazione europea. Una soluzione stabile e duratura potrebbe essere proprio una politica fiscale comune, che avrebbe il significato di impegnare parte della nostra sovranità in modo volontario, e quindi poter contribuire a scegliere politiche comuni, piuttosto che dover subire scelte altrui in modo passivo. Come ricordato più volte dalla Corte di Giustizia europea, la condizione di shared sovereignty è sempre più essenziale per l’Ue. È questo l’elemento che farà la differenza nella storia dell’Ue e che inizierà sempre più a far sentire la differenza tra i trattati internazionali e i principali principi giuridici dell’Ue. Last but not least, dovremmo pensare a una seconda convenzione per dare all’Ue una Costituzione chiara e valida che offra un senso di prospettiva e nuova solidità alle nostre Istituzioni comuni. Nel 1787 i padri fondatori americani si riunirono a Philadelphia per rivedere una Costituzione già esistente e anche se poi riscrissero tutto da zero, questo poco importa. L’importante è che non abbandonarono l’idea di poter fare di più, anche contro la sfiducia e chi sosteneva lo status quo, credendo di poter correggere gli errori fatti.

Possiamo farcela e dobbiamo farcela

L’ora delle scelte per più Europa è adesso e dicono questo, alla luce di alcune informazioni, che lascio a tutti per pensare a quali sfide ci attendono e a quali risultati possiamo raggiungere, ma che solo insieme, sono alla portata di mano. Il completamento del mercato unico dei servizi e del digitale accrescerebbe il reddito della famiglia media di circa 4200 euro ogni anno (Bis economic paper No. 11/Eurostat). Nel mondo, solo il 6% delle giovani aziende innovative nate dal 1975 sono europee, mentre il 71% sono americane (Fonte: Bruegel Policy). Concludere tutti i negoziati commerciali in corso potrebbe significare altri 60 miliardi di euro per il Pil dell’Ue (Ocse – Seizing the benefits of trade for employment and growt). Il costo medio del fare impresa nell’Ue è più elevato che in qualunque altro nostro competitor, infatti in Ue è 2285 euro, in Usa 664 euro, in India 641 euro e in Canada 158 euro (Fonte: Banca mondiale). Dal 2050 nessuno dei paesi europei potrebbe essere fra le prime dieci economie mondiali (Fonte: 2020 Euromonitor; 2030 e 2050 PwC. Tutti i dati sono considerati sulla parità del potere d’acquisto che utilizza come base il Fmi 2010). Dietro questi numeri ci sono i nostri standard di vita, le nostre potenzialità, le nostre fragilità e


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le possibilità di ritrovare la fiducia per il futuro. Dietro questa crisi, c’è una lezione da imparare, che scopre le vulnerabilità dell’Ue come è ancora oggi, ma che oggi possiamo cambiare. Per non dover tornare indietro, dieci anni dopo l’entrata in vigore dell’euro, dobbiamo andare avanti. Quindi proviamo a farlo ma senza lasciarci guidare da eventi dei quali non siamo responsabili e impegnandoci per esser protagonisti di un risveglio forte degli obbiettivi già raggiunti e consapevole di quelli che potremmo raggiungere. «E allora diciamo oggi – e io sono con voi – tutti noi qui convenuti, diciamo alla Francia, all’Inghilterra, alla Prussia, all’Austria, alla Spagna, all’Italia, alla Russia: verrà un giorno in cui le armi vi cadranno dalle mani, persino a voi; verrà un giorno in cui la guerra vi sembrerà tanto assurda, tanto impossibile fra Parigi e Londra, fra San Pietroburgo e Berlino, fra Vienna e Torino, quanto non lo sia oggi fra Rouen e Amiens, fra Boston e Filadelfia. Verrà un giorno in cui voi – Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania – tutte le nazioni del continente senza perdere le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete in modo stretto in un’unità superiore, formerete in modo assoluto la fraternità europea così come la Normandia, la Bretagna, la Borgogna, la Lorena e l’Alsazia – tutte le nostre province – si sono unite nella Francia. Verrà un giorno in cui non vi saranno cam-

pi di battaglia al di fuori dei mercati che si aprono al commercio e degli spiriti che si aprono alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le bombe saranno sostituite dai voti, dal suffragio universale dei popoli, dal venerabile arbitrato di un grande senato sovrano che sarà per l’Europa ciò che il parlamento è per l’Inghilterra, ciò che la Dieta è per la Germania, ciò che l’assemblea legislativa è per la Francia! Verrà un giorno nel quale l’uomo vedrà questi due immensi insiemi, gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, posti l’uno di fronte all’altro, tendersi la mano al di sopra dell’oceano» (Victor Hugo Discorso di apertura alla Conferenza di pace 1849).

L’Autore matteo laruffa Fondatore del movimento Giovani per il futuro e già membro del Consiglio direttivo di Generazione Futuro. È componente del Consiglio Direttivo di FareItalia.

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LA FINE DELL’EUROPA? Giorgio Napolitano

Modelli culturali e politici

Sulle orme di Einaudi per salvare l’Unione Lettera del Presidente della Repubblica al direttore di Reset Giancarlo Bosetti in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Luigi Einaudi, pubblicata sul n. 128 di Reset e disponibile online sul sito www.reset.it di GIORGIO NAPOLITANO 65

Caro Direttore, ci confrontiamo ormai quotidianamente con la crisi di quel progetto europeo che ha rappresentato la più grande invenzione politica della seconda metà del Novecento, sprigionando dinamismo e potenzialità in tale misura da imporsi come punto di riferimento, se non come modello, ben oltre i confini dell’Europa. E quella che ha finito per emergere è in effetti la crisi delle leadership politiche cui spettava dare, dall’inizio del nuovo secolo, sviluppo coerente al processo di integrazione europea. Siamo dinanzi a un’insufficienza storica, che ci rimanda, per contrasto, a quel che fu, in epoche precedenti, “una classe nettamente superiore di statisti”, ispiratori e guide delle democrazie occidentali. E citando in proposito il giudizio

di Tony Judt (che in quella cerchia collocava anche Luigi Einaudi), tu hai accennato alla questione sempre aperta se furono le circostanze o la cultura dell’epoca a determinare l’ingresso nell’arena politica e l’affermazione di quelle personalità. Ora, se guardiamo all’Europa e anche all’Italia quali uscirono dalla tragedia del nazifascismo e dalla Seconda guerra mondiale, possiamo vedere chiaramente quali prove ineludibili e vitali sollecitarono allora - in condizioni di ritrovata libertà e di rinascente democrazia – forze politiche vecchie e nuove, e forti individualità moralmente e socialmente sensibili, ad assumersi le loro responsabilità, rendendo possibile uno straordinario balzo in avanti dei propri paesi e dell’Europa occidentale. Decisi-


va era stata non solo la spinta delle circostanze storiche, ma anche la maturazione culturale degli anni seguenti la grande crisi e precedenti il secondo conflitto mondiale. Riscoprire Luigi Einaudi

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Se così nacque il progetto europeo e prese avvio il processo di integrazione comunitaria, questo processo – dopo essere avanzato tra alti e bassi e non pochi momenti critici – giunse a un punto di svolta all’indomani del grande mutamento del 1989. Anche allora operò in modo possente la leva delle “circostanze” e necessità storiche, ma è un fatto che si trovò pronta a raccoglierne la sfida una classe politica europea formatasi nell’esperienza comunitaria in modo da trarne capacità di visione e padronanza istituzionale. Ne scaturirono il Trattato di Maastricht e la scelta della moneta unica. Siamo ora giunti, in special modo in Europa, a un terzo appuntamento con la storia: quello del calare – approfondendolo come non mai – il nostro processo di integrazione nel contesto di una fase critica della globalizzazione. Ed è vero che questa volta le leadership europee appaiono invece in grande affanno a raccogliere la sfida, innanzitutto nei suoi termini di crisi incalzante dell’euro; appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica, che hanno congiurato nel provocare fatali

ripiegamenti su meschini e anacronistici orizzonti e pregiudizi nazionali. Per reagire ai rischi che ciò comporta, è importante recuperare apporti di cultura politica che costituiscono preziosi giacimenti ancora insufficientemente esplorati: e farlo innanzitutto paese per paese, a cominciare da noi in Italia. Di qui anche la riflessione di Reset, che vivamente apprezzo, sull’eredità, sugli insegnamenti di Luigi Einaudi (vedi Reset 127 ndr). Ne abbiamo anche discusso, caro Direttore, in una conversazione tra me e te. Permettimi di limitarmi ora a poche, scarne considerazioni. Particolarmente acuta è oggi per le forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Ebbene, per comprendere e affrontare le sfide di un’economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche rimaste ancora pesanti nel nostro paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni e stimoli fecondi. Ci si può, naturalmente, chiedere innanzitutto come e perché quel filone di pensiero liberale abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell’area del riformismo e,


LA FINE DELL’EUROPA? Giorgio Napolitano

più concretamente, nella sinistra legata al mondo del lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell’Italia repubblicana. In effetti, i termini di quella dialettica furono drasticamente segnati da una conflittualità ideologica che discendeva in larga misura dal contesto internazionale presto precipitato nella guerra fredda. Bobbio e il Pci

Dogmatismi e schematismi ebbero il sopravvento su ispirazioni di cultura liberale pure presenti nello stesso Pci; e diventò difficile distinguere le verità del “liberismo” einaudiano e più in generale dell’approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci. Ho rievocato quell’atmosfera e quelle incomprensioni, ricordando nel 2009 Norberto Bobbio e il suo dialogo-duello col Pci, sul tema della libertà, negli anni Cinquanta. Varrebbe certamente la pena di ricostruire più attentamente di quanto non si sia ancora fatto, il dibattito in Assemblea Costituente e i contributi di Einaudi, che peraltro abbracciarono campi importanti di interesse generale al di là dei “rapporti economici” (titolo III della prima parte della Carta) e del pur cruciale articolo 81. Interessante, e suggestiva, è l’interpretazione che in Cinquant’anni di vita italiana ci ha lasciato Guido Carli: secondo il quale “la parte economica della Costituzione risultò

sbilanciata a favore delle due culture dominanti, cattolica e marxista”, ma nello stesso tempo, tra il 1946 e il 1947, «De Gasperi ed Einaudi avevano costruito in pochi mesi una sorta di “Costituzione economica” che avevano posto però al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente». Si trattò di una strategia “nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo”, mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di “Stato minimo”, e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali. In effetti, benché, per usare le espressioni di Carli, quel che accomunava in Assemblea Costituente la concezione cattolica e la concezione marxista fosse “il disconoscimento del mercato”, l’azione di governo fu già nei primi anni della Repubblica segnata da scelte di demolizione dell’autarchia, di liberalizzazione degli scambi e infine di collocazione dell’Italia nel processo di integrazione europea. E con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del mercato comune, furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei “Rapporti economici” nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione co-

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munitaria e del diritto comunitario. Nell’accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista. La distanza maggiore che tuttavia rimase tra le posizioni liberali, e specificamente einaudiane, da una parte, e quelle della sinistra di derivazione marxista (e anche quelle prevalenti nella pratica di governo della Democrazia cristiana), dall’altra parte, è quella relativa al ruolo e ai limiti dell’intervento dello Stato nell’economia. Nella discussione in Assemblea sul testo che sarebbe diventato l’articolo 41 della Costituzione, Einaudi prese le distanze con pungente ironia dall’evocazione di “piani” e “programmi” e dal ricorso a espressioni di dubbio significato come “l’utilità sociale”; fu nello stesso tempo eloquente e fermissimo nel sollevare il problema dei monopoli, della necessità di scongiurarne la formazione e, comunque, di sottoporli a controlli. Ma al di là di quel dibattito in Assemblea Costituente, e più in generale, egli indicò come propria dei “liberisti” non solo una linea antiprotezionistica, ma la netta convinzione (si veda in proposito l’analisi di Paolo Silvestri, nel capitolo che il suo libro su Einaudi dedica a Liberalismo e liberismo) che lo Stato dovesse fare “passi assai prudenti nella via dell’intervenire nelle faccende economiche”, anche paventando che tali interventi generassero corruzione nella socie-

tà. Fino ad affermare: “il liberismo non è una dottrina economica, ma una tesi morale”. E invece è indubbio che in Italia, già a partire dagli anni Cinquanta, lo Stato intervenne con sempre minore “prudenza” e senso del limite, nella vita economica: dapprima, e per un non breve periodo, si trattò di un intervento diretto nell’attività produttiva, anche da Stato proprietario (sia pure nella più flessibile forma del sistema delle partecipazioni statali); si trattò poi di un ricorso crescente alla spesa pubblica, e sempre di più alla spesa pubblica corrente, in funzione di domande e interessi di carattere politico-elettorale e con la conseguenza dell’accumularsi di uno spaventoso stock di debito pubblico. Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell’euro concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l’Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi. Tale discorso non può non investire le degenerazioni parassitarie del “Welfare all’italiana”, rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l’epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all’Italia.


LA FINE DELL’EUROPA? Giorgio Napolitano

Da un lato, quindi, occorre fare più che mai i conti con la realtà del mercato e quindi del ruolo, già d’altronde ampiamente riconosciuto, che spetta all’iniziativa e all’impresa privata, con le sue esigenze di libertà, di affrancamento da vincoli che ne comprimono la competitività, e dall’altro lato c’è da valorizzare altre essenziali componenti di una visione liberale come fu quella di Luigi Einaudi. Una visione - lo ha ben messo in evidenza Francesco Forte nel convegno promosso il 13 maggio 2008 dalla Banca d’Italia - che accanto al valore del libero mercato postulava quello della “riduzione delle disuguaglianze nei punti di partenza o d’arrivo”, e considerava possibile la convergenza tra l’uno e l’altro. E Forte ha anche ben definito in quale senso, assai moderno, emergesse in Einaudi “un principio di libertà come responsabilità”. Il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo: se è vero che, come è stato osservato, la fecondità della ricerca del liberale Einaudi resta testimoniata dalla varia collocazione di uomini usciti dalla sua scuola, tra i quali eminenti liberalsocialisti e socialisti liberali. Il “recupero” di cui parlo dovrebbe essere parte di quel rinnovato sforzo di qualificazione

culturale e morale della politica italiana ed europea, la cui necessità ho richiamato – caro Direttore – come punto di partenza di questa mia lettera. Non possiamo ormai che riflettere sull’Italia guardando all’Europa: anche così tornando a incontrare Einaudi, come grande anticipatore e assertore di quella prospettiva di unione federale dell’Europa che oggi siamo chiamati a rilanciare mirando con coraggio einaudiano al più coerente superamento del dogma e del limite delle sovranità nazionali.

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L’Autore giorgio napolitano Presidente della Repubblica italiana



LA FINE DELL’EUROPA? Michele Boldrin

Le colpe dell’Euro e non solo

Solo gli italiani possono fermare il declino del paese È inutile sperare che la Germania o gli altri paesi del Nord Europa possano darci una mano per uscire dal tunnel del dafault. Dopo il downgrading di S&P l’Italia rischia seriamente di colare a picco se non cambiamo immediatamente rotta. di MICHELE BOLDRIN 71

Completo queste riflessioni durante il weekend del downgrading d’Europa da parte di S&P (ne verranno altri, suppongo) e della concomitante rottura (temporanea, vorrei osare scommettere) delle trattative tra il governo greco e le banche a esso creditrici. Sfoglio i giornali europei, pieni di titoli drammatici che vanno dall’umiliazione francese per la declassificazione ad AA+, alla supposta inutilità del governo Monti e delle sue azioni di politica fiscale, al fastidio di Mariano Rajoy per un annuncio che arriva un solo mese dopo la tanto agognata entrata al palazzo della Moncloa. Fioccano allarmati editoriali che profetizzano il ritorno delle monete nazionali mentre altri ci spiegano che loro avevano

previsto questo evolversi della situazione già da molto tempo. Nel frattempo l’euro si prepara a perdere ancora qualche punto nei confronti delle altre valute e si rafforza la notizia, che circola da mesi in rete, dei nuovi marchi tedeschi in corso di segreta stampa nella fidata Svizzera. L’usuale fine settimana europeo. Quando e in quale maniera siamo riusciti a infilarci in questo guaio gigantesco? È opinione diffusa che la crisi economico-finanziaria sia fondamentalmente dovuta all’adozione, tredici anni fa in modo formale ma quasi venti di fatto, di una moneta comune per undici (ora diciasette) paesi europei, una moneta chiamata Euro. L’euro è il responsabile principale – ma non unico: ci so-


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no anche i banchieri ma lo spazio chi meno ma quasi tutti parecnon ci permetterà di discuterne – chio – quantità sostanziali di dedell’orrenda situazione in cui ci naro proprio agli altri partners troviamo. Nei cosidetti pro- della zona euro, essi temono di grammi d’approfondimento che essere ripagati con moneta inflainfestano le televisioni italiane zionata e svalutata. Avendo inolquesta amena teoria ci viene pro- tre fatto i propri compiti per capinata quasi quotidianamente da sa, questi paesi (e gli altri del legioni di assortiti esperti tanto Nord Europa che non fanno parche, oramai, sembrano credersela te della zona euro, Svezia per pritutti: repetita iuvant. La teoria in ma) sono oggi molto più produtquestione si basa sul seguente tivi del resto e riescono tranquillamente a esportare anche con un mix di fatti e opinioni: Moneta unica implica cambio euro relativamente forte. unico e il cambio dell’euro nei Queste differenze fanno dei paesi confronti delle altre monete è del Sud i “debitori” e dei paesi del Nord i “creditroppo alto, il che tori”. Ma chi deve rende i prodotti Per salvare l’Europa: non è in grado di dei paesi mediterripagare perché ha ranei non compe- o svalutazione e poca capacità di extitivi perché trop- inflazione dell’euro port e quindi, sempo costosi. Questi pre secondo questa paesi sono scarsa- o parziale default teoria, di crescita mente produttivi dei paesi “debitori” del reddito nazioe, per poter competere sul mercato mondiale, de- nali. Da qui la situazione di crisi vono vendere a prezzi che, una la cui unica uscita, ovviamente, volta che siano espressi in dollari, altro non può essere che una yen o yuan, siano più bassi di qualche forma di svalutazione e quelli degli analoghi prodotti del inflazione. O ben generalizzata Nord Europa. In altre parole, il all’intera area euro, attraverso quartetto GIPS (PIGS sembra un’espansione massiccia, da parte stimolare risentimento, quindi della Bce, della quantità di moevitiamolo) ha bisogno di svalu- neta in circolazione e una politica tare perché non riesce né ad au- di aggressiva spesa pubblica e ulmentare la propria produttività, teriore indebitamento, da parte né a ridurre i propri costi, né a dei paesi “creditori”, Germania in impedire una continua crescita testa. O, nella versione più disperata, a mezzo di un abbandono dei prezzi e salari interni. La Germania e gli altri paesi del dell’euro da parte dei paesi “debiNord che hanno adottato l’euro tori”, un default (almeno parziale) (Austria, Finlandia e Olanda, con sul loro debito pubblico e una Belgio e Francia a metà strada) si conseguente svalutazione del trovano in una situazione oppo- cambio accompagnato da inflasta. Avendo prestato – chi più zione interna.


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Boldrin

FOCUS

Cos’è il rating e a cosa serve Il rating, anche valutazione, è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese in base al loro rischio. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio da non confondersi ai rating etici che invece misurano la qualità della governance, della Csr, o in generale della sostenibilità sociale ed ambientale di un’emittente. Si può far risalire l'origine del rating con il documento History of Railroads and Canals in the United States (Storia finanziaria delle ferrovie e dei canali degli Stati Uniti), pubblicato da Henry Varnum Poor. Durante la sua vita Poor si batté affinché le aziende fossero obbligate a rendere pubblici i loro bilanci al pubblico e a possibili investitori. Colse questo appello il figlio Henry William, che insieme a Luther Lee Blake, un analista finanziario, crearono indici finanziari chiari e trasparenti, fino alla fondazione dell’agenzia di rating Standard & Poor’s. Una storia simile riguarda un giornalista economico, John Moody, interessato alla trasparenza finanziaria delle aziende, causa secondo lui di un mini-crash finanziario del 1909. Già nel 1900 pubblicò il Manual of industrial securities e successivamente nel 1909 fondò Moody’s. Oggi, Standard & Poor’s e Moody’s sono le due maggiori agenzie di rating al mondo. Viene espresso attraverso un voto in lettere, in base al quale il mercato stabilisce un premio per il rischio da richiedere all’azienda per accettare quel determinato investimento. Scendendo nel rating aumenta il premio per il rischio richiesto e quindi l’emittente deve pagare uno spread maggiore rispetto al tasso risk-free. Una prima tipologia di potenziale conflitto di interesse riguarda i soggetti che pubblicano i rating e nel contempo svolgono attività di banca di investimenti. Il rating potrebbe essere strumentalizzato nell'interesse della banca ovvero dei clienti per attività speculative in Borsa, o per l’acquisizione di asset a prezzi di realizzo. Un declassamento del rating di aziende o soggetti pubblici particolarmente indebitati, ha la conseguenza a breve termine di provocare un rialzo degli interessi applicati ai prestiti in corso, e quindi un aumento degli oneri finanziari. Il debitore potrebbe cedere beni immobili e mobili di sua proprietà a prezzi di realizzo, per evitare un peggioramento del rating. Non raramente, la maggior fonte di finanziamento dei costosi studi che portano a valutare il rating, non sono le agenzie di stampa e la comunità finanziaria, ma le stesse società emittenti oggetto dell’indagine e singoli investitori con molta liquidità. In questi casi, è evidente un conflitto d’interessi. Infatti, per avere un rating, una società, una banca o uno Stato devono rivolgere una richiesta esplicita a una delle agenzie di rating. Il servizio è a pagamento. Ottenuto l’incarico, l’agenzia inizia l’analisi della società, della banca o dello Stato. L’analista incaricato attinge da informazioni pubbliche (ad esempio, i bilanci), studia i fondamentali economici e finanziari e incontra i manager per raccogliere tutte le informazioni necessarie. Solo dopo questa analisi è possibile esprimere un voto sull’affidabilità creditizia della società che ha richiesto il rating. Davanti al declassamento di un titolo la comunità finanziaria raramente non reagisce con un deprezzamento, privilegiando le decisioni degli analisti rispetto alle ragioni portate dall'emittente. In questo senso, si è parlato di “dittatura degli analisti”, per il potere di condizionare la Borsa, riconosciuto loro dal mercato che in parte non tiene conto dei conflitti d'interesse talora esistenti, in altra parte è relativamente interessato ad un rating veritiero e ad un giusto prezzo dei titoli. Un declassamento o una sovrastima del rating aprono (a chi ha le giuste informazioni) occasioni di guadagno speculativo.

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Questa spiegazione delle origini Germania accettò con molta ridella crisi è così banalmente falsa luttanza l’abbandono dell’amato da generare perplessità il fatto DM e i famosi “parametri di che si perda tempo a discuterne. Maastricht” furono il comproTanto per usare argomenti sem- messo che rese apparentemente plici: l’economia del Regno Uni- compatibili gli opposti desideri. to non versa in condizioni molto Inutili sin dall’inizio, non solo migliori di quelle della media perché già così erano una foglia della zona euro, eppure non mi di fico fiscale che malamente corisulta quel paese abbia adottato priva contraddizioni economiche l’euro o manifestato l’intenzione reali, ma anche perché le supredi farlo. Per non parlare poi del- me necessità della politica sugl’Islanda o, per metterci il cuore gerirono di violarli immediatain pace una volta per tutte, degli mente, visto che né l’Italia né alStati Uniti il cui debito naziona- tri paesi dell’Europa del Sud le venne declassificato, cinque avrebbero altrimenti potuto entrare nell’euro. Le mesi fa e proprio da S&P, allo stesso Se i mercati del capitale classi dirigenti dell’Europa del livello oggi attriSud erano alla ribuito a quello e del lavoro non sono francese e il cui si- omogeneizzati non può cerca di un’ancora che imponesse loro stema economico quella disciplina e bancario è in esistere una politica monetaria e fiscale condizioni forse monetaria comune che non sapevano migliori di quello italiano ma paragonabili comun- darsi da sole, mentre quelle del que alla media franco-tedesca. Nord (Parigi sta a Nord) perseNondimeno, poiché di colpe del- guivano antichi sogni di grandeur l’euro si discute di colpe dell’eu- mondiale. Ai tedeschi, non solo ro occorre discutere, la qual cosa premeva anzitutto l’unificazione ci offre l’opportunità per cercare ma non sembrava anche del tutd’intendere quali siano le vere to malvagia la prospettiva di potersi risparmiare le ripetute cause della situazione presente. La decisione d’adottare una mo- “svalutazioni competitive” a cui neta comune ha un’origine tutta italiani e spagnoli si erano orapolitica, francese anzitutto ma mai abituati. Ma la riluttanza tecon sostanziali contributi anche desca era reale ed è alla luce di di parte italiana. L’idea, di cui essa che occorre saper interpretaora molti si sono scordati, fu che re il comportamento attuale di per poter permettere alla Germa- quel paese il quale si sente, evinia di riunificarsi, com’era natu- dentemente, forzato a pagare i rale accadesse dopo la caduta dei costi d’un banchetto a cui aveva regimi comunisti, occorreva “le- accettato di partecipare controgarla” all’Europa occidentale at- voglia e nel quale ha gozzovitraverso una moneta unica. La gliato meno di altri.


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Boldrin

In ogni caso, mentre la politica decideva per le sue ragioni che l’euro andava fatto, la teoria economica suggeriva che di perniciosa fuga in avanti si trattasse – come suggerisce, oggi, che similmente perniciosa sia l’idea degli eurobond, una finta soluzione che lo spazio non mi permette di discutere. Le ragioni sono note e banali: se non c’è un minimo di convergenza reale, se i mercati del capitale e del lavoro non sono omogeneizzati e non permettono un relativamente libero movimento dei fattori, se i prezzi relativi non sono, per la maggior parte, comuni all’intera area, allora è altamente improbabile che una unica politica monetaria possa funzionare. Soprattutto, e qui cadde l’asino fin dall’inizio, se le politiche fiscali non sono o ben armonizzate centralmente o ben forzate dentro limiti molto rigidi e specifici, allora l’eterno problema del free-rider fiscale emergerà creando esattamente i disastri che oggi sperimentiamo. Il rischio morale, checchè ne dica Larry Summers quando fa il consigliere del presidente, è una realtà molto corposa e molto frequente. Ma le politiche fiscali di paesi che sono stati separati e indipendenti per decine di secoli non si armonizzano nello spazio di qualche anno per arbitrio politico. La medesima esperienza europea con le politiche industriali rende ovvia questa asserzione: dopo decenni di sforzi l’armonizzazione non è ancora completa e situazioni di conflitto continuano a emergere. Tutto questo sembrava alquanto

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ovvio agli economisti che, in que- ro e le tensioni generate dall’atgli anni, studiavano l’adozione tacco del 9/11 generarono un dell’euro con occhio scevro di lungo periodo di alta liquidità, pregiudizi politici. Purtroppo tassi bassi ed erronea sensazione questo non era il caso per la stra- che il rischio di credito fosse magrande maggioranza degli econo- gicamente evaporato. Le consemisti “ufficiali” europei, ragione guenze le conosciamo tutti ma per cui i dubbi che ho qui breve- occorre ricordare che, con la sola mente ricordato vennero tran- parziale eccezione della Grecia, l’alto debito pubblico che oggi quillamente ignorati. L’adozione dell’euro portò all’eli- opprime quasi tutti i paesi eurominazione del rischio di cambio pei e l’Italia in particolare esisteche, sino ad allora, era il fattore va già al momento dell’introduche spiegava la differenza fra i zione dell’euro. La tesi secondo tassi d’interesse sul debito dei va- cui il debito sarebbe il risultato ri paesi europei, portando a una degli squilibri commerciali è quindi inconsiconvergenza verso stente con i fatti. il basso dei tassi L’alto debito pubblico Non solo perchè, stessi e a una, sorquando rapportati prendente, spari- che opprime l’Italia zione di ogni rile- e gli altri paesi del Sud alle dimensioni dei Pil e dei debiti navante differenziale zionali, tali deficit di rischio fra un Europa esisteva già sono minuscoli e paese e l’altro. La quando nacque l’euro recenti (quello itagrande cantonata, l’errore fatale dei mercati finan- liano, per dire, appare solo verso ziari europei e internazionali sta il 2005) ma anche perché, se esiqui: scordarsi per circa dieci anni stesse una relazione causale diretche non c’è solo il rischio di cam- ta fra deficit commerciale e debito bio, c’è anche quello di default! nazionale… la Germania di certo Non ho qui la possibilità di svol- non avrebbe potuto accumulare gere un’analisi dettagliata del- un debito pubblico superiore l’intera questione ma è chiaro che all’80% del proprio Pil, una peri mercati finanziari festeggiarono centuale maggiore della Spagna! l’arrivo della nuova moneta con Se guardiamo alla somma di deun entusiasmo ingiustificato per bito pubblico e privato verso il debito dei paesi europei, favori- l’estero il risultato non cambia: a to dall’avvio, da parte di Green- fine 2010 il debito estero totale span, di un periodo di straordina- era pari a circa $ 58mila pro caria easy money. La nuova Banca pite in Germania e a $ 47mila in centrale europea adottò una poli- Spagna. Il Regno Unito – il quatica leggermente più conservatri- le non dovrebbe soffrire della ce di quella della Fed, ma non v’è particolare camicia di forza che, dubbio alcuno che la domanda secondo la teoria in questione, politica per un “successo” dell’eu- l’euro impone sull’export dei pae-


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Boldrin

si del Sud Europa – non solo ha è poco costoso, quindi continuiaavuto, da quando l’euro esiste, mo allegramente ad adottare poun deficit con l’estero ben supe- litiche che generano deficit corriore a quello italiano ma, nella renti e prospettici”. Ma ciò che particolare classifica del debito sembra fattibile quando la liquiche stiamo considerando si collo- dità abbonda diventa prima imca ai piani alti, con $144mila cir- probabile e poi impossibile appena la liquidità scarseggia. E, prica pro capite. In sostanza, l’euro di per se non è ma o poi, il tempo della liquidità la causa dell’indebitamento pub- scarsa arriva sempre. blico e privato dei paesi europei e È per queste ragioni che l’idea di le loro differenti propensioni a una uscita dalla crisi o ben attraimportare ed esportare beni e ser- verso un’espansione fiscale tedevizi sembrano avere ben poco a sca o ben attraverso l’uscita dalche fare sia con l’euro medesimo l’euro di alcuni dei paesi “debitoche, di nuovo, con l’alto debito ri” è insensata. Si consideri quali potrebbero essere pubblico di cui le conseguenze di molti di essi soffro- Per dieci anni il debito una crescita della no. Ciò che sì è avspesa pubblica tevenuto in questi pubblico italiano e desca. Ignoriamo anni è che – in par- greco è stato trattato pure il fatto che te per la politica di un paese con un tassi bassi perse- come se fosse uguale rapporto debito / guita dalle banche a quello tedesco Pil che viaggia centrali e in parte per un plateale fallimento dei verso il 90% non ha poi questa mercati privati – il rischio di de- grande capacità d’indebitarsi senfault è completamente sparito za correre rischi. Facciamo finta dalla scena e per quasi dieci anni che i tassi passivi rimangano inalabbiamo incautamente trattato il terati e che l’accresciuto indebitadebito pubblico greco o italiano mento tedesco non dreni risorse come se fossero quello olandese o che altrimenti sarebbero disponitedesco. Questo gravissimo errore bili per finanziare o ben il debito (che, va riconosciuto, gli econo- pubblico o ben gli investimenti misti hanno percepito solo trop- degli altri paesi dell’area. Facciapo tardi e per il quale manca tut- mo finta, appunto. Per quale rat’ora una spiegazione soddisfa- gione un’espansione della spesa cente che vada al di là del banale pubblica tedesca dovrebbe ridur“i mercati non sono onniscenti”) re il debito pubblico italiano, per ha interagito e si è cumulato con dire, o far crescere il prodotto inla particolare insipienza e irre- terno lordo, quindi il gettito fisponsabilità delle elites politiche, scale del nostro paese? Questo si quelle del Sud Europa in partico- realizzerebbe solo se la spesa publare, le quali si son dette “i tassi blica fosse un puro trasferimento son bassi, far debito o non ridurlo ai cittadini tedeschi che costoro

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consumassero in beni le imprese italiane non riescono a vendere; perché, se Berlino decide di costruire qualche nuovo ponte, dubito assai lo comissioni alla Cmc. Non voglio fare dell’umorismo a buon mercato ma basta guardare la composizione e il livello dell’export nazionale verso la Germania per capire che l’impatto sul nostro Pil sarebbe minimo. Perché mai una crescita della domanda tedesca dovrebbe rendere competitive imprese che ora non lo sono o far rimanere in Italia quelle che, come nei recenti casi di Omsa e Alcoa o dell’amico mio piccolo imprenditore veneto, han deciso di muoversi altrove perché produrre in Italia è poco competitivo? Perché mai la domanda addizionale del Nord Europa dovrebbe ridurre i costi delle imprese italiane? Non è dato sapere. Manca lo spazio per descrivere lo scenario di un’Italia che ritorna alla lira e opta anche solo per un parziale default sul debito pubblico ma, per intuirlo, invito il lettore a dare un’occhiata ai giornali argentini del periodo 1999-2003 e a immaginarsi dove sarebbe finito quel paese senza le proprie commodities e senza l’esplosione dei loro prezzi. Sia chiaro: il fatto che, a questo punto, convenga a quasi tutti noi che l’euro si mantenga, non implica che debba succedere. Dopo tutto, l’analisi economica vent’anni fa suggeriva che introdurre di colpo una moneta comune da Lampedusa a Helsinki fosse una pessima idea. A fronte di quanto accaduto e continua accadere non posso di

certo escludere che le tentazioni elettorali di questo o quell’altro politico europeo possano generare una situazione in cui la spaccatura della zona euro diventa obbligatoria. Arriviamo quindi all’eterna questione attorno a cui l’Europa gira da svariati anni, incapace di guardarla in faccia e affrontarla. Eppure è tutto piuttosto semplice semplice, brutale brutale e vecchio assai. (a) Una serie di cambiamenti demografici, tecnologici e comportamentali hanno reso una fetta sostanziale della forza lavoro (che varia da paese a paese ma che stimerei oscillare fra un massimo del 40% in Italia e Spagna a un minimo del 15% in Olanda o Germania) scarsamente competitiva sul mercato internazionale. Detto altrimenti: con questo mercato del lavoro, questa struttura dell’offerta di lavoro, questi costi e questa produttività, una bella fetta delle nostre imprese sono fuori mercato e lo saranno sempre di più. (b) Altri cambiamenti, essenzialmente politico-sociali, hanno trasformato quello che trenta o cinquant’anni orsono era uno stato sociale e un sistema di servizi pubblici relativamente funzionale e finanziariamente sostenibile in un moloch poco utile e insopportabilmente costoso. Di nuovo, nei paesi del Nord Europa una sequenza di lente ma decise riforme è riuscita, durante l’ultimo decennio, a parzialmente risolvere questo problema. Altrove nulla è stato fatto e siamo ora, chi più (Grecia, Italia e Portogallo) chi


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Boldrin

meno (Spagna e Francia) vicini al punto di rottura. (c) Il peso del debito accumulato, privato in alcuni casi ma soprattutto pubblico, è diventato insostenibile sia perché il livello di tassazione raggiunto in molti paesi è uno dei fattori che stanno causando (a) e va quindi ridotto, sia perché in assenza di crescita sostenuta del reddito (una prospettiva inevitabile, alla luce di quanto sopra, per i prossimi due o tre anni) esso forza ulteriori aumenti del carico impositivo. Questi problemi sono comuni a tutti i paesi della zona euro: la differenza fra Italia e Germania è solo quantitativa e non qualitativa. Questo fatto implica che aspettarsi, come molti chiedono, che “i tedeschi siano generosi e ci aiutino a uscire dai guai” è sia irresponsabile (nel tentativo di “aiutarci” la Germania potrebbe rischiare d’annegare essa stessa) sia inefficace perché le riforme che alterano le condizioni (a)-(c) non possono non essere adottate da ogni singolo paese. Quali esse siano è così ovvio e così frequentemente ripetuto che mi sembra inutile ripetere qui, per l’ennesima volta, la stessa litania. Morale: questa crisi è solo iniziata e non è nemmeno chiaro quando e se essa terminerà, questo almeno se, con la parola “terminare”, intendiamo riferirci a un agognato ritorno a una situazione simile a quella che esisteva, per dire, nel 2003-2005. Quando smetteremo, se smetteremo, di essere in crisi sarà perché saremo riusciti, pazientemente e testardamente, a

costruire un’Italia e un’Europa molto diverse da quelle a cui gli ultimi cinquant’anni ci avevano abituati. Alternative non ce ne sono, anche perché il resto del mondo sta cambiando comunque e non sta certo lì ad aspettare che gli italiani aprano gli occhi e capiscano che mettere termine al proprio declino è solo responsabilità loro.

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L’Autore michele boldrin Professore alla Washington University di Saint Louis dove è anche direttore del dipartimento di Economia.



LA FINE DELL’EUROPA? Umberto Guidoni

Scenari economici e soluzioni pratiche

Gli eurobond sono la vera salvezza (per tutti) Per uscire dalla crisi servono scelte coraggiose e immediate, bisogna portare avanti le riforme di politica fiscale appena varate e la Bce deve avere un ruolo forte, non solo di difesa della moneta unica, ma deve essere in grado di poter aggredire con forza l’economia globale. di UMBERTO GUIDONI

Il 1° gennaio del 2002 l’Europa lancia una sfida al mondo con l’introduzione dell’euro. L’euro trae le sue origini dalle scelte che 12 governi nazionali autonomamente e all’interno dell’Unione definirono nei minimi dettagli negli anni precedenti al 2002. Al fine di soddisfare il fabbisogno iniziale di 308 milioni di persone dei 12 stati aderenti, il 1° gennaio dello stesso anno furono stampati 14,9 miliardi di banconote. Oggi, all’Unione monetaria, partecipano 17 stati membri con una popolazione complessiva di 332 milioni di persone. Da un punto di vista puramente economico, la moneta unica ha comportato vantaggi significativi: il controllo dell’inflazione, so-

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prattutto nei paesi più inclini a spirali inflazionistiche grazie all’azione specifica della Banca centrale europea; la libera circolazione di beni e uomini attraverso l’abbattimento degli steccati all’ingresso dei singoli paesi; la semplificazione delle transazioni commerciali grazie all’assenza del rischio di cambio e dei costi di conversione; l’impossibilità di utilizzare svalutazioni competitive che favoriscono l’export del paese che le attua, ma generano pressioni sui prezzi che possono innescare fenomeni inflazionistici; la trasparenza dei prezzi. L’euro ha portato con sé anche la rinuncia da parte dei paesi membri alla politica monetaria come leva di politica economica. Infat-


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ti, un’area monetaria comune ri- le leve di politica monetaria chiede anche un’unica politica avrebbero dovuto accelerare, per monetaria demandata alla Bce gli Stati membri, la definizione che la definisce, grazie a una se- delle riforme strutturali del merrie di strumenti e procedure ac- cato del lavoro e di quello dei centrate e affidate unicamente al servizi. In realtà, durante questo decennio, le riforme in Europa proprio Consiglio direttivo. La Bce assume, dunque, un ruolo sono state lente e timide, sopratstrategico che, in questi dieci an- tutto in ambito finanziario, nel ni dall’introduzione dell’euro, ha settore energetico, nel gas e esercitato, quasi esclusivamente, nell’elettricità. Il ritardo di comattraverso una politica di con- petitività dell’area si è ulteriortrollo dell’inflazione cercando di mente aggravato perchè i singoli fare in modo che la domanda ag- paesi hanno attivato politiche gregata si potesse assestare ai li- economiche sul mercato interno velli della potenziale produzione. non in funzione del mercato unico, ma in base alle Per raggiungere esigenze domestitale risultato la La frammentazione che attraverso inBce si è basata e si terventi di natura basa sull’analisi nella definizione congiunturale. dell’andamento delle priorità è Ciò, in alcuni casi, della moneta e di ha portato al pegun insieme di in- un difetto d’origine gioramento dei dicatori reali e fi- dell’Unione monetaria fondamentali delle nanziari. Così come concepita, un’istitu- economie e ha imposto di rivisizione di questo tipo si è trovata a tare alcuni dei parametri fissati governare un’area molto vasta dal Trattato di Maastricht i cui ma disomogenea a causa della vincoli sono stati rivisti in quanstoria peculiare dei diversi paesi to, in una condizione di così grache la compongono e, la priorità ve ritardo, sono apparsi troppo del controllo dei prezzi, ha reso ambiziosi. secondarie le esigenze di politi- Questa situazione ha determinache che stabilizzassero il mercato to uno scarso coordinamento delunico tenendo conto dei diversi le linee di azione in grado di rilivelli di competitività dei paesi formare strutturalmente i settori dell’Unione, delle differenti real- in ritardo. tà demografiche, delle diverse Va sottolineato che la frammenpolitiche fiscali e sociali. Anche tarietà nella definizione delle per questo le manovre sul tasso priorità è un difetto d’origine di sconto, spesso, sono state at- dell’Unione monetaria visto che tuate in ritardo rispetto alle esi- l’Europa, negli anni precedenti al genze di un’Europa depressa e 2002, si presentava con Germania e Francia come paesi leader scarsamente concorrenziale. La moneta unica e la perdita del- in grado di fissare l’agenda e di


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condizionare anche le decisioni riguardo l’euro che, come vedremo, soprattutto per il nostro paese, non si rivelarono del tutto vantaggiose. Per Italia, Spagna, Portogallo e Grecia entrare subito nell’euro rappresentava il riconoscimento, da parte dei paesi leader, della validità delle politiche attuate. Peraltro, questa scelta premiò l’Italia perché i tassi di interesse sul debito calarono grazie all’assenza di rischio di svalutazioni competitive. Per questo il governo Ciampi e, successivamente quello Prodi, ebbero il grande merito di portare l’Italia in Europa e nella moneta unica subito e a pieno diritto. Fu necessario però pagare un prezzo. Nel primo caso l’una tantum sui conti correnti a carico di tutti gli italiani per consentire al nostro paese di rientrare nei parametri previsti dal Trattato, nel

secondo caso, la fissazione di una parità del cambio lira/euro che provocò una sensazione diffusa di incremento incontrollato dei prezzi. Non entrare nell’euro avrebbe però comportato tassi di interesse via via più insostenibili con un rischio di default per il nostro paese. Certamente, si poteva fare meglio nella definizione della parità che fu fissata a 1.936,27 lire per un euro. Questo rapporto lira/euro ha prodotto, prima, la naturale tendenza degli italiani ad arrotondare i prezzi in euro a 2.000 lire e, poi, la pratica diffusa, da parte dei commercianti, nel periodo immediatamente successivo al change-over, di modificare i prezzi come se un euro fosse pari a 1.000 lire. È chiaro che entrambi questi comportamenti hanno determinato un aumento del livello medio generale dei prezzi. Una situazione simile si è

Tabella 1 - Tasso di inflazione Italia, Spagna, Ue Anni 2000/2010

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verificata in Spagna dove il rapporto peseta/euro (1 euro uguale a 166,38 pesetas) ha indotto comportamenti simili a quelli appena descritti determinando la crescita del livello medio generale dei prezzi. (tab. 1) In realtà, dai dati relativi al 2002 e al 2003 si ricava che l’aumento dei prezzi in Italia si è certamente verificato, ma in modo molto meno eclatante di quanto non è stato percepito dai cittadini. La convinzione diffusa che i prezzi aumentavano senza controllo ha portato a quello che in economia si spiega con la teoria delle “aspettative adattive”. In questo caso, la convinzione che i prezzi si stessero impennando, al di là del reale aumento dell’inflazione, ha comportato, nel 2002, una riduzione della spesa interna delle famiglie italiane dello 0,1%, mentre la spesa

nazionale (comprensiva della spesa all’estero degli italiani e di quella in Italia dei non residenti) ha fatto registrare un aumento dello 0,2%. Il fatto che la percezione negativa andasse oltre l’effettivo aumento lo si vede già nel 2003 quando la spesa interna delle famiglie cresce dello 0,6%. Va anche detto che nel periodo 2000-2003 la propensione al risparmio aumenta dall’11,2% al 12,7% proprio per le incertezze derivanti dall’euro. Dunque, un primo effetto dell’euro in Italia fu l’incremento dell’inflazione percepita. (tab. 2) Un’altra conseguenza dell’introduzione dell’euro è dovuta al suo andamento rispetto al dollaro. Dopo una fase iniziale in cui l’euro si attestava ampiamente al di sotto della parità con il dollaro, a partire dal 2005, si comincia a registrare un apprezzamen-

Tabella 2 - Grafico 1 Andamento del tasso di inflazione Anni 2000/2010

Fonte: Oecd


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to dell’euro rispetto al dollaro con inevitabili conseguenze per paesi, come il nostro, export-led. Infatti, l’apprezzamento dell’euro ha generato effetti negativi sulle esportazioni italiane (+3,3% nel 2004 rispetto al 2003, -0,5% nel 2005 rispetto al 2004). Questo fenomeno avrebbe potuto favorire risparmi sull’approvvigionamento delle materie prime se non fosse per il forte aumento del prezzo petrolio che ha, di fatto, annullato il vantaggio indotto dall’apprezzamento della moneta. (tab. 3) Dall’analisi svolta appare evidente che nella fase iniziale la moneta unica comportò qualche ripercussione negativa su alcuni mercati interni, più che controbilanciata, però, dai vantaggi che la moneta e il mercato unico hanno prodotto. Pertanto, l’euro non ha dato ra-

gione ai più ottimisti che vedevano nella moneta unica un grande balzo in avanti per l’Europa, ma neanche ai più pessimisti che erano convinti in un ritorno alle divise nazionali in tempi brevi. La verità sta nel mezzo: la moneta unica ha prodotto uno slancio significativo verso l’integrazione europea che si sarebbe, però, dovuta incanalare verso una maggiore armonizzazione dei mercati dei beni e dei servizi in genere e di quelli finanziari in modo particolare. Infatti, la creazione della moneta unica, pur dando un forte impulso all’integrazione finanziaria, non poteva bastare, da sola, a creare un mercato unico dei servizi finanziari. Infatti, con l’introduzione dell’euro sarebbe stato necessario costruire un mercato finanziario comune, con regole comuni a tutti i paesi. Cosa

Tabella 3 - Grafico 2 Andamento prezzo del petrolio Anni 2001-2011

Nel grafico, in blu il prezzo del petrolio in dollari al barile, in rosso lo stesso prezzo convertito in euro ed infine in arancione il prezzo della benzina in euro al litro.

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che, invece, ha faticato a realizzarsi e ancor oggi presenta gravi ritardi. Nel 1999 venne elaborato un piano d’azione per i servizi finanziari che individuava un complesso di 42 direttive per realizzare un mercato finanziario pienamente integrato. Nel 2000 il Consiglio di Lisbona lo approvò fissando al 2005 la data per la definitiva realizzazione. Ma nonostante, il completamento di oltre la metà delle sue misure, il risultato di un mercato finanziario unico presenta ancora seri problemi. Anche per la tempesta finanziaria del 2008, culminata col fallimento della Lehman Brothers negli Usa, ha prodotto effetti differenti nei diversi paesi. In Germania e in Francia per esempio, la necessità di finanziare le banche in crisi ha prodotto una

crescita consistente del debito pubblico: rispetto al 2008, nel 2010, in Germania, il debito pubblico in percentuale del Pil è aumentato del 24,7%, in Francia del 20,7%. Nello stesso periodo di riferimento in Italia il debito è cresciuto dell’11,4%. (tab. 4) In Italia, la solidità del sistema bancario, meno propenso ad avere in portafoglio capitali soggetti a elevato rischio o strumenti derivati, ha portato a conseguenze più contenute sul sistema stesso e non ha aggravato, in modo significativo, i conti pubblici che già di per sé erano a livelli di guardia. Dunque, allo scoccare del decennio dall’introduzione dell’euro, il quadro presenta ancora delle incertezze: instabilità finanziaria, scarsa competitività, debolezza dei fondamentali dell’economia, discordia sul piano poli-

Tabella 4 - Grafico 3 Debito Pubblico in % del Pil Anni 2000/2010

Fonte: Eurostat


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tico. Nella sostanza, si sono create alcune delle condizioni necessarie per il dispiegarsi di azioni speculative anche nei confronti dei debiti sovrani. Un vero e proprio attacco all’area euro rivolto verso i paesi più deboli dal punto di vista dell’elevato debito pubblico: Grecia prima, Italia poi e, in seguito, anche Spagna, Portogallo e Francia. La risposta a questo attacco da parte dell’Ue, come entità, è stata debole, ha mostrato ancora una volta la prevalenza di particolarismi territoriali, viste le posizioni assunte dalla Germania, ma anche dalla Francia nei confronti della grave crisi di Grecia e Italia. La risposta è stata piuttosto balbettante e poco incisiva anche da parte della Bce che si è limitata ad acquistare in una prima fase i titoli del debito pubblico dei paesi in difficoltà senza intraprendere una politica monetaria che potesse rappresentare una reale controffensiva all’attacco subito. Il nostro paese ha risposto alla crisi con l’emissione continuativa di titoli del debito pubblico a tassi di interesse talmente elevati da mettere in seria discussione la capacità di far fronte al servizio degli interessi sul debito, adottando misure fiscali pesanti e avviando una stagione di grande austerità. Politiche simili sono state adottate dagli altri paesi sottoposti all’attacco speculativo. La difficoltà a uscire da una crisi di queste dimensioni ha portato molti osservatori a paventare l’ipotesi di un ritorno alle divise nazionali.

Il Libro L’emergenza non è ancora finita Antonella Crescenzi Crisi mondiale. Storia di tre anni difficili (la) Luiss University 2011, 208 pp., 25 euro Il volume ripercorre l’evoluzione della crisi mondiale e mira a fare il punto dell’impressionante quantità di informazioni e studi prodotti sul tema, analizzando separatamente, in distinti capitoli, con un taglio sintetico ma esaustivo, gli aspetti finanziari, gli effetti sull’economia reale, le risposte di politica economica, l’impatto sull’Italia e gli sviluppi del dibattito accademico. L’esperienza professionale degli autori, appartenenti a importanti istituzioni, pubbliche e private, ha reso possibile “inquadrare” la crisi da “punti di osservazione” differenti. La crisi, iniziata nell’agosto del 2007 con le turbolenze sulmercato dei titoli subprime, dopo aver attraversato diverse fasi, si è riaccesa nei primi mesi del 2010, quando si sono manifestate forti tensioni sul debito sovrano di alcuni paesi europei ed è culminata, in maggio, con l’intervento di salvataggio straordinario a favore della Grecia. Superata l’emergenza, restano ancora molte ombre per il futuro che costringono a considerare quella che si racconta come la storia, incompiuta, di tre anni difficili e non come la storia di una crisi oramai alle spalle.

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Non appare una scelta né accetta- nazionale, la condivisione delle bile né auspicabile alla luce delle perdite potrebbe essere la pregravi conseguenze che ne derive- messa per registrare utili nelrebbero per i paesi più deboli l’immediato futuro, anche da d’Europa totalmente impreparati parte dei tedeschi. a farcela da soli e con le proprie In questo quadro poi, la Bce debanche centrali nazionali che do- ve avere un ruolo forte di guida vrebbero riappropriarsi di un e di accompagnamento verso ruolo di indirizzo nelle scelte di l’uscita dalla crisi per la difesa del mercato unico e dell’euro che politica monetaria. Questo rischio potrebbe però in questo mercato circola, prediconcretizzarsi se si rimanderan- sponendo delle politiche moneno troppo a lungo le riforme ne- tarie più aggressive e non soltancessarie negli stati membri e si to difensive. Politiche che supcontinuerà ad attribuire all’Eu- portino in modo più efficace la ropa e all’euro la responsabilità domanda aggregata dando all’area delle reali della crisi. prospettive di sviQuali soluzioni La risposta dell’Ue luppo. per la crisi allora? Di certo, questa Sicuramente posi- all’attacco speculativo crisi di sistema ha tiva è la recente degli ultimi mesi mostrato a tutti e decisione dell’Ue in maniera evidendi avviare le pro- è stata troppo debole te, la debolezza del cedure necessarie e attendista nostro paese. L’Itaall’introduzione di una politica fiscale comune (6 lia non può aspettarsi che le soluzioni vengano solo dall’esterno, Dicembre 2011). Questa decisione può rappresen- per questo si deve attrezzare e, tare una svolta per gli effetti be- pur vivendo una profonda crisi nefici che può indurre sull’eco- finanziaria e una stagione di aunomia reale purché si consenta ai sterità per i cittadini, deve valosingoli paesi di affrontare, in rizzare i propri punti di forza nel modo autonomo, alcune scelte tentativo di risollevarsi. E i punti di forza ci sono eccome! per lo sviluppo. Ma non basta. Se è vero che Il tessuto industriale e imprendil’Unione europea deve rappresen- toriale composto da una larga tare l’interesse sovrannazionale prevalenza di piccole e medie degli Stati che la compongono, imprese è forte: la piccola imprel’emissione dell’eurobond appare sa (le microimprese con meno di la soluzione più adeguata. Certo, 10 addetti sono pari al 94,8% i paesi che hanno mostrato più delle imprese attive con il 47,5% stabilità, (vedi la Germania), nel degli addetti e il 25,5% del valobreve periodo non avranno van- re aggiunto) presenta degli svantaggi, ma in una visione prospet- taggi in termini di contributo altica, come in una holding multi- la crescita e di prospettive di in-


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ternazionalizzazione, ma dà vivacità all’economia e sostiene le produzioni di tipo manifatturiero che rappresentano il fiore all’occhiello dell’industria anche in termini di esportazioni. Laddove le imprese sono troppo piccole per farcela, l’Italia ha creato il sistema dei distretti che oggi si è trasformato in una struttura a rete copiata addirittura dalle economie emergenti e che da solo ha registrato risultati migliori di quelli della Germania. Dati recentissimi1, infatti, mostrano come i distretti del made in Italy crescono nelle esportazioni più dell’area tedesca. Nel terzo trimestre dell’anno in corso infatti, il settore manifatturiero italiano ha registrato un +8,2% rispetto al corrispondente periodo del 2010, mentre i tedeschi si sono fermati a +7,5%. Questo a dimostrazione del fatto che in un periodo considerato di pre-recessione, il sistema delle reti di impresa può, ancora una volta, risultare la risposta vincente alla crisi. Inoltre, la politica di austerità richiesta dalla Bce al nostro paese e avviata dal governo Berlusconi prima e dal governo Monti poi, se accompagnata da una riforma strutturale del mercato del lavoro, dalle liberalizzazioni, dalle deregolamentazioni, potrà consentire al paese di uscire dalla crisi e fornire il proprio fattivo contributo al sostegno dell’economia dell’Unione e al mantenimento della moneta unica europea. In conclusione, è lecito affermare che l’euro è stata una scelta giusta che ha portato benefici in ter-

mini di maggiore stabilità dell’area piuttosto che svantaggi e quindi, un’eventuale rinuncia a esso provocherebbe dei danni irreparabili per l’Unione europea facendo prevalere i particolarismi e le esigenze dei singoli mercati rispetto all’entità Europa. Per questo, è necessario che ciascuno Stato si adoperi nel restituire all’euro il suo ruolo, quello cioè di grande opportunità per un’area che deve tornare a essere competitiva con gli Usa e con le economie emergenti. Note 1

Fonte: Monitor dei distretti Intesa San Paolo, Corriere della Sera del 20 dicembre 2011

L’Autore umberto guidoni Segretario generale della Fondazione Ania per la Sicurezza stradale. è stato dirigente del Dipartimento Settori innovativi presso l’Istituto per la promozione industriale e consigliere del ministro Marzano. Membro del Consiglio di amministrazione della Dintec. Membro del Consiglio direttivo della società Certicommerce. Dirigente del dipartimento Net – Economy nell’ambito dell’Area Politiche e Studi presso l’Ipi. Da gennaio 2007, membro per l’Italia presso il Cea di Bruxelles nell’ambito del Road Safety Group .

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La vera origine della moneta unica

L’euro è figlio di un baratto franco-tedesco La cecità nella conduzione a senso unico della valuta comune da parte della Germania determinerà ulteriori problemi e incertezze nella vita dell’euro. La moneta unica sarebbe dovuta essere il complemento finale a un’effettiva integrazione e non il mezzo per poterla raggiungere. DI ANTONIO MARIA RINALDI 91

Esattamente 10 anni fa si materializzava, per la maggior parte dei cittadini europei, un meraviglioso sogno: una moneta da condividere e che avrebbe non solo legato economicamente il Vecchio Continente, ma anche finalmente suggellato, dopo millenni di contrasti, un indissolubile patto di “sangue”. La partecipazione emotiva degli italiani poi, ancor più accentuata dall’entusiasmo che il nostro paese ha sempre avuto nei confronti dell’Europa, ci poneva come i più euforici in assoluto. I sacrifici, anzi i grandi sacrifici fatti per avere i “conti” in ordine, avevano ancor di più innalzato il livello di adrenalina nei nostri cuori, e lo status a pieno titolo di cittadini europei, ci rendeva orgogliosi di essere stati

sin dall’inizio fra i fondatori di questa casa comune. Poche le voci fuori dal coro nell’immensa platea composta da economisti o presunti tali, opinionisti, uomini politici e giornalisti: tutti concordavano che con l’introduzione dell’euro si era aperta una nuova era e le prospettive sarebbero state solo ed esclusivamente positive. Fra le poche voci scettiche ricordo quelle di Antonio Martino: «Spero di sbagliarmi – affermava –, però ci sono grossi rischi che per come ci si è arrivati, l’esperienza dell’euro si concluda con un fallimento». E vale la pena anche di citare l’editoriale dell’allora Commissario europeo Mario Monti, che in un articolo sul Corriere della Sera ebbe a scrivere: «Questa moneta unica è


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una moneta davvero unica. Per- due sistemi politici ed economici ché reca in sé tre connotati esclu- profondamente diversi e in antisivi, la storia, la costituzione, la tesi, era in realtà soprattutto una determinazione, che la rendono sorta di bilanciere, una specie di unica al mondo: una moneta che “tappo”, di stargate per contenere non è, finora, espressione di uno equilibri instabili che altrimenti Stato ma è, fin d’ora, espressione sarebbero in qualche modo di una precisa scelta di civiltà». esplosi. Con la disgregazione Peccato che il professor Mario dell’Unione Sovietica quel detoMonti abbia dimenticato, nella natore venne disinnescato, ma lista delle unicità, d’inserire an- quegli equilibri fino ad allora fache quella che l’euro sarebbe sta- ticosamente raggiunti vennero ta l’unica moneta al mondo go- completamente rivoluzionati. La vernata da una Banca centrale, la Francia di Mitterand, che più di Bce, che non contemplasse nel chiunque altro temeva il ritorno suo statuto e nei suoi regolamen- a una grande Germania, impose il suo nulla osta alti la possibilità di la riunificazione, finanziare diretta- Quel muro simbolo in virtù dello status mente gli Stati di potenza vincimembri in diffi- di divisione era anche trice, in cambio di coltà, che potesse una specie di “tappo”, una maggiore inessere il prestatore di ultima istanza, per contenere equilibri tegrazione economica, anche moneche insomma po- fragili e instabili taria. In fondo il tesse stampare moneta per andare in soccorso al- marco stava alla Germania come le necessità contingenti di finan- l’atomica nell’armamento militaziamento. Ma quali sono i motivi re francese. I francesi erano gli per i quali ci ritroviamo ora nel unici in Europa ad avere la forza pieno di una crisi, e permettete- politica per poter ottenere dai temi la battuta, davvero dramma- deschi precise garanzie: l’econoticamente unica? Quali sono le mia francese temeva, e a ragione, ragioni perché alla prima grossa che un vicino così rafforzato “tempesta” finanziaria, tutto avrebbe ulteriormente dominato l’impianto, tutta la costruzione lo scenario europeo e mondiale dell’euro, ha iniziato a vacillare imponendo esclusivamente le sua fino a minare la sua stessa esi- supremazia. La condivisione di stenza? Le origini vanno ricercate regole economiche e soprattutto lontano nel tempo, esattamente una stessa moneta avrebbero non nella caduta del muro di Berlino solo attutito gli squilibri, ma ane la conseguente riunificazione zi creato sinergie e crescita codelle due Germanie. Quel muro mune. Questo in poche parole la a cui il mondo dava essenzial- vera origine dell’euro, anzi delmente un significato simbolico l’Ecu come all’inizio prese nome. di divisione fra due ideologie, fra Un baratto franco-tedesco per la


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conduzione dell’economia europea, con il ruolo degli altri paesi, Italia in testa, relegato a quello di comprimari, da contorno a un grande progetto gestito da un direttorio di fatto franco-tedesco. Naturalmente i tedeschi con a capo Kohl accettarono, anche se a malincuore, alla rinuncia all’amato marco, simbolo del riscatto ritrovato, pur di tornare uniti, nella consapevolezza che in ogni caso il nuovo ordine monetario avrebbe riservato loro senza ombra di dubbio un posto da leader e convinti dalla necessità di condividere parte degli immensi costi per la riconversione industriale e strutturale della parte Est del paese rimasta indietro anni luce. Non scordiamoci che quella che noi chiamiamo semplicemente riunificazione di fatto fu l’assorbimento da parte della Repubblica federale tedesca (Ovest) della Repubblica democratica tedesca (Ddr), con costi elevatissimi in parte sopportati da tutta la Comunità europea. Tutto è sempre gravitato su questo iniziale accordo che ha sovrastato le preposte e condivise istituzioni europee: di fatto hanno sempre comandato loro. In tutto questo profondo ed enorme riallineamento come si è collocato il nostro paese? In fondo nello scacchiere europeo l’Italia ha sempre rappresentato la terza economia, con l’aggiunta di avere la seconda impresa manifatturiera dopo la Germania, con scambi commerciali fortemente integrati proprio con quest’ultima. Anzi, essendo la lira italiana

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espressione di un grande paese neta unica, in Francia “regnò” industriale di trasformazione di Mitterand, con staffetta Chirac beni con alto valore aggiunto, nel 1995, e in Germania Kolh fiera condizionata dal tasso di no al 1998, mentre da noi si alcambio dal dollaro per l’approv- ternarono ben 11 Capi di govervigionamento di materie prime no. Possiamo star certi che quesui mercati internazionali, ma sto non ha sicuramente favorito dal tasso d’interesse dal marco in il nostro ruolo nel complesso iter quanto mercato di riferimento di determinazione delle condiper l’esportazione delle sue mer- zioni di adesione, emarginandoci ci. Questo ci imponeva di aderire nell’ottenere le nostre più che saal nuovo progetto monetario con crosante ragioni. Mi riferisco la particolare consapevolezza che chiaramente alla definizione del in ogni caso i nostri partner euro- Trattato di Maastricht e successipei sarebbero rimasti anche come vo Patto di stabilità e crescita, nostri principali competitori che sono considerati i perni fondamentali su cui commerciali. gravita l’intera coQuindi partecipa- Nessuno intuì che struzione e mantere assolutamente alla costruzione legare l’Italia alle regole n i m e n t o d e l l’unione monetadella moneta co- fisse dei trattati ci ria. Le regole, i mune, ma con un ruolo attivo, che costringeva a inseguire parametri, le sanzioni in essi contetenesse conto non modelli difficili nuti sono state solo delle nostre peculiarità di grande paese indu- plasmate a immagine e somistriale, ma anche dalla struttura glianza delle esigenze economidel nostro sistema finanziario che e strutturali franco-tedesche, pubblico e privato del tutto spe- tenendo conto esclusivamente di cifico e non certo riconducibile a numeri storicamente a loro favoquello degli altri paesi. Siamo si- revoli. Nessuno dei nostri riuscì curi che i nostri negoziatori, sia a a intuire che legare il nostro paelivello politico che tecnico, ab- se a regole imposte da trattati, biano avuto sempre chiare le vi- non modificabili e irreversibili, sioni come gli altri partecipanti ci avrebbe “condannato” a inseall’aggregazione monetaria? Sa- guire affannosamente modelli rebbe bastato intuire che senza difficilmente applicabili anche di noi il disegno di dotare l’Eu- da noi, senza il preventivo camropa con una sola moneta sareb- biamento della struttura stessa be rimasto incompleto e che ci del sistema amministrativo, fiavrebbero in ogni caso fatto en- nanziario, imprenditoriale, fiscatrare anche con concessioni a no- le e produttivo italiano. Chi penstro favore. C’è da considerare sava che l’entrata a tutti i costi che nel periodo dalla caduta del sarebbe comunque stata un giomuro fino all’adozione della mo- vamento per tutti ha commesso


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un errore clamoroso nel non pre- “debiti” effettivi che gravano sul tendere l’inserimento di mecca- sistema di qualsiasi paese sono nismi che tenessero conto anche anche quelli di diversa natura. della particolare struttura italia- Ad esempio, sarebbero dovuti esna. In poche parole il fatto di sere inseriti i debiti detenuti anaver accettato in modo supino le che dalle famiglie e dalle impreregole sicuramente “virtuose”, se, i quali gravano essenzialmenma di fatto non rispettabili an- te sul sistema finanziario-bancache dalla gran parte dei paesi eu- rio, e abbiamo purtroppo potuto ro dotati, ci ha esposto a rischi verificare ultimamente che quanenormi. Infatti l’architettura del do subentrano problemi di insoTrattato di Maastricht, che con- stenibilità nel credito è sempre templa le regole necessarie per lo Stato alla fine a farsene carico. l’adesione alla moneta unica e il Per chiarire meglio questo aspetPatto di stabilità e crescita che to basta estrapolare i dati forniti ne riprende essenzialmente i con- da Standard & Poor’s, il quale indica che ad tenuti per poter esempio un paese continuare a esser- L’aver accettato come l’Olanda, ne membri, è placon un rapporto s m a t o s o l o e d in modo supino regole debito pubesclusivamente su “virtuose”, ma non blico/Pil al 63% parametri generati (quindi vicino al sui valori del debi- rispettabili ci ha to pubblico e dal esposto a rischi enormi fatidico 60% come previsto dalProdotto interno lordo. Per quello che riguarda il l’articolo 2 di Maastricht), abbia Pil ormai è noto che non rappre- al 96% il rapporto debito impresenti più l’effettivo stato di salu- se/Pil e al 74% quello delle fate di una Nazione e che le Uni- miglie, arrivando a un debito agversità di mezzo mondo facciano gregato pari al 233%. La stessa a gara nell’individuare indici che Irlanda con il 316%, sommando siano più vicini alle realtà econo- oltre a quello pubblico (96%), quello delle imprese (133%) e miche e di sostenibilità. Il discorso sul debito pubblico è quello delle famiglie (87%), conmolto più complesso. Per i det- quisterebbe il primo posto negatami di Maastricht significa sola- tivo, mentre l’Italia con il suo mente la somma dei deficit accu- 220% (118,6 +70+32) arrivemulati e che quindi costituisco- rebbe a un più veritiero settimo no il debito pubblico secondo i posto nella classifica degli attuali dettami dell’Esa 95 (European 17 stati euro. E ancora la Germastability account), cioè del rego- nia al 196% (86+50+60) e la lamento per l’uniformità nella Francia al 187% (84+53+50). formazione dei bilanci statali e Questo per far comprendere che regionali. Ma questo non è asso- sarebbe stato molto più giusto lutamente corretto, in quanto i aver considerato il debito aggre-

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gato e non già solo quello pub- vrebbero far riflettere anche perblico, che “stranamente” penaliz- ché i dati fino a ora descritti non za maggiormente certi paesi ri- sono stati presi da giornaletti spetto ad altri. Per la cronaca, il scandalistici di gossip, ma conferrapporto debito pubblico/Pil di mati da Eurostat, dalla facoltà di Germania e Francia era storica- Scienze economiche di Friburgo mente sotto la soglia del 60% e dalla fondazione berlinese Marnelle fasi di definizione del Trat- ckwirtschaft. Se lo dicono loro… tato di Maastricht, mentre i due La rabbia, e non solo di chi vi sta debiti aggregati di imprese e fa- scrivendo, è che nessuno abbia il miglie è sempre stato percen- coraggio, l’autorevolezza e la tualmente superiore a quello ad grinta di sbattere in faccia questi esempio dell’Italia. Altro ele- numeri, oggettivamente veritiemento di distorsione è che il de- ri, agli arroganti politici ed ecobito pubblico può essere scisso in nomisti tedeschi. Perché vedete, esplicito e in implicito, dove il noi italiani saremo stati anche disponibili a una primo si considera quello previsto dal Facendo i conti in tasca conduzione franco-tedesca nella citato Esa 95, cioè gestione dell’ecosommando le pas- di debito pubblico nomia europea e sività dello Stato e alla “povera” Italia della moneta unidegli enti periferica, ma a patto che ci, mentre per il ci accorgiamo che in secondo s’intende realtà non sta così male fosse stata effettuata in modo efla spesa sostenuta per previdenza, sanità e assisten- ficace e non da persone che hanza sociale. Tanto per dare una no invece dimostrato di non esgrandezza ai numeri, se il debito sere assolutamente all’altezza pubblico esplicito tedesco am- della situazione, preferendo vimonta all’85,8% rispetto al Pil, sioni di basso profilo idonee il debito implicito, sempre ri- esclusivamente alla gestione pospetto al Pil, raggiunge il litica domestica. Basta vedere co118,8%, portando la somma to- me il duo Merckel-Sarkozy ha aftale dei due debiti al 197,6%. frontato la crisi greca, quando alEbbene, se andiamo a fare i conti le prime avvisaglie nell’aprile del alla nostra “povera” e bistrattata 2010 con la messa a disposizione Italia ci accorgiamo che alla fine di “soli” 110 miliardi di euro in non sia combinata così male, an- aiuti immediati, avrebbero senza zi se sommiamo il debito esplici- ombra di dubbio chiuso la partito vicino al 120% (118,6%) a ta definitivamente, inviando ai quello implicito pari al 28%, ar- mercati internazionali un mesriviamo a un “virtuosissimo” saggio fortissimo e inequivocabi147/148%, circa il 40% inferio- le: sull’euro si fa fronte comune costi quel che costi. La loro incare a quello dei tedeschi. Sono dati e ragionamenti che do- pacità nel comprendere la gravi-


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tà della situazione e la necessità ternazionali a tassi inferiori di d’agire con rapidità, hanno de- quelli emessi dalla Germania con terminato che la crisi si espan- i suoi apprezzatissimi Bund. Perdesse con effetto domino a tutti mettetemi ora una consideraziogli altri paesi dell’eurozona. A ne del tutto personale, una condistanza di un anno e mezzo non statazione che ebbi a fare sin dal è più possibile quantificare gli 1992 leggendo i famosi articoli sforzi necessari e capire se sia più del Trattato di Maastricht: perpossibile arginare i danni provo- ché ognuno deve gestire in procati dalla mancanza totale di vi- prio il debito pubblico, ma con sioni di mutua assistenza. Gli politiche monetarie dettate stessi strumenti ideati tardiva- esclusivamente e solo dalla Banca mente a supporto delle economie centrale europea, che ha come riin difficoltà, come i vari Fondi ferimento le volontà e le imposalva stati (ad esempio l’Efsf) non stazioni tedesche? Ora visto che riusciranno a risolvere i proble- lo stesso Trattato individua nel 60% il limite mi, in quanto lo massimo tollerastesso insito mec- Perché ognuno deve bile del rapporto canismo barocco debito pubblico prevede come la gestire in proprio /Pil, sarebbe stato dotazione finanzia- il debito pubblico, ma più logico, più ria provenga, quota-parte da ciascu- con politiche monetarie credibile, che i titoli dei debiti n o S t a t o , c o n dettate dalla Bce? pubblici fino al l’emissione di ulteriori titoli di debito pubblico. concorso per l’appunto del 60% Praticamente si fanno debiti per in relazione al proprio Pil fossero acquistare altri debiti. Una spe- stati solidali, cioè garantiti da cie di catena di Sant’Antonio che tutti i paesi membri. Una specie non risolve a monte il problema, di eurobond iniziale, titoli coperma solo le contingenze del mo- ti dalla garanzia europea, uno mento. Come inspiegabile il li- zoccolo di debito comune, menmite imposto dalla Germania nel tre l’eccedenza oltre il 60% sanon permettere, nel regolamento rebbe stato gestito da ciascun della Bce, la stampa alla bisogna Stato in maniera autonoma come di cartamoneta. La conseguenza avviene ora, naturalmente con di questo paradosso è che gli Sta- regole comuni. Sarebbe stato un ti Uniti, che certo non se la pas- segnale fortissimo al mondo, non sano meglio dell’Europa, pur fa- solo finanziario, di coesione e di cendo gli “straordinari” e i “dop- volontà comune nel sostenere il pi turni” alla Federal Reserve progetto euro. Naturalmente da nello stampare dollari, hanno la questa decisione ne avrebbero soddisfazione di vedere i propri tratto tutti vantaggi in termini titoli del debito pubblico, i T- di tassi più contenuti, tranne la Bond, negoziati sui mercati in- Germania e forse il Lussemburgo

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e la Finlandia e in minima parte la Francia, chiamati a garantire in solido un monte titoli a tassi sicuramente più alti dei propri. Ma ora i costi di queste mancate visioni non sono enormemente più alti? La sensazione più diffusa è che la cecità nella conduzione a senso unico, e scusatemi ancora la battuta, della moneta unica da parte della Germania, non disponibile a nessuno sconto, nonostante i fatti abbiano reso “obsoleti” i Trattati che ne regolano il funzionamento, determinerà ulteriori problemi e incertezze sulla vita dell’euro. Emerge sempre più chiaramente che l’euro sarebbe dovuto essere il complemento finale a un’effettiva integrazione e non il mezzo per poterla raggiungere. È come aver messo il carro avanti ai buoi. Lo stesso impianto di Maastricht e Patto di stabilità, che paradossalmente si chiama anche di crescita, genera un meccanismo perverso, altro che circolo virtuoso tanto sbandierato anche da nostrani Professori, poiché non appena la crescita rallenta, se non diventa addirittura negativa come sta avvenendo da qualche anno, i governi sono costretti a mantenere comunque alta l’imposizione fiscale per il contenimento del debito pubblico, tale da soddisfare i parametri del trattato stesso. Ma mantenere alta questa imposizione contribuisce però ancora di più a deprimere la crescita, non potendo fra l’altro adottare sgravi e incentivi allo sviluppo e deprimendo i consumi. Il meccanismo adottato

da Maastricht diventa pertanto un capestro, una palla al piede, un amplificatore di negatività. Manovra “salva Italia” docet. Quindi, in conclusione, la moneta unica resta in ogni caso un’idea formidabile, geniale, ambiziosa, ma la sua costruzione e il suo mantenimento sono stati realizzati male e noi italiani vi abbiamo aderito nel peggior modo possibile, praticamente alla garibaldina, per non dire con il piglio da armata Brancaleone. Il fatto che solamente la Finlandia, il Lussemburgo e la new entry Estonia, abbiano i numeri in ordine e che la Germania e la Francia abbiano “sparametrato” su tutti i fronti, la dice lunga sulla bontà delle ricette più tedesche che francesi sull’euro-costruzione. Le fobie tedesche sul contenimento dell’inflazione, determinate essenzialmente dalle vergogne non ancora sopite della ipersvalutazione ai tempi della Repubblica di Weimar e dalla volontà ossessiva di contenere la base monetaria, hanno messo in ginocchio l’Europa, impelagandola in una crisi finanziaria senza precedenti. La preoccupazione è che prevalga ancora di più la linea rigida tedesca emersa dal vertice di Bruxelles del dicembre 2011, e che l’iper-rigore proposto in regime di basso tasso di competitività e crescita nella maggioranza delle economie dei paesi euro, amplifichi ancor di più la recessione in atto. Infatti la linea tedesca è quella che preveda che i bilanci statali debbano essere in equilibrio o in surplus.


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Per poter raggiungere questo obiettivo, oltre a quello già previsto dal Trattato di Maastricht del limite del 3% di deficit annuo, tutti i paesi dovranno modificare le proprie costituzioni, inserendo per l’appunto il pareggio di bilancio, e prevedere anche un “meccanismo automatico di correzione” nel caso di sforamento. Inoltre le nuove regole “suggerite” dai nostri amici tedeschi per la così detta unione fiscale, prevedono anche l’impegno da parte dei 26 Stati sottoscrittori di abbattere il debito pubblico di un ventesimo ogni anno per le quote eccedenti il 60%, imposto inizialmente dall’articolo 2 del Trattato di Maastricht. Per l’Italia significa la riduzione del 3% annuo del proprio debito pubblico rapportato al Pil. Non oso pensare all’entità delle manovre correttive a cui sarebbero sottoposti periodicamente i cittadini italiani, già al limite della sopportazione civile, con il sicuro effetto di comprimere ancora di più la crescita e l’espansione della nostra economia nazionale. Forse ora sono più chiari i motivi per i quali la Gran Bretagna si è rifiutata di aderire a questi accordi. Dal mio punto di vista, solo se si riuscirà invece ad avere una illuminata visione politica comune, la stessa dei grandi padri fondatori, l’Europa riuscirà a uscirne fuori a testa alta, senza che la Germania riesca a “germanizzare” economicamente l’intero Continente, come non vi è riuscita con le armi per ben due volte nel passato se-

colo. Se la ragione prevarrà sugli sterili diktat e sulle imposizioni e si riuscirà a riscrivere regole veramente condivisibili che ristabiliscano gli errori iniziali, anche i nostri nipoti e i figli dei loro figli potranno continuare a essere orgogliosamente cittadini europei, con la condivisione di una stessa moneta. Altrimenti, sarà inevitabile lo sfaldamento di tutto il concetto Europa.

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L’Autore antonio maria rinaldi Professore di Economia internazionale e Programmazione economica e finanziaria presso la Link Campus University.



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Un’identità che nasce da valori comuni

NAZIONALITÀ EUROPEA In Europa vanno valorizzate e amplificate le virtù, e non i vizi, dei parlamenti nazionali per riconquistare la fiducia dei cittadini. Lo “spirito europeo” resta intatto ed è su questo afflato morale che si deve puntare, per rilanciare i propositi di un continente politico, coeso e solidale. di MARIO COSPITO 101

Sono trascorsi quasi otto anni dal primo allargamento dell’Ue a otto paesi dell’Europa centro-orientale e appena cinque dall’ingresso di Romania e Bulgaria. Eppure, dopo le due crisi finanziarie del 2008 e dell’estate del 2011, il tempo trascorso sembra essere molto di più. I timori e le aspettative pre-adesione sono stati subito superati dalle speranze dischiuse ai paesi di nuova adesione di poter recuperare rapidamente i ritardi accumulati, nello sviluppo economico e sociale, da decenni di totalitarismo ideologico e di pianificazione illusoria. E in effetti, i risultati sul piano politico non hanno tardato a manifestarsi, mostrando un volto nuovo delle capitali di questi paesi, dominate

finalmente da scenari di dialettica politica, democratica e pluralistica. Ben diverso è stato lo scenario cui abbiamo assistito sul versante economico e finanziario. Le economie di questi nuovi paesi membri ancora scontavano, in molti casi, le pesanti eredità dell’economia pianificata e gli “scempi” commessi da alcuni “gruppi di potere”, spesso proseguiti anche nel periodo immediatamente seguente gli eventi del 1989. La crisi finanziaria in Russia del 1997, gli sforzi di modernizzazione imposti dal processo di acquisizione dell’acquis comunitario e la mancanza di un flusso costante e ingente di risorse finanziarie, per garantire sufficienti livelli di crescita, sono stati indub-


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biamente fattori di rallentamento Napolitano, in occasione di una del trend di sviluppo avviato nei sua recente visita di stato in paesi di nuova adesione. A tali Croazia: «…Ma, una volta rispet“lacune” macroeconomiche, si so- tato in pieno l’acquis e completano aggiunte, a un certo punto del to il percorso negoziale, diciamo percorso, anche una serie di “ti- con forza: nessun paese di questa mori” provenienti dai paesi regione d’Europa va considerato membri dell’Unione a 15, in me- in maniera diversa dagli altri Starito a presunti vantaggi competi- ti che sono entrati a far parte tivi dei 10 nuovi membri che dell’Ue: tutti, grandi e piccoli, avrebbero potuto danneggiare sono chiamati a cooperare con panon solo le singole economie, ma ri dignità»4. Gli stessi concetti, lo sviluppo dell’intera Unione1. del resto, che il Presidente della Le polemiche suscitate dalla cosi- Camera, Gianfranco Fini, ha riasdetta Direttiva Bolkestein2, so- sunto in un suo libro-intervista, prattutto in alcuni ambienti della subito dopo la sua partecipazione ai lavori della Consinistra progressivenzione europea: sta e dei sindacati, L’Europa dell’Est per «Secondo alcuni, furono la riprova, per alcuni, che i troppo tempo è rimasta l’allargamento presuppone l’espantimori pre-allarga- lontana dai binari sione verso aree che mento erano fonprima erano eurodati, suscitando dello sviluppo e sentimenti di di- della crescita economica pee solo geograficamente. Pensare saffezione ed euroscetticismo che, alla prova del che città come Budapest, Praga o tempo, si sono dimostrati, per Varsavia siano meno europee di fortuna, infondati3. Approfondi- Roma, Londra o Parigi significa remo in seguito più in dettaglio non avere alcuna conoscenza di l’andamento dello sviluppo eco- quella che è la cultura europea. nomico dell’Unione a 27, ma è La cultura europea è l’identità eustato subito chiaro che il processo ropea»5. Opinioni convergenti, di allargamento a Est dell’Unione di due protagonisti della politica europea non poteva essere di- italiana di diversa formazione, a sgiunto da quello di una progres- dimostrazione di quanto il sentisiva e inclusiva integrazione di mento europeo sia radicato nel una parte del Continente rimasta nostro paese. per troppo tempo lontana dai binari, non solo della crescita eco- Partecipazione al processo decinomica e dello sviluppo sociale, sionale ma anche degli stessi valori fon- In un suo intervento, la Canceldanti del pensiero europeo mo- liera tedesca Angela Merkel ha derno e contemporaneo. Concetti affermato che «l’Europa è un club ribaditi autorevolmente dal presi- di valori»6. Un’affermazione da dente della Repubblica Giorgio cui possiamo partire per spiegare


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come i paesi di nuova adesione pa, una periferia, un “nucleo morabbiano contribuito in termini di bido” di paesi membri da opporre “partecipazione attiva” alla elabo- a quello “duro”. E la stessa fatica razione di una Europa a 27. In dei paesi di nuova adesione nelogni “club” che si rispetti, i soci l’adeguarsi all’acquis comunitario sono ammessi sulla base di com- è stata un indice di separazione partecipazione monetaria (le quo- dei “più bravi” dai “meno bravi”, te di ammissione), “elitaria” creando all’interno degli stessi (membri di una certa organizza- nuovi aderenti “Paesi di serie A” zione o struttura o ambiente lavo- e “Paesi di serie B”. Una contradrativo), oppure “societaria” dizione ancor più amplificata dai (membri di un gruppo sportivo, progressi conseguiti da ognuno, etc.). In alcuni casi però, in ag- all’indomani dell’apertura alle giunta a uno o più dei criteri so- leggi dell’economia di mercato, pra menzionati, si entra in un sulla strada di una maggiore inte“club” soltanto se si viene presen- grazione economica. Sul piano politico, tati adeguatamente tali difficoltà non da uno o più dei L’acquis dei nuovi hanno creato imsoci già iscritti al citato “club”. Noi stati mebri è diventato barazzi di sorta perché, giustatendiamo a pro- alla fine un indice mente, non si è pendere per questa u l t i m a i p o t e s i di separazione dei “più mai messa in dubquando si tratta bravi” dai “meno bravi” bio, né si è voluto vincolare a fattori del “club” europeo a 27. I 12 paesi di nuova adesione “esogeni”, la “democraticità” delsi sono infatti trovati nella condi- la rappresentanza del nuovo paese zione di non essere completamen- membro a livello istituzionale cote e autonomamente in grado di munitario: partecipazione paritaentrare, con le sole proprie forze, ria ai Consigli, un Commissario, nell’Unione europea come model- un certo numero di parlamentari lata dai precedenti 15 partner. europei sulla base delle propria Può darsi che la definizione data popolazione. Numeri che spesso dalla signora Merkel rientrasse in non riescono a esprimere appieno una visione “occidentale” di scala lo stato di soddisfazione delle vadei valori o che, almeno, i mem- rie opinioni pubbliche alla vita bri del “club” non avessero tutti comune europea. Un indice di tale stesse possibilità di partecipa- le grado di soddisfacimento viene zione e di “decisione” operativa. dalle statistiche sulla affluenza al Del resto, la stessa definizione di voto alle elezioni europee: nel “allargamento dell’Unione euro- 2009 la media europea è stata del pea ai paesi dell’Europa centro- 43,2%, contro il 44,4% della orientale (Peco)” racchiudeva, in precedente tornata elettorale. Alsé, il principio per cui doveva co- cuni potrebbero pensare che ciò è munque esserci un Est dell’Euro- dovuto a uno scarso interesse del-

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la “Vecchia Europa” rispetto alla menti di De Gasperi, Schuman, “Nuova”. I dati mostrano altri- Monnet, permeandoli in nuovi e menti, in quanto riduzioni si so- più ambiziosi traguardi. In realno registrate in alcuni paesi del tà, secondo i più, l’assise di Nord e Ovest europeo, ma le più Strasburgo si è andata via via consistenti si sono verificate spegnendo di tale significato, rinell’Est europeo, con minimi re- producendo spesso i vizi, più gistrati in Romania (27%) e in che le virtù, dei Parlamenti naSlovacchia (19%): in nessun paese zionali. Le virtù, appunto, che di nuova adesione è stata mai su- andrebbero valorizzate e ampliperata la soglia del 50% degli ficate per riconquistare la fiduaventi diritto al voto. Una scarsa cia dei cittadini europei verso affluenza alle urne europee lonta- l’Europa che invece resta alta na anni luce dagli esordi e che ha quando valutata con il paramefatto tornare in mente, a Enzo tro dei valori e degli ideali. AlBettiza, «il primo Parlamento a tri sondaggi, più accurati e lontani dalle compesuffragio diretto tizioni elettorali insediato a Stra- L’assise di Strasburgo europee, ci dicono sburgo e sorretto che lo “spirito euda una percentuale negli anni ha perso di voti mai più appeal perché ha preso ropeo” resta intatto, ed è su questo eguagliata»7. afflato umorale «Predominava», più i vizi che le virtù sono sempre paro- dei parlamenti nazionali che si deve puntare per rilanciare i le di Bettiza, “nella maggioranza dei parlamentari, propositi di un’Europa politica, anche se politicamente divisi, coesa e solidale8. Argomenti di l’entusiasmo dei pionieri”. Resta scottante attualità, tanto che, per da chiedersi perché dopo più di molti, l’unica soluzione per poter trenta’anni di funzionamento, il superare l’attuale crisi economica Parlamento europeo, espressione è quella di creare una struttura massima della volontà popolare federale forte e in grado di reggedi paesi liberi e ricchi, abbia per- re agli sbalzi di un’economia so così tanto del suo appeal popo- sempre più instabile. Essi aglare. Molti, come lo stesso Bettiza giungono che il sistema economicitato poc’anzi, attribuiscono co nel quale i governi nazionali si questo “mezzo” fallimento al pro- trovano a operare sta diventando gressivo indebolimento della pas- sempre più aggressivo e i soggetsione ideale iniziale, che aveva ti “più deboli” (come la maggior portato quei paesi membri a su- parte dei paesi membri dell’Ue perare i timori di perdita di “pez- presi singolarmente) potrebbero zetti” della sovranità nazionale, a essere esclusi dalle decisioni che tutto vantaggio di un’Assemblea contano a livello globale9. Gli che avrebbe saputo e dovuto sin- Stati membri, per garantirsi di tetizzare gli altissimi insegna- fronte agli organismi comunitari,


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hanno costruito una struttura «uno straordinario unicum e un istituzionale che richiede tempi e possibile modello nuovo nella procedure non più adeguate ai storia della democrazia rappreritmi delle sfide globali. Spesso a sentativa, un’esperienza originale Bruxelles e a Strasburgo si discu- e sempre in movimento, un work te infatti per mesi se concedere in progress che con i nuovi poteri qualche “spicchio” di sovranità attribuiti al Parlamento europeo nazionale alle istituzioni euro- dal Trattato di Lisbona sta per pee, mentre non ci si accorge che varcare non pochi dei limiti finoogni giorno ne cediamo un bel ra incontrati»10. Si tratta ora di po’ a favore di paesi emergenti o capitalizzare tali nuovi poteri e di istanze globali extra-Ue. Al- utilizzare il tempo rimasto per cuni analisti si pongono già ora assicurarsi che le prossime eleziola domanda sul futuro dell’Euro- ni siano veramente europee. A pa e cosa ne sarà del nostro be- oggi, secondo la maggior parte nessere complessivo fra cinque o dei commentatori di tali fenomedieci anni. E spesni, ciò non si è veso la risposta coin- L’Europa o si afferma rificato perché le cide: l’Europa può campagne elettorestare un attore come attore globale rali europee sono importante degli o sarà destinato state lo specchio equilibri e degli dei problemi nascenari mondiali a perdere sempre più zionali. Il Parlasoltanto se si affer- peso decisionale mento europeo ora ma come attore ha una buona opglobale: «Je m’inquiète de ce vi- portunità. Ha più poteri e i cittade d’Europe», diceva Mitterrand dini devono sentire di essere rape noi aggiungiamo che senza una presentati in modo democratico. “politica europea”, gli Stati e i Anche perché le altre istituzioni popoli d’Europa resteranno ai comunitarie sono sentite molto margini dei centri decisionali lontane, non elettive e con procemondiali. Un obiettivo difficile, dimenti decisionali “complessi”e ma non impossibile e del resto, spesso imposti dalla forza di pocome ha di recente sostenuto Ge- chi Stati membri. In sostanza, si orge Soros, «il faut une crise tratta di trasformare il decisionipour que le politiquement im- smo parlamentare europeo in una possible devient possible». sorta di “motore” dell’europeismo Il Parlamento europeo è uscito più spinto: quello cioè che vede rafforzato nel suo processo deci- nel rafforzamento dei poteri sionale e nei suoi rapporti con dell’assise di Strasburgo una delle Consiglio e Commissione grazie strade obbligate per raggiungere alle disposizioni del Trattato di la “Governance europea oltre lo Lisbona. Il presidente Napolitano Stato”11. La riforma imposta dal ha ben riassunto queste nuove Trattato di Lisbona ha anche avufunzioni in quanto rappresentano to un altro risultato di rilievo:

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FOCUS

La dichiarazione di Robert Schuman nel 1950

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La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta : abbiamo avuto la guerra. L’Europa non potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l’azione su un punto limitato ma decisivo. Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime. La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.

Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano. Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni. Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace.Per giungere alla realizzazione degli obiettivi cosi’ definiti, il governo francese è pronto ad iniziare dei negoziati sulle basi seguenti. Il compito affidato alla comune Alta Autorità sarà di assicurare entro i termini più brevi: l’ammodernamento della produzione e il miglioramento della sua qualità: la fornitura, a condizioni uguali, del carbone e dell’acciaio sul mercato francese e sul mercato tedesco nonché su quelli dei paese aderenti: lo sviluppo dell’esportazione comune verso gli altri paesi; l’uguagliamento verso l’alto delle condizioni di vita della manodopera di queste industrie. Per conseguire tali obiettivi, partendo dalle condizioni molto dissimili in cui attualmente si trovano le produzioni dei paesi aderenti, occorrerà mettere in vigore, a titolo transitorio, alcune disposizioni che comportano l’applicazione di un piano di produzione e di investimento, l’istituzione di meccanismi di perequazione dei prezzi e la creazione di un fondo di riconversione che faciliti la razionalizzazione della produzione. La circolazione del carbone e dell’acciaio tra i paesi aderenti sarà immediatamente esentata da qualsiasi dazio doganale e non potrà essere colpita da


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tariffe di trasporto differenziali. Ne risulteranno gradualmente le condizioni che assicureranno automaticamente la ripartizione più razionale della produzione al più alto livello di produttività. Contrariamente ad un cartello internazionale, che tende alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali mediante pratiche restrittive e il mantenimento di profitti elevati, l’organizzazione progettata assicurerà la fusione dei mercati e l’espansione della produzione. I principi e gli impegni essenziali sopra definiti saranno oggetto di un trattato firmato tra gli stati e sottoposto alla ratifica dei parlamenti. I negoziati indispensabili per precisare le misure d’applicazione si svolgeranno con l’assistenza di un arbitro designato di comune accordo : costui sarà incaricato di verificare che gli accordi siano conformi ai principi e, in caso di contrasto irriducibile, fisserà la soluzione che sarà adottata. L’Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell’intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; un presidente sarà scelto di comune accordo dai governi; le sue decisioni saranno esecutive in Francia, Germania e negli altri paesi aderenti. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell’Alta Autorità. Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l’anno una relazione pubblica per l’Onu, nelle quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici. L’istituzione dell’Alta Autorità non pregiudica in nulla il regime di proprietà delle imprese. Nell’esercizio del suo compito, l’Alta Autorità comune terrà conto dei poteri conferiti all’autorità internazionale della Ruhr e degli obblighi di qualsiasi natura imposti alla Germania, finché tali obblighi sussisteranno.

quello di costringere i futuri parlamentari europei a essere sempre più specializzati nelle materie comunitarie per poter far fronte agli impegni imposti dal lavoro nelle Commissioni e per poter rispondere adeguatamente alle pressioni e alla resistenze provenienti dalla Commissione e dal Consiglio europei. In questo contesto, l’apporto di parlamentari europei provenienti dai Paesi dell’Est Europa può essere importante, alla luce dell’entusiasmo e della freschezza di ideali e valori europei presenti in questa regione del nostro Continente. Sviluppo economico e inclusione sociale

Il concetto di Europa elaborato (e sognato) dai padri fondatori era soprattutto un concetto politico e sociale. La realtà ha al contrario dimostrato in pratica che l’Europa, intesa come aggregazione di Stati membri, poteva avere qualche possibilità di successo soltanto come “aggregato di mercati interni” che avrebbe potuto sfruttare vantaggi competitivi derivanti da economie di scala e da processi di integrazione negativi12. Nel primo caso, si diede origine alla Comunità del Carbone e dell’acciaio: nel secondo, ai Trattati di Roma del 1957 che diedero vita al Mercato comune europeo. Obiettivi fondamentali del Mec furono appunto l’eliminazione delle barriere doganali e degli ostacoli tariffari per l’istituzione di un Mercato interno unico tra gli Stati membri firmatari del Trattato. Alla base di tale eserci-

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zio vi era la convinzione, poi dimostratasi solo parzialmente esatta, che i Paesi membri del Mec avrebbero raggiunto, alla fine del percorso, un livello di sviluppo economico e di integrazione sociale tale da riportare i fattori di concorrenza interna a un livello di equilibrio sostenibile per tutti i membri. Con la realizzazione delle libertà fondamentali previste dal Trattato di Roma (libera circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e dei servizi), l’Europa a 15 ha dovuto prepararsi alle nuove sfide provenienti dall’allargamento a est. I Trattati di Amsterdam e di Nizza sono stati la risposta a tali sfide e hanno introdotto nuove misure volte a garantire un futuro equilibrio tra le società mature dell’Europa a 15 e quelle emergenti dell’Europa di nuova adesione. Si trattava, in particolare e come abbiamo già anticipato, di far coesistere le esigenze di un processo continuo di integrazione economica della Nuova Europa con quello delle garanzie richieste dalla Vecchia Europa in materia di Welfare state e concorrenza fiscale. Molti sostengono che l’ingresso in Europa dei 10 nuovi paesi dell’Est ha permesso una redistribuzione dei redditi e della ricchezza nel Continente, soprattutto, ma non solo come vedremo più avanti, a beneficio dei nuovi arrivati. Lo dicono le statistiche e lo dice il livello di integrazione economica e di coesione sociale raggiunto nei nuovi paesi membri. Il processo di pre-adesione ha consentito ai Peco di godere di

una serie notevole di vantaggi economici, derivanti a esempio dalla libera circolazione di merci e capitali. In pochi anni, i Peco hanno ricevuto una quantità importante di investimenti diretti dalla Ue a 1513 e hanno visto modificare radicalmente le loro quote di commercio estero; oggi, infatti, la quota di scambi intracomunitari raggiunge e supera in molti casi il 60%, con punte del 70% e oltre14. Se si guarda alla crescita del Pil e se si eccettuano i primi cinque anni successivi alla caduta del muro di Berlino, i Peco sono cresciuti, in media, più dei paesi dell’Europa a 15. Nel periodo 1995-2000 il Pil è infatti cresciuto in media del 2,5% nell’Europa a 15 e del 4,5% nei Peco; nel periodo 2001-2007 l’aumento è stato, nel primo caso, del 2%, nel secondo del 6,5%. Tale differenziale di crescita ha permesso, di conseguenza, la riduzione del divario di ricchezza media pro-capite: nel 1996 il Pil medio pro capite dei Peco (circa $8,000) corrispondeva a quasi un terzo di quelli Ue a 15 ($21,000); nel 2007 tale rapporto si era ridotto a circa il 50%. Purtroppo, gli elementi di soddisfazione si fermano qui in quanto comunque si è registrato, dagli inizi del 2000, un rallentamento dei tassi di crescita nei Peco che non hanno saputo massimizzare i vantaggi competitivi pre-adesione; si è altresì registrata una diversa capacità di integrazione dei singoli paesi, al punto che, secondo alcuni economisti, il differenziale tra i Peco più avanzati (Re-


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pubblica Ceca e Slovenia) e quelli meno avanzati (Romania e Bulgaria) è oggi, in termini reali, più alto di quello esistente sia nel 1990, sia al momento dell’allargamento a Est. Resta, infine, il problema degli effetti della crisi finanziaria del 2008 e della crisi sistemica del 2011: lo esamineremo più in dettaglio nel paragrafo successivo, ma quello che possiamo affermare è che la grande spinta alla crescita nei Peco degli anni Novanta del secolo scorso si è quasi completamente arrestata e anzi, in alcuni casi, la crescita negativa sembra riportare la maggior parte di questi paesi ai livelli di dieci anni fa. Eppure la “Vecchia Europa” ha messo in campo energie e risorse straordinarie per favorire l’integrazione economica dei Peco e la loro coesione sociale con il resto del Continente. Citiamo soltanto i finanziamenti agevolati della Banca europea per la ricostruzione e lo Sviluppo, le risorse preadesione Phare e poi Ispa e Sapard e, infine, il quadro delle prospettive finanziarie 20072013, che ha destinato ai 10 paesi dell’allargamento a Est la cifra di 110 miliardi di euro15 per i fondi strutturali e circa 140 miliardi di euro per gli interventi in materia di Pac16. In fin dei conti, non è un’impresa semplice mettere insieme 493 milioni di persone, 27 Stati membri e 268 regioni, peraltro con politiche fiscali e sociali spesso diametralmente opposte. Anche per questo, il Legislatore europeo, dopo il 1993, ha inserito espressamen-

te la politica di coesione come uno degli obiettivi strategici dell’Ue e ne ha fatto il pilastro della Strategia di Lisbona, improntata al raggiungimento della piena occupazione attraverso, appunto, la coesione sociale, la ricerca e l’innovazione. Ma un conto sono i buoni propositi, altra cosa la realtà dei fatti: il tasso di assorbimento dei fondi europei da parte dei Peco resta bassissimo, con punte minime del 9% in Romania. Uno spreco di risorse umane e materiali che dovrebbe preoccupare le competenti Autorità a Bruxelles e nelle capitali nazionali, soprattutto in periodi come quelli che stiamo vivendo, di bassa crescita economica, di scarsa liquidità e di contenimento della spesa pubblica. Uno spreco che spesso impedisce, come già ricordato poco sopra, il raggiungimento di obiettivi minimi di coesione sociale intra-nazionale e intra-comunitaria, con il risultato che intere fasce svantaggiate di popolazioni residenti nei Peco restano in condizioni di estremo disagio, mentre le necessarie infrastrutture, che dovrebbero aiutare nel raggiungimento degli ambiziosi obiettivi della Strategia di Lisbona, restano ancora sulla carta17. Uno scenario che l’Europa di domani non potrà trascurare e che richiede una governance europea adeguata alle difficoltà della sfida. Anche perché, nonostante tutto, il rapporto tra Vecchia Europa e Peco resta fondato sulla convenienza. Una convenienza che, sommata alla valutazione di altri fattori che

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pure entrano in gioco nella scelta ventare ancora una volta, per le di un mercato estero, riportano imprese della Vecchia Europa, immediatamente i Peco, e di una nuova frontiera dell’internagran lunga, al primo posto tra i zionalizzazione. I motivi, a nostro mercati di destinazione dei capi- parere, esistono e proviamo a tali dell’Europa a 15. La vicinan- spiegarli. Per anni, siamo stati za geografica, la maggiore pro- abituati a sentire risuonare il leit duttività del lavoro, la migliore motiv di una globalizzazione dei logistica e distribuzione, la facili- mercati caratterizzati dai cosidtà di contatti dovuti alla omoge- detti investimenti off-shore. A neità linguistica (si pensi al cosi- partire da tale assunto, abbiamo detto modello Timisoara per le assistito a una crescita esponenPmi italiane) e la difesa del know- ziale degli Ide mondiali, arrestahow dell’azienda, la stabilità poli- tasi però bruscamente nel 2008 tica e la crescente semplificazione con l’inizio della crisi economica normativa si pongono indubbia- e finanziaria. Le statistiche ci indicano che oggi e, mente come vanforse, domani, gli taggi competitivi La ripresa dell’area Ide mondiali conper i Peco. Tali tinueranno a crevantaggi sussisto- Peco è già iniziata scere ma non, cono rispetto a Cina anche se continua munque, ai ritmi e India, che pure conservano la for- ad avere un andamento pre-crisi. E ciò per una serie di fattotissima attrattiva altalenante ri, anche psicolorappresentata dalla presenza di un enorme mercato gici, che indurranno probabilinterno quale destinazione di mente gli investitori a una magsbocco per i prodotti delle azien- giore cautela negli investimenti de europee, ma anche rispetto ad off-shore. Anzi, secondo alcuni altri paesi che sperimentano oggi analisti (come Sergio Mariotti e instabilità strutturali che non Marco Mutinelli in Italia Multistimolano l’ambiente imprendi- nazionale 2010), sono già visibili i toriale. Se a tutto ciò si aggiunge segnali di una tendenza degli Ide che, dal 2004, sussiste nei Peco al near-shoring e al back-shoring, la possibilità di lavorare nel con- nel senso che a breve termine altesto delle regole dell’Ue e di po- cuni investimenti esteri potrebter accedere ai finanziamenti eu- bero privilegiare mercati vicini ropei dei fondi strutturali, si geograficamente e stabili politicomprende facilmente perché il camente e, in alcuni casi, potremconfronto con le due economie mo assistere al rientro nel paese asiatiche e con altri concorrenti di origine dei capitali usciti negli volga decisamente a favore di anni scorsi. Tendenze che, se confermate, porranno sempre di più i questo mercato. Alla luce di tali considerazioni, Peco nel radar degli investitori riteniamo che i Peco possano di- europei, anche per i potenziali


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contraccolpi positivi derivanti dalla situazione di instabilità esistente in Nord Africa e Medio oriente e per l’incremento dei costi di trasporto navale da e per l’Estremo oriente, a causa dell’incremento del costo del petrolio e per i riflessi negativi della pirateria nell’Oceano Indiano. In conclusione, sussistono gli ingredienti per elaborare una ricetta tutta europea e ancora una volta vincente, con possibili vantaggi in più rispetto al passato: il Mercato unico, la necessità di trovare una soluzione duratura alle difficoltà dell’euro e la ormai probabile revisione dei Trattati in senso più “federale”, potrebbero infatti dare alle imprese europee, soprattutto quelle piccole e medie, un eccezionale vantaggio comparato in termini di radicamento sul territorio e conoscenza del contesto e delle dinamiche locali. Ci auguriamo che anche a livello istituzionale, europeo e nazionale, possa essere adeguatamente colta la perdurante importanza di questo grande mercato regionale (così come di altri nei Balcani e in Europa centro-orientale). In fondo, la piccola Austria vale, per la potente economia tedesca, di più della Cina e più del doppio dell’India e, secondo recenti indagini statistiche, il peso della Polonia per la stessa economia crescerà in prospettiva sempre di più fino a divenire uno dei cinque principali partner economici della Germania. Anche per l’Italia la dinamica è assimilabile: già oggi, a esempio, i numeri dell’interscambio commerciale con la Romania (10.5

IL PERSONAGGIO

«Non siamo Stati, ma popoli» Jean Monnet, consulente economico e uomo politico francese, dedicò la sua vita alla causa dell’integrazione europea. Fu lui l’ispiratore del “piano Schuman”, che prevedeva la fusione dell’industria pesante dell’Europa occidentale. Monnet era originario della regione francese del Cognac. Terminati gli studi, a 16 anni, cominciò a viaggiare all’estero come commerciante di cognac e in seguito anche come banchiere. Durante le due guerre mondiali svolse incarichi di alto livello relativi al coordinamento della produzione industriale in Francia e nel Regno Unito. Come alto consulente del governo francese, Monnet fu il principale ispiratore della famosa “dichiarazione Schuman” del 9 maggio 1950, che portò alla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e che per questo motivo è considerata l’atto di nascita dell’Unione europea. Tra il 1952 e il 1955 fu il primo presidente dell’organo esecutivo della Ceca, l’Alta Autorità. Sarebbe tuttavia ingiusto limitare l’influenza di Monnet alla sfera economica. È sua la famosa affermazione, peraltro molto citata: “Noi non uniamo Stati, ma popoli”. I programmi attuali dell’Ue a favore degli scambi culturali e nella formazione seguono proprio questa sua filosofia.

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miliardi di euro nel 2010 e oltre 12 miliardi a fine 2011) e degli investimenti (31.000 aziende con partecipazione italiana registrate) fanno di questo paese uno dei principali partner economici dell’Italia e il primo per numero di aziende italiane fuori dai nostri confini nazionali. Gli elementi per un rilancio dello sviluppo economico europeo, fondato sull’aumento della produttività, sulla ricerca e l’innovazione tecnologica e equilibrato con nuovi meccanismi di ridistribuzione del reddito e di equità sociale ci sono dunque tutti. Dobbiamo quindi essere pronti ad affrontare questa nuova sfida per garantire nuovi ambiti di sviluppo economico e sociale al nostro Continente. La crisi finanziaria e gli effetti a Est

Abbiamo toccato, sommariamente, i problemi registratisi negli ultimi anni in Europa, soprattutto alla luce dell’allargamento a Est, fenomeno in un certo qual senso, davvero epocale. L’Ue ha affrontato, nei suoi 54 anni di esistenza, diverse crisi di natura politica, economica e sociale, superandole attraverso adattamenti progressivi dei trattati istitutivi e con la guida convinta di leader visionari. Molti però si sono chiesti se l’Europa sarebbe stata davvero pronta a reggere l’urto dirompente di una crisi globale e sistemica e non più regionale e transitoria. Sgombriamo subito il campo da una tentazione che ha indotto alcuni ad affermare che l’Europa

soffre oggi di “stress” da allargamento che avrebbe addirittura causato l’inizio della crisi che oggi il Continente sta vivendo18. Non è così, non è corretto affermarlo nei confronti dei Peco ed è giusto che alcuni autorevoli esponenti politici di questa Regione intervengano a contestare, con lucidità, tale visione19. Ciò detto, si tratta di capire le origini della crisi che stiamo attraversando, studiare gli errori commessi e proporre soluzioni durature per un’Europa che sia davvero capace di affrontare le prossime sfide, che pure arriveranno. Paradossalmente, i Peco non sono stati interessati, almeno all’inizio, dalla cosidetti crisi globale del 2008 perché non erano esposti ai “derivati tossici”. I problemi hanno iniziato a manifestarsi quando vi è stato il crollo della domanda esterna da parte dei paesi interessati dalla crisi finanziaria, soprattutto di quelli Ue che, come abbiamo visto sopra, rappresentano oltre il 60% e oltre della quota di mercato di ogni singolo Peco. Il Pil dei Peco è così crollato a fine 2008 e nel 2009 (con l’unica eccezione della Polonia e della Slovacchia) per poi riprendersi lievemente nel 2010 con una media di crescita dell’1,7% (ma anche in questo caso con un contributo preponderante di Polonia e Slovacchia). Il commercio estero, anch’esso crollato nel 2009, ha visto timidi segnali di ripresa nel 2010 e più robusti indici nei primi sei mesi del 2011. Critica la situazione sul fronte dell’occupazione, diminuita, nel periodo 2008-


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2010 di quasi 1,5 milioni di unità, senza considerare coloro che si sono spostati in altri paesi dell’Ue o extra-Ue. In sostanza, i Peco sono stati penalizzati dalla crisi, anche se a “macchia di leopardo”: Polonia, Slovacchia e Slovenia sono riusciti a superare con relativa facilità il primo momento di difficoltà, grazie a politiche economiche accorte che avevano concentrato l’attenzione sullo sviluppo del tessuto industriale. Altri, come la Lettonia, l’Ungheria e la Romania, fortemente interessati dal crollo dei settori finanziario e immobiliare, hanno dovuto richiedere l’aiuto del Fmi e della Commissione Europea. I Peco si trovano quindi ad affrontare gli effetti di una crisi globale cui non erano preparati e che ha trovato la stessa Vecchia Europa impreparata. La maggior parte degli analisti stima comunque che la ripresa economica di questa regione è già in atto e che avrà un andamento variegato, con picchi di crescita e sviluppo e con situazioni di scarsa vitalità. Certamente, sostengono molti, i Peco non riusciranno a tornare ai livelli di crescita pre-crisi perché mancherà quella spinta propulsiva data dagli investimenti e dalla domanda proveniente dall’Ue a 15. D’altro canto, secondo un’analisi di A.T. Kearney, nel 2011 tutti i Peco (con l’unica eccezione della Slovenia) rientrano tra i primi 50 paesi con il più alto indice di attrattività finanziaria, di disponibilità di manodopera specializzata e di ambiente d’affari20 (l’Italia non figura nem-

meno in tale elenco). Per mantenere alte le difese da un sempre possibile “shock esterno”, i Peco dovranno varare ulteriori misure di austerità per contenere deficit e debito pubblico. I governi di questi paesi dovranno inoltre continuare a puntare su riforme strutturali per attrarre capitali esteri e interni ai fini degli investimenti produttivi e per evitare di essere troppo dipendenti dalla domanda esterna, soprattutto da quella della vecchia Europa. Dovranno altresì assicurare condizioni di stabilità macro-economica, modernizzare i rispettivi sistemi infrastrutturali e stimolare la ricerca e l’innovazione tecnologica per riguadagnare terreno nei confronti dei paesi emergenti, sempre più concorrenziali in termini di costo del lavoro. Importanti saranno, in tale percorso virtuoso, le decisioni per favorire un migliore assorbimento dei fondi strutturali europei, che potrebbero garantire un afflusso di capitali esterni tale da compensare la scarsità di risparmio privato e la sempre possibile crisi di liquidità delle banche locali. Quest’ultimo fattore è da tenere sotto particolare osservazione: alcuni autorevoli rappresentanti politici dei Peco non hanno fatto riserva dei loro timori di un possibile shock di liquidità nei rispettivi paesi, conseguente a decisioni dei “quartieri generali” bancari situati nei paesi dell’Europa a 15. In Romania, a esempio, il presidente Basescu ha chiaramente espresso tutte le sue preoccupazioni al riguardo, sostenendo che le even-

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tuali decisioni, da parte delle “ca- è una crisi globale e in quanto tase madri” situate nella vecchia le diversa da quelle che ha attraEuropa, di ridurre i flussi finan- versato, dalla sua esistenza, l’Euziari verso le loro succursali situa- ropa unita. L’ex-Commissario eute in Romania e negli altri paesi ropeo e attuale vice presidente di nuova adesione sono da con- del Senato, Emma Bonino, ha sodannare con forza, perché contra- stenuto recentemente 21 che rie allo spirito europeo di solida- «l’Europa è una costruzione che rietà e coesione. Basescu ha poi funziona finché resiste il bel temricordato che il suo paese ha do- po» Per dirla in altri termini, vuto procedere a una privatizza- l’Europa funziona finché non zione massiccia del proprio siste- compaiono, all’orizzonte, guai ma bancario nel momento in cui economici. Sempre secondo la ha scelto la via europea. Dopo an- Bonino, per superare questa e le ni di profitti, egli ha aggiunto, altre crisi, occorre creare un’entinon possono oggi le banche au- tà sovranazionale, anche con ipostriache, francesi o tesi intermedie di tedesche decidere Molti sono i sostenitori cessione di sovradi chiudere i “runità, ma con binetti” del credito dell’Europa a due l’obiettivo ultimo verso le loro conso- velocità che potrebbe di un’Europa fedeciate nei paesi rale sul modello dell’allargamento portare notevoli degli Usa. D’altro perché queste deci- vantaggi agli Stati canto, sono semsioni avrebbero un pre più numerosi, impatto ancor più devastante di soprattutto in Germania e nei qualsiasi altro “shock esterno”. Un paesi Scandinavi, coloro che riargomento che converrà tenere tengono sia meglio ipotizzare sotto stretta osservazione nei un’Europa a più velocità, in moprossimi mesi per valutarne ap- do che gli Stati membri più depieno le conseguenze sull’econo- boli, liberati dai vincoli di Maamia reale di molti Peco. stricht, possano riguadagnare competitività attraverso la svaluUn’Europa a due velocità o gli tazione della propria moneta nazionale, cui dovrebbero tornare; Stati Uniti d’Europa? Le preoccupazioni del presidente quelli più forti, al contrario, doBasescu, insieme a quelle pro- vrebbero proseguire con un nununciate da altri statisti dei Peco, cleo più ristretto, aventi tutti una ci consentono di introdurre la moneta comune e comuni politiparte conclusiva di questa analisi. che fiscali. Quale strada prendere Non vi è dubbio che l’Europa che dunque al bivio delle possibili vie abbiamo conosciuto negli ultimi d’uscita? Quella di un’Europa a 50 anni sia arrivata a uno snodo due velocità o quella diretta verso fondamentale della sua storia. La gli Stati Uniti d’Europa? crisi, come già più volte ripetuto, Negli ultimi due anni le opinioni


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a sostegno dell’una o dell’altra presidente del Consiglio Europeo ipotesi non si contano: la diffe- Van Rompuy, vanno in questa direnza fondamentale, alla base del- rezione22. I sostenitori di tale le due idee, è che la prima si fon- ipotesi insistono sui vantaggi che da su presupposti quasi esclusiva- ne conseguirebbero, sia ai paesi mente utilitaristici, la seconda fa dell’eurozona, sia a quelli esterni: fede soprattutto su un rilancio da una parte, la maggiore intedel processo di integrazione poli- grazione economica e fiscale gatica dell’Unione europea. Qual- rantirebbe un equilibrio più soche settimana fa, il Presidente stenibile dei conti pubblici dei francese Sarkozy ha affermato che singoli appartenenti; dall’altra, per superare l’attuale crisi econo- l’Europa potrebbe guardare con mica e finanziaria è necessario più serenità alle difficoltà continprocedere con un Europa a due genti tra paesi membri, rispondevelocità «…perché non si può rebbe alle perplessità di alcuni avere una moneta unica senza una membri del “club” riottosi alconvergenza econol’idea di un’Euromica e politiche fi- I paesi dell’Est sono pa federale e non scali adeguate». E allontanerebbe, ad subito dopo l’in- sempre in bilico tra libitum, le prospetquilino dell’Eliseo l’impegno europeista e tive di ulteriori alaggiungeva che largamenti. I con«alla fine del per- il trattamento di serie B trari, invece, vedocorso ci sarà un’Eu- che gli viene attribuito no in un’Europa a ropa a due marce: due velocità o a la prima, più veloce, porterà a “geometria variabile” solo l’inizio una più accentuata integrazione della fine del sogno europeo. Non nell’area dell’euro e l’altra, più quindi un’Europa a due velocità, lenta, verso una Confederazione ma due diverse concezioni deldi Stati». In realtà, tali opinioni l’idea europea. del presidente Sarkozy riflettono Ma anche i fautori di un’Europa un sentimento comune a molti più integrata economicamente e statisti e analisti: già nel 1994 si più coesa socialmente sono tanti. era sviluppato in Germania un Molti si sono spinti addirittura dibattito sul così detto “nucleo ad abbracciare l’idea di un’Euroduro europeo”. Dibattito poi pa federale, gli Stati Uniti d’Euspentosi a seguito dell’allarga- ropa, una vera associazione di mento a Est e dei risultati delu- Stati democratici che condividadenti dei primi referendum sul no la propria sovranità23. Essi saTrattato di Lisbona. La crisi eco- rebbero l’unica soluzione per rinomica iniziata nel 2008 e accen- dare al continente europeo la tuatasi in questi mesi ripropone competitività persa negli ultimi ora questi argomenti con mag- anni, soprattutto nel settore degli gior vigore. In un certo senso, an- investimenti: in altre parole l’Euche le recenti affermazioni del ropa potrà continuare a essere una

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potenza economica e militare soltanto attraverso una maggiore cessione di sovranità nazionale alle istituzioni comunitarie. Certo, alla luce dei recenti, drammatici sviluppi economici e finanziari, occorrerebbe procedere alla realizzazione degli Sue nel più breve tempo possibile (mesi, al massimo un anno), considerando soprattutto i tempi tecnici necessari per rendere operativo un sistema del genere. Ma si può davvero credere che, in così poco tempo, i singoli Stati membri riescano a trovare il consenso per realizzare un’Europa “federale”? In ogni caso, se tale idea andasse avanti, ci sarebbe bisogno di tornare a chiedere la “voce” dei cittadini europei tramite un referendum popolare: solo in questo modo si potrà decidere se l’Europa è pronta per un tale, epocale cambiamento e, soprattutto, se gli Stati membri dell’Ue sono disponibili a cedere buona parte della loro sovranità per realizzarlo. È apprezzabile, in tale contesto, come proprio negli Stati membri di nuova adesione si stia consolidando la consapevolezza della necessità di cedere ulteriori ambiti di sovranità per evitare che il processo di integrazione europea venga diluito dai crescenti egoismi nazionali in una semplice area di libero scambio24. Sono molti gli interessi in ballo, e gli statisti di questa parte d’Europa si rendono conto di come il vincolo esterno dell’Unione europea sia stato decisivo nell’imporre alle classi dirigenti dell’Est, soprattutto nell’ultimo biennio di diffi-

cile congiuntura economica, una serie di misure che altrimenti sarebbe stato difficile immaginare. Per questo motivo, oggi il rapporto con l’Unione europea è oggetto di rinnovato dibattito: sempre in bilico tra una costante tensione tra impegno europeista e risentimento per il trattamento di serie B riservato ai paesi di nuova adesione da alcuni Stati membri. A Est di Vienna, non hanno dimenticato i toni forti del dibattito, ricordato poc’anzi, sui possibili effetti negativi dell’allargamento al mercato del lavoro dell’Europa a 15; non hanno dimenticato le polemiche sui ritardi nell’attuazione dello Stato di diritto, sulla libera circolazione delle persone e sull’adesione allo Spazio Schengen (ancora precluso a Romania e Bulgaria, per il veto dei paesi Bassi e le perplessità di altri Stati membri). Hanno mal digerito i “no” a un piano finanziario di salvataggio europeo a favore di alcuni paesi di nuova adesione pesantemente colpiti dai primi contraccolpi della crisi economica del 2008 e sopportano con pazienza, mista a irritazione, i tentativi di scaricare sui Peco la scarsità di liquidità delle banche dell’Europa a 15. Ma la relazione con l’Europa resta la “stella Polare” della loro politica estera, anche economica, e diventa comunque l’unico viatico per rafforzare il profilo internazionale di una regione europea rimasta per tanti anni ai margini delle decisioni che contano. Non solo: la pressione proveniente dall’Europa è vista anche come la garanzia per


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una continua modernizzazione dello Stato, per riforme radicali nel settore della giustizia e per il rispetto dei diritti dell’uomo e della democrazia più in generale. Pochi o nessuno, a Est, immaginano uno smantellamento dell’Europa che oggi conosciamo. Per molti di loro sarebbe un incubo e un ritorno ai fantasmi del passato. Semmai, i segnali che provengono da questa regione sono chiari e univoci: la crisi dell’euro è una crisi interna all’eurozona ed esterna all’Ue (i titoli tossici americani) ed è in questo contesto che essa va affrontata, non con proposte di Europa a due o altre velocità. Sono i paesi più forti economicamente della vecchia Europa che hanno il compito di tirare fuori l’Europa intera dalla palude in cui si trova. A Varsavia come a Sofia, a Bucarest come a Praga è un solo “appello” a Berlino e, in subordine, a Parigi: è l’ora delle decisioni importanti per ridare un futuro concreto al sogno europeista dei padri fondatori. Parafrasando il coraggioso e visionario discorso del ministro degli esteri polacco, già ricordato, «è il momento, per la Germania, di agire per il benessere di tutti noi europei: ho oggi meno paura del potere d’azione della Germania di quanto inizi a temere la sua passività. Come polacco e come europeo dico oggi qui, a Berlino, che è venuta l’ora di muoversi». Le parole del ministro Sikorsky sono condivise, senza se e senza ma, da tutti gli statisti dei Peco e la soluzione più gettonata per su-

perare la crisi economica è quella di creare una struttura federale forte e in grado di reggere agli sbalzi di un’economia sempre più instabile. Essi sostengono che il sistema economico, nel quale i governi nazionali si trovano a operare, stia diventando sempre più aggressivo e i soggetti “più deboli” (come la maggior parte dei paesi membri dell’Ue presi singolarmente) potrebbero essere esclusi dalle decisioni che contano a livello globale. Bando dunque ai dubbi e alla incertezze perché la più grande minaccia alla sicurezza e alla prosperità dell’Europa intera è il collasso dell’eurozona. A Berlino, dal canto loro, le posizioni sono sufficientemente chiare, anche se, a oggi, la cancelliera Merkel non ha ancora preso una posizione ufficiale sulla soluzione più adatta a salvare l’euro. Al momento, si è limitata ad affermare che la risposta alla crisi è certamente una politica fiscale comune ai 17 Stati membri dell’Eurozona. A ciò, sarà necessario aggiungere una serie di regole nuove, anche fino a una riforma dei Trattati esistenti, che prevedano un controllo rafforzato delle istituzioni europee sui bilanci nazionali e eventuali sanzioni correttive o punitive, per evitare che un paese membro si allontani dal rigore imposto dalla situazione di crisi. Si tratta di vedere come reagirà la Francia di fronte a questa strategia tedesca che prevede, nemmeno come ultima istanza, una modifica del Patto europeo a discapito della sovranità dei singoli Stati mem-

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bri. E si tratta anche di vedere in ginate e che certamente darà voce che modo sarà gestito il rapporto a coloro che vedono sempre più tra Stati membri, istituzioni eu- concreta la possibilità di un’Europee e Banca centrale europea. ropa che proceda verso il futuro Alcuni esperti infatti ricordano senza il Regno Unito. Non sapche già oggi il Trattato di Lisbo- piamo, a questo punto, quali sana prevede una serie di meccani- ranno gli scenari europei prossismi innovativi per far fronte alle mi venturi. Noi non possiamo far eventuali esigenze di una “mag- altro che unirci ai tanti che speragioranza qualificata” di Stati op- no in un rilancio dello “spirito pure per far fronte a eventuali europeo” dei Padri fondatori. emergenze dell’eurozona25. Sem- Non è infatti l’ora delle recrimipre gli stessi esperti, temono che nazioni: ai tanti analisti tedeschi le pressioni derivanti dai tempi che si trincerano in una sorta di della crisi possano indirizzare le “torre d’avorio” da cui guardare modifiche più a favore di un con sufficienza i popoli del Sud ed Est-Europa, che maggiore controllo hanno sperperato degli Stati membri Dobbiamo rilanciare per anni, a spese (o di alcuni di loro) che agirebbero quello “spirito europeo” della Germania, si potrebbero cona stretto contatto che aveva ispirato trapporre i malucon la Bce (che, sia mori degli agricolpure indipendente, i Padri fondatori tori italiani, che è comunque gesti- negli anni Cinquanta per anni hanno fita da persone nominate dagli Stati membri) per nanziato la sopravvivenza delrispondere, tempestivamente, l’agricoltura francese e tedesca; si agli input provenienti dai merca- potrebbero aggiungere le proteste ti. Una possibile “risposta politi- dei produttori di latte nostrano, ca” alle difficoltà che l’Ue sta at- che per anni hanno dovuto accettraversando che però manchereb- tare condizioni forse non proprio be, secondo i più, di quel tratto in linea con le leggi del mercato. democratico che, invece, viene Ma ci infileremmo in un vicolo oggi invocato a gran voce. Nel cieco e non è nostra intenzione momento in cui scriviamo si è farlo. Del resto, la stessa cancelappena concluso il Consiglio eu- liera Merkel, proprio mentre stiaropeo del 9 dicembre 2011 che mo scrivendo, riconosce l’imporha deciso di procedere a un nuovo tanza del contributo dei Peco alla Accordo intergovernativo tra i 17 stabilità dell’eurozona e la rilepaesi dell’eurozona e altri 9 paesi vanza dei sacrifici fatti dalle pomembri dell’Ue26. Un accordo polazioni di quei paesi, spesso cui l’Europa è stata costretta per trascurati nelle analisi politiche la forte opposizione britannica. ed economiche. Vale anche la peUn risultato che riaprirà molte na ricordare che, dopo 54 anni di “ferite” che si considerava rimar- comune appartenenza europea,


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l’economia tedesca è talmente in- messo in discussione non solo la tegrata con il resto dell’Ue che sopravvivenza stessa dell’Ue in immaginare solo ipotesi alternati- quanto tale, ma anche le basi delve darebbe luogo a veri e propri la solidarietà europea e il benesseincubi ai governanti e agli opera- re dei cittadini, richiede una ritori economici tedeschi. Ricor- sposta politica forte e al tempo diamo infatti che il 61% delle stesso partecipativa. La sfida è esportazioni della Germania si globale e globali devono essere i indirizza verso l’Ue e un altro rimedi, senza dimenticare che, 15% si dirige verso paesi che con come ha scritto Habermas: «l’Eul’Ue hanno accordi di associazio- ropa è innanzitutto un progetto ne. Tra i primi 15 partner com- di civiltà che non può fallire». merciali tedeschi, solo Cina, Usa Concordiamo appieno con il giue Giappone non sono europei. dizio del filosofo tedesco anche Stesso discorso vale per gli inve- perché al progetto europeo, con i stimenti: tra i primi 10 paesi in- suoi valori, i suoi ideali e le sue architetture sociavestitori in Germali, guardano in nia, nessuno è ex- Come scriveva molti, a iniziare tra-europeo. Da dai nostri vicini n o n t r a s c u r a r e Habermas: «L’Europa più prossimi, coinoltre i benefici è innanzitutto me i Balcani occiderivanti alla Gerdentali, la Turchia mania dall’apparte- un progetto di civiltà e la sponda sud nenza al Mercato che non può fallire» del Mediterraneo. unico europeo, sia in termini di facilitazione della La storia d’Europa è stata sempre circolazione delle merci e delle una storia di valori umani: dalle persone, ma anche di norme in antiche civiltà greche e romana, materia di appalti pubblici, servi- al Medioevo e al Rinascimento zi bancari e finanziari, assicura- italiano fino alla Rivoluzione zioni, trasporti, telecomunicazio- francese e ai movimenti liberali ni, etc. Una rete di interessi così del ventesimo secolo. La Rivoluintrecciata che è davvero difficile zione industriale e il Positivismo per chiunque, ormai, farne a me- hanno spinto questo movimento di civiltà verso le regole del Capino. Si prospettano tempi importanti talismo, che sembrano permeare per l’Europa e tutti i suoi compo- ormai la nostra vita quotidiana. nenti, nessuno escluso, dovranno Occorre andare oltre questi princontribuire alla identificazione di cipi, “filtrando” la pur corretta risoluzioni e alla loro attuazione. cerca del profitto con il rispetto Così come importante sarà il della dignità umana. coinvolgimento dei cittadini Per chiudere, citiamo le parole dell’Unione alla sua vita e alle dell’ex-Commissario europeo sue attività istituzionali. La crisi Emma Bonino: «Tante sono le economica e finanziaria, che ha sfide che l’Europa potrebbe rac-

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cogliere con ambizione, altrettante sono le sue reticenze, i suoi timori, le sue esitazioni. Si sprecano le analisi sul declino europeo, si declamano gli obiettivi altisonanti di Lisbona, si dichiara di riconoscere la necessità di adeguarsi alla sfida cinese o indiana: una lunga serie di vuoti proclami se non si trova la forza d’imprimere una svolta radicale alla routine di una blanda gestione dell’esistente». Non dimentichiamo che il termine Europa deriva dal greco e significa «essere dai grandi occhi». Auguriamoci che l’Europa di domani riesca a “vedere” la strada migliore e se essa è un “club di valori”, è giunto il momento che tutti i suoi soci cooperino, con impegno e con pari dignità, alla loro affermazione.

L’Autore Mario cospito Funzionario del ministero degli Affari esteri. Le opinioni espresse in questa analisi sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo l’amministrazione di appartenenza.

Note 1

Particolare scalpore suscitò la campagna pubblicitaria in Francia contro la possibile invasione di idraulici polacchi, molto meno cari e meno tutelati dei colleghi francesi. Campagne simili furono scatenate anche nei Paesi Bassi e in Scandinavia. Quei timori si sono dimostrati inconsistenti, così come del resto era già successo molti anni prima al momento dell’adesione di Spagna e Portogallo. 2 La direttiva Bolkestein (direttiva 2006 /123/CE) ha come obiettivo quello di facilitare la circolazione di servizi all’interno dell’Unione europea per rilanciare l’occupazione ed il Pil dell’Unione stessa. La direttiva Bolkestein si inserisce altresì nello sforzo generale di far crescere competitività e dinamismo in Europa per rispettare i criteri della Strategia di Lisbona. 3 Grazie anche al fattivo contributo del Parlamento europeo e ad un’attenta attività di informazione della Commissione europea, la direttiva Bolkestein è stata recepita da tutti gli Stati membri senza suscitare problematiche di particolare rilievo. 4 Dal discorso davanti al Parlamento croato, 14 luglio 2011. 5 Tratto da L’Europa che verrà, di Gianfranco Fini e Carlo Fusi, Fazi Editore 2003. 6 Es ist wahr: Europa ist kein Christenklub. Aber wahr ist auch: Europa ist ein Grundwerteklub. Hier bei uns gelten Menschen - und Bürgerrechte. Diese Menschen - und Bürgerrechte beruhen bei uns ganz wesentlich auf dem Menschenbild des Christentums. Tratto dal discorso al 20mo anniversario della Federazione della Cdu, Dresda, 27 novembre 2006. 7 L’Anima Perduta dell’Europa, La Stampa, 7 giugno 2009. 8 Si riporta anche una parte del discorso del presidente della Repubblica Napolitano in occasione della sua visita in Repubblica Ceca: «L’Unità europea è certamente perfettibile e deve mostrare capacità di adattarsi alle circostanze sopravvenute, ma è la base di cui i nostri popoli, oggi, non potrebbero fare a meno. Il rapporto fra Europa e cittadini soffre di assuefazione: viene dato impropriamente per scontato, mentre è frutto di un lungo travaglio e di progressiva maturazione, basti pensare alla crescita del ruolo del Parlamento Europeo. Pesano tuttavia insufficienze e limiti nello sviluppo dell'azione comune e del rapporto tra istituzioni europee e comunità nazionali. Si impone indubbiamente un rinnovato slancio, degli Stati


LA FINE DELL’EUROPA? Mario Cospito

come delle istituzioni, per riavvicinare i cittadini all’Europa e per fare fronte a nuove sfide decisive per l’Europa». 9 Molti statisti europei e personaggi di rilievo sono intervenuti sull’argomento. Ognuno, a suo modo, ha perorato la causa degli Stati Uniti d’Europa anche attraverso riforme radicali all’interno dei singoli Stati membri. Interessante, sull’argomento, l’intervento al Parlamento europeo dell’ex-ministro tedesco Joshka Fischer il 12 gennaio 2011. 10 Intervento del presidente della Repubblica ai parlamentari europei italiani, Quirinale, 25 settembre 2009. 11 Vedi ad esempio l’analisi di Andreas Maurer, in The European Parliament after Lisbon del 31 maggio 2008. 12 Vedi al riguardo il saggio di Francesco Farina L’Integrazione e la Diversità. Quale modello sociale per l’Europa?”, Il Mulino 2005. 13 Va sottolineato, ad onor del vero, che il flusso di Ide verso i Peco non è paragonabile al flusso di Ide intra-Ue a 15. L’integrazione avanzata registrata sul fronte del Commercio intra-Ue non è quindi comparabile con quella raggiunta a livello di investimenti intra-Ue. Un dato su cui i futuri governanti europei dovranno riflettere. 14 Nel caso della Repubblica Ceca raggiunge l’83%, della Slovacchia l’82% e della Polonia il 76%. Per maggiori informazioni al riguardo si veda il saggio dello Scrivente Gli Effetti sull’Economia Italiana dell’Apertura al Mercato dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale, Carocci Editore 1996. Comunque, anche l’Europa a 15 ha visto più che raddoppiare la sua quota di esportazioni verso i Peco, mentre l’Italia si è affermata in questa area come il secondo partner commerciale, dopo la Germania. 15 L’intero budget comunitario per il settennato 2007-2013 ha previsto circa 347 miliardi di euro per le politiche di sviluppo regionale. 16 Non bisogna dimenticare inoltre gli interventi di assistenza tecnica, formazione e cooperazione adottati da ogni singolo Paese membro dell’Ue a 15 Nel caso dell’Italia, si citano la Legge n. 91/92 sulle aree di confine, la Legge n. 212/92 sull’assistenza ai Peco e la Legge n. 84/2001 sui paesi dei Balcani. 17 In Romania, sono soltanto 220 i km di autostrade, di cui solo la metà costruiti con i fondi europei. Scarsissimi i progressi anche nel settore ferroviario. 18 Si veda ad esempio l’opinione di Galli della Loggia in Pensare l’Italia, Einaudi 2011. Secondo l’autorevole storico, “l’allargamento

dell’Ue ad Est è stato un fattore negativo… e non mi è facile capire come sia stato possibile commettere un tale errore. Fatto sta che oggi in Europa l’Italia conta ben poco. Tutto ciò mi sembrerebbe ancora accettabile se almeno fosse servito ad avvicinarci alla nascita di un’Europa politica: che invece oggi appare da ogni punto di vista un obiettivo più lontano che mai”. 19 Si veda, ad esempio, il discorso del ministro degli esteri polacco, Radoslaw Sikorski, a Berlino il 28 novembre 2011. Egli con orgoglio ha affermato in quell’occasione «Today Poland is not the source of problems but a source of European solutions». 20 Vedi il saggio Offshoring Opportunities Amid Economic Turbulence, A.T. Kearney 2011. 21 Vedi The Future of Europe: a Stronger Union or a Smaller One?, TIME, 12 agosto 2011. 22 Nell’incontro con il presidente degli Usa Barack Obama, Van Rompuy ha testualmente affermato: «At the next European Council (ndr: 8-9 dicembre 2011) I will present to the heads of state and government a roadmap on how to strengthen the economic union of the euro area commensurate with our monetary union. We are aiming for binding rules to ensure strong fiscal and economic discipline in all countries, to go hand in hand with fiscal and economic integration - not only discipline, but also integration in the euro area as a whole». 23 I fautori di tale idea non si contano solo tra gli europei: il premio nobel americano Robert Mundell già nel 1999 sosteneva infatti che «l’Europa avrebbe dovuto muoversi presto verso un modello federale di tipo americano». 24 Vedi ad esempio il discorso tenuto dal presidente di Romania, Traian Basescu davanti agli ambasciatori romeni, il 31 agosto 2011. 25 L’articolo 126 del Trattato per il funzionamento dell’Ue prevede, ad esempio, che gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi e stabilisce la procedura da seguirsi in caso di disavanzi eccessivi, mentre l’articolo 136, par. 1, lett. a), prevede la possibilità di adottare misure specifiche concernenti gli Stati membri la cui moneta è l’euro al fine di rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio. 26 Svezia, Repubblica Ceca e Ungheria hanno aderito dopo aver consultato i rispettivi parlamenti nazionali. Quindi, solo il Regno Unito ha deciso di non accettare le condizioni poste con il nuovo accordo intergovernativo.

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LA FINE DELL’EUROPA? Pasquale Giordano

Così è nata la moneta unica Prima fautrice dell’unione monetaria fu la Germania. Pur avendo al proprio interno un forte sentimento di euroscettiscismo, i tedeschi si resero pragmaticamente conto che era necessario mantenere sotto controllo le svalutazioni delle altre monete nazionali, per non svantaggiare le proprie esportazioni. Questa è l’origine del sistema monetario europeo. di PASQUALE GIORDANO

Il secondo conflitto mondiale, il più sanguinoso e cruento tra le guerre combattute nel vecchio continente, aveva lasciato sul campo milioni di morti e consegnato alla Storia una profonda cicatrice che, da «Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico», feriva e umiliava il corpo d’Europa. Al di qua «il mondo libero», al di là «la sfera di influenza sovietica». Gli Stati Uniti erano convinti che senza il riarmo della Repubblica federale tedesca, gli europei non avrebbero saputo opporsi all’avanzare sovietico. Un pensiero, quello statunitense, che agitava il sonno dei governanti francesi, preoccupati che la riorganizzazione della potenza industriale e militare dei vicini di casa potesse mettere in pericolo i pro-

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pri confini oltre che la propria economia. Il colpo di genio diplomatico venne a Jean Monnet, politico francese, cosmopolita con entrature alla Casa Bianca (era stato consigliere di Roosevelt) e nei salotti buoni del nascente potere europeo. Monnet era convinto che l’unico modo che la Francia avesse per esercitare un primato sull’Europa, fosse quello di controllare la rinascita economica tedesca, mettendo sotto l’egida di un’alta autorità il controllo del carbone e dell’acciaio, conteso con i tedeschi stessi. Redasse, quindi, un documento e lo passò nelle mani del ministro degli esteri francese, Robert Schuman. Alle sedici del 9 maggio 1950, nella sala dell’orologio del ministero degli esteri francese


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al Quai d'Orsay di Parigi, venne nità economica europea (Cee). La letta la Dichiarazione Schuman, via sembrava tracciata, ma a diil primo documento che menzio- stanza di qualche anno la Francia nava il destino comune dell’Euro- cambiò il passo, imponendolo al pa. Da questo preambolo comin- resto d’Europa. ciò il processo di integrazione eu- Mosso dalla convinzione che Paropea e fu chiaro a tutti che nulla rigi dovesse esercitare un controlsi sarebbe potuto senza l’appog- lo sull’intera Europa, Charles De Gaulle, nel 1960, propose che gio di Parigi e Bonn. L’idea di Monnet era quella di su- l’integrazione fosse di tipo interperare le resistenze nazionaliste governativa, un’Europe des États della politica attraverso lo sche- (Europa degli Stati), in cui i goma funzionalista. Ogni paese – verni nazionali mantenessero amsemplifichiamo per esigenze di pi poteri e soprattutto potessero sintesi – avrebbe via via ceduto esercitare il dissenso opponendosi un pezzo della propria sovranità al volere europeo. Non concepiva l’idea che potesse ad un organismo essere governato sopranazionale, fi- De Gaulle propose da un ente sovrano a quando il processo non fosse di- un’integrazione di tipo nazionale e che la difesa del suolo venuto irreversibi- intergovernativo. Non francese fosse dele e non vi fosse mandata alla Nastato altro sbocco concepiva l’ingerenza to, quindi al conche non portasse a di enti sovranazionali trollo americano. una politica comune, meglio ancora se federalista. Quel suo sentimento di grandeur Monnett aveva ben presente che, incontrò, però, le resistenze di ogni volta che un interesse gene- Walter Hallstein, politico tederale avesse leso un interesse na- sco e primo presidente della zionale, il processo di integrazio- Commissione europea, che invece ne si sarebbe arrestato. Tuttavia sosteneva la visione di un’Europa la convinzione che, di fronte agli federale, con una Commissione e enormi vantaggi che si sarebbero un Parlamento forti, da contrapavuti dallo stare insieme, nessu- porre agli Stati nazionali, orientano avrebbe mosso critiche so- ta in materia di difesa comune stanziali lo portò a commentare verso il patto Atlantico. Preoccula nascita della Ceca con l’escla- pato com’era di perdere la guida e mazione: «hanno preso il via gli il controllo della politica agricola Stati Uniti d’Europa». Erano an- comunitaria (Pac) – pilastro della ni di grandi speranze e nel vec- Cee e mercato indispensabile per chio continente si lavorava per l’economia nazionale dato che il creare un mercato comune euro- 71% dei francesi svolgeva attività peo. Si partì con l’euratom e con direttamente riconducibili alil Trattato di Roma, con il quale l’agricoltura – De Gaulle prima venne istituita di fatto la Comu- fece bocciare la richiesta del Re-


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gno Unito di far parte della Cee che era necessario mantenere sot(1963), considerando Londra co- to controllo le svalutazioni delle me la voce statunitense in Euro- altre monete nazionali, per non pa, poi richiamò a Parigi la dele- svantaggiare le proprie esportagazione francese che, nel 1965, zioni: nacque così il Sistema moavrebbe dovuto votare per un raf- netario europeo. Si decise di istiforzamento dei poteri della Com- tuire l’Ecu, una moneta composimissione guidata da Hallstein. Si ta con due bande di oscillazione: trattò della crisi della sedia vuota, una stretta del 2,25% e una larga che condannava a uno stallo isti- del 6%, entro le quali le monete tuzionale l’intero sistema e che si nazionali potevano fluttuare. risolse solo nel 1966 con il com- L’adesione al sistema monetario, promesso di Lussemburgo, con il come detto, comportava una rigiquale veniva sancito il potere di da politica di contenimento delveto di ogni singolo Stato a qual- l’inflazione e di riduzione del desiasi proposta che scalfisse inte- ficit pubblico. Uno sforzo sovraumano che fu sinteressi nazionali. Agli inizi degli an- Negli anni ’70 l’Europa tizzato dal socialista Francois Mitni Settanta, da olterand. «Non siatreoceano arrivò capì la necessità l’eco del discorso di un’unione monetaria, mo più i padroni della nostra stessa di Richard Nixon politica – disse il con il quale veni- anche per porre un vano sciolti gli ac- freno alla svalutazione francese –. Rimanendo nello Sme cordi di Bretton Woods del 1941 e per l’Europa si noi siamo di fatto condannati alla fece sempre più stringente la ne- politica di un cane che si suicida cessità di una unione monetaria. nuotando contro la corrente. Per Si abbozzò il serpente monetario il profitto della sola Germania». per cercare di porre un freno alle Mitterand negli anni Ottanta atcontinue svalutazioni delle mo- tuò politiche di stampo keynesianete nazionali. Fautrice di questa no antitetiche allo spirito rigido politica fu soprattutto Bonn che dello Sme, che per due volte porpretese e impose l’egemonia della tarono a una svalutazione del Bundesbank sulla politica mone- franco quasi superiore al 10%, taria europea. Pur avendo al pro- ben oltre la banda larga prevista. prio interno un forte sentimento Fu la fine dello Sme, ma non vendi euroscetticismo, alimentato ne mai meno la stretta collaboradalla consapevolezza di avere con- zione franco-tedesca, retta nelle ti pubblici in regola e di poter mani dell’asse Kohl-Mitterand, contare sul “Super Marco” (passa- sul quale un decennio dopo si alto da un cambio di 4,20 marchi lungheranno i sospetti di tangenti per dollaro del 1971, a uno di e di finanziamenti illeciti alla 1,76 del 1978), i tedeschi in ma- campagna elettorale del 94 del niera pragmatica si resero conto cancelliere. Il “motore europeo”

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per tutto il nono decennio del ‘900 fu così rappresentato dalla triade Helmut Kohl, François Mitterrand e Jacques Delors, quest’ultimo presidente della Commissione europea, che portò nel 1986 alla firma dell’Atto unico. Un equilibrio destinato a tramontare sul finire degli anni Ottanta, quando dinnanzi ad Helmut Kohl si palesò l’opportunità di riunificare la Germania. Il cancelliere intuì fin da subito che, se non inserita in un più ampio contesto di rafforzamento europeo, il ritorno a una Germania unificata avrebbe spaventato gli altri Stati europei e soprattutto gli Stati Uniti d’America. In più considerava l’Europa e la sua progressiva organizzazione politica e monetaria come un processo da plasmare sul modello tedesco con l’aiuto di Parigi. Tuttavia l’unica sponda fornita da Parigi era volta a “imbrigliare” la riunificazione tedesca nelle dodici stelle della bandiera europea. L’Eliseo vide nell’allora nascente Trattato di Maastricht (1992) la possibilità di rompere quel circolo vizioso che imponeva oneri fin troppo alti per i paesi che non si adeguavano alla politica economica della Bundesbank. Ciò nonostante, dopo la creazione dell’Istituto monetario europeo, venne deciso di creare la Banca centrale europea (Bce) a immagine della Banca centrale tedesca. Furono distinte due ulteriori tappe nel processo di creazione di una moneta unica europea. Dapprima le monete nazionali sarebbero continuate a circolare, pur se legate a tassi fissi

con il futuro euro, in seguito sarebbero state sostituite dalla moneta unica. Dietro pressione tedesca venne sottoscritto nel 1997 il Patto di stabilità (Psc) che obbligava i paesi in odore di Eurozona a rispettare nel tempo i parametri in materia di bilancio dello Stato: deficit pubblico non superiore al 3% del Pil; debito pubblico al di sotto del 60% del Pil o, comunque, tendente al rientro, come sancito per venire incontro all’Italia e al Belgio. Furono previste sanzioni pesanti per i contravventori, ma nel momento in cui furono proprio Francia e Germania, nel 2003, a macchiarsi dell’onta di eludere quanto sancito dal Psc, nessuno fu in grado di imporre una sanzione, né a Parigi né a Berlino. Il vespaio di polemiche che seguì, costrinse nel marzo del 2005 l’Ecofin ad ammorbidirne le norme per renderlo più flessibile. Passano gli anni, nessuno dei due Paesi mostra sinceri passi per rientrare nei parametri di stabilità. Intanto nel mondo si va profilando una lunga crisi che dagli States rimbalza all’altra sponda atlantica. Da Washington l’attenzione viene spostata sulla Grecia e uno alla volta vengono attaccati i paesi periferici dell’eurozona. Taluni, che sono abituati a ragionare con i se e con i ma, ritengono che sarebbe bastato a Parigi e Berlino correre in soccorso di Atene per scongiurare il rischio contagio. Tanto più se si tiene conto che le banche maggiormente esposte erano e sono proprio quelle francesi e tedesche.


LA FINE DELL’EUROPA? Pasquale Giordano

Dipinta dai media europei come fosse una predestinata all’appuntamento con la storia, il cancelliere Angela Merkel ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso la responsabilità di dover salvare l’euro. Tuttavia le è toccato in sorte il ruolo del condottiero, di chi deve decidere il destino di qualche centinaio di milioni di europei. A leggere i quotidiani tedeschi, il cancelliere non sta facendo altro che non sia il suo compito, ovvero traghettare l’Europa fuori dalla tempesta, assoggettando gli altri paesi al volere tedesco. Il cancelliere per un po’ ha condiviso il compito con Sarkozy, ma col passare dei mesi anche il presidente francese è stato alle prese con il crollo del consenso e ha dovuto lasciare la scena alla sola Germania. Dismesse le vesti del condottiero, Sarkozy ha indossato quelle dell’uomo politico indaffarato, prima di ogni altra cosa, a mantenere alto il proprio gradimento in vista della campagna presidenziale del 2012. La strategia del presidente francese è stata quella di proporsi agli occhi dei connazionali come il nocchiero che governa la nave durante la tempesta, quindi meritevole di glorie e di parate in tempo di quiete. Arrivata al supervertice europeo di dicembre con gli occhi del mondo puntati addosso e con nelle orecchie le raccomandazioni del Presidente Obama, la Merkel ha lasciato Bruxelles con una vittoria insperata. Ha abbozzato un sorriso salvo poi imporre finanche le virgole a tutti, persino a Parigi. In cambio ha lasciato che fossero

altri a trovarsi nella condizione di dover spiegare le proprie scelte. La ricetta tedesca per uscire dallo stallo è quella di irrigidire i controlli e le sanzioni nell’ambito di un rinnovato Patto di stabilità (che ha perso per strada la crescita), puntando dritti verso un’unione fiscale. In sostanza tutti i 26 paesi firmatari si impegnano, in tempi più o meno stretti, a introdurre nelle proprie costituzioni la regola del pareggio di bilancio, ispirata al modello tedesco, con sanzioni che si preannunciano inclementi nei confronti degli esecutivi che sforano il 3% del rapporto deficit Pil. La prima a pagare potrebbe essere proprio la Francia che dal 2003 naviga in acque torbide (rapporto deficit/Pil del 7% nel 2010 (fonte: Eurostat). Perso l’appoggio della spalla italiana, a Parigi rimaneva l’altra sponda della Manica per cercare di contenere i diktat berlinesi. La scelta di Cameron di non sottoscrivere la germanizzazione della Gran Bretagna, quindi, è un colpo sotto la cintola per la Francia e la mancata stretta di mano tra il premier inglese e quello francese, a margine del vertice europeo, potrebbe raccontare proprio questo. L’Autore pasquale giordano Studente di Scienze politiche e relazioni internazionali. Si occupa di politica, comunicazione politica, storia dell'Unione europea, rugby. Collabora con FareitaliaMag e NotaPolitica.

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L’Atlantico più piccolo della Manica

Gran Bretagna, dentro o fuori Questi due obiettivi, l’indipendenza da un lato e il costante raggiungimento dell’interesse nazionale dall’altro, sono spesso la causa di numerose crisi all’interno non solo dello stesso Parlamento, ma anche della società civile. da LONDRA MICHELE BELLABARBA

Esiste un’espressione in Gran Bretagna per la quale «l’oceano Atlantico è piu piccolo del canale della Manica». In pratica ci si riferisce alla grande distanza politica e culturale che separa la Gran Bretagna dal resto del contintente europeo, rispetto alle relazioni transatlantiche con gli Stati Uniti d’America, storicamente sempre molto strette e in sincronia. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’allora prima ministro Churcill disse esplicitamente che i tre principali obiettivi della politica estera del Regno Unito per il dopoguerra sarebbero stati la protezione e lo sviluppo del Commonwealth, i rapporti transatlantici con gli Stati Uniti e, in ultimo, non a caso, i rapporti con l’Europa. Dopo più di sessant’anni, questa concezione geopolitica non è mai realmente cambiata.

La Gran Bretagna si trova oggi a dover combattere una guerra tutta interna tra quel senso di indipendenza e di libertà che l’ha sempre contraddistinta e l’inevitabile pragmatismo di rimanere all’interno dell’Unione europea sopratutto per proteggere come spesso si dice, il proprio interesse nazionale. Questi due obiettivi, l’indipendenza da un lato e il costante raggiungimento dell’interesse nazionale sono spesso la causa di numerose dall’altro, crisi all’interno non solo dello stesso Parlamento ma anche della società civile. L’Unione europea è stata sempre croce e delizia per gli inglesi: nel 1960 ostacolarono lo sviluppo dell’Unione attraverso la creazione di una entità intergovernativa per lo sviluppo del libero scambio, l’Efta (Associazione europea per il libero scambio). Questa era

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un’associazione che avrebbe do- suo predecessore all’ingresso del vuto svilupparsi e prosperare a Regno Unito come stato memdiscapito dell’allora Comunità bro. economica europea. Obiettivo In questi ultimi sessant’anni la dell’Efta era facilitare la gestione Gran Bretagna è stata uno dei del libero scambio di merci e ser- principali promotori dell’Europa vizi tra i paesi associati, lascian- allargata ai paesi dell’Europa deldo comunque in mano ai governi l’Est e del famoso Big Bang del nazionali la sovranità della ge- 2004 con l’ingresso di dieci nuostione di tutte le altre politiche vi paesi membri. Questo perchè un’Europa allargata significa sociali ed economiche. All’interno della Comunità eco- un’Europa più difficile da coordinomica europea, al contrario, nare, spingendola sempre più stava in parte già profilandosi verso un sistema prettamente inuno scenario nel quale i paesi tergovernativo. membri avrebbero rinunciato al La serie dei nuovi trattati, e delle modifiche di quecontrollo di polisti, che negli ultitiche che fino ad La Gran Bretagna è mi decenni hanno allora erano state esclusiva preroga- un paese fondamentale portato alla ratifica del trattato di Litiva dei governi per l’Unione europea, sbona entrato in nazionali, per lavigore nel 2010 sciare quindi la e lei stessa (molto simile nella loro gestione in ha bisogno dell’Ue sostanza alla promano a una istituzione sopranazionale, la Com- posta, poi rifiutata da Francia e Olanda di una Costituzione euromissione europea. Ovviamente uno scenario del ge- pea) ha visto la Gran Bretagna nere non era visto di buon occhio sempre più coinvolta nell’inevitadalla Gran Bretagna, consideran- bile processo di integrazione Eudo anche il fatto che la gestione e ropea. lo sviluppo della Comunità eco- Anche se con diversi importanti nomica europea veniva vista co- aut-aut (come per esempio il me un prerogativa quasi esclusi- trattato di Shengen) che permettono a Londra di mantenere il va dell’asse franco-tedesco. Al contrario delle previsioni, controllo di alcune politiche l’Efta non funzionò bene come la chiave, è chiaro a molti ormai Cee, tanto da indurre la Gran che l’ingerenza di Bruxelles sia Bretagna, dopo due tentativi fal- diventata un elemento che neanliti per il doppio veto di De che il governo più intransigente Gaulle, a entrare finalmente nel- e conservatore può fare a meno di la Comunità economica europea evitare. nel 1972, una volta che all’Eliseo Ulteriori contigenze politiche era salito Georges Pompidou, esterne hanno spinto Londra molto più disponibile rispetto al svogliatamente verso un dialogo


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più stretto con i suoi partner Eu- sta della modifica del trattato di ropei. In particolare, l’elezione Lisbona a Dicembre del 2011. di Barack Obama alla presidenza Tale modifica avrebbe comportadegli Stati Uniti d’America, ha to una migliore cooperazione e portato gli Stati Uniti a intera- gestione delle politiche fiscali gire in maniera diversa con il dei paesi membri (leggi paesi suo alleato inglese; Obama stes- dell’eurozona), dando quindi ineso ha ripetutamente espresso il vitabilmente maggiore potere di desiderio di vedere un’Unione controllo alla Commissione. europea più coesa e più unita Come il Primo ministro inglese (sottinteso sempre che ciò non Cameron si è costantemente provada a discapito dell’interesse digato di riaffermare nelle recenamericano) includendo in questo ti interviste rilasciate ai giornali suo discorso anche Londra. di mezzo mondo, le ragioni del L’amministrazione Obama, spe- suo veto derivano dalla sua vocialmente all’inizio del suo man- lonta di difendere «l’interesse della Gran Bretadato presidenziale, gna». sembrava predili- Cameron ha difeso La domanda che gere il rapporto ci si pone tuttavia con l’Unione euro- l’interesse finanzario è: quale interesse? pea piuttosto che dell’Inghilterra per Per Cameron, stimolare, come «l’interesse è soall’epoca di Bush, evitare ripercussioni pratutto quello un dialogo pretta- sul mercato del lavoro della protezione mente bilaterale del settore finanziario da una eccon i singoli stati. La recente crisi scoppiata all’in- cessiva tassazione», che in un terno dell’Unione europea, e in paese come la Gran Bretagna particolare nell’eurozona ha ine- porterebbe a delle serie ripercusvitabilmente riacceso quella sioni sopratutto nel mercato del spinta quasi anti-europeista che lavoro essendo il settore finanziain un certo qual modo si era as- rio parte fondamentale non solo sopita negli ultimi anni (più dell’economia del paese, ma anche altro nella società civile ma che un settore che da lavoro a certamente non nell’ambiente una grossa percentuale della popolitico e nei media nazionali polazione nazionale. dove questi ultimi hanno conti- Questa motivazione, cosi come nuato a dipingere Bruxelles co- spiegata dal Primo ministro, me un’enorme macchina man- presenta tuttavia tre elementi gia-soldi che limita la libertà e controversi: il primo è proprio attacca le tasche dei sudditi di la difesa del settore finanziario (anche dopo la recente crisi nel sua Maestà). L’apice della crisi è stato proba- settore bancario inglese con rebilmente raggiunto con il veto lativi salvataggi effettuati dal della Gran Bretagna sulla propo- Tesoro attraverso il denaro del-

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IL PERSONAGGIO

Un’Europa unita per la vera pace

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Winston Churchill, ex ufficiale dell’esercito, corrispondente di guerra e primo ministro britannico (dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955), fu uno dei primi ad invocare la creazione degli “Stati Uniti d’Europa”. Dopo l’esperienza della seconda guerra mondiale, si convinse del fatto che solo un’Europa unita avrebbe potuto garantire la pace. Il suo obiettivo era quello di eliminare una volta per tutte gli antichi vizi europei del nazionalismo e del bellicismo. Nel famoso ‘Discorso alla gioventù accademica’ tenuto all’Università di Zurigo nel 1946, Churchill formulò le conclusioni che aveva tratto dalla lezione della storia: “Esiste un rimedio che .... in pochi anni renderebbe tutta l’Europa .... libera e ... felice. Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa possiamo ricostituire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà. Dobbiamo creare una specie di Stati Uniti d’Europa”. Fu così che la forza propulsiva della coalizione antinazista si trasformò in un promotore attivo della causa europea. Sir Winston Churchill divenne famoso anche come pittore e scrittore: nel 1953 gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura.

contribuente): questo settore infatti ha indubbiamente bisogno non solo di una maggiore (o migliore) regolamentazione, ma sopratutto di un più efficente sistema di tassazione; risulta quindi quanto affermato da Cameron una scelta in controtendenza con le necessità dell’economia reale, considerando il fatto che il sistema finanziario può produrre squilibri sopratutto a livello macroeconomico. Il secondo è il reale effetto che le misure avrebbero prodotto anche senza il veto all’interno dell’economia della Gran Bretagna, non essendo questa nell’Eurozona. Infatti per molti, le azioni intraprese come conseguenza della modifica del trattato non avrebbero portato a sostanziali cambiamenti a livello nazionale; al contrario l’azione propositiva britannica avrebbe dimostrato invece la buona volontà di Londra di fare la sua parte nell’aiutare i suoi partner continentali a superare la crisi. La modifica del trattato prevedeva infatti principalmente i seguenti punti: sanzioni automatiche per ogni paese membro in caso di superamento della soglia del 3% di deficit sul prodotto interno lordo: una regola comune che prevede all’interno dei paesi dell’eurozona un budget che controlli costantemente il deficit nazionale; il meccanismo di stabilità europea (Esm) anticipato al 2012 (e non al 2013 come originariamente previsto), con decisione presa a maggioranza qualificata; costante incontro mensile tra i leader dei


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Bellabarba

paesi membri fino al termine della crisi. Il terzo elemento deriva dal fatto che i restanti 26 paesi hanno deciso di procedere comunque (anche senza modifica del trattato) alla implementazione delle nuove regole, quindi paradossalmente Londra avrebbe avuto molto più potere di controllo “rimanendo dentro” al gruppo piuttosto che fuori come conseguenza del veto. Per tutto il 2011, molti esponenti del partito conservatore hanno messo in dubbio addirittura la presenza stessa della Gran Bretagna all’interno dell’Unione europea, sottolineando a più riprese la necessità di indire un referndum nazionale per fare chiarezza sulla posizione che il paese avrebbe dovuto prendere. Questo referendum non è mai stato confermato né totalmente smentito, considerando sopratutto il fatto che il governo di Cameron al momento si regge grazie a una coalizione con il partito Liberal-Democratico che come il suo leader Nick Clegg, europeista convinto ed ex deputato europeo, rimane un fermo sotenitore della partecipazione della Gran Bretagna all’interno dell’Unione europea. In quest’ottica, il veto di Cameron sulla proposta di modifica del trattato di Lisbona potrebbe essere letto più come una necessità politica interna per soddisfare il partito dei Tories, piuttosto che, come dichiarato ormai in diverse occasioni, per la difesa e la tutela dell’interesse nazionale. Come molti commentatori han-

Il Libro Educazione, famiglia, carriera: il premier britannico a tutto tondo David Cameron - Dylan Jones La mia rivoluzione conservatrice Pagine 2009, 312 pp., 16 euro D u ra n t e u n anno straordinario David Cameron si è incontrato regolarmente con Dylan Jones, il giornalista. Il leader conservatore ha affrontato ogni genere di argomento: dalle guerre in Afghanistan e Iraq fino alla sua missione di mettere punti fermi circa le sue convinzioni su quella che egli crede sia la società britannica in crisi. In queste pagine, Cameron parla (come mai ha fatto fino ad oggi) circa il suo retroterra, la sua educazione e la sua carriera e si dilunga approfonditamente, per la prima volta, sulla sua vita familiare - compreso l'impegno per prendersi cura di Ivan, il suo primogenito affetto da una grave disabilità- e del perché sua moglie, Samantha, che era stata una vera dura, abbia pianto durante il loro matrimonio. Si scopre cosa Cameron pensi sulle tasse, l'ambiente, il clima insieme con il Servizio Sanitario Nazionale, le scuole e l'immigrazione.

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no fatto correttamente notare, l’incassare il consenso dei parlamentari conservatori non solo ha prodotto una fortissima e forse irreparabile frizione con il partito Liberal democratico mettendo a serio rischio sia la tenuta del governo che una sua probabile rielezione, ma sopratutto ha esposto la Gran Bretagna a una posizione molto isolata rispetto a tutti gli altri partner europei. Probabilmente anche per portare calma e tranquillitià all’interno della sua coalizione, Cameron ha cercato dopo il veto (il primo per giunta nella storia delle relazioni tra Londra e Bruxelles) di rassicurare e confermare la piena partecipazione del suo paese all’interno dell’Unione e naturalmente la piena collaborazione come paese membro. In pratica, un colpo al cerchio e uno alla botte. Lo strappo però c’è stato ed è inevitabile che questa azione non porti in futuro delle conseguenze ancora difficili da prevedere. Rimane il fatto che proprio perchè il cosidetto interesse nazionale deve essere difeso, questa difesa deve avvenire difendendo l’euro, la sua tentuta e le economie dei paesi dell’eurozona, principali partner commerciali del Regno. Una crisi europea comporterebbe inevitabilmente una forte ripercussione se non addirittura una crisi anche in Gran Bretagna. Probabilmente, mai come in questo periodo, è arrivata l’ora per i sudditi di sua maestà di fare un’analisi vera di quanto ci si senta totalmente europei e di

quanto si voglia realmente partecipare attivamente a uno sviluppo più coeso dell’Unione e dei suoi paesi membri. L’Unione europea ha bisogno della Gran Bretagna tanto quanto la Gran Bretagna ha bisogno dell’Unione. I cambiamenti geopolitici mondiali e la nascita di nuove potenze economiche e militiari, deve portare l’Unione europea a parlare sempre più con una voce unica in rappresentanza di tutti i suoi paesi membri. Se la Gran Bretagna parteciperà attivamente un giorno a questo comune obiettivo, saranno tutta l’Europa e i suoi cittadini a beneficiarne.

L’Autore Michele BellaBarBa Dal 2002 al 2003 ha lavorato per il ministero degli Affari esteri negli Stati Uniti e successivamente fino al 2009 a Londra presso il dipartimento di affari internazionali della JP Morgan, curando le relazioni con i principali gruppi d’interesse politico a Londra e Bruxelles. Dal 2009 al 2010 ha ottenuto una specializzazione in politica e governo dell’Unione europea presso la London School of Economics and Political Science. Dal Marzo 2011 è presidente dell’associazione politica EuropAssociation.




LA FINE DELL’EUROPA? Francesca Siciliano

Belgio, il governo della società civile può FUNZIONARE Nonostante 541 giorni senza governo, e con una crisi politica e istituzionale che rischia di frantumare il paese, Bruxelles sembra soffrire la crisi meno dei partner europei. E ora toccherà all’italo-belga Di Rupo rispondere alle spinte secessioniste. di FRANCESCA SICILIANO

C’è un paese, nel cuore dell’Europa sofferente e dilaniata dalla crisi finanziaria, che oltre ad avere problemi economici come gran parte dei suoi vicini, è stato senza governo per 541 giorni: il Belgio. Va specificato, a onor del vero, che considerare il Belgio “senza governo” per 18 mesi è una forzatura giornalistica poiché il paese, nonostante non fosse governato da una maggioranza figlia del popolo, è stato guidato dal dimissionario Yves Leterme (il premier fiammingo che dall’aprile del 2010 ha perso il sostegno dei liberaldemocratici e quindi la maggioranza), che da presidente “a tempo” quale doveva essere, è diventato presidente ad infinitum.

Il Belgio è uno Stato mai diventato nazione. È nato artificialmente dalla contrapposizione tra fiamminghi protestanti e cattolici tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, e fu sfruttato dalle comunità linguistiche francofone per scindere le province dei Paesi Bassi del sud da quelle del nord creando, appunto, una nuova entità politica. Composto da tre regioni e da due gruppi etnico-lingustici diversi, il piccolo paese nel quale risiede il governo dell’Unione Europea si è trovato per un lungo periodo in serie difficoltà. Le due anime principali, che convivono all’interno del regno di re Alberto II, sono quella francofona, che fa riferimento all’area

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geografica della Vallonia e quel- nale. Di fronte ad un divario cola fiamminga, corrispondente al- sì netto tra nord e sud il paese le Fiandre. La Vallonia, regione rischia di scomparire. La quemineraria nel sud del paese e mo- stione oggi è più economica che tore dll’industrializzazione belga etnica (poichè il gruppo fiamfino agli anni Settanta, ha soffer- mingo è culturalmente e linguito profondamente della crisi del sticamente più vicino all’Olansettore siderurgico degli ultimi da, mentre il gruppo francofono decenni ed oggi presenta un ele- alla Francia), anche se le diffevato tasso di disoccupazione; la renze culturali influiscono ancoregione un tempo più povera, le ra molto, rendendo la frattura Fiandre, è oggi il nuovo motore sempre più ampia. del Belgio che, grazie alle infra- La storia belga più recente è costrutture realizzate negli ultimi stellata da periodiche crisi di godecenni, ha un’economia abba- verno e l’autonomia delle due restanza fiorente nonchè capace di gioni principali è andata, col passare degli anni, ad attirare capitali aumentare. L’usuastranieri e investi- Le Fiandre un tempo le ricerca di una menti, rendendo coalizione in sela produzione di- erano la zona povera namica e consi- del paese, mentre oggi guito a consultazioni popolari è da stente. Queste due sempre molto difrealtà, così profon- sono il motore ficile; ma più difdamente diverse, dell’economia belga ficile del solito è hanno sempre faticato a integrarsi costituendo, di stata dopo le ultime elezioni fatto, due entità separate con si- parlamentari svoltesi nel giugno stemi sociali ed economici com- 2010. Il Belgio, come detto, è rimasto senza un governo per pletamente differenti. Dal 1970, inoltre, si è assistito ben 541 giorni. Il motivo è all’affermarsi dei partiti cosid- semplice. detti regionali, che hanno messo Il risultato uscito dalle urne il fine ai tentativi, seppur estem- 13 giugno 2010 ha prodotto due poranei, di creare un partito na- maggioranze nettamente diverzionale capace di raccogliere se: nelle Fiandre ha trionfato, consensi in maniera trasversale, toccando il 29,5% dei consensi, superando la disarticolazione in- il partito separatista Nuova alleterna e le barriere linguistiche. anza fiamminga (N-Va) guidato Da quel momento le ipotesi del- da Bart De Wever; in Vallonia la divisione del Belgio hanno ha ottenuto la maggioranza, con acquistato sempre più concre- il 33% dei voti, il Partito sociatezza, anche perchè lo scontro lista guidato dall’italo-belga belga, come è noto, non si svol- Elio Di Rupo. A segnare il passo ge sull’asse tradizionale destra- sono stati i due grandi partiti di sinistra, bensì su quello regio- tradizione del paese: i cristiano-


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democratici del premier uscente dosi addirittura disposto a laYves Leterme e il partito liberale sciarla ad un esponente francofono purchè questi accetti di negofiammingo. Lo scenario, quindi, risultava in- ziare seriamente su uno Stato certo e frastagliato. Con N-Va e confederale. Questi annunci il Partito socialista intorno al concilianti schiudono la porta 30% e altri 4-5 partiti tra il 10 e della leadership a Elio Di Rupo, il 20%, trovare subito una mag- uscito nettamente vincitore dalgiornaza per governare si rivela le elezioni in Vallonia e a Bruxelles, il quale, tra tutti i politiimpossibile. Nuova alleanza fiamminga è un ci francofoni, è sempre stato il partito di centrodestra e la sua più aperto al dialogo con i fiamprincipale rivendicazione è l’in- minghi. dipendenza delle Fiandre, pur ri- In una situazione politica così manendo nel quadro dell’Ue; drammaticamente frammentata, predica un separatismo “dolce” re Alberto, “arbitro” della partita, non volendo sul modello della prendere decisioCecoslovacchia e il I fiamminghi di N-Va, ni affrettate (cosuo leader De Weme dire, la calma ver vorrebbe la tra- nonostante la vittoria è la virtù dei forsformazione del elettorale, non hanno ti) decide di noBelgio da Stato feminare, tre giorni derale a Stato con- accettato accordi dopo le elezioni, federale, con mag- con gli altri partiti Bart de Wever giore autonomia alle due comunità. De Wever non “informatore”. Questi, a seguito fa mistero che, in prospettiva, di una settimana di colloqui con vorrebbe vedere il regno belga sindacati e partiti papabili per “evaporare” per lasciare spazio a costituire l’esecutivo, avrebbe due stati separati, sempre tutta- dovuto presentare un dettagliato via nell’ambito dell’Unione euro- rapporto indicando la combinapea, come avvenne con la separa- zione multipartitica più stabile. Attenendosi alle conclusioni di zione dei cechi dagli slovacchi. All’indomani della vittoria, De De Wever, Elio Di Rupo avrebWever parla di svolta storica, ma be dovuto iniziare il proprio anche di mano tesa ai francofoni mandato esplorativo da cosidper far uscire il Belgio dall’im- detto “formatore”. In questo passe economico. «Dobbiamo modo entrambi i leader dei due creare dei ponti con gli altri par- partiti più importanti avrebbero titi e proseguire i negoziati isti- partecipato alla formazione tuzionali», dichiara mostrandosi dell’esecutivo. Ma De Wever, aperto al dialogo con la Vallonia. dopo alcuni giorni da “informaInoltre, annuncia di non essere tore”, rimette l’incarico esploraparticolarmente interessato alla tivo nelle mani del re, dichiaranpoltrona di premier dichiaran- do di non aver raccolto sufficien-

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ti consensi intorno a un’ipotesi li trattative tra i sette partiti di maggioranza, ma dando la sua che avrebbero potuto far parte disponibilità a collaborare: «I dell’esecutivo, cercando di ripunti di vista dei partiti sono pristinare la fiducia fra le due troppo divergenti», conclude. comunità linguistiche e giunL’8 luglio 2010 il re dà mandato gere ad un compromesso acceta Di Rupo di formare il nuovo tabile sulla riforma costituziogoverno. Il leader socialista ini- nale. Il problema principale rizia le consultazioni con i partiti sultava essere sempre il rancore politici; i colloqui sono condotti molto acceso tra fiaminghi e insieme a Bart De Wever e la valloni che ha reso impossibile questione sembra potersi risol- il “matrimonio” tra i due popovere in pochi giorni. Il clima li, rendendolo al contrario una sembra disteso e lo stesso Di Ru- “coabitazione forzata”. po scherzava: «Non abbiamo an- La situazione torna ad essere cora chiesto al polpo Paul se ab- sull’orlo del precipizio proprio nel momento in biamo o no una cui al Belgio spetpossibilità di riu- Il Belgio ha presieduto ta la presidenza a scire a formare un rotazione delnuovo governo», l’Unione europea f a c e n d o r i f e r i - nonostante la mancanza l’Unione europea. L’imbarazzo polimento al mollutico inizia a prensco che ha cono- di un governo dotato dere il sopravvensciuto una certa di pieni poteri to, alimentando notorietà internazionale in occasione dei mondia- una serie di timori, in primis li di calcio del 2010, quando fu quelli degli economisti, preocutilizzato per “predire” i risulta- cupati che lo stallo istituzionati delle partite, risultati rivelati- le possa compromettere la resi poi sempre esatti. Una solu- putazione finanziaria del paese. zione ottimale per la formazione Senza governo non può esserci di un nuovo governo sembrava una politica fiscale e senza tagli vicina, ma dopo neppure un me- alle spese (conseguenza dell’asse dal ruolo di préformateur, ovve- senza di politiche fiscali) il dero di incaricato di costruire una bito pubblico continua a cremaggioranza di governo, Elio di scere. Rupo ha gettato la spugna ri- Più volte viene affidato a Di Rumettendo l’incarico nelle mani po l’incarico di trovare la formudel sovrano, sostenendo di non la alchemica per formare un eseessere riuscito a trovare un ac- cutivo stabile, ma il socialista, cordo. Re Alberto si è visto co- dopo essere stato “informatore”, stretto a chiedere aiuto ai presi- “mediatore”, “preformatore”, denti di Camera e Senato (uno “negoziatore”, “chiarificatore” , francofono, l’altro fiammingo) ha sempre rinunciato al comanper provare a riavviare le diffici- do del governo non riuscendo a


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IL PERSONAGGIO

Spaak, l’uomo del Trattato di Roma Uno statista europeo: è con queste parole che si può sintetizzare la lunga carriera politica del belga Paul Henri Spaak. Mentendo sulla sua età, Spaak riuscì ad arruolarsi nell’esercito belga durante la prima guerra mondiale e in seguito trascorse due anni in Germania come prigioniero di guerra. Durante la seconda guerra mondiale, in qualità di ministro degli Esteri, cercò invano di mantenere la neutralità belga. Scelse poi di seguire il governo in esilio, prima a Parigi e in seguito a Londra. Dopo la liberazione del Belgio, Spaak rientrò al governo dove svolse le funzioni di ministro degli Esteri e di primo ministro. Già durante la seconda guerra mondiale aveva messo a punto un piano per la fusione dei paesi del Benelux. Subito dopo la guerra promosse l’unificazione dell’Europa, appoggiando la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e della comunità europea di difesa. Secondo Spaak, la coalizione tra più paesi con la firma di trattati vincolanti costituiva il mezzo più efficace per garantire la pace e la stabilità. Riuscì a contribuire alla realizzazione di questi obiettivi in veste di presidente della prima assemblea plenaria delle Nazioni Unite (1946) e di segretario generale della Nato (dal 1957 al 1961). Spaak dette un apporto decisivo alla formulazione del contenuto del trattato di Roma. In occasione della cosiddetta “Conferenza di Messina”, nel 1955, i sei governi partecipanti lo nominarono presidente del gruppo di lavoro incaricato della stesura del trattato.

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trovare una combinazione parti- visioni e che arrivino finalmente a formare un governo». Punto. tica possibile. Tuttavia, nonostante le lecite Stop. Niente scioperi o sit-in preoccupazioni, nel corso dei sotto i palazzi del potere. lunghi mesi vissuti in assenza di Nonostante ciò, prima della un governo con poteri reali, non “svolta”, sono passati altri 8 meci sono stati veri e propri pro- si. Solo dopo 540 giorni di vuoblemi. L’atmosfera, vista dal- to, in una prorogatio senza precel’esterno, poteva sembrare sur- denti, la politica belga ha deciso reale, poiché ciò che è stato dav- di accelerare bruscamente. Duvero scandaloso è stato il fatto rante gli ultimi giorni di noche non si è verificato alcuno vembre del 2011 è stato siglato scandalo. Tutto ha continuato a l’accordo per una coalizione a sei scorrere normalmente, tutto ha partiti guidati dal socialista Elio “funzionato” lo stesso. Neppure Di Rupo ed è stato escluso dalil Parlamento europeo si è reso l’accordo il leader fiammingo d e l l ’ N - Va , D e conto che il BelWever, che nonogio, che ha con- Si afferma l’idea stante le belle padotto egregiamente il proprio che oggi la società civile role di colaborazione pronunciate turno di presi- possa fare tutto da sé, a seguito della vitdenza europea, toria elettorale, si fosse senza un autogovernandosi è sempre rifiutato, esecutivo. Le uni- in maniera completa nel successivi 18 che forme di manifestazioni di protesta, molto mesi, di accettare intese con gli ironiche per altro, sono state or- altri gruppi politici. Impresa ganizzate dalle associazioni stu- immane quella di Di Rupo, che dentesche e hanno preso il nome per mesi ha dovuto pazientedi “rivoluzione delle patatine mente mediare prima di riuscire fritte” (pietanza tipica belga). a mettere insieme i partiti criGli studenti, proprio nel giorno stiano-democratici, i liberali e i in cui il Belgio ha battuto il re- socialisti fiamminghi e valloni, cord dell’Iraq entrando nel 250° ottenendo in parlamento 86 seggiorno di crisi di governo, han- gi su 150. no trasformato le principali Finisce così, dopo 541 giorni, la piazze delle città belghe in places crisi politica da guinness dei des frites distribuendo patatine primati che ha travolto il Belfritte ai partecipanti. «Oggi (30 gio. Elio Di Rupo, il nuovo primarzo 2011 – n.d.r.) che abbia- mo ministro nominato da Re mo battuto il record mondiale Alberto, ha giurato con la sua senza un esecutivo – ha detto squadra di 12 ministri e 6 segreuno degli organizzatori della tari di stato. protesta – ai nostri politici vo- Potrebbe sembrare assurdo, quagliamo dire che superino le di- si irreale. Ma il Belgio senza go-


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verno, non sembra essersi trovato in un oscuro tunnel, anzi: il rapporto Debito/Pil, pur restando tra i più alti d’Europa, alla fine del 2010 è sceso sotto la soglia psicologica del 100%, attestandosi intorno al 97%. Secondo alcune stime dell’Eurostat, inoltre, il Pil nel 2010 è aumentato del +2.1%, ottenendo uno dei migliori risultati tra i paesi della zona euro, la cui media è stata del +1.8%, (Francia +1.6%, Italia +1.1%). Ancora meglio ha fatto nel 2011, con il +2.4% e nel 2012 con la previsione del +2.2%. La disoccupazione, tra l’altro, è calata dall’8.5% del 2010 al 6,8% dell’agosto 2011. Da dimissionario, infatti, il governo Leterme è riuscito a guidare con brillanti risultati il semestre di presidenza di turno dell’Ue; è anche riuscito a ottenere l’approvazione per la finaziaria 2011. Il Belgio è stato uno dei primi paesi ad annunciare la partecipazione alle operazioni militari in Libia; ha gestito egregiamente lo smantellamento della banca francobelga Dexia, prima vittima della crisi del debito in Europa, avviandone la nazionalizzazione. Tutto ciò, straordinariamente, in un regime di ordinaria amministrazione. La situazione belga si potrebbe considerare un esperimento politico involontario ma comunque significativo, e il governo che ha lavorato per oltre 18 mesi si potrebbe definire un “governo leggero”, che ha lasciato ampio spazio alla società civile ed è stato

considerato da molti politologi una risposta particolarmente adeguata alle urgenze della nostra epoca. Esiste, infatti, nella scienza politica, un filone di pensiero convergente verso l’idea che oggi una società civile possa fare tutto da sé, autogovernandosi in maniera completa.

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L’Autore francesca siciliano Laureata in Scienze politiche, collabora con FareitaliaMag.



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Qui Istanbul

TURCHIA, IL PAESE DAL GRANDE FUTURO Sviluppo economico e intergazione sono le basi sulla quale lo Stato turco ha investito molto negli ultimi anni per competere con la globalità. Le riforme strutturali che il premier Erdoğan ha imposto hanno cambiato radicalmete il paese, non solo economicamente, ma anche socialmete con una politica incentrata sulla tolleranza e la convivenza tra gruppi etnici e religiosi. 145

da ISTANBUL GIUSEPPE MANCINI

A volte ritornano. Sono i greci di Istanbul, espulsi o fuggiti via dalla Turchia nazionalista a partire dagli anni ‘60 – la comunità rum venne colpita da un terribile pogrom il 6 e 7 settembre 1955 – e soprattutto dopo il colpo di stato militare del 1980. Il clima politicamente più sereno creato dal Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdo an, sensibile al richiamo di un passato ottomano fatto generalmente di tolleranza e convivenza tra gruppi etnici e religiosi variegati, già qualche anno fa aveva spinto un manipolo di anziani rifugiati a fare il cammino inverso verso Polis – la città per eccellenza, Costantinopoli – e verso le iso-

le dalla popolazione mista del mare di Marmara; la crisi economica che ha colpito la Grecia sta facendo il resto: al Patriarcato del Fener, o alle varie associazioni dei circa 3000-4000 greco ortodossi rimasti a vivere nell’ex capitale imperiale, arrivano richieste sempre più numerose di chi cerca un lavoro o vuole recuperare le proprietà lasciate in fretta e furia dai propri familiari – oggi abbandonate, in alcuni casi occupate da immigrati dell’Anatolia – e venire a viverci. Greci di Istanbul, greci che in precedenza a Istanbul erano venuti solo in vacanza. Il segno dei tempi che cambiano. Solo l’anno scorso sono state chiuse altre tre scuole della minoranza


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greco-ortodossa – delle sette an- stituzione in fase di elaborazione cora in funzione – in mancanza – è questa l’aspettativa di tutti – assoluta di studenti; e le altre ri- verranno finalmente riconosciuti maste sopravvivono grazie al con- come cittadini a tutti gli effetti, troverso afflusso di famiglie pro- senza più alcuna discriminazione. venienti da Antiochia, nella Tur- Cittadini della nuova Turchia che chia sud-orientale: greco-ortodos- sta nascendo: democratica e plusi che però non parlano il greco rale, rispettosa della propria stoma l’arabo. Poche settimane fa, ria e non più prigioniera di un però, è stata decisa la riapertura laicismo esasperato e discriminadella scuola di Imvros – o Gök- torio. I rituali del Natale ortodosçeada, in turco: una della due iso- so, quest’anno, sono stati particole all’imbocco dei Dardanelli – larmente sentiti e partecipati: che renderà la vita più semplice a molti i giovani, molti i greci; e chi ritorna. I numeri in ogni caso proprio un greco, Apostolos Oinon sono tutto. Nel 2007 Laki konomou, ha raccolto per primo dalle acque gelide Vingas – la prima del Corno d’oro il volta di un non- Il tasso di crescita crocefisso gettato musulmano nella da Bartolomeo a ristoria repubblica- è stato dell’8,5% cordare la Teofania, na – è stato eletto e sono stati creati il battesimo di Crinel Consiglio del sto nel Giordano: Direttorato gene- oltre tre milioni rale delle fonda- di nuovi posti di lavoro la fortuna degli audaci l’accompagnezioni; nel 2010, il governo ha autorizzato la celebra- rà per tutto un anno, ha dichiarazione della messa – dopo 88 anni to che “l’ha fatto per tutti i gredi silenzio – nello storico santua- ci”. rio di Sümela, vicino a Trabzon; e La Turchia come il nuovo Bengoalla fine del Ramadan, lo scorso di? I numeri sono eloquenti. Il agosto, il premier Recep Tayyip tasso di crescita per il 2011 è staErdo an ha annunciato la restitu- to dell’8-8,5% a ritmi da primato zione delle proprietà immobiliari mondiale, la disoccupazione è confiscate nel corso dei decenni scesa all’8,8% con quasi tre mialle minoranze formalmente tute- lioni di nuovi posti di lavoro late dal trattato di Losanna del creati nell’ultimo anno (la disoc1923: greco-ortodossi, armeni, cupazione giovanile è decisamencaldei, siro-ortodossi. Alla festa te inferiore alla media europea), per i suoi 20 anni di patriarcato – le esportazioni hanno raggiunto qualche mese dopo e alla presenza livelli da record assoluto, il defidel ministro per gli affari europei cit e il bilancio sono perfettamenEgemen Ba ı – Bartolomeo I era te in linea con i parametri di raggiante: i rum stanno gradual- Maastricht; in dieci anni il reddimente recuperando i diritti e la to pro capite è triplicato, supedignità perduti, con la nuova co- rando la soglia dei diecimila dol-


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lari. Preoccupano invece l’infla- i problemi esistenti coi paesi vicizione che ha sfondato la barriera ni, anche quelli più sedimentati e del 10%, il deprezzamento rovi- apparentemente intrattabili; la noso della lira e la bilancia dei pa- diplomazia “ritmica”, cioè il ruogamenti strutturalmente in per- lo di infaticabile mediatore (a ritdita per la bolletta energetica: di mo sostenuto, un’iniziativa dieconseguenza, anche a causa della tro l’altra) nei conflitti regionali e crisi europea e mondiale, nel l’attenzione costante per i proble2012 è prevista una crescita ri- mi di rilevanza planetaria; il redotta al 4%. La Turchia è diven- cupero dell’esperienza storica del tata la sedicesima economia del defunto Impero ottomano, nei pianeta e la sesta in Europa, è cui territori la Turchia è chiamata membro fondatore del G20, pun- ad esercitare una più accurata inta a far parte della top 10 per il fluenza geopolitica e una più ca2023 quando festeggerà il cente- pillare penetrazione geoeconominario della Repubblica istituita ca, per ristabilirne le interconnessioni perdute e dar da Mustafa Kemal Atatürk. Ma gli La diplomazia “ritmica” vita a medio-lungo termine ad aree obiettivi per il regionali di libero 2023, enunciati consente alla Turchia scambio, diversifinel manifesto elet- di avere un ruolo cando al massimo torale per le politii mercati di sbocche del 12 giugno rilevante nei conflitti co; la volontà di 2011 dell’Akp, so- medio-orientali acquisire un’assono ancora più ambiziosi: entrare nell’Unione euro- luta centralità in quello che il capea, promuovere l’integrazione po della diplomazia di Ankara regionale nelle sue periferie, con- definisce lo spazio afro-euroasiaquistare una posizione di influen- tico, rigettando implicitamente za su scala globale. Un paese ric- il ruolo di ponte tra Est e Ovest – co, un paese forte, un paese coeso, energetico e politico-culturale – un paese determinante, un paese in cui l’Europa vorrebbe confinarla. che guarda lontano. Obiettivi che fanno parte della Le iniziative realizzate sono state visione integrata tratteggiata già numerose, dai Balcani all’Africa nel 2001 dal suo attuale ministro passando per l’Asia centrale, sendegli esteri Ahmet Davuto lu e za dimenticare il biennio nel per lungo tempo consigliere poli- Consiglio di sicurezza dell’Onu o tico di Erdo an, nel bestseller den- l’Alleanza delle civiltà; e la Turso come un trattato Stratejik de- chia è diventata il principale morinlik (Profondità strategica): un dello di riferimento – economico piano d’azione fondato sulla pro- e politico – dei paesi della “primozione degli interessi nazionali mavera araba” e di gran parte del in cui emergono come punti de- mondo islamico: un modello che, terminanti l’eliminazione di tutti come sostiene Ibrahim Kalın

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(consigliere del premier e direttore dell’ufficio per la diplomazia pubblica), ha come punti di forza la progressiva democratizzazione del sistema politico-istituzionale con l’inclusione di tutti i partiti (la dimostrazione che l’Islam e la democrazia sono pefettamente compatibili), la trasformazione economica che punta sulle classi medie, l’integrazione regionale. Ma non sono mancate le battute d’arresto: la sospensione del progetto Shamgen, l’area di libero scambio del Levante – con Siria, Libano e Giordania – accantonata a causa della crisi del regime di Assad; la disputa sul gas con Cipro, la rottura dei rapporti con Israele, la “guerra della memoria” con la Francia di Sarkozy e l’Armenia, lo stallo nei negoziati per l’adesione all’Ue. Per un bilancio definitivo c’è comunque tempo. Ma quali sono i segreti della Turchia? La stabilità politica, innanzitutto: i tre monocolore di fila dell’Akp, che nel 2002, 2007 e 2011 ha totalizzato consensi sempre crescenti – fino a sfiorare, sei mesi fa, il 50% (grazie allo sbarramento del 10%, la maggioranza è sempre stata cospicua). Lo afferma con convinzione, ogni volta che parla a una platea internazionale, il vicepremier – e responsabile del coordinamento dei ministeri economici – Ali Babacan: per il quale la classe politica turca – quella del suo partito, ovviamente – “mantiene le promesse, pensa al lungo periodo anche con decisioni impopolari ma necessarie, non si lascia sedurre da convenienze elettoralistiche”; e ag-

giunge immancabilmente che i politici europei avrebbero molto da imparare, che la Turchia è pronta a fornire utili suggerimenti. In effetti, come ci ha spiegato il professor Ahmet Insel dell’università francofona Galatasary, l’Akp ha più che altro avuto il grande merito di sfruttare una congiuntura economica internazionale favorevole, l’appetibilità data dal rapporto comunque privilegiato con l’Europa (da cui arriva l’80% degli investimenti diretti, dove ancora oggi è destinata la metà delle esportazioni) e le riforme già avviate nel biennio 2001-2002 da Kemal Dervi ; ma ha saputo aggiungere – fattori determinanti per proseguire nella crescita e nello sviluppo – un processo di riconversione verso la produzione di beni intermedi, iniziative per ridurre la dipendenza energetica dalle fonti fossili col nucleare e le energie rinnovabili, nuovi mercati di sbocco per esportazioni e investimenti. La ragione principale del successo elettorale del partito di Erdo an – secondo il professor Insel – è comunque quella di “aver rovesciato i rapporti di forza tra le élites tradizionali autoritarie e altezzose – che pretendono di avere un mandato perenne a governare – e quelle di origine popolare – dinamiche e rampanti – dell’Anatolia”, “riportando in ambito politico la sensibilità conservatrice musulmana rendendola compatibile con la modernità”; le nuove organizzazioni di imprenditori conservatori – come Musiad e Tu-


LA FINE DELL’EUROPA? Giuseppe Mancini

scon – sono attive in tutto il mondo, soprattutto nei mercati emergenti, e stanno inesorabilmente soppiantando la Tusiad dei grandi conglomerati. In più, l’Akp ha saputo garantire servizi di qualità eccellente – prima nelle città amministrate, poi in tutto il paese – e ha avviato un ampio programma di ammodernamento infrastrutturale: porti, aeroporti, autostrade, alta velocità, ospedali. Senza dimenticare il carisma e l’immensa popolarità conquistata da Recep Tayyip Erdo an. Sempre Babacan, al recente Summit globale sull’imprenditorialità a Istanbul (presente, il vicepresidente Usa John Biden), ha scelto una metafora particolarmente efficace per descrivere la Turchia del XXI secolo come potenza economica in ascesa: “non è il pesce grande ma il pesce veloce che mangia il pesce piccolo”; e cioè, le prestazioni da primato di oggi e la convinzione di poter continuare nella stessa direzione dipendono non dall’ammontare del Pil, non da investimenti di stato o da rendite, non dall’industria pesante o da ricchezze del sottosuolo, ma dalla capacità di innovare e di esportare, dalle liberalizzazioni e dalla capacità di competere su scala globale, da una popolazione giovane – l’età media è di 28 anni – e da un radicato spirito imprenditoriale. Nella stessa occasione, altri ministri e il presidente dell’Organizzazione per lo sviluppo delle piccole e medie imprese Mustafa Kaplan hanno spiegato come le autorità di Ankara si stanno: da una parte,

offrendo incentivi finanziari – attraverso un rigido processo di selezione – soprattutto alle imprese più innovative e comunque orientate ai mercati esteri; dall’altra, semplificando in modo decisivo tutti gli iter burocratici a cui è soggetta l’attività imprenditoriale, ancor più grazie a un’apposito organismo recentemente costituito. Lo stesso presidente della Repubblica Abdullah Gül, qualche giorno dopo a un grande convegno dell’Assemblea degli esportatori turchi (Tim), ha parlato di un nuovo focus – con investimenti cospicui e mirati – sulla ricerca scientifica, sulle nuove tecnologie e sull’innovazione: così da aumentare la produttività e le esportazioni ad alto valore aggiunto e a bassa intensità energetica. La Turchia guarda al futuro, continua a bussare alla porta dell’Europa: sa di poterla rendere più dinamica e più aperta al resto del mondo, nuovamente una grande potenza.

L’Autore giuseppe mancini Esperto di relazioni internazionali, giornalista e storico, dottorando di ricerca dell’Istituto italiano di Scienze umane con uno studio sulla politica estera di Francia e Italia negli anni Cinquanta e Sessanta.

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LA FINE DELL’EUROPA? Luciano Capone

La soluzione di una crisi

Islanda, dalla speranza CAPITALISTA alla realtà del DEFAULT Con la rivoluzione delle “padelle” gli islandesi sono riusciti a ottenre un “default pilotato” e a cambiare la costituzione per non pagare la crisi provocata dalle banche. Ma questo modello, preso a esempio dalla sinistra, in Italia non può funzionare. 151 di LUCIANO CAPONE

La Rivoluzione islandese, descritta come la più efficace protesta contro la crisi, ha occupato le pagine dei giornali per tutto il 2011. Per molta parte della sinistra (ma non solo) è stata vista come la possibilità di una via d’uscita dalla crisi attraverso un “default pilotato”. È stata la lotta simbolo di vecchi slogan no-global come “noi la crisi non la paghiamo”, “un altro mondo è possibile”. Ma cos’è successo in realtà nell’isola con i cognomi più impronunciabili del mondo? Storicamente l’Islanda ha avuto l’economia più pianificata dell’Europa libera. Nell’occidente non c’era un altro paese in cui il dirigismo fosse così pervasivo e in cui lo Stato, attraverso le banche nazionalizzate, controllasse

ogni settore dell’economia. Nonostante le due ondate di liberalizzazioni degli anni ’60 e ’80 che hanno mitigato il dirigismo politico, le banche sono rimaste sotto il controllo dello Stato. Dal 2001 è iniziata una progressiva privatizzazione del sistema e le banche si sono tuffate nel libero mercato pensando che ci fosse sempre lo Stato a garantirle. Per anni, cavalcando la bolla speculativa, hanno trainato l’economica dopata islandese a cifre nettamente superiori al resto d’Europa. Con la crisi dei mutui subprime crollato il castello di carte: gli investitori hanno chiesto indietro i loro soldi ma le banche non ne avevano, il governo le ha nazionalizzate ma comunque non riusciva a coprire la montagna di debiti. Il


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valore della Corona islandese è gli islandesi boccia il piano di crollato e il fallimento degli isti- rientro. Il governo capisce che tuti bancari ha trascinano con sé non può opporsi alla pressione anche il governo che si è visto della piazza, spinge per l’apertucostretto a chiedere aiuto al Fon- ra di un’inchiesta volta a perseguire i responsabili della crisi e do monetario internazionale. È a questo punto che esplode spuntano i primi mandati di arl’indignazione popolare di chi si resto internazionali per banchievede costretto a pagare per danni ri, politici e top-manager. Nel causati da altri. Gli islandesi 2011 il Parlamento approva un scendono in piazza armati di nuovo accordo che prevede conpentole e padelle e ci restano per dizioni meno dure, ma per la se14 settimane consecutive, fino a conda volta il presidente Grimquando ottengono le dimissioni sson non ratifica la legge e gli isdel governo Haarde. La svolta landesi la bocciano in un nuovo politica è rappresentata da Jo- referendum. La rivoluzione non si ferma perché gli hanna Sigurdadottir che, alla guida L’assemblea costituente islandesi decidono di darsi una nuova di una coalizione costituzione. L’Asrosso-verde, di- è formata da cittadini semblea costituenventa la prima comuni e si lavora te, scelta tra persodonna premier ne fuori da ogni dell’Islanda. La si- in modo innovativo appartenenza partuazione è comun- con il crowdsourcing titica, si sviluppa que precaria: Gran Bretagna e Olanda spediscono a secondo metodi innovativi: si laReykjavík il conto del fallimento vora in crowdsourcing, cioè raccodi Icesave che aveva bruciato i ri- gliendo le proposte di tutti cittasparmi di 340mila cittadini bri- dini anche grazie all’utilizzo di tannici e olandesi. Il nuovo go- internet e dei social network. La verno cerca di coprire i 3,9 mi- Magna Carta venuta fuori dai laliardi di debiti con un piano di vori della Costituente, dopo il rientro che pesa sugli islandesi voto del Parlamento, dovrà essere con una tassa straordinaria men- approvata da un referendum. sile per 15 anni. Gli islandesi Questi sono i fatti. Però il racnon si accontentano di cambiare conto di nazionalizzazioni, arregoverno, ma vogliono fare tabula sti di banchieri, democrazia alrasa: si oppongono al piano della ternativa, guerra al neo-liberineo-premier e spingono il presi- smo e alle istituzioni internaziodente a non ratificare la legge e nali che è stato fatto dai media ad indire un referendum. La progressisti distorce la realtà. pressione internazionale (britan- Questa narrazione farcita da molnica e olandese, ma non solo) non ta retorica anticapitalista anni frena la “rivoluzione delle padel- ’70, è servita agli indignados di le” e nel marzo 2010 il 93% de- casa nostra per indicare all’Italia


LA FINE DELL’EUROPA? Luciano Capone

un’uscita attraverso un “default pilotato”, un’eutanasia della nostra economia. Se per l’opinione pubblica questo è il senso della rivoluzione islandese, ci sono da fare alcune considerazioni. Innanzitutto le dimensioni: l’Islanda è un’isola grande quattro volte la Sicilia che ha complessivamente gli abitanti della sola Ragusa, quindi la sua economia non è minimamente paragonabile con quella italiana. Inoltre, per gli amanti del genere default – ne abbiamo visti a bizzeffe nei mesi scorsi, per fortuna poco negli ultimi tempi – c’è da segnalare che l’Islanda non ha rifiutato di pagare i propri debiti. Gli islandesi si sono semplicemente rifiutati di pagare i debiti che banche private, avevano contratto con altri privati (i cittadini britannici ed olandesi). ma pagheranno il loro debito nazionale. Falsa è anche la retorica di una sommossa popolare contro le istituzioni internazionali. Anzi, dalla crisi islandese sono uscite sconfitte le spinte isolazioniste e sono state abbandonate molte storiche resistenze al processo di adesione all’Ue (anche se rimane irrisolto il nodo sulla pesca). Se da un lato la rivoluzione islandese ha mostrato molte caratteristiche alternative, dall’altro ha seguito i canali più ortodossi. Reykjavík ha chiesto aiuto al “diabolico” Fmi e per tre anni ne ha seguito le ricette; la collaborazione tra le due istituzioni è stata proficua, secondo il Fondo “Il programma di sostegno è stato un successo, gli obiettivi sono

stati raggiunti e il paese è sulla via della ripresa”. La vicende islandesi hanno fatto emergere novità come la sperimentazione di forme di protesta e democrazia diretta (sicuramente più praticabili in entità territoriali ridotte), ha messo inoltre in evidenza le pecche di un sistema che si dice liberista quando c’è da incassare e che si scopre socialista quando c’è da ripianare, ma per il resto non ha fatto emergere soluzioni semplici stile “noi la crisi non la paghiamo” o “cancella il debito”. Non c’è stato alcun default sul debito nazionale. Come è giusto che sia l’Islanda pagherà tutti i suoi debiti, a cominciare da quello con il Fondo monetario internazionale.

L’Autore luciano capone Laureato in Scienze Politiche presso l'Università Cattolica con una tesi su Theodore Roosevelt, giornalista, collabora con Rivoluzione Liberale e FareitaliaMag.

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LA FINE DELL’EUROPA? Paolo Quercia

ARRIVANO I BRIC, TRA POTENZIALITÀ E INCOGNITE Mentre il modello occidentale anglosassone sembra in crisi, Cina, India, Russia e Brasile continuano a crescere a ritmi sostenuti. Ecco come potrebbe cambiare il mondo con l’avvento sulla scena delle potenze emergenti. Con un occhio sempre rivolto a quello che succede a Washington. di PAOLO QUERCIA 155

Il processo di ascesa delle potenze emergenti non occidentali, Brasile, Russia, India e Cina (Bric) rappresenta un fatto oramai consolidato che da almeno un decennio determina una buona parte dei processi delle nuove relazioni internazionali, come esse sono emerse dal ventennio iniziato con la caduta del muro di Berlino e chiusosi con la crisi economica e finanziaria dell’Occidente. Un ventennio apertosi con la vittoria economica, politica e morale dell’Occidente sul mondo non libero del comunismo ma chiusosi con un preoccupante declino politico ed economico dell’Occidente di fronte non più a un nemico ideologico ma a una pluralità di paesi emergenti diversi tra di loro e che spesso hanno adottato, copiato, importato molti, ma non tutti, i meccanismi sociali, economici e

tecnologici su cui è stato costruito il potere dell’Occidente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. In questo ventennio di transizione anche quello che è il brevetto più prezioso, il software più sofisticato e vincente, l’arma non segreta dell’Occidente – ossia il concetto politico occidentale di libertà e diritti individuali – ha potuto attraversare le cortine di ferro e di bambù e confrontarsi con altre società non costruite attorno al primato della libertà politica ed economica. Attraverso i fenomeni migratori, la società globale, i media digitali, gli investimenti finanziari ed economici, le libertà dell’Occidente hanno potuto entrare in tutti i sistemi politici del mondo, con poche eccezioni. Ma, ovviamente, l’impatto che il sistema delle libertà occidentali ha avuto in


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Ungheria. in Slovenia e nei paesi della nuova Europa non è paragonabile a quello che esso ha avuto in Stati continente come la Cina, l’India, la Russia, il Brasile, vere superpotenze naturali del pianeta. L’incontro della libertà con la potenza ha tuttavia generato risultati diversi in quanto diversi sono i sistemi socio-culturali dei Bric e diverso il mix della quantità di libertà occidentali che sono state accettate, in particolare da gli ex sistemi chiusi e di comando come quello russo e quello cinese. La questione strategica fondamentale del prossimo ventennio – quello che vedrà la Cina raggiungere il livello di sviluppo economico degli Usa – sarà quella di verificare se le potenze emergenti riusciranno a inserire dosi crescenti di “libertà occidentale” nei propri sistemi socio-economici aumentandone al tempo stesso la potenza a disposizione degli Stati dispiegandola nel sistema internazionale e sfidando l’egemonia globale americana. Oggi l’ascesa dei Bric si inserisce nel cosiddetto processo di declino relativo dell’Occidente visibile nei suoi principali fattori di produzione della potenza, come si può osservare paragonando alcuni indicatori fondamentali. Soffermandosi su alcuni indicatori di base come la popolazione, il Pil, il valore dell’export mondiale di beni, la produzione e il consumo di energia e le spese militari, appare evidente come ci siano indicatori in cui i Bric eccellono ed altri in cui i loro valori sono

ancora al di sotto della media globale. In particolare il valore in cui i Bric eccellono è in assoluto quello demografico. I quattro paesi Brics sfiorano i 3 miliardi di abitanti su quasi 7 miliardi del pianeta, pari al 40% della popolazione mondiale. Il secondo indicatore di cui i Bric abbondano è quello della produzione energetica. Circa un terzo della produzione mondiale di energia avviene nei quattro paesi emergenti, 155,39 QBtu su una produzione mondiale di 473 QBtu, mentre i Bric consumano circa il 30% dei consumi mondiali. Per quanto riguarda l’indicatore del Pil, la ricchezza prodotta dai quattro Paesi Bric arriva appena al 17% del Pil mondiale, nonostante l’enorme stock di popolazione e la grande quantità di energia disponibile. Per fare un paragone, il Pil Usa è ben superiore ai Pil di Brasile, Russia, India e Cina messi assieme, nonostante la sua popolazione sia meno di un decimo. Per quanto riguarda la spesa militare, quella cumulata dalle quattro potenze emergenti è pari a circa il 17% delle spese mondiali totali e meno di un terzo delle sole spese militari americane. Un dato che colpisce dell’ascesa dei Bric è la velocità con cui sono in grado di relativizzare i “numeri” di sviluppo dell’Occidente. Dal 2000 al 2010 i Bric sono cresciuti a una ritmo medio dell’8% l’anno, paragonato al 2,6% dei paesi industrializzati. Questo ha portato a un aumento del 5% della quota dell’econo-


LA FINE DELL’EUROPA? Paolo Quercia

mia mondiale detenuta dai Bric in meno di un decennio. Tuttavia, nonostante le comuni performance di crescita dei Bric, che sono alla base di una richiesta congiunta di maggiore influenza nelle istituzioni economiche globali, nulla lascia pensare che, nonostante il nome, i Bric diverranno un blocco solido in cui saranno conciliate le numerose differenze e gli esistenti conflitti di interessi a fronte di una prospettiva di fini politici comuni. Difatti, una delle principali debolezze ed anomalie del “sistema Bric” è legata alla diversità strutturale dei paesi che ne fanno parte, divisi per cultura, lingua, storia, religione, ideologia, interessi geopolitici. Raramente nella storia un’alleanza strategica è nata da paesi divisi da tutto ma accomunati dall’unico fatto di condividere previsioni similari di crescita economica e una più o meno marcata alterità rispetto al ruolo egemonico della potenza dominante. Anche le prospettive di crescita economica che sembrano assimilare i paesi dei Brics

in una nuova categoria geopolitica sono avvicinabili solo parzialmente e accomunabili solo a patto di forzose esemplificazioni. Brasile, Russia, India e Cina sono paesi profondamente diversi tra loro per i trend demografici, per i ritmi di crescita economici, per la distribuzione dei fattori di produzione, per il ruolo rivestito nel sistema economico internazionale, per le dotazioni energetiche e di materie prime. Ma, soprattutto, all’interno dei Bric esiste una sostanziale differenza tra la Cina e i paesi restanti. Il ruolo che la Cina ha occupato nel sistema internazionale, gli asset economici e di potere che possiede, la relazione finanziaria e commerciale strategica che Pechino ha costruito con gli Stati Uniti d’America ne fanno un unicum nel sistema internazionale, parte (ma allo stesso al di fuori) della categoria dei Brics. Ciò rende i rapporti tra la Cina e il resto dei Brics necessariamente asimmetrici, eleggendo Pechino a un ruolo di leadership sulle altre potenze emergenti. L’asimmetria

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Cina-Brics pone anche la questione se nel medio periodo Pechino riuscirà a trasformare la scatola Brics – che si è rivelata essere un utile aggregatore di aspiranti potenze ma che è ancora vuota di reali contenuti strategici e geopolitici – e se questa finirà progressivamente per diventare uno strumento funzionale alla dottrina del peaceful rise cinese, garantendo alla Cina il consenso delle possibili potenze emergenti rivali che potrebbero trovare i limiti della propria ascesa proprio nella tumultuosa crescita globale di Pechino. I Bric non sono dunque un blocco omogeneo, ma rappresentano 4 modi diversi con cui le potenze emergenti non occidentali portano la propria diversa sfida all’egemonia globale del modello socio-economico occidentale anglosassone. Tra le principali divergenze che possono identificarsi nei Bric vi sono: una netta distinzione sul piano demografico tra le due superpotenze demografiche della Cina e dell’India, che ospitano quasi il 90% della popolazione dei Bric, e Russia e Brasile; un predominio economico della Cina che produce da solo circa il 46% del Pil dei Bric, mentre gli altri tre paesi si dividono il restante 54% in quote pressoché simili, pari a circa un terzo il Pil cinese; un’egemonia cinese nel commercio estero, visto che oltre il 65% del commercio estero dei Bric è prodotto da Pechino, mentre la Russia, grazie all’export di idrocarburi, si avvicina quasi a un terzo del valore

dell’export cinese, e Brasile e India, dal canto loro, contribuiscono a meno del 10% al commercio estero dei Bric; anche dal punto di vista energetico è la Cina a dominare le potenze emergenti visto che produce oltre il 50% dell’energia prodotta dai Bric, la Russia circa un terzo, l’India meno del 10 %, e il Brasile il 5,5%; tutto ciò non può non avere conseguenze sulla produzione militare visto che oltre il 50% delle spese per il procurement dei Bric è prodotto dalla sola Cina. La spesa militare russa ammonta a metà di quella cinese, ossia un quarto del valore totale dei Bric, quella indiana al 15% e quella brasiliana all’8%. L’affermarsi dei Bric pone dunque non solo una questione multilaterale globale, riguardante l’ascesa contemporanea di un cluster di potenze emergenti e dei loro rapporti con gli Stati Uniti d’America per la governance globale, ma lascia intravedere come la Cina si sgancerà presto dagli altri Bric, ponendosi essa stessa a metà strada tra le potenze emergenti e la superpotenza mondiale. Ecco allora che una delle principali variabili che determineranno il futuro o meno dei Bric come fenomeno economico e politico sarà sicuramente l’andamento del rapporto bilaterale tra Pechino e Washington. Dall’andamento di questo rapporto verranno determinati anche i rapporti di forza all’interno dei Brics. In secondo luogo, un altro fattore di crescente significato all’interno dei Bric sarà rappresentato dal-


LA FINE DELL’EUROPA? Paolo Quercia

l’andamento del rapporto bilaterale tra Pechino e Nuova Delhi, e soprattutto dal “recupero” che l’India potrebbe realizzare nei confronti della Cina tra alcuni decenni in virtù del proprio superiore potenziale demografico. Difatti, l’altro rift esistente all’interno dei Bric è quello tra India e Cina da una parte e Russia e Brasile dall’altra. Ciò è stato evidenziato anche dalla crisi del 2008, che ha visto la Russia (in particolare) e il Brasile accusare una flessione delle rispettive economie, similmente alla maggioranza delle potenze sviluppate, mentre Cina e India hanno proseguito in maniera sostanzialmente invariata la propria crescita. Russia e Brasile – quest’ultimo tuttavia con una economia più diversificata – sono accomunate dal fatto di essere due economie commodity exporter oriented. Il rapporto bilaterale sino-indiano – a sua volta influenzato dai rapporti bilaterali che Washington avrà con Pechino e Nuova Delhi – sarà quello che determinerà o meno le possibilità dell’affermarsi di un blocco di paesi emergenti. In altre parole, è verosimile che buona parte del futuro dei Brics sarà determinato, più che dai rapporti multilaterali tra le quattro (o più potenze emergenti), da un rapporto triangolare tra Stati Uniti d’America, Cina e India. Ma una delle questioni chiave che avvicinerà tra loro i Bric in un asse emergente o li dividerà politicamente sarà la questione della libertà e la sua conciliabili-

tà con il principio della statualità sovrana e del rispetto degli affari interni, entrambi molto pronunciati nelle potenze emergenti, specialmente quelle asiatiche, Cina e Russia, la cui radice ideologica nel comunismo rende particolarmente complessa la sfida delle libertà individuali alle nuove potenze globali. Il prossimo decennio ci dirà quale sarà il futuro della libertà nelle potenze emergenti, e quanta resistenza la logica di Stato e quella di potenza porranno al cammino delle libertà emergenti. La sfida più interessante sarà vedere se il diverso valore che la libertà ha nei 4 differenti sistemi politici di Brasile, Russia, India e Cina produrrà una diversa postura politica, un diverso rapporto con l’Europa e gli Usa e l’appartenenza a diversi sistemi di alleanze. Nella costruzione del nuovo sistema internazionale il Bric più rilevante sarà costituito dal posto che verrà assegnato a Pechino, Brasilia, Mosca e Nuova Delhi alle libertà occidentali, quelle che ieri erano le pietre angolari dei nostri sistemi politici. Ma che oggi corrono il rischio di una profonda relativizzazione storica nel paragone con l’ascesa delle nuove potenze non occidentali.

L’Autore paolo quercia Analista indipendente di relazioni internazionali, esperto di questioni geopolitiche, strategiche e di sicurezza.

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LA FINE DELL’EUROPA? Giovanni Basini

Tra difesa e agricoltura

ALLA GUERRA CON GLI ORTAGGI Argomento troppo a lungo sottovalutato, la politica agricola dell’Unione europea si lega paradossalmente a quella relativa alla difesa e alla sicurezza strategica. Perché, in caso di guerra, l’approvvigionamento alimentare sarebbe di capitale importanza anche nel Vecchio Continente. di GIOVANNI BASINI

La politica agricola comunitaria è un tema oggi sottovalutato. Non lo diciamo per esser stati poco attenti al dibattito, che si trascina da decenni, sui suoi vari aspetti e sulle sue riforme, ma, al contrario per aver constatato la quasi completa assenza da esso di un tema che un tempo era in esso fondamentale: la sicurezza strategica. Le implicazioni, coerenti o incoerenti, della Pac con la politica comune di difesa dell’Unione non erano lontane a chi la immaginò. Certamente, lo scenario era diverso, tuttavia la Pac, anzichè sulla pressione della lobby dei contadini che oggi tuttora la tiene in vita, nacque piuttosto sulla diffusa consapevolezza di politici, gene-

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rali e gente comune – memore della fame patita durante il secondo conflitto mondiale – che la sicurezza degli approvigionamenti alimentari non era un rischio accettabile in un mondo che, all’epoca, si preparava alla terza grande guerra. Il loro argomento, in fondo, era semplice: a differenza che per molte altre tipologie di forniture, una estesa produzione alimentare è del tutto impraticabile senza aver cominciato anni prima e senza che i campi siano preparati per essa. Il naturale ciclo della semina e del raccolto, in particolare, è un limite temporale invalicabile: non si può aumentare molto la produzione agricola se non a in-


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tervalli di circa un anno (per cia- paesi coloniali o ex coloniali scun prodotto e secondo la sua avrebbe ridotto il prezzo delle stagione). La domanda che si po- derrate agricole, allora la Comusero le classi dirigenti all’alba dei nità europea doveva impedire che primi ragionamenti europei, nel la libera concorrenza, spostando le dopoguerra, fu proprio quella se fonti di produzione nei paesi con i l’Europa, in caso di chiusura tem- costi più bassi, riducesse il numeporanea dovuta a invasioni di ter- ro di contadini, fattorie, macchira, bombardamenti ed interdizio- nari agricoli ed ettari coltivati in ne navale delle vie commerciali Europa, implementando un mix che usualmente la rifornivano, da di dazi, incentivi alla produzione parte del nemico sovietico, sareb- e sussidi all’esportazione che, a be stata in grado di nutrirsi du- spese dei contribuenti, garantisse rante il primo anno di guerra, se una autosufficienza alimentare convenzionale, o nei postumi di anno per anno alla Comunità. essa, se nucleare. E la risposta era Questo insieme di misure preordinate allo scopo di no. L’Europa, senelevare artificialza interventi poli- Per evitare il rischio mente la produziotici, non avrebbe ne agricola fu chiapotuto contare di carenze alimenatri mato “Politica sulla sicurezza de- in una futura guerra, agricola comunitagli approvigionaria”. Alla prova dei menti alimentari l’Ue introdusse come fatti essa è stata un non solo nel caso contromisura la Pac successo, poiché, limite che mancasse il sostegno Americano ma nonostante la forza dei fattori di anche nel caso in cui, pur essen- delocalizzazione connaturati al doci quel sostegno, le vie com- mercato libero, che portarono nel merciali non fossero in grado di dopoguerra paesi come il Giappotrasmetterlo efficientemente, a ne a livelli di dipendenza causa del conflitto in corso o del- dell’80% dalle importazioni alile sue conseguenze di lungo ter- mentari estere, sui quali essi ancomine (si pensi a porti, piste d’at- ra si attestano oggi, l’Europa rieterraggio, ponti autostradali e sce ancor oggi a produrre circa ferroviari lesionati non in modo due terzi di ciò che mangiamo, riminore, ma con le devastazioni ducendo le inevitabili importaziotipiche di un conflitto atomico, ni al terzo restante. Al di là di ed al tempo minimo necessario quelli che ne furono gli esiti, poi, per ripristinarli). Il rischio era non possono sfuggire le similituquello dell’inedia di massa, du- dini evidenti tra questa ed altre rante o dopo il conflitto della po- politiche di autosufficienza comunitarie. Si pensi all’enfasi originapolazione continentale. La contromisura fu la Pac. Se ogni riamente data allo sviluppo delevidenza indicava che lo svilup- l’energia atomica dal progetto euparsi del mercato globale e dei ropeo, laddove una delle tre co-


LA FINE DELL’EUROPA? Giovanni Basini

munità istituite dai trattati di svantaggiati dall’avvalorarsi della Roma, l’Euratom, era finalizzata moneta unica (si pensi al nostro, anche all’autosufficienza di lungo forte esportatore), dall’altro essa – periodo nella produzione energe- rappresentando un costante trasfetica. La Pac, dunque, faceva parte rimento di risorse agli agricoltori di un contesto strategico coerente. francesi – ha contribuito a porre le Se tutto fosse andato come imma- basi (insieme alla politica comune ginavano i padri dell’Europa, og- per carbone ed acciaio) di un rapgi, avremmo da tempo un eserci- porto politico fortissimo tra i due to europeo, una politica estera co- paesi originariamente alla base mune e – chissà – forse anche dello scatenarsi dei conflitti euroamici e nemici nuovi (si pensi a pei di un tempo. Infine, la Pac ha chi avrebbe condotto la guerra assunto la funzione di politica a del Golfo o gli interventi in Ju- tutela del paesaggio e dell’amgoslavia, se l’Europa fosse stata biente europeo, a metà fra la difesa già all’epoca veramente unita). della “rural way of life” e quella dei suoli, obbiettiCosì non è stato. Il vamente sentita p o l i z i o t t o d e l La Pac ha assunto, nel secolo che più mondo sono gli Americani, e noi sempre più la funzione ha visto svilupparsi il turismo. non abbiamo voce di politca a tutela Le nuove motivain capitolo. Ma zioni, che possono continuiamo ad del paesaggio e apparire deboli, avere, anche senza dell’ambiente europeo giustificano quelli politica estera comune e senza nemici, la politica che sono gli effetti distorsivi delagricola originariamente imma- la Pac? Ebbene, prima di dirlo, ginata come parte di quel quadro occorre intenderci su quali essi ed in risposta a quel tipo di mi- siano. Si deve, insomma, essere naccia. Tutto questo ha un senso? onesti e dire che la distorsione al Moltissimi liberali, preoccupati mercato della Pac uccide ogni delle distorsioni sul mercato, non giorno troppe persone nei paesi esiterebbero a rispondere di no, in via di sviluppo. Le nostre tasse eppure questa non è necessaria- finanziano il ritiro dal mercato mente l’unica risposta possibile delle eccedenze di produzione inper chi crede nel mercato. Se è ve- terna, sì, ma anche il sussidio nuta meno la principale motiva- all’esportazione di una rilevante zione per la politica agricola, in- parte di esse, ed in generale, stefatti, nondimeno essa ha assunto rilizzando l’immensa domanda nuove spiegazioni (condivisibili o europea, abbattono il prezzo inmeno), sia sostanziali che formali. ternazionale delle derrate. SemVediamole rapidamente: se da un pre le nostre tasse, rendono così lato la politica agricola ha rappre- impossibile, per quella che dosentato un forte sussidio all’econo- vrebbe essere l’industria di punta mia di paesi pericolosamente nei paesi in via di sviluppo, una

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vera crescita. Così, con una mano, (sia pure se piccolissimo se conla carità pelosa degli Stati, noi frontato da solo rispetto al Pil, esabituiamo all’assistenzialismo le so andrebbe confrontato solo e masse urbane di quei paesi e sempre sommato alla spesa pubdall’altra, con i dazi e i sussidi blica già elevatissima, fin verso il agricoli dell’Unione, noi toglia- 50%, di molti dei nostri paesi!) mo ogni speranza agli imprendi- ed è vero anche che sono ormai tori delle zone rurali. Costruiamo tantissimi i legami commerciali forse un mondo migliore depri- tra Francia e Germania che renmendo la domanda verso le im- dono inimmaginabili nuovi sconprese dei paesi poveri per ingras- tri, tuttavia tutto questo non fa i sare contadini francesi, italiani e conti con l’esigenza di immagispagnoli che poi si sentono in nare scenari futuri. colpa e adottano a distanza? Mi- “È la fine dell’Europa?” ci domanglioriamo forse la nostra vita di diamo. Forse no. Ma se non lo fostutti i giorni facendo pagare ai se, è forse il sogno strategico di un esercito europeo ad nostri contribuenesser morto? L’idea ti che non lavora- La Pac non va abolita, che l’Europa domano nel settore ni potrebbe doversi agricolo le tasse ma sicuramente per mantenere il deve essere fortemente scontrare nuovamente con un’Asia bilancio Ue che a imperialista, come sua volta regge il ridimensionata fu in secoli remoti, gioco di misure ai tempi in cui viviamo dobbiamo sgomdella Pac? Sono queste le – scottanti – do- brarla dal tavolo? L’idea che il mande che ai vertici internazio- mondo anglosassone ed oceanico, nali vengono poste ai nostri re- da tempo – ed ancor oggi – nostro sponsabili politici, che vengono amico, rimanga per sempre tale, urlate nelle piazze delle contesta- dobbiamo darla necessariamente zioni globali e che preoccupano la per scontata? Siamo convinti che coscienza di molti liberali. Sono uno scontro nucleare nel pacifico, domande vere. Possiamo, tutta- nell’era globale, non pregiudichevia, giudicare una politica che sta rebbe necessariamente i flussi in piedi da sessant’anni con lenti commerciali mediterranei e atlanumanitarie, ma di breve periodo, tici perchè “distanti”? Cos’è il raquali quelle che ci mettiamo al gionare strategico di lungo periomomento di affermare che “noi do, se non l’immaginare che le europei non abbiamo più nemici condizioni potrebbero cambiare, e da cui preservare la sicurezza de- lo studiare i modelli più adeguati gli approvigionamenti alimenta- a resistere in ogni caso? Sono queri”? A nostro personale avviso, sti, gli interrogativi che dovrebquesto non può darsi. È vero che bero spingere l’Europa a riflettere oggi l’Europa non ha nemici. È ancora, sulla mancanza di un eservero che il bilancio Ue è costoso cito europeo, sulla sua troppo ele-


LA FINE DELL’EUROPA? Giovanni Basini

vata dipendenza energetica dagli Stiamo insomma, come europei, idrocarburi – tragica conseguenza scambiando un beneficio per la dei ritardi nello sviluppo del nu- nostra accettabilità politica glocleare civile – e sull’inopportunità bale con un po’ meno reattività che ad essa un domani – abolita la nell’aumento della produzione Pac – si affianchi una totale man- agricola, a fronte dell’idea che i rischi militari, in questo periodo, canza di autosufficienza agricola. Se l’abolizione della Pac, è dun- siano ridotti. Questo tipo di rique qualcosa che noi, nettamen- forma, tuttavia, è quello sbagliate, sconsigliamo, questo non to- to, non essendo “strategico” proglie che essa possa e debba essere prio perchè presuppone che i riseriamente rivista. Sul fronte del- schi ridotti oggi restino bassi anle riforme, qualcosa già è comin- che domani. ciato, ed anzi è in corso: la spesa Scriviamo con in mente la vita di in incentivi decresce sistematica- un giovane, che guarda tra quamente ed è probabilmente desti- ranta e non tra dieci anni il mondo. Quale approcnata a ridursi ancora, lentamente, Bisogna aprire agli Ogm cio, quale visione, consigliare per per decenni, a favore di un secondo come avviene negli Usa quel lasso di tempilastro di sostegni così da abbattere i costi po, e non per il breve? A nostro all’agricoltura, avviso molte, e fondato sul pae- e rendere competitive molto valide, sono saggio, che è poi il le aziende europee le possibilità di mantenere le campagne nello stato per produrre, perseguire, senza più distorcere anziché tenere subito i campi il libero mercato, l’obbiettivo di coltivati estensivamente. Il ten- una capacità produttiva agricola tativo è quello di porre l’accento europea in grado di difenderci sulla produzione di un bene pub- dal rischio di interruzione problico “ambiente ben tenuto” tratta nel tempo delle vie compiuttosto che sulla sovrapprodu- merciali. Ne elenchiamo per zione agricola rispetto alla do- punti alcune, senza pretesa di manda naturale di mercato, alla completezza e con il linguaggio quale pure non si rinuncia del atecnico della politica, ben contutto. La logica di fondo è quella sapevoli che solo più profondi di non far mancare reddito alla studi tecnici potranno valutare lobby dei contadini assistiti, che è quale di queste soluzioni possa anche il più forte sponsor della veramente cambiare le cose in faPac, senza tuttavia mantenere in vore di una più forte Europa. piedi allo stesso livello degli anni Prima raccomandazione: aprire le scorsi la produzione interna che campagne europee alla scienza ha tanto danneggiato l’Africa ed genetica, che è prerogativa delil resto del mondo in via di svi- l’occidente più avanzato, riconoluppo, limitando il loro mercato. scendo quel che è innegabile ov-

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vero che sono decenni che in America, paese libero e pieno di movimenti contro questo, vengono impiegati in libertà organismi geneticamente modificati senza che sia mai stato evidenziato alcun rischio medico per l’uomo. Questo potrebbe abbattere i nostri costi di produzione agricola rendendo nuovamente competitive le nostre aziende, o almeno una parte di esse, di fatto rendendo non più necessari al fine di evitarne la chiusura i sussidi, né le tasse che a loro volta, venendo imposte per finanziare l’Ue e la sua Pac, li finanziano. Seconda raccomandazione: correggere il problema della dipendenza energetica investendo sul nucleare, la cui filiera è fatta in modo tale da essere strategicamente sostenibile anche senza importare uranio per lunghi periodi (essenzialmente grazie al ridotto volume di materia prima in entrata, che ne consente lo stoccaggio preventivo anche per anni, cosa impossibile per gli idrocarburi). Il problema della dipendenza energetica aggrava infatti in modo insostenibile il problema strategico agricolo perchè affianca ad esso un’altro rischio di penuria in caso di guerra. Se vogliamo l’Europa superpotenza, nessuna delle due politiche è rinunciabile, a nostro avviso, ma averne in piedi almeno una per davvero, questo sì, può grandemente ridurre l’irrinunciabilità dell’altra. Terza raccomandazione: fondare insieme, presto e bene, un esercito europeo vero, dotato di forze

strategiche nucleari, di forze aeree e di forze navali sufficienti alla difesa attiva delle vie commerciali da e per l’Unione. Tanto più l’Europa potrà tutelare attivamente la propria capacità di sopravvivere a un conflitto che interrompa le vie commerciali, tanto più essa potrà concedere in termini di rinunce a quella forma – barbara ma efficace – di tutela passiva che è la distorsione del mercato agricolo. Rinunciare alla difesa passiva, senza una difesa attiva, sarebbe follia! L’ultima raccomandazione, è di carattere morale: risolvere con serietà i problemi strategici dell’Europa è tanto più urgente, tanto più importante e nobile, quando il non agire su di essi, proprio come oggi, comporta il dover prendere contromisure che costano così care ai paesi più deboli del mondo, e che tradiscono quegli ideali – commercium et pax, come recitava l’iscrizione di benvenuto del porto di Amsterdam – che sono l’eredità gloriosa del liberalismo europeo.

L’Autore giovanni basini Già Presidente di Alternativa Studentesca, responsabile nazionale scuola di Forza Italia Giovani e dirigente nazionale dei Giovani del Pdl ha contribuito alla fondazione dell’associazione Fareitalia, nel consiglio direttivo nella quale siede attualmente.



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LA FINE DELL’EUROPA? Michele Trabucco

Non serve solo l’economia

Senza le proprie radici culturali non può esistere una civiltà europea Se si vuole credere veramente nella creazione di un’Europa unita non si può escludere da tale contesto la cultura cristiana e le sue regole che nei secoli hanno formato i popoli del Vecchio Continente. 169

di MICHELE TRABUCCO

“Le grandi religioni sono le fondamenta su cui poggiano le grandi civiltà”. Non è il papa o un fervido credente l’autore di una tale affermazione, ma il politologo americano Samuel Huntington, autore del celeberrimo quanto discusso libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il rapporto tra religione e civiltà ha da sempre appassionato gli studiosi senza giungere a una chiara definizione del “peso” di ogni religione nella formazione di una civiltà, ma certamente hanno dimostrato unanimemente che esiste un profondo e vitale nesso tra l’identità religiosa e quella culturale di una civiltà e di un popolo. Sempre secondo lo studioso americano “di tutti gli elementi formali che definiscono le civiltà, il

più importante è generalmente la religione, come sottolineavano gli ateniesi [...]. La religione è un basilare elemento caratterizzante delle civiltà”. Nonostante l’unanime considerazione che la religione, anche se non in maniera esclusiva ed esaustiva, fonda e sostiene le basi di una civiltà e forma una cultura, l’Europa non ha voluto riconoscere ufficialmente e formalmente questo dato storico e accademico della sua identità. Ricordando lo scottante dibattito sul preambolo da dare alla Costituzione europea, il richiamo alle radici giudeo-cristiane è stato fortemente osteggiato dalle ali più anticlericali e liberiste del continente, prive di una visione ampia storica del processo di formazione della civiltà e culturale


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europea. Tali atteggiamenti sono Questi diversi fattori hanno tropresenti anche nella mentalità vato nella tradizione giudeo-criquotidiana di tanti cittadini, co- stiana una forza capace di armome avvertiva papa Giovanni Pao- nizzarli, consolidarli e promuolo II nel suo documento Ecclesia verli. L’Europa non potrà ignorain Europa del 2003, “lo smarri- re la sua eredità cristiana, dal mento della memoria e dell’ere- momento che gran parte di queldità cristiane, accompagnato da lo che essa ha prodotto in campo una sorta di agnosticismo pratico giuridico, artistico, letterario e e di indifferentismo religioso, filosofico è stato influenzato dal per cui molti europei danno messaggio evangelico. E finché l’impressione di vivere senza re- gli europei e i suoi governanti troterra spirituale e come degli non affermeranno l’anima anche eredi che hanno dilapidato il pa- religiosa dell’Europa, non ci potrimonio loro consegnato dalla trà essere vera e solida unificaziostoria. Non meravigliano più di ne e integrazione. Se manca l’anima manca tanto, perciò, i l’identità; se esiste tentativi di dare Non può esistere una identità euroun volto all’Europa escludendone una solida unificazione pea, esiste anche una nazione eurola eredità religiosa se l’Europa continuerà pea, e se esiste una e, in particolare, nazione europea, la profonda anima a ignorare la sua allora l’Unione pocristiana, fondan- eredità cristiana litica si può codo i diritti dei popoli che la compongono senza in- struire. Lo ha detto in modo nestarli nel tronco irrorato dalla chiaro ed esplicito papa Giovanni Paolo II nel motu proprio Spes linfa vitale del cristianesimo”. Il vecchio continente è nato dal edificandi nel 1999: “non c’è processo secolare della cultura dubbio che, nella complessa stogreca e romana e dalla religione ria dell’Europa, il cristianesimo ebraico-cristiana. La storia, l’arte, rappresenti un elemento centrale il diritto, la filosofia, la lingua, e qualificante, consolidato sul l’economia, la politica e le istitu- saldo fondamento dell’eredità zioni, il modus operandi e vivendi classica e dei molteplici contridegli europei sono imperniati e buti arrecati dagli svariati flussi fondati, come su una fertile terra, etnico-culturali che si sono sucsulle radici greco-giudaiche- ceduti nei secoli. La fede cristiacristiane. Molteplici sono le radi- na ha plasmato la cultura del ci culturali: dallo spirito della Continente e si è intrecciata in Grecia a quello della romanità; modo inestricabile con la sua stodagli apporti dei popoli latini, ria, al punto che questa non saceltici, germanici, slavi e ungro- rebbe comprensibile se non si fafinnici, a quelli della cultura cesse riferimento alle vicende che ebraica e del mondo islamico. hanno caratterizzato prima il


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Trabucco

grande periodo dell’evangelizza- interpreta”. Per non essere fondazione, e poi i lunghi secoli in cui mentalisti, oggi si rischia spesso il cristianesimo, pur nella dolo- di cadere nell’arbitrarietà e nel rosa divisione tra Oriente e Occi- soggettivismo. In realtà, poiché dente, si è affermato come la reli- l’interpretazione non è mai gione degli europei stessa”. Ma un’avventura individuale ma è non è stata decisiva solo nel pri- sempre un incontro e confronto mo millennio, anche nel periodo con una comunità, si pone così moderno e contemporaneo, un chiaro limite all’arbitrio e alla “quando l’unità religiosa è anda- soggettività, un limite che obblita progressivamente frantuman- ga in maniera inequivocabile il dosi sia per le ulteriori divisioni singolo come la comunità. È una intercorse tra i cristiani sia per i riflessione molto attuale oggi di processi di distacco della cultura fronte ai poli dell’arbitrio sogdall’orizzonte della fede, il ruolo gettivo, da una parte, e del fanadi quest’ultima ha continuato a tismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se essere di non scarso rilievo”. Minimizzare le nostre la cultura europea di oggi potesse Riscoprire e affermare le radici giu- radici culturali significa comprendere la libertà ormai solo deo-cristiane del minare non solo come la mancanza vecchio continente totale di legami e significa riandare il passato, ma rendere con ciò favorisse alle origini della più fragile il futuro inevitabilmente il nostra vita e porre le autentiche basi del futuro. fanatismo e l’arbitrio. Mancanza Non è un messaggio contro qual- di legame e arbitrio non sono la cuno o a esclusione di qualcuno. libertà, ma la sua distruzione. Dimenticare il passato o negarlo Secondo Massimo Introvigne, o minimizzarlo significa minare che riflette sulle radici cristiane non solo la nostra identità attua- dell’Europa e sul ruolo della relile, ma anche rendere più fragile gione nello Stato in occasione del il progetto futuro. Il richiamo al- viaggio di Benedetto XVI in le radici permette di evitare due Francia, la nazione più secolarizrischi. Un rischio, infatti, è co- zata del vecchio continente, vi stituito dal fondamentalismo – il sono ragioni di principio per afquale pretende che la parola di fermare che anche una società seDio non abbia bisogno d’inter- colarizzata e che si dichiara laica pretazione, perché la semplice porta in sé il segno delle radici “letteralità del testo” sarebbe più cristiane. Infatti, “la laicità di che sufficiente – un altro rischio, per sé non è in contraddizione simmetrico, consiste nell’inter- con la fede. Anzi è un frutto delpretazione arbitraria fondata la fede, perché la fede cristiana semplicemente su “la propria era, fin dall’inizio, una religione idea, la visione personale di chi universale dunque non identifi-

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FOCUS

San Benedetto e le regole europee

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Il suo nome ci è noto sin dai banchi della scuola elementare. Studiando la storia medioevale a molti già balzava all’occhio l’immagine di questo vecchio barbuto che, nel pieno delle invasioni barbariche, fondava i primi monasteri, salvando tutto il meglio della cultura classica che, grazie alla diligenza dei suoi monaci, è arrivata fino a noi. Chi, poi, non conosce il motto ora et labora a lui attribuito? L’11 luglio 2011 la Chiesa ha celebrato la memoria di San Benedetto da Norcia, patrono d’Europa, una figura che in questi ultimi anni è tornata d’attualità per molteplici motivi; e non solo perché il Pontefice regnante, Benedetto XVI, ha scelto il suo stesso nome e si ispira costantemente alla sua opera e al suo pensiero. La figura di San Benedetto è attuale, innanzitutto perché, vivendo un’epoca di crisi e di sconvolgimenti simile all’attuale, seppe indicare una via d’uscita molto concreta e, al tempo stesso molto elevata, rivelatasi vincente. La strada percorsa da Benedetto è quella del cristianesimo integrale, uno stile di vita perfettamente coerente con la fede predicata, una civiltà completamente nuova e colma di una luce straordinaria in grado di illuminare popoli smarriti e in preda ad epocali contraddizioni. Benedetto nasce nel 480, appena quattro anni dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Formalizzatasi la dissoluzione politica di un sistema durato più di cinque secoli, ne era ancora in corso la decadenza morale, culturale e sociale, quella che il beato Giovanni Paolo II aveva definito la “notte oscura della storia”. Il decadimento dei costumi, a quell’epoca, era talmente radicato da condizionare profondamente e negativamente la tenuta stessa di un’intera civiltà. Inoltre i contemporanei di Benedetto stavano ormai dimenticando e rinnegando quella stessa cultura classica greca e romana che aveva reso grandi i loro antenati. Quello straordinario sistema di conoscenze, per la verità, aveva ancora molto da dire ma venivano a mancare uomini dotati della forza morale e

dell’autorevolezza capaci di rilanciare quella cultura. San Benedetto fu l’uomo che seppe invertire questa tendenza e che, con il suo entusiasmo e la sua tenacia, seppe recuperare quel glorioso passato. Così lo descrive il cardinale Joseph Raztinger, poche settimane prima di diventare papa: “Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può fare ritorno presso gli uomini. Abbiamo bisogno di uomini come San Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli”. San Benedetto diviene patrono d’Europa perché la sua Regola ha contribuito a plasmare un modo di vivere e di pensare che andava ben al di là del monachesimo e che avrebbe segnato la cristianizzazione e la rinascita dell’intero vecchio continente nei secoli successivi. Grazie a Benedetto, si afferma definitivamente l’etica cristiana del lavoro: qualsiasi attività fisica o intellettuale nobilita l’uomo e annulla ogni differenza tra schiavo e padrone. Con Benedetto nasce anche la cultura della solidarietà come la intendiamo oggi: la carità a beneficio dei poveri, dei malati, degli emarginati, sempre nell’ottica dell’uguaglianza e della pari dignità tra tutti gli uomini, patrizi o plebei, padroni o servi, ricchi o poveri. Benedetto è un uomo che si mette alla ricerca del passato non per fare un’opera di archiviazione museale, né tantomeno per poter trarre profitto da cimeli, destinati alle teche di un collezionista di molti secoli dopo. Trae in salvo i classici dall’aggressività iconoclasta barbarica perché questi, oltre a non essere in contraddizione con l’emergente religione cristiana, porranno le basi, in forme e linguaggi diversi, anche della civiltà del futuro. Coraggio e ottimismo sono


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Trabucco

quindi i segni distintivi di un uomo come Benedetto da Norcia che, rispetto alla sua epoca, seppe andare controcorrente, senza mai cercare minimamente la gloria personale. La cultura benedettina è il trionfo della cristianità, intesa sia come cultura cristiana che come preghiera che cambia la storia. Una cristianità ancora giovane ma ormai matura per imprimere un’identità forte a un intero continente. Sono le stesse radici cristiane che il Benedetto di oggi – Papa Ratzinger – ci ricorda con notevole frequenza, in risposta a chi le ritiene un mero retaggio del passato. Come allora ci troviamo di fronte a civiltà straniere che avanzano sempre più e che sembrerebbero in grado di sopraffarci. A quei tempi, tuttavia, il cristianesimo, pur tra mille difficoltà e persecuzioni, risultò vittorioso nella sua opera di pacificazione, in grado com’era di penetrare nelle tradizioni dei popoli più diversi, adattandosi alle più diverse mentalità, un po’ come l’acqua assume la forma dei recipienti che la contengono, senza mai cessare di essere acqua. Grazie all’opera discreta, tenace e potente di Benedetto da Norcia, l’Europa – dal Portogallo agli Urali, da Capo Nord a Pantelleria – assunse per la prima volta una sua identità forte, un’unità culturale e, alcuni secoli dopo, con la nascita del Sacro Romano Impero, anche un’identità politica. A dimostrazione del fatto che il corso della storia non è mai irreversibile e che, da grandi crisi, possono scaturire sorprendenti rinascite. E oggi, come allora, l’Europa è nuovamente alla ricerca di una propria identità che, come papa Benedetto XVI ha ribadito a più riprese, potrà conquistare soltanto attraverso “un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente”. E in quest’opera così difficile, quasi eroica, la Regola di San Benedetto, sottolinea papa Ratzinger, è “come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero”.

cabile con uno Stato, presente in tutti gli Stati e diversa in ogni Stato”. Nel Continente europeo non mancano certo i prestigiosi simboli della presenza cristiana, ma con l’affermarsi lento e progressivo del secolarismo, essi rischiano di diventare puro vestigio del passato, si avverte forte il rischio che in non pochi ambiti pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; che il non credere vada da sé mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata. Dire Europa significa dire uomo europeo, perché il concetto di Europa deve essere riempito con dei valori che diano un significato. Non a caso alcuni recenti osservatori parlano di crisi del vecchio continente perché è venuto a mancare il suo contenuto spirituale, valoriale ed etico. L’eredità religiosa, di cui si parla nel preambolo della Costituzione europea, è un miscuglio indifferenziato di riferimenti parziali alla storia del continente. Se è vero che l’umanesimo, l’età dei lumi e la civiltà greco-romano hanno dato il loro decisivo contributo alla nostra civiltà, altrettanto deve essere affermato riguardo alla religione giudeocristiana. Innanzitutto l’Europa non è una realtà identificabile come una estensione territoriale precisa, in quanto ha avuto e continuerà ad avere confini mobili e labili. Non è neanche una realtà “politica”, nel senso che non è stata mai una nazione e neppure uno

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Stato. Certamente, secondo Giovanni Reale, “l’Europa è una realtà spirituale nata da radici culturali e spirituali ben precise quali la cultura greca, il messaggio cristiano e la grande rivoluzione scientifica”. La cultura greca ha creato una specifica forma mentis teoretica, passando da un linguaggio e pensiero di immagini e orale alla concettualizzazione, alla razionalità, alla possibilità di ragionare in astratto, di “filosofeggiare”, nel senso di andare oltre la realtà empirica e fattuale, per cogliere e descrivere ciò che sta “oltre”. Senza questo passaggio non avremmo neanche la attuale idea e concetto di scienza. Ma neppure ci sarebbe stata la base del fondamentale concetto cristiano della persona. Socrate, Platone, Aristotele e tanti altri filosofi greci hanno dato l’humus su cui il cristianesimo ha attecchito e fatto crescere uno dei suoi essenziali aspetti: un Dio personale, un Essere capace di relazione, di diventare uomo. Il cristianesimo sviluppa i germi del suo personalismo religioso dalla fede abramitica di un Dio che forma un popolo, lo chiama e lo guida lungo la storia, abitandola con la Sua presenza. Ma sarà Gesù di Nazareth a rendere ancora più storica, personale, vicina all’uomo la vita di Dio. Con Gesù l’uomo diventa pienamente immagine di Dio, la Sua dimora. In questa prospettiva culturalereligiosa, la visione antropologica diventa centrale in tutta la storia e vicenda del vecchio con-

tinente. L’integrazione dei valori greci e del cristianesimo ha reso il concetto di persona la pietra fondante della nostra identità, anche quando ha subito una radicale distorsione nel totalitarismo e nell’individualismo. Infatti il primo svilisce e annienta il valore della persona a vantaggio di un non ben definito bene comune; il secondo opera una assolutizzazione della persona staccandola dal contesto sociale e globale a cui è radicata. La religione cristiana non è nata in Europa, ma, come ha sottolineato Benedetto XVI, “proprio in Europa esso ha ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciata in modo speciale al Vecchio Continente”. Da questa prospettiva si può comprendere come riconoscere le radici cristiane sia fondamentale per la identità culturale del continente in vista della costruzione del futuro europeo. Il principio di dialogo e di unità nella diversità, propri del cristianesimo, hanno avuto i loro fondamenti nei valori e nella cultura della romanità. A differenza della polis greca, nell’impero romano anche un africano o un germanico poteva diventare cittadino o accedere alle cariche pubbliche. L’universalità romana si è sviluppata ulteriormente nel terreno della religione cristiana che ha fatto dell’apertura, dell’accoglienza e del rispetto dell’altro uno dei suoi capisaldi etici. La stessa democrazia moderna e liberale, afferma Christoph Bohr


LA FINE DELL’EUROPA? Michele Trabucco

studioso tedesco ed ex-vicepresidente del Cdu, “trova nelle radici cristiane il suo pieno sviluppo, avendo creato il presupposto per l’emancipazione dell’individuo libero, dotato di uguali diritti, di una dignità inviolabile e quindi anche per l’emancipazione della donna. La Riforma, l’Illuminismo, la rivoluzione democratica e i movimenti sociali dell’epoca moderna hanno potuto liberare le forze politiche laddove nella fede cristiana si era preparato il terreno per la libertà e l’autoresponsabilità”. Riconoscendo il fondamento etico-religioso dei valori essenziali della nostra cultura si evita il pericolo descritto da Edgar Morin: “una volta perduto il Dio-fondamento, il pensiero laicizzato è spinto a universalizzarsi, a cercare, in altri termini, quei principi che risultano validi per tutto l’universo, per ogni uomo, per ogni società. […] è proprio in quanto la ragione si crede pura verità che finisce con l’autodeificarsi; ed è proprio autodeificandosi che la ragione diventa folle. La fede stessa gioca un ruolo critico fondamentale in quanto mina alla base tutti i fondamenti proposti dal pensiero laico e mostra i limiti, e le carenze della ragione, dell’umanesimo e della scienza”. Tolto, allora, il concetto di Dio cristiano, si toglie il concetto stesso di persona. Per questo, avverte Reale, “il principio assiologico fondativo di una comunità europea non potrà che essere quello umanistico-cristiano, in base al quale l’Europa si è gene-

rata e costituita”. La religione, come confermava il grande poeta T.S. Eliot, “è la forza dominante nella creazione d’una cultura comune tra i popoli, ciascuno con una cultura distinta”. Anche se ogni europeo può non credere che la fede cristiana sia vera, tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. “Se il cristianesimo se ne va, chiude perentoriamente Reale – se ne va tutta la nostra cultura”. I fondamenti culturali del nostro continente diventano necessari per edificare su solide basi la nuova Europa. Non è sufficiente fare forza sui soli interessi economici, ma è necessario far leva piuttosto sui valori autentici, che hanno il loro fondamento nella legge morale universale, inscritta nel cuore di ogni uomo. Bibliografia Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa, Cortina editore 2003. Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondadori 2008.

L’Autore michele trabucco Giornalista freelance, laureato in Teologia e in Scienze dello sviluppo e della cooperazione internazionale.

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LA FINE DELL’EUROPA? Giampiero Ricci

Occidente, gli ultimi giorni di Bisanzio? Come nel 1453 con l’arrivo degli Ottomani nella Cattedrale di Santa Sofia, oggi pare che il mondo occidentale non sia in grado di prevenire i rischi provenienti da un Oriente sempre più arrembante, tra crisi economiche e valoriali. di GIAMPIERO RICCI

Tra i racconti che la tradizione associa alla caduta di Bisanzio uno dei più gettonati è quello sulla presa della Cattedrale di Santa Sofia da parte degli Ottomani. Era il 29 maggio del 1453 e quella mattina i sacerdoti dicevano messa quando sentirono arrivare i turchi, pensarono di sbarrare la grande porta di bronzo, ma gli ottomani irruppero asce alla mano. La gente si era accalcata dentro la chiesa sperando di trovar rifugio dalla furia giannizzera ma anche perché convinta, come raccontano Gibbon e Saunders nel Declino e caduta dell’Impero romano (pp. 490491), che sarebbe finita come leggenda voleva: sarebbe arrivato un angelo a cacciare i Turchi da Costantinopoli, avrebbe consegnato una spada a un povero seduto sulla colonna di Costantino dicendogli «Prendi questa spada e vendica il popolo del Signore» e a questo punto i Turchi sarebbero fuggiti e i Bizantini li avrebbero cacciati dall’Europa.

Come noto tutto ciò non accadde, anzi il finale della vicenda fu piuttosto truculento da come narrano le fonti: infatti i sacerdoti furono passati a fil di spada direttamente sull’altare e così la gente dentro la cattedrale. Le stesse fonti parlano di scenari apocalittici (che si risparmiano al lettore) per le strade di Bisanzio il giorno della caduta: era come se la popolazione della città fosse stata colta di sopresa. Eppure tutto si può dire tranne che l’amministrazione bizantina non avesse avuto da tempo sentore di una qualche possibilità di decadenza dell’Impero tanto che, come spiega Henri Irénée Marrou nel suo Decadenza Romana o tarda antichità, per lunghi tratti della sua millenaria esistenza, la storia di questo impero scomparso pare non esser stata altro che il prolungato tentativo di arginare con ogni mezzo e alla fine inutilmente, la propria dissolvenza sul palcoscenico della storia.

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E proprio un prolungato tentati- che oggigiorno non è più necessavo di arginare un destino prossi- riamente detto che il processo di mo di dissolvenza sul palcosceni- decadenza di un centro di potere co della storia paiono le ricette politico, culturale e di valori debche le cancellerie di questa metà ba concludersi nel sangue e dato del mondo sembrano in grado di per assodato che percorrendo la storia occidentale non si ha notioffrire ai cittadini occidentali. L’inquilino di Pennsylvania Ave- zia di fasi prolungate di rassegnanue ha appena lanciato il suo pia- zione all’ineluttabile, per indivino di tagli del 50% alle spese mi- duare da dove potrebbe pervenire litari statunitensi per i prossimi la scintilla del riscatto, può essere dieci anni, capace negli auspici di utile dare uno sguardo ad alcuni fissare il deficit, ma d’altra parte caposaldi significativi della fionon risulta ben chiaro all’indoma- rente letteratura contemporanea ni della realizzazione di tale piano avente ad oggetto il tema della chi o cosa dovrebbe poi riuscire a decadenza della pars Occidentis. È infatti dai tempi fissare i punti sendell’Intervista sul sibili dello scac- Le ricette occidentali nuovo secolo di Eric chiere geopolitico per uscire dalla crisi Hobsbawn (Latermondiale. La Signora Merkel somigliano a prolungati za, 1999) che si preconizza l’indecontinua la sua opera di doppia tentativi di arginare un bolimento e la lenta marginalizzaziorassicurazione, da destino di dissolvenza ne del sistema ocuna parte verso i mercati per tranquillizzarli sul cidentale in favore delle crescenti futuro dell’euro (con Monsieur economie orientali, Cina e India Sarkozy prima o poi ci si metterà in testa. Indebolimento che nella d’accordo), dall’altra verso i tede- visione futurista ed oggi tristeschi per tranquillizzarli sul fatto mente contemporanea proposta che tutto quello che doveva esse- dall’insigne storico inglese sarebre fatto è stato fatto: le banche be avvenuto per l’incapacità /imtedesche dall’estate scorsa hanno possibilità del nostro sistema venduto tutti i titoli di stato ita- economico-politico di riuscire ad emendare se stesso in ragione liani e spagnoli. David Cameron con il dito alzato della sfida globale: come compeammonisce il resto del mondo tere con sistemi economici che contro il rischio di questo crescen- contemperano tranquillamente te terrorismo anti City, questa l’esistenza delle caste? ariaccia che tira contro i mercati La vulgata marxista, di cui Hobfinanziari di cui la Tobin Tax è sbawn è un autorevolissimo inchiaramente un’espressione.In- terprete, vorrebbe che questa stosomma siamo agli stracci in faccia. ria del costo del lavoro troppo Posto che una delle cose belle che basso rispetto al nostro, presto o ha portato il progresso è il fatto tardi, terminerà e sarà allora che


LA FINE DELL’EUROPA? Giampiero Ricci

l’Occidente potrà riprendere fia- no o spagnolo, secondo gli esperti to e se ciò avverrà sarà soltanto l’economia tedesca sarebbe già in perché il proletariato (sic) cinese recessione tecnica, essendosi cono indiano avrà finalmente acqui- tratta negli ultimi tre mesi del sito consapevolezza dello sfrutta- 2011 e pronta a indebolirsi ultemento a cui è sottoposto e allora riormente nel primo trimestre si inalbererà contro l’establishment del 2012: il mercato del sud Eupolitico bloccando la crescita ropa si dimostra asfittico. delle tigri asiatiche a vantaggio Ebbene, nell’asta del 9 gennaio il gigante teutonico è riuscito a di Europa e Usa. Sì, ma quando si inalbererà il collocare titoli di stato a scadenproletariato cinese o indiano? Ma za a sei mesi per un valore di 3,9 lo farà? E per quella data saremo miliardi di euro con un bid-tocover pari a 1,80 ma per la prima tutti ancora qui? Il dubbio sorge, visto che nel volta nella storia il collocamento frattempo all’alba dell’anno domi- è avvenuto a rendimenti negativi, qualcosa avveni 2012 l’unica conuto unicamente sa certa è che a par- Secondo Hobsbawn nella storia degli tire dall’agosto del Stati Uniti ed in 2008 allorché sullo il gap del costo del scenario finanziario lavoro con India e Cina due momenti, dopo Pearl Harbor e globale si affacciò il famigerato credit si colmerà con la rivolta dopo il fallimento crunch americano del proletariato asiatico d e l l a L e h m a n Brothers. causato dalla crisi dei cosiddetti mutui subprime ed Un rapporto della Price Waterancor di più oggi a dieci anni house Coopers del giugno scorso dall’entrata della Cina del Wto, (Banking 2050) ha reso noto che di questo inalberamento delle il valore delle attività bancarie masse proletarie cinesi e indiane nazionali congiunte delle econonon vi è traccia ed anzi si è assi- mie emergenti di Cina, India, stito quasi unicamente all’esplo- Brasile, Russia, Messico, Indonesione dei deficit dei paesi virtuosi sia e Turchia, supereranno quelle occidentali come gli Usa, il Re- dei paesi del G7 nel 2036, tutto gno Unito o la Francia, alle ten- ciò a suggellare le stime di una sioni sui debiti sovrani maggior- emorragia di capitali dal Nord mente esposti come quelli di Ita- America e dall’Europa verso lia e Spagna, al fallimento di fat- America del Sud e Asia nella mito di deboli economie come quel- sura dei cinquecento miliardi di le della Grecia, nonché a perico- dollari all’anno. lose tensioni economico-valutarie A questo quadro a tinte fosche si aggiunge poi il jolly dei derivati: anche in Germania. A proposito di Frau Merkel e del- stime ottimistiche sostengono esle rassicurazioni ai tedeschi in servi nel mondo contratti financhiave antidebito pubblico italia- ziari derivati per un contro valore

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pari a quattro volte il Pil mondiale: chi li pagherà? E sì che si direbbe: mal comune mezzo gaudio. Neanche per sogno. I dati Ocse usciti a metà ottobre scorso parlano ancora chiaramente, esiste un’economia mondiale tutto sommato in salute e trainata dal sostanziale contributo delle economie emergenti: da gennaio 2010 la ricchezza mondiale è infatti aumentata del 14% arrivando a 231mila miliardi di dollari (era 203mila miliardi) e la ricchezza pro capite registra in più di dieci anni un incremento del 9% (da 46.600 dollari del gennaio 2010 ai 51.000 dollari del giugno 2011). Che la crescita più sostenuta avvenisse in favore di America latina, Africa e Asia era auspicabile ma la novità è che la principale fonte di ricchezza a livello mondiale è stata la regione Asia Pacific, soprattutto grazie ai capitali accumulati da Cina, Giappone, Australia e India a cui va inoltre il merito di aver generato il 36% della ricchezza mondiale dal 2000 e il 54% dal 2010 scalzando quindi per la prima volta l’economia statunintense dal ruolo di locomitiva del mondo. Con questa prospettiva resta opportuno per l’Occidente continuare ad aspettare il risveglio delle masse proletarie cinesi ed indiane e il conseguente rapido acquisto da parte di queste dei diritti civili guadagnati dai lavoratori europei e americani i cinque secoli di storia oppure è arrivato il momento di pensare ad un piano B?

Non è forse il caso di prendere atto che i sistemi economico-politici che hanno retto Europa e Stati Uniti nel secondo dopoguerra non sono adatti a reggere l’impatto della contemporanea sfida globale? Zygmut Bauman, filosofo polacco, nel 2000 pubblicò il saggio Modernità Liquida in cui paragonò il passaggio successivo alla fine del novecento ad una transizione di fase della modernità, dall’hardware al software, dai mezzi di produzione al sapere, dal materiale all’immateriale, dal serio al futile, poiché tutto è raggiungibile facilmente nulla allora di quello che si raggiunge ha davvero valore se non per poco tempo, di qui la necessità di cambiare continuamente obiettivi nel corso della propria vita che poi dovrebbe essere il valore di fondo della nuova modernità liquida. Chi non capisce questo è fuori dal mercato del lavoro, è fuori dal costume, è fuori dalla società. Il problema è che difficilmente i dententori di hardware, dei mezzi di produzione, del “materiale”, i tizi seri che non hanno voglia di diventare futili saranno disposti a cedere quote del loro potere piuttosto faranno finta che nulla è cambiato portando il sistema in tilt. Ecco il dilemma del burocrate, attualizzazione del Sansone di biblica memoria. Ma già Newton nel suo terzo principio prendeva atto che dall’esistenza di forze uguali e contrarie che si scambiano energia ne deriva che il punto rimane fermo.


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E pare non sia un bel punto per noi occidentali. Difficile dare torto a Bauman quanto meno sul fatto che il sistema poi alla fine sia andato in tilt. E a questo punto della trattazione non può mancare una citazione di Nietzsche: “Laddove declina in qualsiasi forma la volontà di potenza, c’è ogni volta anche un’involuzione fisiologica, una decadence”. Ma la citazione di Nietzsche per una volta non calza ad una critica del decadentismo europeo di stampo evoliano bensì all’opera di Samuel P. Huntington. Il politologo conservatore statunitense scomparso nel 2008 e cresciuto alla corte del Leo Strauss padre del neo-conservatorismo, è noto per le tesi de Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale (Garzanti, 2000) dove sosteneva sostanzialmente che per difendere le loro identità dalla globalizzazione incalzante, l’induismo, lo scintoismo, il confucianesimo e l’islam avrebbero fatto muro contro lo stile di vita occidentale e per questo fu aspramente criticato soprattutto dai salotti buoni liberal, salvo poi il dietrofront di rito dopo l’11 settembre. Ma nella successiva pubblicazione La nuova America. Le sfide della società multiculturale (Garzanti, 2005) Huntington elencava il vero principale pericolo per l’occidente: il declino delle responsabilità sociali preparando il suo paese ai vari Maddoff tristemente saliti agli onori della cronaca di tutto il mondo. Generazioni giovani sempre meno

interessate allo stato della comunità e sempre più interessate unicamente a se stesse che perdendo il senso della comunità e della cittadinanza lasceranno aperte le porte alla feudalizzazione delle democrazie economiche occidentali da parte dei potentati e dei centri di interesse particolare. Un passo iniziale potrebbe essere già quello di prendere coscienza del punto in cui si è giunti, non aspettarsi che prima o poi arriverà un Angelo e porgerà la spada ad un povero seduto sulla colonna di Costantino per scacciare i barbari alle porte, smetterla di continuare a perdere tempo con veti incrociati e preclusioni di sorta poiché è quanto meno probabile che il salvataggio di una prospettiva occidentale non possa nascere che da un recupero del senso di un destino comune tra le due sponde dell’Atlantico. Il sistema dei veti incrociati, tanto per tornare al paragone di fondo, gli storici riconoscono essere stato anche il motivo vero del crollo di Bisanzio, collassata in seguito ad un fenomeno simile a quello che sta caratterizzando la crisi occidentale: l’incapacità del potere politico di prendere decisioni radicali, rapide ed efficaci.

L’Autore giampiero ricci Giornalista pubblicista, si occupa di letteratura, cinema e cultura pop. Collabora con il quotidiano Liberal, il Domenicale, l’Occidentale.

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gli strumenti di

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In questa sezione Charta minuta offre ai lettori tre documenti importanti per comprendere la necessaria evoluzione che sta coinvolgendo le istituzioni comunitarie nel corso di questa crisi economica e finanziaria, oltre che politica, del Vecchio Continente. Il primo è la bozza del nuovo Patto di stabilità che è in discussione all’interno delle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo e che ridisegnerà le regole dell’Ue. Il secondo è la sintesi della Costituzione europea approvata qualche anno fa. Il terzo, infine, racchiude le conclusioni dell’ultimo consiglio europeo del 9 dicembre 2011, quando i leader dei 27 paesi membri si erano riuniti per mettere a punto una strategia comune contro la crisi, provocando però la posizione contraria della Gran Bretagna.


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Treaty on stability, coordination and governance in the economic and monetary union the contracting parties. Conscious of the obligation of the Contracting Parties, as Member States of the European Union, to regard their economic policies as a matter of common concern, desiring to promote conditions for stronger economic growth in the European Union and, to that end, to develop evercloser coordination of economic policies within the euro area,bearning in mind that the need for governments to maintain sound and sustainable public finances and to prevent a government deficit becoming excessive is of an essential importance to safeguard the stability of the euro area as a whole, and accordingly requires the introduction of specific rules to address this need, including a balanced budget rule and an automatic mechanism to take corrective action, conscious of the need to ensure that their deficits do not exceed 3 % of their gross domestic product at market prices and that government debt does not exceed, or is sufficiently declining towards, 60 % of their gross domestic product at market prices, recalling that the Contracting Parties, as Member States of the European Union, should refrain from adopting any measure which could jeopardise the attainment of the Union's objectives in the framework of the economic union, notably the practice of accumulating debt outside the general government accounts, bearning in mind that the Heads of State or Government of the euro area Member States agreed on 9 December 2011 on a reinforced architecture for Economic and Monetary Union, building upon the Euro-

pean Union Treaties and facilitating the implementation of measures taken on the basis of Articles 121, 126 and 136 of the Treaty on the Functioning of the European Union, bearing in mind that the objective of the Heads of State or Government of the euro area Member States and of other Member States of the European Union is to incorporate the provisions of this Agreement as soon as possible into the Treaties on which the European Union is founded, welcoming the legislative proposals made by the European Commission within the framework of the European Union Treaties on 23 November 2011 and Taking note of its intention to present further legislative proposals regarding a mechanism of ex ante reporting of debt issuance plans of the Member States of the European Union, a procedure of economic partnership programmes detailing structural reforms for euro area Member States in excessive deficit procedure as well as a new coordination procedure at the level of the euro area for major economic policy reform plans, Taking note that, when reviewing and monitoring the budgetary commitments under this Treaty, the European Commission will act within the framework of its powers as provided by the Treaty on the functioning of the European Union, in particular Articles 121, 126 and 136 thereof, noting in particular that, for the application of the budgetary "Balanced Budget Rule" described in Article 3 of this Agreement, this monitoring will be made through the setting up of country specific medium term objectives and of calendars of convergence, as appropriate, for each


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Contracting Party. Temporary deviation from the medium-term objective will only be allowed in cases of unusual event outside the control of the contracting party with a major impact on the financial position of the general government or in periods of severe economic downturn for the euro area, the EU or the concerned Contracting party as defined in the revised Stability and Growth Pact. Noting that the medium term objectives should be updated regularly on the basis of a commonly agreed method, the main parameters of which are also to be reviewed regularly, reflecting appropriately the risks of explicit and implicit liabilities for public finance, as embodied in the aims of the Stability and Growth Pact, noting that sufficient progress towards the medium term objectives should be evaluated on the basis of an overall assessment with the structural balance as a reference, including an analysis of expenditure net of discretionary revenue measures, in line with the provisions specified under the law of the Union, in particular Regulation (EC) No. 1466/97, as amended by Regulation (EC) No. 1175/2011, noting that compliance with the obligation to transpose the "Balanced Budget Rule" into national legal systems through binding and permanent provisions, preferably constitutional, should be subject to the jurisdiction of the Court of Justice of the European Union, in accordance with Article 273 of the Treaty on the Functioning of the European Union, recalling the need to facilitate the adoption of measures under the excessive deficit procedure of the European Union for euro area Contracting Parties whose planned or

actual government deficit to gross domestic product exceeds 3%, whilst strongly reinforcing the objective of that procedure, namely to encourage and, if necessary, compel the Member State concerned to reduce a deficit which might be identified, recalling the need for those Contracting Parties whose government debt exceeds the 60 % reference value to reduce it at an average rate of one twentieth per year as a benchmark, bearing in mind the need to respect the role of social partners, as it is foreseen in the law of each of the Contracting Parties, in the implementation of this Treaty, stressing that none of the provisions of this Treaty is to be interpreted as altering in any way the economic policy conditions under which financial assistance has been granted to a Contracting Party in a stabilisation programme involving the European Union, its Member States and the International Monetary Fund, recalling the agreement of the Heads of State or Government of the euro area Member States on 26 October 2011 to improve the governance of the euro area, including the holding of at least two Euro Summit meetings per year, as well as the endorsement of the Euro Plus Pact by the Heads of State or Government of the euro area Member States and of other Member States of the European Union on 25 March 2011, stressing the importance of the Treaty establishing the European Stability Mechanism as an element of a global strategy to strengthen the Economic and Monetary Union and pointting out that compliance with Article 3(2) shall be considered as a condition for the granting of assistance under the Euro-

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pean Stability Mechanism as soon as the transposition period mentioned in Article 3(2) has expired, have agreed upon the following provisions.

and with European Union law. They shall not encroach upon the competences of the Union to act in the area of the economic union.

TITLE I Purpose and scope Article 1 1. By this Treaty, the Contracting Parties agree, as Member States of the European Union, to strengthen the economic pillar of the Economic and Monetary Union by adopting a set of rules intended to foster budgetary discipline through a fiscal compact, to strengthen the coordination of economic policies and to improve the governance of the euro area, thereby supporting the achievement of the European Union's objectives for sustainable growth and employment. 2. The provisions of this Treaty shall apply in full to the Contracting Parties whose currency is the euro. They shall also apply to the other Contracting Parties to the extent and under the conditions set out in Article 14.

TITLE III Fiscal compact Article 3 1. The Contracting Parties shall apply the following rules, in addition to and without prejudice to the obligations derived from Union law: a) The budgetary position of the general government shall be balanced or in surplus. b) The rule under point a) above shall be deemed to be respected if the annual structural balance of the general government is at its country-specific mediumterm objective as defined in the revised Stability and Growth Pact (Regulation (EU) No. 1175/2011) with a deficit not exceeding 0.5 % of the gross domestic product at market prices. The Contracting Parties shall ensure convergence towards their respective medium-term objective. Convergence shall be evaluated on the basis of an overall assessment with the structural balance as a reference, including an analysis of expenditure net of discretionary revenue measures, in line with the provisions of the revised Stability and Growth Pact. c) The Contracting Parties may temporarily deviate from their medium-term objective in case of an unusual event outside the control of the Contracting Party concerned which has a major impact on the financial position of the government or in periods of a severe economic downturn as defined in the revised Stability and Growth Pact,

TITLE II Consistency and relationship with the law of the union Article 2 1. This Treaty shall be applied by the Contracting Parties in conformity with the Treaties on which the European Union is founded, in particular Article 4(3) of the Treaty on European Union, and with European Union law. 2. The provisions of this Treaty shall apply insofar as they are compatible with the Treaties on which the Union is founded


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provided that this does not endanger fiscal sustainability in the medium term. d) Where the ratio of government debt to gross domestic product at market prices is significantly below 60 % and where risks in terms of long-term sustainability of public finances are low, the lower limit of the medium-term objective specified under point b) can reach a deficit of maximum 1.0 % of the gross domestic product at market prices. 1. The rules mentioned under paragraph 1 shall take effect in the national law of the Contracting Parties within one year of the entry into force of this Treaty through provisions of binding force and permanent character, preferably constitutional, that are guaranteed to be respected throughout the national budgetary processes. The Contracting Parties shall in particular put in place at national level, on the basis of principles agreed on a proposal from the European Commission, a correction mechanism to be triggered automatically in the event of significant deviations from the medium term objective or the adjustment path towards it, as specified in the revised Stability and Growth Pact. The mechanism shall include the obligation of the Contracting Parties to implement measures to correct the deviations over a defined period of time. It shall fully respect the responsibilities of national Parliaments. 2. For the purposes of this Article, definitions set out in Article 2 of Protocol (No 12) on the excessive deficit procedure annexed to the European Union Treaties shall apply. In addition, "annual structural balance of the general government" refers

to the annual cyclically-adjusted balance net of one-off and temporary measures.

Article 4 When the ratio of their general government debt to gross domestic product exceeds the 60 % reference value mentioned under Article 1 of Protocol (No 12), the Contracting Parties shall reduce it at an average rate of one twentieth per year as a benchmark, as provided for in Article 2 of Regulation (EC) No. 1467/97 as amended by Regulation (EU) No. 1177/2011. Article 5 1. The Contracting Parties that are subject to an excessive deficit procedure under the European Union Treaties shall put in place a budgetary and economic partnership programme including a detailed description of the structural reforms which must be put in place and implemented to ensure an effective and durable correction of their excessive deficits. The content and format of these programmes shall be defined in the law of the Union. Their submission to the European Commission and the Council for endorsement and their monitoring will take place within the context of the existing surveillance procedures of the Stability and Growth Pact. 2. The implementation of the programme, and the yearly budgetary plans consistent with it, will be monitored by the Commission and by the Council. Article 6 With a view to better coordinating the planning of their national debt issuance, the Contracting Parties shall report ex-

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ante on their public debt issuance plans to the European Commission and to the Council.

which shall take the necessary measures to comply with the judgment within a period to be decided by said Court.

Article 7 While fully respecting the procedural requirements of the European Union Treaties, the Contracting Parties whose currency is the euro commit to support the proposals or recommendations submitted by the European Commission where a Member State whose currency is the euro is considered by the European Commission to be in breach of the deficit criterion in the framework of an excessive deficit procedure. This obligation shall not apply where it is apparent among the Contracting Parties whose currency is the euro that a qualified majority of them, calculated by analogy with the relevant provisions of the European Union Treaties without taking into account the position of the Contracting Party concerned, is of another view.

TITLE IV Economic policy coordination and convergence Article 9 Building upon the economic policy coordination as defined in the Treaty on the Functioning of the European Union, the Contracting Parties undertake to work jointly towards a common economic policy fostering the smooth functioning of the Economic and Monetary Union and economic growth through enhanced convergence and competitiveness. To that end, the Contracting Parties shall take the necessary actions and measures in all the domains which are essential to the good functioning of the euro area, as mentioned in the Euro Plus Pact.

Article 8 Any Contracting Party which considers that another Contracting Party has failed to comply with Article 3(2) may bring the matter before the Court of Justice of the European Union or invite the European Commission to issue a report on the matter. In the latter case, if the European Commission, after having given the Contracting Party concerned the opportunity to submit its observations, confirms non compliance in its report, the matter will be brought to the Court of Justice by the Contracting Parties. The judgment of the Court of Justice of the European Union shall be binding on the parties in the procedure,

Article 10 In accordance with the requirements of the European Union Treaties, the Contracting Parties undertake to make recourse, whenever appropriate and necessary, to measures specific to those Member States whose currency is the euro as provided for in Article 136 of the Treaty on the Functioning of the European Union and to the enhanced cooperation as provided for in Article 20 of the Treaty on European Union and in Articles 326 to 334 of the treaty on the Functioning of the European Union on matters that are essential for the smooth functioning of the euro area, without undermining the internal market.


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Article 11 With a view to benchmarking best practices and working towards a common economic policy, the Contracting Parties ensure that all major economic policy reforms that they plan to undertake will be discussed ex-ante and, where appropriate, coordinated among themselves. This coordination shall involve the institutions of the European Union as required by the law of the Union. TITLE V Governance of the euro area Article 12 1. The Heads of State or Government of the Contracting Parties whose currency is the euro shall meet informally in Euro Summit meetings, together with the President of the European Commission. The President of the European Central Bank shall be invited to take part in such meetings. The President of the Euro Summit shall be appointed by the Heads of State or Government of the Contracting Parties whose currency is the euro by simple majority at the same time the European Council elects its President and for the same term of office. 2. Euro Summit meetings shall take place, when necessary, and at least twice a year, to discuss questions related to the specific responsibilities those Member States share with regard to the single currency, other issues concerning the governance of the euro area and the rules that apply to it, and in particular strategic orientations for the conduct of economic policies and for improved competitiveness and increased convergence in the euro area.

3. Euro Summit meetings shall be prepared by the President of the Euro Summit, in close cooperation with the President of the European Commission, and by the Euro Group. The follow-up to the meetings shall be ensured in the same manner. 4. The President of the Euro Summit shall keep the Contracting Parties whose currency is not the euro and the other Member States of the European Union closely informed of the preparation and outcome of the Euro Summit meetings. The President will also inform the European Parliament of the outcome of the Euro Summit meetings.

Article 13 Representatives of the Parliaments of the Contracting Parties will be invited to meet regularly to discuss in particular the conduct of economic and budgetary policies, in close association with representatives of the European Parliament. TITLE VI General and final provisions Article 14 1. This Treaty shall be ratified by the Contracting Parties in accordance with their respective constitutional requirements. The instruments of ratification shall be deposited with the General Secretariat of the Council of the European Union. 2. This Treaty shall enter into force on 1 January 2013, provided that [twelve] Contracting Parties whose currency is the euro have deposited their instrument of ratification, or on the first day of the month following the deposit of the [twelfth]

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instrument of ratification by a Contracting Party whose currency is the euro, whichever is the earlier. 3. This Treaty shall apply as from the day of entry into force amongst the Contracting Parties whose currency is the euro and which have ratified it. It shall apply to the other Contracting Parties whose currency is the euro as from the first day of the month following the deposit of their respective instrument of ratification. 4. By derogation to paragraph 3, Title V shall apply to all Contracting Parties whose currency is the euro as from the date of the entry into force of this Treaty. 5. This Treaty shall apply to the Contracting Parties with a derogation as defined in Article 139(1) of the Treaty on the Functioning of the European Union, or with an exemption as defined in Protocol No 16 on certain provisions related to Denmark annexed to the European Union Treaties, which have ratified it, as from the day when the decision abrogating that derogation or exemption takes effect, unless the Contracting Party concerned declares its intention to be bound at an earlier date by all or part of the provisions in Titles III and IV of this Treaty.

Article 15 This Treaty shall be open to accession by Member States of the European Union other than the Contracting Parties upon application that any such Member State may file with the Depositary. The Contracting parties shall approve the application by common agreement. Following such approval, the applicant Member State shall accede upon the deposit of

the instruments of accession with the Depositary, who shall notify the other Contracting Parties thereof.

Article 16 Within five years at most following the entry into force of this Treaty, on the basis of an assessment of the experience with its implementation, the necessary steps shall be taken, in compliance with the provisions of the Treaty on the European Union and the Treaty on the Functioning of the European Union, with the aim of incorporating the substance of this Treaty into the legal framework of the European Union.

SINTESI COSTITUZUIONE EUROPEA Introduzione La Cig ha adottato il 18 giugno 2004 il “progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, elaborato dalla Convenzione. Ne testimoniano la sua portata costituzionale: il preambolo, con l’elenco dei valori che fondano l’Unione (articolo 2); l’inserimento del testo integrale della Carta dei diritti fondamentali (parte II1); la definizione delle condizioni di appartenenza all’Unione (incluse le condizioni per il ritiro volontario da essa); nonché i simboli dell’Unione (bandiera, inno ecc. articolo I-6 bis). La Costituzione pone esplicitamente fine alla struttura a “pilastri” che ha prevalso fino ad oggi e conferisce all’Unione una chiara personalità giuridica. L’obiettivo iniziale di semplificazione viene parzialmente raggiunto nella parte I, che comprende le disposizioni essenziali di natura propria-


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mente costituzionale dette; la parte II, invece, integra la Carta. Tuttavia, la Costituzione rimane un testo complesso, soprattutto in considerazione della parte III, contenente le disposizioni aggiornate relative alle politiche che discendono dai Trattati, nonché le disposizioni dettagliate sul funzionamento delle istituzioni, e della parte IV, che contiene le disposizioni generali e finali. La Costituzione è inoltre introdotta da un preambolo (che si riferisce alle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa”), e completata da diversi protocolli (ovviamente di livello costituzionale) e da dichiarazioni allegate. Su questi aspetti generali, la Cig ha corretto poco il testo uscito dalla Convenzione. Si possono evidenziare i seguenti aspetti: nonostante un aspro dibattito che è continuato fino alla soluzione, il testo di compromesso sul preambolo accolto dalla Convenzione ha tutto sommato resistito; l’enunciato dei valori dell’Unione è stato completato con un riferimento ai diritti delle persone appartenenti a una minoranza, nonché alla parità tra uomini e donne (che prima non figurava fra gli obiettivi); la stabilità monetaria figura ormai fra gli obiettivi dell’Unione in vista di un’"economia di mercato fortemente competitiva che mira alla piena occupazione e al progresso sociale". I. LE ISTITUZIONI Il progetto di Costituzione opera un chiarimento del ruolo svolto rispettivamente dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione. Parlamento europeo Il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio dei ministri, la funzione

legislativa e la funzione di bilancio, e funzioni di controllo politico e consultive. Esso elegge il presidente della Commissione europea su proposta del Consiglio europeo (adottata a maggioranza qualificata), il quale deve tener conto del risultato delle elezioni; il PE approva anche la Commissione nel suo insieme. Esso può avere un massimo di 750 membri. La Costituzione non prevede la distribuzione dei seggi per Stato come avviene oggi. In compenso, l’articolo I-19 contiene una base giuridica che incarica il Consiglio europeo, su iniziativa e previa approvazione del Parlamento, prima delle elezioni previste per il 2009, di distribuire i seggi sulla base del principio di rappresentanza “degressivamente proporzionale", con una soglia minima di 6 seggi e una soglia massima di 96 seggi per Stato membro (la Convenzione proponeva 4 come minimo e nessuna soglia massima).

Consiglio europeo Il Consiglio diventa un’istituzione a pieno titolo. La presidenza di turno è soppressa e si instaura una presidenza stabile del Consiglio europeo, dai poteri limitati, eletta a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio europeo, con un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile. La regola generale per l’approvazione delle decisioni è il consenso. Il Consiglio europeo fornisce gli impulsi e definisce le priorità politiche e non deve esercitare funzione legislativa. Il rispetto di questo principio è stato salvaguardato nel corso del negoziato in seno alla Cig, nonostante una discussione assai difficile sul ruolo del Consiglio europeo nel settore della cooperazione giudiziaria penale (cfr.

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in appresso la descrizione del compromesso conseguito sulla definizione del meccanismo del "freno d’emergenza".

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Consiglio dei Ministri dell’Unione La Costituzione prevede l’istituzione di un Consiglio Affari esteri, presieduto dal Ministro degli Affari esteri dell’Unione (vedasi in appresso), distinto dal Consiglio Affari generali. Quest’ultimo continua a garantire la coerenza dei lavori del Consiglio, appoggiandosi sul Coreper. Per quanto riguarda le formazioni specializzate del Consiglio, le loro riunioni dovranno essere divise in due parti, dedicate l’una alle deliberazioni legislative – pubbliche –, l’altra alle deliberazioni non legislative, in modo da soddisfare ai criteri di trasparenza. L’organizzazione dei lavori del Consiglio ha dato luogo, fino ad una fase avanzata della Cig, ad aspre discussioni, poiché una maggioranza di Stati membri si accaniva a mantenere la rotazione della Presidenza del Consiglio (salvo per quanto riguarda il Consiglio Affari esteri). La Costituzione sancisce finalmente il principio di rotazione in condizioni di parità, che è inserito nel quadro di un sistema di Presidenza "per gruppi" definito da una decisione del Consiglio europeo. Maggioranza qualificata Essa ha costituito nell’arco dell’intera Convenzione e della CIG il punto nodale delle discussioni, sia per quanto riguarda la propria definizione che per quanto riguarda il campo di applicazione. Quanto alla sua definizione, la formula fi-

nalmente decisa dalla CIG si basa sempre sul principio della duplice maggioranza definito dalla Convenzione. Le soglie sono state però aumentate: 55% degli Stati membri (la Convenzione proponeva la maggioranza degli Stati membri), che comprenda almeno 15 Stati membri (requisito che a partire da 27 Stati membri non ha più significato autonomo); 65% della popolazione (la Convenzione proponeva il 60%). La Cig ha tuttavia aggiunto una clausola supplementare in base alla quale una minoranza di blocco (35% della popolazione a priori) deve includere almeno 4 Stati membri, altrimenti la decisione viene considerata in ogni modo adottata2. Questo sistema sarà applicabile a partire dal 1° novembre 2009. Al fine di superare le ultime reticenze di alcuni Stati membri, la Conferenza ha infine adottato una decisione contenente una sorta di compromesso di "Ioannina" rivisto3. Qualora l’iniziativa della Commissione non sia richiesta o una decisione non sia adottata su iniziativa del Ministro degli Affari esteri, la maggioranza qualificata necessaria è rafforzata: 72% degli Stati membri (2/3 secondo la Convenzione), che riuniscano almeno il 65% della popolazione (60%, secondo la Convenzione). La maggioranza qualificata diventa una regola generale per l’adozione delle decisioni in seno al Consiglio dei ministri. L’unanimità rimane la regola per quanto riguarda la fiscalità e, parzialmente, nei settori della politica estera e della sicurezza comune nonché della politica sociale. Inoltre, essa sarà applicabile anche per quanto riguarda il sistema delle risorse proprie e il quadro finanziario pluriennale. Infine, si tenga pre-


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sente che nei casi in cui la Convenzione non ha ottenuto il consenso sul passaggio alla maggioranza qualificata, è prevista una clausola “passerella” generale (secondo la quale il Consiglio europeo può decidere all’unanimità, previa approvazione del Parlamento, che in futuro il Consiglio delibererà a maggioranza qualificata e, se del caso, secondo la procedura legislativa ordinaria, senza che sia necessaria una revisione costituzionale e a fortiori una ratifica da parte di ciascun Stato membro). Tuttavia, l’opposizione formale di un solo parlamento nazionale basta a bloccare l’applicazione della "passerella". Ministro degli Affari esteri dell’Unione Grande innovazione istituzionale proposta dalla Convenzione, il ministro, nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione, guida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione, presiede il Consiglio Affari esteri ed è al contempo vicepresidente della Commissione (in quanto tale, è soggetto sia all’approvazione collettiva del Parlamento europeo, sia, se del caso, alla mozione di censura). Nel rivestire questo “doppio incarico” CommissioneConsiglio, egli è responsabile dell’esecuzione della politica estera dell’Unione nel suo insieme. Ha il potere d’iniziativa, rappresenta l’Unione europea da solo o con la Commissione e si appoggia su un servizio europeo per l’azione esterna4.

Commissione europea Viene chiaramente ribadito il suo potere d’iniziativa legislativa. La Cig non ha invece seguito la proposta della Convenzione per quanto riguarda la

sua composizione: l’accordo infine ottenuto prevede che la Commissione sia composta da un Commissario per Stato membro fino al 2014; dopo tale data, sarà composto da un numero di membri corrispondente ai due terzi del numero degli Stati membri, scelti sulla base di una rotazione in condizioni di parità tra gli Stati membri. Il ruolo politico del Presidente della Commissione, eletto dal Parlamento europeo, viene rafforzato (designazione dei Commissari, ripartizione dei portafogli, capacità di chiedere le dimissioni di un Commissario). 193

Corte di giustizia La competenza della Corte di giustizia viene ampliata, segnatamente per quanto concerne lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e taluni aspetti della politica estera. Viene consentito, in una certa misura, il ricorso dei singoli cittadini alla Corte5. II. COMPETENZE

E LORO ESERCIZIO DA PARTE

DELLE ISTITUZIONI

Il sistema di competenze Il progetto di Costituzione stabilisce innanzitutto i principi fondamentali relativi ai seguenti principi: principio di attribuzione delle competenze dell’Unione; regolazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità nell’esercizio delle competenze; prevalenza del diritto comunitario, affermato senza ambiguità; obbligo da parte degli Stati membri di garantire l’esecuzione del diritto comunitario. Si distinguono tre categorie di competenze dell’Unione: competenze esclusive, competenze concorrenti e settori in cui l’Unione ha competenze per condurre azioni di so-


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stegno, fermo restando che tali competenze saranno esercitate conformemente alle disposizioni della parte III relative a ciascun ambito d’azione. Sono riconosciuti casi particolari per quanto concerne il coordinamento delle politiche economiche e dell’occupazione (articolo 14) e la politica estera e di sicurezza comune (articolo 15) che non rientrano nella classificazione generale. La necessaria flessibilità del sistema viene assicurata da una clausola che permette l’approvazione delle disposizioni necessarie per raggiungere uno degli obiettivi stabiliti dal progetto di Costituzione qualora essa non preveda poteri d’azione in merito. Il suo campo di applicazione è quindi più ampio di quello dell’attuale articolo 308 TCE, che si limita al mercato interno, ma le condizioni della sua attuazione sono più rigorose poiché, oltre all’unanimità in seno al Consiglio, è richiesta anche l’approvazione del Parlamento. Tale dispositivo è completato dal Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità che introduce segnatamente un “meccanismo di allerta precoce” il quale associa i parlamenti nazionali nel controllo dell’attuazione del principio di sussidiarietà6.

Gli strumenti e la procedura d’adozione Strumenti legislativi e regolamentari Il progetto di Costituzione, sulla base di una gerarchia delle norme, opera un chiarimento degli atti giuridici tramite i quali le istituzioni attuano le competenze dell’Unione, nonché le procedure di adozione degli stessi atti, tramite due distinzioni: tra gli atti giuridicamente vincolanti (leggi, leggi

quadro, regolamenti e decisioni) e gli atti non vincolanti (pareri e raccomandazioni); all’interno degli atti giuridici vincolanti, tra atti legislativi (“leggi” e leggi quadro”), e atti non legislativi (“regolamenti” e “decisioni”7). Per quanto concerne gli atti legislativi: il potere d’iniziativa legislativa rimane alla Commissione pur essendo concorrente per taluni ambiti legati allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, con almeno un quarto degli Stati membri. Il progetto di Costituzione stabilisce come regola generale che le leggi e le leggi quadro siano adottate con procedura di codecisione tra il PE e il Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, con procedura detta “procedura legislativa ordinaria”8, ripresa senza apportare praticamente nessuna modifica dall’attuale procedura di codecisione. Per quanto concerne gli atti non legislativi: Per gli atti esecutivi stricto sensu, il progetto di Costituzione ricorda innanzitutto che spetta innanzitutto agli Stati membri attuare gli atti giuridicamente vincolanti delle istituzioni europee. Essendo necessarie condizioni d’esecuzione uniformi, il progetto di Costituzione affida in via prioritaria alla Commissione ed eccezionalmente al Consiglio (atti d’esecuzione adottati direttamente sulla base della Costituzione, a parte la Pesc) il potere di emanare misure d’esecuzione corrispondenti. Per quanto riguarda la comitatologia, una legge europea stabilirà in via preventiva le regole e i principi generali concernenti le modalità di controllo esercitato dagli Stati membri su tali atti esecutivi. Il PE avrà quindi l’ultima parola in materia di futura “comitatologia”.


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Il progetto di Costituzione istituisce anche i regolamenti delegati, adottati dalla Commissione (non esistono regolamenti delegati del Consiglio!) su delega dell’autorità legislativa, ovvero del PE o del Consiglio. Tali regolamenti delegati, che possono modificare o completare taluni aspetti delle leggi o delle leggi quadro senza peraltro intaccare i loro elementi essenziali, impongono quindi un’abilitazione specifica formulata nel testo di base in questione e sono soggetti a un particolare meccanismo di controllo del colegislatore: ciascuno dei due rami legislativi può revocare la delega; il regolamento delegato entrerà in vigore soltanto se, entro un termine di 3 mesi dopo la presentazione da parte della Commissione di un progetto di regolamento delegato ai due rami dell’autorità legislativa, nessuno dei due solleva obiezioni in merito.

Disposizioni di bilancio e finanziarie Il quadro istituzionale delle finanze comunitarie è notevolmente modificato dalla Costituzione. Il progetto della Convenzione non è stato interamente seguito dalla Conferenza governativa ma, sostanzialmente, si può affermare che l’equilibrio raccomandato dalla Convenzione è stato rispettato, nonostante gli attacchi cui è stato sottoposto, che hanno richiesto ai rappresentanti del PE in seno alla Conferenza duplici sforzi per eliminare proposte che avrebbero notevolmente sminuito il ruolo del PE. Risorse proprie Una legge europea adottata all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione del PE, stabilisce il limite delle risorse proprie e può

definire nuove categorie di risorse o abrogare quelle esistenti. Questa legge può entrare in vigore soltanto previa approvazione degli Stati membri, sulla base delle rispettive norme costituzionali. Tuttavia, le modalità concrete di attuazione di questa legge verranno stabilite da una legge del Consiglio (adottata a maggioranza qualificata), previa approvazione del PE9.

Quadro finanziario pluriennale Il quadro finanziario pluriennale (che sostituisce le attuali prospettive finanziarie) disciplina l’evoluzione delle spese dell’Unione per un periodo (minimo) di 5 anni, entro il limite delle risorse proprie. Esso definisce i massimali per ciascuna categoria di spesa. Esso sarà adottato con legge del Consiglio, che delibera all’unanimità, previa approvazione del PE, che si pronuncia a maggioranza dei suoi membri. Tuttavia, a seguito delle richieste di varie delegazioni e dei rappresentanti del PE, che erano contrari a questo ritorno all’unanimità (la Convenzione prevedeva l’unanimità per il primo quadro pluriennale adottato dopo la firma della Costituzione e a maggioranza qualificata per i seguenti), la Costituzione prevede una "passerella", in base alla quale il Consiglio europeo può adottare all’unanimità una decisione che autorizza il Consiglio ad adottare la legge che stabilisce il quadro finanziario pluriennale a maggioranza qualificata. Bilancio annuale La legge che definisce il bilancio annuale, che deve rispettare il quadro finanziario pluriennale, è adottata congiuntamente dal PE e dal Consiglio. La procedura di bilancio è stata notevolmente modificata ma,

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nonostante i tentativi di varie delegazioni di mettere in causa l’accordo stabilito alla Convenzione, la sostanza di quest’ultimo è mantenuta: è abolita la distinzione tra SO e SNO; il PE conserva l’ultima parola sull’insieme del bilancio10. Peraltro, le disposizioni che costituiscono ciò che attualmente si definisce il “regolamento finanziario” in futuro saranno materia di regolamentazione tramite legge adottata secondo la procedura legislativa ordinaria (ma, fino al 2007, il Consiglio decide all’unanimità). 196

Le cooperazioni rafforzate Esse devono raggruppare almeno un terzo degli Stati membri. Vertono soltanto sulle competenze non esclusive dell’Unione (ma potrebbero riguardare, ormai, anche la politica di difesa). L’autorizzazione a farvi ricorso è data dal Consiglio a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo, e su proposta della Commissione (salvo in materia di PESC, in cui è richiesta una decisione all’unanimità del Consiglio, un parere del ministro degli Affari esteri e della Commissione, mentre il PE viene soltanto informato). Gli Stati membri che non hanno partecipato alle cooperazioni rafforzate prendono parte alle deliberazioni del Consiglio, pur non partecipando al processo decisionale. Inoltre, a seguito degli sforzi di alcune delegazioni e in particolare dei rappresentanti del PE, la Conferenza ha accolto anche una disposizione "passerella", proposta dalla Convenzione ma fortemente messa in causa durante i negoziati, che consente agli Stati partecipanti a una cooperazione rafforzata di passare al voto a maggioranza

qualificata o alla procedura legislativa ordinaria attraverso una decisione adottata all’unanimità da questi Stati (questa clausola passerella non può però essere utilizzata nel settore della difesa). III. LE POLITICHE Diverse clausole d’attuazione generale introducono la parte III del progetto di Costituzione, dedicata alle politiche dell’Unione: esse riguardano la coerenza generale delle politiche; la lotta a qualsiasi forma di discriminazione; la parità tra uomini e donne; la protezione sociale; le esigenze legate alla tutela dell’ambiente; la protezione dei consumatori; per concludere, una clausola di riconoscimento dei “servizi d’interesse economico generale”, di cui la legge deve definire i “principi e le modalità” di funzionamento.

Politiche esterne - Azione esterna E’ in quest’ambito che il progetto di Costituzione apporta le maggiori novità, più grazie a certe modifiche istituzionali (segnatamente l’istituzione della figura del ministro degli Affari esteri, cfr. supra), che tramite il miglioramento delle procedure, che sono praticamente immutate. Il ruolo del PE in materia di politica estera non ha subito modifiche sostanziali, anche se è stato rafforzato per quanto concerne la politica commerciale comune e la stipula di accordi internazionali. Politica estera e di sicurezza comune La sua attuazione – tramite decisione del Consiglio europeo o del Consiglio dell’UE all’unanimità, eccetto taluni casi previsti dalla Costituzione, o ancora se il Consiglio europeo non decide altrimenti – non pre-


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vede il ricorso alla “procedura legislativa ordinaria”. Il PE viene verrà d’ora in poi consultato regolarmente. Sono state create talune nuove basi giuridiche: la clausola di solidarietà fra gli Stati membri in caso di un attacco terroristico o di una calamità naturale, accordi internazionali con i paesi vicini. La politica in materia di sicurezza viene rinnovata sotto molti aspetti, avendo la Cig sancito notevoli progressi non previsti dalla Convenzione soprattutto in materia di difesa: attualizzazione dei compiti di Petersberg (aggiunta del riferimento alle missioni di disarmo, di consulenza in materia militare, di stabilizzazione al termine dei conflitti, di lotta contro il terrorismo, anche sul territorio di stati terzi); creazione di nuove forme di flessibilità e di cooperazione in materia di difesa: possibilità per il Consiglio di affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri per tutelare i valori dell’Unione; possibilità di creazione, con decisione del Consiglio a maggioranza qualificata, di una cooperazione strutturata permanente tra gli Stati che soddisfano i criteri e sottoscrivono gli impegni in materia di capacità militari figuranti in un protocollo allegato alla Costituzione; instaurazione di una cooperazione più stretta in materia di reciproca difesa che prevede in particolare l’obbligo di aiuto e assistenza a uno Stato membro vittima di un attacco armato sul proprio territorio (senza mettere in causa il carattere specifico della politica di sicurezza e difesa di alcuni Stati membri); creazione di un fondo per il varo di difese militari indipendenti dal bilancio dell’Unione; istituzione di un’agenzia europea sugli armamenti, sulla ricerca e

la capacità militare; definizione di una procedura di accesso rapido ai fondi di bilancio dell’Unione.

Politica commerciale comune Il suo ambito di applicazione è vasto, per quanto concerne il commercio dei servizi e la proprietà intellettuale. Il ruolo del PE è rafforzato, in quanto prevarrà la procedura legislativa ordinaria per la definizione delle misure di attuazione della politica commerciale comune; il PE sarà regolarmente informato in merito ai negoziati su accordi internazionali, che potranno essere conclusi soltanto previa approvazione del Parlamento europeo. Si fa rilevare che la Costituzione mantiene una forma attenuata di “eccezione culturale”11. Cooperazione allo sviluppo La Costituzione crea le condizioni affinché il Fondo europeo di sviluppo sia inserito in bilancio. Aiuto umanitario Il progetto di Costituzione crea in quest’ambito una base giuridica specifica, in seno alla quale è prevista l’istituzione di un corpo volontario di aiuto umanitario (procedura legislativa ordinaria). Politiche interne Spazio di libertà, sicurezza e giustizia Fra le cosiddette politiche interne, è questo il campo in cui il progetto di Costituzione modifica maggiormente la situazione esistente, anche solo per il fatto di aver soppresso la dicotomia fra le disposizioni

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rientranti nel trattato CE e quelle facenti capo al “terzo pilastro” e la promozione della codecisione (procedura legislativa ordinaria) e del voto a maggioranza qualificata come regole generali. Gli obiettivi delle politiche dell’Unione sono chiariti: ormai l’azione dell’Unione è esplicitamente subordinata ai diritti fondamentali; l’accesso alla giustizia è uno degli obiettivi generali; le esigenze di riconoscimento reciproco dei vari sistemi e quelle concernenti il ravvicinamento delle legislazioni sono concomitanti. La definizione delle politiche è approfondita: le politiche in materia di asilo e di immigrazione sono definite politiche comuni dell’Unione, rette quindi dai principi di solidarietà e di condivisione equa delle responsabilità fra Stati membri. Ma sono soprattutto le disposizioni relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale ad essere state riviste in modo particolarmente innovativo, soprattutto se si considera il fatto che la maggior parte di esse è varata a maggioranza qualificata: il progetto di Costituzione promette il ravvicinamento delle legislazioni penali nel merito (definizione delle infrazioni penali e sanzioni), da un canto per lottare contro taluni reati “d’interesse europeo” (elencati) e dall’altro per garantire l’attuazione di una normativa dell’Unione. Questa normativa deve prendere in considerazione le disparità fra le tradizioni giuridiche e i sistemi (giudiziari) degli Stati membri. Inoltre, per sedare i timori di alcuni Stati membri, la Cig ha sancito una procedura speciale denominata "freno d’emergenza": se uno Stato membro ritiene che una proposta legislativa in que-

sta materia possa mettere in causa aspetti fondamentali del proprio sistema di giustizia penale, può chiedere che la questione sia rinviata al Consiglio europeo e che la procedura sia sospesa. Entro quattro mesi, il Consiglio europeo deve rinviare la questione al Consiglio, affinché la procedura continui, o chiedere la presentazione, da parte della Commissione o del gruppo di Stati autori dell’iniziativa, di una nuova proposta legislativa. Se il Consiglio europeo non adotta la decisione di cui sopra entro 4 mesi, o se la nuova procedura legislativa avviata su sua richiesta non si conclude entro 12 mesi, sarà automaticamente avviata una cooperazione rafforzata in materia, qualora lo chieda un terzo degli Stati membri. Il controllo da parte della Corte di giustizia sull’azione dell’Unione in questo campo è generalizzato. Permane comunque un certo particolarismo istituzionale: definizione da parte del Consiglio europeo (quindi per consenso) di orientamenti strategici di programmazione legislativa e operativa, senza che il Parlamento europeo venga coinvolto; ripartizione del potere d’iniziativa legislativa fra la Commissione e un quarto degli Stati membri (un solo Stato membro non può più individualmente prendere l’iniziativa) nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia; mantenimento dell’unanimità in taluni settori, in particolare quelli riguardanti gli aspetti transfrontalieri del diritto di famiglia e per tutto ciò che riguarda la cooperazione di polizia; definizione di un ruolo rafforzato per i parlamenti nazionali, segnatamente per quanto concerne il controllo del rispetto del principio di sussidiarietà. Tutta-


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via, si può ravvisare una certa apertura nei confronti di ulteriori evoluzioni, tramite le disposizioni “passerella” per quanto riguarda il diritto di famiglia e l’elenco dei reati gravi per i quali la legge quadro può stabilire norme minime (il Consiglio, con decisione adottata all’unanimità previa approvazione del PE, può ampliare l’elenco di questi reati). Infine, nonostante la vivace opposizione di varie delegazioni, la Costituzione prevede l’istituzione con legge europea adottata all’unanimità dal Consiglio, previa approvazione del PE, di una procura europea competente per la lotta contro le violazioni che recano pregiudizio agli interessi finanziari dell’Unione, la quale potrà perseguirne i responsabili. Una clausola "passerella" prevede la possibilità di estensione delle competenze della procura europea alla lotta contro la criminalità grave di carattere transfrontaliero attraverso una decisione europea adottata dal Consiglio all’unanimità, previa approvazione del PE (e consultazione della Commissione). Altre modifiche delle politiche interne (le indicazioni che seguono, molto selettive, vengono presentate nell’ordine in cui appaiono nel testo di riferimento) Le modifiche introdotte dal progetto di Costituzione a livello delle altre politiche settoriali sono soprattutto il risultato della consacrazione della codecisione e quindi del voto a maggioranza qualificata come procedura legislativa ordinaria e della “ripartizione” fra atti legislativi e non legislativi, sulla base della nuova definizione. Tuttavia, sono state aggiunte diverse nuove basi giuridiche, soprattutto in materia di politica energetica, sport, protezione civile

contro le catastrofi naturali o provocate dall’uomo, e la cooperazione amministrativa per l’applicazione del diritto comunitario.

Non discriminazione e cittadinanza Un titolo autonomo raggruppa le disposizioni relative alle azioni in materia di lotta contro la discriminazione (adozione secondo la procedura legislativa ordinaria dei principi sulle misure di promozione da attuare negli Stati membri in questo campo) e promozione dei diritti che derivano dalla cittadinanza europea. Mercato interno/Fiscalità L’unanimità in Consiglio viene mantenuta per quanto riguarda la fiscalità. I passaggi (assai limitati) alla maggioranza qualificata (legge/legge quadro) proposti dalla Convenzione in materia di misure di cooperazione amministrativa e di lotta contro le frodi e l’evasione fiscale illegale (attraverso la constatazione da parte del Consiglio all’unanimità che le misure proposte rientrano nell’ambito di tali questioni) non sono stati accolti dalla Cig. Politica economica e monetaria La Costituzione introduce poche modifiche sostanziali. Da notare tuttavia che la Banca centrale europea è passata al rango di istituzione comunitaria, è stato definito un legame esplicito fra il coordinamento delle politiche economiche e il coordinamento delle politiche per l’occupazione (benché la Cig abbia modificato il testo della Convenzione per porre l’accento sul fatto che sono gli Stati membri a coordinare le proprie politiche in base alle modalità definite in seno all’Unione), e il rafforzamento delle dispo-

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sizioni proprie degli Stati membri che fanno parte dell’area euro: ad esempio, la decisione del Consiglio sull’adesione dei nuovi Stati membri all’euro (proposta della Commissione) deve essere preceduta da una raccomandazione adottata a maggioranza qualificata degli Stati membri che già appartengono all’area euro. Le modalità di funzionamento dell’Eurogruppo, peraltro, vengono definite con maggior precisione in un protocollo allegato e la Cig ha inoltre approvato una dichiarazione sul Patto di stabilità e crescita. Il Patto è stato inoltre all’origine di aspre discussioni fra certe delegazioni che hanno portato all’adozione di alcune modifiche al testo della Convenzione: per quanto riguarda la procedura dei disavanzi eccessivi, ad esempio, la CIG ha ridotto il ruolo proposto dalla Convenzione per la Commissione (le raccomandazioni trasmesse dal Consiglio allo Stato membro interessato dovranno essere prese sulla base di una raccomandazione della Commissione e non più di una proposta).

Politica sociale Se fra gli obiettivi dell’Unione sanciti all’inizio della Costituzione figurano la "piena occupazione" e il "progresso sociale", si può constatare l’introduzione all’inizio della Parte III di una clausola sociale di carattere orizzontale in base alla quale l’Unione deve tener conto, nella definizione e nell’attuazione delle proprie politiche, delle esigenze connesse con la "promozione di un livello di occupazione elevato" (concetto che rimane nella Parte III, nonostante il riferimento alla "piena occupazione" tra gli obiettivi), la "garanzia di una

protezione sociale adeguata", la "lotta contro l’esclusione sociale" nonché un "elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana". Si fa rilevare inoltre in questo ambito il riconoscimento esplicito a livello di parte I (“istituzionale”) del ruolo delle “parti sociali”, e in particolare il Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione che contribuisce al dialogo sociale. Peraltro, si mantiene l’unanimità per gli stessi casi attualmente previsti. Passano alla procedura legislativa ordinaria solo le misure di sicurezza sociale che riguardano il diritto alle prestazioni per i lavoratori migranti salariati e non salariati. Tuttavia, questo non è stato possibile se non prevedendo un altro "freno d’emergenza": nel caso in cui uno Stato membro ritenga che tali misure potrebbero incidere su "aspetti fondamentali del suo sistema di sicurezza sociale, compresi la sua sfera di applicazione, i costi o la struttura finanziaria, oppure incidano sull’equilibrio finanziario di tale sistema", può chiedere che la questione sia sottoposta al Consiglio europeo (il che comporta la sospensione della procedura legislativa). Il Consiglio europeo deve, entro un termine di 4 mesi, o rinviare la questione al Consiglio affinché la procedura continui, o chiedere alla Commissione di presentare una nuova proposta (la Costituzione tace tuttavia quanto alle conseguenze dell’eventuale inazione da parte del Consiglio...).

PAC Attualmente tutte le decisioni in materia vengono adottate a maggioranza qualificata dal Consiglio, mentre il Parlamento interviene soltanto a titolo di semplice consulta-


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zione. Il progetto di Costituzione attua quindi una ripartizione fra le decisioni, distinguendo: atti di natura legislativa, che derivano dalla legge o dalla legge quadro europea, quindi dalla procedura legislativa ordinaria: si tratta dell’organizzazione comune dei mercati agricoli, oltre alle altre disposizioni necessarie per il perseguimento degli obiettivi di politica comune in materia di agricoltura e di pesca; atti non legislativi, quali la fissazione dei prezzi, dei prelievi, degli aiuti e delle restrizioni quantitative, oltre alla ripartizione delle capacità di pesca: essi fanno capo a regolamenti o decisioni europee adottati dal Consiglio sulla base stessa del progetto di Costituzione, per i quali non è prevista la consultazione del PE. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio Alla politica di ricerca e sviluppo tecnologico si aggiunge un nuovo capitolo: la politica spaziale europea. Il programma quadro per la ricerca, ormai legge europea, verrà adottato a maggioranza qualificata. Parallelamente, attraverso leggi adottate in base alla procedura legislativa ordinaria sarà attuato uno spazio di ricerca europeo in cui i ricercatori, le conoscenze scientifiche e le tecnologie circoleranno liberamente. Un programma spaziale europeo potrà essere adottato con una legge o una legge quadro. La salvaguardia dei diritti legislativi del PE al riguardo messi in causa durante la CIG è stata il frutto di una aspra battaglia condotta dai suoi rappresentanti.

Energia La politica energetica mira, tra gli altri obiettivi, a garantire il funzionamento del mercato energetico, a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e a pro-

muovere l’efficacia energetica e lo sviluppo di energie rinnovabili. Tuttavia, la Cig ha introdotto un limite all’azione dell’Unione, che non potrà incidere sul diritto di uno Stato membro di definire le condizioni di sfruttamento delle proprie risorse energetiche, la sua scelta tra varie fonti energetiche e la struttura generale del proprio approvvigionamento energetico. Inoltre, se la procedura legislativa ordinaria e il voto a maggioranza qualificata sono la regola in questo settore, la Cig ha previsto che qualsiasi misura avente principalmente carattere fiscale debba essere adottata con legge del Consiglio adottata all’unanimità, mentre il Parlamento dovrà essere solo consultato.

Sanità pubblica La Cig è andata un po’ più lontano rispetto alla Convenzione, aggiungendo alla lotta contro i “grandi flagelli transfrontalieri” nelle azioni di sostegno condotte dall’Unione, la sorveglianza, l’allerta e la lotta contro gravi minacce transfrontaliere per la salute. L’Unione deve inoltre, tra l’altro, definire misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza dei medicinali, nonché misure di protezione della salute pubblica per quanto riguarda il tabacco e l’alcol. Infine, la Costituzione precisa che l’azione dell’Unione è condotta nel rispetto delle responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda la definizione della propria politica sanitaria, che includono la gestione dei servizi sanitari e terapeutici, nonché l’assegnazione delle risorse loro destinate. IV. LA REVISIONE La procedura di revisione del trattato è modificata: il PE acquisisce il diritto d’inizia-

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tiva costituzionale, allo stesso titolo della Commissione e degli Stati membri; la Convenzione diventa l’istanza normale di elaborazione delle raccomandazioni da sottoporre alla Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri che dovrà adottare le modifiche della Costituzione all’unanimità. Tuttavia, il Consiglio europeo può decidere, a maggioranza qualificata e previa approvazione del PE, che l’entità delle modifiche costituzionali proposte non giustifica la convocazione della Convenzione. Una procedura "semplificata" di revisione della Costituzione è prevista per quanto riguarda le modifiche delle "politiche interne" sancite nella Parte III, purché non implichino un rafforzamento delle competenze dell’Unione: il Consiglio europeo può adottare all’unanimità una decisione di modifica di queste politiche, previa consultazione del PE e della Commissione (o della Banca centrale europea). Questa decisione entrerà in vigore una volta approvata da tutti gli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali. Conclusione Rispetto agli attuali trattati, la Costituzione opera un rafforzamento del carattere democratico dell’Unione, su quattro diversi livelli: il cittadino ha ora la possibilità, tramite la realizzazione di una iniziativa popolare di avviare l’elaborazione di una normativa europea; esso dispone inoltre, grazie all’estensione della competenza della Corte di giustizia, di maggiori garanzie giurisdizionali; il particolare contributo apportato dai parlamenti nazionali alla vita democratica dell’Unione viene riconosciuto

esplicitamente, in particolare tramite l’attuazione di un “meccanismo di allerta precoce” in materia di controllo del rispetto del principio di solidarietà; vengono notevolmente consolidati i poteri legislativi e di bilancio del PE (codecisione, scompare la distinzione SO-SNO), nonché i poteri di controllo politico (elezione del Presidente della Commissione); viene istituzionalizzato il ricorso al metodo della Convenzione per le future revisioni costituzionali.


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Note 1

La Costituzione prevede inoltre l’adesione de’l’Unione europea alla Cedu. L’accordo di adesione deve essere adottato dal Consiglio a maggioranza qualificata, previa approvazione del Pe. 2 Il che può avere come effetto quello di ridurre la soglia della popolazione e di consentire l’adozione di una legge, ad esempio da 22 Stati membri che rappresentano solo circa il 55,5%. 3 Se dei membri del Consiglio che rappresentino almeno i 3⁄4 degli Stati membri o il livello di popolazione necessaria per bloccare una decisione indicano la propria opposizione all’adozione di un atto da parte del Consiglio a maggioranza qualificata, il Consiglio continuerà a discutere l’argomento onde pervenire entro un termine ragionevole a un più ampio accordo. 4 Servizio che sarà composto da funzionari dei servizi competenti del Segretariato generale del Consiglio e della Commissione, nonché da funzionari comandati dai servizi diplomatici nazionali. La sua organizzazione e il suo funzionamento saranno fissati con decisione del Consiglio, previo parere del Pe e approvazione della Commissione. 5 La Costituzione prevede ormai che qualsiasi persona fisica o giuridica possa presentare ricorso contro atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportino misure di esecuzione. 6 Essi saranno informati di qualsiasi nuova iniziativa legislativa e, se almeno un terzo fra essi ritiene che una proposta violi il principio di sussidiarietà, la Commissione dovrà riesaminare la propria proposta. 7 Per completezza, occorrerebbe segnalare che il termine “decisioni” riveste al contempo il significato di decisioni nel senso di atto amministrativo, nonché le decisioni di natura politica, termine ugualmente usato nel progetto di Costituzione – per esempio, decisione del Consiglio rispetto alla sospensione dei diritti di uno Stato membro connessi all’appartenenza all’Unione. 8 In taluni casi eccezionali previsti dalla Costituzione, le leggi e le leggi quadro possono essere adottate dal Consiglio (p. es. legge sulle risorse proprie, legge sul quadro finanziario pluriennale, legge sulle elezioni del Pe, ecc.) o dal Parlamento (tre casi: legge sullo statuto dei suoi membri, legge sullo statuto del Mediatore europeo, legge sulle modalità d’esercizio del diritto di inchiesta), ma sempre con la partecipazione dell’altro ramo, che può andare dalla semplice consultazione all’approvazione (attuale parere conforme).

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“Parere conforme” secondo l’attuale denominazione. 10 Cfr. articolo III- 310: essa avrà soltanto una lettura in ciascuna istituzione. Il Consiglio si pronuncia in primo luogo sul progetto di bilancio presentato dalla Commissione. Qualora, entro un termine di 42 giorni, il Pe approvi la posizione del Consiglio, il bilancio viene approvato. Se il Pe approva degli emendamenti (a maggioranza dei membri che lo compongono) alla posizione del Consiglio, i presidenti delle due istituzioni convocano il comitato di conciliazione, a meno che il Consiglio, entro 10 giorni, non approvi tutti gli emendamenti del Pe. Se il comitato di conciliazione approva un testo comune entro 21 giorni, il Pe e il Consiglio hanno altri 14 giorni di tempo per approvare il progetto comune: il Consiglio dovrà deliberare a maggioranza qualificata, mentre il Pe dovrà ottenere la maggioranza dei suffragi espressi (art. III-310, par. 7. Se il Comitato di conciliazione non riesce ad adottare un progetto comune o se il Pe (o le due istituzioni) respingono il progetto comune, a maggioranza dei membri che lo compongono e dei 3/5 dei suffragi espressi, la Commissione deve presentare un nuovo progetto di bilancio. Se il Consiglio respinge il progetto comune, mentre il Pe l’approva, il Pe ha 14 giorni di tempo per confermare gli emendamenti approvati in prima lettura (a maggioranza dei membri che lo compongono e dei 3/5 dei suffragi espressi). Se non riesce a confermare gli emendamenti, viene accolta la posizione decisa dal Comitato di conciliazione per quanto riguarda la linea di bilancio in questione. 11 Il Consiglio delibera soltanto all’unanimità per quanto concerne gli accordi in materia di servizi culturali e audiovisivi, qualora essi rischino di ledere la diversità culturale e linguistica dell’Unione. Questa “eccezione” è stata addirittura “estesa” dalla Cig agli scambi in materia di servizi sociali, istruzione e sanità, qualora questi rischino di perturbare gravemente l’organizzazione di questi servizi a livello nazionale e di pregiudicare la competenza degli Stati membri per la fornitura di detti servizi. Inoltre, il Consiglio deciderà ugualmente all’unanimità per quanto riguarda gli accordi nel settore dei servizi in generale e gli aspetti della proprietà intellettuale, qualora comprendano disposizioni per le quali l’unanimità è necessaria per l’adozione delle norme interne.

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CONCLUSIONI DEL CONSIGLIO EUROPEO (9 DICEMBRE 2011) Molto è stato fatto negli ultimi 18 mesi per migliorare la nostra governance economica e combattere la crisi economica e finanziaria. Abbiamo preso decisioni importanti, esposte nelle presenti conclusioni, che richiedono un’attuazione rapida e vigorosa. Abbiamo deciso di dare priorità alle misure potenzialmente in grado di stimolare al meglio la crescita e l’occupazione. Gli Stati membri che partecipano al Patto euro plus hanno convenuto di assumere impegni più specifici e misurabili e in particolare, di portare avanti i lavori in materia di occupazione. Abbiamo definito orientamenti per l’ulteriore sviluppo della politica energetica in ordine al completamento del mercato interno, al potenziamento dell’efficienza energetica, allo sviluppo delle infrastrutture, alla coerenza nelle relazioni esterne dell’Ue, al rafforzamento della sicurezza e della protezione nucleari. Inoltre, il Consiglio europeo ha accolto con favore la firma del trattato di adesione con la Croazia e ha preso decisioni in merito al processo di allargamento dell’Ue nei confronti della Serbia e del Montenegro. POLITICA ECONOMICA Nel riconoscere il peggioramento della situazione economico-finanziaria il Consiglio europeo ha discusso delle iniziative in atto per far uscire l’Europa dalla crisi. La nuova governance economica dell’Unione europea menzionata al punto 3 deve essere attuata pienamente al fine di creare fiducia nella forza dell’economia europea.

Occorre proseguire con le riforme strutturali e con gli sforzi di risanamento di bilancio, per gettare le basi di un ritorno alla crescita sostenibile e contribuire in tal modo a rafforzare la fiducia nel breve periodo. Occorrono inoltre misure che aiutino a ripristinare le normali attività di prestito all’economia, evitando nel contempo sia un’eccessiva assunzione di rischi sia un’eccessiva riduzione della leva finanziaria, come convenuto il 26 ottobre 2011. Nel rammentare i settori prioritari fondamentali per la crescita che ha individuato nell’ottobre del 2011, in particolare l’atto per il mercato unico, il mercato unico digitale e la riduzione degli oneri normativi generali gravanti sulle Pmi e sulle microimprese, il Consiglio europeo ha sottolineato l’esigenza di adottare rapidamente le misure in grado di stimolare al meglio la crescita e l’occupazione. Appoggia pertanto il principio di un programma accelerato e invita il Consiglio e il Parlamento europeo ad attribuire particolare priorità al rapido esame delle proposte che secondo la Commissione hanno un considerevole potenziale di crescita, come da essa indicato anche nell’analisi annuale della crescita. Approva le azioni proposte dalla Commissione nella relazione sulla riduzione al minimo degli oneri normativi per le Pmi. L’analisi annuale della crescita 2012 è un’ottima base per avviare il prossimo semestre europeo che, per la prima volta, vedrà l’attuazione della governance economica rafforzata di recente, anche in ordine alla nuova procedura per monitorare e correggere gli squilibri macroeconomici. Il Consiglio europeo di primavera passerà


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in rassegna i progressi e adotterà gli orientamenti necessari. Occorre concentrarsi urgentemente sull’attuazione, soprattutto alla luce della disomogeneità dei progressi compiuti quest’anno nella realizzazione degli obiettivi della strategia Europa 2020 e nell’attuazione delle raccomandazioni specifiche per paese. I capi di Stato o di governo degli Stati membri che partecipano al Patto euro plus hanno esaminato i progressi realizzati nell’attuazione degli impegni assunti a livello nazionale. Hanno convenuto che nel marzo del 2012 occorrerà valutare più approfonditamente gli sforzi nazionali verso gli obiettivi del Patto. Hanno altresì convenuto di assumere impegni più specifici e misurabili in ciascuno dei settori contemplati dal Patto e di riferire sui progressi nei rispettivi programmi nazionali di riforma. La nuova governance economica deve essere integrata con un monitoraggio migliore delle politiche occupazionali e sociali, in particolare quelle che possono avere un impatto sulla stabilità macroeconomica e sulla crescita economica, in linea con le conclusioni del Consiglio del 1 dicembre. Informati dalla relazione del presidente del Consiglio Epsco e dall’analisi annuale della crescita, i capi di Stato o di governo hanno proceduto ad un primo scambio di opinioni sulle migliori pratiche relativamente alle proprie politiche occupazionali e hanno convenuto sull’esigenza particolare di mobilitare appieno il lavoro a favore della crescita. Le riforme strutturali devono essere portate avanti con vigore; nel contempo occorrono urgenti misure mirate, a livello sia nazionale che europeo, a favore

dei gruppi più vulnerabili, in particolare i giovani disoccupati. Il potenziamento delle politiche di attivazione dovrebbe essere integrato da sforzi per migliorare le competenze, in special modo adeguando i sistemi di istruzione e formazione alle esigenze del mercato del lavoro. La promozione di opportunità lavorative e imprenditoriali per coloro che entrano nel mercato del lavoro e la valutazione di politiche di flessicurezza nuove ed equilibrate potrebbero contribuire in misura significativa al miglioramento delle prospettive del mercato del lavoro per i giovani. I capi di Stato o di governo hanno accolto con favore le relazioni dei ministri delle finanze degli Stati membri partecipanti e della Commissione sui progressi realizzati nelle discussioni strutturate sul coordinamento delle politiche fiscali. Questi lavori saranno portati avanti in linea con il Patto euro plus, concentrandosi sui settori in cui si possono prevedere attività più ambiziose. Particolare attenzione dovrebbe essere riservata al modo in cui la politica fiscale può sostenere il coordinamento delle politiche economiche e contribuire al risanamento dei bilanci e alla crescita. I ministri delle finanze e la Commissione riferiranno sui progressi nel giugno del 2012. ENERGIA La relazione della presidenza dimostra che si sono realizzati progressi importanti nel perseguire gli orientamenti fissati dal Consiglio europeo del febbraio 2011 relativamente al completamento del mercato interno entro il 2014, al rafforzamento dell’efficienza energetica, allo sviluppo di infrastrutture e allo sforzo di assicurare

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coerenza nelle relazioni esterne dell’UE. In tale contesto, il Consiglio europeo accoglie con favore l’accordo sul memorandum d’intesa sulle interconnessioni nord-sud nell’Europa centrale e orientale. In particolare i seguenti aspetti richiedono progressi urgenti: attuazione piena e rapida della legislazione sul mercato interno da parte degli Stati membri, nel pieno rispetto delle scadenze concordate; nessuno Stato membro dell’Ue dovrebbe rimanere isolato dovrebbe rimanere isolato dalle reti europee di gas ed elettricità dopo il 2015 o veder minacciata la sua sicurezza energetica per mancanza di connessioni appropriate; rapido accordo sulla proposta concernente l’efficienza energetica, che dovrà stabilire un quadro ambizioso e flessibile in linea con l’obiettivo del 20% per il 2020, secondo quanto convenuto dal Consiglio europeo del giugno 2010; rapido accordo sulla proposta concernente le infrastrutture energetiche; attuazione delle conclusioni del Consiglio del 24 novembre 2011 per una coerenza e un coordinamento rafforzati della politica energetica esterna dell’UE garantendo tra l’altro che gli accordi con i paesi fornitori e di transito fondamentali siano pienamente conformi alla normativa dell’UE sul mercato interno; accordo sulla strategia di riduzione delle emissioni di CO2 all’orizzonte 2050 e attento esame dell’imminente tabella di marcia per l’energia 2050 che fornirà un’analisi dettagliata sull’azione a lungo termine nel settore energetico e altri settori correlati. La valutazione della sicurezza degli impianti nucleari nell’Unione europea ha registrato progressi. La credibilità del

sistema di sicurezza nucleare dell’UE sarà ulteriormente rafforzata grazie allo sviluppo continuo del quadro normativo in materia nucleare. I lavori sulla protezione nucleare nell’Ue proseguiranno in base alla relazione intermedia sulla protezione nucleare. Nel rammentare le conclusioni del marzo 2011 il Consiglio europeo chiede: di attuare appieno e con tempestività le direttive per la sicurezza nucleare e per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei residui radioattivi; di continuare a dare priorità all’esame approfondito della sicurezza nucleare tenendo conto della comunicazione della Commissione del 23 novembre, e alla presentazione della relazione definitiva sui test di resistenza entro il giugno 2012; di intensificare gli sforzi per associare pienamente tutti i paesi vicini dell’Ue al processo dei test di resistenza e migliorare il quadro in materia di sicurezza nucleare nell’Ue e a livello internazionale; di continuare a lavorare alle misure di protezione nell’Ue e nel suo vicinato e alla presentazione della relazione definitiva entro il giugno 2012. ALLARGAMENTO Il Consiglio europeo approva le conclusioni del Consiglio del 5 dicembre 2011 sull’allargamento e il processo di stabilizzazione e di associazione e rammenta le conclusioni del dicembre 2006 che rappresentano la base di un rinnovato consenso sull’allargamento. La firma in data odierna del trattato di adesione con la Croazia segna un momento importante per l’integrazione euro-


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pea. In attesa della conclusione positiva delle procedure di ratifica, il Consiglio europeo attende con interesse di salutare la Croazia come nuovo membro a partire dal 1 luglio 2013. La Croazia parteciperà ora ai lavori del Consiglio europeo, del Consiglio e dei suoi organi preparatori in qualità di osservatore attivo. Il Consiglio europeo si compiace della valutazione della Commissione in merito ai buoni progressi compiuti dal Montenegro, che ha conseguito risultati complessivamente soddisfacenti. In vista dell’apertura dei negoziati di adesione con il Montenegro nel giugno 2012, il Consiglio europeo incarica il Consiglio di esaminare i progressi del Montenegro nell’attuazione delle riforme, con un accento particolare sul settore dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, soprattutto per quanto riguarda la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, sulla base di una relazione che dovrà essere presentata dalla Commissione nel primo semestre del 2012. Invita la Commissione a presentare quanto prima una proposta relativa a un quadro di negoziazione con il Montenegro conformemente alle sue conclusioni del dicembre 2006 e alla prassi consolidata, includendo anche la nuova impostazione proposta dalla Commissione in merito al capitolo relativo al sistema giudiziario e ai diritti fondamentali e a quello relativo alla giustizia, alla libertà e alla sicurezza. A tale riguardo, si invita altresì la Commissione ad avviare il processo di esame analitico dell’acquis comunitario con il Montenegro per quanto riguarda i suddetti capitoli. Il Consiglio europeo rileva i considerevoli progressi compiuti dalla Serbia verso la

conformità ai criteri politici stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen e ai requisiti del processo di stabilizzazione e associazione e il suo conseguimento di un livello pienamente soddisfacente di cooperazione con l’Icty. Si compiace del fatto che la Serbia abbia ripreso il dialogo Belgrado-Pristina e stia avanzando nell’attuazione in buona fede degli accordi, e accoglie con favore l’accordo sulla gestione integrata delle frontiere. In vista del conferimento dello status di paese candidato alla Serbia, il Consiglio europeo incarica il Consiglio di verificare e confermare che la Serbia abbia continuato a mostrare un impegno credibile e abbia compiuto ulteriori progressi nell’attuazione in buona fede degli accordi conclusi nell’ambito del dialogo, anche in materia di gestione integrata delle frontiere, abbia raggiunto un accordo sulla cooperazione regionale inclusiva e abbia collaborato attivamente per consentire ad Eulex e Kfor di espletare i rispettivi mandati. Alla luce di tale verifica, nel febbraio 2012 il Consiglio prenderà la decisione relativa al conferimento dello status di paese candidato alla Serbia, che dovrà essere confermata dal Consiglio europeo di marzo. VARIE Richiamandosi alle conclusioni del Consiglio del 5 dicembre sull’allargamento, per quanto riguarda le dichiarazioni e le minacce della Turchia, il Consiglio europeo esprime grave preoccupazione e invita a rispettare pienamente il ruolo della presidenza del Consiglio, che costituisce un elemento istituzionale fondamentale dell’Ue previsto dal trattato.

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Richiamandosi alle discussioni del giugno e dell’ottobre 2011 il Consiglio europeo nota che sono soddisfatte tutte le condizioni giuridiche per l’adozione della decisione relativa all’adesione della Bulgaria e della Romania allo spazio Schengen. Esorta il Consiglio a adottare tale decisione in tempi il più possibile brevi. Se necessario, il Consiglio europeo ritornerà sulla questione nella riunione del marzo 2012. Rammentando le sue conclusioni del 23 ottobre 2011 e avallando le conclusioni del Consiglio del 1° dicembre, il Consiglio europeo ribadisce di nutrire serie e crescenti preoccupazioni circa la natura del programma nucleare iraniano, secondo quanto riportato nell’ultima relazione dell’Aiea, e per l’inadempienza degli obblighi internazionali da parte dell’Iran. Plaude all’accordo raggiunto dal Consiglio sull’indicazione di altre 180 entità e persone direttamente collegate al programma nucleare. Invita il Consiglio a procedere in via prioritaria con i lavori sull’ampliamento della portata delle misure restrittive dell’Ue e delle sanzioni vigenti vagliando ulteriori misure nei confronti dell’Iran, e ad adottare queste misure al più tardi nella prossima sessione. Il Consiglio ribadisce l’impegno di lunga data dell’Unione europea ad adoperarsi per una soluzione diplomatica della questione nucleare iraniana, conformemente al duplice approccio. Il Consiglio europeo è unanime nella condanna degli attacchi contro la sede diplomatica del governo del Regno Unito in Iran e deplora che il governo iraniano non abbia assolto le responsabilità internazionali di protezione del personale e degli immobili

diplomatici che gli incombono in virtù della convenzione di Vienna. Il Consiglio europeo resta profondamente preoccupato per il ricorso continuo alla forza militare da parte del regime siriano e per la repressione della popolazione civile nel paese. Avallando le conclusioni del Consiglio del 1 dicembre 2011, il Consiglio europeo conferma fermo sostegno all’impegno profuso dalla Lega degli Stati arabi ed esorta il regime siriano a conformarsi pienamente al piano d’azione della Lega araba. Ribadisce la necessità che tutti i membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu si assumano urgentemente le proprie responsabilità in relazione alla situazione in Siria. Il Consiglio europeo plaude all’esito della conferenza internazionale sull’Afghanistan tenutasi il 5 dicembre 2011 a Bonn e ribadisce l’impegno nei confronti di un coinvolgimento coerente a lungo termine dell’Unione europea per l’Afghanistan al di là del 2014. Il Consiglio europeo accoglie con favore gli intensi lavori preparatori svolti in questo semestre per il futuro quadro finanziario pluriennale e prende atto della relazione presentata dalla presidenza. Esorta la presidenza entrante a proseguire attivamente i lavori per definire una base su cui impostare la fase finale di negoziato che sarà discussa in sede di Consiglio europeo a giugno 2012. Rinnova l’invito alle istituzioni di cooperare per assicurare l’adozione del quadro finanziario pluriennale entro la fine del 2012.


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Minuta Cultura politica

Ăˆ ora di rompere il metodo cooptativo con il dinamismo giovanile di Angelica Stramazzi Esteri

La rete cinese tra censura e opportunitĂ di Maria Elena Viggiano RUBRICHE

Adelante al Sur Infrastrutture, primo passo per l’integrazione dei paesi in America Latina di Simona Bottoni



Angelica Stramazzi

È ora di rompere il metodo cooptativo con il dinamismo giovanile 212

Nella società civile come nella politica è arrivato il momento di fare largo alla forza propositiva dei giovani, che con le loro idee e provocazioni possono finalmente disgregare il metodo di scelta della classe dirigente che si è instaurato nel nostro paese. Chiunque abbia assistito o abbia anche provato solamente ad analizzare uno dei grandi mutamenti sociali avvenuti nel corso del tempo si sarà sicuramente imbattuto in una indissolubile e invalicabile verità: l’insorgere improvviso e assai repentino di nuove forze impone uno stravolgimento dello status quo dominante, con un conseguente ripensamento di ruoli, funzioni e posizioni di vario genere. Ciò che veniva considerato un dogma diventa improvvisamente un’eresia e tutto quello che costituiva un terreno sicuro su cui fondare teorie, congetture ed elaborazioni culturali si sgretola sotto i colpi incessanti di un processo di ricambio genera-

zionale che non conosce tempi prestabiliti, regole certe e procedure più o meno consolidate. Accade quindi che, in un determinato periodo e date alcune condizioni di partenza, un paese viva una fase abbastanza prolungata di rinnovamento e cambiamento al suo interno, in cui i vertici politici, economici e giudiziari vengono perennemente messi in discussione dalla base sociale pronta, a causa del suo stato di sofferenza e profonda disaffezione verso un mondo in cui stenta a riconoscersi, a destrutturare ciò che in precedenza era stato costruito. Le esperienze delle “primavere arabe”, unitamente alle proteste globali


CULTURA POLITICA

degli indignados, testimoniano non solo la capacità della gente comune di contestare un sistema (o i sistemi) di valori e principi, ma soprattutto la volontà di destituire un’intera classe dirigente, un intero gruppo di rappresentanti istituzionali, un intero colosso finanziario in cui la speculazione sembra dominare incontrastata. La riuscita o meno di un simile processo – la possibilità cioè che quanto espresso finora si traduca in realtà – dipende essenzialmente dal livello di disponibilità – ed apertura – delle élites dominanti a lasciarsi “contaminare” dalle proposte e dalle idee portate avanti dalla piazza che insorge. Il che non significa tota-

le annullamento o annacquamento del proprio progetto identificativo, quanto piuttosto apertura (e ascolto) nei confronti di chi soffoca in un profondo stato di malessere attuale e sfiducia verso un domani largamente incerto e indefinito. Già a partire dalle elaborazioni prodotte dalla scuola elitista di Mosca, Pareto e Michels, il problema più stringente che affiora in superficie consiste non tanto nell’élite in sé, e quindi nella sua chiara e sincera individuazione (ed affermazione), quanto piuttosto nella sua selezione e nel suo rinnovamento. Partendo infatti dal presupposto che la classe politica è (quasi) sempre una “mino-


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ranza organizzata” (Mosca), resta da spiegare in che modo e secondo quali ben precise modalità possa avvenire il ricambio di una classe dirigente che, numericamente ristretta ex definitione, dovrebbe comunque accogliere positivamente l’entrata di nuove forze e di energie fresche inevitabilmente portatrici di idee dirompenti. Tuttavia – ed è questa una triste realtà con cui, nostro malgrado, dobbiamo ancora oggi rapportarci – un simile processo non è avvenuto, o almeno fino a ora, in maniera spontanea e immediata; per contro, abbiamo assistito a un cristallizzarsi di posizioni, privilegi e guarentigie che ha poi finito per ostacolare la conseguente immissione di nuove leve nell’establishment dominante. Il protrarsi del dibattito circa la qualità e lo spessore culturale, morale e intellettuale di chi guida le nostre giornate dimostra anzitutto l’attenzione – a volte fin troppo smisurata – che la società riserva a questo tema: come possiamo pensare di star meglio in futuro se chi ci governa attualmente non conosce il senso – e la misura – di una responsabilità che, essendo politica, si rivolge al benessere e allo sviluppo della polis nel suo complesso? In che modo saremo in grado di implementare la crescita economica e l’equità sociale se chi ce la propugna disdegna la sobrietà e l’accortezza? Per rispondere a tali quesiti

bisognerebbe indagare a fondo le ragioni in base alle quali, in un dato periodo storico, l’affermazione di un certo ceto dirigente avvenga in maniera meno traumatica rispetto a un altro gruppo; tuttavia, in questa trattazione si desidera focalizzare l’attenzione sulle dinamiche attuali di ricambio dei rappresentanti politici, evidenziando nello specifico alcuni casi che, da diversi opinionisti e osservatori, sono stati individuati come indicatori di un malessere generale e di un’insofferenza ormai non troppo latente bensì manifesta ed evidente. Ben prima dell’uscita (temporanea?) di scena di Silvio Berlusconi, il panorama politico italiano ha conosciuto l’emersione di nuove figure che, all’interno di un sistema bipolare assai bizzarro e stravagante, hanno cercato di “rivoluzionare” le dinamiche di selezione della classe dirigente interne sia al centrodestra che al centrosinistra. Per semplificare, in questa circostanza verranno presi in esame i casi del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, del sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi e del segretario del Pdl Angelino Alfano; tutti esponenti politici che, nel bene o nel male, hanno introdotto profondi segnali di rottura all’interno della propria compagine partitica, non disdegnando affatto momenti di frizione e di rottura nei confronti dei maggiorenti del loro

Il cristallizarsi di privilegi, posizioni e guarentigie ha finito per ostacolare l’immissione di nuove leve nell’establishment


CULTURA POLITICA

partito di riferimento. Rispetto al periodo della Prima Repubblica, in cui la dedizione alla causa e la volontà di conformarsi alla linea generale (e ufficiale) dettata dai leader storici della democrazia italiana riusciva assai spesso a prevalere sulle voci stonate di qualche dissidente interno, la Seconda Repubblica si è caratterizzata invece per la rilevanza data alle questioni e ai nodi sollevati da coloro che, contestando determinate posizioni e avanzandone altre, non hanno rinunciato a dire la loro. A esprimersi, ad alzare i toni, rivendicando un diritto di parola che, a causa della giovane età, sembrava ormai essere negato. In questo scenario quindi, l’allineamento e la conformità ai diktat interni ha finito per prevalere, unitamente alla non possibilità di contestare il comparto adulto del proprio schieramento. Ora, ammesso e non concesso che l’anagrafe debba costituire un requisito indispensabile per far politica e diventare leader di partito o di governo – la giovane età di per sé può non essere ritenuta un vantaggio assoluto, essendo l’esperienza e la saggezza ben più importanti –, resta da chiarire il motivo per cui, di fronte a determinate rivendicazioni avanzate da certi quarantenni, alcuni maggiorenti di partito si siano trovati spiazzati e sostanzialmente delusi. In una parola, traditi da chi, secondo loro stessi, avevano contribuito a far

emergere e a estrapolare da un presente fatto di anonimato e qualunquismo. Prima di procedere su questo binario, sarà tuttavia opportuno apportare qualche chiarificazione terminologica sulla figura del leader di partito diffusasi a macchia d’olio in tutte le maggiori democrazie occidentali. Come ha giustamente ricordato la filosofa Michela Marzano, «per Max Weber l’avvento dei leader carismatici è legato alle condizioni sociali e, più in generale, a particolari periodi di miseria psichica, economica ed etica. È allora che, secondo il sociologo, un gruppo si affida a coloro che posseggono le qualità giuste per compiere “il miracolo”. Il leader è infatti un personaggio esemplare: sensibile ai cambiamenti, capace di assumere i rischi e di esporsi al pericolo, dotato di una visione del mondo e disposto a metterla in atto. Un leader può catalizzare ammirazione, entusiasmo e devozione perché si dichiara capace di operare una rottura con il presente e gli altri gli credono»1. Tre elementi sembrano quindi prevalere: in un contesto di povertà economica e aridità culturale, politica e morale, un soggetto attua una rottura il più delle volte traumatica con lo status quo dominante; un gruppo di persone è conseguentemente disposto ad affidarsi al carisma del primo perso-

Il leader deve capire i cambiamenti, capace di assumere rischi, disposto a mettere in atto la sua visione

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naggio e a credere nelle sue prodigiose e straordinarie qualità. Tutta la storia e l’emersione dei leader carismatici moderni e del passato abbastanza recente ricalca a grandi linee questo percorso; delle differenziazioni ovviamente non sono mancate, essendo il contesto storico mutevole a seconda dei vari paesi presi in esame. Ma ciò che non deve essere assolutamente dimenticato o sottovalutato è la capacità insita nel carisma del leader di sancire una cesura importante con il contesto precedente alla sua emersione. In caso contrario, non si darebbe nessuna ipotesi di transizione, sia essa democratica, autoritaria o totalitaria, né si spiegherebbe la necessità di puntare tutto sul carisma e sulle qualità di un uomo solo.

no di una compagine che, seppur profondamente divisa e ricca di numerosi distinguo, fino a qualche anno fa non aveva ancora sperimentato casi di contestazione aperta e informale nei confronti dello storico gruppo che, ab origine, costituì il Pds, i Ds e poi il Pd. Non dovrebbe quindi stupire più di tanto il fatto che l’elezione di Renzi a Sindaco di Firenze abbia spiazzato non pochi democrats, convinti che mai e poi mai quel ragazzo parecchio intraprendente potesse farcela. La storia ha invece voluto il contrario e Renzi è, dopo Flavio Tosi, uno dei sindaci più amati e apprezzati d’Italia: una qualifica che, visti i tempi di magra in cui quasi tutti i Comuni italiani si trovano impantanati, non risulta affatto scontata. Del resto, entrare nelle menti (e nei cuori) di migliaia di cittadini non è un’operazione semplice: coraggio e costanza, ma soprattutto passione e amore per la cosa pubblica, sono gli ingredienti indispensabili di questa missione civile e politica. La formale rottura tra il primo cittadino fiorentino e il gruppo dirigente del Partito Democratico viene sancita in seguito all’utilizzo del termine”rottamazione”, espressione utilizzata per indicare la necessità che, dopo lo svolgimento di tre mandati consecutivi in Parlamento, chi abbia ricoperto una determinata

Entrare nelle menti dei cittadini è operazione che richiede coraggio, costanza e passione per la cosa pubblica

Renzi, Tosi e Alfano: quando la contestazione politica crea un precedente. Negli ambienti vicini al Partito democratico e all’interno della stessa segreteria di Largo del Nazareno, la figura di Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze, non è mai stata accolta benevolmente. La sua capacità di vincere le primarie contro tutto e tutti – nella corsa per la conquista di Palazzo Vecchio era dato per favorito il candidato vicino a Massimo D’Alema –, unitamente alla sua forza comunicativa e mediatica, ha destato non pochi malumori all’inter-


CULTURA POLITICA

Il Libro Tra demenzialità istituzionalizzata e volgare al potere

Rifiutando la responsabilità di un cambiamento

Peppe Fiore La futura classe dirigente Rubbettino 2009, 404 pp., 12 euro

Lorenzo Ornaghi, Vittorio E. Parsi Lo sguardo corto Sagittari Laterza 2001, 127 pp., 16 euro

Figlio unico, napoletano trapiantato a Roma, megalomane, assediato da una selva di nevrosi erotiche, bipolare come tutte le persone di talento nell'Italia contemporanea, Michele Botta ha la sua prima vera occasione per entrare nel mondo degli adulti: viene assunto da una giovane e dinamica società di produzione televisiva. Potrebbe essere l'anno della svolta, e invece è qui che il suo equilibrio già precario finisce per sgretolarsi. Viene mollato dalla ragazza. Il rapporto con i genitori è un ginepraio di ostilità reciproche ormai arrivato al pettine. E l'emancipazione professionale è una fiction milionaria su un mitologico regista porno degli anni Ottanta, che forse non è mai esistito. Comico, caustico, eccessivo, irresistibile, La futura classe dirigente è l'attraversamento della linea d'ombra nell'era della demenzialità istituzionalizzata e della volgarità al potere. Ma anche l'analisi amara e impietosa di un paese attraverso la messa alla berlina della sua «santa trinità»: la famiglia, il sesso, la televisione.

Un sospetto ha preso sempre più corpo in questi ultimi anni. Mentre la 'transizione' diventava lo stato permanente in cui sistema politico e società continuavano ad avvitarsi, il Paese veniva abbandonato a se stesso dalla sua classe dirigente. Quasi in una riedizione continuata dell'8 settembre 1943, per tutti gli anni Novanta, proprio mentre la società era sottoposta dall'impatto della globalizzazione a una serie di shock tutt'altro che lievi e il tasso di crescita dell'economia italiana diventava il più basso del dopoguerra, la classe dirigente ha riscoperto il 'tutti a casa'. Ha cioè sostanzialmente rifiutato di assumersi la responsabilità, anche quando ne abbia percepito la privilegiata opportunità, di orientare un cambiamento al cui confronto il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica risultava per il Paese una preoccupazione certamente minore, poco più che un adeguamento tecnico.

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carica lasci il posto a figure nuove ma non per questo prive di militanza ed esperienza politica. La prima a insorgere fu Anna Finocchiaro, che quasi immediatamente si adoperò per ricordare al giovane Renzi che il termine “rottamare” si utilizza per le automobili e non già in riferimento a persone o esseri umani pensanti e dotati di ragione. Alla protesta del capogruppo dei senatori del Pd si unì ben presto la voce di Rosy Bindi, desiderosa – come Renzi – di riuscire vincitrice nella competizione delle primarie, arrivando così a ricoprire la carica di primo ministro. Tuttavia, il sindaco di Firenze non fu lasciato solo – o almeno così fu in un primo momento – nella sua ardua e spinosa battaglia contro la gerontocrazia politica e partitica tuttora imperante nelle istituzioni del nostro Paese: a supportarlo arrivarono il consigliere regionale lombardo Civati e l’europarlamentare Serracchiani. Ma le posizioni di Renzi si fecero via via più aspre e difficili da assecondare anche per quei giovani democratici che inizialmente avevano sostenuto la crociata del primo cittadino fiorentino. Civati e Serrachiani si sono quindi costituiti attorno al gruppo di “Prossima fermata Italia”, mentre lo stesso Renzi ha deciso di formalizzare le sue idee in un documento di 100 punti poi presentato nel corso della kermesse organizzata alla stazione Leopolda. E proprio alla vigi-

lia del Big Bang la direzione del Pd fiorentino ha pensato bene di stilare un documento filo Bersani contro Renzi e le sue ambizioni di crescita sul piano nazionale. Tuttavia, sebbene le epurazioni politiche siano tornate in auge negli ultimi tempi – e la bontà di tali pratiche è ancora tutta da verificare – sia Matteo Renzi che Pierluigi Bersani rappresentano insieme non tanto il “nuovo” e il “vecchio”, ma il “mito incapacitante” di un partito oggettivamente provvisorio, sospeso tra tentazioni regressive e provocazioni scapigliate2. Se poi di vera e propria epurazione si desidera parlare, allora occorre precisare che con tale termine ci si riferisce all’allontanamento da una carica o da una istituzione di persone ritenute indegne, incapaci e non fidate; ma Renzi, come Tosi del resto, ha spesso dimostrato di saper gestire le criticità e le problematicità del capoluogo toscano e del territorio fiorentino, e quindi un simile scenario non avrebbe ragione di verificarsi. Altra cosa è invece la defezione, che in politica viene ricondotta all’atto di venir meno al proprio impegno verso uno Stato o un’entità politica a favore di un altro; chi adotta un simile comportamento, viene spesso indicato come traditore, disertore o transfuga. In questa seconda fattispecie, si potrebbe quindi ricondurre il caso ren-

Renzi e Bersani rappresentano non tanto il nuovo e il vecchio, ma il mito incapacitante di un partito provvisiorio


CULTURA POLITICA

ziano, soprattutto in riferimento alla visita che il “rottamatore” fiorentino ebbe modo di rendere all’ex premier Berlusconi presso la sua residenza di Arcore. Con quella visita, Renzi voleva solamente sincerarsi del fatto che il Cavaliere rispettasse gli impegni presi con Firenze e i fiorentini; tuttavia, ciò che fece impallidire i big democrats fu il fatto che il luogo scelto per l’incontro costituisse una residenza privata di un primo ministro e non già una sede di rappresentanza istituzionale. Del resto, molto è stato detto (e scritto) sulle evidenti analogie e numerosi punti di contatto che la comunicazione di Renzi avrebbe con quella di Silvio Berlusconi: linguaggio diretto, semplice e privo di tecnicismi, il gusto per la battuta e la capacità di sdrammatizzare in molte circostanze. Secondo il giornalista David Allegranti che ha scritto una sua biografia, Renzi ha «un decisionismo berlusconiano mixato a un’abilità democristiana e a un uso molto accorto dei media e della rete». «Per tre parole ovvie che dice contro Berlusconi – ha teorizzato dal canto suo Giuliano Ferrara – ne dice mille per cambiare il modo di essere dell’opposizione, e lo fa con schiettezza, non senza prudenza, con esitazioni comprensibili, ma in modo alla fine piuttosto volitivo»3. Ecco quindi delineata la caratterizzazione di un personaggio politico che, negli anni a venire, co-

stituirà un punto di riferimento per tutti coloro che, analisti politici e non, vorranno comprendere più da vicino le dinamiche e i mutamenti del quadro politico italiano. Per onestà e rigore intellettuale, va comunque ricordato che l’avvento del governo Monti ha rappresentato sia per Renzi ma anche per la Lega, e quindi per Flavio Tosi, un punto di svolta più o meno significativo nella gestione dei rapporti interni ai diversi schieramenti partitici. Se la Lega ha preferito farsi opposizione, ricompattando il gruppo precedentemente diviso in maroniani e sostenitori del “cerchio magico”, Renzi ha cominciato ad “autorottamarsi”, iniziando ad intraprendere un dialogo con gli antirenziani fiorentini: uno spostamento tattico che dimostra, con tutta evidenza, come la prassi politica sia sempre più mutevole e cangiante. Discorso analogo potrebbe essere fatto per Flavio Tosi, quarantunenne sindaco di Verona. La sua figura è stata assai spesso considerata largamente dissonante con l’insieme di rituali leghisti e la “simbologia verde” ostentata da quasi tutti gli esponenti politici della Lega Nord, eccezion fatta per lo stesso Tosi, per l’europarlamentare Salvini e per l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni: niente cravatte e pochettes verdi, niente spillette né distintivi in bella

Renzi: un personaggio politico utile per comprendere dinamiche e mutamenti del quadro politico

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mostra; a prevalere la volontà di dedicare più spazio (e più tempo) alle idee, alle proposte e, assolutamente non da sottovalutare, allo sdoganamento di un mondo esternaPrende volto la volontà dei 40enni di non gettare mente apparso fin troppo ancela spugna e limitarsi ad avallare la linea del partito strale ed arcaico. Il fatto che Flavio Tosi sia stato (e lo è tuttora) considerato un soggetto scomodo o da rimuovere con coercizione da gran parte della dirigenza leghista viene confermato lo scorso ottobre quando il senatur offese pubblicamente e verbalmente il primo cittadino e lo accusò «d’aver fatto entrare 220 i fascisti nella Lega»4. Il riferimento è, con tutta evidenza, alla figura di Andrea Miglioranzi, ex esponente della destra estrema, skinhead e leader della Fiamma Tricolore; uomo di assoluta fedeltà e devozione tosiana, Miglioranzi potrebbe costituire la punta di diamante di una lista elettorale staccata dalla Lega e vicina al sindaco in vista delle prossime amministrative. Questo dimostra, e il caso di Renzi lo evidenzia perfettamente, la volontà dei quarantenni emergenEmerge la capacità ti di non gettare di farsi sentire la spugna, di non ribellandosi a un limitarsi ad avalpensiero non condiviso lare una linea di partito non condivisa e progettata a tavolino dai soliti maggiorenti. Ciò che invece queste storie e queste esperienze dovrebbero insegnare è la capacità di emergere e farsi sentire nonostante tutto e tutti, la forza di

ribellarsi a chi vuole imporci un pensiero non gradito; in buona sostanza, si tratta di un grido disperato che, non raccolto per diversi decenni, rischia ora di sfociare in un fiume dirompente e in grado di frantumare tutti gli argini sapientemente aizzati e costruiti. Resta ancora da analizzare la figura di Angelino Alfano, segretario politico del Pdl, la cui nomina, avvenuta per acclamazione durante il Consiglio Nazionale dello scorso luglio, ha destato – e tuttora continua a farlo – non poche polemiche e malumori sia tra esponenti interni al


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partito sia all’esterno, non potendosi dare un segretario per nomina imposta dall’alto e non già per votazione democratica e trasparente. Nonostante ciò, e contro qualsiasi pessimistica previsione, l’ex Guardasigilli ha cercato di imprimere una svolta nella gestione troppo autoreferenziale del partito imposta dal triumvirato composto dai coordinatori Bondi, La Russa e Verdini. Mentre nei casi di Renzi e Tosi la contestazione della loro personalità e del loro operato è per lo più avvenuta a opera dei maggiorenti di partito (Bersani, Bindi, D’Alema e Fi-

nocchiaro per Renzi; Bossi e il suo entourage nel caso di Tosi), contro la nomina di Angelino Alfano si è radunata, seppur in maniera ben celata e non evidente, una schiera di quarantenni e Alfano cerca di dare non, dispiaciuti una svolta alla gestione della troppo fidutroppo autoreferenziale cia che il Cavadel Pdl liere aveva riposto nella figura dell’attuale segretario del Popolo della libertà; elemento questo da non sottovalutare, visto che il rinnovamento dei quadri di partito resta ancora cristallizzato e la rotazione nelle cariche non è sta-


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ta (purtroppo) interiorizzata. Ad Alfano è stata anzitutto rimproverata la sua assenza di carisma – e di conseguenza la sua difficoltà nel porsi come leader sia all’interno che all’esterno del partito: il suo trascorso democristiano, unitamente alla sua pacatezza e mitezza, lo ha finora penalizzato, anche se, a onor del vero, va comunque sottolineata la sua capacità di mediazione politica tra diversi interessi in campo. Dei parallelismi tra Renzi e Alfano sono stati avanzati da molti osservatori, soprattutto in riferimento alla comune estrazione politica di entrambi – tutti e due hanno infatti mosso i primi passi nelle file della Democrazia Cristiana. A tal proposito il giornalista Mario Adinolfi ha evidenziato che «Matteo è un combattente, pronto a correre grandi rischi. Angelino invece è uno che mai potrebbe correre un rischio mortale»5, differenziando così l’anima battagliera del sindaco di Firenze dalla tranquillità trasmessa dal “giovane” di Agrigento. I casi oggetto di questa trattazione rimandano tuttavia al più generale dibattito e confronto sulla questione del ricambio generazionale all’interno dei partiti italiani e delle maggiori istituzioni rappresentative, fermo restando che, anche nei piccoli e circoscritti contesti, le cariche elettive sono ricoperte da soggetti ormai da parecchio tempo impegnati nella gestione della cosa pubblica. Per ovviare a questi inconvenienti – ma soprattutto per cercare di far sì che anche l’Italia possa iniziare a

costruire una classe dirigente composta da persone valide, responsabili e meritevoli –, sono state avanzate diverse proposte: dalle primarie interne ai partiti da effettuare a tutti i livelli territoriali, fino al ritorno delle scuole di formazione organizzate dagli organismi partitici di riferimento. Diversi studiosi del mondo antico hanno cercato di analizzare il fenomeno del rinnovamento dei quadri di partito gettando uno sguardo al passato, ricordando in particolare che, nell’antichità greco-romana ma che nel primo Novecento, le figure di giovani capi o condottieri costituivano per lo più la regola e non già l’eccezione. A tal proposito, lo storico Luciano Canfora ha dichiarato che «il cretinismo pedagogico contemporaneo ritiene fanciulli gli attuali quarantenni. Nel caso del trentaseienne Renzi, ricordo che Mussolini a 38 era Presidente del Consiglio e Lenin a 40 era soprannominato “il vecchio”». Sulla stessa scia, Maurizio Bettini ha sottolineato che «Renzi ha da dire delle cose interessanti, ma l’ambiente circostante dà l’idea di non considerarlo abbastanza autorevole per via della sua giovane età»; la bizantinista Silvia Ronchey ha fornito una chiave di lettura più generale, affermando che «oggi abbiamo ereditato un’idea di giovinezza che non finisce mai, per lo più declinata in chiave socio-merceologica, nella quale è assente un sano rapporto dialettico con gli anziani». Ed è proprio l’incapacità – e l’impossibilità – di strutturare e svi-


CULTURA POLITICA

luppare un confronto schietto e sincero con il comparto adulto della politica a penalizzare i giovani, soprattutto nei casi in cui l’inesperienza viene equiparata a incapacità e non a opportunità di crescita e apprendimento. La scelta quindi si potrebbe riassumere in due opzioni: quella avvincente ma non affatto scontata della sfida e quella più “tranquilla” e agevole della cooptazione che per essere tale richiede una linea di continuità – e di assoluta fedeltà – con il blocco di potere precedente. Su questo aspetto, il politologo Angelo Panebianco è intervenuto per ricordare che «le società vecchie sono statiche di natura mentre quelle giovani sono dinamiche e destabilizzanti, e se non trovano uno spazio adeguato sono pronte a esplodere». Gli effetti (ma anche la pericolosità sociale) di eventuali esplosioni sono solamente ipotizzabili; bisognerebbe invece cercare di sfruttare al meglio il periodo di relativa pausa concesso ai partiti dal governo Monti per individuare prospettive di sviluppo future, provando così a innescare meccanismi di rinnovamento interno e di apertura verso chi avanza idee e proposte meritevoli di essere prese in considerazione.

Note 1 Michela Marzano, Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata, Mondadori 2009. 2 Cfr. Gennaro Malgieri, La destra di Renzi sfida la sinistra di Bersani, Il Tempo, 31 ottobre 2011 3 Giuliano Ferrara, Renzi, quel politico moderno insidiato da cinismo e invidia, Il Foglio, 31 ottobre 2011 4 Cfr. Goffredo Pistelli, Flavio Tosi si fa un partito suo, Italia Oggi, 18 novembre 2011 5 Cfr. Francesca Schianchi, Renzi e Alfano, i gemelli diversi battezzati Dc, in La Stampa, 2 novembre 2011

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l’autore angelica stramazzi Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Università di Perugia, collabora con Spinning Politics, testata on line di comunicazione politica. Corrispondente locale de La Provincia Quotidiano, svolge attività di consulente politico, occupandosi di comunicazione politica ed istituzionale.


Maria Elena Viggiano

Ha inizio la cyber-war

La Rete cinese, tra censura e opportunità Il controllo totale su Internet da parte del governo cinese è totale e nelle loro ricerche per scovare i dissidenti sono aiutati addirittura da società Usa. Ma in nome del commercio, lo Stato sa che deve usufruire delle enormi potenzialità della Rete.

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Facebook non funziona. È inutile continuare a digitare la parola sul motore di ricerca, non appare niente, la pagina è bloccata. La prima volta è un’esperienza interessante, c’è la curiosità di capire come questa nota censura cinese agisca sugli utenti e blocchi le informazioni, la seconda si prova una sensazione di fastidio per la consapevolezza che inevitabilmente non si può accedere a un flusso di notizie e si è in parte emarginati, alla fine prevale la rassegnazione e la presa di coscienza che si potranno sapere alcune informazioni solo usciti dai confini della Cina. E fin quando si tratta di cose marginali poco male, il problema diventa quando non è possibile approfondire la conoscenza su tematiche considerate scottanti per le autorità di Pechino, come il massacro di piazza Tiananmen. Nessuna traccia di uno degli episodi più tristi

della storia cinese, come tanti altri è ancora considerato un argomento tabù per la paura dei leader del partito di mostrare una debolezza o di perdere il controllo sulla popolazione. Nessuna possibilità per i cinesi di esprimere liberamente pensieri e opinioni in contrasto con il governo, a meno che non si voglia correre il rischio di essere arrestati e spesso sottoposti a torture. Internet diventa quindi il luogo di scontro tra il regime e i dissidenti e un termometro per analizzare il livello di democrazia della Cina. Secondo uno studio della Chinese Academy of Social Sciences (Cass), nel 2010 i siti web cinesi censiti sono 1,91 milioni con una diminuzione del 41% rispetto allo scorso anno, nello stesso tempo però il numero totale delle pagine visitate è aumentato del 78,6% con 60 miliardi di nuovi link. Gli esperti del Cass dichiarano che i


ESTERI

dati non sono per nulla correlati alle restrizioni sulla libertà di espressione, ma sono dovuti all’attuazione di regolamenti per la chiusura di siti pornografici. I dubbi però rimangono perché, leggendo le statistiche, emerge il desiderio dei cinesi di essere connessi al resto del mondo, cercando di tutelarsi e di non esporsi. E non è nemmeno un caso che il crollo dei siti sia in concomitanza con un maggiore inasprimento della censura. Negli ultimi tempi è stato bloccato l’accesso a Twitter, Youtube e moltissimi siti stranieri, probabilmente con l’obiettivo di isolare i cinesi e non renderli partecipi delle rivolte in atto in Medio Oriente e in Nord Africa. Da febbraio, 130 attivisti e blogger sono detenuti in prigioni segrete, spariti nel nulla o sottoposti a interrogatori e torture per paura di un contagio della primavera araba. Grande clamore ha poi suscitato

l’arresto del dissidente cinese Ai Weiwei, fermato all’aeroporto con il pretesto di frode fiscale, è stato rilasciato dopo quasi tre mesi a condizione di non usare i social media. Non si hanno più notizie di Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace, detenuto con l’accusa di “incitamento alla sovversione del potere dello Stato” per essere stato uno degli autori di Charta 08, una dichiarazione per l’introduzione di riforme politiche al fine di favorire il processo di democratizzazione del paese. Essendo conosciuti a livello internazionale, i loro nomi sono noti e quindi la mobilitazione è di massa, ma l’elenco dei cinesi che si trovano nelle stesse condizioni è lunghissimo, a riprova che internet per le autorità è diventato un modo con cui dare la caccia ai cittadini considerati sovversivi. Da qui nasce un sistema di sorveglianza per la popolazione cinese, dove il controllo

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Maria Elena Viggiano

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è possibile anche grazie agli ac- della città cinese. La morsa della cordi tra il governo e le multinazio- censura diventa quindi più forte, in nali straniere interessate a entrare cambio di profitti per la società nel giro d’affari della Rete cinese americana che si aggirano intorno per sfruttarne le potenzialità. Uno ai 500 milioni di dollari. I guadadegli ultimi casi riguarda tre dissi- gni sono considerevoli e a volte le denti che hanno portato in tribuna- aziende straniere sono disposte a le, nel Maryland, la Cisco System, chiudere un occhio per stipulare acsocietà americana leader mondiale cordi con il governo, referente prinnella gestione di reti informatiche, cipale per beneficiare in parte del con l’accusa di aiutare il regime boom economico del paese. La Cisco ovviamente non è l’unica nella censura. Dal 2002, sembra che la società e la Cina è un mercato che fa gola offra assistenza al governo per l’im- a molti dato che conta 457 milioni plementazione del “Golden Shield di internauti – la più grande comunità al mondo – Project”, conosciuto che amano collesoprattutto con il noLa Cisco System garsi dal compume di “Great Firewall ter, non disdegnaof China”. È un siste(americana) aiuta no i cellulari per ma di sorveglianza, la dittatura cinese connettersi e sono voluto dal ministero a scovare i dissidenti un target ideale della Pubblica sicuper l’e-Commerrezza e operativo dal del regime ce. Da poco Mi2003, che attraverso crosoft ha stretto dei filtri riesce a bloccare qualsiasi tipo di contenuto rite- un accordo con Baidu, il principale nuto pericoloso, come la ricogni- motore di ricerca cinese che conzione sui motori di ricerca di parole trolla oltre il 75% del mercato, per chiave considerate sovversive ma fornire risultati in inglese agli utenti anche mail e blog. Inoltre, la poli- asiatici. Nessun dettaglio finanziazia cinese è in grado di risalire al- rio è ancora trapelato ma non è difl’identità degli autori con la possibi- ficile immaginare che i vantaggi salità di rintracciarli, un controllo con- ranno reciproci, poiché la Microtinuo che spesso si conclude con la soft aumenterà la sua presenza sul detenzione degli internauti e le tor- web nel paese asiatico con un inture che ne derivano. La Cisco sem- gente ritorno economico dovuto ai bra poi essere una delle principali guadagni della pubblicità e, nello società che realizzeranno il proget- stesso tempo, la società cinese ha to “Peaceful Chonqing”, il più gran- un’ottima opportunità per ampliare de sistema di sorveglianza al mon- la presenza all’estero e raggiungedo, con una rete di 500mila tele- re l’obiettivo di estromettere il comcamere distribuite in tutti gli angoli petitor principale Google, già in


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difficoltà a causa della censura online. Lo scorso anno, il gigante informatico americano ha deciso di rompere il silenzio e di denunciare gli attacchi ad opera di hacker che si intromettevano nei server in Cina, in particolar modo violando alcuni account Gmail registrati da dissidenti e attivisti cinesi. Un’intrusione che non è stata accettata dai dirigenti del colosso, disposti a rinunciare a un bacino di utenti enorme con future prospettive di crescita. L’episodio si è ripetuto altre due volte, sempre con le stesse modalità cioè intromettendosi nella posta elettronica anche di politici americani. Pechino ha respinto le accuse, dichiarandosi estraneo ai fatti, ma è interessante notare come internet sia ormai anche in grado di destabilizzare gli equilibri tra due Paesi, al punto che viene considerato uno spazio dove potrebbe essere combattuta una vera e propria cyber-war. Il web è spesso la causa di tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina, dietro cui si nascondono contrasti e tensioni di carattere politico e il desiderio di supremazia dell’uno sull’altro. Chiarezza e trasparenza sugli attacchi informatici, chiedono di solito gli Usa, oltre a condannare ripetutamente la violazione dei diritti umani che avviene quando si applica la censura. Il governo cinese di solito si dimostra offeso per le pesanti insinuazioni, richiama l’attenzione al principio di non interferenza negli affari interni del paese, minaccia ripercussioni negli scambi commerciali e ricorda

gli sforzi compiuti per lo sviluppo di internet. La rete però è lo specchio delle contraddizioni della Cina. Pechino sa benissimo che non potrebbe essere presente sullo scenario globale senza il supporto della rete che è un modo per incrementare l’apertura del paese e quindi renderlo più competitivo con un ritorno economico non indifferente. Nello stesso tempo, non può permettersi di compromettere la stabilità interna e quindi, dietro la parvenza di una finta libertà, il controllo non ha limiti come dimostrano i cinquantamila impiegati del Partito comunista, assunti per monitorare il web. Sembra che ora anche Facebook sbarchi in Cina, non è ancora stata stabilita una data perché prima il progetto deve essere approvato dal governo cinese.

l’autore maria elena viggiano Esperta di Cina, collabora con diverse testate giornalistiche su temi riguardanti i paesi dell’Estremo Oriente e dell'Asia centrale. è laureata in Lingue e civiltà orientali, in giapponese e cinese.

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Simona Bottoni

Infrastrutture, primo passo per l’integrazione dei paesi in America Latina 228

Lo sviluppo dei sistemi infrastrutturali è per la Mesoamerica elemento imprescindibile per affrontare le nuove sfide globali, il processo di crescita economica e la comunicazione interegionale.

Un tema centrale per i paesi dell’America Latina è lo sviluppo dei sistemi infrastrutturali perché rappresenta un fondamentale elemento d’integrazione regionale e un’importante componente dei processi di crescita economica in atto. L’integrazione regionale è per il cono sud un obiettivo ormai irrinunciabile per affrontare le nuove sfide globali, ed è impensabile che essa possa realizzarsi senza uno sviluppo adeguato delle infrastrutture che rendano il territorio omogeneo e ben collegato. Le barriere naturali che frazionano il territorio in zone isolate una dall’altra fanno sì che l’interconnettivi-

tà attraverso le infrastrutture sia uno degli aspetti chiave dell’integrazione regionale. Questa discontinuità geografica, determinata dalla presenza della Cordillera de los Andes, della Selva Amazònica, di grandi fiumi come il rio Amazonas o il rio Pantanal e dell’Istmo Centroamericano, divide il territorio in piattaforme isolate: la piattaforma dei Caraibi, la piattaforma atlantica, l’enclave amazzonico, l’enclave sud-amazzonico e la cornice andina. Appare dunque evidente la necessità di unificare queste piattaforme attraverso infrastrutture che sviluppino un’unica base capace d’inserirsi nel-


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l’economia globale e di rendere il centro e il sud America un attore economico sempre più competitivo. Questo processo può immaginarsi come la costruzione di ponti fra un’isola e l’altra. L’esigenza d’investire sull’interconnettività infrastrutturale per aumentare il potenziale economico di una regione sfruttandone congiuntamente le sue risorse naturali e produttive risponde a una visione geo-economica dello spazio che ha dato luogo alla formulazione e allo sviluppo di due grandi e importanti iniziative d’integrazione fisica in America Latina: il Progetto “Mesoamerica” e l’Iirsa (Iniziativa per

l’integrazione delle infrastrutture regionali sudamericane). Il Progetto Mesoamerica, conosciuto in precedenza come "Plan Puebla Panamà" (Ppp), costituisce un importante passo avanti verso lo sviluppo socioeconomico latinoamericano: è stato istituito nel giugno 2001 dai presidenti del Messico, dell’America Centrale (Belize, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panama) e, dal 2006, della Colombia, che è interessata anche dal progetto Iirsa. Obiettivo del Progetto è potenziare e promuovere il processo d’integrazione e sviluppo della regione me-


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soamericana, facilitando l’idea- una delle iniziative (riportato sozione, il finanziamento e l’esecu- pra tra parentesi). La Commissiozione di progetti d’interesse regio- ne esecutiva si avvale dell’aiuto di nale. Esso risponde principalmen- una Commissione per la promote a due esigenze: lo sviluppo del zione e il finanziamento e del supSud Sud-Est del Messico e la mo- porto di un Gruppo tecnico istitudernizzazione e trasformazione zionale costituito dal Bcie (Banco dell’America centrale attraverso centroamericano de integraciòn una strategia regionale volta a economica), dal Bid (Banco intepotenziare lo sviluppo economico ramericano de desarollo), dalla e sociale, a ridurre la povertà, ad Cepal (Comisiòn economica para aumentare la ricchezza del capi- america latina y caribe), dalla Setale umano, a migliorare la quali- greteria Generale del Sica (Sistetà della vita, a offrire nuove op- ma de la integraciòn centroameriportunità di crescita. Il Ppp preve- cana) etc. I Progetti del Mede otto iniziative per soamerica si sviraggiungere gli Obiettivo del Ppp è luppano intorno obiettivi strategici elencati, nell’osserpotenziare e promuovere a due assi princil’asse “Svivanza delle diversità il processo d’interazione pali: luppo umano” culturali ed etniche: e sviluppo della regione che include l’iniziativa mesoamea s p e t t i come ricana riguardante il mesoamericana quello dei camsettore energetico biamenti climati(Guatemala); quella per il settore dei trasporti (Costa ci, dello sviluppo sostenibile, della Rica); per l’integrazione dei servi- prevenzione e pitigazione dei dizi delle telecomunicazioni (El Sal- sastri naturali e dello sviluppo vador); per il turismo (Colombia); umano; e l’asse “Integrazione proper l’agevolazione dell’interscam- duttiva e competitività” che si ocbio commerciale e l’aumento del- cupa di temi come il turismo, la competitività (Honduras); per lo l’energia, la promozione commersviluppo umano (Messico); per lo ciale e la competitività, l’integrasviluppo sostenibile (Nicaragua); zione dei servizi di telecomunicaper la prevenzione e mitigazione zione, il trasporto. dei disastri naturali (Panama). Il Il portafoglio del Progetto MesoaPiano è gestito da una struttura or- merica riguarda finora circa 100 ganizzativa composta da una progetti riferiti alle otto iniziative Commissione Esecutiva costituita guida per i quali l’investimento dai Delegati designati da ciascun complessivo previsto è pari a cirPresidente; ogni Delegato ha la ca 8 miliardi di dollari, dei quali responsabilità della direzione di circa 6 destinati a progetti riguar-


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danti l’iniziativa nel settore dei tra- progetto da Plan Puebla Panamà sporti e poco meno di uno per a “Progetto di integrazione e sviprogetti sull’iniziativa nel settore luppo del Mesoamerica” in breve dell’energia. Finora i finanziamen- Progetto Mesoamerica. ti ottenuti ammontano a poco più Il Progetto Mesoamerica, che ridi 4,5 miliardi di dollari (pari al guarda un’area geografica di cir54% degli stanziamenti necessari ca 3,5 milioni di chilometri quaa finanziare i 100 progetti in can- drati, e una popolazione di 200 tiere), dei quali circa 3 miliardi milioni di abitanti con un prodotto destinati ai trasporti (54% di quelli interno lordo complessivo di circa necessari a finanziare i 20 pro- 1.450 miliardi di dollari nel getti in cantiere) e poco meno di 2008, ha tra i suoi maggiori fi700 milioni destinati all’energia nanziatori il Bcie e il Bid, ma an(74% di quelli necessari a finan- che il Firii (Fondo per il finanziaziare i 15 progetti in cantiere). mento delle operazioni di cooperazione tecnica Nel corso del vertice per le iniziative dei presidenti dei Nel 2008 si è deliberata d’integrazione paesi membri svoltosi a Villahermosa nel una riforma del progetto di infrastrutture regionali) che ne giugno 2008, si è mesoamerica con ha finanziato 5 deliberata una riforun investimento di 9,3 progetti, la Bm ma del Progetto Me(Banca mondiasoamerica, volta al miliardi di dollari le), che supporta suo rilancio, che preil progetto di gevede: un investimento di 9,3 miliardi di dollari per pro- stione delle strade sia in Colomgetti di modernizzazione e am- bia che in Venezuela, la Caf (Corpliamento delle strade, dichiaran- poraciòn andina de fomento) che do prioritari il completamento del ha creato dei Fondi speciali desticorridoio stradale Pacifico-Atlanti- nati ai Progetti di Infrastrutture soco-Turistico dei Caraibi e i due stenibili, l’Ue che ha siglato accorridoi interoceanici che costitui- cordi con tutti i paesi della regioscono la rete internazionale delle ne per programmi di finanziamenstrade mesoamericane; l’avvio di to di infrastrutture, comunicazioni un programma di edilizia popola- e trasporti. re nell’America Centrale; la crea- L’Iniziativa per l’integrazione delle zione di un sistema mesoamerica- infrastrutture regionali sudamericano di sanità pubblica con mecca- ne (Iirsa) nasce durante il primo nismi per l’acquisto in massa di vertice dei presidenti sudamericavaccini, medicinali, fertilizzanti e ni convocato a Brasilia nell’Agoalimenti per ridurre i costi; la mo- sto del 2000 dall’allora presidendifica della denominazione del te del Brasile Enrique Cardoso.

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Ne fanno parte Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Guyana, Paraguay, Perù, Suriname, Uruguay e Venezuela. L’accordo firmato dai presidenti prevede la formulazione di un’agenda di collaborazione a lungo termine per porre in essere azioni congiunte per lo sviluppo delle infrastrutture regionali in termini di modernizzazione, e per la promozione dell’integrazione e dello sviluppo economico e sociale della regione. L’Iirsa, che è un progetto multinazionale, multisettoriale e multidisciplinare, si propone di raggiungere il suo principale obiettivo – lo sviluppo delle infrastrutture regionali – coinvolgendo i settori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni dei 12 paesi partecipanti e prendendo in considerazione aspetti economici, giuridici, politici, sociali, culturali e ambientali per la creazione delle condizioni necessarie tese al raggiungimento di un modello di sviluppo stabile, equo ed efficiente tramite l’individuazione delle esigenze di natura istituzionale, normativa e fisica e dei meccanismi d’implementazione dell’integrazione fisica a livello continentale. L’accordo di Brasilia si è tradotto in un “piano di azione” elaborato a Montevideo nel Dicembre del 2000 durante una riunione dei ministri dei Trasporti, dell’Energia e delle Telecomunicazioni dei paesi aderenti. Il Piano di Azione è formulato secondo una visione

strategica comune dell’Integrazione fisica sudamericana: tutti i progetti pensati all’interno dell’iniziativa Iirsa debbono promuovere parimenti lo sviluppo economico e l’equità sociale. Il leit motiv è integrazione fisica come condizione necessaria per lo sviluppo socio-economico che diventa sostenibile se possiede le caratteristiche della competitività e della qualità sociale, ambientale e istituzionale. L’intervento dell’Iirsa col suo Piano di Azione è stato razionalizzato in due aree principali: gli Assi di integrazione e sviluppo (Ejes de integracion y desarrollo – Eid) e i Processi settoriali di integrazione (Psi). Gli Assi di integrazione e sviluppo sono aree geografiche multinazionali all’interno delle quali sono individuate attività produttive potenziali o già esistenti nelle quali si cerca di migliorare l’offerta di servizi d’infrastrutture fisiche (trasporti, energia, telecomunicazioni) per sostenere la formazione di catene produttive e incentivare lo sviluppo regionale. In ogni Asse l’Iirsa ha individuato due fasi: una d’identificazione e una di attivazione. Con la prima fase vengono formulate ipotesi di attività commerciali in riferimento a ogni Asse; con la seconda viene approvato un portafoglio di progetti ciascuno dei quali viene verificato in ordine alla rispondenza con gli obiettivi dell’iniziativa sia quanto alla funzione strategica che ai profili tecnici. Questo pro-


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cesso di analisi, diretto dai singoli paesi e dai rispettivi Coordinamenti nazionali, ha consentito di ordinare i progetti in funzione delle dimensioni strategiche definite, dando priorità a quelli con una maggiore fattibilità e con un maggiore impatto in riferimento allo sviluppo sostenibile delle rispettive aree d’influenza, anche avendo riguardo alla loro convergenza con le priorità politiche. Gli Assi d’integrazione e sviluppo identificati finora sono i seguenti: l’Asse CileMercosur; l’Asse Andino che sono fondamentali perché s’inseriscono nel processo di convergenza tra Can e Mercosur; l’Asse interoceanico centrale: collega i paesi del Mercosur con Cile, Bolivia e Perù, facilitando i collegamenti verso il Pacifico e verso l’Atlantico; l’Asse

dell’Amazzonia, che riguarda Perù, Ecuador, Colombia e Brasile. L’obiettivo è favorire la complementarietà tra costa, sierra e Amazzonia; l’Asse Perù-BrasileBolivia costituisce lo sbocco sul Pacifico delle zone interne del Brasile e delle zone orientali di Bolivia e Perù; l’Asse dello scudo della Guyana, che comprende i territori di Guyana e Suriname, la regione orientale del Venezuela e la zona Nord del Brasile; l’Asse del Capricorno corrisponde alle zone lungo tutto il Tropico del Capricorno. Nonostante la sua importanza per il collegamento dei due Oceani e di porti strategici è uno degli Assi le cui infrastrutture sono limitate e problematiche; l’Asse del Sud, che è tra Cile e Argentina; l’Asse dell’Idrovia Para-

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guay-Paranà, che prevede studi e ricerche per il miglioramento della navigabilità e la gestione dell’idrovia in Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay, Uruguay. I Processi settoriali di integrazione, invece, sono stati istituiti per rinnovare e armonizzare i sistemi normativi di ciascun paese negli aspetti che regolano l’utilizzo delle infrastrutture, attraverso l’identificazione di ostacoli normativi, operativi e istituzionali che impediscano lo sviluppo delle infrastrutture di base nella regione; i Psi identificati sono: lo snellimento dei valichi di frontiera; l’integrazione energetica; i sistemi operativi di trasporto aereo, marittimo e multimodale; gli strumenti per il finanziamento di Progetti di integrazione fisica regionale; le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Il funzionamento dell’iniziativa Iirsa dipende dalla co-responsabilità di diversi attori: al vertice della direzione politica c’è il Comitato di Direzione Esecutiva, composto dai ministri delle Infrastrutture di ogni Stato; per ogni Asse e per ogni Psi c’è un gruppo tecnico esecutivo. Il finanziamento proviene sia dal Tesoro Pubblico di ogni Stato (circa il 62%), sia dal settore privato che dalle istituzioni del Comitato di Coordinazione Tecnica dell’Iirsa, cioè la Corporacion Andina de Fomento – Caf e il Banco Interamericano de Desarrollo-Bid attraverso il Firii (il Fondo Financiero para la Cuenca del Plata-Fonpla-

ta). Questi non si limitano al finanziamento dei piani di investimento e dei progetti attraverso la creazione di fondi per le infrastrutture, come a esempio Infra-Fund, Firii, Proinfra, Fondepro, ma collaborano anche nel dialogo e nello studio di politiche settoriali e di programmi di assistenza tecnica. La partecipazione di questi enti finanziari evidenzia l’importanza e l’esito della partnership pubblico privato (ppp); la ppp, infatti, svolge funzioni di carattere e d’interesse pubblico e congiuntamente sfrutta l’interesse economico privato. Alcuni dei vantaggi legati a questo tipo di partnership sono il contenimento della spesa pubblica, alti livelli di qualità dei servizi, efficienza e innovazione. Tre specialisti della Banca mondiale hanno cercato di dimostrare in un articolo1 come le privatizzazioni nel settore dell’infrastruttura siano state complessivamente positive quando condotte con politiche di trasparenza e per scopi sociali. L’Iirsa è fondamentale anche per lo sviluppo concreto dell’Unasur (per la cui definizione si rimanda all’articolo pubblicato sul precedente numero di settembre-ottobre 2011): qualsiasi progresso verso una maggiore integrazione regionale ha bisogno di interconnettività. Senza integrazione infrastrutturale non ci può essere, soprattutto in una zona geograficamente discontinua come quella sudamericana, integrazione commerciale, politica e sociale.

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È stato più volte sostenuto, consi- tà di attrarre investimenti: una derando l’Unione europea come buona rete di infrastrutture dà vita paradigma d’integrazione, quan- a una localizzazione delle attività to l’espansione delle sue reti di produttive che a sua volta contritrasporto, iniziata nel XIX secolo, buisce alla formazione di catene sia stata una condizione fonda- produttive regionali; la maggiore mentale e un incentivo per il pro- accessibilità ai mercati a livello cesso che portò alla costituzione sub-regionale, regionale e internazionale, la creazione di occupadella Cee. L’idea di contribuire allo sviluppo zione e reddito, in particolare per attraverso gli Ejes de Integracion y la Pim (Piccola e media impresa). Desarrollo-Eid è una sfida che va Quanto alla dimensione sociale, al di là della mera costruzione di l’aumento della domanda di costrade: non coinvolge soltanto il municazione da parte delle poposettore dei trasporti, ma implica la lazioni; il miglioramento della qualità di vita promozione dei sistedella popolaziomi produttivi, la forI processi settoriali ne: maggior acmazione di capitale cesso ai servizi umano, programmi di integrazione sono per la salute, ambientali e di coistituiti per rinnovare l’educazione, la municazione. Per tute armonizzare mobilità; la riduto questo ben può zione delle asimsostenersi che l’Iirsa i sistemi normativi metrie fra i paesi. costituisca a tutti gli Tutti questi benefieffetti un programma di sviluppo sostenibile. Fra i bene- ci contribuiscono in modo decisifici socio-economici più rilevanti vo alla riduzione della frammentase ne possono evidenziare in rife- zione territoriale, creano più interrimento sia alla dimensione eco- dipendenza e, aumentando il numero degli scambi socio-econominomica che sociale. Quanto alla dimensione economi- ci, incidono anche sull’aumento ca e alll’aumento della competiti- della domanda di integrazione. vità: uno studio del Bid2 dimostra Fra gli aspetti positivi sopra elenche in tutta la regione latino-ameri- cati la riduzione delle asimmetrie cana i costi dei trasporti costitui- è fondamentale e costituisce un scono una barriera per il commer- obiettivo del quale ogni politica di cio molto più significativa delle ta- integrazione dovrebbe tenere conriffe doganali. Attraverso la costru- to. Infatti, le differenze fra le ecozione di reti infrastrutturali è possi- nomie degli Stati dell’area potrebbile abbattere questo costo ecces- bero dar luogo a possibilità diffesivo e facilitare lo spostamento di renti di godere dei benefici dell’inbeni, servizi e persone; la capaci- tegrazione. Sebbene esista una


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certa prevalenza di investimenti più sentita, quindi, la necessità di nei progetti lungo l’asse Cile-Mer- una presenza nella Conca del Pacosur e lungo l’asse Andino, l’ini- cifico. L’idea di un’interconnettiviziativa Iirsa abbraccia tutte le zo- tà infrastrutturale è già da tempo ne del continente, non solo i gran- sul tavolo degli accordi tra Perù e di centri urbani e industriali: que- Brasile, con l’intendimento di mosto fa sì che lo sviluppo sia decen- dernizzare i porti peruviani e cotralizzato e che si proietti verso le struire strade che, attraverso Bolizone interne della regione. In que- via e Paraguay, colleghino i due sto modo i servizi infrastrutturali paesi. presenti anche nelle aree più iso- Il ruolo del Brasile in questo prolate contribuiranno allo sviluppo cesso d’integrazione infrastrutturadelle zone più povere; si pensi a le dell’America Latina è senza esempio ai progetti previsti all’in- dubbio fondamentale, atteso che terno dell’asse amazzonico o a ne è il maggior propulsore e, probabilmente, antutti quelli che coinvolche lo Stato che gono la Bolivia (CorOgni progresso verso più di tutti ne ridoio stradale Santa trarrà beneficio: Cruz-Puerto Suarez, una maggiore confinando con Corridoio stradale integrazione regionale la maggior parte Agentina-Bolivia, Gaha bisogno dei paesi sudasdotto Bolivia-Brasile). mericani, è preAttraverso la modifica di interconnettività sente in quasi endogena del suolo, tutti i progetti si ridefinisce l’intero spazio sudamericano e lo si tra- previsti all’interno degli assi d’intesforma strategicamente in una grazione e sviluppo. piattaforma ben collegata all’inter- La volontà del Brasile di imporsi no della quale i paesi acquistano come potenza globale è ormai nuova importanza: mentre in pre- manifesta, chiaramente anche atcedenza i centri urbani più svilup- traverso il miglioramento dei servipati e industrializzati si collocava- zi infrastrutturali, e si riscontra anno lungo la costa atlantica, attual- che nelle politiche interne: il Pac mente tutti i porti del Pacifico – 1 e 23 sono iniziative, varate dai come Paita, El Callao, Tumaco, governi Lula e confermate dall’atIquique – hanno potenziato la lo- tuale governo Rousseff, che proro importanza diventando un no- grammano investimenti anche nel do attrattivo. La collocazione dei settore delle infrastrutture con prodotti sudamericani in Asia è l’obiettivo di raggiungere e sostesempre più una priorità delle poli- nere tassi elevati di crescita. Gli tiche commerciali dell’area, so- investimenti sono destinati, tra l’alprattutto per il Brasile; è sempre tro, al settore energetico (petrolio,

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gas, combustibili rinnovabili), a quello dei trasporti (autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, idrovie), e al settore sociale/urbano (bonifiche, alloggi, trasporto urbano, risorse idriche). Un recente studio della Banca mondiale mostra come i paesi dell’America Latina, nel corso degli ultimi 15 anni, hanno effettuato investimenti pubblici in infrastrutture per un valore medio annuo inferiore al 2% del loro Pil, mentre, per mantenere un livello di infrastrutture comparabile con quello dei paesi dell’Asia, come Corea del Sud e Cina, avrebbero dovuto investire a tassi compresi tra il 4% e il 6% annui. Questo deficit infrastrutturale si traduce in termini di mancata crescita del Pil e di forti vincoli allo sviluppo economico, come rivelano i problemi energetici in Argentina e Cile e la carenza delle infrastrutture di trasporto in Brasile. Non sarà un caso, allora, che in questi giorni il presidente della Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale (Bndes) Luciano Coutinho ha reso noto che il Brasile aumenterà gli investimenti in infrastrutture nel 2012 del 10% rispetto all’anno precedente. Questo per aiutare il paese a mantenere in crescita l’attività produttiva e per neutralizzare eventuali effetti interni dovuti alla crisi economica che ha colpito Europa e Stati Uniti: difficilmente, secondo Coutinho, l’Europa potrà sfuggire alla recessione e la concorrenza sul mercato globale sarà ancora più forte. Di-

venterà fondamentale l’investimento nella capacità produttiva dell’industria brasiliana attraverso progetti d’innovazione. Sarebbero auspicabili medesimi intendimenti da parte di tutti i paesi dell’area nel breve e medio termine. Note 1

L. Andrés, M. Diop, J. Guasch, Un balance de las privatizaciones en el sector infraestrucutra, in Nueva Sociedad, n. 207 (2007). 2 Destraando las arterias: el impacto de los costos del transporteen el comercio de America Latina y en Caribe, Galli, 2008. 3 Acronimo di Piano di accelerazione della crescita.

l’autore simona bottoni Laureata in giurisprudenza, abilitata alla professione di avvocato e giornalista free lance, collabora con quotidiani e periodici. È latinoamericanista, con uno sguardo rivolto, in genere, alle popolazioni lusofone.


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