Quel che resta di Reagan

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EDITORIALE DI BARBARA MENNITTI

Gianfranco FINI

fini@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

scibetta@farefuturofondazione.it

Consiglio di fondazione Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Direttore Mario CIAMPI

campi@farefuturofondazione.it

ciampi@farefuturofondazione.it

eichberg@farefuturofondazione.it

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno V - Numero 6 - novembre/dicembre 2010

Direttore relazioni internazionali Federico Eichberg

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Presidente

www.farefuturofondazione.it

Quel che resta di REAGAN

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Quel che resta di Reagan Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno V - n. 6 - novembre/dicembre 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Siamo tutti figli di Ronald Reagan «Non molto tempo fa due miei amici parlavano con un rifugiato cubano, un imprenditore che era fuggito da Castro e, nel mezzo della storia, uno dei miei amici si rivolse all’altro, dicendo: “Non ci rendiamo nemmeno conto di quanto siamo fortunati”. Al che il cubano si fermò e disse: “Quanto siete fortunati voi? Io avevo un posto dove fuggire”. E questa frase ci dice tutto. Se perdiamo la libertà qui, non ci sarà più un posto in cui fuggire.» In questo breve stralcio tratto dal celeberrimo discorso A time for choosing – Il momento delle scelte –, affidato all’etere da Ronald Reagan nel 1964 (cioè sedici anni prima del suo ingresso alla Casa Bianca), in occasione della candidatura alla presidenza di Barry Goldwater, ritroviamo già la cifra politica che ha caratterizzato tutta l’esperienza di quello che a nostro avviso è stato uno dei presidenti più grandi degli Stati Uniti. Al contrario dei suoi predecessori, al contrario anche dei cosiddetti realisti del suo stesso partito e di chi si era ormai rassegnato ad una politica di appeasement, il presidente Reagan credeva fortemente che ci fosse una differenza sostanziale fra il mondo libero occidentale e il regime sovietico, che si fondava sull’oppressione e sulla negazione del diritto fondamentale dell’essere umano, quello alPer Reagan esisteva la libertà. Di più, fra l’uno e l’altro versanuna differenza morale fra il mondo occidentale te della cortina di ferro c’era una differenza morale che impediva di deviare dall’unico e il regime sovietico obiettivo accettabile: la sconfitta dell’“impero del male”. Per noi europei, infatti, Ronald Reagan rimarrà prima di tutto il presidente che ha vinto la Guerra Fredda. Quello che, mentre l’Europa era affetta dalla Gorbymania e si rallegrava di un segretario generale del Pcus dal volto umano, gettò alle ortiche la diplomazia e alzò la posta. «Mr. Gorbaciov, se davvero vuoi la pace, vieni a questa porta! Mr. Gorbaciov, apri questa porta! Mr. Gorbaciov, butta giù questo Muro!». Sono parole che fanno ancora scorrere un brivido sulla pelle di chi ricorda cos’era il nostro continente ai tempi della cortina di ferro e com’era la vita nei paesi dell’Europa dell’est. Le piazze di Berlino erano gremite di giovani che contestavano il presidente americano per la sua politica di riarmo, i soliti “utili idoti” della storia che non riuscivano a capire che fu proprio l’impossibilità dell’Unione Sovietica di stare al passo con gli Usa a metterla alle corde. Il sistema sovietico stava marcendo dall’interno, è vero, ma ci voleva qualcuno con tanta lungimiranza da dare la spallata alla porta marcia. Lo fece Ronald


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO V - NUMERO 6 - NOVEMBRE/DICEMBRE 2010

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Quel che resta di REAGAN Siamo tutti figli di Ronald Reagan BARBARA MENNITTI - EDITORIALE

L’economia scommette sull’individuo - 110 PIERCAMILLO FALASCA

Reagan, il presidente della svolta - 2 ALDO DI LELLO

La rivoluzione nel segno della libertà - 118 GIAMPIERO RICCI

Alla ricerca della rivoluzione liberale interrotta - 10 BENEDETTO DELLA VEDOVA e LUCIO SCUDIERO

Il liberismo, trent’anni dopo - 126 CARLO STAGNARO

L’uomo che cambiò il volto all’America - 18 INTERVISTA a MASSIMO TEODORI di Federico Brusadelli

E la cultura pop sposò il reaganismo - 134 DOMENICO NASO

Come la new right divenne maggioranza culturale - 24 ANDREA MARCIGLIANO Vi spiego il Grande comunicatore - 34 INTERVISTA a KLAUS DAVI di Domenico Naso

STRUMENTI

La linea intransigente contro l’Evil Empire - 54 PIERLUIGI MENNITTI

Bosnia, la nuova frontiera è l’Europa - 164 STEFANO CALICIURI

L’Europa tra missili e prove di disgelo - 62 MASSIMO AMOROSI

Usa, nella patria del federalismo - 170 RODOLFO BASTIANELLI

La più bella vittoria di Ronald Reagan - 68 INTERVISTA a JOHN HULSMAN di Barbara Mennitti

Riconquistare il senso civico perduto- 182 ANGELICA STRAMAZZI

E la destra italiana incontrò la modernità - 90 ALDO DI LELLO Da Goldwater a Reagan, così rinacque il Gop - 96 BRUNO TIOZZO Un radicalismo illuminato al servizio del singolo - 102 GIUSEPPE PENNISI

Ethical Oil L’opinionista conservatore Ezra Levant interviene presso il Fraser Institute in favore dell’estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose canadesi. Martedì 30 novembre

BERLINO Internationale Konferenz für Politische Kommunikation Conferenza internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sulla comunicazione politica. Un approfondimento particolare viene dedicato al movimento Tea Party negli Usa. Domenica 21 novembre

STOCCOLMA

MINUTA

Due uomini con un solo obiettivo - 80 MICHELE TRABUCCO

OTTAWA

Perspectives on Leadership Forum L’ex Presidente George W Bush presenta il libro autobiografico Decision Points a una cena presso la Ronald Reagan Presidential Foundation and Library. Giovedì 18 novembre

I discorsi di Ronald Reagan - 140

Gli strani alfieri italiani del reaganismo - 46 CARMELO PALMA

Idealismo e realismo per la politica estera - 74 PAOLO QUERCIA

SIMI VALLEY

Medierna, SD och valet – vad hände egentligen? Tavola rotonda presso il centro studi Timbro sull’affermazione della formazione xenofoba dei Democratici svedesi alle recenti elezioni politiche. Lunedì 22 novembre

WASHINGTON Southeast Asian Economic Community and American Interests Seminario di studio della Heritage Foundation sulle relazioni politiche e commerciali tra gli Usa e l’Asean. Martedì 23 novembre

LONDRA The Rational Optimist Presentazione presso il think-tank Policy exchange (vicino a David Cameron) del libro di Matt Ridley sull’impatto storico dell’ottimismo. Mercoledì 24 novembre

SCHLOSS EICHOLZ Corso di tre giorni della Konrad Adenauer Stiftung sull’Ue, con escursione a Bruxelles. Martedì 30 novembre – Giovedì 2 dicembre

PARIGI De Gaulle et l’Afrique. La décolonisation de l’Afrique francophone subsaharienne Convegno della Fondation Charles De Gaulle sul ruolo svolto dal generale nel processo di decolonizzazione africana. Intervengono Bernard Boucault, direttore dell’Ena e l’ex ministro Yves Guéna. Giovedì 2 dicembre

WASHINGTON Theodore Roosevelt, the Progressive Party and the Ascendance of the "Living Constitution" Presentazione presso l’American Enterprise Institute del libro omonimo di Sidney M. Milkis sui paralleli tra il riformismo di Theodore Roosevelt e quello di Barack Obama. Lunedì 13 dicembre

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Bruno Tiozzo, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Gianmaria Sparma

Segreteria amministrativa Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO V - NUMERO 6 - NOVEMBRE/DICEMBRE 2010

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Quel che resta di REAGAN Siamo tutti figli di Ronald Reagan BARBARA MENNITTI - EDITORIALE

L’economia scommette sull’individuo - 110 PIERCAMILLO FALASCA

Reagan, il presidente della svolta - 2 ALDO DI LELLO

La rivoluzione nel segno della libertà - 118 GIAMPIERO RICCI

Alla ricerca della rivoluzione liberale interrotta - 10 BENEDETTO DELLA VEDOVA e LUCIO SCUDIERO

Il liberismo, trent’anni dopo - 126 CARLO STAGNARO

L’uomo che cambiò il volto all’America - 18 INTERVISTA a MASSIMO TEODORI di Federico Brusadelli

E la cultura pop sposò il reaganismo - 134 DOMENICO NASO

Come la new right divenne maggioranza culturale - 24 ANDREA MARCIGLIANO Vi spiego il Grande comunicatore - 34 INTERVISTA a KLAUS DAVI di Domenico Naso

STRUMENTI

La linea intransigente contro l’Evil Empire - 54 PIERLUIGI MENNITTI

Bosnia, la nuova frontiera è l’Europa - 164 STEFANO CALICIURI

L’Europa tra missili e prove di disgelo - 62 MASSIMO AMOROSI

Usa, nella patria del federalismo - 170 RODOLFO BASTIANELLI

La più bella vittoria di Ronald Reagan - 68 INTERVISTA a JOHN HULSMAN di Barbara Mennitti

Riconquistare il senso civico perduto- 182 ANGELICA STRAMAZZI

E la destra italiana incontrò la modernità - 90 ALDO DI LELLO Da Goldwater a Reagan, così rinacque il Gop - 96 BRUNO TIOZZO Un radicalismo illuminato al servizio del singolo - 102 GIUSEPPE PENNISI

Ethical Oil L’opinionista conservatore Ezra Levant interviene presso il Fraser Institute in favore dell’estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose canadesi. Martedì 30 novembre

BERLINO Internationale Konferenz für Politische Kommunikation Conferenza internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sulla comunicazione politica. Un approfondimento particolare viene dedicato al movimento Tea Party negli Usa. Domenica 21 novembre

STOCCOLMA

MINUTA

Due uomini con un solo obiettivo - 80 MICHELE TRABUCCO

OTTAWA

Perspectives on Leadership Forum L’ex Presidente George W Bush presenta il libro autobiografico Decision Points a una cena presso la Ronald Reagan Presidential Foundation and Library. Giovedì 18 novembre

I discorsi di Ronald Reagan - 140

Gli strani alfieri italiani del reaganismo - 46 CARMELO PALMA

Idealismo e realismo per la politica estera - 74 PAOLO QUERCIA

SIMI VALLEY

Medierna, SD och valet – vad hände egentligen? Tavola rotonda presso il centro studi Timbro sull’affermazione della formazione xenofoba dei Democratici svedesi alle recenti elezioni politiche. Lunedì 22 novembre

WASHINGTON Southeast Asian Economic Community and American Interests Seminario di studio della Heritage Foundation sulle relazioni politiche e commerciali tra gli Usa e l’Asean. Martedì 23 novembre

LONDRA The Rational Optimist Presentazione presso il think-tank Policy exchange (vicino a David Cameron) del libro di Matt Ridley sull’impatto storico dell’ottimismo. Mercoledì 24 novembre

SCHLOSS EICHOLZ Corso di tre giorni della Konrad Adenauer Stiftung sull’Ue, con escursione a Bruxelles. Martedì 30 novembre – Giovedì 2 dicembre

PARIGI De Gaulle et l’Afrique. La décolonisation de l’Afrique francophone subsaharienne Convegno della Fondation Charles De Gaulle sul ruolo svolto dal generale nel processo di decolonizzazione africana. Intervengono Bernard Boucault, direttore dell’Ena e l’ex ministro Yves Guéna. Giovedì 2 dicembre

WASHINGTON Theodore Roosevelt, the Progressive Party and the Ascendance of the "Living Constitution" Presentazione presso l’American Enterprise Institute del libro omonimo di Sidney M. Milkis sui paralleli tra il riformismo di Theodore Roosevelt e quello di Barack Obama. Lunedì 13 dicembre

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Barbara Mennitti mennitti@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, Diletta Cherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini, Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti, Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Bruno Tiozzo, Pietro Urso. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: redazione@chartaminuta.it direttorecharta@gmail.com

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Amministratore unico Gianmaria Sparma

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EDITORIALE DI BARBARA MENNITTI

Gianfranco FINI

fini@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO

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Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA

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Consiglio di fondazione Alessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Direttore scientifico Alessandro CAMPI

Direttore Mario CIAMPI

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Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

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Presidente

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Quel che resta di REAGAN

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Quel che resta di Reagan Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno V - n. 6 - novembre/dicembre 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Siamo tutti figli di Ronald Reagan «Non molto tempo fa due miei amici parlavano con un rifugiato cubano, un imprenditore che era fuggito da Castro e, nel mezzo della storia, uno dei miei amici si rivolse all’altro, dicendo: “Non ci rendiamo nemmeno conto di quanto siamo fortunati”. Al che il cubano si fermò e disse: “Quanto siete fortunati voi? Io avevo un posto dove fuggire”. E questa frase ci dice tutto. Se perdiamo la libertà qui, non ci sarà più un posto in cui fuggire.» In questo breve stralcio tratto dal celeberrimo discorso A time for choosing – Il momento delle scelte –, affidato all’etere da Ronald Reagan nel 1964 (cioè sedici anni prima del suo ingresso alla Casa Bianca), in occasione della candidatura alla presidenza di Barry Goldwater, ritroviamo già la cifra politica che ha caratterizzato tutta l’esperienza di quello che a nostro avviso è stato uno dei presidenti più grandi degli Stati Uniti. Al contrario dei suoi predecessori, al contrario anche dei cosiddetti realisti del suo stesso partito e di chi si era ormai rassegnato ad una politica di appeasement, il presidente Reagan credeva fortemente che ci fosse una differenza sostanziale fra il mondo libero occidentale e il regime sovietico, che si fondava sull’oppressione e sulla negazione del diritto fondamentale dell’essere umano, quello alPer Reagan esisteva la libertà. Di più, fra l’uno e l’altro versanuna differenza morale fra il mondo occidentale te della cortina di ferro c’era una differenza morale che impediva di deviare dall’unico e il regime sovietico obiettivo accettabile: la sconfitta dell’“impero del male”. Per noi europei, infatti, Ronald Reagan rimarrà prima di tutto il presidente che ha vinto la Guerra Fredda. Quello che, mentre l’Europa era affetta dalla Gorbymania e si rallegrava di un segretario generale del Pcus dal volto umano, gettò alle ortiche la diplomazia e alzò la posta. «Mr. Gorbaciov, se davvero vuoi la pace, vieni a questa porta! Mr. Gorbaciov, apri questa porta! Mr. Gorbaciov, butta giù questo Muro!». Sono parole che fanno ancora scorrere un brivido sulla pelle di chi ricorda cos’era il nostro continente ai tempi della cortina di ferro e com’era la vita nei paesi dell’Europa dell’est. Le piazze di Berlino erano gremite di giovani che contestavano il presidente americano per la sua politica di riarmo, i soliti “utili idoti” della storia che non riuscivano a capire che fu proprio l’impossibilità dell’Unione Sovietica di stare al passo con gli Usa a metterla alle corde. Il sistema sovietico stava marcendo dall’interno, è vero, ma ci voleva qualcuno con tanta lungimiranza da dare la spallata alla porta marcia. Lo fece Ronald


Reagan, che vinse la Guerra Fredda sostanzialmente senza sparare un colpo. Come dice John Hulsman intervistato su questo numero, “una meravigliosa vittoria geostrategica”. Ma la presidenza Reagan è stata anche molto altro. Economisti e politici approfondiscono il tema della reaganomics, la ricetta delle sistematiche (ma non selvagge, come precisa Andrea Marcigliano) liberalizzazioni economiche, dei tagli fiscali, Reagan sosteneva dello smantellamento dell’apparato federale e lo small government della promozione del ceto medio che il presiper lasciare il massimo dente e il suo staff operarono per rivitalizzare di libertà ai cittadini l’economia di un paese sfiduciato e in crisi di identità. «Lo Stato non è la soluzione, è il problema», è un’altra delle frasi celebri di Ronald Reagan, convinto sostenitore della necessità di uno small government, che lasciasse più libertà possibile ai suoi cittadini. Il presidente-attore portò una ventata di aria fresca anche nella grigia retorica istituzionale, adottando uno stile diretto e ottimista in grado di arrivare ai cittadini senza bisogno di intermediazione. Si guadagnò il titolo di “grande comunicatore” e cambiò per sempre la comunicazione politica. Non solo. Sotto la sua presidenza, la new right portò a compimento quella che può essere a buon titolo definita la rivoluzione culturale avviata da Barry Goldwater e che riuscì a destabilizzare l’egemonia culturale liberal, grazie anche a un fiorire di fondazioni, think-tank e centri studi di altissimo livello. L’intento di questo numero di Charta minuta, però, non è – o non è solo – quello di celebrare Ronald Reagan a trent’anni dalla sua prima elezione, rendendo giustizia a un presidente che, per un certo snobismo tutto europeo, fu ciecamente sottovalutato dai suoi omologhi d’Oltreoceano. Ma è anche e soprattutto quello di analizzare cosa il centrodestra italiano ha appreso da quell’esperienza americana, ricorNel nostro paese c’è ancora bisogno dando che è sicuramente al cowboy venuto da della tanto invocata Hollywood che si devono le prime riflessio“rivoluzione liberale”? ni sul liberalismo, in economia e in politica, temi guardati a lungo con sospetto da una destra italiana che faticava a scrollarsi di dosso le eredità del passato. Cosa è stato davvero fatto in Italia in nome del liberalismo e cosa invece è rimasto un vuoto slogan di facciata? C’è ancora bisogno nel nostro paese della tanto invocata “rivoluzione liberale”? E come conciliarla con la crisi che stiamo attraversando? A queste domande cercheremo di rispondere in questo numero nella certezza che, volenti o nolenti, siamo tutti un po’ figli di Ronald Reagan.

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QUEL CHE RESTA DI REAGAN Aldo Di Lello

REAGAN, IL PRESIDENTE DELLA SVOLTA

I

l trentennale dell’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca offre spunti di riflessione, anche amari, per l’attualità. Nel nostro paese siamo ancora in attesa di una vera “rivoluzione liberale” che ci metta in grado di raccogliere le sfide di un’economia globale.

DI ALDO DI LELLO 3

Trent’anni fa l’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti. Non è un evento come tanti altri che compaiono nell’almanacco del Novecento. È una ricorrenza importante, in questo travagliato 2010. Lo è non solo per l’America, ma anche per l’Europa. E lo è in modo particolare, ancorché possa sembrare strano, per l’Italia. Per spiegare perché è necessaria, innanzi tutto, una sintetica ricostruzione storica. E cominciamo dalla domanda che Reagan rivolse agli americani durante la campagna per le presidenziali del 1980: «State meglio oggi o quattro anni fa?». Il candidato repubblicano sapeva di toccare un nervo scoperto nel corpo elettorale. L’ultima fase degli anni Settanta, dominata dalla presidenza del democratico Jimmy Carter, si era

infatti rivelata particolarmente difficile, se non addirittura drammatica. Inflazione alta, bassa crescita, disoccupazione in aumento, costo del denaro altissimo. Il tradizionale ottimismo stars and stripes risultava piuttosto sbiadito in quei primi, difficili mesi del nuovo decennio. Sempre più forte era il timore che gli Usa dovessero rassegnarsi a una espansione economica inferiore agli standard del passato. La Great Society realizzata negli anni Sessanta, cioè la grande alleanza tra Stato, imprenditori e sindacati, ai fini dell’inclusione sociale (ma ai fini anche del dominio imperiale), mostrava in quel tempo la corda e si presentava a molti come un ostacolo al dinamismo dell’economia. Così un pensatore libertario come Murray Rothbard stroncava il


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welfare realizzato dal democratico l’Unione Sovietica non avesse Johnson e mantenuto dal repub- esteso la sua influenza. Anche nel blicano Nixon nonché, nel post- cosiddetto “cortile di casa”, gli Watergate, dal presidente-cireneo Usa cominciavano a perdere colGerald Ford: «Nella retorica, pi. In Nicaragua, un’insurrezione l’America è la terra della libertà popolare guidata dai sandinisti e della generosità, che gode delle aveva deposto nel 1979 il dittabenedizioni di un mercato libero tore Somoza, appoggiato da Watemperato da una montante assi- shington (gli Stati Uniti, per la stenza sociale, che distribuisce verità, si erano sempre scelti riccamente la sua abbondanza ai amici assai discutibili in Amerimeno fortunati nel mondo. Nella ca latina). pratica reale, l’economia della li- La situazione si stava facendo pebera impresa virtualmente è fini- ricolosa anche in Europa. Nel ta, sostituita da uno Stato Levia- 1976 i sovietici avevano comintano imperiale e corporativo che ciato il dispiegamento degli SS20, meglio noti organizza, ordina, come euromissili. sfrutta il resto Il punto di crisi arrivò Fu l’operazione della società e, efpiù sofisticata (e fettivamente, il quando ai costi resto del mondo, dell’apparato pubblico temibile) mai tentata da Mosca per per il suo potere disarticolare l’Aled il suo arricchi- si accompagnarono mento». arretramenti geopolitici leanza atlantica e “finlandizzare” Il punto di crisi si rivelò quando i costi dell’appara- l’Europa. L’obiettivo era quello to pubblico americano comincia- di creare, a ovest della cortina di rono ad accompagnarsi a vistosi ferro e fino all’Atlantico e al Mearretramenti in campo geopoliti- diterraneo, un’immensa area co. Negli anni Sessanta e Settan- “neutrale”. I sovietici scommetta, il welfare, negli Usa, andava tevano sul ripiegamento americainfatti a braccetto con il warfare no, da una parte, e sul national(il famoso “apparato militar-in- neutralismus dell’Europa socialdedustriale”). E gli insuccessi mili- mocratica e socialcomunista, daltari e geostrategici rendevano l’altra; c’è però da dire che fu un più gravoso il peso politico della coraggioso statista socialdemomacchina pubblica. Dopo la cratico, il cancelliere tedesco sconfitta in Vietnam nel 1975 Helmut Schmidt, a lanciare per seguirono cinque anni di lacrime primo l’allarme SS-20, pagando e sangue. Gli Usa (e l’Occidente) poi un pesante scotto politico parevano un po’ ovunque in riti- presso la base dell’Spd. rata. Dal Corno d’Africa, all’An- Dulcis in fundo (si fa per dire), gli gola, al Mozambico, al Medio Stati Uniti avevano ricevuto, duOriente, al Sudest asiatico: non rante gli ultimi mesi del 1979, c’era scacchiere strategico ove due tremendi schiaffi in Asia


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Aldo Di Lello

I LIBRI

Ripensare la destra in Europa

L’era dei conservatori made in Usa

La destra non ha bisogno di rinunciare alla propria "anima" per risultare credibile. La schizofrenia della sinistra non la riguarda. Postcomunisti, neosocialisti e neolaburisti sono costretti a faticosi esercizi di equilibrismo, tra pragmatismo e ideologismo, per non essere travolti dalla modernizzazione. Il risultato è l'immobilismo, in Italia come nel Vecchio Continente. Il rischio è la decadenza. Dalla necessità di reagire a questa decadenza nasce la rivoluzione blu, la rivoluzione dei partiti liberali e conservatori che puntano a riconquistare il governo d'Europa. Il libro propone diversi itinerari in questo processo etico-politico e lancia un manifesto culturale per una destra protagonista delle trasformazioni storiche in corso. Il libro, scritto a più mani da giornalisti e studiosi del pensiero conservatore, è stato uno dei primi contributi culturali al ripensamento dell’identità della destra politica in Italia.

1981-1989: i conservatori americani tornano al potere con Reagan e danno inizio a una delle più imponenti rivoluzioni culturali e politiche della storia americana. In Conservatives in Power, gli autori Jacobs e Zelizer ripercorrono quegli anni tra successi clamorosi e difficoltà in attese, attraverso sessanta documenti organizzati per temi che fanno luce sugli sforzi dei Repubblicani per far svoltare a destra l’America degli anni Ottanta. Tra tagli delle tasse, anticomunismo, corsa agli armamenti e scandali, il libro è un vero e proprio vademecum in 240 pagine sul decennio decisivo per la storia mondiale. E poi, ancora, fotografie, cronologie, bibliografia e domande mirate a scopo informativo e di studio. è una perfetta guida per neofiti della rivoluzione reaganiana o per chi vuole saperne di più su quegli anni così importanti e che ancora oggi fanno sentire i loro effetti in ambito politico, culturale ed economico.

Rivoluzione blu G. Cannella, A. Di Lello, M. Respinti, F. Torriero Koinè, 1999

Conservatives in power Meg Jacobs, Julian E. Zelizer Bedford/St. Martin’s, 2010

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centrale. L’Armata rossa aveva cultura di massa. Di lì a breve, invaso l’Afghanistan nel dicem- quei processi avrebbero cambiato bre di quello stesso anno, impri- in profondità il senso comune e i mendo un’inquietante accelera- valori diffusi nell’emisfero nord zione all’espansionismo del del mondo. Cremlino. Ma l’oltraggio più pe- Ebbene, con l’elezione di Ronald sante Washington l’aveva ricevu- Reagan, quei processi compiono to il 4 novembre a Teheran. Cen- velocissimamente l’ultimo tratto tinaia di scalmanati avevano dato di strada, quello che mancava: assalto all’Ambasciata Usa pren- assumono forma politica; si addendone in ostaggio il personale. densano in un’icona rivoluzionaQuando, nel novembre del 1980, ria; si fanno visione e promessa. gli americani si recarono a votare Non sono quindi elezioni qualper scegliere tra Reagan e Carter, siasi (ammesso e non concesso gli ostaggi erano ancora nelle che possa essere definita “qualmani dei mullah, i quali esibiva- siasi” l’elezione di un presidente americano) quelle no le immagini di del primo lunedì quegli sventurati L’elezione di Reagan di novembre 1980. come trofei per umiliare la super- nel novembre del 1980 E non sono così perché segnano un potenza dell’Occi- segna un passaggio passaggio cruciale dente. Fu proprio nella storia del in quei mesi – sia cruciale nella storia Novecento, allo detto per inciso – del Novecento stesso modo in cui, che l’Ayatollah Khomeini definì gli Usa il con un altro significato e sotto altri aspetti, era avvenuto due “grande Satana”. Fin qui i fatti, utili a definire anni prima con l’ascesa di Karol quale fosse la condizione storica Wojtyla al Soglio pontificio. degli Usa e dell’Occidente al- Reagan si presenta fin dall’inizio l’inizio del ventennio finale del come il presidente della svolta. XX secolo. E non si poteva certo Realizza subito la riduzione fidire che fosse una condizione al- scale e poi riforma in maniera strutturale la tassazione. Quella legra. Almeno così sembrava. Sembrava, già. Perché la realtà, che è stata definita la reaganomics fino a quel momento invisibile ai ribalta l’impostazione keynesiapiù, la realtà dei processi struttu- na: l’aumento della spesa pubblirali che cambiano il volto delle ca e l’inflazione controllata (ma società nel giro di pochi anni, era permanente) non sono più considiversa. Processi giganteschi era- derati fattori di sviluppo. Il nuono in atto nel campo della tecno- vo canone lo si desume, tra gli logia, dell’economia, della comu- altri, dalle tesi monetariste e linicazione, del pensiero politico beriste di Milton Friedman. «Il ed economico, arrivando sino governo (inteso come apparato agli ambiti del costume e della pubblico, ndr) non è la soluzione


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del problema. Il governo è il pro- ma a capire come e perché il blema», dirà Reagan con una di mondo è cambiato. Ricordare per quelle battute shock che terremo- ricostruire il filo della memoria tano la paludata comunicazione politica contemporanea. politica di quegli anni. Sulla Ricordare anche per fare un nespinta della nuova onda atlanti- cessario confronto tra ieri e oggi. ca, in Europa prendono piede Un confronto magari anche un nuove parole (e nuovi concetti) po’ amaro, perché giocato tra come deregolamentazione e libe- l’ottimismo che dominò per tutto il decennio degli Ottanta (e ralizzazione. Nuovo è anche l’approccio in po- anche oltre) e la presente incerlitica estera. Il confronto con tezza; o perché svolto tra l’arricl’Urss non è più solo geostrategi- chimento dei ceti medi di allora co ma ideologico. Torna a essere e il loro impoverimento di oggi; la contrapposizione tra mondo li- o perché imposto dalla constatabero e totalitarismo comunista, zione che dalla società affluente stiamo passando con buona pace dealla società declig l i a m m i r a t o r i Reagan realizza subito nante. dell’appeasement niRipensare alxonian-kissinge- la riduzione fiscale l’ascesa di Reagan riano. e riforma in maniera ci spinge sopratReagan si presenta tutto a formulare inoltre come il strutturale alcuni fondamenGrande comunica- la tassazione tali quesiti: pertore e sperimenta con grande successo un linguag- ché, trent’anni fa, il capitalismo gio semplice e immediato con si fece democratico e diffuso (e l’opinione pubblica della nuova lo fece motu proprio, non per società di massa. E completiamo l’azione livellatrice dello Stato il quadro ricordando la circostan- redistributore), mentre oggi il za che il nuovo presidente Usa turbocapitalismo a trazione fientra alla Casa Bianca dopo esse- nanziaria sta nuovamente allarre stato a lungo il governatore gando la distanza tra ricchi, sudella California, proprio lo Stato per-ricchi e nuovi poveri? Perché Usa da dove sta per partire la la mobilità sociale è in discesa in grande rivoluzione della tecnolo- quasi tutto l’Occidente e in Itagia informatica che cambierà in lia in particolare? Sono domande enormi che ripochi anni la vita di tutti. Come si fa quindi a non ricorda- guardano il modello di globalizre il trentennale dell’ascesa di zazione che si è imposto negli ulReagan? Ricordare, beninteso, timi dieci-quindici anni e che rinon per celebrare, ma per riflet- manda alle scelte politiche che tere. A questo, del resto, dovreb- ne hanno favorito l’affermazione. bero servire le ricorrenze: non a E qui il discorso ci porterebbe trasformare il passato in mito, assai lontano.

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È opinione comunque diffusa che Non c’è stata alcuna rivoluzione, qualsiasi politica economica rige- ma solo un gigantesco reset, che neratrice non potrà mai prescin- ha finito per impoverire l’offerta dere dalle idee di libero mercato, politica. bassa fiscalità, liberalizzazioni Nell’odierno contesto italiano, la che si imposero trent’anni fa e globalità e il libero mercato sono che oggi hanno resistito alla crisi percepiti più come fenomeni naeconomica mondiale, con buona turali a cui rassegnarsi che come pace di chi ha intravisto del valori a cui aderire. Al di sotto “neokeynesismo” nelle politiche del comune riferimento al liberadi Obama e nel salvataggio pub- lismo non troviamo, spesso, blico delle banche americane più niente altro che un pragmatismo immemore e inconsapevole. spericolate. Ciascun paese potrà trovare le so- Tornare a Reagan potrebbe inluzioni meglio adatte alla pro- somma comportare la scoperta pria economia e alla propria so- (da parte di una fetta consistente della classe diricietà. È comunque gente italiana) che, certo che i paesi La prospettiva morale alla base della “riche, in passato, voluzione liberale” hanno liberalizza- di Reagan è evidente non c’è solo un to con maggiore in politica economica calcolo razionale convinzione, si sodell’utilità, ma, no aperti seria- e ancor di più prima ancora, una mente alla concor- in politica estera visione morale delrenza, sono meglio riusciti a liberare le energie l’uomo e della società: quella viimprenditoriali al proprio inter- sione che attribuisce a ogni perno, questi stessi paesi, si trovano sona il diritto di costruire la prooggi meglio attrezzati a rispon- pria vita nella libertà. dere in modo strategico alle cri- La prospettiva morale di Reagan è ancora più evidente in politica ticità della globalizzazione. Un programma di riforme libe- estera, soprattutto nel modo in rali (ma vere, non meramente cui egli condusse e vinse il condeclamatorie) continua a essere fronto con l’Urss. necessario, soprattutto in un Molti rimasero sbigottiti quando paese come l’Italia (e qui venia- il presidente degli Stati Uniti, mo al punto per noi dolente) che parlando ai veterani dell’Amerial liberalismo ha aderito con nu- can Legion, definì l’Urss l’“impemerosi retropensieri. L’ondata ro del male”. Era il 1983 e nesreaganiana ci investì negli anni suno era abituato a un linguagOttanta senza purtroppo arrivare gio simile. Non fu la semplice in profondità. E la “rivoluzione trovata mediatica del Grande coliberale” promessa nel 1994 municatore. Fu qualcosa di più e spesso è rimasta uno slogan e di diverso: l’espressione forte della “moralità” di non dare tregua niente più.


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all’Urss. «Reagan – ha scritto Walter Russel Mead – giunse alla conclusione che il grande sforzo della Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica richiedeva una dimensione etica. Imbevuto dell’anticomunismo della destra americana, Reagan si era spazientito mentre Nixon e Kissinger tentavano di gestire i rapporti Usa-Urss sulla base della Realpolitik. Che il comunismo fosse un male non era soltanto una delle sue convinzioni personali: rammentarne i mali agli americani era – riteneva a ragione Reagan – un modo per rafforzare la loro decisione, e quella dei loro alleati nel mondo, a portare avanti quello che si rivelò essere l’ultimo atto di una lunga battaglia». Gli Stati Uniti non avrebbero probabilmente mai vinto la Guerra Fredda (o l’avrebbero vinta chissà quando) se si fossero limitati alla Realpolitik e al mero calcolo delle utilità. La vinsero (così come l’hanno vinta) per un risveglio morale e per un salto visionario. «State meglio oggi o quattro anni fa?». Il Presidente ripetè questa domanda agli americani nelle elezioni del 1984. E l’elettorato rispose: «Meglio oggi». Ne aveva ben donde. In quattro anni Reagan aveva abbattuto l’inflazione, aumentato l’occupazione, semplificato il carico legislativo. Dal 1982, quando la cosiddetta reaganonics produsse i suoi primi risultati, l’economia americana sarebbe cresciuta a ritmi elevati e ininterrottamente per quasi sette anni. Al termine di quel periodo

di grazia si sarebbe registrato complessivamente un più venticinque per cento. Così Margaret Thatcher ha sinteticamente definito il capolavoro di Reagan: «Restituita la fiducia in se stesso al popolo americano, il presidente ne liberò subito anche le energie imprenditoriali». Mi viene in mente, in conclusione, un malinconico paragone con l’Italia. Nessun governo uscente ha mai chiesto agli italiani: «State meglio oggi o cinque anni fa?». Forse sarebbe meglio retrodatare e riformulare la domanda: «Italiani, la speranza di vivere una vita migliore è, in voi, più forte oggi o quindici anni fa?». È con questa domanda che può forse ripartire la politica. Anche oggi, soprattutto oggi, occorrono un risveglio morale e un salto visionario.

L’Autore aldo di lello Giornalista e scrittore. Ha diretto le pagine culturali del Secolo d’Italia. Nel 2003 ha fondato la rivista di geopolitica Imperi.

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QUEL CHE RESTA DI REAGAN Benedetto Della Vedova e Lucio Scudiero

Alla ricerca della rivoluzione liberale INTERROTTA

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l centrodestra italiano deve compiere due salti: assimilare definitivamente la lezione politica di Reagan e poi superarla, allineandosi alle esperienze contemporanee della destra europea.

DI BENEDETTO DELLA VEDOVA E LUCIO SCUDIERO

Nel 1980 Ronald Wilson Reagan, candidato del Partito repubblicano americano alla carica di presidente degli Stati Uniti, durante uno dei dibattiti televisivi a cui stava prendendo parte, rivolse la seguente domanda ai telespettatori: «State meglio oggi, o quattro anni fa?». Gli elettori risposero eleggendolo alla Casa Bianca, dando il benservito a Jimmy Carter, che sarebbe diventato l’ultimo dinasta del “mondo antico” pre-reaganiano, quello in cui government si scriveva con la “G” maiuscola e liberty era una conseguenza della sua espansione. Quattro anni dopo, nel 1984, Reagan rivolse ancora, di nuovo in Tv, la stessa domanda agli americani, i quali risposero riconfermandolo alla guida del paese.

La missione era compiuta. Gli Stati Uniti avevano sterzato. Quell’esperienza, che si concluderà al termine del suo secondo mandato scaduto nel 1988 impose alla politica occidentale una nuova carta dei valori e un nuovo linguaggio di riferimento. Esattamente in quella scia prometteva di inserirsi Silvio Berlusconi, con la sua discesa in campo, di cui tutti apprezzammo il coraggio visionario individuandolo come colui che poteva raccogliere il testimone di quel revirement culturale avvenuto nella destra anglofona (accanto a Reagan, forse sopra di lui, c’era infatti Margareth Tatcher). Per misurare il livello di aderenza della nostra esperienza politica a quella appena menzionata, dovremmo porre agli italiani la do-

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manda che Reagan rivolse due gresso degli Stati Uniti, nel volte ai suoi concittadini: «State 1979, nel tunnel della recessione meglio oggi, o quindici anni economica. fa?». Ma questo ci porterebbe L’incapacità del governo di guifuori tema… Resta il dato che il dare e pianificare l’economia era valore di quelle idee è stato in- già apparsa in tutta la sua evidencontrovertibilmente dimostrato za al volgere del primo lustro deper decenni dai risultati prodotti gli anni Settanta. Da un lato, innegli States (e in Gran Bretagna). fatti, era miseramente fallito il «Lo Stato non è la soluzione del piano di Nixon per controllare nostro problema, lo Stato è il pro- salari e prezzi. Dall’altro, invece, l’imprevedibilità dell’economia blema». L’ascesa di Ronald Reagan alla aveva assestato una sberla miciCasa Bianca si innestò nella di- diale al canone della teoria keynescussione sul ruolo dello Stato siana: iniezioni di spesa pubblica che aveva investito la società anticiclica durante le fasi recessive, politiche fiscali americana negli restrittive durante anni immediata- L’ascesa di Reagan i boom inflazionari. mente precedenti. Siccome recessione Già durante tutti si innestò e inflazione, in gli anni Settanta, nella discussione quegli anni, caminfatti, gli Usa minavano a bracavevano sperimen- sul ruolo dello Stato tato una congiun- nella società americana cetto, Keynes e i suoi epigoni brantura politico-economica che aveva sedimentato colavano nel buio. nell’opinione pubblica le premes- La gente no, e infatti si era diffuse per la diffusione del libertari- so un sentimento antitasse di vasmo. Ronald Reagan, che prima sta portata che aveva condotto nel di diventare presidente aveva go- ‘78 a quello che fu il momento vernato la California per due più esaltante e genuino del libermandati (dal 1966 al 1974), ave- tarismo americano: l’approvaziova contribuito, con i suoi accenti ne referendaria della famigerata marcatamente libertari, a tenere Proposition 13, che introdusse alta la temperatura della riflessio- nella costituzione della California ne pubblica su tasse, welfare e (reduce dai due mandati a guida Reagan) un cap all’imposizione ruolo dell’America nel mondo. A preparare il terreno contribui- tributaria sulle proprietà immorono un’inflazione che nel dispie- biliari e all’aumento della presgarsi del decennio 1970-80 aveva sione fiscale e delle spesa pubbligaloppato in doppia cifra, i falli- ca in quello Stato. menti militari e di politica estera Un’esperienza di cui Reagan fece delle amministrazioni che dal tesoro durante tutta la sua vita 1960 si erano avvicendate alla politica di lì in poi, che impegnò guida della Federazione, e l’in- perché il “peso dello Stato scen-


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desse dalle spalle degli america- successive, compresa l’attuale, ni”, in parte riuscendoci, sicura- Rothbard contestava Reagan per mente provocando uno scarto i motivi opposti, bollandolo come il più grande bluff nella storia della politica successiva. Questa temperie di eventi, nella del liberalismo. quale si era inserita l’elaborazione Ma – e qui sta la seconda ragione culturale dei Chicago Boys, su – è utile sottolineare i limiti più tutti Milton Friedman, aveva o meni manifesti di quell’espedunque determinato l’eruzione rienza liberale, per sottolineare spontanea, nella base della popola- che essa è definitivamente consezione, di un sentimento libertario. gnata ad una dimensione di critiDa questo trasse spunto Murray ca e analisi svincolata dalla conRothbard, fondatore della corren- tingenza. te anarco-capitalista della Scuola Infatti, nonostante tutto, nonoaustriaca d’economia, per scrivere stante gli insuccessi in questa o pagine memorabili ed infuocate in quell’azione di governo, nonostante le accuse di contro la politica impurità liberale condotta dalla pre- Il reaganismo da una parte e di sidenza Reagan. Lo criminalità “sociaaccusava di aver di- ha dimostrato le” dall’altra, Reastrutto il riflesso che lo Stato minimo gan dimostrò al popolare antistatamondo che la lilista emerso negli esercitava ancora bertà e lo Stato Stati Uniti durante un forte appeal minimo esercitagli anni Settanta, di avere mancato ciascuna e tutte vano ancora un appeal irresistibile le promesse di riduzione del peso nei confronti del suo paese, che dello Stato, né tagliando le impo- alla fine della sua permanenza alste né frenando la spesa, che nei la Casa Bianca era rinvigorito e suoi anni al potere era passata da fiducioso nel proprio futuro. 591 a 990 miliardi di dollari, e di Il suo ciclo si concludeva con un avere, per giunta, collezionato salto di paradigma, e quelli venuuna serie di scelte sbagliate in po- ti dopo di lui trovarono un paese litica estera: «La cosa migliore migliore e un migliore livello di fatta da Reagan – scriveva sarca- discussione pubblica con cui consticamente il filosofo – è stata frontarsi. quella di non aver dato inizio alla La forza dirompente di questo nuovo paradigma si è conservata terza guerra mondiale». Valeva la pena menzionare questa nel tempo e nello spazio. In Italia critica per due ragioni. In primis, è un merito indiscusso del Berluperché è divertente e curioso che sconi della prima ora l’aver intromentre mezzo mondo ha accusato dotto nel dibattito pubblico la quella presidenza di eccessivo li- questione fiscale. Prima di lui, le berismo e di avere creato le pre- tasse erano una variabile indipenmesse di tutte le crisi economiche dente dell’economia, la firma au-

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IL PERSONAGGIO

Rothbard, il padre del libertarismo 14

Economista , filosofo, politico, storico e teorico giusnaturalista, è stato il maggior interprete della teoria libertariana e dell’anarcocapitalismo. Laureato in matematica (1945) e storia economica (1956) alla Columbia University, è stato allievo di Ludwig von Mises alla New York University. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta ha avuto un ruolo fondamentale nella creazione del Partito libertario americano, appoggiò nel 1980 la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti di Ed Clark e nel 1977 sostenne Edward H Crane III nella creazione del Cato Institute, una delle più importanti associazioni libertarie del mondo. È stato vicepresidente del Ludwig von Mises Institute, cofondatore del Center for Libertarian Studies, redattore della Rewiev of Austrian Economics, ha scritto molte opere fondamentali del liberalismo classico e del libertarismo novecentesco. Tra i suoi lavori maggiori: Man, Economy and State, Power and Market, For A New Liberty, The Ethics of Liberty, Economic Thought before Adam Smith e Classical Economics.

tografa della politica in calce al patto consociativo di quella Prima Repubblica che aveva prodotto uno dei debiti pubblici più spaventosi al mondo. Dopo di lui, la pressione fiscale avrebbe assunto i connotati che più le si addicono, quelli di rilevatore dell’invadenza dei pubblici poteri nella vita privata dei cittadini. Ma al di là della nuova epistemologia economica e fiscale, il portato più consistente, maturo e compiuto di quella fase della politica americana è stato, per la destra italiana, di natura metodologica, ed è consistito nella sostituzione dell’ideologia con la prasseologia. Questo mutamento ha inciso il Dna del nostro centrodestra anche grazie all’apertura lungimirante di quella sua parte che dall’abbandono del retroterra ideologico aveva più da rischiare, cioè l’ex Msi. Perciò, se a Berlusconi va riconosciuto un pezzo del merito per aver tradotto il vocabolario della reagonomics nel nostro paese, a Fini, per usare un termine noto alla pubblicistica italiana, va il merito di aver sdoganato fin da Fiuggi l’idea di una destra possibile oltre l’ideologia del passato e oltre l’agnosticismo funzionale di quella fase di transizione. Ciò, per la prima volta nella storia della Repubblica, ha reso possibile al centrodestra italiano il raggiungimento di due obiettivi: legittimarsi come area politica autonoma iscritta in una traduzione – inedita per l’Italia – del liberalconservatorismo; quindi, di conseguenza, arrivare al gover-


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no in un contesto sostanzialmen- può esser scisso) è controintuitiva, e necessita di attenzione intelte bipolare. lettuale e attitudine all’analisi. Su rappresenta effetti, in Il primo, ancora oggi un obiettivo mobile, larga scala, dunque, è molto facinel senso che è un approdo ancora le che la propaganda prevalga nel malfermo di un processo di avvi- descrivere come inique e socialcinamento durato gli ultimi mente indesiderabili le consequindici anni e non ancora con- guenze di un approccio che vi si cluso. Se da un lato, infatti, è sta- ispiri. Ciò è accaduto anche con la to possibile ribaltare sul centro crisi economica in corso, presensinistra quel sentimento di mino- tata come l’effetto collaterale di rità culturale che aveva attana- anni di liberismo “selvaggio”, degliato la metà non comunista del- regolamentazione, e arretramento l’arco politico nazionale durante dello Stato. In breve, oggi saremla Prima Repubblica, dall’altro mo in crisi per colpa di Reagan. però il fallimento del Popolo del- Ovviamente non è così, casomai è vero l’inverso. la libertà impediPer stare all’Italia, sce ancora di rite- Gli ultimi tre lustri c’è un filo di connere maturo e tinuità che lega compiuto il dise- della politica italiana gli ultimi tre lugno del nuovo cen- sono accomunati stri della sua vita trodestra italiano. politica: la rivoluMa è sul piano del dalla rivoluzione zione liberale governo che si con- liberale mancata mancata. Quando suma tuttora lo scarto maggiore tra le premesse e Reagan arrivò nel nostro paese ati risultati di quella che doveva es- traverso la “rottura”di Silvio Bersere, anche per l’Italia, una sta- lusconi, eravamo nel pieno di una gione di riformismo autentica- crisi sistemica, che coinvolgeva l’economia tanto quanto la politimente liberale. In questa fase di crisi economica ca. Sul primo versante, il 1992 internazionale, accompagnata co- era stato l’anno di un potente atme tutte da una richiesta di mag- tacco speculativo alla lira, che fu giore intervento pubblico in ri- allo stesso tempo una conseguensposta al presunto fallimento del za e una cartina al tornasole delmercato, è difficile, ma proprio l’insostenibilità del nostro debito per questo più giusto e più utile, pubblico, prodotto da politiche continuare a sostenere le ragioni miopi che per decenni avevano della superiorità del mercato co- scaricato sulle generazioni future me mezzo di creazione e distribu- il prezzo di spese presenti. Sul sezione di ricchezza e della riduzio- condo versante, quello politico, la ne del peso dello Stato nella vita crisi deflagrò l’anno successivo civile ed economica del paese. La con Tangentopoli, che fu la rispocomprensione del liberalismo (e sta virulenta e demolitrice di un del liberismo, che da esso non potere dello Stato, la magistratu-

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ra, alla corruzione sistemica in cui viveva un altro potere dello Stato. Si trattava, allora come oggi, di una corruzione ingenerata dall’opacità che accompagna la gestione di una spesa pubblica carsica e pervasiva. Perciò, se fu possibile uscire dal primo tunnel, quello monetario e macroeconomico, agganciando con grandi sacrifici il paese al primo treno per l’Europa, non siamo ancora usciti dal secondo, quello politico. E soprattutto, con la crisi economica degli ultimi due anni, è risultato evidente che le tare strutturali del tessuto produttivo ed economico italiano sono ancora quelle del biennio ‘92-‘94: crescita economica asfittica causata da una produttività bassa, pressione fiscale alta e incidenza sproporzionata della spesa pubblica sul Pil. Nel corso degli ultimi quindici anni è stata prodotta un’unica riforma di struttura, peraltro anch’essa incompiuta: quella del mercato del lavoro, con la legge Biagi, che ha agito sul lato degli effetti, cioè sulla struttura di un mercato del lavoro rigido e inefficiente, senza incidere sulle cause, che restano la rigidità insostenibile dei contratti standard (articolo 18 e non solo). Nel contempo, la pressione fiscale non si è ridotta, ma è anzi aumentata, fino al 43,2% del Pil nel 2009; la spesa pubblica comprensiva degli interessi passivi sul debito, nello stesso anno, ha superato la metà del Prodotto interno lordo; siamo il paese europeo con la più alta tassazione sul

lavoro, con le tasse e i contributi sociali che pesano il 44% della busta paga. Questi dati dimostrano che se da un lato la retorica reaganiana ha sicuramente segnato la cultura politica e la politica italiana, dall’altro ad essa non ha fatto seguito un’azione di governo che incidesse sul piano della reale trasformazione del paese. Nella sua infinita transizione il nostro centrodestra deve dunque compiere due salti in uno: assimilare definitivamente una lezione politica, quella di Reagan, di cui ha recepito solo la parte propagandistica, e poi superarla, allineandosi alle esperienze contemporanee della destra europea e statunitense, che di Reagan sono figli ormai maggiorenni.

L’Autore benedetto della vedova Presidente dell’associazione Libertiamo e vicepresidente viccario del gruppo Fli alla Camera dei deputati. lucio scudiero Redattore di Libertiamo.it, fellow dell’Istituto Italiano Privacy, ha collaborato alla stesura del volume Next Privacy (Rizzoli).



L’uomo che cambiò il volto all’America INTERVISTA A MASSIMO TEODORI DI FEDERICO BRUSADELLI

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opo la crisi morale e sociale degli anni Settanta, la presidenza Reagan ha segnato una svolta decisiva per gli Usa, nel segno della fiducia e della promessa di un ritorno al benessere.


QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a Massimo Teodori

Ronald Reagan è stato un buon presidente. E, al di là delle tifoserie, lo dicono gli storici, dati alla mano. È stato un buon presidente perché ha saputo fronteggiare con successo (in buona parte anche grazie al suo abile vice, Bush senior) il “nemico” sovietico. Ma è stato un buon presidente soprattutto – come ci spiega Massimo Teodori, storico, giornalista e professore universitario che proprio alle vicende statunitensi dedica gran parte dei suoi studi e dei suoi libri (Storia degli Usa, Maledetti americani, Benedetti americani, L’Europa non è l’America, Raccontare l’America) – perché ha riportato a un’America reduce dai terribili anni Settanta (il Vietnam, la crisi sociale) la fiducia, l’ottimismo e soprattutto la crescita economica. Fu «un ritorno agli “antichi valori americani”, in un certo senso». E fu anche un modo innovativo di intendere il conservatorismo repubblicano. Un modo che, purtroppo, sembra – soprattutto a vedere certe «cadute reazionarie e clericali», da Bush junior In poi sempre più lontano… Cos’è stato davvero il reaganismo?

È sempre difficile parlare di cose astratte, in particolare se finiscono per “ismo”. Insomma, io preferisco parlare da storico. E preferisco parlare, dunque, della presidenza Reagan, e di ciò che questi otto anni (dal 1980 al 1988) hanno significato per l’America. E quello che da storico posso certamente dire, è che si trattò davvero di una presidenza di svolta rispetto agli anni precedenti.

E come si declinò questa svolta?

L’America degli anni Ottanta cambia volto rispetto al decennio precedente. Non si può dimenticare che gli anni Settanta, infatti, erano stati anni di crisi. E di crisi per due fattori. Per la sconfitta statunitense in Vietnam, innanzitutto. E poi per lo scandalo del Watergate e delle dimissioni di Nixon, primo e unico presidente degli Stati Uniti a essere stato impeached. Quindi, da quel decennio era venuta fuori un’America poco fiduciosa in se stessa, poco ottimista. Anche in termini sociali ed economici gli Usa erano cambiati, la popolazione era aumentata notevolmente (da 200 a 250 milioni) e questo grande aumento demografico aveva visto soprattutto un balzo in avanti delle percentuali dei cittadini cosiddetti non-white (ispanici, neri, asiatici). Insomma, per riassumere, dopo i turbolenti anni Sessanta (con i movimenti giovanili e di rivendicazione di diritti civili) e dopo la crisi (morale e sociale) degli anni Settanta, Ronald Reagan riuscì a imprimere una svolta nel segno della fiducia e della promessa di un ritorno al benessere, alla stabilità, all’ottimismo. E ci riuscì. Perché i suoi otto anni di presidenza (cui aggiungerei anche i quattro anni di mandato di quello che era il suo vicepresidente, Bush senior) furono indubbiamente anni di grande espansione economica e di stabilità politica e sociale. Una frattura netta, dunque. Anche dal punto di vista delle politiche economi-

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che? O gli storici, a suo avviso, esagerano l’importanza della svolta reaganiana?

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No, non esagerano. Perché ci fu senz’altro una frattura. E si tratta di una rottura che si regge proprio sui cardini della presidenza Reagan. A partire, ovviamente, dai tagli alle tasse che, se fino al 1982 portarono a una breve recessione, dal 1984 in poi resero possibile per gli Usa il maggior periodo di crescita economica dai tempi della seconda guerra mondiale: il Pil aumentò di circa il 4% l’anno con un’inflazione contenuta tra il 3 e il 5%, e furono creati almeno dieci milioni di nuovi posti di lavoro. Un ciclo economico molto positivo, senza alcun dubbio. E fu una crescita dovuta, appunto, alla politica fiscale e al taglio dell’intervento pubblico. Meno Stato…

Sì, la filosofia di Reagan rispondeva essenzialmente a una richiesta della società americana: secondo i cittadini, il governo aveva invaso troppo la sfera individuale e occorreva quindi tagliare le spese sociali ed eliminare gli sprechi e gli abusi. Sono le basi di quella deregulation che è andata avanti negli anni successivi. E che poi è arrivata al suo punto più basso con la recente crisi finanziaria, una tempesta che ha proprio origine in quella eliminazione dei controlli e dei limiti al mercato finanziario, iniziata proprio con Reagan. E infatti qualcuno dà la colpa della crisi proprio alle politiche di Reagan e della Thatcher. Semplificazioni?

Attenzione, perché è insidioso, quando si parla di storia, scaricare le colpe e le responsabilità su qualcuno. Certamente, quella politica reaganiana che possiamo chiamare di deregulation, creò per un lungo periodo un’espansione economica, che poi è proseguita durante la presidenza Clinton. Però, probabilmente, il fatto che George W. Bush nel dopo-Clinton abbia portato quelle politiche all’eccesso, ha contribuito a innescare la crisi. A proposito di Bush junior: quanto c’è stato di reaganiano nella sua presidenza?

Bisogna essere, anche qui, molto specifici e poco astratti. E non possiamo non analizzare il contesto. I problemi principali di Ronald Reagan erano due: la stabilizzazione della società americana, come abbiamo detto prima, che aveva attraversato due decenni di fermenti; e dall’altra il confronto con l’Unione Sovietica. E non possiamo dimenticare che tra le due presidenze che stiamo paragonando, c’è la caduta del Muro, successiva alla fine del secondo mandato di Reagan. Così, gli scenari internazionali cambiano radicalmente proprio in quegli anni. Insomma, tutta la presidenza Reagan vede gli Usa giocare una confrontation con l’Urss sullo scacchiere internazionale. Mentre lo scenario su cui agisce George W. Bush è completamente diverso, e non si può leggere e analizzare la sua presidenza se non partendo dall’elemento iniziale su cui essa si è interamente confor-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a Massimo Teodori

mata: l’11 settembre 2001, giorno in cui il terrorismo islamista è divenuto protagonista essenziale della scena internazionale. Insomma, non possiamo confrontare due presidenze che vivono in un contesto assolutamente differente. Posso aggiungere però una notazione sul diverso rapporto con la fede. Perché certamente l’amministrazione Reagan fu ispirata dal conservatorismo, ma non si trattò mai di un conservatorismo così tradizionalista e reazionario come quello di George W. Bush. Non ci furono, insomma, quegli episodi di tradizionalismo clericale cui abbiamo spesso assistito dal 2000 al 2008. Oggi com’è il giudizio degli storici americani su Reagan? Lo ritiene equilibrato?

Gli storici americani, che sono soliti classificare i presidenti secondo tutta una serie di parametri che guardano al consenso, alla politica estera, a quella economica e culturale, giudicano Ronald Reagan come un presidente di “fascia alta”. Anzi, come uno dei migliori presidenti del secondo dopoguerra. E questo non in base a un giudizio sulle teorie reaganiane, ma in base ai risultati concreti e oggettivi conseguiti dal presidente nel corso dei suoi due mandati. Passiamo a noi. Come sono stati i rapporti tra Usa e Italia negli anni di Reagan?

Sono stati sempre molto stretti. E per una semplice ragione: il nostro paese è legato al quadro dell’Alleanza atlantica, un qua-

dro assolutamente stabile e indipendente dall’alternanza delle presidenze americane e dei governi italiani. E va detto che, più in generale, tutto il quadro dei rapporti bilaterali economici, commerciali e culturali è anch’esso indipendente dalle diverse amministrazioni che si succedono. Per quanto riguarda gli anni di Reagan, c’è da dire che dal momento che – come abbiamo già sottolineato – la lotta al mondo comunista era la priorità delle priorità in politica estera, l’Italia – che “ospitava” il maggior partito comunista del mondo occidentale – godeva di particolari attenzioni, da parte degli ambasciatori e del dipartimento di Stato, proprio per controllare l’azione del Pci in quel contesto, a Muro non ancora crollato. Quali sono stati, oltre al presidente ovviamente, gli altri protagonisti che hanno plasmato l’amministrazione Reagan?

Durante l’amministrazione Reagan fanno la loro “prima prova” molti esponenti di quei gruppi neoconservatori che prenderanno poi il potere con la presidenza di George W. Bush. Però io direi che una funzione molto importante in politica estera fu svolta da George Bush padre. Un uomo che veniva dall’intelligence e che aveva una formazione repubblicana di tipo tradizionale, diversa da quella di Reagan. E fu lui, in pratica, a governare il rapporto con l’Unione Sovietica, alternando il bastone e la carota. Alternando atteggiamenti aggressivi, come la minaccia dello scudo spaziale, a

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incontri con i leader sovietici per discutere della diminuzione degli armamenti. Insomma, una saggia politica di dimostrazione di forza e contemporaneamente di dimostrazione di dialogo.

L’Intervistato

In definitiva, quanto ha inciso Reagan sulla storia del Partito repubblicano? Lo ha cambiato?

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Questo presuppone che esista un Partito repubblicano, ed è un errore… Nel senso che ogni candidato presidente, nel sistema americano, è l’espressione di una coalizione di tendenze, di forze, di gruppi locali, di gruppi intellettuali che attorno a lui si formano e con lui finiscono. Certamente, però, è innegabile che Ronald Reagan abbia portato alla luce tendenze e sensibilità diverse da quelle dei repubblicani classici, che avevano piuttosto trovato la loro espressione in Eisenhower, Nixon e soprattutto in Ford. In questo senso, Reagan fu un innovatore del repubblicanesimo americano, soprattutto per il suo atteggiamento antistatalista e antiWashington che riuscì a rappresentare con grande fermezza.

massimo teodori Storico, politico e scrittore, è stato dirigente e parlamentare del Partito radicale. Ha insegnato Storia e istituzioni degli Stati Uniti all’Università di Perugia e, precedentemente, alla Luiss di Roma e alla John Hopkins University di Bologna. è stato presidente della Fondazione Italia USA e ha pubblicato oltre trenta volumi di storia contemporanea e americana e di sociologia politica. Il suo ultimo libro, edito da Mondadori, è dedicato a Mario Pannunzio.

L’Autore federico brusadelli Giornalista di Ffwebmagazine. Collabora con il Secolo d’Italia. è laureato in Lingue e civiltà orientali.




QUEL CHE RESTA DI REAGAN Andrea Marcigliano

Fusionismo

Come la new right divenne maggioranza culturale Dalla sconfitta di Barry Goldwater nel 1964, la destra americana prese lo spunto per dare vita ad una nuova, grande corrente politica, che fondesse insieme le varie anime del conservatorismo a stelle e strisce. E che in breve soppiantò l’egemonia culturale liberal. DI ANDREA MARCIGLIANO 25

Quando nel 1981 Ronald Reagan conquistò la Casa Bianca, sconfiggendo con ampio margine il povero Jimmy Carter, in molti, dal lato europeo dell’Atlantico restarono sorpresi. E molti di più cominciarono a dare la stura a facili ironie, ricordando che il nuovo presidente degli States era stato un mediocre attore hollywoodiano, spalla in molti film di Errol Flynn o, peggio ancora, di Bonzo la scimmia sapiente. Ignoravano, o fingevano di ignorare, che l’ormai sessantanovenne Ronnie – per inciso il più vecchio presidente della storia americana – da quel tempo di strada ne aveva fatta molta, divenendo prima il leader della Screen Actor Guild – il potente sindacato degli attori – poi, dopo essere passato dalle giovanili simpatie democratiche ad una decisa mili-

tanza in campo repubblicano, per ben due volte governatore della California. Che, all’epoca, era non solo lo Stato più ricco degli Usa, ma costituiva di per sé la settima potenza industriale del mondo. E da governatore aveva fatto bene, divenendo sempre più popolare, sino a tentare un prima volta di conquistare la nomination repubblicana nel 1976, sfidando il presidente uscente Gerald Ford. Sfida, ovviamente, impossibile – ed eccezionale, visto che praticamente mai un presidente in carica si trova a dover affrontare nelle primarie un concorrente del suo stesso partito – ma non priva di significato. Perché Reagan rappresentava già allora la new right emergente nel Partito repubblicano, contrapposta al vecchio establishment schierato dietro lo scialbo Ford. Un establi-


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shment indebolito dallo scandalo ci del globo. Da Grenada – celeWatergate e dalla caduta rovino- brata nel film Gunny di Clint Easa di un Nixon ancora potente. stwood, in certo qual modo l’atRonnie, tuttavia, pur nella scon- tore/regista che meglio incarnò fitta annunciata, colse un risulta- la nuova età reaganiana – all’Afto di tutto rispetto, vincendo le ghanistan. Sfidando Mosca soprimarie oltre che in California, prattutto nella prospettiva di fuin altri Stati chiave, come il Te- ture (e futuribili) guerre stellari. xas e il North Carolina. E alla Come poi andarono le cose, è stoconvention di Kansas City diede ria. L’impero sovietico – l’impero filo da torcere a Ford, che si af- del male in un famoso discorso fermò solo per 1187 delegati dello stesso Reagan – implose, contro i 1070 che si schierarono squassato dal peso delle sue stescon Reagan. Che ringraziò la con- se contraddizioni interne, ma anvention con un grande discorso, in che perché incapace di affrontare cui tracciava già le linee della da pari la sfida di quella nuova, giovane ed aggresstrategia politica siva America. che lo avrebbe Il presidente Reagan portato, appena quattro anni do- era la punta emergente Una Rivoluzione po, alla convention di una rivoluzione Culturale di Detroit, ad otIn Europa, in Itatenere a valanga la culturale che avrebbe lia soprattutto, la n o m i n a t i o n d e l stravolto gli States solita intellighentsia Gop. Il primo progressista – cropasso per conquistare, di lì a po- nicamente incapace di comprenchi mesi, lo Studio Ovale. Dove dere la realtà – parlò sprezzante sarebbe rimasto per due interi di fortuna. E bollò tutta l’epoca mandati, ottenendo grandi suc- che si apriva con l’appellativo, cessi in campo economico con per lei ingiurioso, di “edonismo una sistematica – ma non selvag- reaganiano”. Ancora una volta gia – liberalizzazione dell’econo- dimostrazione di una profonda mia, la famosa reaganomics, la ri- incomprensione (ed ignoranza) duzione delle tasse, lo smantella- degli scenari culturali, oltreché mento di parte dell’apparato fe- politici, d’oltre Atlantico. Perché derale reso troppo invasivo dai Reagan non era solo un grande suoi predecessori, la promozione comunicatore e – piaccia o meno del ceto medio e, soprattutto, re- – un grande politico, ma anche, stituendo ad un’America che an- e forse soprattutto, la punta cora pagava pesantemente la fa- emergente di un’autentica rivomosa/famigerata “sindrome del luzione culturale che stava straVietnam” l’orgoglio di essere una volgendo gli States. Una rivolugrande potenza, ed andando a zione che era stata avviata prima sfidare a muso duro il rivale so- di lui da Barry Goldwater, l’auvietico in tutti i teatri geopoliti- tentico padre nobile della new


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right americana, e che, dopo di Casa Bianca con Barack Obama. lui avrebbe trasformato gli States E anche in questo caso solo in in quella che è stata molti anni forza di una crisi economica epodopo, definita The Right Nation. cale, tale da far impallidire quelChe, giocando con la traduzione, la leggendaria del 1929. In prapuò essere letta sia come la na- tica per quasi un trentennio, dal zione giusta che come la nazione 1980 sino al 2008 gli Usa sono di destra; ambivalenza semanti- stati governati da tre presidenti ca, per altro, molto significativa. Repubblicani – di cui due, lo In effetti dagli anni di Reagan in stesso Reagan e George W. Bush poi, non solo nel Partito repub- decisamente conservatori, e un blicano fu completamente spaz- altro George H.W. Bush conserzata via l’ala liberal – storicamen- vatore “moderato” – e da un dete rappresentata al più alto livel- mocratico Bill Clinton di orienlo da Nelson Rockefeller – ed tamento non certo di sinistra. Seiniziò l’egemonia dei conservati- gno, appunto, di una rivoluzione che aveva roveves, ma anche a livello più generale Dopo la sconfitta del ‘64, sciato la vecchia egemonia della situtta la politica nistra liberal statunitense svoltò Goldwater diede vita a destra. Tant’è ve- nel Gop ad una corrente sull’America, e portato ad emerro che anche quando i democratici che riuniva diverse anime gere una nuova, complessa, cultura riuscirono – sfrut- del conservatorismo di destra. La new tando una difficile contingenza economica – a ri- right, appunto, che, prima ancora conquistare Washington dopo 12 che un fenomeno politico, fu una anni di predominio repubblicano grande corrente culturale. – otto di Reagan e quattro del primo Bush – lo fecero con Bill Il fusionismo Clinton. Che tutto era meno che di Barry Goldwater un liberal, incarnando i new demo- Tutto ebbe inizio con Barry Golcrats, ovvero dei democratici che dwater. O meglio con la sconfitta rifuggivano dal radicalismo pro- da questi subita, nelle presidengressista, sposavano una conce- ziali del 1964, contro Lyndhon zione liberista dell’economia ed B. Johnson. Sconfitta dalla quale, avevano un forte senso della su- però, il senatore dell’Arizona premazia geopolitica dell’Ameri- prese spunto per cominciare a ca. Poi, come si sa, venne l’era di dare vita ad una nuova corrente George W. Bush, e solo dopo al- interna al Partito repubblicano. tri otto anni di questi, i liberal, Una corrente capace di coedere ovvero i grandi clan della politi- ed organizzare le diverse anime, ca democratica di sinistra, Ken- sino ad allora disperse, del connedy in testa, sono riusciti a ri- servatorismo a stelle e strisce. conquistare il palcoscenico della Anime che non sempre, e non

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ovunque votavano per il Gop; i samente diverse componenti delconservatori del Sud, ad esempio, la società e della cultura americache, ancora memori della guerra na. Intendendo, però, per cultudi secessione, preferivano dare il ra, quella viscerale, popolare, loro suffragio ai democratici, quella che urgeva nel ventre propiuttosto che votare per quelli fondo dell’America, e non quella che ritenevano gli eredi di Lin- che si esprimeva nelle élite, in coln. E poi tutta quell’America gran parte liberal di New York e profonda, popolare, la piccola di Los Angeles, che dominava borghesia del Midwest e gli agri- l’editoria, sostanzialmente egecoltori del sud, la working class monizzava Hollywood, e trovava delle grandi città industriali e i espressione sulle grande stampa e fondamentalisti religiosi – i co- sui principali media nazionali. siddetti social conservatives – che Cultura, o meglio ancora culture, sino ad allora non si erano potuti che affondavano le loro radici riconoscere in un Partito repub- nelle origini stesse della storia americana e ne blicano egemonizrappresentavano zato da un establi- La new right fu (ed ancora, a ben s h m e n t c h e e ra vedere, ne rappreespressione di élite una grande corrente sentano) i caratteri economiche so- che riuscì a scalzare fondativi e pecustanzialmente leliari. Aggregando gate all’alta finan- l’egemonia culturale intorno a sé settori za e, soprattutto, dei liberal della società che, alle multinazionali petrolifere. Questa fusione – e sino al sorgere della new right, infatti si può parlare di fusioni- erano restati sostanzialmente prismo, o meglio di conservatori- vi di rappresentanza politica. smo fusionista – di diverse istanze e diverse culture portò alla na- Social-conservatives scita della new right. E alla vitto- e telepredicatori ria, sedici anni dopo la sconfitta Diverse, dunque, le componenti di Goldwater, di Ronald Reagan. culturali di quella che è stata poi chiamata new right. Alcune rappresentavano fenomeni sociali I molti volti della new right Ma che cos’era, in sostanza, que- diffusi, in particolare i social consta new right che segnò l’età rea- servatives, espressione politica ganiana e che infranse l’egemo- della cultura protestante, partinia culturale dei liberal che per- colarmente di quel fondamentadurava, sostanzialmente, dagli lismo radicato nella cosiddetta anni di F. D. Roosevelt? Sostan- Bible belt, la cintura della Bibbia, zialmente, come dicevamo, il ri- o sun belt, cintura del sole, il prosultato – per molti versi eccezio- fondo sud, in sostanza, dalla Canale ed irripetibile – della fusio- lifornia sino alla Florida. I social ne fra diverse anime, o più preci- conservatives erano diffusi, però,


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anche negli Stati agricoli del posizione diffusa alla crescita Midwest; espressione di alcune delle imposte federali – crescita delle più popolose chiese prote- esponenziale dagli anni di Kenstanti, la Conferenza dei battisti nedy in poi – non traeva origine del sud (capace di muovere oltre esclusivamente da interessi eco20 milioni di elettori), le chiese nomici. Non era – come fu spespentecostali, e, soprattutto in so interpretata sulla nostra sponUtah ed Indiana, i mormoni. da dell’Atlantico – mera espresTutte riunificate intorno all’ideo- sione dell’egoismo sociale dei celogia della difesa dei valori tradi- ti abbienti. Anzi, rappresentava, zionali e, in particolare, della fa- piuttosto, uno stato d’animo ed miglia. Cementate dalla batta- anche una cultura diffusa nella glia pro life, contro l’aborto, bat- middle class ed persino nei ceti taglia nella quale trovavano pun- più popolari di vaste zone delti di incontro con i cattolici – l’Unione; soprattutto, anche qui, italiani, irlandesi, latinos – sino a nel Midwest, agricolo ed imprenditoriale, che quel momento vedeva nel big goschierati sul ver- La protesta fiscale vernment federale sante dei democraun processo di ritici. E con settori era culturale prima duzione e sostandella stessa Chiesa ancora che economica ziale compressione presbiteriana, fordelle autonomie tissima nel New e muoveva dal blocco England. A questo sociale della middle class locali, nonché di quelle libertà inmondo afferivano – ed ancor oggi afferiscono – i fa- dividuali su cui si fondano le orimosi telepredicatori, fenomeno gini del federalismo americano. tutto americano, a metà tra il Una protesta, dunque, culturale mediatico ed il religioso vero e prima ancora che economica, e proprio. Uomini come Pat Ro- che muoveva da un blocco sociale bertson, che esercitavano un’in- estremamente vitale. In qualche credibile influenza su un’ampia misura lo stesso blocco sociale fascia di americani, soprattutto che anima, oggi, i famosi Tea nei piccoli centri agricoli dell’in- party che stanno progressivamente erodendo il consenso di terno. Barack Obama. E che, per altro, vedono un saldarsi al loro interno Gli antecedenti dei Tea party Nucleo forte, anzi essenziale di delle istanze libertarie con quelle questa new right – o se vogliamo, dei social conservatives. E fu proin senso più lato, dell’ideologia prio con la new right che queste dell’età di Reagan – era quello istanze – scaturite dal ventre che potremmo definire la prote- profondo della storia e della culsta fiscale, anche se tale defini- tura americana – si coniugarono zione suona irrimediabilmente con nuove, emergenti, élite intelriduttiva. E questo perché l’op- lettuali. In primo luogo gli eco-

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nomisti allievi di Milton Frid- del male sovietico, e, infine, la man, divenuti famosi come i sua capacità di vincerla. Due Chicago boys, che muovevano al- componenti fra loro fortemente l’assalto dell’egemonia accademi- concorrenziali, per molti versi ca dei liberal keynesiani. E che – antitetiche, destinate addirittura non potendo controllare le Uni- a confliggere fra loro. Tanto che, versità – diedero vita, progressi- dopo l’era Reagan, entrarono in vamente, ad una serie di fonda- collisone, al punto che solo una zioni ed istituti di cultura che di queste – gli ormai famosi neodivennero, in breve tempo, i cen- conservatives – si ritroverà, poi, tri propulsivi di una nuova cul- nella cultura del periodo della tura. Fondazioni come l’Heritage nuova destra di George W. Bush. Foundation e il Cato Institute, il L’altra, quella che venne chiamaCarnegie ed altri ancora, che for- ta degli old-conservatives – o spremarono nel tempo i quadri diri- giativamente dei paleoconservatives genti dell’età di Reagan prima, – finirà invece per trovarsi all’opposizione – da dedi quella di Georstra – della politige W. Bush poi. E La new right diede vita ca di George W. che ancor oggi Bush, considerata egemonizzano la a fondazioni e istituti troppo imperialip r o d u z i o n e d i che divennero in breve stica, dispendiosa idee, progetti e e, sostanzialmente, strategie, mentre i centri propulsivi un tradimento della cultura liberal – di una nuova cultura la tradizione connonostante la vittoria elettorale di Obama – resta servatrice e repubblicana. Vecchi chiusa nelle Università, dando conservatori che, all’epoca, si per lo più la sensazione di essere schierarono tuttavia decisamente nella new right, portando il conavulsa dalla realtà del paese. tributo della difesa dell’identità nazionale americana, e contriGli ultimi vecchi conservatori Vi erano, poi, due componenti buendo al recupero dell’orgoglio più decisamente intellettuali, di un paese ancora ferito dal dicon minore presa popolare ed sastro del Vietnam e fortemente elettorale, in quanto rappresenta- provato sul piano morale dal Wavano sostanzialmente due culture tergate prima, dalla debole conpolitiche e non blocchi sociali. duzione degli affari esteri di CarComponenti, comunque, impor- ter poi. Tra di loro sarebbe, poi, tantissime per comprendere non emerso Pat Buchanan, già speesolo la complessità culturale del- chwriter di Nixon e destinato, inla new right, ma anche le ragioni fine, a lasciare il Gop per partecidel nuovo slancio dato da Reagan pare all’effimero tentativo di una alla politica estera statunitense, terza forza conservatrice, isolala sua decisa volontà di alzare il zionista e liberista con il miliarlivello della sfida con l’impero dario Ross Perot.


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I primi vagiti dei neo-con

Quanto ai neocon, nell’era di Reagan muovevano i loro primi passi, ed erano ancora lontani dalle fortune e dai fasti cui assursero nella stagione di George W. Bush. Si trattava, in buona sostanza, di un manipolo di intellettuali, tutti provenienti dalle file della sinistra liberal e radicale, alcuni con trascorsi addirittura fra i trotzkisti, sovente appartenenti alla comunità ebraica, tradizionalmente schierata con i dems. Un gruppo di intellettuali estremamente agguerriti, che si erano convertiti alla destra perché sorpresi dalla realtà, come scrisse poi nella sua Autobiografia del neoconservatorismo Irving Kristol, l’autentico padre nobile del movimento neocon. E proprio Kristol, insieme a Norman Podhorenz portò in dote alla new right una visone complessiva della politica estera fortemente innovativa, in parte estranea alla tradizione squisitamente realista propria della cultura repubblicana. Una visione ispirata ad una sorta di messianismo democratico: l’America destinata a diffondere nel mondo il modello democratico-liberale e a farsi garante dei diritti umani e civili a livello globale. Dietro a loro la lezione di Leo Strauss – il Platone post-moderno che veniva dalla scuola tedesca di Heidegger – e, soprattutto, del suo allievo Allen Bloom, il feroce critico dell’involuzione della cultura accademica liberal nel polemico, e diffusissimo, saggio La chiusura della mente americana. Un’élite ri-

FOCUS

La rivoluzione dei Chicago boys La Scuola di economia di Chicago è una scuola di pensiero, elaborata da alcuni professori dell’università di Chicago, basata su una descrizione delle istituzioni economiche pubbliche e private contemporanee, che promuove ipotesi di riforme in senso liberale e liberista dell’economia. È osservabile una tendenza al libero mercato ma non è esclusa, in costanti e determinate situazioni, l’azione dell’intervento governativo e statale. I maggiori esponenti di tale scuola furono i premi Nobel Milton Friedman e George Stigler. L’atteggiamento economico di tale scuola fa da ponte tra la scuola neoclassica e la scuola austriaca. Gli insegnamenti della scuola di Chicago sono anche chiamati neoliberisti e caratterizzarono le politiche economiche dei governi statunitensi del presidente Ronald Reagan e del governo inglese del primo ministro Margaret Thatcher. La crisi avviata negli ultimi giorni di settembre 2008, con gran parte delle Banche del mondo in attesa di fallire senza intervento dello Stato e con le borse di tutto il globo in caduta libera (Orso), che riducevano drasticamente il valore delle azioni e delle pensioni legate ai fondi di investimento, secondo alcuni critici dimostrerebbe la fragilità della teoria della scuola di Chicago. A tali critiche è stato ribattuto che gli interventi distorsivi dello Stato hanno creato le condizioni per l’esplosione della bolla immobiliare e che la teoria dei mercati efficienti si limitava a parlare delle informazioni “disponibili” sul mercato.

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stretta, ma destinata ad esercitare un’influenza crescente ben oltre l’era Reagan soprattutto in campo di strategie politiche internazionali. Un gruppo cui era vicino – anche se non propriamente organico – il politologo nippoamericano Francis Fukuyama che con La fine della storia e l’ultimo uomo, divenne poi il più famoso apologeta teorico della vittoria del reaganismo.

Una cultura molteplice, che solo trovando un punto di coesione – e senza perdere di vista il proprio essere plurale – può davvero aspirare a rappresentare un contraltare credibile e, soprattutto, vincente all’egemonia intellettuale della sinistra e delle sue élite, vere o presunte che siano.

Una lezione per il presente?

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Della cultura o e si vuole ideologia dell’età di Reagan ben poco, in effetti, riverberò davvero oltre Atlantico, e ancor meno qui in Italia. Più che altro vennero recepite – ancorché marginalmente – le istanze dei movimenti di protesta antifiscali e le tesi dello Stato minimo care ai Chicago boys, che finirono per influenzare, almeno in parte, la nuova tendenza liberista della destra – ma meglio forse sarebbe parlare di destre – europee degli anni Ottanta e Novanta. Troppo lontane le altre componenti culturali della new right per venire davvero comprese alle nostre latitudini. Troppo estranei alla nostra realtà i blocchi sociali tipicamente statunitensi cui tali culture facevano – ed in parte ancora fanno – riferimento. Pur tuttavia dall’età di Reagan e dalla genesi della new right è possibile trarre un utile insegnamento. La comprensione che la cultura della destra deve radicarsi nella realtà sociale nel ventre profondo di un popolo, e rappresentarne, facendole emergere, le diverse componenti.

L’Autore andrea marcigliano Giornalista, ha collaborato con Imperi e varie riviste di cultura politica.




QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a Klaus Davi

Il padre degli anni Ottanta

Vi spiego il Grande comunicatore

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a Hollywood alla Casa Bianca, ecco perché Ronald Reagan ha innovato la comunicazione politica ed è entrato nell’immaginario collettivo a stelle e strisce. Nell’epoca della Tv e dell’immagine, convinse gli americani che potevano tornare a essere grandi. INTERVISTA A KLAUS DAVI DI DOMENICO NASO

Dici “massmediologo” e pensi subito a lui, a quel Klaus Davi che imperversa su giornali e Tv con il solito piglio da primo della classe che infastidisce tanto i suoi interlocutori. Però Davi è primo della classe davvero, perché prima di parlare di un argomento lo sviscera, lo studia, lo analizza sotto tutti i punti di vista. Ha fatto lo stesso per questa intervista e alla fine il risultato è un fiume in piena di analisi e parole sul reaganismo, sull’influenza che ha avuto nell’immaginario collettivo degli anni Ottanta

e nella comunicazione politica. Un’influenza, che per Davi è ancora ben presente in politica e nella società. E che in Italia, tanto per cambiare, ha avuto in Silvio Berlusconi l’emulo più credibile. Nel bene e nel male. Ronald Reagan ha indubbiamente innovato la comunicazione politica negli Stati Uniti. L'irruzione dello stile hollywoodiano ha soppiantato il grigiore della presidenza Carter. Cosa ha comportato l'avvento del reaganismo nel settore della comunicazione politica?

«Ronald Reagan? L’attore? Suppongo che Marilyn Monroe sia la

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First Lady!» Così l’eccentrico scienziato in Ritorno al futuro rispondeva a Michael J. Fox che gli spiegava chi fosse l’inquilino della Casa Bianca negli anni Ottanta, e non c’è da stupirsi. Molto prima che il Terminator Arnold Schwarzenegger diventasse governatore della California, Reagan ha stupito il mondo cogliendo tutti di sorpresa. L’avvento di Ronald Reagan sulla scena politica americana è stata una vera ventata d’aria fresca, termine piuttosto ironico se si considera che fu eletto alla Casa Bianca all’età di 69 anni, ma che sottolinea come quest’uomo fosse in grado di attrarre anche i giovani parlando un linguaggio senza tempo. Lo stile soporifero di Carter, la depressione per i postumi della guerra in Vietnam e un clima economico incerto, avevano fatto si che gli americani fossero alla ricerca di qualcuno che rappresentasse una rottura con il passato, una sorta di nuovo inizio. Curati dall’esperto Pat Buchanan, i suoi discorsi erano creati per comunicare con immediatezza un’idea ottimista e condivisa dell’identità americana. Dalla retorica dell’“Impero del Male” durante l’escalation della corsa agli armamenti con l’Urss, alla poetica dell’elogio funebre per la morte degli astronauti del Challenger, il suo semplice stile che diceva “io sono con voi”, arrivava al bersaglio. Nel 2004, in occasione della morte dell’ex presidente, Lou Cannon su Usa Today coglie nel segno: «Reagan si guadagnò il soprannome di “grande comunica-

tore” grazie alla sua abilità di parlare in maniera evocativa usando aneddoti semplici, comprensibili all’uomo comune. Aveva inoltre il dono dell’ottimismo e parlava sempre del futuro. Inoltre Reagan rappresentava un paese, di lui si può dire che la sua grandezza non fu di vivere in America, ma che l’America viveva in lui». Reagan non prestava solo attenzione ai suoi discorsi, ma anche alla reazione dell’audience, era consapevole dell’efficacia dei suoi discorsi e, quando non lo erano, li cambiava per farli arrivare al pubblico. Ex attore sopravvalutato, trasformò la presidenza dandole un ruolo simbolico che trascendeva la politica, restituendo quell’alone mitico alla carica e entrando a far parte della cultura popolare. Reagan entrò nei salotti americani come una specie di nonno della nazione, imperturbabile figura patriottica felice di affrontare tempi difficili. Reagan rassicurava tutti che era nuovamente giusto essere americani, anche i ragazzini che crescevano in famiglie divise o che vedevano la preoccupazione dipinta sul volto dei genitori. Ronald Reagan è figlio degli anni Ottanta o gli anni Ottanta sono figli di Reagan?

È come chiedere se è nato prima l’uovo o la gallina. Tra Ronald Reagan e gli anni Ottanta vi è un legame complesso, simbiotico, che merita uno studio approfondito. Ancora più di JFK per gli anni Sessanta, Ronald Reagan ha incarnato gli anni Ottanta con tut-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a Klaus Davi

to quello che questo ha comportato. Potere dei media, spettacolarizzazione della vita politica e contrapposizioni ideologiche, ma, se egli stesso riconobbe di non aver creato questa situazione, non si può negare che sia stata la sua genialità e l’abilità nell’incanalare queste forze culturali, rendendole proprie, la chiave del suo successo. Nel 2007 Gil Troy, autore di Morning in America: Come Ronald Reagan ha inventato gli anni Ottanta, è riuscito a riassumere perfettamente questo dilemma: «Reagan non si può prendere il merito di essere l’iniziatore di questa tendenza, ma inventò gli anni Ottanta cooptando queste forze, facendole proprie e in modo tipicamente anni Ottanta, impacchettandole in maniera esperta». Reagan certamente imparò da JFK e Roosevelt come superare i confini politici e culturali della nazione e come affermare una leadership simbolica nella presidenza moderna. Ma Reagan riuscì anche a portare questo modello di leadership a un livello superiore perché la nazione, grazie soprattutto al potere della televisione, era molto più connessa. Negli anni Ottanta la Tv non riuscì solo a dettare l’agenda nazionale, ma contribuì anche a confondere i confini fra politica e cultura, fra informazione e intrattenimento. I trascorsi hollywoodiani di Reagan si adattarono alla cultura politica emergente meno seria e più integrata. Roberto d’Agostino, in un articolo per Modà, inventò la defini-

zione di edonismo reaganiano. Con esso si vorrebbe indicare la tendenza spiccatamente individualista che la società occidentale assunse negli anni Ottanta, in cui le dottrine politico-economiche dominanti propugnavano l’autosufficienza economica dell’individuo dallo Stato assistenzialista, il libero mercato, i tagli alla spesa pubblica e la riduzione delle imposte. In tale contesto, l’edonismo reaganiano rappresenta una sorta di “legge della giungla” economica, in cui non c’è spazio per la solidarietà sociale; la competizione per emergere economicamente, e quindi socialmente, è senza esclusione di colpi e trova la sua espressione cinematografica in una serie di film a tema. Il segreto del mio successo, Wall Street, Una donna in carriera, tutti esempi di come il sogno americano fosse alla portata di tutti coloro che fossero disposti a sacrificare famiglia e valori a questo scopo. L’edonismo reaganiano è il marchio di fabbrica degli anni Ottanta, e la smania di tutti quei giovani che fanno di tutto pur di raggiungere la fama, che sia televisiva o politica, ci fa capire come il fenomeno sia presente anche nella società moderna. Trent’anni dopo, cosa è rimasto dello stile comunicativo reaganiano in politica?

Con il passare dei decenni, quella che era stata l’intuizione reaganiana è diventata la regola. I media sono fondamentali per garantire il successo di un uomo politico, e negli Usa questa dicoto-

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mia è elevata all’ennesima potenza. Sia Bill Clinton che George W. Bush hanno imparato come essere presidenti guardando Ronald Reagan. Forse la lezione più preziosa che hanno imparato è stata la nozione di presidenza con un grande progetto. Se la tua amministrazione ha un grande tema predominante, che sia la pace e la prosperità o la guerra al terrorismo, questo progetto può eclissare problemi “minori”, si tratti dello scandalo Iran-Contra, Monica Lewinsky, Katrina o la guerra in Iraq. I media potranno dissentire, il Congresso indagherà, ma una percentuale sorprendente di americani probabilmente risponderanno a questo grande progetto e, se a loro piace, dimostreranno una notevole capacità di dimenticare o ignorare errori anche drammatici. Anche Sarah Palin, l’ex candidata alla vicepresidenza per i repubblicani, si rifa al reaganismo per raccogliere consensi. Forse ancora più del Partito repubblicano, il fenomeno dei Tea party trae la propria linfa vitale dallo stile di Reagan. Abbassamento delle tasse e liberismo sfrenato, ma probabilmente lo stesso Reagan, dopo una crisi mondiale causata proprio dalla deregolamentazione dei mercati, avrebbe cambiato slogan. La Palin vuole essere il nuovo Reagan invitando le folle al ritorno ai principi reaganiani, ma non è la sola. Il gruppo repubblicano Citizens for the Republic ha prodotto uno spot dal titolo Mourning in America, fortemente ispirato allo spot storico di Rea-

gan del 1984 Morning in America, e lo stesso Barack Obama ha ripreso lo stile rassicurante di quello spot, pur con un messaggio profondamente diverso, proponendo un presidente timoniere di una barca in difficoltà, che conosce però perfettamente la rotta da seguire. Qualcuno dice che il più “reaganiano” dei politici italiani sia Berlusconi, capace di parlare al cuore e alla pancia della gente. È un paragone che regge?

Che Berlusconi sia il più “reaganiano” tra i politici italiani credo che sia fuor di dubbio, anche se le loro somiglianze sono tanto importanti quanto le differenze. Come Reagan, Berlusconi è un uomo di spettacolo. Se l’ex presidente americano veniva da Hollywood dopo una carriera da attore, anche il Cavaliere ha il palcoscenico nel sangue. Dalle serate sulle navi da crociera fino alla realizzazione di un impero mediatico, le luci dei riflettori sono sempre state fondamentali sia per il Berlusconi imprenditore che per il Berlusconi politico. Se Reagan ha sfruttato la sua popolarità per fare breccia nei cuori degli americani proponendosi come modello del sogno americano, Berlusconi ha fatto del cinema e della Tv strumenti, armi per affermare il proprio credo politico e buttare le basi di un cambiamento radicale della cultura italiana. Creando prima Fininvest, e poi Mediaset, il premier più odiato e amato nella storia del nostro paese ha veicolato attraverso le schermo un messag-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a Klaus Davi

IL PERSONAGGIO

Nancy, la first lady perfetta Eleanor Roosevelt e Nancy Reagan: quando pensi alle first lady più amate nella storia americana vengono in mente subito loro. E Nancy Davis Reagan ha davvero rilanciato il ruolo della moglie dell’uomo più potente del mondo nel corso di otto anni vissuti intensamente alla Casa Bianca. Attrice come il marito Ronald, si sposano nel 1952 e solo quattro anni dopo abbandonerà per sempre le scene. Il perché lo ha spiegato lei stessa, con una frase che ben testimonia la filosofia di vita di questa donna: “Ho lasciato il cinema per essere la moglie che volevo essere. La pienezza e la vera felicità di una donna arriva tra le mura domestiche, con il marito e i figli”. Donna tradizionale, Nancy, ma non per questo distante e distaccata dalla realtà contemporanea. Basti pensare al suo impegno per l’arte e i giovani talenti, concretizzatosi addirittura in un programma televisivo (In performance at the White House) che raccontava le esposizioni di artisti in erba nell’Executive Mansion della Casa Bianca. Ma gli otto anni di vita presidenziale hanno un marchio predominante: la lotta alle droghe. Nancy Reagan ha lanciato la campagna Just say no e organizzato, nel 1985, una conferenza internazionale di diciassette first lady da tutto il mondo, accorse a Washington per parlare di lotta alla droga. Ma l’etichetta di personaggio cult degli anni Ottanta non è arrivata grazie all’impegno politico e sociale. Quello che è rimasto scolpito nell’immaginario collettivo è soprattutto lo stile hollywoodiano di una donna sempre elegante, nei modi come nell’abbigliamento, in un decennio che era molto attento ai fenomeni di moda e costume, che era percorso dall’esplosione dell’Alta moda (soprattutto italiana). I Reagan, entrambi attori ed entrambi belli, hanno vinto anche sul piano dell’immagine il confronto con un’altra coppia mitica di quegli anni: Mi-

39 khail e Raissa Gorbaciov. Il rapporto tra le due first lady, però, non è stato di competizione. Anzi, il loro ruolo nell’avvicinamento umano tra i leader dei due blocchi è importante, se non fondamentale. Nancy e Raissa hanno rappresentato il versante femminile di un cambiamento epocale che è passato anche attraverso il loro esempio. Mentre i mariti portavano avanti difficili ed estenuanti trattative politiche, strategiche e militari, loro si presentavano al mondo come due donne diverse nell’esteriorità ma accomunate da un forte impegno nel lento ma inarrestabile processo di disgelo tra i blocchi. E Nancy, donna che sulla scena ci sapeva stare alla grande, ha messo il suo allure hollywoodiano al servizio della causa tanto cara al marito, la dimostrazione chiara e lampante di una superiorità occidentale che passava anche attraverso un ruolo emancipato e indipendente delle donne. Dopo Nancy, però, il ruolo delle first lady americane è tornato un po’ nell’ombra, almeno fino all’arrivo alla Casa Bianca di Michelle Obama. Che però, ne siamo certi, non riuscirà a scalzare Nancy Reagan dal podio di first lady più amata del dopoguerra.


gio forte e chiaro: «Saprò gestire l’Italia con la stessa efficacia con la quale ho garantito il primato delle mie imprese». E gli italiani gli hanno dato fiducia. Naturalmente, dagli anni Ottanta ad oggi sono molte le cose che sono cambiate e, se allora il cinema aveva un peso nella formazione dell’opinione pubblica, oggi è la tv a dettare le regole e la scaletta politica. E l’antipolitica quanto li accomuna?

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L’ingresso sulla scena politica di questi due politici rubati ad altri mestieri ha rappresentato un punto di rottura con il passato. Al politico di professione, ingessato e soporifero, il cittadino preferisce qualcuno che ha dimostrato di capire quali sono i loro problemi, o che almeno sembra farlo. Il linguaggio di Berlusconi, così distante dal politichese a cui eravamo abituati, è molto simile allo stile diretto e senza peli sulla lingua di Reagan che faceva leva sulle paure, sugli interessi e sul senso di frustrazione di una cittadinanza che voleva un cambiamento radicale. Con le sue gaffe, le corna nelle foto di gruppo al G8, le barzellette spinte e le urla, Berlusconi ha saputo presentarsi come l’uomo del cambiamento pur incarnando i valori conservatori della destra. Anche Reagan ha puntato su un nuovo patriottismo, una nuova esaltazione del ruolo dell’America nel mondo con tutti gli eccessi che ne sono susseguiti, ma che l’hanno reso uno dei presidenti più popolari della storia americana.

Il bene contro il male, l’amore contro l’odio, l’ottimismo ad ogni costo, ecco i cavalli di battaglia di questi due uomini politici che hanno fatto della retorica il condimento ad un piatto di riforme estremamente conservatrici. Se Berlusconi e Reagan hanno diversi punti in comune, vi è una differenza particolarmente evidente che risiede proprio nel carattere di questi due personaggi. L’ex attore hollywoodiano, pur riuscendo a esprimere un messaggio proprio, appariva come l’espressione dell’establishement economico e finanziario che deteneva le redini della sua azione politica. Dal taglio alle tasse per i più ricchi alla corsa agli armamenti, Reagan dava l’impressione di voler fare gli interessi di coloro che l’avevano fatto sedere sulla poltrona, ma con Berlusconi la questione è decisamente diversa. Il Cavaliere, entrato in politica per sfuggire ai processi, secondo alcuni, o per salvare l’Italia, secondo altri, non avrebbe mai potuto accedere alla Casa Bianca a causa del suo ruolo di imprenditore. A Washington il conflitto di interessi è preso molto sul serio, solo in Italia è considerato un particolare trascurabile. Più simile a un regnante che a un primo ministro nella gestione del suo partito-azienda, Berlusconi prende in prima persona ogni decisione e porta avanti le proprie battaglie. Su di lui incombe l’ombra del conflitto d’interessi, dei processi, delle leggi ad personam e così via, ma in ogni caso non sembra eseguire gli or-


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dini di nessuno se non quelli di se stesso. Reagan, come tutti i presidenti americani, assecondava le lobby, Berlusconi è la lobby di se stesso. Pur essendo entrambi conservatori, la situazione familiare dei due non potrebbe essere più diversa. Reagan sposato da sempre con l’onnipresente Nancy, mentre Berlusconi, tra divorzi, scappatelle ed escort vere o presunte, non è certo un modello, ma non sembra turbare gli italiani, nemmeno i più cattolici. Berlusconi e Reagan parlano la stessa lingua, usano frasi semplici, fanno battute di spirito e non nascondono di sentirsi a disagio tra i politici professionisti, e questo, agli occhi di un’opinione pubblica satura dei raggiri di palazzo, li rende meritevoli di fiducia. La maggioranza silenziosa tanto decantata da Nixon o il fantomatico ceto medio nostrano restano affascinati dalla novità e, se il volto di Reagan è ormai inciso nella memoria collettiva degli americani, Berlusconi ha lasciato un segno che non sarà facile da cancellare, nel bene e nel male. Che ruolo ha avuto nel successo di immagine di Reagan, la moglie Nancy? Come si spiega la scarsa importanza che le first ladies hanno nel panorama politico italiano?

Una volta Nancy Reagan ha detto: «Il ruolo della first lady è evitare che un presidente si isoli». E indubbiamente lei ha svolto il ruolo di accompagnatrice, ma anche di consigliera, in modo ineccepibile. È innegabile che

negli Usa le first lady abbiano avuto un’enorme influenza sia in politica che nella società, anche se, tradizionalmente, l’elettorato americano vede con maggior simpatia le first lady che non si occupano di politica. Così come Jacqueline Kennedy ha conquistato gli americani mostrando, vestita in maniera impeccabile, come aveva arredato la Casa Bianca, il ruolo svolto da Michelle Obama nella lotta all’obesità infantile è visto come adeguato per l’agenda di una first lady. Anche la campagna di Laura Bush nella promozione della lettura o quella di Nancy Reagan nella lotta alla droga erano molto apprezzate, mentre la riforma del sistema della salute di Hillary Clinton era stata invece criticata aspramente perché considerata un’ingerenza in campo politico. Per quanto riguarda l’Europa, il discorso è molto diverso. Il ruolo secondario che hanno le first lady in politica non credo sia un fenomeno italiano, ma piuttosto una tendenza europea. Se l’onnipresente Nancy ha contribuito notevolmente al successo di Reagan (anche quando irrompeva nello studio del marito e si faceva consigliare da un astrologo per aiutarlo a prendere le decisioni più difficili), nel Vecchio continente le mogli dei premier o dei presidenti non hanno avuto lo stesso ruolo. In Francia, ad esempio, prima dell’avvento della ex top model Carla Bruni, le inquiline dell’Eliseo si limitavano a qualche comparsata rifugiandosi all’interno della propria famiglia.

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Oltralpe, una tradizione di mariti infedeli, da Chirac a Mittérand, ha spinto le first lady a nascondersi dagli occhi dell’opinione pubblica. In Spagna, le rispettive consorti di Zapatero e Aznar sono relativamente conosciute a livello popolare, ma non hanno rappresentato quel valore aggiunto che invece in Inghilterra, sempre a traino degli Stati Uniti, è stato incarnato da Cherie Blair, prima, e Samantha Cameron, oggi. In Italia, il discorso è un po’ più complesso. Non essendoci l’elezione diretta del capo dello Stato o del governo, come parzialmente avviene in Francia, e non avendo una cultura anglofila, le nostre first lady patiscono il machismo della nostra società, oltre che la fragilità dei governi. Il rapido susseguirsi degli esecutivi ha contribuito a non creare mai un legame tra queste donne e le istituzioni. La schiacciante maggioranza maschile in Parlamento ha poi fatto il resto, e così la riservatezza di queste donne appare quasi come una necessità del marito che non vuole veder messa in discussione la propria virilità da una compagna troppo carismatica. In Italia, le first lady servono solo durante le campagne elettorali per mostrare l’unità della famiglia e rassicurare i moderati. In Italia è la paura degli uomini a impedire che le first lady rivestano un ruolo all’americana e, finché non ci sarà una rivoluzione, non avremo mai la nostra Michelle Obama. Il reaganismo è stato un fenomeno più

politico o più di immagine? Insomma, arrosto o fumo?

Quasi sempre, dove c’è del fumo, c’è anche dell’arrosto, e Reagan di carne al fuoco ne ha messa parecchia. In un’intervista rilasciata nel 1998, Robert Redford dichiarava: «L’era Reagan ci ha fatto molto male con la sua ossessione per l’individualismo sfrenato», ma, a distanza di più di trent’anni, le cose non sono cambiate poi molto. Sono in molti, a torto, a considerare la presidenza Reagan come una parentesi chiusa della storia americana, ma le scelte del presidente, i suoi errori e i suoi successi, continuano ancora a influenzare la politica mondiale. La celebre reaganomics, ovvero l’insieme di scelte di politica economica adottate dagli Stati Uniti dal gennaio 1981 al gennaio 1989, sono guardate con nostalgia ancora oggi dai repubblicani. Reagan deve gran parte del suo successo alla scelta di tagliare l’imposizione fiscale. In tal modo si invertiva la tendenza decennale di far crescere l’imposizione fiscale e contemporaneamente il ruolo dello Stato nell’economia. Reagan venne convinto dall’economista Laffer che una riduzione dell’imposizione fiscale avrebbe avuto effetti benefici sia sulla crescita economica che sull'imposizione fiscale perché un’eccessiva tassazione spingeva i lavoratori a rinunciare a lavorare di più. Alle scelte fiscali si sono aggiunte politiche di forti liberalizzazioni, scelte fortemente antisindacali, culminate nel licenzia-


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mento di migliaia di controllori di volo in sciopero, e di forti tagli alla spesa sociale, controbilanciati tuttavia da un forte aumento della spesa pubblica per armamenti. Grazie al taglio della pressione fiscale, la produzione industriale aumentò decisamente, come del resto l’occupazione, avviando però quella deregolamentazione del mercato che avrebbe finito con lo strangolare la classe media portando alla crisi economica attuale. Per quanto riguarda la politica estera, mantenne le sue promesse di rapida rappresaglia contro gli attacchi terroristici e i paesi accusati di dare loro appoggio come il regime di Gheddafi. Grazie alla celebre dottrina Reagan, l’Amministrazione appoggiava le forze che si opponevano ai governi filo-sovietici come l’Afghanistan, il Nicaragua, l’Angola, e, nonostante Reagan sia ricordato per il suo tenace anticomunismo, fu proprio lui a dare l’inizio al disgelo. Il primo summit tra Reagan e Gorbaciov si tenne a Ginevra nel novembre 1985 e segnò l’inizio del disarmo bilaterale. Come vede, di arrosto ce ne è stato parecchio, e il fatto di puntare molto sull’immagine non ha impedito al presidente di agire. La sua politica ha anche causato un aumento della popolazione povera, ha inasprito il clima tra aziende e sindacati contribuendo alla precarizzazione del mondo del lavoro e alla cosiddetta flessibilità. Questo clima teso ha scatenato molte reazioni, e se Reagan poté dire di

essere stato più fortunato di JFK sfuggendo a un attentato, in America o si amava o si odiava profondamente questo presidente. Un contesto che dovrebbe esserci molto familiare. C'è qualcosa che i politici italiani di oggi dovrebbero recuperare da quello stile? Se sì, cosa?

Credo che i politici italiani, di ogni schieramento, dovrebbero recuperare lo stile diretto e popolare di Reagan. A prescindere dai contenuti e dalle ideologie, Reagan sapeva parlare alla gente mentre i nostri politici appaiono distanti anni luce. Parlano di scudo, di case a Montecarlo, di lodo Alfano e di magistrati politicizzati, mentre i cittadini subiscono ancora una crisi che in troppi hanno negato e ignorato fino all’ultimo. Gli italiani vogliono sentir parlare di occupazione, di federalismo e riduzione delle tasse, cose di cui parlava Reagan e il primo Berlusconi, ma che ora sembrano dimenticate tra una faida politica e l’altra. Il disgusto verso la politica, il qualunquismo, queste sono le conseguenze della deriva populista della nostra classe dirigente che non sa più parlare di cose concrete e che dovrebbe recuperare quella simbiosi con il popolo che Reagan aveva con gli americani. Come è ormai evidente, il reaganismo ha contribuito anche a rendere la politica schiava dei media e dei sondaggi. Ormai tutti dicono di parlare di cose concrete, vanno in Tv, nei talk show mettendo in mostra il pro-

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prio lato umano, ma ormai i nostri concittadini non ci credono più. A 69 anni Reagan era molto più giovane dei nostri elefanti che occupano le poltrone per decenni senza lasciare spazio alle nuove generazioni che faticano ad imporsi, schiacciate da un clima sociale depresso e da un’economia che langue. Nei manifesti elettorali del Pd Bersani si rifà a Peron mostrandosi con la camicia con le maniche rimboccate, ma, se il messaggio è confuso, su una cosa ha ragione: gli italiani hanno perso la pazienza.

L’Intervistato

klaus davi Giornalista, scrittore, esperto di comunicazione, nel 1994 ha fondato l’agenzia Klaus Davi & Co. Ha creato il canale KlausCondicio su YouTube, sul quale intervista i protagonisti dell’attualità,

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della politica, della cultura e dell’economia. Ha scritto i saggi Di' qualcosa di sinistra (2004), I contaballe (2006) e Fallocrazia (2007). è anche opinionista tv ed esperto di costume e dal 2006 è ospite fisso a L’Arena, in onda su Rai Uno la domenica pomeriggio. è Advisor strategico di 21 Investimenti, società del gruppo Benetton.

L’Autore domenico naso Giornalista, si occupa di politica, televisione e cultura pop. Scrive per il Secolo d’Italia e Ffwebmagazine, per il quale cura anche la rubrica di critica televisiva Television Republic. Ha lavorato per la rivista Ideazione.




QUEL CHE RESTA DI REAGAN Carmelo Palma

Liberismo e anti-proibizionismo

Gli strani alfieri italiani del reaganismo A introdurre la reaganomics in Italia non fu una grande forza di centrodestra, ma il Partito radicale di Marco Pannella. Che vi trovò le ricette giuste per la sua battaglia contro la partitocrazia. DI CARMELO PALMA

La reaganomics in Italia arrivò con un decennio di ritardo e non entrò dalla porta della politica conservatrice, ma dalla finestra dell’eresia radicale. «Il mio riferimento economico? Milton Friedman, che ritengo un economista libertario. E in Italia Antonio Martino, che è in grado di dare suggerimenti a qualsiasi uomo di governo». A dirlo, in un’intervista del marzo del 1992 a MF, è Marco Pannella. Nessun leader politico italiano, fino ad allora, si era dichiarato così orgogliosamente reaganiano. E nessuno lo aveva mai fatto dopo aver seduto ostentatamente sui banchi dell’estrema sinistra, contesi al Pci, secondo la paradossale logica pannelliana, in nome dei valori della destra storica. Pannella, nell’intervista rilasciata a Franco Bechis, non si ferma ai princìpi, ma si diffonde in esempi provocatoriamente precisi. Di-

chiara guerra all’organizzazione corporativa dell’economia e del lavoro e propone, con la sfrontatezza dell’outsider, la completa liberalizzazione del commercio, l’abolizione della cassa integrazione straordinaria e un piano monumentale di investimenti infrastrutturali, sottratto all’ipoteca “delle cooperative bianche, rosse e biancorosse” e riservato alle “maggiori imprese internazionali”. Parla di sé come di un aspirante “superministro dell’economia”, pur guidando una lista – la Lista Pannella, ovviamente – che lottava disperatamente per ottenere il quorum e per garantire l’accesso alla Camera ad una pattuglia radicale, orfana di molti parlamentari uscenti nel frattempo confluiti in altri partiti, secondo la logica pannelliana della “disseminazione”. L’outing reaganiano di Pannella non giunge in realtà inaspettato.

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All’inizio degli anni Novanta era prima di Friedman) e che i radigià maturata, nell’analisi radica- cali avevano incrociato nella batle, la persuasione che la partito- taglia contro lo sterminio per facrazia non costituisse solo un me (fu tra i 53 premi Nobel a particolare e anomalo regime po- sottoscrivere nel 1981 l’appello litico, ma un peculiare regime radicale), frequentandolo nelle economico. Non solo le istituzio- battaglie anti-militariste e affini, ma anche il mercato andava liandolo infine nel 1987, quando liberato dal velenoso intreccio tra l’economista russo-americano si spesa pubblica e intermediazione iscrisse, con altre prestigiose fipolitica, che, insieme al debito gure della comunità scientifica pubblico (non a caso esploso pro- internazionale, al Partito radicaprio durante gli anni dell’unità le. Non è però una riflessione nazionale), costringeva l’econo- teorica, ma un’analisi strettamia italiana ad accettare umi- mente politica a condurre i radilianti padrinaggi politici o a di- cali ad un’intransigenza liberista e anti-statalista pendere dal cache nella politica priccio arbitrario Fu un’analisi politica italiana aveva ben di un legislatore pochi precedenti. che aveva ormai a condurre i radicali Peraltro, durante perso il senso del- ad un’intransigenza gli anni del trapasla misura. In questo quadro, liberista che non aveva so tra la prima e la seconda Repubblinon è un caso che precedenti in Italia ca (1992-1994), siano stati i radicali i primi a raccogliere e pro- nel cosiddetto “Parlamento degli muovere politicamente i refe- inquisiti”, tenuto sotto scacco un rendum ideati da Massimo Seve- po’ dalla magistratura, un po’ ro Giannini, per smontare alcu- dall’opposizione e dal rischio ni tra i principali dispositivi della bancarotta finanziaria del dello “Stato padrone”: gli istitu- paese, i radicali sono gli alfieri ti di credito pubblico, il super- più intransigenti della politica conglomerato delle partecipa- del rigore, dei tagli e delle riforzioni statali e la Cassa per il me. Per la prima volta da quando sono in Parlamento, i radicali vomezzogiorno. Da un punto di vista strettamen- tano a favore di una legge finante dottrinario i radicali tutto po- ziaria, quando nel 1992 Amato tevano definirsi fino ad allora, propone una manovra “lacrime e fuorché dei liberisti ortodossi. sangue” da 80mila miliardi e Pannella, tra gli anni Settanta e promuove la riforma del sistema Ottanta sembrava assai più affa- pensionistico. Tornano poi a voscinato dai modelli di program- tare contro quella di Ciampi, mazione economica di Wassily giudicata insufficiente, nel 1993. Leontief, che vinse il Nobel per In quel periodo, mentre il sistel’Economia nel 1973 (tre anni ma politico sbanda e non si pro-


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fila ancora la discesa in campo di no”, sulla questione morale, ma Berlusconi, sono i radicali di su di una riforma profonda delle Pannella l’avversario della sini- istituzioni politiche ed economistra. Come nessuno avrebbe mai che del paese. Così i radicali dipensato possibile, sul Corriere del- ventano reaganiani: senza comla Sera Giorgio Meletti scrive nel plessi, e senza farsi soverchie prefebbraio del 1993: «Arrivati a occupazioni di coerenza ideologiquesto punto non ci sarebbe da ca. Perché il reaganismo “servisorprendersi se fosse proprio va” la causa anti-partitocratica. E Marco Pannella quel supermini- reaganiani lo diventano sul serio, stro dell’Economia che l’Italia trascrivendo tra il 1994 e il 1999 vagheggia da tempo», e accosta, in numerose proposte referendaun po’ agiograficamente, la sua rie una vera e propria piattaforfigura a quella di Silvio Spaventa ma di riforma liberista dell’economia italiana, che la Corte Coe Quintino Sella. Si potrebbe discutere a lungo se stituzionale decimò e che il sistema politico italiail Pannella “rigorino in larga misura sta” di allora fosse I radicali diventano disinnescò, con lo davvero, in termistrumento delni culturali, liberi- anti-statalisti perché l’astensione. Per sta e reaganiano. anti-partitocratici, ricordarne solo alLa sua idea di ricune, in quel pevoluzione liberale anti-interventisti per riodo viene richieaveva forse poche sfiducia nella politica sta per via referenparentele teoriche con la rivoluzione “offertista” daria l’abrogazione del sostituto della supply side economy, ma que- d’imposta, del monopolio pubsto contava poco, a maggior ra- blico sulle assicurazioni sanitarie gione in un partito che si faceva e per gli infortuni sul lavoro, vanto di un programmatico della cassa integrazione straordipragmatismo ideologico. I radi- naria, dell’articolo 18 dello Stacali, insomma, diventano anti- tuto dei lavoratori… statalisti perché anti-partitocra- Quando nel 1994 i radicali intici, anti-interventisti perché crociano e per qualche mese connon solo diffidenti, ma sfiduciati dividono il cammino berluscodella capacità di “governo eco- niano, di tutte le aree politiconomico” di una classe politica culturali che il Polo della libertà che vedevano votata alla rapina e e del buongoverno riesce ad aggregare, quella radicale è sicuraal suicidio. Se si pensa a quanto pervasivo mente la più consonante con i tefosse allora il potere dei partiti, mi e i toni della rivoluzione libesi comprende l’originalità della rale che Berlusconi prometteva al risposta radicale, che non punta, paese. I radicali liberisti e “di decome poi avrebbero fatto la sini- stra” diventano subito un tabù stra e la destra dei “Forza Toni- per la sinistra, che li sdogana

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nuovamente dodici anni dopo, ca con l’Urss, che avrebbe portaquando si sistemano nella coali- to allo schianto dell’intero blocco zione prodiana, tentando di ca- sovietico. Scriveva a questo provalcare il liberal-socialismo euro- posito nel 1981 l’allora “minipeo (Blair-Zapatero) e gli ideali stro della Difesa” del Pr, Francedi una sinistra che aveva comun- sco Rutelli, su Notizie Radicali: que digerito la lezione thatche- «È giusta questa scelta? L’esperienza ci insegna il contrario. Il rian-reaganiana. Parte della fascinazione per il terreno su cui l’Urss ha dimoreaganismo – ma mai, a dire il strato di non perdere un colpo è vero, per Reagan – dei radicali quello della competizione strateanni Novanta si deve al “sogno gica con l’altra superpotenza. In americano” di un partito che an- generale, è sul terreno militare che sui temi internazionali stava (si veda l’Afghanistan, come il muovendo il proprio pacifismo Corno d’Africa, come lo Yemen) liberale verso un atlantismo assai che una struttura come quella sovietica sa dare le più tradizionale. sue risposte». AnSi pensi alle posi- Il reaganismo radicale che allora, da parte zioni tutt’altro dei radicali non vi che neutraliste è stato più libertarian era alcuna equidisulla prima guerra e friedmaniano stanza tra i blocchi in Iraq e all’intere il nemico era ventismo dichia- che politicamente chiaramente indirato sul fronte ju- reaganiano viduato oltre la goslavo, ben distanti da quelle che avevano por- cortina di ferro. Lo stesso Rutelli tato i radicali, all’inizio degli an- chiariva: «Noi riteniamo che per ni Ottanta, a lottare – insieme al la sua natura e struttura l’Urss Pci – contro l’installazione degli costituisca oggi il maggior perieuromissili a Comiso e a teoriz- colo soggettivo e oggettivo per zare, nello stesso periodo, l’uscita lo scatenamento della guerra» e, dell’Italia dalla Nato. Sugli citando Pannella, aggiungeva: aspetti più propriamente strate- «L’Occidente – ha dichiarato gici della presidenza di Reagan, Pannella – rischia di comportarsi a partire dalla competizione sul con l’Urss di oggi come già fece piano militare, i radicali sbaglia- all’epoca di Monaco con la Gerno completamente le previsioni. mania nazista». Però per i radiE con il senno di poi si può dire: cali, che in questo si dimostrano – come molti, non solo a sinistra fortunatamente. Sempre nei primi anni Ottanta, – ostili al “militarismo” del cowvedono nel processo di riarmo boy che aveva espugnato la Casa reaganiano un fenomeno interno Bianca, Reagan non è né un moagli Usa, guidato dagli interessi dello, né un riferimento politico. dell’industria militare, non uno In termini generali si può allora dei fronti di competizione politi- sostenere, neppure troppo para-


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dossalmente, che il reaganismo radicale è stato più culturalmente friedmaniano e libertarian che politicamente reaganiano. Infatti, non casualmente, il primo approccio con Friedman da parte dei radicali, nella seconda metà degli anni Ottanta, avviene su di un tema in cui l’economista americano era “all’opposizione” della presidenza Reagan: il proibizionismo sulle droghe. Friedman era un antiproibizionista assoluto: per ragioni etiche – fedele ad un ideale di libertà negativa di impronta più libertaria che liberale – e per ragioni economiche. Il mercato delle droghe, come mercato “drogato” dall’intervento pubblico e criminalizzato dalla proibizione, diventa in Friedman un esempio paradigmatico dell’illusione statalista. Il problema della droga, per come lo conosciamo (le violenze, la microcriminalità diffusa, il potere politico delle narcomafie…) è, nella sostanza, un gigantesco effetto inintenzionale del proibizionismo. Le droghe, invece, sono un’altra cosa: se fossero legali, continuerebbero a fare male a chi le usa, ma non “ammalerebbero” la società di una malattia contagiosa e inguaribile, con cui l’Occidente fa politicamente i conti – con un grande dispendio di risorse politiche ed economiche – dalla prima Convenzione internazionale sulla droga nel 1961. La proibizione non si limita a socializzare i danni e a privatizzare i profitti della diffusione delle droghe, facendo pagare agli “innocenti” (i non

IPSE DIXIT

Le frasi più celebri di Ronald Reagan Ogni generazione va al di là della generazione che la precede perché si trova sulle spalle di quella generazione. Avrete opportunità al di là di qualsiasi cosa abbiamo mai conosciuto. Come si fa a definire un comunista? Beh, è qualcuno che legge Marx e Lenin. E come si fa a definire un anticomunista? È qualcuno che capisce Marx e Lenin. Il primo dovere del governo è di proteggere il popolo, non di gestire la sua vita. Il contribuente è uno che lavora per lo Stato senza essere un impiegato statale Non sono preoccupato per il debito pubblico americano. È così grande che può badare a se stesso. La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. Certe volte trovo che assomigli molto alla prima. Margaret Thatcher? È il miglior uomo d'Inghilterra. L'altro giorno qualcuno mi ha spiegato la differenza tra democrazia e democrazia popolare. È la stessa differenza che passa tra una camicia e una camicia di forza.

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consumatori di droga) i costi che, in un mercato libero, pagherebbero solo i “colpevoli” (i consumatori di droga). Istituisce anche un incentivo economico che moltiplica le dimensioni e la ricchezza del mercato criminale, inquinando l’economia legale. A spingere Friedman ad una posizione antiproibizionista non era però la sua dottrina, ma l’analisi di un fenomeno che una politica perbenistica si rifiutava (e tuttora si rifiuta) di considerare – malgrado l’esempio del proibizionismo sull’alcool degli anni Trenta – anche come un problema di mercato. Non è il liberismo “individualista”, insomma, a portare Friedman all’antiproibizionismo, ma l’idea stessa di analizzare il problema della droga secondo categorie economiche. A dimostrarlo è il fatto che negli stessi anni i radicali coinvolgono nella Lega internazionale antiproibizionista Lester Thurow, un economista liberal molto lontano da Friedman, che condivide però con lui l’idea che le droghe “proibite” diventino un problema molto più grande e pericoloso delle droghe in sé. Friedman ha una grande influenza sui radicali, il cui anti-proibizionismo diventa – per così dire – più di destra. La legalizzazione si impone non solo per rispetto alla libertà individuale, ma – soprattutto – come argine al disordine sociale e al potere criminale. Gli slogan diventano molto lontani dal “Free joint!” dei giovani “alternativi” e prendono una intonazione pragmatica: “L’unica

politica anti-droga è anti-proibizionista”. Non c’è nessuna cultura dello sballo e del lassismo. E l’icona dell’antiproibizionismo radicale, insieme all’assai poco lassista Friedman, diventa il vecchio ex-capo della squadra narcotici di New York, Ralph Salerno. Dopo quasi venti anni da quell’inizio eccentrico che aveva segnato l’avvicinamento radicale al guru della rivoluzione conservatrice, per un caso della storia le truppe pannelliane svoltano a sinistra, accettando l’alleanza con la coalizione più comunista d’Europa, nel 2006, proprio mentre Berlusconi e il centrodestra iniziano la sterzata anti-reaganiana, che culminerà tra il 2007 e il 2008 nelle filippiche anti-mercatiste e anti-liberiste di Tremonti. È una coincidenza, solo una coincidenza. Ma non lo sembra. Bye bye, Reagan.

L’Autore carmelo palma Direttore dell’associazione Libertiamo e di Libertiamo.it. Giornalista pubblicista, è stato dirigente politico radicale, consigliere comunale di Torino e regionale del Piemonte. è tra i fondatori dei Riformatori Liberali.


L’accordo lo abbiamo fatto con te. No al contrabbando. British American Tobacco e l’Unione Europea combattono insieme il contrabbando dei prodotti del tabacco. British American Tobacco ha sottoscritto un Accordo di collaborazione con la Commissione Europea e gli Stati membri dell’Unione per combattere insieme il contrabbando e la contraffazione dei prodotti del tabacco. Il contrabbando in Europa rappresenta circa il 13% del mercato totale del tabacco, pari a circa 75 miliardi di sigarette. Il mercato illecito crea ogni anno perdite per gli Stati membri di circa 10 miliardi di euro. In Italia, questo fenomeno ha registrato una recrudescenza passando dalle 124 tonnellate di sigarette sequestrate nel 2007 alle 297 tonnellate del 2009. Il commercio illecito, inoltre, facilita la diffusione del fumo tra i minori a causa dei mancati controlli alla vendita e dei prezzi più accessibili. L’accordo sottoscritto da British American Tobacco, la Commissione Europea e gli Stati membri conferma l’impegno dell’Azienda a dialogare e collaborare con le Istituzioni per combattere l’illegalità e garantire il rispetto delle normative sul prodotto. Assieme vogliamo inviare un messaggio molto forte alle organizzazioni criminali, le cui attività sono finanziate anche dai proventi del contrabbando: le loro azioni non saranno tollerate.


La linea intransigente contro l’Evil Empire DI PIERLUIGI MENNITTI

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iaffermare gli Stati Uniti come paese leader del blocco occidentale fu la priorità dell’Amministrazione Reagan, perseguita senza concessoni anche attraverso una aggressiva politica di riarmo.


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Pierluigi Mennitti

Nei giorni in cui la Germania ha celebrato il ventennale della riunificazione, un frammento di Ronald Reagan è tornato a Berlino. A pochi passi dalla porta di Brandeburgo, dove il 12 giugno 1987 pronunciò il discorso che anticipò di due anni la caduta del Muro, la libreria Dussmann ha esposto all’ultimo piano, quello della saggistica, un pezzo del vecchio “vallo antifascista”. Non uno qualsiasi ma un pezzo che il presidente americano autografò qualche anno più tardi, dopo averci scritto la frase che tutti ricordano, «Mr. Gorbachev, tear down this Wall!». Una grafia tremolante, dovuta al ruvido passaggio del pennello nero sulla superficie grinzosa del cemento, che rende meno perentorio quell’invito fatto all’allora controparte sovietica, che molti presero come un azzardo di retorica e che invece fu una profezia. Il pezzo è pregiato. I titolari della libreria, una delle più grandi di Berlino, lo hanno messo sotto vetro, di fronte alla grande vetrata che dà sul cortile interno dove si affacciano i quattro piani di questo emporio della cultura. Ma i clienti passano e guardano un po’ distratti, senza mostrare un’emozione particolare. Un rapporto strano, quello che lega Ronald Reagan alla città che più di tutte ha sperimentato le conseguenze della sua azione politica. A Berlino è rimasta più impressa nella memoria la visita di un altro presidente americano, John Fitzgerald Kennedy, che rincuorò gli abitanti della metà occidentale

della città, rimasta intrappolata dentro la muraglia innalzata da Walter Ulbricht per impedire l’emorragia di giovani e forza lavoro che stava dissanguando la neonata Germania popolare. L’uomo della “nuova frontiera” arrivò in una Berlino ovest terrorizzata, fece una puntata di fronte alla Porta di Brandeburgo allora sbarrata dal Muro e oscurata da drappi rossi che impedivano di guardare dall’altra parte, si diresse in corteo fra ali di folla nella piazza del municipio di Schöneberg, che allora fungeva da municipio della metà occidentale, e pronunciò con un trascurabile errore grammaticale la famosa frase «Ich bin ein Berliner». Una consolazione. Ma Kennedy era giunto a Berlino due anni dopo la costruzione del Muro, non quello che si direbbe una visita tempestiva, e il suo discorso fu alto e sentimentale, ma non ebbe alcun effetto sul corso della storia, se non quello di certificare quanto era già scritto nei trattati fra le due grandi potenze: che gli americani e i loro alleati sarebbero rimasti a Berlino ovest e non avrebbero messo il naso Oltrecortina, nelle faccende che accadevano nelle regioni di competenza sovietica. E tuttavia, il messaggio berlinese di Kennedy, che prendeva atto del colpo di forza di Mosca e Berlino est, getta ancora la sua ombra su quello di Reagan, che spinse Mosca e Berlino est un passo più in là, fin sull’orlo di quel precipizio nel quale, di lì a poco, tutto il mondo comunista sarebbe caduto.

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Mai presidente americano fu tan- rimanere indietro nella corsa per to sottovalutato dagli europei, lo spazio […] Abbiamo scelto di prima, durante e dopo il suo andare sulla Luna e di fare altre mandato politico. Fu un presi- cose, non perché sono facili, ma dente ideologico, uno degli ulti- perché sono difficili». Così Reami esponenti di quel mondo di gan, di fronte alla porta di Branidee ferme e chiare che si muove- deburgo, dopo aver pronunciato vano nella cornice della Guerra la famosa frase, «Mister GorbaFredda: dopo di lui, negli Usa, ciov, tiri giù questo Muro», si ricompletò l’opera George Bush se- volse ai manifestanti che agitavanior e poi venne l’era di un leader no i quartieri di Berlino ovest dipragmatico. E proprio quella ci- cendo: «Invito coloro che oggi fra ideologica, così forte ancora protestano a rimarcare questo fatnegli edonistici anni Ottanta, gli to: è perché siamo rimasti forti negò l’apprezzamento di chi ave- che i sovietici sono tornati al tava altre idee. Nel giugno berline- volo delle trattative ed è perché siamo rimasti se del 1987, la visita di Reagan fu movi- Le dichiarazioni rivolte forti che oggi abbiamo ragmentata da continue a chi aveva avversato giunto la possimanifestazioni di bilità non solo piazza, giovani anar- il riarmo sono il cuore di limitare la chici e di sinistra dell’azione reganiana crescita delle arche ingrossavano le mi ma di elimifile dei movimenti nella Guerra Fredda nare, per la pripacifisti e che, nel timore dell’apocalisse nucleare, si ma volta, un’intera classe di armi ponevano oggettivamente (con nucleari dalla faccia della terra». consapevolezza o meno) dalla Se l’appello a Gorbaciov fu la profezia che rimarrà per sempre parte dei sovietici. Se si vuole tirare la storia per i ca- nei libri di storia (così come agli pelli, e paragonare Reagan a atti rimarranno gli scetticismi e Kennedy sul piano politico e non le ironie di quanti, in America e solo su quello caratteriale (due in Europa, giudicarono quella presidenti di grande fascino e for- frase una retorica irrealistica), le te capacità comunicativa), biso- dichiarazioni rivolte ai manifegnerà uscire dalle similitudini stanti – e per loro tramite a tutti geografiche e paragonare il di- coloro che avevano avversato la scorso di Reagan a Berlino con politica di riarmo – rappresentaquello che Kennedy fece a Wa- no il cuore dell’azione reaganiana shington, quando gli Stati Uniti nella Guerra Fredda. lanciarono ai sovietici la sfida lu- Quando Ronald Reagan arrivò nare. Presentando in Congresso il alla Casa Bianca, gli Stati Uniti progetto Apollo, disse: «Nessuna erano in preda a una crisi di nazione che aspiri ad essere alla identità. Lo smacco della cacciata guida della altre può pensare di dello Shah da Teheran e il falli-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Pierluigi Mennitti

mento dell’operazione di libera- zione di supremazia. Solo partenzione degli ostaggi americani, do da uno stato di superiorità, così come l’invasione dell’Afgha- sarebbe stato possibile intavolare nistan da parte sovietica sembra- trattative con Mosca, con l’obietvano segnali inequivocabili del tivo di strappare risultati concrefatto che l’Urss avesse ripreso in ti invece che accordi simbolici mano il pallino del gioco. Riaf- tesi a salvaguardare il primato fermare gli Stati Uniti come pae- strategico e tattico russo. Il canse leader del blocco occidentale fu didato Reagan aveva già denunla priorità della sua amministra- ciato in campagna elettorale gli zione. Poche, semplici parole accordi Salt, conclusi nel giugno d’ordine per ristabilire i termini 1979, con i quali veniva fissato del confronto, abbandonare le di- un tetto al numero complessivo sponibilità che Carter aveva ma- di missili intercontinentali e di nifestato e sbarrare il passo anche missili dotati di testate nucleari alla recente tradizione repubbli- multiple. Un accordo che lasciava inalterato lo cana della Realpolitik, che aveva se- L’Urss era l’evil empire squilibrio a favore di Mosca. Al congnato la stagione di Nixon e Kissin- e le trattative potevano trario la nuova Amministrazione ger: si imposero la avere come obiettivo statunitense avviò retorica propaganuna crescita degli distica antisovieti- solo risultati concreti, investimenti nel ca, nella quale il non accordi simbolici campo delle armi nuovo presidente fu un maestro tanto da guada- nucleari e convenzionali, inaugugnarsi l’appellativo di Grande rando una sorta di keynesismo comunicatore, una politica estera militare che, pur accrescendo il più aggressiva e determinata, lo deficit federale e i tassi d’interesslancio liberista nell’economia e se, rappresentò una sorta di senella società, un massiccio pro- condo motore per l’economia americana, accanto a quello aligramma di riarmo militare. Nel 1982, di fronte ai membri mentato dall’esplosione della sodell’Associazione nazionale degli cietà liberista. evangelici a Orlando, in Florida, Nella sua monumentale Storia Reagan pronunciò un altro di- delle relazioni internazionali, lo scorso storico, scritto da Antho- storico Ennio Di Nolfo riassume ny Dolan, il suo leggendario il senso della sfida reaganiana: ghost writer, nel quale coniò il ter- «Era necessario costruire una mine di “impero del male” che imprendibile fortezza americarappresentò la stella polare della na, capace di esaltare sia il prisua azione di politica estera. Se mato economico sia quello milil’Urss era l’evil empire, nessun ac- tare degli Stati Uniti e capace di cordo sarebbe stato possibile pri- imporre all’Unione Sovietica, ma di aver raggiunto una posi- cioè alla Russia comunista, una

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sfida così poderosa da costringe- avrebbe dovuto proteggere gli re i suoi dirigenti a scegliere, in Stati Uniti dai rischi di un attacun momento di crisi economica co nucleare, la Strategic Defense crescente, fra la priorità dell’im- Initiative. pegno globale (politico e milita- Nel libro Germany unified and re) e la necessità di rimediare al- Europe transformed, scritto nella le disfunzioni della società so- metà degli anni Novanta a quatvietica, sempre più evidenti e tro mani da Philip Zelikow e sempre meno tollerabili per i Condoleezza Rice, la futura segretaria di Stato di George W. cittadini dell’Urss». Il Dipartimento di Stato ameri- Bush e allora professoressa di cano aveva diffuso un rapporto Scienze politiche alla Stanford speciale (Soviet Military Power) University, la strategia reaganiache confermava la superiorità so- na è riassunta in poche, secche vietica in quella fase e i rischi in- parole: «Il presidente assunse siti in una scelta unilaterale degli una posizione negoziale da tutto o niente, insistenUsa. Reagan si do sull’opzione zemosse così su due Reagan rilanciò ro per gli armafronti. Da un lato, menti nucleari a rilanciò la propo- la proposta di aprire sta di aprire un un nuovo negoziato sugli media distanza in Europa e mettendo nuovo negoziato in chiaro che gli sugli armamenti armamenti strategici Usa avrebbero prostrategici, dopo la che darà vita allo Start seguito lo sviluppo mancata ratifica degli accordi Salt II, che chiamò e la collocazione dei propri miscon il beneaugurante acronimo sili nucleari, se Mosca non avesse di Start (Strategic Arms Reduction rimosso gli oltre quattrocento Talks), e che presero il via il 29 SS20 istallati a minaccia dell’Eugiugno 1982 in parallelo con i ropa occidentale». negoziati sugli euromissili. Tutto o niente. Furono mesi di Dall’altro, proseguì con la politi- forti tensioni politiche, con proca di rimilitarizzazione: Washin- teste giovanili nei paesi europei, gton confermò la decisione adot- in parte genuine, in parte finantata in sede Nato di stanziare sul ziate da Mosca. Si consolidò in territorio europeo missili nuclea- quei mesi l’immagine del Reari di media gittata (i Pershing e i gan militarista, accompagnata Cruise), in risposta al dispiega- dal facile parallelo con il suo mento negli anni Settanta in Eu- passato di attore cowboy. Nel ropa di missili intermedi SS20 braccio di ferro con i russi, gli sovietici, ristrutturò le strutture americani avevano dalla loro di comando militari, potenziò la parte il riarmo che riequilibrava flotta di 145 unità e, soprattutto, i rapporti di forza e la carta prolanciò nel 1983 il progetto di un pagandistica dello scudo stellasistema di difesa strategica che re, un progetto in realtà indefi-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Pierluigi Mennitti

nito nelle sue coordinate tecniche, ma di straordinaria pressione psicologica. L’aggravarsi dei problemi economici e sociali all’interno del blocco sovietico (l’esplosione di Solidarnosc in Polonia è del 1982) e la crisi politica e generazionale nella dirigenza del Cremlino resero il doppio binario americano più facilmente percorribile. Mentre Mosca ritardava il ricambio, bloccandosi sulle scelte degli ottuagenari Andropov e Cernenko, gli Usa recuperavano lo svantaggio strategico, sia sul piano militare che su quello industriale. La ripresa economica, favorita oltre che dall’industria militare da una società modellata sui criteri di liberalizzazione, concorrenza, innovazione tecnologica e produttività, capovolse in pochi anni i rapporti di forza e quando, infine, a Mosca emerse la figura del cinquantaquattrenne Mikhail Gorbaciov, la sfida si proponeva in termini del tutto diversi. Il fallimento della politica di confronto con l’America aveva prodotto anche un’ulteriore conseguenza: l’approccio puramente militaristico ai problemi della sicurezza sovietica. L’economia era entrata in una fase di recessione, le società comuniste in un’era di apatia. La guerra era perduta, si trattava ormai di negoziare un dignitoso armistizio. «Il crollo del comunismo è una vera e propria rivoluzione», racconta Tiziano Terzani in Buonanotte signor Lenin, un reportage in presa diretta dalle periferie asiati-

IL LIBRO

Reagan, un viaggio per immagini Questo bellissimo libro illustrato commemora la vita e la presidenza di Ronald Reagan, che ha rinnovato il senso di ottimismo dell’America, ha ravvivato la sua economia e ha vinto la Guerra Fredda senza sparare un solo colpo. Peter Robinson, speechwriter e assistente di Reagan, ha scritto il testo e le didascalie e il libro ospita foto molto famose e altre meno conosciute. Inoltre, sono presenti i sei discorsi più famosi dell’ex presidente degli Stati Uniti d’America, tra cui quello del 1987 pronunciato a Berlino, davanti la Porta di Brandeburgo. L’introduzione è di Newt e Callista Gingrich. David Elliott Cohen, autore del libro, ha venduto più di 5 milioni di copie delle sue opere precedenti, tra cui A day in the life of the Soviet Union e America 24/7. Le sue foto sono spesso apparse sulle copertine di Time e Newsweek. Ronald Reagan. A life in photographs David A. Cohen, Peter Robinson Sterling, 2011

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che dell’impero del male in disfacimento «ma questa, stranamente, non ha nessuno dei drammi e dei ribaltoni che le rivoluzioni portano di solito con sé. È forse perché i fatti degli ultimi giorni sono la conclusione di un processo incominciato tanto tempo fa? È possibile che questa rivoluzione sia invisibile perché in verità non è avvenuta ora, perché il comunismo non è morto la settimana scorsa, ma è morto lentamente, a tappe? Questo comunismo cominciò a morire con la morte di Stalin, continuò a morire con il rapporto segreto di Chrusciov, e avanti, con frenate e accelerazioni, fino all’ascesa al potere di Gorbaciov e al suo editto di scioglimento del partito. Alla fine, il comunismo sovietico era come la cassetta col lucchetto di questo piccolo villaggio sull’Armur: c’era, ma dentro non conteneva più nulla». Anche la Cecoslovacchia comunista, che visitai due mesi prima della rivoluzione di velluto del novembre 1989, pareva un contenitore vuoto. Nelle strade e nei ristoranti, i signori del cambio in nero si facevano beffe dei tassi di cambio ufficiali, alimentando un’economia parallela che non aveva più alcun aggancio con quella legale. Al riparo di pub e locali, i giovani sperimentavano già divertimenti modellati sugli standard occidentali. La povertà, la miseria e le lunghe file davanti ai negozi alimentari vuoti erano il risultato visibile di un’economia giunta allo sfascio e di una vita quotidiana di stenti. Solo la polizia incuteva ancora

qualche timore, ma la società le era già sfuggita e quando l’autorità venne meno, sparì anche la paura, i cittadini abbandonarono le loro esistenze nel mondo della menzogna e ritornarono alla vita reale. Ma nell’‘89 cecoslovacco o nel ‘91 sovietico tutto questo era visibile e scontato, più difficile e meno scontato era pensarlo all’inizio degli anni Ottanta. Quando, già nel 1987, Ronald Reagan invitò Mikhail Gorbaciov a venire a Berlino e a tirare giù il Muro, i pacifisti sfilavano ancora per le strade e i commentatori lo presero per un pazzo. Era invece un visionario, che sapeva individuare le strategie concrete per rendere possibili quelle visioni.

L’Autore pierluigi mennitti Giornalista, vive a Berlino e si occupa prevalentemente di Germania ed Europa centroorientale, Scandinavia e Balcani. è co-autore del sito East Side Report (www.esreport.net). Su questi temi collabora con diversi quotidiani e riviste italiane.




QUEL CHE RESTA DI REAGAN Massimo Amorosi

Le politiche militari della Nato

L’Europa tra missili e prove di DISGELO

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alle difficoltà del rapporto euroatlantico durante la presidenza Carter al riarmo dei primi anni Ottanta, ecco come è cambiato il ruolo del Vecchio Continente con l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca. 63 DI MASSIMO AMOROSI

Le due crisi che si svilupparono parallelamente fra il 1979 e il 1980, quella degli euromissili e quella afghana, sembrarono affossare le speranze generate dalla distensione fra i blocchi, segnando una decisa inversione di tendenza e un ritorno a quelle tensioni che avevano caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta. In particolare, la disputa sugli euromissili, e la cosiddetta “doppia decisione” presa dall’Alleanza atlantica il 12 dicembre 1979, aveva radici profonde, essendo l’esito di un lungo e travagliato percorso interno alla Nato e non solo una reazione al programma sovietico di ammodernamento delle forze nucleari di teatro a

lungo raggio, che interessava cioè l’area europea. Un programma cominciato agli inizi degli anni Settanta, con il primo impiego operativo nel 1974 del bombardiere Tupolev TU-22 Backfire e soprattutto, nello stesso anno, con la prima prova in volo del nuovo missile balistico di raggio intermedio (Irbm) SS20, che permetteva all’Urss un salto tecnologico rispetto ai precedenti vettori SS-4 e SS-5 garantito dalla più lunga gittata e dalla capacità di veicolare testate multiple. Il piano di spiegamento prevedeva l’introduzione di circa dieci Backfire e settanta SS20 ogni anno. Lo schieramento della nuova generazione di missi-


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li fu, come riconobbe l’ambascia- dalla percezione di una accresciutore sovietico negli Stati Uniti, ta minaccia sovietica. Ne è la riAnatoly Dobrynin, una decisione prova la collaborazione instaura“particolarmente disastrosa”. Es- tasi fra tedeschi occidentali e insa infatti mise in moto il proces- glesi con l’obiettivo di miglioraso che sfociò nella scelta atlantica re l’efficacia della dottrina della di installare, sui territori dei pae- risposta flessibile ufficializzata si Nato che avessero acconsentito nel 1967, che era al tempo stesso ad ospitarli, 108 vettori balistici una strategia di difesa e di disPershing-2 e 464 missili da cro- suasione, mentre sull’altra sponciera Tomahawk, ossia nel primo da dell’Atlantico le iniziative del caso di sistemi considerati quin- capo del Pentagono James Schledici volte più accurati degli SS- singer, favorite peraltro da una 20 e il cui tempo di volo fino a serie di innovazioni tecnologiche Mosca era di circa 10-12 minuti come lo sviluppo di missili da (paragonato ai 45 minuti che si crociera più precisi che in passato si muovevano in stimava impiegasuna direzione pressero i missili dagli I rapporti tra Usa soché analoga. I Stati Uniti alle rapporti fra gli alcittà dell’Urss), e e alleati della Nato leati cominciarono nel secondo di si complicarono invece a complimissili che erano difficilmente rile- quando alla Casa Bianca carsi con l’insediamento a Washinvabili dai radar in arrivò Jimmy Carter gton dell’amminiquanto seguivano il profilo del terreno a quote strazione Carter, giudicata dagli europei debole e vacillante oltre molto basse. Ma in realtà lo schieramento dei che troppo incline ad individuare nuovi sistemi sovietici aveva ef- soluzioni di compromesso con i fetti ben più amplificati, perché sovietici a spese del continente se da un lato faceva riaffiorare nel settore del controllo degli arcontenziosi mai chiusi in seno al- mamenti. l’Alleanza atlantica, dall’altro da- I timori in Europa occidentale va una brusca accelerazione a erano legati alle ambiguità della processi tecnologici già avviati e “risposta flessibile”, che aveva ria scelte politiche che stavano mosso la certezza dell’automatigradualmente maturando fra gli smo della risposta americana. Gli americani ne sottolineavano alleati. Il dibattito fra americani ed eu- gli aspetti difensivi, anche conropei riguardante l’efficacia dei venzionali, non escludendo una sistemi nucleari della Nato e guerra nucleare limitata alla sola l’opportunità di dare il via ad Europa, mentre gli europei pununa loro modernizzazione non tavano a salvaguardare per quanera infatti nuovo e anzi si stava to possibile il coupling strategico sviluppando indipendentemente con Washington evidenziando le


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Massimo Amorosi

capacità dissuasive delle armi dente americano e, in particolanucleari tattiche, da essi consi- re, nella sua capacità di affermaderate non mezzi di guerra bensì re una leadership credibile nelstrumenti volti a realizzare un l’ambito dell’Alleanza. collegamento strategico fra le Tali problematiche, unitamente difese avanzate europee e il de- all’allarme accresciuto dallo terrente strategico americano. schieramento degli SS-20, che Timori che si erano acuiti allor- avrebbe ulteriormente messo a ché apparve chiaro che la parità repentaglio il collegamento fra le strategica fra le superpotenze, difese europee e le forze nucleari codificata dagli accordi sulla li- strategiche degli Stati Uniti (pomitazione degli armamenti nu- sto che la Nato non disponeva alcleari strategici Salt I e quelli lora di vettori di analoga gittata Salt II in via di definizione, po- e precisione), spiegano perché tesse determinare un effettivo l’Alleanza scelse di optare per lo decoupling allargando le differen- spiegamento dei Pershing e dei Cruise. La decisioze fra gli arsenali delle due parti nel Nel 1978 gli Stati Uniti ne “a doppio binario” che venne teatro europeo. A adottata e che predenunciarne il ri- rinunciarono schio fu il cancel- alla bomba al neutrone vedeva la dislocazione in Europa liere tedesco Heldei missili e conmut Schmidt in per il forte contrasto testualmente l’avun discorso pub- con la Germania ovest vio di negoziati blico rimasto celebre, con cui egli volle in partico- con Mosca per la limitazione delare mettere l’accento sulla ne- gli armamenti di teatro, uscì dal cessità di includere nelle tratta- vertice a quattro alla Guadalupa tive con i sovietici anche le forze nel gennaio 1979 e prese le mossub-strategiche di teatro. Sem- se da una proposta fatta dal prepre Schmidt fu protagonista di sidente francese Giscard nel tenun duro scontro con Carter, che tativo di superare le resistenze di aveva per oggetto l’introduzione Schmidt e di conciliare le posidella bomba al neutrone o a ra- zioni divergenti di coloro che diazione rinforzata (Erw), conce- avevano preso parte all’incontro, pita per un suo uso sul campo di ossia, oltre a Schmidt, di Carter e battaglia, specie contro forze co- del premier britannico Callaghan. razzate, con effetti tali da non Significativamente, nello stesso provocare danni permanenti al vertice, in cui fu esclusa l’Italia, territorio e alle popolazioni civi- il cancelliere tedesco caldeggiò la li. La riluttanza manifestata da- cosiddetta clausola della “nongli alleati della Nato convinse singolarità” della Germania, in Carter ad accantonare il progetto base alla quale il paese avrebbe nel 1978 ma nel contempo in- accettato di schierare i missili socrinò la loro fiducia nel presi- lo se a questa scelta avessero ade-

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rito altri governi dell’Europa tecipazione italiana alle due specontinentale. La posizione italia- dizioni multinazionali in Libano na, in questa circostanza, si rive- fra il 1982 e il 1984. lò determinante, dato che al mo- Se fu il governo del repubblicano mento della decisione dell’Alle- Spadolini ad approvare la decianza, se si esclude la Gran Breta- sione di installare i 112 missili gna, gli altri due paesi candidati, americani BGM-109 Gryphon e vale a dire il Belgio e l’Olanda, dei relativi lanciatori assegnati erano apparsi molto incerti al ri- all’Italia nell’aeroporto Vincenzo guardo. L’unico distinguo era da- Magliocco di Comiso, in Sicilia, to dalla richiesta avanzata da Ro- toccò al primo esecutivo guidato ma sin dalle prime fasi del nego- da un socialista nella storia delziato per lo spiegamento dei mis- l’Italia repubblicana pronunciarsi sili, che riguardava la loro ge- sull’attuazione della decisione stione congiunta secondo il mec- del 1979. Bettino Craxi si dimocanismo della “doppia chiave” strò capace, in particolare, di trovare un delicato sulla falsariga di equilibrio fra la fequanto era stato L’impegno in prima deltà alle scelte fatto con i Jupiter atlantiche e la ridispiegati in Pu- fila dell’Italia glia nei primi an- sugli euromissili rilanciò cerca di spazi negoziali con i sovieni Sessanta, discotici, seppur angustandosi dalla vo- il nostro ruolo sti in quella fase, lontà tedesca di a livello internazionale non lesinando le lasciare il controllo delle armi alle sole forze arma- proprie energie in una febbrile attività diplomatica che lo portò te americane. In sostanza, dal momento che la sia a visitare le principali capitali scelta tedesca era appesa ad un europee sia a intrattenere una fitfilo, fu proprio l’iniziativa italia- ta corrispondenza con Reagan e na ad aver sbloccato l’impasse e il segretario del Pcus Andropov. reso attuabile l’intero disegno I tentativi intrapresi da Craxi di atlantico. Tutto ciò non senza ri- ampliare i margini di flessibilità percussioni sulle dinamiche po- della Nato si scontrarono però litiche italiane e nonostante le con la rigidità sovietica: il presiproteste inscenate contro l’in- dente del Consiglio italiano, non stallazione delle nuove armi, a a caso, era rimasto negativamencui non furono immuni neppure te sorpreso dalla chiusura oppoaltre nazioni dell’Europa occi- sta da Andropov alla disponibilidentale. Complessivamente, la tà di Reagan di attestare il diposizione di prima fila assunta spiegamento dei missili alleati al dal nostro paese sulla vicenda di sotto del tetto stimato di 420 degli euromissili coincise con un testate degli SS-20, rinunciando rinnovato attivismo in politica a controbilanciare per intero lo estera, scandito anche dalla par- schieramento sovietico, posto che


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Massimo Amorosi

tale proposta era per Mosca senza dubbio più attraente della cosiddetta “opzione zero” precedentemente formulata dal presidente americano. Quest’ultima richiedeva lo smantellamento totale degli SS-20 in cambio della rinuncia a dispiegare i Pershing e i Cruise. Anche in quell’occasione, la dirigenza sovietica rimase arroccata sulla richiesta del pareggio dei vettori sovietici con i sistemi nucleari posseduti da Parigi e Londra. Le esternazioni di Craxi a Lisbona (in cui dichiarò che “i missili francesi e inglesi non sono sulla Luna”) miravano proprio a persuadere i sovietici a rinunciare alla loro linea pregiudiziale e a negoziare con la Nato un equilibrio concordato delle forze di teatro al più basso livello possibile, laddove l’obiettivo principale restava quello di pervenire all’“opzione zero” se Mosca si fosse convinta che le armi nucleari francesi e britanniche dovessero essere annoverate in sede di trattative fra le armi strategiche. Solo allora gli alleati avrebbero proceduto a sospendere lo schieramento programmato dei missili. La ragionevole mossa del leader socialista non era d’altronde in contraddizione con l’interesse occidentale di scongiurare il rischio che il conteggio dei sistemi franco-britannici avvenisse in relazione alle trattative sulle forze intermedie. Sul punto, va ricordato che l’impostazione di Mosca, ribadita anche da Breznev nel 1980, era quella di ritenere che le forze nucleari francesi e

britanniche avessero natura strategica e non dovessero quindi essere comprese nei negoziati sulle forze di teatro, posizione tuttavia radicalmente capovolta due anni più tardi da Andropov. Alla fine, quelle dichiarazioni, con cui Craxi da un lato ritagliava all’Italia uno spazio di manovra nei rapporti fra est e ovest e dall’altro cercava di far emergere palesemente a quale parte erano da imputare le responsabilità per lo stallo nelle trattative, risultarono il vero punto di inizio dell’Ostpolitik del governo a guida socialista, le cui premesse erano state precedentemente gettate dall’esecutivo presieduto da Cossiga con la fondamentale apertura ad accogliere le sollecitazioni del cancelliere Schmidt sull’opportunità di non lasciare sola la Germania federale nel dislocamento dei missili. Un’iniziativa tattica e ben ponderata quella di Craxi ma che non riuscì ad aprire un varco nel muro opposto dai sovietici. Fra il marzo e l’aprile del 1984, i primi Cruise infatti sarebbero stati operativi nella base di Comiso. L’Autore massimo amorosi Analista strategico-militare, ha collaborato con il ministero degli Esteri e la commissione Difesa del Senato. Ha scritto, con Germano Dottori, La Nato dopo l’11 settembre. Stati Uniti ed Europa nell’epoca del terrorismo globale (Rubbettino). Collabora con riviste di geopolitica e analisi militare.

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QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a John Hulsman

La politica per l’Europa

La più bella vittoria di Ronald Reagan Mai presidente americano fu così sottovalutato e incompreso dagli europei. Eppure fu proprio Ronald Reagan a intuire prima di tutti che l’Unione Sovietica, nonostante gli sfoggi di forza, era ormai alle corde. E fu lui a dare la spallata definitiva ad un sistema ormai marcio. INTERVISTA A JOHN HULSMAN DI BARBARA MENNITTI 69

Quella della Guerra Fredda è stata per Ronald Reagan una “splendida vittoria geostrategica”, ottenuta, per di più, in modo relativamente pacifico e senza ricorrere all’uso delle armi nucleari. Questo è il maggior successo della presidenza Reagan in politica estera secondo John Hulsman, uno dei più autorevoli esperti di relazioni fra Stati Uniti ed Europa. Attualmente senior research fellow del Centro di studi strategici de l’Aia, Hulsman si è occupato, fra l’altro, di relazioni internazionali per l’Heritage Foundation a Washington, ha insegnato Studi sulla sicurezza europea alla Scuola di studi internazionali avanzati Johns Hopkins. È anche autore di numerosi saggi di natura geopolitica, fra i quali ricordiamo Ethical Realism:

a vision for America’s role in the world. Il presidente Reagan ha dedicato tempo e sforzi all’Europa. Durante la sua presidenza, infatti, il nostro continente era lo scacchiere sul quale si decidevano gli equilibri e i rapporti di forza globali. Come descriverebbe la politica europea di Ronald Reagan?

Il presidente Reagan è stato sotto molti aspetti una rivelazione. Le sue capacità politiche sono state molto sottovalutate, gli europei sembrano considerare stupidi tutti i presidenti repubblicani, Ford, Nixon, Eisenhower. Questa è un difetto di analisi terribile, perché, comunque si valuti la sua politica – e io la valuto molto positivamente – , il presidente Reagan è stato uno dei presidenti più efficaci che si possano imma-


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ginare. In realtà Ronald Reagan era un grande giocoliere, questo è uno dei principali segreti della sua politica. Intanto è stato molto più duro con l’Unione Sovietica dei suoi predecessori. Egli lavorò su due livelli: da una parte lasciò in piedi gli accordi che già esistevano, continuando a dialogare e cercare un terreno d’intesa con i sovietici; dall’altra, nei discorsi pubblici, ha sempre evidenziato che esistevano delle differenze morali fra l’Occidente e il mondo comunista, che nonostante tutti i suoi difetti, quello occidentale era un sistema di gran lunga migliore e in questo modo dava speranza a tutti i dissidenti sparsi per l’Europa orientale. Riteneva anche che fosse molto importante coinvolgere gli alleati, perché, per quanto forti e potenti siano gli Stati Uniti, non potevano vincere la Guerra Fredda da soli. Quindi il presidente aveva due immagini fra loro contrastanti, da una parte estremamente duro e dall’altra molto pragmatico. Il suo slogan era “Trust, but verify”, come dire: «Presidente Gorbaciov è bellissimo sentirle dire queste cose, ma bisogna verificarle». Questo miscuglio di pragmatismo e di idealismo è stata la grande peculiarità di Reagan ed ha funzionato in maniera straordinaria. Infatti in Europa tutti ricordano il famoso discorso del 1987 davanti al Muro di Berlino, quando il presidente Reagan esortò il suo omologo sovietico Gorbaciov a “buttare giù questo muro”. Molti ritengono che quello sia stato il punto di

non ritorno che ha segnato la vittoria contro “l’impero del male” dell’Unione Sovietica. Qual è la sua opinione?

Questo è l’esempio perfetto di come Reagan riusciva ad essere pratico e simbolico allo stesso tempo. Quando Gorbaciov arrivò al potere in tutto il mondo scoppiò la Gorbymania. Se finalmente i sovietici avevano un leader non criminale come Stalin, si pensava, forse significava che quel sistema si stava evolvendo. Il presidente americano, invece, riteneva che si trattasse di un ottimismo anche un po’ pericoloso e lo espresse nel famoso discorso. Lì è entrato davvero in gioco l’attore hollywoodiano! Si può immaginare uno scenario migliore di quello? Il Muro alle spalle, Reagan lo guarda, lo indica e dice: «Presidente Gorbaciov, se sei così bravo, vieni qui e buttalo giù». È un ottimo esempio di quanto dicevo prima. Dal punto di vista pratico, Reagan sapeva che l’Unione Sovietica barcollava e che, dopo il grande azzardo della guerra allo spazio, Gorbaciov aveva spiegato ai suoi colleghi anziani che non si potevano più spendere soldi per stare al passo con gli americani. Quindi si esercitava pressione sui sovietici sia concretamente che simbolicamente con il discorso del Muro. In questo modo Reagan è riuscito a conciliare le spinte idealiste della politica estera americana, in un certo senso la visione wilsoniana, con la visione più realista, la Realpolitik di Kissinger, Nixon e Eisenhower. E il grande fascino di Reagan è stato proprio quello di mettere insieme


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queste due forze, che prima di lui nessuno era riuscito a coniugare. Alcuni critici, invece sostengono che l’Unione Sovietica era comunque un sistema marcio che sarebbe crollato da solo.

Ma questa è la visione deterministica del mondo, che è semplicemente il modo in cui funziona la storia. Il sistema era marcio, ma qualcuno doveva dargli la spinta. Visto che la porta era marcia, Reagan ha dato la spinta. Ha capito che l’implosione relativamente pacifica di una superpotenza che aveva assassinato la sua stessa gente si poteva raggiungere senza ricorrere alle armi nucleari. Che splendida vittoria geostrategica! E proprio perché è andata a finire così bene, è molto facile dopo dire che doveva finire per forza così. Ma la storia non funziona così, non ci sono cose che devono succedere per forza. Servono persone per fare la storia e il presidente Reagan lo ha capito e ha fatto la storia. L’Europa era importante solo per la Guerra Fredda?

C’erano ovviamente anche altre ragioni. Per il Partito repubblicano l’economia è estremamente importante e l’Europa era e rimane il principale investitore straniero negli Stati Uniti, quello con cui abbiamo i legami commerciali, politici e militari più stretti. Reagan però rintracciava un ulteriore livello: i paesi dell’Europa occidentale erano democratici, applicavano lo Stato di diritto, credevano nei diritti

umani fondamentali. Vedeva che avevamo dei legami concreti, ma anche dei legami morali e tutti andavano nella stessa direzione. Quindi, è vero, l’Europa era importante per motivi geostrategici, ma Reagan apprezzava e giudicava importanti anche questi legami morali. Le faccio un esempio: durante l’attentato dell’11 settembre 2001 ero a Washington, alla Heritage Foundation, e ricordo che, dopo aver parlato con i miei colleghi democratici della Brookings Institution, istintivamente ho chiamato i miei amici in Europa. Ero sotto shock, non avevo avuto il tempo di pensare, ma la mia reazione istintiva è stata quella di parlare con gli europei per scambiare alcune opinioni: abbiamo gli stessi valori e abbiamo lavorato insieme per sessant’anni. Non abbiamo questo rapporto con nessun altro al mondo. C’era qualche politico italiano con cui Reagan aveva un rapporto particolare?

Nessuno in particolare. Reagan apprezzava molto come l’Italia aveva fronteggiato il terrorismo negli anni Settanta ed era molto difficile perché si trattava di un terrorismo interno, come in Germania. La complessità della politica italiana forse si è tradotta nel lavorare pragmaticamente con tutti. Ma Reagan ha fatto nascere l’idea che la destra europea doveva farsi avanti e parlare con una sola voce, unificando i valori e i mercati e spiegando che le due cose andavano insieme. Ed era costantemente alla ricerca di perso-

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ne in Europa che condividessero questa visione. Un’eredità che ha lasciato ai repubblicani. Reagan è stato importante anche per la modernizzazione della destra italiana, che grazie a lui ha iniziato a incorporare alcuni elementi di liberismo e liberalismo. Ricordiamo che la destra del nostro paese proveniva dal fascismo, aveva dei retaggi di antiamericanismo ed era in gran parte centralista anche in economia.

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Sì, certo. Il presidente Reagan pensava che fosse ora di cambiare pagina e di mettersi a costruire una nuova destra in Italia, che si basasse sui valori, sui mercati, sulla libertà individuale, sulla imprenditorialità, sui diritti umani, sulla sacralità del lavoro e degli sforzi individuali. E questa può essere una cosa emotivamente e moralmente molto positiva, soprattutto per un paese come l’Italia, dove, come lei diceva, la destra aveva sofferto il fascismo. Era un meraviglioso salvagente per gli europei superare la storia e guardare alle cose che univano la destra in un modo ideologicamente coerente. E anche in grado di attrarre consensi. La sensazione è che oggi l’Europa abbia perso il suo ruolo centrale nella politica estera americana. È così? E perché?

Sì, non c’è dubbio che sia così. Di solito i presidenti americani si dedicano alla politica interna prima delle elezioni di mid term, anche Reagan ha operato i tagli fiscali e i grossi cambiamenti nei primi tre anni e poi si è dedicato alla Guerra Fredda. Seguirà que-

sto modello anche il presidente Obama, ma non guarderà all’Europa, questa è la differenza. Rivolgerà la sua attenzione ai paesi del Bric, all’India, alla Cina, al processo di pace in Medio Oriente (e noti bene cosa non sto menzionando) e questo è un allontanamento definitivo. Dopotutto Obama, al contrario di altri presidenti, non ha legami diretti con l’Europa. La Cina diventerà, dunque, sempre più importante, così come il cerchio dell’Oceano Indiano. I legami con l’Europa si allenteranno, ma non è detto che sia una catastrofe. L’Europa è il primo investitore straniero negli Usa e lo rimarrà fin quando è dato di prevedere, la Nato rimarrà l’alleanza più forte del mondo, abbiamo collaborato per sessant’anni e nessuno vuole buttare il bambino con l’acqua sporca. Credo che sia molto importante credere nell’eredità del transatlantismo, perché se è vero che la Cina e il cerchio dell’Oceano indiano diventano importanti, noi continuiamo a contare sulle relazioni transatlantiche che restano la fonte principale di forza e di sostegno e di influenza per gli Stati Uniti. Quindi sbaglia chi in Europa teme che si instauri una relazione privilegiata fra Usa e Cina, il cosiddetto G2, che finisca per escludere tutti gli altri paesi?

Sì, penso che sia un timore esagerato. Probabilmente la popolazione cinese diventerà vecchia prima di diventare ricca e probabilmente nel 2020 gli imprenditori indiani avranno superato i cinesi, e


QUEL CHE RESTA DI REAGAN intervista a John Hulsman

questo già archivia il G2. E comunque sarebbe una cosa che taglierebbe fuori l’Europa, il Brasile, il Sudafrica, la Turchia e il resto del mondo. Non è così facile. Certo, la Cina sta crescendo e sarà una grande potenza e gli Usa dovranno occuparsi di lei. Ma concentrarsi sulla Cina dimenticando il resto del mondo sarebbe una politica estera stupida. Ma alla fine, qual è secondo lei il maggior successo della vita politica di Ronald Reagan?

In realtà la guerra fredda fu vinta da due presidenti che compresero alcune cose fondamentali. Entrambi provenivano dal Midwest e non è stata loro riconosciuta alcuna gloria intellettuale, pur avendo passato la vita intera a preoccuparsi del mondo: sto parlando di Harry Truman e Ronald Reagan. I due capirono in che direzione stava andando la storia. Ma la storia non sarebbe andata in quella direzione se non ci fosse stato qualcuno a spingerla in quella direzione. Entrambi riuscirono a creare un saldo fronte contro la Guerra Fredda. Truman riuscì a mettere d’accordo destra e sinistra politica, mentre Reagan mobilitò l’opinione pubblica, spingendo i cittadini a chiedere politiche più dure. Oggi molti lo hanno dimenticato, ma questi due presidenti si sono rimboccati le maniche e sono riusciti a far trionfare la politica estera americana. E Ronald Reagan è quello che ha messo fine alla Guerra Fredda, dando la spallata alla porta marcia e facendola crollare.

L’intervistato

john hulsman Senior research fellow presso il Centro di studi strategici de l’Aia e membro permanente del Council on Foreign Relations, John C. Hulsman è presidente e cofondatore della John C. Hulsman Enterprises, azienda di consulenza sui rischi politico-economici nel campo delle relazioni internazionali. è stato Senior research fellow in relazioni internazionali presso l’Heritage Foundation e fellow in studi europei presso il Centre for Strategic and International Studies a Washington. Ha insegnato Studi sulla sicurezza europea presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies e Politica mondiale e Politica estera americana presso l’Università St. Andrews in Scozia. Commentatore ed editorialista per testate ed emittenti televisive internazionali, ha all’attivo diverse pubblicazioni, fra cui Ethical Realism: a Vision for America’s Role in the World (2006), The Godfather Doctrine: a Foreign Policy Parable (2009), To Begin the World over again; Lawrence of Arabia, from Damascus to Baghdad (2009).

L’Autore barbara mennitti Direttore responsabile di Charta minuta. Giornalista, è stata direttore del quotidiano online Ideazione.com. Collabora con Ffwebmagazine.

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QUEL CHE RESTA DI REAGAN Paolo Quercia

Dottrina Reagan

Idealismo e realismo per la politica estera Abbandonando la fase di contenimento dei realisti, l’Amministrazione Reagan inaugurò un nuovo approccio alla politica estera, basato sull’obbligo strategico e morale del roll-back del comunismo dal sistema internazionale. DI PAOLO QUERCIA

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«Mr. Gorbaciov, raggiungici a questa porta. Mr Gorbaciov, aprila! Mr. Gorbaciov butta giù questo muro!». Così, il 12 giugno 1987 Ronald Reagan si rivolgeva dalla Porta di Brandeburgo al segretario generale del Partito comunista sovietico di fronte ad una folla di 50mila persone. All’apogeo della Guerra Fredda il presidente della maggiore potenza mondiale parlava dal confine di quello che lui stesso aveva definito essere “l’impero del male” e gettava il guanto di sfida finale oltre la cortina di ferro. Due anni dopo la storia gli avrebbe dato ragione, anche se la Porta di Brandeburgo non sarebbe stata aperta per una decisione politica del Cremlino, bensì avrebbe ceduto sotto la pressione delle masse popolari dell’Europa dell’est la cui voglia di libertà e di benessere non poteva più essere arrestata

dalle guardie di frontiera e dal filo spinato. Il modello comunista dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti era giunto al collasso, imploso sulle sue drammatiche contraddizioni interne provocate dalla sfida globale mossagli dagli Stati Uniti del presidente Reagan. Ma se il fatidico ‘89 giunse proprio nel 1989, e non dieci dopo o addirittura mai, si deve riconoscere che gran parte del merito politico proprio al presidentecowboy e a quella che molti hanno voluto chiamare Dottrina Reagan nelle relazioni internazonali, ma che in realtà rappresenta l’applicazione coerente e costante di un misto di idealismo e realismo e che può essere definito come una geopolitica dell’ideologia. Sostituire la dottrina realista del contenimento dell’impero sovietico con una strategia globale di contrasto attivo alla minaccia in


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espansione del comunismo inter- estera statunitense, per vincere la nazionale ha rappresentato una Guerra Fredda era necessario indelle più significative attualizza- cludere, trasformandoli ed insezioni portate da Reagan alla poli- rendoli in una visione coerente ed tica estera statunitense. Il presi- il più possibile onnicomprensiva, dente Usa ha avuto il grande me- tutte le principali forze vive che rito storico di capire che gli anni nella società americana sottendoOttanta sarebbero potuti essere no alla politica estera Usa, legangli anni del potenziale collasso dole nello sforzo di vincere il del sistema imperiale sovietico e grande impero del male, garantiche, per favorire questo processo, re allo stesso tempo gli interessi era necessario portare la sfida nazionali di sicurezza e, nel perseideologica su ogni quadrante guire questo grande disegno di geopolitico, dall’America Latina sicurezza e libertà, aprire le porte all’Africa, all’Asia, all’Europa del mondo “liberato” al sistema orientale. La politica estera di economico americano. Ciò è stato fatto da Ronald Reagan si è fondaReagan a partire da ta e realizzata sulla La politica estera un approccio polifusione e sulla tico di destra soideologizzazione di Reagan si fonda stanzialmente di due concetti sulla fusione dell’idea jacksoniano, caratimportanti nel siterizzato da un pas t e m a p o l i t i c o di libertà con quella triottismo popolaamericano, quello della sicurezza re di massa, tendi libertà e quello di sicurezza. La grande operazio- denzialmente scettico ed isolazione culturale negli anni Ottanta nista e che lascia poche concessioreaganiani è stata quella di colle- ni alla politica estera, ritenuta gare in maniera stretta il rilancio spesso un intuile spreco di risorse dell’economia del paese, resa pos- senza un vero collegamento con il sibile da una politica economica benessere reale del paese. Era nedi ampie riduzioni fiscali, con la cessario, dunque, che Reagan conecessità internazionale di scon- struisse, in una situazione storica figgere la negazione di tale mo- favorevole, un grande nuovo disedello economico, ovverosia il co- gno di interventismo americano munismo internazionale. Il colle- che identificasse nella fase termigamento libertà economica inter- nale della Guerra Fredda una na-sicurezza internazionale non è nuova finestra di crisi/opportunimai stato così stretto come du- tà per gli Usa. Una nuova sfida rante la presidenza Reagan, come globale capace di spiegare alla naè dimostrato anche dall’impulso zione americana come fosse neregistrato in quegli anni nel set- cessario combattere il comunitore dell’industria di sicurezza e smo internazionale da Grenada difesa. E come spesso accade nella all’Angola, passando per il Nicapragmatica e mutevole politica ragua e l’Afghanistan e farlo non


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Paolo Quercia

tanto in nome degli interessi geo- del Terzo Mondo, portando al dipolitici o di un freddo realismo stanziamento dell’amministraziopolitico quanto piuttosto nel no- ne Reagan dal Cile di Pinochet, me dell’ideologia della libertà e dal regime sudafricano dell’apardella prioritarizzazione della si- theid o dalle Filippine di Marcos. curezza. Lo fece con il minimo ri- Naturalmente questi cambiacorso allo strumento militare di- menti non si sono verificati per il retto, con una grande corsa agli semplice effetto del reaganismo armamenti e con un ampio utiliz- in politica estera, ma sono anche zo del sostegno economico e poli- il prodotto necessario del diverso tico ai nemici regionali del suo contesto storico in cui si è trovato nemico strategico. Nel fare ciò ad agire il nuovo presidente ameReagan fa appello, in maniera ricano. Il suo predecessore Carter non priva di contraddizioni, ad doveva fare i conti, tra le altre couna dimensione morale della se, con l’eredità di una guerra anGuerra Fredda e alla necessità eti- ticomunista andata drammaticamente male, come ca di combattere il comunismo; e di Sacrificando il realismo fu il Vietnam, mentre Reagan combatterlo non poteva contare sul solo nel nome della all’ideologia e all’etica, rinnovato pericolo salvaguardia degli Reagan costruì sovietico dimointertessi di sicustrato dall’invasiorezza americani ma un nuovo approccio ne dell’Afghanianche dei diritti alla politica estera stan. Sacrificando dell’uomo, che vengono riscoperti e sottratti al una buona dose di realismo nel ruolo secondario in cui spesso ca- nome di una riscopertà del ruolo dono quando prevale un approc- dell’ideologia e dell’etica americio puramente realista alle rela- cana nelle relazioni internazionazioni internazionali. Interventi- li, Reagan costruirà progressivasmo militare, ideologia della li- mente, sullo sfondo del declino bertà, realismo etico, patriotti- dell’impero sovietico, un nuovo smo economico sono tutti ingre- approccio alla politica estera badienti che conflusicono nella po- sato sull’obbligo strategico e molitica estera americana dell’era rale del roll-back del comunismo Reagan. Questa politica ha com- dal sistema internazionale, abportato anche la necessità di com- bandonando la fase del conteniepiere scelte innovative rispetto al mento realista. La teoria dell’otpassato. L’aver ridato particolare tenimento della pace attraverso la valore ai diritti dell’uomo nelle forza era un concetto che poteva scelte fondamentali di politica essere venduto bene ad un’Ameestera su scala globale implicava rica che vedeva avvicinarsi l’opanche un certo necessario revisio- portunità di usare vantagiosanismo di alcune relazioni statuni- mente l’eccesso di forza della sutensi con molti regimi autoritari perpotenza mondiale americana

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nelle aree periferiche ma strategi- l’etica della libertà della nazione che di un impero sovietico in ne- americana, portando la destra cessario declino. Un declino se- americana ad assumersi l’onere gnato dal fallimento del modello delle grandi sfide globali, dimosociale ed economico sovietico strando agli americani che poteche era de facto già stato sconfito vano vincere perché erano più fornei decenni precedenti, ma che ti. Ed erano più forti perché erano restava in piedi grazie al più este- più liberi. L’Unione Sovietica so ed efficace sistema di oppres- non fu sconfitta in una disastrosa sione dei diritti dell’uomo. Rea- guerra, ma in una campale sfida gan si accorse che i tempi erano ideologica per i cuori, le menti ed maturi per osare di più e per rive- il benessere materiale. La corsa dere il classico atteggiamento agli armamenti rappresentò solo conservatore degli Stati che tradi- il terreno in cui dimostrare l’inzionalmente sono portati a teme- capacità del modello totalitario re il vuoto e preferiscono spesso il sovietico di poter produrre più potenza di quanta peggiore dei regipotesse essere gemi al rischio di in- Reagan identificò nerata da quella serire anarchia e caos nel sistema nella sfida al comunismo frazione minimale delle proprie risorinternazionale. Fu un possibile riscatto se che uno Stato lilo stesso principio berale e minimo di effettività che, per gli Stati Uniti dedicava alla comnello stesso tempo dopo il Vietnam petizione militare, in cui veniva portata la sfida finale all’impero so- lasciando nel contempo godere ai vietico, spinse l’amministrazione propri cittadini le massime liberReagan ad abbandonare ogni vel- tà politiche ed economiche. Coleitario sostegno a Taiwan e ad af- me ogni grande presidente amefrontare politicamente il rapporto ricano riuscì a cogliere lo spirito con la Cina comunista, ove si recò dei tempi e a mescolare nelle giuin una storica visita nel 1984. ste dosi quegli elementi fondaReagan non fu dunque un falco mentali di ogni politica estera, dell’anticomunismo globale, ma realismo, idealismo, potenza miil grande sfidante del comunismo litare, tensione morale, forza ecosovietico nel cui declino identifi- nomica, soft power. Sarà sempre ricò la possibilità di riscatto degli cordato come the man who beat Stati Uniti d’America dopo communism e, come spesso accade, l’esperienza della tragica guerra la sua esperienza politica è irripedel Vietnam e l’affermazione del tibile, perché irripetibile è la fase modello sociale ed economico storica in cui essa è maturata. Anamericano da lui rilanciato in pa- che se ancora oggi nella politica tria. Per vincere la sua Guerra americana continuano ad usarsi le Fredda aveva bisogno di coniuga- etichette di reganiano o di antire il realismo dei conservatori con reganiano, nessuno dei presidenti


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Paolo Quercia

successori, che hanno tutti costruito le proprie fortune o sfortune proprio sul mondo reso possibile dalla vittoria dell’America di Reagan sul comunismo sovietico, ha seguito l’esempio tracciato da Ronald Regan. Non furono reganiani Bush senior e Bill Clinton, presidenti degli anni Novanta ossessionati dalla supremazia americana e desiderosi di esportare, anche con il ricorso alla forza militare, il sistema liberal-democratico, costruire un proprio nuovo ordine internazionale, detronizzare un tiranno infedele, proteggere una selezionata e privilegiata minoranza nazionale. Tutto ciò in assenza di un grande nemico strategico capace di minacciare interessi vitali americani e che solo avrebbe potuto dare un senso di necessità etica superiore o di interesse strategico nazionale a quel specifico regime change, alla caduta di quello specifico tiranno, alla protezione di quella specifica minoranza. Ma non fu reganiano neanche George W. Bush, il presidente dell’11 settembre, che tentò di giustificare e di riattualizzare l’interventismo militare degli anni Novanta con la nuova pallida veste di guerra globale al terrore. Potrebbe paradossalmente dimostrarsi più reganiana delle precedenti la fin qui scialba e confusa presidenza Obama, soprattutto se la svolta a destra nelle ultime elezioni di midterm produrrà cambiamenti siginficativi nella linea politica del presidente Usa. Non vivono oggi gli Usa né le sfide strategiche bipolari degli anni Ottanta, né le apparenti vi-

sioni di onnipotenza unipolare degli anni Novanta, né il drammatico mondo asimmetrico del post 11 settembre. Vivono però una nuova fase di potenziale declino del ruolo americano nel mondo, in cui nuove potenze emergenti o di ritorno contestano da più parti il primato geopolitico statunitense. Anche questa è una sfida strategica che merita una ricomposizione della forza e delle potenzialità della società americana in un’unica visione coerente che riesca a contribuire alla creazione di un sistema internazionale. Un sistema che sia basato sul bilanciamento dei rapporti di forza tra Occidente e mondi emergenti piuttosto che sul declino del primo a beneficio dei secondi, lungo il piano inclinato di un mondo piatto. È una sfida reaganiana per un presidente democratico.

L’Autore paolo quercia Analista di relazioni internazionali ed esperto di questioni di sicurezza. Consulente del Centro alti studi di difesa, è responsabile degli Affari internazionali della fondazione Farefuturo.

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QUEL CHE RESTA DI REAGAN Michele Trabucco

I rapporti con il Vaticano

Due uomini con un solo obiettivo

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onald Reagan e Giovanni Paolo II si trovarono accanto a fronteggiare lo stesso avversario: il comunismo sovietico. Due protagonisti a cui la storia ha dato ampiamente ragione. DI MICHELE TRABUCCO 81

Dicono che fosse stato colpito molto positivamente fin dalle prime immagine viste in tv durante la visita pastorale in Messico nel 1979, con le sue forti parole contro la teologia troppo vicina al marxismo. Lo aveva capito dalle sue origini e dalla sua esperienza personale, imbevuta della storia di un popolo scalpitante di riottenere la libertà dal giogo sovietico. Lo aveva intuito dalle violente reazioni della nomenklatura russa il giorno della sua elezione al soglio di Pietro. L’allora governatore della California Ronald Reagan, poi futuro presidente degli Stati Uniti d’America, ebbe fin dall’inizio una particolare sintonia con il papa “venuto da lontano”, Gio-

vanni Paolo II. Entrambi si trovarono, senza un piano prestabilito e programmato, a combattere lo stesso nemico: il sistema comunista sovietico. Entrambi si trovarono sulla stessa lunghezza d’onda nel cercare tutti i mezzi leciti per abbattere quel regime. Entrambi si smarcarono l’un l’altro nel momento di portare avanti le proprie idee, in nome dei rispettivi popoli: quello americano e quello di Dio. Per motivi diversi, entrambi ebbero una visione che si potrebbe dire profetica della storia, avendo visto e combattuto fin dall’inizio del loro rispettivo mandato quell’iniqua e assurda impalcatura ideologica che aveva creato tanta sofferenza e ingiustizia. Così negli anni Ot-


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tanta ci furono momenti in cui il la libertà, per il cuore della sua presidente Reagan e papa Wojty- gente, ma non per quello di chi la si trovarono alleati e conver- la governa. Noi auspichiamo un genti e altri in cui furono distan- processo di riconciliazione e riti e diversi. Certamente furono i forma che faccia sorgere una nuodue uomini che, più di altri, va alba per il popolo polacco». contribuirono al collasso del- Cooperarono veramente? l’Unione Sovietica, ed effettiva- Dal 1981 al 1989, vi fu una cermente furono complici: una for- ta, indiretta cooperazione fra Cia tuna per decine di milioni di cat- e Vaticano per proteggere la distolici oppressi al di là della Cor- sidenza in Polonia. Questo è tina di Ferro, e non solo per loro. quanto si deduce dalle testimoLa terra natale del papa, la Polo- nianze raccolte dal giornalista nia, fu il principale terreno d’in- statunitense Peter Schweizer. contro tra “i due imperi paralle- Appena insediatosi alla Casa li”, così come Massimo Franco li Bianca, Reagan si convinse che sarebbe stato Gioha definito nel suo vanni Paolo II a ultimo libro . Reagan era convinto determinare il fuLa politica estera turo della Polonia. di Reagan e quel- che Giovanni Paolo II Lo aveva intuito la di Giovanni sarebbe stato per vari motivi: Paolo II si incontrarono ufficial- determinante nel futuro vedendo milioni di polacchi che mente il 7 giugno della Polonia erano accorsi ad 1982, quando Reagan ebbe udienza dal Papa e accogliere il pontefice nel corso una politica comune nei confron- della sua prima visita oltre-cortiti della Polonia fu, in un certo na, ascoltando il discorso del pasenso, formalizzata. Il vicesegre- pa in Messico contro la teologia tario di Stato William Clark della liberazione (la branca della espose ai funzionari del Vaticano Chiesa più vicina al marxismo quale fosse la linea politica uffi- che in Nicaragua appoggiava il ciale statunitense nei confronti regime comunista e nel Salvador del regime di Varsavia: fermezza era dalla parte della guerriglia finella condanna della repressione, losovietica) e soprattutto leggenma mantenimento di un canale do le pubblicazioni cariche di di trattativa aperto, per evitare odio nei confronti del Vaticano che Jaruzelski si spingesse ulte- che venivano diffuse dal regime riormente nelle braccia dell’Urss. sovietico, come il pamphlet Al Una politica che era stata ben servizio dei neofascisti, diffuso in sintetizzata da Reagan nella sua Ucraina, che attaccava frontaldichiarazione rilasciata il 7 giu- mente il nuovo pontefice con pagno 1982: «Attraverso secoli di role di fuoco e argomenti cospisofferenze, la Polonia è sempre rativi: «Revanscisti e nemici stata un bastione della fede e del- della democrazia e del sociali-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Michele Trabucco

smo guardano con speranza al ciò consentì a Reagan di superare nuovo papa per il suo sforzo di le ultime resistenze nel Congresriunificare i cattolici di tutto il so e quindi di acconsentire finalmondo in un’unica forza antico- mente all’invio di un ambasciamunista. E questo non è dettato tore in Vaticano». dall’ansia per il futuro dell’uma- Reagan arrivò alla Casa Bianca al nità, ma per imporre l’autorità culmine di un periodo di delusione della società americana, religiosa in tutto il pianeta». La storia delle relazioni diploma- sintetizzato dalla crisi della guertiche tra Santa Sede e Stati Uniti ra americana in Vietnam e dallo d’America a partire dalla fine del smacco del rapimento dei cinXVIII secolo è segnata da rap- quanta diplomatici dell’ambaporti conflittuali: amore e odio, sciata a Teheran, dando voce, in attrazione e indifferenza, stima e questo modo, al bisogno di una diffidenza. Due realtà che si cer- riaffermazione dei valori patriotcano e si studiano da lontano fino tici e di un rafforzamento degli Stati Uniti contro a incontrarsi defil’Unione Sovietica nitivamente con lo Fra i due uomini e il terrorismo instabilimento di reternazionale. lazioni diplomati- vi fu una convergenza Quando venne che al più alto li- oggettiva, eletto, l’attore di vello nel 1984, Hollywood pregrazie all’accordo non un’alleanza stato alla politica, tra Giovanni Paolo su un unico problema non aveva espeII e Ronald Reagan. In effetti il 1984 ha segnato rienza di politica estera, ma cerun momento particolare, dovuto tamente aveva già visto con i soprattutto alla volontà di questi suoi occhi la pressione intrusiva due grandi protagonisti del seco- dei sovietici nell’ambiente cinelo scorso. Secondo Massimo matografico americano e per queFranco «ci fu tra di loro una con- sto si era definitivamente convinvergenza oggettiva, non un’alle- to dell’aberrazione di tale sisteanza, sul problema del rapporto ma ideologico. con l’impero sovietico. In fondo, La sua elezione, e ciò che essa riReagan ha visto nel papa polacco chiama dal punto di vista dei una delle massime autorità mo- rapporti tra religione e politica, rali, in grado di incidere indiret- si inserisce in un contesto intertamente anche sul piano politico nazionale di risveglio religioso sulla caduta dell’impero sovieti- avvenuto nelle tre grandi religioco. Si è parlato di santa alleanza, ni monoteistiche. Nel 1977 in sebbene sia stata una santa alle- Israele i laburisti non riuscirono anza non “voluta” ma semplice- per la prima volta ad avere abbamente “accaduta”. Giovanni Pao- stanza seggi per formare un golo II e Reagan si sono trovati og- verno. Fino a quel momento lo gettivamente alleati. Certamente stato d’Israele si basava su valori

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IL PERSONAGGIO

Mio padre cento anni dopo 84

Il prossimo 6 febbraio cade il centesimo anno dalla nascita di Ronald Reagan. Per ricordare la figura dell’ex presidente, il figlio Ron ha scritto My father at 100, uno sguardo intimo e personale nella vita di uno dei più popolari presidenti della storia degli Stati Uniti d’America. Crescendo al fianco di un uomo così importante, Ron ha osservato le qualità che trasformano un uomo qualunque in un leader carismatico e amato. Dalle passeggiate a cavallo alle partite di football, dal cinema alla carriera politica, viene fuori un ritratto umanissimo di un uomo enigmatico, amato, che ha trasformato i dispiaceri e le tribolazioni dei primi anni in una lunga serie di successi irripetibili. Ron Reagan, poi, torna alle origini di quelle esperienze di vita che hanno costruito il patrimonio ideale e valoriale che sarebbe diventato la guida morale del Reagan presidente.

My father at 100 Ron Reagan Viking, 2011

laici e socialisti. Il potere passò al partito Likud che dipendeva dall’appoggio dei partiti rappresentanti il giudaismo ortodosso. L’elezione di Karol Wojtyla venne letta come un ritorno alla dottrina cattolica tradizionale, soprattutto sulla morale sessuale, con la lotta all’ateismo e tutto ciò che diminuiva la dimensione umana e religiosa dell’uomo. Durante il suo pontificato hanno avuto grande sviluppo e appoggio i movimenti carismatici, che volevano ripristinare nella società secolarizzata i valori cristiani. Anche nel protestantesimo ufficiale ci furono segni di rinnovamento. Già l’elezione di Jimmy Carter, un fervente battista, era in linea con questo revival, e lo stesso Reagan arrivò al potere con l’appoggio dei gruppi religiosi conservatori, che puntavano su di lui per ricristianizzare la società americana. La Moral Majority, fondata nel 1979, fu una società che concepì la sua missione come riscatto dell’America dalla depravazione dell’umanesimo secolare, della sregolatezza e del permissivismo sessuale. Il movimento incarnò la volontà di abbattere il “muro della separatezza” fra Chiesa e Stato. Reagan, però, dopo la sua elezione, da buon pragmatico, deluse le aspettative di questi movimenti e in qualche modo si rimangiò le sue promesse elettorali. Nel 1979, a seguito del crollo del regime dello scià di Persia, l’ayatollah Khomeini rientrò in trionfo a Teheran e proclamò la fondazione della repubblica isla-


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mica. Per quanto emblematico, le pervade la sfera pubblica, e si non fu un caso isolato. In Medio manifesta nelle ricorrenze del Oriente, in Asia e nell’allora Ringraziamento e del quattro luUrss si sviluppò un Islam politi- glio; in cerimonie come l’insecizzato in senso radicale. Esso ac- diamento di un nuovo presidencusava i regimi postcoloniali di te. In America la religione civile diffondere i valori degenerati fornisce un pacchetto di simboli dell’Occidente in nome di una che integrano una società differenziata geograficamente, etnicamodernizzazione. Il revival religioso-conservatore, mente e religiosamente. C’è una quindi, è avvenuto sullo sfondo varietà di fedi, di persone che di una crisi della modernità e cambiano più volte religione, codelle sue attese, e Reagan ne è sa che a noi sembra molto strana, ma che in America lo è molto stato uno dei segni. Non deve sorprendere, quindi, meno. C’è chi passa da una denocome la religione negli Stati minazione protestante a un’altra; oppure dal proteUniti occupi un stantesimo al catr u o l o c e n t r a l e , Negli Stati Uniti tolicesimo o anche probabilmente viceversa. La relimaggiore di quan- esiste, come dice Bell, gione è qualcosa to non ne abbia una “religione civile” che attraversa lo nella nostra Eurostesso tessuto giopa odierna. Secon- che impregna vanile della sociedo Bell, si parla tutte le istituzioni tà. Commenta piuttosto di una “religione civile”, nel senso che Franco: «La Chiesa cattolica impregna le istituzioni, e le im- guarda a questa realtà come a un pregna proprio per il fatto che possibile serbatoio di ispirazione, ogni religione è messa sullo stes- sebbene sappia bene che il cattoso piano e dunque garantisce e licesimo americano è imbevuto non limita la libertà. I suoi dog- di protestantesimo: estremizzanmi sono abbastanza generici: la do forse un po’, si può dire che i credenza in Dio, la credenza nel- cattolici statunitensi si sentono la vita dopo la morte e la convin- prima americani e poi cattolici». zione che la virtù sarà premiata e Guardando i discorsi di insediail vizio punito. Una società buo- mento dei presidenti, vediamo na si impegna anche a praticare come siano sempre impregnati di la tolleranza religiosa. Questa re- richiami religiosi, propri di una ligione civile pervade tutta la vi- religione civile, piuttosto che di ta pubblica che esiste indipen- una confessionale. La religiosità dentemente dall’appartenenza al- americana è davvero un formidale rispettive chiese. I cittadini bile catalizzatore delle differenze godono di libertà religiosa nella e fondamento dell’orgoglio paloro vita privata e nel loro impe- triottico. In effetti la nazione gno volontario. La religione civi- americana ha la speciale convin-

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zione e missione di liberare tutta perversità e inumanità. Era quinl’umanità dalla servitù – una di normale che tra i due si stabiconvinzione che aveva l’Inghil- lisse una giusta chimica e che terra ai tempi d’oro dell’impero. l’azione dell’uno influenzasse e L’America è la nuova Sion, il po- rafforzasse l’impegno dell’altro. polo eletto di Dio. Washington Come analizza bene George fu il Mosè che liberò il popolo Weigel nella sua preziosa biodalla schiavitù fino alla terra grafia di Giovanni Paolo II, Tepromessa. Lincoln è come Cristo, stimone della speranza, il Papa e il si è sacrificato per il bene di tut- Presidente condividevano alcune ti. Come Israele l’America gioca convinzioni. un ruolo decisivo nel piano divi- Entrambi credevano che il comuno di redenzione della specie nismo fosse un male morale, e umana. Questo tema risultò nel non solo un sistema economico discorso di Reagan del 1981, al sbagliato; entrambi avevamo ficulmine della Guerra Fredda ducia nella capacità degli individui liberi di sfidare contro quello che il comunismo; enlui stesso definiva Entrambi credevano trambi erano con“l’impero del mavinti che la lotta al le”. Sicuro che gli che il comunismo comunismo potesamericani godes- fosse un male morale, se sfociare in una sero di più libertà vittoria, e non di qualsiasi altro non solo un sistema semplicemente in popolo, Reagan economico sbagliato un compromesso; aggiunse: «Noi siamo una nazione che ha un go- entrambi, infine, avvertivano la verno – non come gli altri in gi- drammaticità della storia del tarro. E questo ci rende speciali fra do Novecento, e credevano che le nazioni della Terra». Su que- un messaggio di verità potesse sta visione semi-biblica della rompere l’equilibrio statico e famentalità americana, la politica sullo del comunismo e scuotere estera di Reagan divenne domi- la gente dal suo acquiescente stanata dall’anticomunismo, ri- to di soggezione. prendendo l’atteggiamento as- Per alcuni aspetti – in primo sunto dai suoi predecessori Tru- luogo per formazione e spessore man, Dulles e Kennedy, descri- culturale – sono quanto di più vendo l’Unione Sovietica come diverso si possa immaginare. Per “il focolaio del male nel mondo altri, sono sorprendentemente simili: grandi comunicatori, ex atcontemporaneo”. È certo che Wojtyla abbia com- tori, sportivi, fermi sostenitori preso appieno il significato del- delle proprie idee e convinzioni, l’anatema lanciato da Reagan bestie nere della sinistra mondiacontro l’impero del male sovieti- le. Presto sono accomunati da co, avendone sperimentato diret- una drammatica esperienza: a ditamente per più di 30 anni la stanza di un mese e mezzo, nel


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1981, sono vittime di attentati tutte le altre Nazioni affinché la che solo per miracolo non sorti- libertà venga salvaguardata e venga reso possibile il pieno sviscono effetti mortali. Probabilmente lo stesso papa po- luppo umano. Io ti saluto, o lacco aveva capito quale ruolo America bella!». Altre espressiofondamentale potevano svolgere ni, di quel viaggio del 1979, inla potenza e la forza degli Stati dicano la predilezione di Wojtyla Uniti. Forse non è un caso che a per questo popolo. A Chicago afpochi mesi dall’elezione egli fece ferma l’ammirazione per la capapraticamente il suo primo viag- cità di aver accolto ed integrato gio negli Stati Uniti, dopo quel- la diversità: «Nei primi due selo in Messico, che era già stato coli della vostra storia nazionale, programmato da Paolo VI. E si- avete compiuto un lungo camgnificative le prime parole pro- mino, sempre alla ricerca di un nunciate all’arrivo in terra statu- avvenire migliore, di una stabilinitense: «Oggi varco la soglia tà sicura, di un focolare. I vostri antenati arrivarodegli Stati Uniti, e no da molti diffedi nuovo saluto Il papa polacco aveva renti paesi attratutta l’America. verso gli oceani Perché questo po- compreso quale ruolo per incontrarsi polo, dovunque si potevano svolgere qui con popoli di trovi, occupa un diverse comunità p o s t o s p e c i a l e la potenza e la forza che si erano stabinell’amore del pa- degli Stati Uniti lite nel paese. Il pa... Desidero dire a ciascuno che il papa è vostro processo s’è ripetuto in ogni geamico e servo della vostra umani- nerazione: nuovi gruppi arrivano, tà». Nel suo saluto d’indirizzo ognuno con una storia diversa, e non nasconde ciò che ha nel cuo- si impianta qui diventando parte re e dichiara apertamente: «In di qualcosa di nuovo... E pluribus questo primo giorno della mia unum: voi siete diventati una visita desidero esprimere la mia nuova identità, un nuovo popolo, stima e il mio amore all’Ameri- la cui vera natura non si può ca, per l’esperimento iniziato due spiegare adeguatamente con la secoli fa e che porta il nome di semplice sovrapposizione delle Stati Uniti d’America; per le varie comunità. Perciò, guardanpassate realizzazioni di questa do a voi, io vedo il popolo che ha terra e per il suo impegno per un tessuto insieme il proprio destifuturo più giusto e umano; per la no e ora scrive una storia comugenerosità con la quale questo ne. Nonostante la vostra diffepaese ha offerto asilo, libertà e renza, avete deciso di accettarvi possibilità di miglioramento a l’un l’altro, qualche volta in moquanti sono approdati ai suoi li- do imperfetto e anche fino al di; e per l’umana solidarietà, la punto di assoggettarvi l’un l’alquale vi spinge a collaborare con tro a vari tipi di discriminazione;

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a volte solo dopo un lungo periodo di incomprensione e di rigetto; anche se ora andate sviluppando il senso della comprensione e dell’apprezzamento delle differenze reciproche. Questa è l’America nel suo ideale e nella sua decisione: “una nazione, sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”. Così è stata concepita l’America; questo è quanto essa è stata chiamata ad essere. E per tutto questo noi diciamo grazie al Signore». In quella lunga visita Giovanni Paolo II aveva colto i caratteri fondamentali di un popolo che davvero poteva assumere la missione di libertà e rispetto per tutti i popoli oppressi: «Saluto in voi l’intero popolo americano, un popolo che basa le proprie convinzioni di vita su valori spirituali e morali, su un profondo senso religioso, sul rispetto del dovere, e sulla generosità nel servizio all’umanità; nobili qualità che s’incarnano in modo particolare nella capitale della nazione, con i suoi monumenti dedicati a figure tanto rappresentative, come Giorgio Washington, Abramo Lincoln e Tommaso Jefferson». Non si può non pensare che queste parole siano state una indiretta, velata, ma altrettanto forte, richiesta d’aiuto e di collaborazione per le sorti del mondo afflitto dal male e dall’ingiustizia. Secondo l’ex consigliere nazionale alla sicurezza William Clark, Reagan e Giovanni Paolo II condivisero un’unità di intenti spirituali e un’unità di vedute sul-

l’impero sovietico: diritto e giustizia avrebbero infine trionfato nel piano divino. In questa prospettiva il papa polacco, pur riconoscendo l’unità di intenti per la lotta contro le situazioni di ingiustizia, non nascose la sua preoccupazione e anche contrarietà per la cosiddetta corsa agli armamenti: «Conosco e apprezzo gli sforzi compiuti da questo paese per la limitazione delle armi, soprattutto di quelle nucleari», ma disse anche che «ognuno è consapevole del terribile rischio che l’aumento di queste armi implica per l’umanità». Wojtyla era convinto che «come una delle nazioni più grandi del mondo», gli Stati Uniti avessero un «ruolo particolarmente importante nella richiesta di una maggiore sicurezza nel mondo e di una più stretta collaborazione internazionale». La sua speranza era che «gli Usa non cessassero di impegnarsi per ridurre il rischio di una fatale e disastrosa guerra mondiale, e di garantire una prudente e progressiva riduzione della forza distruttiva degli arsenali militari». Molte aspettative vennero riposte sulla capacità degli «Stati Uniti, grazie alla loro speciale posizione, di influenzare le altre nazioni ad unire i propri sforzi, in una continua azione per il disarmo». La caduta del Muro fece allontanare il rischio di una guerra mondiale e il diffondersi dell’ideologia comunista, ma da parte del papa polacco non si allentò l’attenzione per il perseguimento del bene comune, princi-


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pio supremo della dottrina cattolica, spostando così lo sguardo sul ruolo degli organismi internazionali e su quello che sarebbe diventato un nuovo fronte di lotta, seppur non così impegnativo e pericoloso come quello sovietico, delineato nella sua esortazione apostolica Ecclesia in America, nel 1999: «In America, come in altre parti del mondo, sembra oggi profilarsi un modello di società in cui dominano i potenti, emarginando e persino eliminando i deboli: penso qui ai bambini non nati, vittime indifese dell’aborto; agli anziani ed ai malati incurabili, talora oggetto di eutanasia; ed ai tanti altri esseri umani messi ai margini dal consumismo e dal materialismo. Né posso dimenticare il non necessario ricorso alla pena di morte, quando altri mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone». Per non parlare del «sistema noto come neoliberismo; sistema che, facendo riferimento ad una concezione economicista dell’uomo, considera il profitto e le leggi del mercato come parametri assoluti a scapito della dignità e del rispetto della persona e del popolo. Tale sistema si è tramutato, talvolta, in giustificazione ideologica di alcuni atteggiamenti e modi di agire in campo sociale e politico, che causano l’emarginazione dei più deboli. Di fatto, i poveri sono sempre più numerosi, vittime di determinate politiche e strutture spesso ingiuste». Certamente il contesto politico

ed economico americano e mondiale erano profondamente mutati. La fine della Guerra Fredda e dello scontro tra due blocchi avevano aperto nuovi scenari, e i protagonisti di questa svolta epocale non si erano più incontrati. «Le polemiche, le accuse, le calunnie, gli attacchi con i quali sono stati bersagliati – commenta Franco Oliva su Ideazione del giugno 2004 – questi due grandi protagonisti della storia del XIX secolo, in buona o cattiva fede, nel corso della loro azione non hanno lasciato traccia. La Storia ha dato loro ragione e li ha premiati con una tale ampiezza di consenso, simpatia e affetto che ha spiazzato e imbarazzato anche i loro più indefessi detrattori».

L’Autore Michele trabucco Giornalista free lance, laureato in Teologia e in Scienze dello sviluppo e della cooperazione internazionale.

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E la destra italiana incontrò la modernità

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in dai primi anni Ottanta, la destra politica italiana aprì un confronto con le istanze liberali ed euroatlantiche provenienti da America e Inghilterra. Un percorso lungo e ragionato che ha plasmato le idee della destra di oggi. 91

DI ALDO DI LELLO

Via Milano, redazione del Secolo d’Italia, un giorno imprecisato del 1983. Sono sceso in tipografia, insieme con altri giovani redattori della “nidiata” del grande Alberto Giovannini per seguire l’impaginazione del giornale. A quel tempo, anche se le vecchie, gloriose linotype erano andate in pensione, una parte della composizione avveniva ancora manualmente. Faccio il praticante al servizio esteri. Sul pannello luminoso dove viene realizzata graficamente la pagina è appoggiata una foto di Reagan. È a due colonne, né grande né piccola. Sono mesi importanti e delicati. In Europa, governi e parlamenti so-

stengono il programma difensivo contro gli SS-20 sovietici. Ma l’opinione pubblica è divisa. E i negoziati di Ginevra non decollano. In Urss, la misteriosa “influenza” di Andropov lascia immaginare una complessa lotta per il potere all’interno del Politburo. E la circostanza crea apprensione. Perché non si sa chi effettivamente comandi a Mosca. Si temono i possibili colpi di coda di un potere in crisi. Il Msi-Dn sostiene convintamente le posizioni atlantiche. Non è una novità. Ma non è neanche ritualità. L’America di Reagan e dei repubblicani suscita consensi e accende speranze assai più dell’America di Carter e dei de-


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mocratici. Però la prospettiva ri- Thatcher. Non era solo la battamane essenzialmente quella della glia, vincente, sul comunismo. politica estera e non risultano Era anche e soprattutto un recucoinvolti altri piani “ideologici” pero di produttività e di effio storico-politici. Reagan è un cienza dell’economia occidentaformidabile campione dell’anti- le. Era il proletariato che scomcomunismo. Evviva. Però libera- pariva e diventava ceto medio. lismo fa sempre rima con capita- Era l’affermarsi della società dei due terzi (la netta maggioranza lismo. E tanto basta. «Ma perché, per un discorso di della popolazione se la passava Reagan così importante, mettete bene, e il resto aveva comunque una foto così piccola?». Nel pun- speranze di ascesa sociale). Era il to in cui impaginiamo la pagina ridimensionamento (al di fuori degli esteri si è avvicinato un al- però dall’Europa continentale) tro praticante. «Una foto a due del potere sindacale diventato colonne non mi sembra poi tanto potere conservatore. Era l’esplosione delle tecnopiccola», rispondo logie informatiun po’ infastidito Reagan e Thatcher che. E tante altre per il consiglio cose ancora. grafico non richie- avviarono un recupero Anche a destra, sosto. E poi, di ri- di produttività prattutto in vasti mando: «Senti un po’, mi dici perché ed efficienza economica settori giovanili, c’è voglia di guarti appassioni tanto in Occidente darsi intorno e di a Reagan?». La risposta è immediata: «Perché aprire le porte a quello strano quella è la mia destra». E poi gira vento di Ponente. Non si bene i tacchi e se ne va: un tipografo ancora che cosa sia, ma appare del’ha chiamato per risolvere un cisivo. In quegli anni, due giovaproblema insorto nella pagina da ni dirigenti nonché redattori anch’essi al Secolo d’Italia, Adolfo lui curata. Io torno a seguire l’impaginazio- Urso e Maurizio Gasparri, scrivone. La foto di Reagan è subito do- no a quattro mani un libro che fapo collocata nello spazio segnato rà discutere e avrà una discreta sul menabò. «La sua destra? circolazione nell’ambito della deMah!». Però comincio a grattar- stra giovanile. Si intitola L’età dell’intelligenza e reca il cubo di mi il mento. Negli anni successivi avrei com- Rubik in copertina. Non c’entra piuto sempre più spesso la stessa molto con il reaganismo in senso operazione. E con me tanti altri proprio, però ha comunque a che della mia generazione (altret- fare con il mondo di Reagan in tanti, per la verità, no). Qualco- senso lato, cioè con il nuovo mito sa di importante arrivava dagli della California di Silicon Valley, Stati Uniti di Reagan e dalla con la rivoluzione informatica, Gran Bretagna di Margaret con le nuove tecnologie in svilup-


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po. È una gigantesca onda che mento e dell’etica dell’istante avanza, che eccita l’immaginazio- (che hanno comunque contribuine e che conduce a domande e in- to, e non poco, a dettare lo stile di un’epoca). teressi nuovi. Quel libro svela uno sguardo in- Diciamo in generale che il dibatcuriosito e fiducioso alla moder- tito non approfondisce più di nità. E si tratta di una novità al- tanto il modello di destra che arl’interno di un mondo giovanile riva da Oltreoceano e da Oltreche troppo spesso osserva il mo- manica. Le motivazioni sono diderno con l’occhio cupo del tradi- verse. E riguardano innanzi tutto la fase particolare che sta vivendo zionalismo. Attenzione, non si poteva co- il Movimento sociale: sono gli ulmunque dire che il rapporto tra timi anni di Almirante e gli intedestra e modernità si fosse mai ressi risultano concentrati sulle interrotto. Ma diciamo che risen- prospettive future del partito. tiva molto della cultura del “ro- La difesa dello Stato sociale è del resto un punto fermanticismo delmo indiscusso e si l’acciaio” dei primi Il rapporto tra destra innesta nella tradecenni del ‘900. dizione del sindaNella cultura uffi- e modernità risentiva ciale del Msi, il molto del novecentesco calismo nazionale e della cultura sor“modernismo di ta intorno alla destra” si nutriva “romanticismo Carta del Lavoro di frequenti richia- dell’acciaio” del 1927, con numi alla storica iconografia futurista e al culto dei merosi e frequenti riferimenti almodernizzatori della prima metà la dottrina sociale della Chiesa. del secolo. Il resto era cronaca, Basterà dire che il Msi dà indicasuggestione del momento, curio- zione, insieme solo al Pci, di votare contro il taglio dei punti delsità e studi individuali. Il resto erano anche gli influssi la scala mobile in occasione del del “post-moderno”, una delle referendum del 1985. Non giureformule cult degli anni Ottanta, rei però sul fatto che, nel segreto che incontravi regolarmente ad dell’urna, gli elettori missini abogni capoverso di ogni dotto arti- biano massicciamente ed entusiacolo di quel decennio. Nella sua sticamente seguito le indicazioni applicazione migliore, il “post- dei vertici. moderno” era un modo per deco- C’è comunque da dire che, a ristruire le vecchie “metanarrazio- manere sostanzialmente refrattani” filosofiche (Lyotard) avviate al ria al verbo liberal-liberista è “modernariato”: o in vista di nuo- l’Italia politica in generale, almeve e più ragionevoli sintesi (che no nelle sue componenti ideoloperò non sono mai arrivate) op- gico-culturali egemoni. È refratpure, meno ambiziosamente, nel- taria l’Italia comunista, per ovvie la linea dell’estetica del fram- ragioni. È refrattaria quella de-

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mocristiana, egemonizzata dalle lievo è anche la collana di classici visioni culturali di sinistra quan- del pensiero liberale e conservatoto immemore dell’insegnamento re promossa dalla rivista fondata di Sturzo. È più incuriosita, ma da Domenico Mennitti. Penso, sempre e comunque distante, tra le altre, a opere come Storia l’Italia socialista, che tiene fermi i della libertà di Lord Acton e Risuoi stretti legami con la social- flessioni sulla Rivoluzione in Frandemocrazia europea. Qualcosa, da cia di Edmund Burke, oppure a quelle parti, comunque si muove, volumi più agili ma non meno almeno a livello culturale. E per formativi come Liberalismo di Aumerito soprattutto della rivista gust von Hayek, L’oppio degli inMondoperaio di Luciano Pellicani, tellettuali di Raymond Aron, Catun intellettuale che individua tolici e mercato, che reca un cartegnell’incontro tra liberalismo e so- gio tra Luigi Sturzo e Giorgio La cialismo una possibilità di rinno- Pira. Al dialogo tra cultura liberale e vamento per la sinistra europea. cultura conservaIn un modo o trice si dedica annell’altro, le parole Bisognerà attendere che la rivista Per“deregolamentacorsi, fondata nel zione” e “liberaliz- la metà degli anni 1997 da Gennaro zazione” sono co- Novanta affinché Malgieri. munque entrare in circuito. E qualche si consolidi l’evoluzione Ci sarebbero da citare altre esperiendibattito si produ- liberale della politica ze e altre iniziatice. Le idee del reave, ma credo di aver reso a suffiganismo vanno in incubazione. Bisognerà attendere la metà degli cienza l’idea di come, la vivacità anni Novanta, al termine di un culturale che si registra a destra e quinquennio di terremoti politici dintorni nella seconda metà degli nazionali e internazionali, affin- anni Novanta, porti a selezionare ché l’evoluzione in senso liberale e ad approfondire quanto di medella cultura politica della destra glio era rimasto, sul terreno della italiana si consolidi e si affermi, cultura politica, dopo il ritiro producendo i primi rilevanti ef- dell’onda reaganiana e dopo il cambio della guardia ai vertici fetti politici. È superfluo fare la storia degli politici degli Usa e dei maggiori eventi e dei passaggi più signifi- paesi europei. È il periodo in cui i cativi. Quello che mi interessa democratici di Clinton sono torsottolineare è il lavoro svolto in nati alla guida degli Stati Uniti sede di elaborazione culturale. E mentre i laburisti di Blair e i soqui va innanzi tutto ricordata la cialdemocratici di Schröder hanseminagione operata dalle riviste no riconquistato il governo, riche nascono in quegli anni. Penso spettivamente, in Gran Bretagna in modo particolare a Charta mi- e in Germania. nuta e a Ideazione. Di notevole ri- Nessuno di costoro si sogna però


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di riproporre le vecchie ricette socialiste. Il vento degli anni Ottanta ha cambiato in profondità anche laburisti e socialdemocratici. E in Italia che accade? Difficile dare una risposta esauriente. Diciamo che il travaglio è stato più lungo, sofferto, complesso. E, per certi versi, è ancora in corso. A destra come a sinistra, hanno a lungo agito alcuni riflessi pavloviani del tempo che fu. Su tali riflessi posso rendere una piccola, personale testimonianza. Nel 1999 decisi con tre amici che condividevano la mia prospettiva (Fabio Torriero, Giampiero Cannella, Marco Respinti) di pubblicare una sorta di libro-manifesto per una destra liberal-conservatrice. Lo chiamammo Rivoluzione blu, in onore per l’appunto dell’ondata reaganiana del decennio precedente. Il volume voleva essere di divulgazione e mobilitazione. Mettemmo molto impegno a redigerlo. Ma i risultati, in termini di consensi di pubblico, non furono all’altezza delle nostre aspirazioni. Il libro ebbe certo la sua circolazione, ma non come era nelle nostre attese. Forse avevamo sbagliato qualcosa, o forse no. Rimane però il fatto che, salvo qualche rara eccezione, la stampa snobbò il volume. Il motivo? E chi lo sa? Il prodotto non era onestamente peggiore di quanto in quel periodo arrivava in libreria con il marchio di destra. Il problema era probabilmente che la nostra Rivoluzione blu non rientrava in alcuno stereotipo e non

poteva pertanto contare su nessun riflesso pavloviano in suo favore. Ripresi per un po’ a grattarmi il mento. Questa volta, però, non a causa delle domande portate dall’avanzata del nuovo, ma per le perplessità prodotte dalla sopravvivenza del vecchio. Le idee, in Italia, si affermano assai più lentamente delle mode. Comunque ne è valsa la pena.

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L’Autore aldo di lello Giornalista e scrittore. Ha diretto le pagine culturali del Secolo d’Italia. Nel 2003 ha fondato la rivista di geopolitica Imperi.



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La parabola del Partito repubblicano

Da Goldwater a Reagan, così rinacque il Gop Nonostante la diffidenza che lo accolse a Washington, l’ex presidente riuscì a ridare fiducia ai repubblicani, mai così in crisi e senza idee. Tante anime, un solo partito: ecco la lezione reaganiana che può servire alla destra americana per tornare alla Casa Bianca dopo Obama. DI BRUNO TIOZZO 97

Non sono tanti i presidenti americani che finiscono per diventare delle vere e proprie icone nazionali anche agli occhi di coloro che si riconoscono nel partito avversario. Ancora più raro è che ciò avvenga già nell’arco del loro mandato presidenziale, ma Ronald Reagan rientra a pieno titolo in questo gruppo esclusivo. Il suo nome è per sempre legato a un decennio che ridiede agli americani la fiducia in se stessi e nella loro nazione dopo gli anni bui della guerra nel Vietnam, lo scandalo Watergate e le umiliazioni in politica estera subite sotto l’amministrazione Carter. La destra risoluta, ma allo stesso tempo pragmatica, che caratterizzò l’amministrazione Reagan viene tuttora – a 30 anni dal-

l’inizio del suo mandato presidenziale – ritenuta un punto di riferimento imprescindibile dal suo schieramento politico di appartenenza. Anche al di fuori degli Stati Uniti. Mentre, con il passare degli anni, l’importanza storica di un leader contemporaneo a lui molto vicino quale Margaret Thatcher, per molti aspetti è stata ridimensionata dal proprio partito, Reagan rimane un modello a cui tutti gli esponenti repubblicani dicono di ispirarsi. Negli anni precedenti alla vittoria di Reagan alle presidenziali del 1980, furono in pochi a scommettere sulla forza di propulsione della destra all’interno del quadro politico statunitense. L’agenda politica veniva infatti


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fin dalla presidenza di Franklin blicane di quell’anno videro inD. Roosevelt, dettata dai liberal e fatti l’ala destra, con la candidanel 1950 l’intellettuale Lionel tura del senatore Barry GoldwaTrilling scrisse: «Al momento, ter, prevalere su Nelson Rockenegli Stati Uniti, il liberalismo è feller, esponente di punta dell’ala non solo la tradizione intellettua- moderata dell’East Coast. le dominante, ma anche l’unica Goldwater, autore nel 1960 del esistente. È infatti chiaro a tutti libro The Conscience of a Conservache non ci sono idee conservatrici tive (pubblicato in Italia con il titolo Il vero conservatore) ebbe un o reazionarie in circolazione». I repubblicani riuscirono in se- ruolo determinante nel formulare guito a conquistare la Casa una visione politica alternativa a Bianca con Dwight “Ike” Ei- quella liberal dei democratici, senhower (nel 1952 e nel che, dopo Franklin Roosevelt, 1956) e con Richard Nixon avevano trovato una nuovo mo(nel 1968 e nel 1972). Ma, no- dello di riferimento in John F. Kennedy. Tra i sonostante entramstenitori di Golbi apparissero al- Reagan è considerato dwater c’era anche l’epoca piuttosto Reagan. Il consen“destrorsi”, so- il secondo presidente so riscosso da un prattutto agli oc- repubblicano celebre discorso chi dell’opinione che tenne in favore pubblica euro- più importante di Goldwater, depea, si trattava in dopo Abraham Lincoln nominato A time fondo di due for choosing, contribuì due anni pragmatici. La delusione della base repubbli- dopo a far eleggere l’ex attore cana per una politica che per governatore della California. molti versi non si discostava da Il clima politico-sociale non era quella portata avanti dai demo- però ancora maturo per una decratici, portò negli anni Cin- stra più combattiva e Goldwater quanta a una rinascita intellet- perse le presidenziali. Il senatore tuale del movimento conservato- dell’Arizona era fortemente antire grazie all’opera di intellettuali comunista e veniva bollato come come Russell Kirk (autore nel reazionario e guerrafondaio, an1953 di The Conservative mind) e che se aveva delle posizioni liberWilliam F. Buckley jr (fondatore tarie su molti temi ed era fautore nel 1955 della rivista di destra di uno Stato minimo e poco intrusivo nella vita delle persone. National Review). L’obiettivo era di portare il Partito repubblicano a destra, vincen- I successi della presidenza Reagan do la sfida delle idee, e una pri- Il seme gettato dagli intellettuali ma affermazione in tal senso ven- conservatori e da Goldwater nene in occasione delle presidenzia- gli anni Cinquanta e Sessanta li del 1964. Le primarie repub- iniziò finalmente a germogliare


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negli anni Ottanta con la presidenza di Ronald Reagan. Considerato il secondo presidente repubblicano più importante dopo Abraham Lincoln, Reagan fu in politica interna come in quella estera l’uomo giusto nel momento giusto. Dopo il giuramento nel gennaio 1981 entrò alla Casa Bianca con un’economia in caduta libera: l’inflazione si aggirava intorno al 12,5%, la disoccupazione stava al 7,5%. Quando otto anni dopo passò le consegne a George Bush l’inflazione era stata ridotta al 4,4% mentre la disoccupazione era scesa al 5,3%. Reagan mandò definitivamente in soffitta il modello del New Deal con una liberalizzazione dell’economia, la cosiddetta reaganomics, che puntava a diminuire la pressione fiscale e si avvalse dei consigli di economisti liberisti come Milton Friedman. Anche nei rapporti internazionali la presidenza Reagan segnò un’inversione di tendenza positiva per gli Stati Uniti. Nel 1980 sembrava infatti che i nemici degli Usa avanzassero su tutti i fronti; dalla sconfitta in Vietnam all’invasione sovietica dell’Afghanistan e la crisi degli ostaggi in Iran. La posizione ferma tenuta dall’amministrazione Reagan nei confronti del cosiddetto “impero del male” (per citare lo stesso Reagan) fu determinante per il successivo collasso dell’Unione Sovietica e la liberazione dell’Europa centroorientale. Importanti al riguardo furono gli investimenti nel settore della di-

IL LIBRO

Goldwater, il padre della destra nuova Le elezioni presidenziali americane del 1964, che seguirono l’assassinio di John F. Kennedy, videro l’emergere di una figura atipica nel panorama politico americano, il senatore dell’Arizona Barry M. Goldwater, che sfidò, perdendo, l’erede di Kennedy e della politica newdealista, Lyndon B. Johnson. Nonostante la secca sconfitta, Goldwater ebbe il merito di aver operato una vera rivoluzione nel Grand old party, il Partito repubblicano. Goldwater impresse al Partito repubblicano un segno conservatore che restò sottotraccia per più di un quindicennio, per poi emergere prepotentemente con il trionfo di Ronald Reagan nel 1980. In sostanza, il successo di Reagan non può essere spiegato se non alla luce delle intuizioni e del programma politico messo in campo nel 1964 da Goldwater e da lui esplicitato in The Conscience of a Conservative del 1960 (un successo editoriale senza precedenti) e in Why Not Victory? del 1962, opere in cui il senatore dell’Arizona mise a punto in modo chiaro e diretto i principi del suo conservatorismo: l’antistatalismo, il recupero dei principi del liberalismo americano delle origini, il decentramento dei poteri, i diritti degli Stati, l’individualismo; e, in politica estera, la lotta senza compromessi nei confronti del comunismo.

Barry Goldwater. Valori americani e lotta al comunismo Antonio Donno Le Lettere, 2008

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fesa (come deterrente nei con- All’interno dei repubblicani, fronti dell’Urss) che aumentaro- diede vita a quella coalizione tra no del 40% nel primo mandato varie destre sulla quale tuttora presidenziale di Reagan in linea si regge l’equilibrio del partito. con la formula Peace through Nella propria politica Reagan strength (pace attraverso la forza). incarnò infatti le tre anime Altro elemento fondamentale principali del conservatorismo della “dottrina Reagan” in poli- americano: la destra economica tica estera fu il determinato so- e liberista (contraria all’ingerenstegno fornito a Solidarnosc in za dello Stato nella sfera privaPolonia e ad altri movimenti an- ta), la destra religiosa (fautrice ticomunisti. Nel discorso alla fi- di una moralizzazione della sone del mandato presidenziale cietà) e la destra law and order disse infatti: «Volevamo cambia- (che invoca misure per garantire re una nazione, ma abbiamo la certezza della pena e la sicurezza dei cittadini). cambiato il mondo». L’equilibrio con Nel 1984 fu riecui Reagan nel letto per un se- I repubblicani hanno suo operato presicondo mandato denziale prendeva con un record di rivalutato il modello in considerazione grandi elettori equilibrato di Reagan, le diverse anime (525 su 538) e un dei repubblicani, i m p r e s s i o n a n te abbandonando quello 58,8% nel voto compassionevole di Bush torna adesso ad essere un interessanpopolare. «È di nuovo mattina in America», te modello di possibile riconamava ripetere durante la campa- quista della Casa Bianca per i gna elettorale e c’era proprio la repubblicani, dopo l’esperienza percezione che gli Usa si fossero del conservatorismo compassiolasciati alle spalle gli anni pro- nevole di George W Bush, da blematici per guardare al futuro molti ritenuto troppo schiacciato sulle posizioni della destra recon maggiore fiducia. ligiosa. L’impatto sui repubblicani

Reagan riuscì ad estendere la base elettorale del cosiddetto Grand old party repubblicano a settori che in precedenza avevano votato democratico, i cosiddetti Reagan democrats. Questi erano innanzitutto operai bianchi che apprezzavano le posizioni di Reagan sulla sicurezza, sulla politica estera e sui temi di natura etica come l’aborto.

Non un antipolitico

Soprattutto all’inizio della sua presidenza, si tendeva spesso (più in Europa che negli Usa) a deridere Reagan per il suo passato da attore. Una quindicina di anni fa andava anche di moda, in alcuni settori del centrodestra italiano, presentare Silvio Berlusconi come una versione italiana del presidente ame-


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ricano. Si tratta per molte ragioni di un paragone che non regge. È vero che Reagan arrivò tardi all’impegno politico diretto (aveva già compiuto 50 anni), ma prima di vincere le presidenziali del 1980 era già stato governatore della California per ben due mandati (dal 1967 al 1975). In quel senso possedeva un’esperienza di responsabilità politica in un ruolo esecutivo addirittura superiore a molti altri presidenti Usa, come per esempio Barack Obama. Inoltre si era già presentato alle primarie repubblicane due volte (nel 1968 e nel 1976) senza ottenere la nomination. Ma soprattutto nutriva un grande rispetto per le istituzioni e non si presentava come un antipolitico. Era un grande comunicatore con la battuta sempre pronta (mai volgare però). Lui stesso fu il primo a precisare che veniva ritenuto tale perché aveva importanti cose da dire.

nel giugno 2004, lo stesso Reagan è stato sepolto nei sotterranei della fondazione. Il museo della fondazione che riceve in media oltre 300 mila visitatori all’anno, organizza anche degli eventi di attualità politica, come per esempio un confronto tra i candidati repubblicani alle primarie nel 2008. Attualmente la fondazione è impegnata nei preparativi per le molte celebrazioni che avranno luogo nel 2011 per commemorare il centesimo anniversario della nascita di Ronald Reagan. Le iniziative mirano al futuro, proprio come avrebbe voluto il presidente, convinto com’era che i giorni migliori per l’America stiano ancora per arrivare.

La fondazione Reagan

Il ricordo e lo studio dell’operato politico di Reagan viene oggi curato principalmente dalla Ronald Reagan Presidential Foundation and Library (www.reaganlibrary.org). La bibliotecafondazione è stata inaugurata nel 1991 e si trova a Simi Valley in California. Contiene milioni di documenti e fotografie collegati al mandato presidenziale di Reagan, oltre a oggetti come il Boeing 707 utilizzato come Air Force One da Reagan e l’abito che indossò il giorno del giuramento. Dopo la morte, avvenuta

L’Autore bruno tiozzo Autore di numerosi articoli per riviste come Charta minuta, Con, Imperi e Millennio. Lavora come esperto per il ministero delle Politiche comunitarie.

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Un radicalismo illuminato al servizio del singolo

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entre in Europa ancora oggi si fa largo l’approccio colbertista, nell’America di trent’anni fa i Chicago boys rivoluzionavano un sistema impaludato. E in Italia il reaganismo economico è sempre stato troppo timido. DI GIUSEPPE PENNISI


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Il pensiero e l’azione economica delle due amministrazioni Reagan si distinsero dalle altre per un “radicalismo liberale” tutt’altro che tipico del Partito repubblicano Usa in generale e della stessa cultura liberista americana in particolare. Tale cultura ha sempre avuto radici moderate in cui il favore per le libertà di mercato era accompagnato da un forte senso d’intervento pubblico (a livello federale) in materia di difesa, di ordine pubblico e di tutela delle risorse naturali, nonché (a livello dei singoli Stati dell’Unione ed ancora di più di enti territoriali decentrati come le contee) di afflati “comunitari” (che in Europa continentale verrebbero, invece, considerati caratteristici della sinistra) per la produzione e la gestione di beni sociali come la scuola. Il “radicalismo” del pensiero e dell’azione reaganiana si allacciava, in gran misura, alla visione libertaria di Murray Rothbard, sino ad allora fortemente minoritaria negli stessi ambienti politico culturali più liberisti o, per usare un termine coniato di recente, mercatisti. Lo si vede in due tratti poco noti in Europa continentale, ed in particolare in Italia. Il primo è il confronto con la rivoluzione liberale che, nello stesso arco di tempo, Margaret Thatcher stava portando avanti in Gran Bretagna: mentre nel Regno Unito pochi aspetti di grande visibilità (ad esempio, lo scontro con i sindacati dei minatori) venivano accompagnati da molti piccoli

passi nelle materie più sensibili che costituivano i nervi ed il cuore dell’economia e della società (ad esempio, come ricordato da Paul Pielson in un suo libro fondamentale sulle esperienze Reagan-Thatcher in materia di riassetto del welfare state, le modifiche della legislazione sul lavoro vennero annidate nelle pandette di una quarantina di leggi e leggine che unicamente giuristi davvero esperti sarebbero stati in grado di scoprire e comprendere), negli Stati Uniti sin dal primo messaggio sullo Stato dell’Unione di Ronald Reagan venne iniziato un “nuovo federalismo” spostando competenze dall’amministrazione federale agli Stati dell’Unione, con l’invito che questi ultimi, a loro volta, li passassero alle contee e così via. Un ritorno “radicale”, quindi, agli Stati Uniti quali concepiti dai Padri fondatori – molto più spinto di qualsiasi principio di sussidiarietà, mutuato dalla Repubblica federale tedesca, introdotto alla fine degli anni Ottanta tra i cardini dell’Unione europea. Ciò avrebbe consentito ai poteri federali di concentrarsi sui “compiti propri”: difesa internazionale, sicurezza interna (in caso di reati inter-statuali), tutela delle risorse naturali. Tranne che in poche materie integrate per motivi tecnici (ad esempio, i mercati finanziari), la tutela della concorrenza, le liberalizzazioni e via discorrendo diventano competenza dei singoli Stati dell’Unione e, spesso, trasferiti da questi

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ultimi alle contee. Ciò venne at- è, una misura radicale di limitatuato non con una riforma della zione dell’intervento pubblico a Costituzione, ma attuando radi- campi, grandi o piccoli, in cui calmente quanto definito nel non si riesce a dimostrare, in 1787 a Philadelphia. Un ritor- modo quantitativo, che i benefici della mano pubblica superano no, quindi, al futuro. Il secondo tratto “radicale” fu i costi. l’attenzione alla microeconomia, Questi due aspetti non furono il ossia al corretto funzionamento frutto di elaborazioni di cenacodei mercati e dello stesso inter- li di economisti – quali i Chicavento pubblico, quando chiama- go boys – ma del gruppo di to a correggere quelle che noi amici con cui David Stockman, economisti chiamiamo “imper- deputato a 31 anni e ministro fezioni di mercato” (esistenza di del Bilancio a 34, si riuniva la beni pubblici e di beni sociali, sera non nel proprio disordinaasimmetrie informative e posi- tissimo miniappartamento, ma in un saletta di un zionali, effetti bar-trattoria, in esterni, interdi- Il “radicalismo” effetti la ricostrupendenze e via discorrendo). Nei economico di Reagan si zione di un saloon texano (Mr. Smith) primi mesi dopo è realizzato attraverso di Georgetown, a l’insediamento, pochi passi dalla l’Amministrazio- il rispetto totale Casa Bianca. ne Reagan adottò della Costituzione Stockman (che si una misura, approvata rapidamente (e senza ac- sarebbe dedicato alla finanza, corgersi della portata) dal Con- una volta lasciata la politica) era gresso. Da allora (sono passati un clean-cut red-blooded texano di trent’anni) nessun presidente e bell’aspetto e vivace cordialità, nessun Congresso ha proposto di aveva studiato all’Università del modificarla: qualsiasi provvedi- Michigan un po’ tutto ed un po’ mento federale (leggi, regola- niente ma aveva preso un dottomenti, investimenti) deve essere rato in teologia a Harvard. Maaccompagnato da un’attenta sticava poco di economia ma analisi dei costi e dei benefici fi- con una forte intelligenza intuinanziari ed economici. Non si tiva e la destrezza analitica che “affamava la bestia”, ma si met- si acquista diventando un teoloteva una camicia di forza a buro- go, aveva, con i suoi giovani crazie con l’innata tendenza a amici, afferrato i punti essenziadiventare tentacolari, con inevi- li per una “rivoluzione liberale tabili conseguenze per la dilata- radicale”. zione della spesa pubblica. Nel Meno radicali gli altri aspetti suo “totalitarismo” (si applicava della politica economica reagae si applica ancora anche al re- niana, pur se più noti in Europa, golamento più minuto) era, ed ed affidati al Tesoro ed alla Fede-


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ral Reserve. La strategia macro- tralizzate da una politica di rieconomica di base adottata nel gore monetario, furono la leva 1981 si rifaceva ad un teorema della forte crescita macroeconoelaborato da Robert Mundell mica Usa dalla metà degli anni quando, negli anni Sessanta, vi- Ottanta alla crisi del 2007. veva a Bologna dove insegnava a Quasi contemporaneamente al tempo pieno all’Università varo della legge Gramm-RudJohns Hopkins. Il teorema – man-Hollings sul pareggio di bichiamato “del ragù alla bologne- lancio, il primo agosto 1985 se” – dimostrava, matematica- Stockman diede le dimissioni dal mente, la possibilità di dilatare proprio incarico. Le due misure il disavanzo pubblico, al fine di radicali da lui proposte – il promuovere la crescita, senza ge- “nuovo federalismo” e l’analisi nerare inflazione in presenza di dei costi e dei benefici finanziari una politica monetaria restritti- di qualsiasi misura di politica va, come quella adottata negli pubblica – sarebbero rimaste e sarebbero diventaUsa dall’ottobre te parte del Dna 1979. La dilata- In Europa il liberismo dell’Amministrazione del disavanzione Usa, quale zo avvenne, sem- è stata una parentesi che fosse la connopre seguendo il tra il colbertismo tazione politica teorema “del ragù dell’inquilino delalla bolognese”, delle varie “destre” e non per aumento l’avvento del socialismo la Casa Bianca e la maggioranza predella spesa pubblica ma per drastica, radicale, ri- valente in Congresso. duzione delle tasse. Il deficit del bilancio federale as- La matrice colbertista sunse dimensioni tali che nel della destra liberale 1 9 8 5 v e n n e a p p r o v a t o i l dell’Europa continentale Gramm-Rudman-Hollings Ba- Jean-Baptiste Colbert non ha lalanced Budget and Emergency sciato alcuno scritto di economia; Deficit Control Act, che postu- ministro delle Finanze di Luigi lava il pareggio di bilancio (pe- XVI, ha però firmato decine e raltro mai ottenuto) con stru- decine di decreti, i quali hanno menti analoghi a quelli mutuati formato il corpus del colbertismo, in Europa qualche anno dopo una scuola di pensiero favorevole con il Trattato di Maastricht e, dapprima all’intervento pubblico successivamente, con il patto di in materia di commercio con crescita e di stabilità (ora in cor- l’estero e gradualmente nel resto so di revisione). Come da teore- dell’economia. In Europa contima, il “ragù alla bolognese” eb- nentale il liberismo è stato una be gli effetti auspicati: la ridu- merce che ha avuto una breve zione della pressione fiscale e la stagione di popolarità in quanto dilatazione del disavanzo, neu- anche la fase dell’industrializza-

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zione trionfante nel diciannovesimo secolo è stata marcata da una presenza dello Stato tanto forte e tanto pregnante quanto la capacità d’imporre tributi e regolamenti e di farli osservare. In linea di massima, in Europa continentale il liberismo è stato una parentesi tra il colbertismo delle varie “destre” e l’allora nascente movimento socialista (nelle sue più diverse configurazioni), parentesi associata alla prima globalizzazione convenzionalmente definita tra il 1870 ed il 1910 e spinta dalla rivoluzione tecnologica nella manifattura e nei trasporti e dalle innovazioni dovute all’elettricità. I Padri fondatori degli Stati-nazioni europei (Francia, Germania ed anche Italia) erano colbertisti senza saperlo: in Italia, ad esempio, la breve esperienza liberale dell’età giolittiana terminò con lo scandalo della Banca romana a cui la stessa Destra storica reagì con misure fortemente interventiste; in Francia la fase liberista della Terza Repubblica affondò con lo scandalo Stavisky. Interessante notare le profonde differenze con cui Europa continentale e Stati Uniti risposero alla grande depressione degli anni Trenta. In Europa, venne perseguita una politica di salvataggio di imprese e di banche in difficoltà; in Italia, dove era al governo la destra, ciò portò alla creazione dell’Iri; in Germania al controllo dello Stato su gran parte dell’industria pesante e a privatizzazioni selettive per ingraziarsi alcuni settori della finanza;

in Francia, andò al governo il Fronte popolare che teorizzò ed attuò una strategia di nazionalizzazioni; in Spagna, dopo una guerra cruenta, non si tornò al passato liberismo monarchico, ma venne messo in piedi un sistema economico “corporativo”, con intervento pubblico pregnante, ad imitazione di quello italiano. Negli Stati Uniti, invece, quando andò al governo la “sinistra” rooselvetiana, il New deal portò unicamente alla creazione di un sistema federale di autostrade (ancora in vigore e ben funzionante) e ad una rete di accordi tra Stati ed enti locali (simili ai “patti territoriali” dell’Italia del primo scorcio del ventunesimo secolo) per la valorizzazione di alcune aree (quali quella del Tennessee). Se non si tiene conto di queste profonde differenze, non si comprende perché gli economisti liberisti di Vienna e di Losanna emigrarono prima in Gran Bretagna e poi negli Usa. Non si comprende, a maggior ragione, perché, pur affascinati dalla rivoluzione reaganiana, le destre europee non ne percepirono il radicalismo e non ne compresero i passaggi fondamentali. In Italia, in particolare, il problema centrale della politica economica degli anni Ottanta era ben differente da quelli che preoccupavano l’Amministrazione Reagan: riguardava il rientro dall’inflazione (che alla fine degli anni Settanta aveva toccato tassi annuali a due cifre) mantenendo un saggio adeguato di crescita ed un buon grado di coesione sociale


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per evitare di ricadere in una nuova “notte della Repubblica”. Vennero tentate varie misure di freno alla spesa pubblica con risultati alterni sull’avanzo primario (essenziale a ragione del forte peso del servizio del debito pubblico), ma le misure essenziali riguardarono la riforma dell’indicizzazione salariale, su cui venne anche fatto un referendum. Si cercò, in vario modo, di trovare una versione all’italiana della legge Gramm-RudmanHollings, con i vari piani di rientro (iniziati a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta) dal deficit e dallo stock di debito pubblico, ma il governo cadde nell’estate 1986 proprio quando si era giunti ad un accordo tecnico tra gli specialisti dei cinque partiti allora all’esecutivo, e il successivo non ne fece più nulla in quanto, sostanzialmente, ebbe pochi mesi di vita prima di una nuova tornata elettorale. Il tentativo di introdurre l’analisi costibenefici per l’analisi di una piccolissima parte dell’investimento pubblico (con il progetto di estenderlo gradualmente al resto della spesa pubblica in conto capitale), finì miseramente. Curiosamente in Francia, dove, per gran parte degli anni della reaganonomics, l’inquilino dell’Eliseo era un socialista e si nazionalizzarono banche ed alcune grandi imprese, uno degli aspetti radicali della “rivoluzione reaganiana” venne recepito (e restò in vigore per una quindicina d’anni): il Programme des choix budgettaires (Programma delle scelte di bilan-

cio) in cui si mettevano a confronto (anche pubblico) ministeri sulla base della qualità delle proprie analisi economiche sottostanti le scelte di bilancio. In breve, qualcosa molto simile a quanto Reagan, sotto l’impulso di Stockman, aveva introdotto nella pubblica amministrazione federale americana. Ciò non vuol dire, però, che l’esperienza non lasciò neanche un seme. Il vento dall’Atlantico soffiava e sarebbe arrivato, anche se in ritardo, in Europa e nella stessa Italia. Rendendo meno colbertista la destra. La reaganomics a scoppio ritardato.

A dare l’avvio a programmi di riforme, in parte modellati sull’esperienza americana, fu la decisione di dare vita all’unione monetaria e di trovare regole comuni in materia di bilancio e di concorrenza (la politica monetaria veniva trasferita ad un’autorità sovranazionale, il Sistema europeo di banche centrali con proprio perno la Banca centrale europea) e la successiva crisi finanziaria che travolse Stati (in particolare l’Italia) non ritenuti, dai mercati internazionali, in grado di fare fronte agli impegni assunti con il Trattato di Maastricht. In effetti, le misure adottate dal governo Amato tra il luglio 1992 e il gennaio 1993 recepivano in parte il vento proveniente dall’Atlantico, specialmente in materia di drastiche riforme alla spesa sociale (in particolare alla previdenza) e di regolazione del mercato del lavoro.

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Il radicalismo della reaganomics plasmava in buona misura il programma del Polo che, con un doppia alleanza di Forza Italia (al nord con la Lega, al centrosud con il Msi) vinse inaspettatamente le elezioni – un segnale che la società italiana era pronta a recepire aspetti di fondo della reaganomics più di quanto non pensassero i think-tank prevalenti e soprattutto quella che veniva definita la grande stampa borghese. La stagione fu breve e terminò proprio su un test da reaganomics: ulteriori riforme previdenziali tanto necessarie da essere successivamente varate da un esecutivo formalmente tecnico ma con il supporto parlamentare della sinistra. Nel periodo 1996-2001 in cui le “destre” erano all’opposizione, presero vita cenacoli di varia intonazione (dalla Fondazione Ideazione all’Osservatorio Parlamentare, dall’Istituto Bruno Leoni, all’Acton Institute), in cui le caratteristiche radicali della reaganomics diventarono oggetto di analisi e di dibattito, con particolare attenzione a come potessero essere trasferite nel pensiero e nella politica economica italiana. Il Patto con gli italiani del 2001 e “le sette missioni” del 2008, pur se non “radicali” quanto il succinto ma denso programma elettorale del 1994, mostravano un centrodestra liberal-liberista (pur se con sfumature contrarie al mercatismo) anche in quanto aveva subito una scissione da parte della componente più marcatamente colbertiana. I nodi di politica economica

dell’Italia (il divario nord-sud, l’elevato stock di debito pubblico, le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, la bassa produttività) restavano profondamente differenti da quelli degli Stati Uniti, caratterizzati da popolazione giovane, alta produttività, fortissimo indebitamento delle famiglie e delle imprese, divari sociali non chiaramente connessi ad aree territoriali, un dilagante disavanzo dei conti con l’estero. Ciò nonostante, alcuni aspetti della reaganomics incisero (tardivamente) non solo sui programmi ma anche sull’azione di politica legislativa. I settori nei quali stanno lasciando maggiormente il segno riguardano le denazionalizzazioni (o privatizzazioni) e le riforme del welfare. Hanno inciso, anche in parte, sulle riforme della pubblica amministrazione (in specie quelle per migliorarne efficienza ed efficacia). Non hanno avuto effetti di rilievo sulla politica di bilancio (data la profonda differenza di problemi da affrontare) e non hanno avuto che effetti declamatori i tentativi di introdurre misure di analisi microeconomica (quali l’analisi costi-benefici) come strumento per valutare e selezionare l’azione pubblica. In sintesi, in materia di denazionalizzazioni, occorre distinguere due fasi: quella dal 1992 al 1995 di preparazione degli strumenti e quella dal 1995 ad oggi di effettiva realizzazione delle privatizzazioni. Nonostante le profonde differenze di ruolo del settore pubblico nell’economia america-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Giuseppe Pennisi

na e italiana e di assetto istituzionale in generale, la fase 19921995 ha mutuato alcuni aspetti (non necessariamente quelli radicali) da esperienze d’Oltreatlantico e d’Oltremanica. Seguo in dettaglio la materia dal 2001 pubblicando ogni anno un saggio nel rapporto dell’associazione Società Libera Processi di liberalizzazioni in Italia – a cui rimando. Mentre le partecipazioni statali sono sostanzialmente terminate, molto resta da fare in materia di servizi pubblici locali, specialmente di capitalismo municipale. Il provvedimento più marcato dalla reaganomics è la recente Legge Ronchi in cui sostanzialmente si recepisce una normativa dell’Ue (non molto differente da quella adottata negli anni Ottanta negli Usa). In materia di welfare, le successive riforme della previdenza pubblica, soprattutto le più recenti che collegano spettanze all’aspettativa di vita alla nascita, vanno nella direzione del full funding della social security Usa, una parte integrante della reaganomics, confermata anche dall’Amministrazione Obama. In materia di mercato del lavoro, le varie leggi di riassetto (dal pacchetto Treu alla legge Biagi) possono considerarsi una premessa per una più vasta riforma che elimini gli steccati tra “chi è dentro” (con contratti a tempo indeterminato) e “chi è fuori” (con i contratti a termine previsti dalla legge Biagi) – passo importante per ridurre discriminazioni ed offrire a tutti le stesse oppor-

tunità. L’aspetto più importante, però, è ancora in itinere: riguarda il federalismo. Con trent’anni di ritardo vale la pena guardare al nuovo federalismo del messaggio sullo Stato dell’Unione del 1981, con il suo afflato sulla devoluzione e sul capitale sociale a livello comunitario e sui relativi vincoli e controlli all’azione pubblica, posti là dove meglio funzionano. De Vroey M. Gettinng Rido of Keynes? A Survey of the History of Macroeconomics from Keynes to Lucas and Beyond, National Bank of Belgium Working Paper No. 187, Bruxelles 2010 Edwards Ch. Downsizing the Federal Government Cato Policy Analysis No. 515, Washington 2009 Gaoven A.B., A-Niaz Z. The Global Economic Crisis and the Future of Neoliberal Globalization: Rupture Versus Continuity Koc University, 2010 Malloy R.P. Adam Smith in the Courts of the United States Loyola Law Review No. 3 2010 Meeropol, Michael Surrender: How the Clinton Administration Completed the Reagan Revolution: University of Michigan Press, Ann Arbor 2000 Powell B., Stringham Economics in Defense of Liberty, University of Suffolk, 2010 Sill, Igor Looking at Reaganomics, Yet One More Time Topix, 2009 Tushnet M. What Consequences do Ideas Have? Harvard Public Law Working Paper No 0903, 2009

L’Autore giuseppe pennisi Consigliere del Cnel e professore emerito della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, è docente all’Università Europea di Roma ed al Link Campus dell’Università di Malta. è consigliere scientifico di varie istituzioni, tra cui la Cassa Depositi e Prestiti.

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QUEL CHE RESTA DI REAGAN Piercamillo Falasca

Politica economica

L’economia scommette sull’individuo La reaganomics fu il più serio tentativo di cambiare il corso della politica economica americana dal New Deal in poi. L’iniziativa privata soppianta l’interventismo statale e restituisce al singolo la centralità dell’azione economica. DI PIERCAMILLO FALASCA 111

«Per Reagan – scrisse Milton Friedman nel 2004 sul Wall Street Journal, all’indomani della morte dell’ex presidente – controllare la spesa pubblica era un mezzo per giungere ad un fine, non un fine in sé. Quel fine era la libertà, la libertà umana, il diritto di ogni individuo di perseguire i propri obiettivi e valori finché questi non interferiscono con quelli degli altri». Il fine era liberare la crescita economica, mettendo fine all’illusorio tentativo di affidare allo Stato il compito di produrre ricchezza. Un’illusione costante, una chiave di lettura del Novecento, il secolo in cui lo Stato-nazione ha assunto dimensioni mai raggiunte in passato, in cui l’intermediazione e l’interposizione pubblica nelle dinamiche umane si è fatta pervasiva. Un autorevole studio di Vito Tan-

zi e Ludger Schuknecht1 mostra come intorno al 1870 la spesa pubblica assorbisse circa un decimo del Prodotto interno lordo dei paesi a più alto livello di industrializzazione2. Centodieci anni dopo, nel 1980, il peso del settore pubblico nei paesi più avanzati raggiunse in media il 42% circa del Pil3. Il numero di lavoratori assorbiti dalla macchina pubblica riflette la stessa tendenza: nel 1870 i dipendenti pubblici dei paesi più avanzati rappresentavano il 2,4% degli occupati, mentre nel 1980 lavorava per l’amministrazione pubblica ben il 17,5% di chi aveva un impiego. Quando lo Stato finisce per assorbire un pezzo così cospicuo della società, realizzando quasi metà del reddito nazionale annuo spendendo risorse prelevate ai privati4, si riduce lo spazio per l’autonomia


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privata di decidere cosa e quanto zazione del capitale umano produrre e risparmiare, su cosa in- (l’istruzione o la formazione provestire e scommettere. Nelle ma- fessionale), lo è molto meno quanni e nelle menti di un numero ri- do è il frutto dell’azione parassitastretto di persone si concentrano ria di un gruppo sociale a scapito le scelte che, in un’economia me- di un altro. Ancora Friedman usano intermediata, sono lasciate alla va parole tanto semplici quanto spontanea interazione di milioni pregnanti a riguardo6:«Qualsiasi di individui, ognuno con le pro- programma assistenziale (…) doprie aspettative e preferenze, la vrebbe essere strutturato al fine di propria creatività e propensione al aiutare gli individui in quanto inrischio5. Cosa è successo, nel No- dividui, e non perché appartengovecento, perché alla vigilia del- no ad un determinato gruppo l’epopea reaganiana il mondo (scelto in base all’occupazione, alavesse scelto (anche dove non l’età o al salario), o a particolari sventolava il vessillo rosso della organizzazioni sindacali o specifici comparti profalce e del martelduttivi». Molto lo) lo Stato come Nel Novecento spesso, purtroppo, soggetto principe la dinamica demodelle relazioni eco- il mondo aveva scelto nomiche? Sempli- lo Stato come soggetto cratica finisce per premiare l’appartecemente, si era persa fiducia nel- principe delle relazioni nenza a una delle opposte e politicizl’uomo e negli uo- economiche zate bande d’intemini. Le due guerre mondiali e le spinte ressi, ciascuna animata dalla ricertotalitariste della prima metà del ca della propria rendita. Questo secolo avevano certamente deter- pilastro debole del sistema demominato un salto marcato nei livel- cratico (base della riflessione della li di spesa pubblica. In più, tra teoria economica della public choil’Ottocento e il Novecento lo Sta- ce, per inciso) è stato probabilto ha cambiato mestiere: non ha mente un fattore sistemico determai smesso di occuparsi delle sue minante dell’espansione della spefunzioni tradizionali – la difesa, la sa pubblica e del peso dello Stato. tutela dell’ordine, la giustizia e le Ma c’è ancora dell’altro: il Novegrandi opere infrastrutturali – ma cento è stato più che ogni altra coa queste ha affiancato, fino a ren- sa l’era del keynesianesimo, l’idea derli magna pars della sua attività, secondo la quale, come ha scritto robusti compiti di welfare, di in- quell’eccellente anti-keynesiano termediazione e redistribuzione di Antonio Martino7, solo «l‘acdel reddito e della ricchezza. Se corta manipolazione degli aggretale redistribuzione è accettabile o gati monetari e soprattutto del addirittura opportuna quando saldo del bilancio pubblico da funge da meccanismo di contrasto parte di responsabili della politica della povertà assoluta o di valoriz- economica potesse impedire l’in-


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stabilità, le fluttuazioni cicliche, mentre le tesi di economisti (allole crisi tipiche del capitalismo». ra viventi) come von Hayek, BuNel secolo scorso John Maynard chanan e Friedman – sostenitori Keynes ha fatto da profeta alla hy- della libertà individuale, del libebris dei governanti – il “numero ro mercato e dell’opportunità ecoristretto di persone” di cui si so- nomica, politica e filosofica di un pra – che si ritenevano tanto illu- ruolo limitato dello Stato nelminati da poter rimediare discre- l’economia – erano relegate al zionalmente alle supposte stortu- campo delle speculazioni intelletre del mercato degli uomini con tuali. programmi pubblici di spesa o Ad un certo punto, però, la galopcon la creazione di nuova moneta. pata della spesa pubblica subì una L’apogeo delle politiche keynesia- frenata. Negli anni Ottanta il ritne si raggiunse negli anni Sessan- mo di crescita della spesa pubblita e Settanta. Sebbene la gran par- ca fu decisamente inferiore rispette dei paesi avanzati non fosse im- to al passato: per il 1990 la media della spesa dei pegnata in sforzi paesi più indubellici e la demo- Negli anni Ottanta strializzati fu di grafia fosse ancora “appena” un punto molto favorevole il ritmo di crescita percentuale supe(tanti giovani e po- della spesa pubblica riore al valore di chi anziani, ergo dieci anni prima poche pensioni e fu inferiore (43%). Il fenomebassa spesa sanita- rispetto al passato no non fu omogeria), si realizzò tra il 1960 e il 19808 un aumento neo (l’Italia si comportò in conspettacolare di spesa pubblica, ac- trotendenza, ad esempio) e avvencompagnato inevitabilmente ne anzitutto nel Regno Unito, dodall’aumento della pressione fi- ve nel decennio in questione la scale, dei deficit di bilancio e dalla spesa pubblica in relazione al Pil crescita degli stock di debito pub- calò, e negli Stati Uniti, dove un blico. Tutto ciò rifletteva un mu- leggero aumento fu dovuto esclutato atteggiamento culturale ver- sivamente alle spese militari9. Coso il potere pubblico: i governi sa accadde? venivano da molti percepiti come Man mano che l’interventismo lo strumento più efficiente – ad- iniziò a mostrare performance scadirittura il più benevolo e legitti- denti (il fallimento delle politiche mo – di allocazione e distribuzio- di stabilizzazione durante il pene delle risorse, una mano visibi- riodo della stagflazione degli anni lissima capace di stabilizzare Settanta10), nuove e vecchie idee un’economia considerata ontolo- alternative al keynesianesimo, più gicamente instabile. In Europa, in fiduciose nella natura umana e nei particolare, Keynes era di fatto benefici di un’economia libera, l’ispiratore di tutte le politiche iniziarono a germogliare. Era «un economiche “a destra di Marx”, nuovo scetticismo sul governo

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“benevolente” che compie le “giu- tore pubblico si poteva consentire ste” scelte di politica economica», una solida crescita dell’economia scrivono Tanzi e Schuknecht. Par- privata. Tasse eccessive (nel 1980 tì dalle università americane – l’aliquota marginale sul reddito Chicago in primis – un vento cul- personale negli Usa era il 70%) turale diverso, una sfiducia nei deprimevano la creatività e l’imconfronti della legittimità, del- prenditorialità degli americani, l’efficienza e della stessa moralità indotti a credere – dall’elevata del potere pubblico, corroborato pressione fiscale e dall’aspettativa dai risultati di numerosi studi di un aumento costante del public econometrici tesi a dimostrare gli spending – che lavorare di più saeffetti perversi di imposte troppo rebbe stato poco utile, perché lo salate, degli eccessivi deficit e de- Stato avrebbe chiesto per sé una biti pubblici e delle iniquità che parte molto cospicua del guadaun elevato tasso d’inflazione pro- gno realizzato. Più lo Stato chieduce. Quelle idee e quelle teorie deva, meno riceveva: come Arthur Laffer aveva spiegaebbero bisogno di to al candidato prequalche alfiere che Reagan vedeva chiari sidente Reagan, donasse loro appeal esiste una soglia di politico e legitti- gli effetti distorsivi prelievo fiscale olmità democratica. di una pesante tre la quale l’attiviE nel volgere di un biennio, tra il intermediazione statale tà economica diventa man mano 1979 e il 1980, ne sul gioco economico meno conveniente; trovarono due d’eccezione, sulle sponde del- e il gettito fiscale, di conseguenl’Atlantico: la signora Margaret za, diminuisce. Accanto alla tassaThatcher e il cowboy Ronald Wil- zione, Reagan vedeva chiari gli efson Reagan. A trent’anni dalla fetti distorsivi di una pesante intornata elettorale che fece di que- termediazione statale sulle regole st’ultimo il 40esimo presidente del gioco economico, attraverso Usa, il resto dell’articolo vuol par- un uso discrezionale della politica lare della sua spettacolare cavalca- monetaria ed un eccesso di regolata culturale contro il Big gover- zione sul funzionamento dei prinnment e il government spending, con cipali settori industriali12 e sugli un occhio alla lezione che oggi scambi commerciali con il resto possiamo trarne. del mondo. La reaganomics fu il più serio tenta- Il Program for Economic Recovery del tivo di cambiare il corso della po- 1981 ebbe quattro principali litica economica americana dal obiettivi: frenare appunto la creNew Deal in poi, scommettendo scita della spesa pubblica; ridurre sull’uomo e non più sullo Stato. la tassazione sul lavoro e sul capiGià da governatore della Califor- tale; contenere l’inflazione attrania11, Reagan aveva compreso che verso un maggior controllo delsolo riducendo la crescita del set- l’offerta di moneta13; ridurre la re-


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golazione dei principali settori dell’economia14. Tra molte luci e qualche ombra15, nei suoi otto anni alla Casa Bianca Ronald Reagan riuscì nell’intento che si era prefissato: stabilizzare la spesa non-militare, frenare l’inflazione, aprire il mercato riducendo l’interposizione normativa (e riducendo le barriere al commercio internazionale) e, infine, tagliare robustamente le aliquote (quella massima sul reddito personale passò dal famigerato 70 al 28%) e la pressione fiscale nel suo complesso. Si può dire molto sugli effetti della cura, ma un dato è evidente: durante gli anni della Reaganomics la crescita economica accelerò, fu del 3,2% in media tra il 1981 e il 1989, mentre era stata del 2,8 negli otto anni precedenti. E dopo la presidenza dell’ex attore di Hollywood partì una fase espansiva proseguita almeno fino all’11 settembre 2001, il più lungo periodo di crescita economica dal dopoguerra in poi. Con Reagan, così come con la Thatcher, il mondo sperimentò un altro modo di intendere la politica economica del governo. I libri impolverati di Keynes lasciarono il posto alle tesi degli economisti liberali, ed il ‘lungo periodo’ non fu più l’epoca in cui tutti sarebbero morti, tanto da rendere politicamente inopportuna ogni riforma che comportasse costi nell’immediato e benefici nel tempo. Il futuro diventò, nella retorica e nella visione reaganiana, una città sopra una collina16, una promessa che orienti il cammino quotidiano e che tenga gli occhi lontani

IL PERSONAGGIO

Keynes, l’avversario del liberismo economico John Maynard Keynes, pur essendo liberale e anticomunista, rappresenta un deciso superamento del liberalismo classico. La sua opera principale, The General Theory of Employment. Interest and Money, basa la critica del laissez faire sulle esperienze della depressione del 1929. Essa eveva dimostrato come il mercato della domanda e dell’offerta non era, di per sé, in grado di mantenere l’equilibrio tra risparmi e investimenti, in maniera da garantire un livello di domanda effettiva (globale) e far sì che il reddito nazionale restasse al livello del pieno impiego delle risorse produttive. Come rimedio alle carenze del meccanismo del mercato e sulla base di una nuova teoria del saggio d’interesse e della moneta, Keynes ritiene superabili le crisi cicliche attraverso un attivo intervento pubblico, diretto a espandere la spesa globale (e quindi la domanda) mediante consistenti investimenti pubblici. Egli riconosce inoltre l’utilità dell’emissione di carta moneta del tutto disancorata dal sistema aureo, dimostrando come il processo inflazionistico non può aprirsi fino a quando non sia raggiunto e superato il punto di pieno impiego.

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dalla pochezza del breve periodo. E cioè, più concretamente, dall’uso della spesa pubblica – ossia della tassazione, del deficit, del debito e dell’inflazione – come leva gestionale del potere politico. È questa probabilmente la più importante lezione che oggi possiamo trarre dall’avventura reaganiana: il lungo periodo come metodo di governo. E accanto a questo, c’è da fare propria la diffidenza nei confronti della politica e dello Stato come deus ex machina dell’economia. Appena due anni fa, in piena crisi finanziaria, troppi ebbero fretta (e gusto) nel definire crisi “del” mercato quella che era una crisi “nel” mercato17, prodottasi non per assenza di regole, ma per la presenza di regole sbagliate, di scelte politiche azzardate che avevano creato l’illusione in molti risparmiatori che il denaro fosse ormai un bene a buon mercato e che indebitarsi oltre le proprie possibilità fosse poco rischioso. Alla recessione economica e ai fallimenti di alcune istituzioni finanziarie i governi dei maggiori paesi del pianeta hanno reagito come molto spesso – nel corso del Novecento – la politica ha reagito: pensando di “commissariare” la realtà, spendendo fiumi di denaro pubblico per il salvataggio di banche sull’orlo del collasso e di imprese ormai decotte18. E così la bolla del debito privato si è presto trasformata in una nuova bolla del deficit e del debito pubblico, da cui oggi i maggiori paesi fanno fatica a rientrare19, con conseguenze negative sulla capacità dell’economia occidentale di ri-

trovare il sentiero della crescita. Ancora, l’invecchiamento della popolazione all’orizzonte rende inevitabile un futuro in cui una porzione sempre più rilevante di reddito nazionale sarà destinato ai grandi comparti di spesa della salute e della previdenza: pezzi del Pil oggi in gran parte in mano pubblica, spesso svincolati da ogni criterio di responsabilizzazione personale e gestiti secondo logiche burocratiche. Difficile credere che sistemi pubblici dal carattere universalistico, finanziati dalla fiscalità generale, possano a lungo reggere l’urto demografico dell’età che avanza e dei nuovi “barbari” che premono alle porte dell’Occidente. Infine, è una presunzione fatale quella di credere che alla sfida economica proveniente dall’Asia orientale, dall’America del sud e presto dall’Africa si possa rispondere confidando sulla capacità dei vecchi apparati statali di proteggere la società occidentale, la sua industria, il suo benessere. C’è nuovamente da scommettere – in Occidente – sull’uomo e sulla sua creatività, non sullo Stato. Oggi, per farlo, Reagan farebbe esattamente quello che fece. L’Autore piercamillo falasca Vicepresidente di Libertiamo, fellow dell’Istituto Bruno Leoni. Ha scritto con Carlo Lottieri Come il federalismo può salvare il Mezzogiorno (Rubbettino, 2008). Ha curato Dopo! - Ricette per il dopocrisi (Ibl Libri, 2009).


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Note 1 Vito Tanzi e Ludger Schuknecht, La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale, Firenze, Firenze University Press, 2007. 2 Australia (18,3%), Austria (10,5), Canada (nd), Francia (12,6), Germania (10,0), Italia (13,7), Irlanda (nd), Giappone (8,8), Nuova Zelanda (nd), Norvegia (5,9), Svezia (5,7), Svizzera (16,5), Regno Unito (9,4), Stati Uniti (7,3). 3 Australia (34,1), Austria (48,1), Canada (38,8), Francia (46,1), Germania (47,9), Italia (42,1), Irlanda (28,9), Giappone (32,0), Nuova Zelanda (38,1), Norvegia (43,8), Svezia (60,1), Svizzera (32,8), Regno Unito (43,0), Stati Uniti (31,4). 4 Sia nella forma della tassazione che ricorrendo al mercato del debito: nel primo caso il settore pubblico preleva una parte della ricchezza privata, nel secondo caso assorbe una parte del risparmio privato. 5 Friedrich von Hayek parlava di catallassi (dal greco katallasso, scambiare riconciliare), per indicare un sistema auto-organizzativo di cooperazione volontaria. 6 Milton Friedman, Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, 1962 – In italiano: Capitalismo e libertà, IBL Libri, 2010. 7 Antonio Martino, Semplicemente liberale, Liberilibri, 2004. 8 Nei paesi sopra considerati si passa in media dal 28 al 42% del Pil. 9 C’era la guerra fredda e gli Usa di fatto sussidiavano l’Occidente fornendo difesa comune. 10 “Labour is not working” diceva un fortunato slogan elettorale del partito conservatore britannico alla vigilia delle elezioni parlamentari del 1979, quelle che portarono Margaret Thatcher a Downing Street. Nei manifesti preparati dalla società di comunicazione Saatchi&Saatchi si vedeva una lunga fila di disoccupati in attesa di un colloquio presso gli uffici di collocamento. 11 Nel 1975 tentò di far approvare la cosiddetta Proposition 1, un emendamento della costituzione dello Stato che imponesse un limite alla soglia massima di

spesa annua che il governo della California potesse permettersi. 12 La liberalizzazione del mercato aereo aprì le porte dello sviluppo del settore: in qualche modo, anche il fenomeno dei voli low cost nasce grazie alla maggiore concorrenza tra compagnie aeree imposta dai provvedimenti dell’Amministrazione Reagan.. 13 Quale altro presidente – ci si è chiesti più volte – avrebbe assecondato la politica della Fed di Paul Volcker? 14 La quale è spesso una forma subdola di tassazione normativa. 15 Per un’analisi approfondita della Reagonomics si rimanda a: Supply-side Tax Cuts and the Truth about the Reagan Economic Record, William A. Niskanen e Stephen Moore – Policy Analysis n. 261 – Cato Institute (disponibile in rete all’indirizzo: http://www.cato.org/pub_display.php?pub_id=1120). 16 “I’ve spoken of the shining city all my political life, but I don’t know if I ever quite communicated what I saw when I said it. But in my mind it was a tall proud city built on rocks stronger than oceans, windswept, God-blessed, and teeming with people of all kinds living in harmony and peace, a city with free ports that hummed with commerce and creativity, and if there had to be city walls, the walls had doors and the doors were open to anyone with the will and the heart to get here. That’s how I saw it and see it still”. Ronald W. Reagan, discorso di accettazione della candidature a presidente per il Partito Repubblicano nel 1984 e discorso di commiato alla nazione nel 1989. 17 Il gioco di parole è di Benedetto Della Vedova, che mi scuserà per il furto. 18 Avrebbero potuto e dovuto lasciarle fallire: con molte meno risorse si sarebbe potuto sostenere il reddito e la riqualificazione professionale del personale di quelle aziende. 19 Si pensi al nuovo budget del Governo Cameron, con tagli draconiani ad una spesa discrezionalmente lievitata negli anni passati.

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Non solo reaganomics

La rivoluzione nel segno della libertà Nazionalismo, libertarismo, movimentismo cristiano e neoconservatorismo: le quattro anime del Partito repubblicano hanno giocato la stessa partita per portare avanti il cambiamento reaganiano. Una vittoria del fusionismo e della destra plurale. DI GIAMPIERO RICCI

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Ci sono personaggi nella storia che pur nascendo uomini o donne “di parte” e non facendo nulla nel corso della loro carriera politica per evitare di apparire tali, alla fine del proprio percorso si trovano accreditati e osannati da platee bipartisan. In tali platee in prima fila al taglio dei nastri di mausolei, monumenti, statue equestri a loro intitolate, spesso e volentieri si ritrovano oppositori senza quartiere, acerrimi nemici di un tempo, poco importa se sul ring della sfida della politica e delle idee ci si era trovati ad incrociare aspramente i guantoni. Ronald Reagan è stato uno di questi personaggi, lui, il campione del Gop, del Grand old party, dei repubblicani, un altro presidente del partito dell’elefantino, “recuperato” alla patria sul letto di morte o quasi dal mondo liberal .

Reagan fu colui che più di ogni altro nel passato recente delle democrazie occidentali, riuscì a tradurre compiutamente in azione politica di successo una visione organica del mondo dove di fronte all’uomo, creatura di Dio, il governo e lo Stato dovevano fare un passo indietro nel nome della libertà di esercizio dei suoi diritti naturali, ma allo stesso tempo dovevano sentirsi pronti a farne due in avanti, senza paura alcuna né ambiguità, quando si trattava di difendere, da minacce militari o ideologiche, l’esercizio e l’esistenza di quegli stessi diritti. Su quella stagione, sul culmine della stagione del fusionismo aperta da Barry Goldwater, la riuscita miscela delle quattro anime della destra americana (nazionalismo, libertarismo, movimentismo cristiano e neoconservatorismo) che i mandati dell’Ammini-


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strazione Reagan hanno rappre- Trenta o della lunga stagione nosentato, la letteratura di genere si vecentesca del socialcomunismo è sbizzarrita e si sbizzarrisce ma dell’Uomo Nuovo – dovrebbe esdi questi tempi, con mezzo mon- sere bandito e relegato alla damdo che annaspa nel tentativo di natio memoriae. uscire dalla peggiore crisi econo- Il fatto è che quella parola – libemica a partire dal 1929, quel- rismo – per eventi mediatici, spel’eredità politica viene celebrata culazioni, disinformazione o mequasi unicamente nella comodis- ro utilitarismo politico, ha, a partire dagli anni Novanta, assunto sima retorica anti-sovietica. Pochi, infatti, hanno il coraggio connotazioni autonome rispetto di raccontare come il pilastro fon- alla sua iniziale definizione di damentale del successo di qualcu- dottrina economia del liberalino che per molti era semplice- smo. Ed uno dei motivi per cui mente un ex attore di serie B di ciò è accaduto risiede proprio nelHollywood, giunto alla Casa la eco e nel successo di quel periodo in cui a PenBianca per la biznsylvania Avenue zarria dell’Ameri- A partire dagli anni c’era Ronald Reaca profonda, fu la realizzazione di Novanta, il liberismo ha gan. Durante la campaun’agenda econo- assunto connotazioni gna elettorale del mica basata su 1980, su 76 consiprincipi, idee e autonome rispetto glieri economici di provvedimenti “li- alla dottrina liberale Reagan, 22 apparberisti”. Il lettore, messo da parte l’imba- tenevano alla Mont Pelerin Socierazzo e lo sconcerto alla lettura ty, organizzazione globale che dell’aggettivo virgolettato, vorrà aveva ed ha l’obiettivo di perseconvenire con chi scrive che sul guire il liberalismo economico disastrato panorama politico cul- (liberismo), istituita il 10 aprile turale occidentale, da qualche an- del 1947 su impulso di 36 illuno il pensiero liberista ha ricoper- stri personalità dal mondo accato – a torto o a ragione – la parte demico: economisti, storici, filodel nemico perfetto, prendendo sofi e altri che si riunirono presso nei dibatti politici ed economici la spa svizzera di Mont Pelerin. un ruolo simile a quello dei sol- In pratica un’élite di studiosi audati tedeschi o delle SS nei film todeputatasi alla realizzazione di sulla seconda guerra mondiale: strategie globali in difesa del caun “ismo” che in quanto tale e pitalismo, quale baluardo della per le conseguenze ferali della sua democrazia secondo l’assunto del diffusione – per alcuni importan- capostipite Friedrich von Hayek: ti maîtres à penser soltanto legger- «Democrazia vuol dire libertà mente meno gravi della diffusio- economica». ne del pensiero filosofico-politico Arthur Laffer, Milton Friedman, nazionalsocialista degli anni William Niskanen sono tra i no-


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mi più prestigiosi di quel gruppo. ereditata. Fu un successo, da parQuanto le elaborazioni di questo te della Federal Reserve, ma a dirgruppo di consiglieri economici la tutta, ancora oggi, la nostra possano essere state fondamenta- Bce e la tenuta dell’euro devono li, non solo per la fortuna politica più di qualcosa al contributo del del reaganismo ma anche per la grande intellettuale newyorkese, costruzione delle piattaforme capace anche di sconfessare l’effiprogrammatiche delle cancellerie cacia della curva di Phillips, teodi mezzo Occidente, salta imme- ria in base alla quale alla discesa diatamente agli occhi se si consi- dell’inflazione corrispondeva l’indera che fu coniato dal giornalista cremento della disoccupazione e del Wall Street Journal Jude Wan- viceversa, in pratica aprendo la niski il termine “curva di Laffer”, strada alla ricerca libera della pieda quel leggendario incontro del na occupazione. 1980 con l’allora candidato presi- Da William A. Niskanen prese il dente che Laffer ebbe in un risto- via una rielaborazione teorica e poi pratica del rante dove l’econoruolo della buromista, per convin- Friedman e la scuola crazia nelle ammicere Reagan della nistrazioni goverbontà della sua di Chicago ispirarono native contempoteoria, scaraboc- una politica monetaria ranee basata su chiò la curva su un modelli di massitovagliolo. La cur- per sconfiggere mizzazione di budva ipotizzava che se l’inflazione ereditata get, intanto indivila pressione fiscale era troppo alta, le entrate fiscali duando le funzione che il burocalavano, perché meno convenien- crate massimizza (salari, prerogate l’aumento di produttività in tive della pubblica amministrapresenza di aliquote fiscali eleva- zione, reputazione del settore te: in pratica si aprivano le porte pubblico, potere, patronage, risulper ripensare il livello fiscale ca- tato della burocrazia). Niskanen pace di raccogliere il maggior vo- aveva pubblicato nel 1971 il suo lume possibile di entrate e il bello Bureaucracy and representative goera che questo livello si teorizzava vernment, libro che ebbe un granpotesse essere molto più basso del de impatto sul mondo accademitasso tendenziale al 100% che co e del management pubblico metteva (e mette) d’accordo gli Questo era lo staff dei consiglieri economisti di scuola kelseniana economici liberisti che affiancavano il cowboy californiano e la reaprima e keynesiana poi. Dal premio Nobel Milton Fried- lizzazione di quella che è passata man e la sua scuola di Chicago, si alla storia come la reaganomics. prese la teoria di politica moneta- Se oggi il liberismo è diventato ria, basata sul controllo ferreo sinonimo di irresponsabilità non della crescita della massa moneta- lo dobbiamo certamente a Roria per sconfiggere l’inflazione nald Reagan: quando andò alla

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FOCUS

La rivolta del Boston Tea Party

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Il Boston Tea Party fu un atto di protesta dei coloni americani contro le tasse del governo britannico. Accadde giovedì 16 dicembre 1773 nel porto di Boston. Un gruppo di giovani americani, appartenenti al gruppo patriottico dei Sons of Liberty, si travestì da indiani e armate di asce si imbarcarono a bordo della navi inglesi ancorate nel porto di Boston. Una volta a bordo furono gettate in mare le casse di té trasportate dalle navi. Il Tea Party fu un atto di protesta dei coloni americani contro il continuo innalzamento delle tasse inglesi nelle colonie. Dal 1764 il governo inglese del re Giorgio III aveva aumentato le tasse sullo zucchero, sul caffè e sul vino, sulla carta. Le tasse inglesi erano finalizzate a reperire i fondi necessari per finanziare le guerre della Corona e le numerose imprese militari. I coloni americani reagirono alla pressione fiscale boicottando il consumo del tè, che iniziò ad essere acquistato di contrabbando dai mercanti olandesi senza pagare tasse di importazione, causando ingenti perdite al commercio della Compagnia delle Indie. Su pressione di quest’ultima il governo inglese eliminò la tassazione sul tè emanando nel 1773 il Tea Act. In tal modo il prezzo del tè inglese venduto in America divenne più conveniente di quello dei contrabbandieri americani-olandesi. La rimozione della tassa sul tè fu interpretata dagli abitanti delle colonie come un tentativo di infierire perdite alle compagnie americane che fino a quel momento trassero profitto dal contrabbando, finanziando anche attività di propaganda patriottica. Molti coloni occuparono per protesta il porto, impedendo alle navi inglesi di scaricare le casse di tè. Dinnanzi alle rimostranze dei coloni, i capitani delle navi inglesi arrivate in porto di Boston decisero di non scaricare il tè inglese e riportarlo in Inghilterra. Il governatore Hutchinson però decise di bloccare il porto di Boston e di vietare alle navi di salpare senza aver scaricato il tè. I coloni risposero alla decisione scaricando in mare le casse di tè. Il governo inglese reagì duramente al Tea Party imponendo nuove leggi restrittive e accusando di alto tradimento alcuni cittadini delle colonie americane. Il Tea Party fu considerato da molti come la scintilla della rivoluzione americana. In realtà, l’evento ebbe soltanto un grande impatto mediatico e contribuì, insieme ad altri fatti, all’escalation che condusse alla guerra d’indipendenza americana.


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Casa Bianca e si trovò a dover far di liberalizzazioni a pioggia, tagli fronte ad una situazione dei conti orizzontali, verticali, obliqui, vadisastrata ad un paese che stava rati collateralmente alla riduzioperdendo colpi nei confronti del- ne delle aliquote fiscali secondo la cortina di ferro, con l’inflazione lo schema della curva di Laffer, all’11,83% e la disoccupazione al produssero una crescita economi7,5%, al primo anno del suo pri- ca che in meno di quattro anni fu mo mandato, convocò una confe- capace, a parità di gettito, di riasrenza stampa a reti unificate dove sorbire la disoccupazione che inespiegò al suo paese che se il go- vitabilmente si era creata per la verno dell’economia avesse conti- realizzazione della cura dimanuato nel senso interventista e grante promessa. soffocante con cui i precedenti Alla fine del suo mandato i numegoverni si erano mossi, per gli ri della finanza pubblica riportaUsa e per il blocco occidentale vano una crescita economica ininnon vi sarebbe stato futuro, il de- terrota e florida per otto anni ad un tasso medio sustino avrebbe parperiore all’8,5%, lato russo e le loro Alla fine del mandato l’inflazione era sce(le nostre) libertà sa sotto il 4%, e si più elementari non di Reagan i numeri sarebbero state indicavano una crescita era registrata la creazione di 60 semplicemente a milioni di nuovi rischio, ma sareb- ininterrotta a un tasso bero state né più medio dell’8,5% annuo posti di lavoro. Sembra incredibiné meno cancellate, alla stregua di come il bolsce- le, ma da qui parte la cattiva pubvismo aveva operato sulla società blicità di cui oggi gode il liberirussa uscita dalle amministrazio- smo. Cinema d’autore, pubblicini zariste. Lui no, non si sarebbe stica liberal, scrittori, cantanti, fireso responsabile di un tale abo- losofi post-marxisti in quegli anminio, avrebbe rigato dritto per ni così cruciali non fecero altro la sua strada, comminando la cura che sbandierare le immagini dei telegiornali americani che riprenda cavallo che sarebbe servita. Nel 1981 riuscì a far approvare al devano le code dei senza tetto ai Congresso una riduzione delle ricoveri di fortuna, le manifestatasse del 25% in quattro anni e il zioni sindacali, lo smarrimento di taglio di 25 miliardi di dollari una società costretta a mettere le destinati a politiche assistenziali. cose a posto, omettendo però di Uno Stato che faceva il passo in- mandare in onda e di narrare poi dietro e un governo che si autodi- l’America che da lì in poi fioriva chiarava limitato alle funzioni co- nell’economia, nella scienza, nella stituzionali per cui era stato pre- cultura, in tutto, salvo parlare, visto, tra le quali non rientrava gli accademici keynesiani, di “miracolo” (sic), per la crescita in quella di fare business. I risultati immediati dell’azione assenza di inflazione.

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Da quella stagione mediatica fama, anch’essi liberisti, che queprende il via la narrativa del libe- sto retaggio hanno pensato bene rista cattivo, freddo calcolatore di sperperare compiendo il peccasulla pelle dei più deboli, un mar- to luciferino di ritenere di poter chio toccato anche al grande pre- invertire l’ordine degli addendi: sidente americano che però ripe- non doveva essere più il pensiero teva a testa alta: «Lo Stato non è politico ad ispirare la dottrina economica, bensì il contrario. la soluzione, è il problema». Ciò detto, non si deve cadere nel- L’esperimento nasce sotto i manl’errore di considerare il reagani- dati Clinton, il quale, democratismo una mera declinazione della co, aveva ben compreso che il dottrina economica liberista, è successo della reaganomics non poteva essere archiviato sotto nuove invece esatto il contrario. «We hold these things to be self evi- tasse o programmi governativi, dent, that all men are created equal, ovvero agenzie statali. endowed by their creator of some una- Venne lanciata, in uno stile governativo simile a lienable rights and quello oggi adottathat among others L’esperienza to da Steve Jobs, la are Life, Liberty visione clintoniana and the Pursuit of reaganiana non fu di un’economia sì Happiness», i versi una mera declinazione libera, ma globale, del poema costituche gli Usa avrebzionale redatti da del liberismo, bero dovuto cavalWilliam Jefferson, ma l’esatto contrario care forti delle prola loro pedissequa realizzazione pratica attraverso messe della new economy e quindi comportamenti e provvedimenti di una forma di produzione del governativi era l’obiettivo princi- lavoro molto meno faticosa della pe dell’amministrazione Reagan, vecchia economia brick and stone non lo sdoganamento di leggi che dei dinosauri delle precedenti disarticolavano la tradizione del amministrazioni. paese, non l’appalto a burocrati Era poi arrivato il momento della senza responsabilità di parti si- proposta di nuovi diritti come gnificative della responsabilità quello alla casa di proprietà (in personale di ogni cittadino, non quegli anni la nascita delle agenuno stile governativo proprio del- zie parastatali Fannie Mae e Freddie Mac divenute tristemente fale merchant bank. Si dà il caso che lo strumento e mose ai giorni nostri). gli uomini più adatti per opporsi È proprio in questa stagione che ad una tale deriva erano il liberi- i tecnici economici (liberisti) smo e i liberisti e i risultati sono iniziano il loro impegno nella costruzione di modelli validi al passati alla storia. Sono passati però alla storia, e sostegno del disegno immobisotto la voce “disastri”, anche liarista (una casa per tutti) del quei teorici economisti di larga giovane presidente (vedi i con-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Giampiero Ricci

tratti swap, antesignani dei famigerati derivati). Il risultato immediato fu la nascita della prima bolla speculativa che si ricordi nel passato recente, quella della new economy, che anche, grazie all’azione dell’allora governatore della Fed Greenspan, verrà scaricata sulle borse del sud-est asiatico. È innegabile che i successi dell’era reaganiana abbiano avuto l’effetto di armare il senso di onnipotenza di certa parte del mondo intellettuale liberista, esemplari in tal senso le dichiarazioni rese da Alan Greenspan davanti ad una commissione del Congresso nel pieno della crisi seguita al crollo dei crediti legati ai mutui subprime: «L’intero edificio intellettuale (...) è collassato nell’estate dell’anno scorso perché i dati inseriti nei modelli (…) avevano una copertura generalmente valida solo con riferimento alle ultime due decadi, un periodo di euforia». In pratica l’intero edificio del diritto alla casa coniato negli anni clintoniani era basato su costosi errori di valutazione. La pecca del mondo liberista è stata quella di aver dimenticato la lezione degli anni reaganiani laddove il senso della ricerca dei vari Laffer, Friedman e Niskanen risiedeva nella realizzazione pratica di un disegno che si ascriveva pienamente nel dettato costituzionale dei Padri fondatori ovvero nell’assunto hayekiano secondo cui non ci può essere democrazia senza un’economia libera.

Il fatto che il mondo intellettuale liberista non si sia battuto in alcun modo, negli anni pre-crisi per la diffusione delle ragioni extra-economicistiche che sono dietro la visione di un liberalismo senza compromessi e di una deontologia professionale legata al perseguimento di obiettivi autenticamente liberali e non meramente utilitaristici, ha finito per far defluire quelle idee nello stesso buco nero in cui il sistema economico contemporaneo occidentale è drammaticamente scivolato.

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L’Autore Giampiero ricci Giornalista pubblicista, si occupa di letterarura, cinema e cultura pop. Collabora con il quotidiano Liberal, il Domenicale, l’Occidentale e Ffwebmagazine.



QUEL CHE RESTA DI REAGAN Carlo Stagnaro

Tra successi e critiche

Il liberismo, trent’anni dopo Fino allo scorso anno, troppi avevano dato alle teorie liberiste tutte le colpe della crisi economica globale. Ma forse è vero l’esatto contrario: la recessione è figlia di una regolamentazione eccessiva e malfatta. DI CARLO STAGNARO

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Solo un anno fa, il liberismo pareva essere la vittima più eccellente, e più frettolosamente seppellita, della crisi economica. Oggi le cose si pongono in una prospettiva diversa. Il dibattito se la crisi sia la prova del fallimento del capitalismo oppure la conseguenza di una regolamentazione eccessiva e malfatta può sembrare ancora aperto. Di certo, alla discussione si è aggiunto un nuovo convitato: l’insostenibilità della spesa pubblica allegra negli Stati occidentali. In fondo, se il tema dominante non è più il salvataggio delle banche o l’opportunità di nuovi stimoli all’economia, ma la possibilità – pratica e concreta, non meramente teorica – del fallimento degli Stati (Balcerowitz 2010), non stiamo assistendo solo al decorso di una crisi più profonda e più vasta del previsto: siamo al capolinea di

un modello di organizzazione sociale. Quel modello non è l’economia di mercato, ma la presunzione di intermediare attraverso le decisioni pubbliche una quota preponderante del Prodotto interno lordo. Negli scorsi decenni, si è affermato – sia pure attraverso un percorso incoerente, fatto di frenate e accelerazioni – un rapporto tra lo Stato e l’economia che vede nel primo non solo il soggetto incaricato di scrivere le regole e, al più, agevolare la produzione dei beni pubblici, ma addirittura l’imprenditore di ultima istanza – quello che investe nelle attività che il mercato non vuole sostenere allo scopo di perseguire obiettivi extraeconomici, a partire dal sostegno dell’occupazione e per arrivare alla sostenibilità ambientale. Lo Stato ha coniugato questo suo nuovo ruolo non più (o,


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meglio, non solo) attraverso l’in- to, o addirittura se viene seriatervento diretto, per mezzo di so- mente considerata la possibilità cietà possedute o partecipate, ma di indurlo al fallimento, allora più spesso con l’uso aggressivo significa che i buoni del tesoro delle due principali leve a dispo- non sono più privi di rischio. Se sizione dei decisori pubblici: la dimensione del rischio entra quella regolatoria e quella fiscale. anche nelle finanze pubbliche, La sostanziale equivalenza di re- allora esse non sono più un pozzo golazione e tassazione (Posner senza fondo a cui attingere per 1971) fa sì che, all’atto pratico, finanziare una spesa dissennata. non vi sia una reale differenza In altre parole, per la prima volta nell’esito dell’intervento pubbli- anche lo Stato deve sottostare a co: definendo regole opportune, o un vincolo di bilancio in senso introducendo tasse ad hoc, il go- forte, che non è dettato solo (alverno può ottenere il risultato de- meno in Europa) dal vago timore siderato (in termini di prezzi e che Bruxelles potrebbe erogare delle sanzioni per quantità) riguardo la produzione di La risposta keynesiana il mancato rispetto dei parametri di un qualunque beMaastricht. Inolne o servizio. Così, alla crisi economica alcune produzioni è già screditata perché tre, per la prima volta il pubblico vengono incentisembra pronto a vate e altre disin- ritenuta inefficace giudicare i govercentivate; alcune e insostenibile nanti anche sulla industrie vengono premiate e altre punite; la capaci- base della performance delle finantà produttiva tende a essere so- ze pubbliche. Indirettamente, lo vra- o sotto-dimensionata e il prova anche il successo dell’“oroconsumo eccessivo o troppo scar- logio contadebito” sul sito so, rispetto ai livelli di mercato, a www.brunoleoni.it. seconda delle preferenze dei deci- Un secondo elemento di sclerosi del modello “welfarista” europeo sori pubblici. La crisi finanziaria prima, econo- deriva dal fatto che, proprio a mica poi, del debito sovrano infi- causa della crescente consapevone (Friedman 2009) ha introdot- lezza del vincolo di bilancio, si è to un constraint alla libertà dei aperta una discussione pubblica decisori pubblici. In primo luo- su quali siano le spese utili e go, è oggi chiaro – mentre non quali inutili; e su come rendere lo era fino a pochissimo tempo efficienti le prime e tagliare le fa, e anzi era esplicitamente seconde. In pratica, quasi nessuescluso dalla regolazione finan- no propone più la spesa pubblica ziaria – che i titoli sovrani sono come panacea di tutti i mali: la altrettanto rischiosi di quelli or- risposta keynesiana alla crisi, che dinari. Se un paese può essere co- solo un anno fa pareva coagulare stretto a ristrutturare il suo debi- consensi virtualmente unanimi,


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Carlo Stagnaro

oggi è screditata, in quanto rite- sta – un’etica pubblica favorevole nuta inefficace e insostenibile. Il al mercato e critica verso lo Starigetto del keynesismo è un feno- to, favorevole all’impegno privameno interessante e per molti to e critica verso il settore pubversi imprevisto, che testimonia blico, favorevole alla responsabianche a favore della maturità de- lità individuale e critica verso la gli elettorati. E ciò a dispetto deresponsabilizzazione collettiva. che, in assenza di vincoli, il key- In parte perché le circostanze da nesismo sia naturalmente più at- sole non bastano a dare pienatrattivo rispetto alle sue alterna- mente conto degli esiti politici: tive. Diversi studi hanno dimo- conta anche l’esistenza di una strato (Buchanan 2001, Pel- leadership forte, determinata, ed tzman 1980) che il naturale for- efficace, come è stato per Margamarsi di coalizioni sociali e ret Thatcher (Thatcher 1995, l’asimmetria tra gli interessi con- Blundell 2008) in Gran Bretacentrati dei percettori della spesa gna e Ronald Reagan negli Stati Uniti (Hayward pubblica e gli in2009, Hayward teressi diffusi dei In Italia, il liberismo 2010). beneficiari dei traOccorre chiarire sferimenti pubbli- economico è stato un punto: se nella ci tendono a favo- articolato sia a destra sua manifestaziorire l’aumento delne più recente – e la spesa. La confu- che a sinistra, ma senza contraddittoria essione dei bilanci grandi risultati pratici sa stessa, benintepubblici e l’incapacità (o impossibilità) dei più a so – il “liberismo al potere” si è capire quanto realmente essi be- collocato sulla destra dello spetneficino da, e quanto paghino tro politico, tale posizionamento per, la spesa pubblica dà luogo al non va dato né per scontato, né paradosso del churning (De Jasay per immutabile (Mingardi 1998), cioè all’incomprensibilità 2009). Peraltro, in Italia posiziodegli effetti netti della presenza ni liberiste sono state (tentativadello Stato. Sicché tutti sperano mente) articolate sia a destra, sia di vivere alle spalle di tutti gli a sinistra: con l’una più attenta al tema fiscale ma senza grandi rialtri (Bastiat 2005, p.159). In tutto questo, la risposta libe- sultati pratici, l’altra incaricata rista sembra non avere speranze – dalla storia e dal caso (Romano o, almeno, sembra uscire sfavori- 2009) di avviare il processo di ta nelle scommesse democrati- privatizzazioni e liberalizzazioni. che. In realtà non è così. In par- Qui va aperta un’ulteriore parente, perché periodicamente si im- tesi: le privatizzazioni sono state pone – attraverso sentieri miste- soprattutto uno strumento per riosi, o attraverso sentieri che in- fare cassa e dunque hanno soventerrogano più il sociologo e lo te prodotto risultati subottimali, scienziato politico dell’economi- in termini di competizione. Con-

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temporaneamente, le liberalizza- te coesa e sufficientemente ampia zioni sono state più subite che (due caratteristiche tra le quali, a promosse, più il portato degli parità di altri elementi, tende a obblighi europei – e dunque il sussistere una correlazione inverprodotto di una ricerca tecnocra- sa). Il caso paradigmatico di quetica dell’efficienza – che il risul- sta dinamica è l’Anti-Corn Law tato di una convinzione vera e League di Richard Cobden e propria. Dunque, si può sostene- John Bright, che riuscì a ottenere con ragionevole certezza che il re l’abolizione delle corn laws nelliberismo, almeno in Italia, non è la Gran Bretagna del Diciannovesimo secolo. di nessuno. In fin dei conti, però, tutto que- Si arriva, così, alla stretta attualisto non è altro che il prodotto tà. Come si diceva, la risposta delle circostanze, non spiega per- keynesiana alla crisi si è rapidaché un’etica liberista in alcuni mente rivelata insoddisfacente: momenti sia diffusa, in altri li- non ha prodotto i benefici promessi, mentre rimitata a un rischia di aggravare stretto circolo di Non può esserci problemi che oggi persone; e perché sono sotto gli ocin alcuni paesi sia sviluppo senza rigore, chi di tutti. In presente più che ma il rigore senza questo frangente – in altri. Olson (1989) aiuta a sviluppo è lo statalismo che, in modo e per ragioni e attravercomprendere la dei poveri so storie diverse, questione coniugando le riflessioni sul potere accomuna l’Europa e gli Stati delle idee (una convinzione che Uniti, entrambi alle prese con accomunava Maynard Keynes a una recessione che non accenna a Friedrich Hayek) con le scoperte rientrare e l’esplosione di deficit e della public choice sulle dinamiche debito pubblico – emerge però sociali: se l’ideologia è una sorta una radicale differenza nella ridi scorciatoia per la comprensio- sposta politica. Negli Usa, il ne del mondo da parte del citta- confronto – un po’ stilizzato – dino che non ha alcun incentivo tra democratici e repubblicani è a uscire dalla sua condizione di stato del tutto spiazzato dalla “ignoranza razionale”, in ultima comparsa dei Tea party: polarizanalisi la vittoria di un’ideologia zando il dibattito coi panni non dipende dalla sua capacità di sal- di una destra populista e antidarsi con gli interessi di alcune tasse, ma di una controrivoluziospecifiche coalizioni distributive. ne liberista che è ugualmente anDunque, il liberismo ha trionfato ti-tasse e anti-spesa (Armey e dove e quando – e potrà trionfare Kibbe 2010a, Armey e Kibbe dove e quando – il suo ethos si ri- 2010b). In Europa, questo tipo velerà conveniente per una coali- di sentimeno fatica a trovare trazione di interessi sufficientemen- duzione politica, vuoi per la di-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Carlo Stagnaro

versa cultura nazionale – negli Usa tendenzialmente più individualista e scettica verso il big government – vuoi per la minore contendibilità del potere e dei partiti (Hannan 2010). È probabile che i Tea party non si rivelino un fuoco di paglia perché essi hanno mosso una sfida troppo forte al ceto politico; anche se il personale dei Tea party uscisse sconfitto dalle elezioni di midterm – assai improbabile, dato il terremoto provocato alle primarie – essi hanno imposto la questione dello small government nel dibattito quotidiano. L’aspetto interessante è che, se Bill Clinton si collocava nel paradigma di Ronald Reagan allo stesso modo in cui Tony Blair stava in quello di Margaret Thatcher, Barack Obama si pone in continuità – ma con ben maggiore intensità – rispetto a George W. Bush. Bush ha fatto esplodere spesa e debito pubblico, Obama con le sue riforme non ha indotto un change quanto un upgrade rispetto al bushismo. La peculiarità dei Tea party sta nel fatto che non hanno portato la gente in piazza contro il “lato oscuro” delle riforme – cioè l’aumento della pressione fiscale che, nel medio termine, dovrà pareggiare l’incremento della spesa – ma contro le riforme stesse. Per gli europei può apparire incomprensibile, ma per una volta gli americani non si sono scagliati (solo) contro le tasse: si sono scagliati contro la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, e la (mancata) riforma verde.

IL LIBRO

Antipolitica, populismo o innovazione?

Negli ultimi decenni l'antipolitica, ovvero il discorso di leader che si oppongono a un establishment politico tacciato di immobilismo, inettitudine e corruzione, si è diffusa in modo così rilevante che sembra ormai rientrare nella "normalità" della democrazia. Ciò induce a chiedersi se l'antipolitica sia solo un efficace esercizio di demagogia o possa invece diventare un vero e proprio strumento di governo, al servizio di un progetto capace di trasformare il sistema politico. Il confronto fra tre leader – de Gaulle, Reagan e Berlusconi – che, presentatisi come outsider, hanno poi ricoperto le massime cariche di governo e lasciato una traccia profonda nella vicenda politica dei rispettivi paesi, permette non solo di comprendere meglio il fenomeno dell'antipolitica, ma anche di tracciare un bilancio inedito del percorso politico di Silvio Berlusconi e della sua vera o presunta eccezionalità.

L’antipolitica al governo De Gaulle, Reagan, Berlusconi Donatella Campus Il Mulino, 2006

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Da qui, derivano due probabili orientamenti. Se negli Stati Uniti (e, in modo peculiare, in Gran Bretagna) è possibile che il dibattito subisca uno spostamento verso un liberismo dal basso, nell’Europa continentale lo scenario è più confuso. Da un lato il ceto politico appare collocarsi all’interno del paradigma keynesiano, dall’altro le condizioni al contorno rendono questo paradigma decisamente impraticabile. La spesa pubblica non può essere aumentata ma deve essere ridotta, la regolamentazione è già talmente pervasiva da costituire un oggettivo impedimento per le imprese senza produrre sensibili benefici, il prelievo fiscale rappresenta un’enorme zavorra per la crescita economica che è impensabile far crescere ulteriormente. Eppure, almeno a livello di slogan, tutti risconoscono che la priorità europea è lo sviluppo. Non può esserci sviluppo senza rigore, ma il rigore senza sviluppo – cioè il contenimento della spesa una riduzione del perimetro pubblico – è lo statalismo dei poveri.

L’Autore carlo stagnaro Direttore energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni. Collabora con Il Foglio e con varie pubblicazioni italiane e straniere. Fa parte della redazione della rivista Energia e ha pubblicato articoli su testate specializzate quali Oil & Gas Journal ed Energy Tribune.

Bibliografia D. ARMEY E M. KIBBE (2010a). A Tea Party Manifesto, The Wall Street Journal, 17 agosto 2010. D. ARMEY E M. KIBBE (2010b). Give Us Liberty: A Tea Party Manifesto, New York, Harper Collins. L. BALCEROWITZ (2010). Il fallimento degli Stati sovrani nell’Unione europea: una prospettiva comparata, Torino, IBL Libri. F. BASTIAT (2005). “Lo Stato”, in Ciò che si vede e ciò che non si vede, Treviglio-Soveria Mannelli, Facco e Rubbettino. J. BLUNDELL (2008). Margaret Thatcher: A Portrait of the Iron Lady, Londra, Algora Publishing. J.M. BUCHANAN (2001). Keynesian Economics in Democratic Politics, in The Collected Works of James Buchanan, vol.8, pp.95-109. A. DE JASAY (1998). The State, Indianapolis, Liberty Fund. J. FRIEDMAN (2009). A crisis of politics, not economics: complexity, ignorance, and policy failure, Critical Review, vol.21, no.2-3, pp.127-183. D. HANNAN (2010). Why Europeans Can’t Throw a Tea Party, The Wall Street Journal, 11 ottobre 2010. S.F. HAYWARD (2009). The Age of Reagan: The Fall of the Old Liberal Order (1964-1980), New York, Three Rivers Press. S.F. HAYWARD (2010). The Age of Reagan: The Conservative Counterrevolution (1980-1989), New York, Three Rivers Press. A. MINGARDI (2009). Destra e liberalismo: conservatori per caso, Aspenia, no.46, pp.207-213. M. OLSON (1989). How Ideas Affect Societies: Is Britain the Wave of the Future?, in Gamble, A. et al. (a cura di), Ideas, Interests & Consequences, Londra, Institute of Economic Affairs, pp. 23–50. S. PELTZMAN (1980). The Growth of Government, Journal of Law and Economics, vol.23, no.2, pp.209-287. R.A. POSNER (1971). Taxation by Regulation, The Rand Journal of Economics, vol.2, no.1, pp.22-50. A. ROMANO (2009). Sinistra e liberalismo: lo strano caso italiano, Aspenia, no.46, pp.214-217. M. THATCHER (1995). The Downing Street Years, New York, Harper Collins.




QUEL CHE RESTA DI REAGAN Domenico Naso

Rivoluzione di costume

E la cultura pop sposò il reaganismo Gli anni Ottanta rappresentano ancora oggi un modello di rigoglio culturale e creativo, criticabile quanto si vuole ma centrale per comprendere la società come la conosciamo oggi. Siamo tutti figli di Reagan, volenti o nolenti. DI DOMENICO NASO

Mentre Ronald Reagan era alla Casa Bianca, nel mondo milioni e milioni di giovani vivevano da reaganiani, molto spesso senza saperlo nemmeno. E forse nemmeno lui, il vecchio Ronnie, sapeva di aver innescato un fenomeno culturale a livello globale, che avrebbe permeato di se ogni parte della società degli anni Ottanta. I critici del reaganismo, quelli che già allora parlavano di esagerata tendenza ai beni materiali e al disimpegno, avevano coniato il noto “edonismo reaganiano”, inteso come estensione moderna del vecchio concetto filosofico “che pone il fine della vita nel piacere inteso come assenza di sofferenza fisica e di turbamento morale” (la definizione è del Sabatini-Coletti). Per chi, invece, ha vissuto quegli anni come vera (e forse prima) rivoluzione borghese e liberale, il giudizio è molto meno negativo. Per loro, infatti, la de-

clinazione culturale (e sottoculturale) del reaganismo si concretizzò in un accrescimento delle libertà dell’individuo dopo i lunghi anni dell’impegno politico e del comunitarismo a tutti i costi, in una visione della vita che non era egoistica o strafottente ma solo più attenta ai sogni e ai bisogni di ognuno, convinti come si era che solo realizzando ogni singolo obiettivo si poteva raggiungere il benessere della “società”. Per questo, gli anni Ottanta rappresentano ancora oggi un modello di rigoglio culturale e creativo, criticabile e “emendabile” quanto si vuole ma centrale per comprendere il mondo così come lo conosciamo oggi. In fondo, i tempi che stiamo vivendo sono figli legittimi e riconosciuti di quegli anni: dalla moda alla musica, dal boom tecnologico e informatico alla televisione, viene tutto da lì, da quell’embrione di vi-

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talità sanamente e fieramente in- 1987, con il crollo della borsa di dividuale che ha contribuito, e New York, si chiudono gli anni non è un’esagerazione, a far pre- Ottanta finanziari, quelli della valere il modello occidentale su speculazione, del profitto, dei torbidi giochi di potere all’ombra quello comunista e sovietico. In meno di dieci anni (dal 1980 della Statua della Libertà. Ma al 1989) esplosero miriadi di ten- nemmeno la degenerazione borsidenze, mode, nuovi stili di vita. stica, né una cattiva pubblicità L’uomo occidentale smetteva i che li voleva arroganti, ignoranti panni del ribelle a tutti i costi, e materialisti, potranno cancelladel rivoluzionario antisistema, e re un fenomeno come quello yuppuntava, al contrario, a entrare in pie, che voleva essere simbolo dequel sistema, a cambiarlo secondo gli Ottanta così come gli antitei propri bisogni, a mandare via la tici hippies lo erano stati dei due polvere accumulata negli ultimi decenni precedenti. In parte ci due decenni e innescare un nuovo sono riusciti, ma il rinnegamento degli anni del dicircolo virtuoso di simpegno nei deintrapresa e inizia- I profeti del primo cenni successivi li tiva. ha trasformati in I profeti del primo reaganismo erano esempi negativi, in reaganismo socio- gli yuppies, giovani squali spietati asseculturale erano gli tati di sangue. yuppies, i giovani rampanti protagonisti Nella cultura porampanti che al- del boom economico polare, due film l’inizio degli Ottanta furono i protagonisti asso- hanno raccontato in maniera luti del boom economico (o sareb- esaustiva quell’universo: Wall be meglio definirla bolla?). Gli Street (1987) e Una donna in caryoung urban professionals (questo il riera (1988). Nel primo, Michael significato del nomignolo) aveva- Douglas incarna tutti gli stravizi no più o meno le stesse caratteri- dello yuppie newyorkese avido di stiche: età compresa tra 25 e 39 denaro, senza remore morali né anni, laurea, conto in banca cor- scrupoli. Nel secondo, invece, la poso, indole egocentrica, iperatti- gioventù carrierista di quegli anvità, ossessione per la cura del ni ha lo sguardo dolce e l’orgoglio proprio aspetto, fissazione per le fiero di Melanie Griffith, anonimode del momento. Il settimana- ma segretaria che riesce a scalare i le Newsweek aveva dedicato loro la vertici della finanza usando amcopertina del 31 dicembre 1984, bizione e talento, insieme a un decretandoli i protagonisti asso- paio di trucchetti poco ortodossi. luti di quell’anno. New York era Tra le due rappresentazioni di il loro regno, Wall Street il loro quell’universo, è forse quest’ultiinespugnabile castello. Eppure, ma che ci permette di analizzare in pochi anni, gli yuppies hanno con obiettività il substrato pop visto crollare il loro mondo. Nel del fenomeno yuppie. Nel film di


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Domenico Naso

Mike Nichols, forse un po’ trop- dell’America reaganiana?», la po zuccheroso e buonista, c’è co- suddetta popstar reagirebbe malismunque l’essenza migliore di simo. E invece, volente o nolente, quel periodo: il giusto mix tra la material girl italoamericana è ambizione e talento, i desideri di stata davvero l’icona di quegli anuna generazione che vuole arriva- ni. Una ragazza indipendente, re al top, anche partendo dagli controversa, trasgressiva, ma anstrati più bassi della società. È che simbolo di un individualismo l’American way of life che incontra spinto che puntava al soddisfacil’American dream. È Doris Day che mento dei piaceri personali. Tra smette i panni di casalinga e vuo- seni puntuti e aneliti libertari, le sfondare a Wall Street. È il rea- quella ragazza era, ed è, un simganismo puro, senza deviazioni bolo di un periodo irripetibile e di sorta. È l’individuo che crede incancellabile della storia della nelle proprie capacità e vuole far- cultura popolare. Così come lo è le fruttare. Senza chiedere aiuto a stato, forse addirittura di più, quel Michael nessuno, tantomeJackson che più no allo Stato. Soli Al cinema, la Griffith volte ha incontracontro il Moloch. Soli contro le ren- incarna il volto migliore to Reagan, che con il presidente ha dite di posizione. dell’American dream. intrattenuto addiE ogni tanto va a finire bene, con È l’individuo che crede rittura un carteggio. Ronnie, ad Melanie Griffith nelle proprie capacità esempio, aveva che si gode, incredula, il suo ufficio ai piani alti, scritto al Re del pop dopo il bizmentre le sue ex colleghe segreta- zarro incidente con il fuoco durie, nell’angusto open space che le rante la registrazione di uno spot accoglie tutte come api operaie, per la Pepsi, ricordando come esultano e un po’ la invidiano, “milioni di americani” vedessero perché in fondo quello è il sogno in lui un simbolo anche perché, rimarcava con enfasi il presidente di tutte. Ma la pop culture di stampo reaga- americano, la sua «profonda fede niano non è solo affarismo e car- in Dio e l’adesione ai valori tradirierismo. Anzi, spesso è tutt’al- zionali sono un’ispirazione per tro. Spesso è proprio qualcosa che noi tutti, specialmente per i gionasce contro ciò che Reagan rap- vani che cercano qualcosa di reale presentava, per finire poi a incar- in cui credere». L’uomo più ponarne appieno il senso profondo, tente del mondo, in buona soil sottotesto. È il caso di Madon- stanza, scrive all’uomo più famona, giusto per citare il più clamo- so del mondo, e lo esalta come roso fenomeno di cultura popola- modello tradizionale. Jackson, in re degli anni Ottanta. Se qualcu- fondo, era davvero l’uomo più no andasse oggi da Madonna e le reaganiano del globo, in quanto chiedesse: «Lei è stata il simbolo self made man, ma veramente però,

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IL FILM

Gli squali di Wall Street

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New York 1985. A Wall Street l’unica cosa che conta è il potere del denaro. Giovani e rampanti yuppies, laureati nelle business school più prestigiose del mondo speculano in borsa con l’unico obiettivo di guadagnare molto e subito. Bud Fox (per gli amici Buddy) è un brillante ed anonimo broker pronto a tutto per raggiungere la gloria. «Il successo si condensa in pochi attimi», è questo il motto di Buddy e quando l’occasione gli si presenta non se la lascia sfuggire. Il suo destino cambierà drasticamente dopo l’incontro con il cinico e spregiudicato finanziere d’assalto Gordon Gekko, idolo dei “ragazzi” di Wall Street. Molto presto il giovane broker capirà con chi ha a che fare e, come in borsa ad immense fortune guadagnate in poche ore si susseguono rovinosi fallimenti, anche nella vita di Buddy al momento di gloria seguirà la rovina. “Gekko il grande”, lo squalo del New York Stock Exchange, non si fermerà davanti a niente e a nessuno per raggiungere il suo scopo. I sogni di Buddy verranno infranti e si dissolveranno come i numeri delle quotazioni che appaiono sui monitor di Wall Street.

non solo in senso figurato. Per appagare i propri bisogni individuali, la popstar non aveva esitato a modificare radicalmente il suo corpo, perché nell’epoca dell’edonismo reaganiano, se non faccio male a nessuno io sono libero di perseguire la mia felicità. Sempre e comunque. E nell’Italia craxiana di quegli anni, il reaganismo è arrivato? Sì e no, perché quando ciò è successo, gli effetti sono stati annacquati, modificati, adeguati alle nostre esigenze provinciali. La versione milanese degli yuppies, ad esempio, era greve, volgare, cafona, arricchita. Si ostentava una ricchezza effimera come status symbol e, peggio ancora, chiave per aprire le porte del paradiso politico. Erano gli anni della Milano da bere, dominata da nani e ballerine e ragazzotti su auto sportive, con Rolex costosissimi rigorosamente sul polsino (Avvocato docet). Non c’era slancio idealista ma voglia di accumulare, possedere e spendere. Il “lavoro, guadagno, pago, pretendo” (detto con forte inflessione meneghina) nasce in quegli anni e presenta al mondo la versione riveduta e corretta del “cummenda” dei decenni precedenti. E, per quanto riguarda i riferimenti cinematografici, noi dobbiamo accontentarci di Yuppies, film del 1986 di Carlo Vanzina, con il solito cast da cinepanettone: Massimo Boldi, Christian De Sica, Jerry Calà, Ezio Greggio e Sergio Vastano. E tra una battutaccia e uno sketch volgare, veniva rappresentata quell’Italia stracafonal che solo sei an-


QUEL CHE RESTA DI REAGAN Domenico Naso

ni dopo crollerà sotto i colpi del pool di Milano. Ma il vero fenomeno italiano di quegli anni, che da Milano (allora davvero capitale morale d’Italia) si irradierà in tutto il mondo, è quello dei “paninari”. Figli del disimpegno e del benessere, i paninari non volevano sentir parlare di politica, società, impegno e tutto ciò che nel decennio precedente aveva dominato il panorama italiano. Bomber Schott, scarpe Timberland ai piedi, tutto NajOleari per le ragazze, hamburger a pranzo e a cena, Duran Duran come miti musicali. È la gioventù del Drive In di Italia 1, di Deejay Television, di Sposerò Simon Le Bon, di Cioè e Il Paninaro come pubblicazioni di riferimento. E lo slang di Enzo Braschi, che rilanciò la subcultura paninara in Tv, aveva perfettamente riproposto un vocabolario buffo, divertente e tremendamente milanese che la farà da padrone per tutto il decennio. Ma torniamo in America, e tentiamo di volare un po’ più alto. Gli anni Ottanta sono anche un’esplosione moderna e sfacciata dell’arte contemporanea. New York è il centro di un mondo artistico maledetto e disordinato, dominato da Andy Warhol e dalla sua pop art, e arricchito dalle brevi ma indimenticabili parabole di due giovani deviati e devianti (secondo i benpensanti), creativi e rivoluzionari (secondo chi li ha apprezzati) come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. L’arte si fa in serie, tutto è in commercio. I quadri diventano brand, gli omini di Haring sono

il simbolo ultrapop di un’epoca. E Keith Haring è anche l’esempio migliore del decennio dell’Aids, la nuova peste che proprio negli anni Ottanta esplode e spaventa milioni di persone in tutto il mondo. I Warhol boys sono, ovviamente, l’antitesi dell’ideologia politica reaganiana. Eppure, anche in questo caso il paradosso sta proprio nell’assoluta aderenza al reaganismo dell’antireaganismo artistico e culturale. È questo che nessuno, né loro né, tantomeno, Ronald Reagan, avevano capito. Tutti gli anni Ottanta sono figli (legittimi o meno) dell’attore che si fece presidente, dell’uomo dai saldi principi morali e che invece, volente o nolente, ha partorito un decennio irregolare e fuori dagli schemi che, tra soldi, droghe, Aids, arte e disimpegno, ha costruito la società di oggi. Noi seguaci e nostalgici dell’era d’oro della pop culture, siamo tutti figli suoi. Chissà se ne sarebbe contento.

L’Autore domenico naso Giornalista, si occupa di politica, televisione e cultura pop. Scrive per il Secolo d’Italia e Ffwebmagazine, per il quale cura anche la rubrica di critica televisiva Television Republic. Ha lavorato per la rivista Ideazione.

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gli strumenti di

In tre discorsi pubblici che hanno lasciato il segno, ripercorriamo la storia politica di Ronald Reagan e della sua presidenza. Pubblichiamo qui di seguito in lingua originale A Time

for Choosing, l’appello che Reagan affidò all’etere in occasione della candidatura alla presidenza di Barry Goldwater nel 1964. Nel discorso di insediamento, il 20 gennaio del 1981, il neopresidente cerca di scuotere un paese sfiduciato e in crisi d’identità. Infine il discorso, celeberrimo e profetico, tenuto sotto la Porta di Brandeburgo, in una Berlino ancora sfregiata dal Muro. Quando, rivolgendosi al suo omologo sovietico, Mikhail Gorbaciov, lo incalzò con parole passate alla storia: «Ge-

neral Secretary Gorbachev, if you seek peace, if you seek prosperity for the Soviet Union and Eastern Europe, if you seek liberalization: come here to this gate! Mr. Gorbachev, open this gate! Mr. Gorbachev, tear down this wall!» Era il 12 giugno del 1987 e in tanti lo presero per un visionario. Due anni e cinque mesi più tardi, il Muro non c’era più.


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A Time for Choosing (Discorso televisivo tenuto il 27 ottobre 1964, in occasione della candidatura di Barry Goldwateralla presidenza degli Stati Uniti)

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Thank you. Thank you very much. Thank you and good evening. The sponsor has been identified, but unlike most television programs, the performer hasn’t been provided with a script. As a matter of fact, I have been permitted to choose my own words and discuss my own ideas regarding the choice that we face in the next few weeks. I have spent most of my life as a Democrat. I recently have seen fit to follow another course. I believe that the issues confronting us cross party lines. Now, one side in this campaign has been telling us that the issues of this election are the maintenance of peace and prosperity. The line has been used, “We’ve never had it so good.” But I have an uncomfortable feeling that this prosperity isn’t something on which we can base our hopes for the future. No nation in history has ever survived a tax burden that reached a third of its national income. Today, 37 cents out of every dollar earned in this country is the tax collector’s share, and yet our government continues to spend 17 million dollars a day more than the government takes in. We haven’t balanced our budget 28 out of the last 34 years. We’ve raised our debt limit three times in the last

twelve months, and now our national debt is one and a half times bigger than all the combined debts of all the nations of the world. We have 15 billion dollars in gold in our treasury; we don’t own an ounce. Foreign dollar claims are 27.3 billion dollars. And we’ve just had announced that the dollar of 1939 will now purchase 45 cents in its total value. As for the peace that we would preserve, I wonder who among us would like to approach the wife or mother whose husband or son has died in South Vietnam and ask them if they think this is a peace that should be maintained indefinitely. Do they mean peace, or do they mean we just want to be left in peace? There can be no real peace while one American is dying some place in the world for the rest of us. We’re at war with the most dangerous enemy that has ever faced mankind in his long climb from the swamp to the stars, and it’s been said if we lose that war, and in so doing lose this way of freedom of ours, history will record with the greatest astonishment that those who had the most to lose did the least to prevent its happening. Well I think it’s time we ask ourselves if we still know the freedoms that were intended for us by the Founding Fathers. Not too long ago, two friends of mine were talking to a Cuban refugee, a businessman who had escaped from Castro, and in the midst of his story one of my friends turned to the other and said, “We don’t know how lucky


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we are.” And the Cuban stopped and said, “How lucky you are? I had someplace to escape to.” And in that sentence he told us the entire story. If we lose freedom here, there’s no place to escape to. This is the last stand on earth.And this idea that government is beholden to the people, that it has no other source of power except the sovereign people, is still the newest and the most unique idea in all the long history of man’s relation to man. This is the issue of this election: whether we believe in our capacity for self-government or whether we abandon the American revolution and confess that a little intellectual elite in a far- distant capitol can plan our lives for us better than we can plan them ourselves. You and I are told increasingly we have to choose between a left or right. Well I’d like to suggest there is no such thing as a left or right. There’s only an up or down: [up] man’s old – old-aged dream, the ultimate in individual freedom consistent with law and order, or down to the ant heap of totalitarianism. And regardless of their sincerity, their humanitarian motives, those who would trade our freedom for security have embarked on this downward course. In this vote-harvesting time, they use terms like the “Great Society,” or as we were told a few days ago by the President, we must accept a greater government activity in the affairs of the people. But they’ve been a little more explicit in the past and among

themselves; and all of the things I now will quote have appeared in print. These are not Republican accusations. For example, they have voices that say, “The cold war will end through our acceptance of a not undemocratic socialism.” Another voice says, “The profit motive has become outmoded. It must be replaced by the incentives of the welfare state.” Or, “Our traditional system of individual freedom is incapable of solving the complex problems of the 20th century.” Senator Fulbright has said at Stanford University that the Constitution is outmoded. He referred to the President as “our moral teacher and our leader,” and he says he is “hobbled in his task by the restrictions of power imposed on him by this antiquated document.” He must “be freed,” so that he “can do for us” what he knows “is best.” And Senator Clark of Pennsylvania, another articulate spokesman, defines liberalism as “meeting the material needs of the masses through the full power of centralized government.” Well, I, for one, resent it when a representative of the people refers to you and me, the free men and women of this country, as “the masses.” This is a term we haven’t applied to ourselves in America. But beyond that, “the full power of centralized government” – this was the very thing the Founding Fathers sought to minimize. They knew that governments don’t control things. A government can’t control the economy without control-

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ling people. And they know when a government sets out to do that, it must use force and coercion to achieve its purpose. They also knew, those Founding Fathers, that outside of its legitimate functions, government does nothing as well or as economically as the private sector of the economy. Now, we have no better example of this than government’s involvement in the farm economy over the last 30 years. Since 1955, the cost of this program has nearly doubled. Onefourth of farming in America is responsible for 85% of the farm surplus. Three-fourths of farming is out on the free market and has known a 21% increase in the per capita consumption of all its produce. You see, that one-fourth of farming – that’s regulated and controlled by the federal government. In the last three years we’ve spent 43 dollars in the feed grain program for every dollar bushel of corn we don’t grow. Senator Humphrey last week charged that Barry Goldwater, as President, would seek to eliminate farmers. He should do his homework a little better, because he’ll find out that we’ve had a decline of 5 million in the farm population under these government programs. He’ll also find that the Democratic administration has sought to get from Congress [an] extension of the farm program to include that three-fourths that is now free. He’ll find that they’ve also asked for the right to imprison farmers who

wouldn’t keep books as prescribed by the federal government. The Secretary of Agriculture asked for the right to seize farms through condemnation and resell them to other individuals. And contained in that same program was a provision that would have allowed the federal government to remove 2 million farmers from the soil. At the same time, there’s been an increase in the Department of Agriculture employees. There’s now one for every 30 farms in the United States, and still they can’t tell us how 66 shiploads of grain headed for Austria disappeared without a trace and Billie Sol Estes never left shore. Every responsible farmer and farm organization has repeatedly asked the government to free the farm economy, but how – who are farmers to know what’s best for them? The wheat farmers voted against a wheat program. The government passed it anyway. Now the price of bread goes up; the price of wheat to the farmer goes down. Meanwhile, back in the city, under urban renewal the assault on freedom carries on. Private property rights [are] so diluted that public interest is almost anything a few government planners decide it should be. In a program that takes from the needy and gives to the greedy, we see such spectacles as in Cleveland, Ohio, a million-and-a-half-dollar building completed only three years ago must be destroyed to make way for what government officials call a “more com-


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patible use of the land.” The President tells us he’s now going to start building public housing units in the thousands, where heretofore we’ve only built them in the hundreds. But FHA [Federal Housing Authority] and the Veterans Administration tell us they have 120,000 housing units they’ve taken back through mortgage foreclosure. For three decades, we’ve sought to solve the problems of unemployment through government planning, and the more the plans fail, the more the planners plan. The latest is the Area Redevelopment Agency. They’ve just declared Rice County, Kansas, a depressed area. Rice County, Kansas, has two hundred oil wells, and the 14,000 people there have over 30 million dollars on deposit in personal savings in their banks. And when the government tells you you’re depressed, lie down and be depressed. We have so many people who can’t see a fat man standing beside a thin one without coming to the conclusion the fat man got that way by taking advantage of the thin one. So they’re going to solve all the problems of human misery through government and government planning. Well, now, if government planning and welfare had the answer – and they’ve had almost 30 years of it – shouldn’t we expect government to read the score to us once in a while? Shouldn’t they be telling us about the decline each year in the number of people needing help? The reduction in the need for

public housing? But the reverse is true. Each year the need grows greater; the program grows greater. We were told four years ago that 17 million people went to bed hungry each night. Well that was probably true. They were all on a diet. But now we’re told that 9.3 million families in this country are poverty-stricken on the basis of earning less than 3,000 dollars a year. Welfare spending [is] 10 times greater than in the dark depths of the Depression. We’re spending 45 billion dollars on welfare. Now do a little arithmetic, and you’ll find that if we divided the 45 billion dollars up equally among those 9 million poor families, we’d be able to give each family 4,600 dollars a year. And this added to their present income should eliminate poverty. Direct aid to the poor, however, is only running only about 600 dollars per family. It would seem that someplace there must be some overhead. Now – so now we declare “war on poverty,” or “You, too, can be a Bobby Baker.” Now do they honestly expect us to believe that if we add 1 billion dollars to the 45 billion we’re spending, one more program to the 30-odd we have – and remember, this new program doesn’t replace any, it just duplicates existing programs – do they believe that poverty is suddenly going to disappear by magic? Well, in all fairness I should explain there is one part of the new program that isn’t duplicated. This is the youth feature.

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We’re now going to solve the dropout problem, juvenile delinquency, by reinstituting something like the old CCC camps [Civilian Conservation Corps], and we’re going to put our young people in these camps. But again we do some arithmetic, and we find that we’re going to spend each year just on room and board for each young person we help 4,700 dollars a year. We can send them to Harvard for 2,700! Course, don’t get me wrong. I’m not suggesting Harvard is the answer to juvenile delinquency. But seriously, what are we doing to those we seek to help? Not too long ago, a judge called me here in Los Angeles. He told me of a young woman who’d come before him for a divorce. She had six children, was pregnant with her seventh. Under his questioning, she revealed her husband was a laborer earning 250 dollars a month. She wanted a divorce to get an 80 dollar raise. She’s eligible for 330 dollars a month in the Aid to Dependent Children Program. She got the idea from two women in her neighborhood who’d already done that very thing. Yet anytime you and I question the schemes of the do-gooders, we’re denounced as being against their humanitarian goals. They say we’re always “against” things – we’re never “for” anything. Well, the trouble with our liberal friends is not that they’re ignorant; it’s just that they know so much that isn’t so.

Now – we’re for a provision that destitution should not follow unemployment by reason of old age, and to that end we’ve accepted Social Security as a step toward meeting the problem. But we’re against those entrusted with this program when they practice deception regarding its fiscal shortcomings, when they charge that any criticism of the program means that we want to end payments to those people who depend on them for a livelihood. They’ve called it “insurance” to us in a hundred million pieces of literature. But then they appeared before the Supreme Court and they testified it was a welfare program. They only use the term “insurance” to sell it to the people. And they said Social Security dues are a tax for the general use of the government, and the government has used that tax. There is no fund, because Robert Byers, the actuarial head, appeared before a congressional committee and admitted that Social Security as of this moment is 298 billion dollars in the hole. But he said there should be no cause for worry because as long as they have the power to tax, they could always take away from the people whatever they needed to bail them out of trouble. And they’re doing just that. A young man, 21 years of age, working at an average salary – his Social Security contribution would, in the open market, buy him an insurance policy that would guarantee 220 dollars a


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month at age 65. The government promises 127. He could live it up until he’s 31 and then take out a policy that would pay more than Social Security. Now are we so lacking in business sense that we can’t put this program on a sound basis, so that people who do require those payments will find they can get them when they’re due – that the cupboard isn’t bare? Barry Goldwater thinks we can. At the same time, can’t we introduce voluntary features that would permit a citizen who can do better on his own to be excused upon presentation of evidence that he had made provision for the non-earning years? Should we not allow a widow with children to work, and not lose the benefits supposedly paid for by her deceased husband? Shouldn’t you and I be allowed to declare who our beneficiaries will be under this program, which we cannot do? I think we’re for telling our senior citizens that no one in this country should be denied medical care because of a lack of funds. But I think we’re against forcing all citizens, regardless of need, into a compulsory government program, especially when we have such examples, as was announced last week, when France admitted that their Medicare program is now bankrupt. They’ve come to the end of the road. In addition, was Barry Goldwater so irresponsible when he suggested that our government give up its program of deliberate, planned inflation, so

that when you do get your Social Security pension, a dollar will buy a dollar’s worth, and not 45 cents worth? I think we’re for an international organization, where the nations of the world can seek peace. But I think we’re against subordinating American interests to an organization that has become so structurally unsound that today you can muster a two-thirds vote on the floor of the General Assembly among nations that represent less than 10 percent of the world’s population. I think we’re against the hypocrisy of assailing our allies because here and there they cling to a colony, while we engage in a conspiracy of silence and never open our mouths about the millions of people enslaved in the Soviet colonies in the satellite nations. I think we’re for aiding our allies by sharing of our material blessings with those nations which share in our fundamental beliefs, but we’re against doling out money government to government, creating bureaucracy, if not socialism, all over the world. We set out to help 19 countries. We’re helping 107. We’ve spent 146 billion dollars. With that money, we bought a 2 million dollar yacht for Haile Selassie. We bought dress suits for Greek undertakers, extra wives for Kenya[n] government officials. We bought a thousand TV sets for a place where they have no electricity. In the last six years, 52 nations have bought 7 billion dollars worth of our gold, and all 52 are receiving foreign aid from this

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country. No government ever voluntarily reduces itself in size. So, governments’ programs, once launched, never disappear. Actually, a government bureau is the nearest thing to eternal life we’ll ever see on this earth. Federal employees – federal employees number two and a half million; and federal, state, and local, one out of six of the nation’s work force employed by government. These proliferating bureaus with their thousands of regulations have cost us many of our constitutional safeguards. How many of us realize that today federal agents can invade a man’s property without a warrant? They can impose a fine without a formal hearing, let alone a trial by jury? And they can seize and sell his property at auction to enforce the payment of that fine. In Chico County, Arkansas, James Wier over-planted his rice allotment. The government obtained a 17,000 dollar judgment. And a U.S. marshal sold his 960-acre farm at auction. The government said it was necessary as a warning to others to make the system work. Last February 19th at the University of Minnesota, Norman Thomas, sixtimes candidate for President on the Socialist Party ticket, said, “If Barry Goldwater became President, he would stop the advance of socialism in the United States.” I think that’s exactly what he will do. But as a former Democrat, I can tell

you Norman Thomas isn’t the only man who has drawn this parallel to socialism with the present administration, because back in 1936, Mr. Democrat himself, Al Smith, the great American, came before the American people and charged that the leadership of his Party was taking the Party of Jefferson, Jackson, and Cleveland down the road under the banners of Marx, Lenin, and Stalin. And he walked away from his Party, and he never returned til the day he died – because to this day, the leadership of that Party has been taking that Party, that honorable Party, down the road in the image of the labor Socialist Party of England. Now it doesn’t require expropriation or confiscation of private property or business to impose socialism on a people. What does it mean whether you hold the deed to the – or the title to your business or property if the government holds the power of life and death over that business or property? And such machinery already exists. The government can find some charge to bring against any concern it chooses to prosecute. Every businessman has his own tale of harassment. Somewhere a perversion has taken place. Our natural, unalienable rights are now considered to be a dispensation of government, and freedom has never been so fragile, so close to slipping from our grasp as it is at this moment. Our Democratic opponents seem unwilling to debate these issues. They


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want to make you and I believe that this is a contest between two men – that we’re to choose just between two personalities. Well what of this man that they would destroy – and in destroying, they would destroy that which he represents, the ideas that you and I hold dear? Is he the brash and shallow and trigger- happy man they say he is? Well I’ve been privileged to know him “when.” I knew him long before he ever dreamed of trying for high office, and I can tell you personally I’ve never known a man in my life I believed so incapable of doing a dishonest or dishonorable thing. This is a man who, in his own business before he entered politics, instituted a profit-sharing plan before unions had ever thought of it. He put in health and medical insurance for all his employees. He took 50 percent of the profits before taxes and set up a retirement program, a pension plan for all his employees. He sent monthly checks for life to an employee who was ill and couldn’t work. He provides nursing care for the children of mothers who work in the stores. When Mexico was ravaged by the floods in the Rio Grande, he climbed in his airplane and flew medicine and supplies down there. An ex-GI told me how he met him. It was the week before Christmas during the Korean War, and he was at the Los Angeles airport trying to get a ride home to Arizona for Christmas. And he said that [there were] a lot of

servicemen there and no seats available on the planes. And then a voice came over the loudspeaker and said, “Any men in uniform wanting a ride to Arizona, go to runway such-andsuch,” and they went down there, and there was a fellow named Barry Goldwater sitting in his plane. Every day in those weeks before Christmas, all day long, he’d load up the plane, fly it to Arizona, fly them to their homes, fly back over to get another load. During the hectic split-second timing of a campaign, this is a man who took time out to sit beside an old friend who was dying of cancer. His campaign managers were understandably impatient, but he said, “There aren’t many left who care what happens to her. I’d like her to know I care.” This is a man who said to his 19-year-old son, “There is no foundation like the rock of honesty and fairness, and when you begin to build your life on that rock, with the cement of the faith in God that you have, then you have a real start.” This is not a man who could carelessly send other people’s sons to war. And that is the issue of this campaign that makes all the other problems I’ve discussed academic, unless we realize we’re in a war that must be won. Those who would trade our freedom for the soup kitchen of the welfare state have told us they have a utopian solution of peace without victory. They call their policy “accommodation.” And they say if we’ll only avoid any direct confrontation with the en-

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emy, he’ll forget his evil ways and learn to love us. All who oppose them are indicted as warmongers. They say we offer simple answers to complex problems. Well, perhaps there is a simple answer – not an easy answer – but simple: If you and I have the courage to tell our elected officials that we want our national policy based on what we know in our hearts is morally right. We cannot buy our security, our freedom from the threat of the bomb by committing an immorality so great as saying to a billion human beings now enslaved behind the Iron Curtain, “Give up your dreams of freedom because to save our own skins, we’re willing to make a deal with your slave masters.” Alexander Hamilton said, “A nation which can prefer disgrace to danger is prepared for a master, and deserves one.” Now let’s set the record straight. There’s no argument over the choice between peace and war, but there’s only one guaranteed way you can have peace – and you can have it in the next second – surrender. Admittedly, there’s a risk in any course we follow other than this, but every lesson of history tells us that the greater risk lies in appeasement, and this is the specter our well-meaning liberal friends refuse to face – that their policy of accommodation is appeasement, and it gives no choice between peace and war, only between fight or surrender. If we continue to accommodate, continue to back and

retreat, eventually we have to face the final demand – the ultimatum. And what then – when Nikita Khrushchev has told his people he knows what our answer will be? He has told them that we’re retreating under the pressure of the Cold War, and someday when the time comes to deliver the final ultimatum, our surrender will be voluntary, because by that time we will have been weakened from within spiritually, morally, and economically. He believes this because from our side he’s heard voices pleading for “peace at any price” or “better Red than dead,” or as one commentator put it, he’d rather “live on his knees than die on his feet.” And therein lies the road to war, because those voices don’t speak for the rest of us. You and I know and do not believe that life is so dear and peace so sweet as to be purchased at the price of chains and slavery. If nothing in life is worth dying for, when did this begin – just in the face of this enemy? Or should Moses have told the children of Israel to live in slavery under the pharaohs? Should Christ have refused the cross? Should the patriots at Concord Bridge have thrown down their guns and refused to fire the shot heard ‘round the world? The martyrs of history were not fools, and our honored dead who gave their lives to stop the advance of the Nazis didn’t die in vain. Where, then, is the road to peace? Well it’s a simple answer after all.


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You and I have the courage to say to our enemies, “There is a price we will not pay.” “There is a point beyond which they must not advance.” And this – this is the meaning in the phrase of Barry Goldwater’s “peace through strength.” Winston Churchill said, “The destiny of man is not measured by material computations. When great forces are on the move in the world, we learn we’re spirits – not animals.” And he said, “There’s something going on in time and space, and beyond time and space, which, whether we like it or not, spells duty.” You and I have a rendezvous with destiny. We’ll preserve for our children this, the last best hope of man on earth, or we’ll sentence them to take the last step into a thousand years of darkness. We will keep in mind and remember that Barry Goldwater has faith in us. He has faith that you and I have the ability and the dignity and the right to make our own decisions and determine our own destiny. Thank you very much. Inaugural Address (Dicorso di insediamento dopo l’elezione alla carica di presidente degli Stati Uniti, 20 gennaio, 1981) Senator Hatfield, Mr. Chief Justice, Mr. President, Vice President Bush, Vice President Mondale, Senator Baker, Speaker O’Neill, Reverend Moomaw, and my fellow citizens:

To a few of us here today this is a solemn and most momentous occasion, and yet in the history of our nation it is a commonplace occurrence. The orderly transfer of authority as called for in the Constitution routinely takes place, as it has for almost two centuries, and few of us stop to think how unique we really are. In the eyes of many in the world, this every-4year ceremony we accept as normal is nothing less than a miracle. Mr. President, I want our fellow citizens to know how much you did to carry on this tradition. By your gracious cooperation in the transition process, you have shown a watching world that we are a united people pledged to maintaining a political system which guarantees individual liberty to a greater degree than any other, and I thank you and your people for all your help in maintaining the continuity which is the bulwark of our Republic. The business of our nation goes forward. These United States are confronted with an economic affliction of great proportions. We suffer from the longest and one of the worst sustained inflations in our national history. It distorts our economic decisions, penalizes thrift, and crushes the struggling young and the fixed-income elderly alike. It threatens to shatter the lives of millions of our people. Idle industries have cast workers into unemployment, human misery, and personal indignity. Those who do work are denied a fair return for their

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labor by a tax system which penalizes successful achievement and keeps us from maintaining full productivity. But great as our tax burden is, it has not kept pace with public spending. For decades we have piled deficit upon deficit, mortgaging our future and our children’s future for the temporary convenience of the present. To continue this long trend is to guarantee tremendous social, cultural, political, and economic upheavals. You and I, as individuals, can, by borrowing, live beyond our means, but for only a limited period of time. Why, then, should we think that collectively, as a nation, we’re not bound by that same limitation? We must act today in order to preserve tomorrow. And let there be no misunderstanding: We are going to begin to act, beginning today. The economic ills we suffer have come upon us over several decades. They will not go away in days, weeks, or months, but they will go away. They will go away because we as Americans have the capacity now, as we’ve had in the past, to do whatever needs to be done to preserve this last and greatest bastion of freedom. In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem. From time to time we’ve been tempted to believe that society has become too complex to bemanaged by self-rule, that government by an elite group is superior to government for, by, and of the people. Well, if no one among us is capa-

ble of governing himself, then who among us has the capacity to govern someone else? All of us together, in and out of government, must bear the burden. The solutions we seek must be equitable, with no one group singled out to pay a higher price. We hear much of special interest groups. Well, our concern must be for a special interest group that has been too long neglected. It knows no sectional boundaries or ethnic and racial divisions, and it crosses political party lines. It is made up of men and women who raise our food, patrol our streets, man our mines and factories, teach our children, keep our homes, and heal us when we’re sick – professionals, industrialists, shopkeepers, clerks, cabbies, and truck drivers. They are, in short, “We the people’,’ this breed called Americans. Well, this administration’s objective will be a healthy, vigorous, growing economy that provides equal opportunities for all Americans with no barriers born of bigotry or discrimination. Putting America back to work means putting all Americans back to work. Ending inflation means freeing all Americans from the terror of runaway living costs. All must share in the productive work of this ``new beginning,’’ and all must share in the bounty of a revived economy. With the idealism and fair play which are the core of our system and our strength, we can have a strong and prosperous America, at peace with itself and the world.


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So, as we begin, let us take inventory. We are a nation that has a government – not the other way around. And this makes us special among the nations of the Earth. Our government has no power except that granted it by the people. It is time to check and reverse the growth of government, which shows signs of having grown beyond the consent of the governed. It is my intention to curb the size and influence of the Federal establishment and to demand recognition of the distinction between the powers granted to the Federal Government and those reserved to the States or to the people. All of us need to be reminded that the Federal Government did not create the States; the States created the Federal Government. Now, so there will be no misunderstanding, it’s not my intention to do away with government. It is rather to make it work – work with us, not over us; to stand by our side, not ride on our back. Government can and must provide opportunity, not smother it; foster productivity, not stifle it. If we look to the answer as to why for so many years we achieved so much, prospered as no other people on Earth, it was because here in this land we unleashed the energy and individual genius of man to a greater extent than has ever been done before. Freedom and the dignity of the individual have been more available and assured here than in any other place on Earth. The price for this freedom

at times has been high, but we have never been unwilling to pay that price. It is no coincidence that our present troubles parallel and are proportionate to the intervention and intrusion in our lives that result from unnecessary and excessive growth of government. It is time for us to realize that we’re too great a nation to limit ourselves to small dreams. We’re not, as so me w o ul d h av e us b el i ev e, doomed to an inevitable decline. I do not believe in a fate that will fall on us no matter what we do. I do believe in a fate that will fall on us if we do nothing. So, with all the creative energy at our command, let us begin an era of national renewal. Let us renew our determination, our courage, and our strength. And let us renew our faith and our hope. We have every right to dream heroic dreams. Those who say that we’re in a time when there are not heroes, they just don’t know where to look. You can see heroes every day going in and out of factory gates. Others, a handful in number, produce enough food to feed all of us and then the world beyond. You meet heroes across a counter, and they’re on both sides of that counter. There are entrepreneurs with faith in themselves and faith in an idea who create new jobs, new wealth and opportunity. They’re individuals and families whose taxes support the government and whose voluntary gifts support church, charity,

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culture, art, and education. Their patriotism is quiet, but deep. Their values sustain our national life. Now, I have used the words ``they’’ and ``their’’ in speaking of these heroes. I could say ``you’’ and ``your,’’ because I’m addressing the heroes of whom I speak – you, the citizens of this blessed land. Your dreams, your hopes, your goals are going to be the dreams, the hopes, and the goals of this administration, so help me God. We shall reflect the compassion that is so much a part of your makeup. How can we love our country and not love our countrymen; and loving them, reach out a hand when they fall, heal them when they’re sick, and provide opportunity to make them self-sufficient so they will be equal in fact and not just in theory? Can we solve the problems confronting us? Well, the answer is an unequivocal and emphatic ``yes.’’ To paraphrase Winston Churchill, I did not take the oath I’ve just taken with the intention of presiding over the dissolution of the world’s strongest economy. In the days ahead I will propose removing the roadblocks that have slowed our economy and reduced productivity. Steps will be taken aimed at restoring the balance between the various levels of government. Progress may be slow, measured in inches and feet, not miles, but we will progress. It is time to reawaken this industrial giant, to get government back within its means, and to

lighten our punitive tax burden. And these will be our first priorities, and on these principles there will be no compromise. On the eve of our struggle for independence a man who might have been one of the greatest among the Founding Fathers, Dr. Joseph Warren, president of the Massachusetts Congress, said to his fellow Americans, “Our country is in danger, but not to be despaired of . . . . On you depend the fortunes of America. You are to decide the important questions upon which rests the happiness and the liberty of millions yet unborn. Act worthy of yourselves.” Well, I believe we, the Americans of today, are ready to act worthy of ourselves, ready to do what must be done to ensure happiness and liberty for ourselves, our children, and our children’s children. And as we renew ourselves here in our own land, we will be seen as having greater strength throughout the world. We will again be the exemplar of freedom and a beacon of hope for those who do not now have freedom. To those neighbors and allies who share our freedom, we will strengthen our historic ties and assure them of our support and firm commitment. We will match loyalty with loyalty. We will strive for mutually beneficial relations. We will not use our friendship to impose on their sovereignty, for our own sovereignty is not for sale. As for the enemies of freedom, those who are potential adversaries, they


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will be reminded that peace is the highest aspiration of the American people. We will negotiate for it, sacrifice for it; we will not surrender for it, now or ever. Our forbearance should never be misunderstood. Our reluctance for conflict should not be misjudged as a failure of will. When action is required to preserve our national security, we will act. We will maintain sufficient strength to prevail if need be, knowing that if we do so we have the best chance of never having to use that strength. Above all, we must realize that no arsenal or no weapon in the arsenals of the world is so formidable as the will and moral courage of free men and women. It is a weapon our adversaries in today’s world do not have. It is a weapon that we as Americans do have. Let that be understood by those who practice terrorism and prey upon their neighbors. I’m told that tens of thousands of prayer meetings are being held on this day, and for that I’m deeply grateful. We are a nation under God, and I believe God intended for us to be free. It would be fitting and good, I think, if on each Inaugural Day in future years it should be declared a day of prayer. This is the first time in our history that this ceremony has been held, as you’ve been told, on this West Front of the Capitol. Standing here, one faces a magnificent vista, opening up on this city’s special beauty and his-

tory. At the end of this open mall are those shrines to the giants on whose shoulders we stand. Directly in front of me, the monument to a monumental man, George Washington, father of our country. A man of humility who came to greatness reluctantly. He led America out of revolutionary victory into infant nationhood. Off to one side, the stately memorial to Thomas Jefferson. The Declaration of Independence flames with his eloquence. And then, beyond the Reflecting Pool, the dignified columns of the Lincoln Memorial. Whoever would understand in his heart the meaning of America will find it in the life of Abraham Lincoln. Beyond those monuments to heroism is the Potomac River, and on the far shore the sloping hills of Arlington National Cemetery, with its row upon row of simple white markers bearing crosses or Stars of David. They add up to only a tiny fraction of the price that has been paid for our freedom. Each one of those markers is a monument to the kind of hero I spoke of earlier. Their lives ended in places called Belleau Wood, The Argonne, Omaha Beach, Salerno, and halfway around the world on Guadalcanal, Tarawa, Pork Chop Hill, the Chosin Reservoir, and in a hundred rice paddies and jungles of a place called Vietnam. Under one such marker lies a young man, Martin Treptow, who left his job in a small town barbershop in 1917 to go to France with the famed Rainbow

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Division. There, on the western front, he was killed trying to carry a message between battalions under heavy artillery fire. We’re told that on his body was found a diary. On the flyleaf under the heading, ``My Pledge,’’ he had written these words: ``America must win this war. Therefore I will work, I will save, I will sacrifice, I will endure, I will fight cheerfully and do my utmost, as if the issue of the whole struggle depended on me alone.’’ The crisis we are facing today does not require of us the kind of sacrifice that Martin Treptow and so many thousands of others were called upon to make. It does require, however, our best effort and our willingness to believe in ourselves and to believe in our capacity to perform great deeds, to believe that together with God’s help we can and will resolve the problems which now confront us. And after all, why shouldn’t we believe that? We are Americans. God bless you, and thank you. Remarks on East-West Relations (Porta di Brandeburgo, Berlino est, 12 giugno 1987) Thank you very much. Chancellor Kohl, Governing Mayor Diepgen, ladies and gentlemen: Twenty four years ago, President John F. Kennedy visited Berlin, speaking to the people of this city and the world at the city hall. Well, since then two other presidents have come, each in his turn, to

Berlin. And today I, myself, make my second visit to your city. We come to Berlin, we American Presidents, because it’s our duty to speak, in this place, of freedom. But I must confess, we’re drawn here by other things as well: by the feeling of history in this city, more than 500 years older than our own nation; by the beauty of the Grunewald and the Tiergarten; most of all, by your courage and determination. Perhaps the composer, Paul Lincke, understood something about American Presidents. You see, like so many Presidents before me, I come here today because wherever I go, whatever I do: “Ich hab noch einen koffer in Berlin.” [I still have a suitcase in Berlin.] Our gathering today is being broadcast throughout Western Europe and North America. I understand that it is being seen and heard as well in the East. To those listening throughout Eastern Europe, I extend my warmest greetings and the good will of the American people. To those listening in East Berlin, a special word: Although I cannot be with you, I address my remarks to you just as surely as to those standing here before me. For I join you, as I join your fellow countrymen in the West, in this firm, this unalterable belief: Es gibt nur ein Berlin. [There is only one Berlin.] Behind me stands a wall that encircles the free sectors of this city, part of a vast system of barriers that divides the entire continent of Europe. From the


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Baltic, south, those barriers cut across Germany in a gash of barbed wire, concrete, dog runs, and guardtowers. Farther south, there may be no visible, no obvious wall. But there remain armed guards and checkpoints all the same–still a restriction on the right to travel, still an instrument to impose upon ordinary men and women the will of a totalitarian state. Yet it is here in Berlin where the wall emerges most clearly; here, cutting across your city, where the news photo and the television screen have imprinted this brutal division of a continent upon the mind of the world. Standing before the Brandenburg Gate, every man is a German, separated from his fellow men. Every man is a Berliner, forced to look upon a scar. President von Weizsacker has said: “The German question is open as long as the Brandenburg Gate is closed.” Today I say: As long as this gate is closed, as long as this scar of a wall is permitted to stand, it is not the German question alone that remains open, but the question of freedom for all mankind. Yet I do not come here to lament. For I find in Berlin a message of hope, even in the shadow of this wall, a message of (Pg. 635) triumph.In this season of spring in 1945, the people of Berlin emerged from their air raid shelters to find devastation. Thousands of miles away, the people of the United States reached out to help. And in 1947 Secretary of State–as you’ve been told-George Marshall announced the creation of what would

become known as the Marshall plan. Speaking precisely 40 years ago this month, he said: “Our policy is directed not against any country or doctrine, but against hunger, poverty, desperation, and chaos.” In the Reichstag a few moments ago, I saw a display commemorating this 40th anniversary of the Marshall plan. I was struck by the sign on a burnt-out, gutted structure that was being rebuilt. I understand that Berliners of my own generation can remember seeing signs like it dotted throughout the Western sectors of the city. The sign read simply: “The Marshall plan is helping here to strengthen the free world.” A strong, free world in the West, that dream became real. Japan rose from ruin to become an economic giant. Italy, France, Belgium–virtually every nation in Western Europe saw political and economic rebirth; the European Community was founded. In West Germany and here in Berlin, there took place an economic miracle, the Wirtschaftswunder. Adenauer, Erhard, Reuter, and other leaders understood the practical importance of liberty–that just as truth can flourish only when the journalist is given freedom of speech, so prosperity can come about only when the farmer and businessman enjoy economic freedom. The German leaders reduced tariffs, expanded free trade, lowered taxes. From 1950 to 1960 alone, the standard of living in West Germany and Berlin doubled.

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Where four decades ago there was rubble, today in West Berlin there is the greatest industrial output of any city in Germany-busy office blocks, fine homes and apartments, proud avenues, and the spreading lawns of park land. Where a city’s culture seemed to have been destroyed, today there are two great universities, orchestras and an opera, countless theaters, and museums. Where there was want, today there’s abundance–food, clothing, automobiles-the wonderful goods of the Ku’damm. From devasta158 tion, from utter ruin, you Berliners have, in freedom, rebuilt a city that once again ranks as one of the greatest on Earth. The Soviets may have had other plans. But, my friends, there were a few things the Soviets didn’t count on Berliner herz, Berliner humor, ja, und Berliner schnauze. [Berliner heart, Berliner humor, yes, and a Berliner schnauze.] [Laughter] In the 1950’s, Khrushchev predicted: “We will bury you.” But in the West today, we see a free world that has achieved a level of prosperity and well-being unprecedented in all human history. In the Communist world, we see failure, technological backwardness, declining standards of health, even want of the most basic kind-too little food. Even today, the Soviet Union still cannot feed itself. After these four decades, then, there stands before the entire world one great and inescapable conclusion: Freedom leads to prosperity. Freedom replaces the ancient hatreds

among the nations with comity and peace. Freedom is the victor. And now the Soviets themselves may, in a limited way, be coming to understand the importance of freedom. We hear much from Moscow about a new policy of reform and openness. Some political prisoners have been released. Certain foreign news broadcasts are no longer being jammed. Some economic enterprises have been permitted to operate with greater freedom from state control. Are these the beginnings of profound changes in the Soviet state? Or are they token gestures, intended to raise false hopes in the West, or to strengthen the Soviet system without changing it? We welcome change and openness; for we believe that freedom and security go together, that the advance of human liberty can only strengthen the cause of world peace. There is one sign the Soviets can make that would be unmistakable, that would advance dramatically the cause of freedom and peace. General Secretary Gorbachev, if you seek peace, if you seek prosperity for the Soviet Union and Eastern Europe, if you seek liberalization: Come here to this gate! Mr. Gorbachev, open this gate! Mr. Gorbachev, tear down this wall! I understand the fear of war and the pain (Pg. 636) of division that afflict this continent–and I pledge to you my country’s efforts to help overcome these burdens. To be sure, we in the West must resist Soviet expansion. So


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we must maintain defenses of unassailable strength. Yet we seek peace; so we must strive to reduce arms on both sides. Beginning 10 years ago, the Soviets challenged the Western alliance with a grave new threat, hundreds of new and more deadly SS- 20 nuclear missiles, capable of-striking every capital in Europe. The Western alliance responded by committing itself to a counter-deployment unless the Soviets agreed to negotiate a better solution; namely, the elimination of such weapons on both sides. For many months, the Soviets refused to bargain in earnestness. As the alliance, in turn, prepared to go forward with its counter-deployment, there were difficult days–days of protests like those during my 1982 visit to this city–and the Soviets later walked away from the table. But through it all, the alliance held firm. And I invite those who protested then–I invite those who protest today–to mark this fact: Because we remained strong, the Soviets came back to the table. And because we remained strong, today we have within reach the possibility, not merely of limiting the growth of arms, but of eliminating, for the first time, an entire class of nuclear weapons from the face of the Earth. As I speak, Nato ministers are meeting in Iceland to review the progress of our proposals for eliminating these weapons. At the talks in Geneva, we have also proposed deep cuts in strategic offensive weapons. And the Western allies

have likewise made far-reaching proposals to reduce the danger of conventional war and to place a total ban on chemical weapons. While we pursue these arms reductions, I pledge to you that we will maintain the capacity to deter Soviet aggression at any level at which it might occur. And in cooperation with many of our allies, the United States is pursuing the Strategic Defense Initiative-research to base deterrence not on the threat of offensive retaliation, but on defenses that truly defend; on systems, in short, that will not target populations, but shield them. By these means we seek to increase the safety of Europe and all the world. But we must remember a crucial fact: East and West do not mistrust each other because we are armed; we are armed because we mistrust each other. And our differences are not about weapons but about liberty. When President Kennedy spoke at the City Hall those 24 years ago, freedom was encircled, Berlin was under siege. And today, despite all the pressures upon this city, Berlin stands secure in its liberty. And freedom itself is transforming the globe. In the Philippines, in South and Central America, democracy has been given a rebirth. Throughout the Pacific, free markets are working miracle after miracle of economic growth. In the industrialized nations, a technological revolution is taking place–a revolution marked by rapid, dramatic

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advances in computers and telecommunications. In Europe, only one nation and those it controls refuse to join the community of freedom. Yet in this age of redoubled economic growth, of information and innovation, the Soviet Union faces a choice: It must make fundamental changes, or it will become obsolete. Today thus represents a moment of hope. We in the West stand ready to cooperate with the East to promote true openness, to break down barriers that separate 160 people, to create a safer, freer world. And surely there is no better place than Berlin, the meeting place of East and West, to make a start. Free people of Berlin: Today, as in the past, the United States stands for the strict observance and full implementation of all parts of the Four Power Agreement of 1971. Let us use this occasion, the 750th anniversary of this city, to usher in a new era, to seek a still fuller, richer life for the Berlin of the future. Together, let us maintain and develop the ties between the Federal Republic and the Western sectors of Berlin, which is permitted by the 1971 agreement. And I invite Mr. Gorbachev: Let us work to bring the Eastern and Western parts of the city closer together, so that all the inhabitants of all Berlin can enjoy the benefits that come with life in one of the great cities of the world. To open Berlin still further to (Pg. 637) all Europe, East and West, let us expand the vital air access to this city,

finding ways of making commercial air service to Berlin more convenient, more comfortable, and more economical. We look to the day when West Berlin can become one of the chief aviation hubs in all central Europe. With our French and British partners, the United States is prepared to help bring international meetings to Berlin. It would be only fitting for Berlin to serve as the site of United Nations meetings, or world conferences on human rights and arms control or other issues that call for international cooperation. There is no better way to establish hope for the future than to enlighten young minds, and we would be honored to sponsor summer youth exchanges, cultural events, and other programs for young Berliners from the East. Our French and British friends, I’m certain, will do the same. And it’s my hope that an authority can be found in East Berlin to sponsor visits from young people of the Western sectors. One final proposal, one close to my heart: Sport represents a source of enjoyment and ennoblement, and you many have noted that the Republic of Korea–South Korea-has offered to permit certain events of the 1988 Olympics to take place in the North. International sports competitions of all kinds could take place in both parts of this city. And what better way to demonstrate to the world the openness of this city than to offer in some future year to hold the Olympic games here in Berlin, East and West?


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In these four decades, as I have said, you Berliners have built a great city. You’ve done so in spite of threats–the Soviet attempts to impose the Eastmark, the blockade. Today the city thrives in spite of the challenges implicit in the very presence of this wall. What keeps you here? Certainly there’s a great deal to be said for your fortitude, for your defiant courage. But I believe there’s something deeper, something that involves Berlin’s whole look and feel and way of life– not mere sentiment. No one could live long in Berlin without being completely disabused of illusions. Something instead, that has seen the difficulties of life in Berlin but chose to accept them, that continues to build this good and proud city in contrast to a surrounding totalitarian presence that refuses to release human energies or aspirations. Something that speaks with a powerful voice of affirmation, that says yes to this city, yes to the future, yes to freedom. In a word, I would submit that what keeps you in Berlin is love–love both profound and abiding. Perhaps this gets to the root of the matter, to the most fundamental distinction of all between East and West. The totalitarian world produces backwardness because it does such violence to the spirit, thwarting the human impulse to create, to enjoy, to worship. The totalitarian world finds even symbols of love and of worship an affront. Years ago, before the East Germans began rebuilding their

churches, they erected a secular structure: the television tower at Alexander Platz. Virtually ever since, the authorities have been working to correct what they view as the tower’s one major flaw, treating the glass sphere at the top with paints and chemicals of every kind. Yet even today when the Sun strikes that sphere–that sphere that towers over all Berlin– the light makes the sign of the cross. There in Berlin, like the city itself, symbols of love, symbols of worship, cannot be suppressed. As I looked out a moment ago from the Reichstag, that embodiment of German unity, I noticed words crudely spray-painted upon the wall, perhaps by a young Berliner, “This wall will fall. Beliefs become reality.” Yes, across Europe, this wall will fall. For it cannot withstand faith; it cannot withstand truth. The wall cannot withstand freedom. And I would like, before I close, to say one word. I have read, and I have been questioned since I’ve been here about cer tain demonstrations against my coming. And I would like to say just one thing, and to those who demonstrate so. I wonder if they have ever asked themselves that if they should have the kind of government they apparently seek, no one would ever be able to do what they’re doing again. Thank you and God bless you all.

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Minuta Esteri

Bosnia, la nuova frontiera è l’Europa Stefano Caliciuri Esteri

Usa, nella patria del federalismo Rodolfo Bastianelli Istituzioni

Riconquistare il senso civico perduto Angelica Stramazzi



Stefano Caliciuri

Bosnia, la nuova frontiera è l’Europa A quindici anni dalla firma dell’Accordo di Dayton, il piccolo paese balcanico stenta ancora a ripartire a causa di un sistema politico paralizzante e delle troppe ferite ancora aperte. Ma se si provasse a percorrere la strada dell’integrazione europea? 164

Dayton, Ohio. 21 novembre 1995. Base militare statunitense di Wright-Patterson Air Force. In una stanza isolata e blindata tre persone stanno sedute attorno un tavolo. Si guardano con circospezione. Uno sorride, uno si gratta l’orecchio, uno sospira. Tre stati d’animo diversi ma un unico comune obiettivo: trovare un’intesa per concludere la guerra civile, teatro di eccidi e stermini di massa, stupri e decapitazioni, deportazioni e genocidi, in quella che ormai era già diventata la ex Jugolavia. Sapevano che quella era l’ultima possibilità. Se non avessero abbandonato ogni velleitaria pretesa di ridisegnare i confini della nuova Europa a loro immagine e somiglianza, la comunità internazionale non avrebbe potuto far altro che annientarli tutti e tre. I protagonisti di quello

che prese il nome di Accordo di Dayton si chiamavano Slobodan Miloševic (presidente della Serbia e rappresentante degli interessi dei serbo-bosniaci al posto del recalcitrante Karadzic), Franjo Tudjman (presidente della Croazia) e Alija Izetbegovic (presidente della Bosnia Erzegovina). Il quindicesimo anniversario dell'Accordo di pace di Dayton del novembre 1995 offre dunque una buona opportunità per rivederne successi e difetti e per valutare le sfide che, sia la comunità internazionale che la Bosnia (e più in generale l’intera regione balcanica), dovranno affrontare nei prossimi anni. I dissidi tra croati, serbi e bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) hanno origini molto lontane, sin dalle prime espansioni ottomane. I Balca-


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ni, proprio per la posizione geografica, per centinaia di anni sono stati considerati il bonus di scambio tra le potenze del momento. Basti pensare a tutti coloro che si sono succeduti: turchi, austriaci, tedeschi, italiani, russi. Ed ognuno ha lasciato qualche traccia del proprio passaggio. Il prodotto di tanti avvicendamenti è Sarajevo, fino agli anni Ottanta città simbolo del multiculturalismo globale. Chiamata la Gerusalemme d’Europa, al suo interno ancora oggi convivono le tre religioni monoteiste del mondo: quella cristiana, divisa fra cattolici e ortodossi, quella musulmana e quella ebraica. I templi principali sono edificati in un raggio di

quattrocento metri, sulle rive della Miljacka si incrociano gli sguardi di studenti e ragazze velate, di pope e rabbini; camminano fasciati da jeans o avvolti in tuniche; leggono bibbie e corani, trattati teologici o manuali d’architettura. Si può andare nella Bascarsija per fumare il narghilè bevendo kafa oppure, proseguendo oltre, ordinare un espresso all’italiana sulla Titova Ulica. Ma basta voltarsi, alzare lo sguardo, per essere violentemente trasportati senza pietà in quel recentissimo passato in cui avere la barba non fatta da tre giorni poteva diventare una condanna a morte, poteva voler dire essere bersaglio dei cecchini. Della Vijecnica,


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la biblioteca nazionale universita- ta, avvolta ormai da anni in quello ria, maestoso palazzo in stile pseu- che pare essere il suo sudario, ordomoresco, realizzato dagli au- nato soltanto dalle sbiadite bandiestro-ungarici, non rimane pressoché re di quelli che dovevano essere i nulla. Eretto ai piedi delle colline finanziatori del restauro. Sarà andove, nel medioevo, nacque Sara- che per questo che ancora oggi jevo, custodiva prima della guerra campeggiano in ogni angolo i simoltre due milioni di volumi, dei boli delle Olimpiadi invernali del quali 200 mila preziosi e un mi- 1984, ultimo grande evento ospigliaio di manoscritti. Venne bersa- tato in città, ultimo grande momengliata dalle bombe incendiarie ser- to di orgoglio identitario. E non imbe per tre giorni di seguito e per porta se a quell’epoca esisteva analtrettanto tempo bruciò, inceneren- cora la Jugoslavia titina. do inesorabilmente l’intero patrimo- Ripartire, però, non è un’operazionio storico e culturale in essa con- ne semplice. Quello che Dayton ha dato, si può tenuto. Vano ogni tenanche dire che la tativo di salvare qualLa Serbia ha decuplicato stessa Dayton abcosa: i proiettili venibia tolto. Da vano indirizzati anla taglia su Mladic quell’accordo è che verso la catena per dare un chiaro nato un paese, la umana che cercava segnale di collaborazione Bosnia-Erzegovidi affrettare il recupero dei libri. Era l’uninei confronti della Bosnia na, formato da due entità che si co archivio nazionale sovrappongono di tutti i periodici pubblicati in o sulla Bosnia Erzegovi- nelle intenzioni ma non combaciana. Straziante il ricordo di quei no negli interessi, già diviso insomgiorni di Kemal Bakarsic, bibliote- ma per Costituzione. La Republika cario del tempo: «Tutta la città era srpska (Repubblica serba), cui è ricoperta di pezzi di carta brucia- stato assegnato il 49% del territota. Volavano in aria le pagine fra- rio, corre lungo i confini settentriogili di carta bruciata, cadendo giù nali, orientali e occidentali, senza come neve nera. Afferrandola, per avere però alcuno sbocco sul maun attimo fu possibile leggere un re. Circonda la Federazione croaframmento di testo, che un istante to-musulmana della Bosnia e deldopo si trasformava davanti ai tuoi l’Erzegovina (51% del territorio). occhi in cenere». Oggi Sarajevo Dotate di poteri autonomi in vasti sta cercando di risollevarsi, di ri- settori, le due entità sono inserite in svegliarsi dall’incubo e ritornare, una cornice statale unitaria. La precome se nulla fosse successo, agli sidenza del paese unitario (che riantichi fasti. Ma la Vijecnica sta calca il modello della vecchia Juancorà lì, annerita e addormenta- goslavia post-titina) è formata da


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un serbo, un croato e un bosgnac- visione e la gestione, disponendo co che a turno si alternano nella di considerevoli poteri che la autocarica di presidente, primus inter rizzano a censurare o rimuovere pares, mentre gli altri due ne di- gli ufficiali eletti e a redigere – e ventano i vice. Ciascuna entità è spesso imporre – le leggi necessadotata di un parlamento locale: la rie alle dinamiche di normalizzaRepubblica serba di un’assemblea zione interna. legislativa unicamerale, mentre la L’ufficio dell’Ohr è ormai da anni Federazione croato-musulmana di al centro di un acceso dibattito: un organo bicamerale. A livello quanto dovrà ancora essere manstatale vengono invece eletti ogni tenuto? I poteri passeranno direttaquattro anni gli esponenti della Ca- mente in mano ai bosniaci oppure mera dei rappresentanti del Parla- dovrà esserci un periodo di transimento, (42 deputati, 28 eletti nella zione europea? Bisognerà creare Federazione e 14 nella Rs) e della una figura analoga (e dunque, forCamera dei popoli (5 se, inutile) o nuoserbi, 5 croati e 5 muva (e dunque, tutOra l’obiettivo sulmani). Le elezioni ta da sperimentasono fortemente conre). Nel frattemè trasformare trassegnate da un capo i politici boil processo di peace rattere nazionalistico. sniaci devono suimplementation Ogni cittadino vota perare le loro una lista e un rapprecontrapposizioni in european transition sentante della propria nazionaliste, reliappartenenza. Per dagiose e culturali re una voce anche a chi non è per iniziare il processo di riforma rappresentato (ebrei, rom) esiste costituzionale che possa accompaanche la definizione di “others”, gnarli davvero all’interno dell’Eurosotto cui si rientra quando non si pa. Ma perché questo accada ci appartiene ad una delle tre etnie o dovrà essere un impegno totale religioni dominanti. Una definizio- della Ue, capace di convincere ne voluta dagli organismi interna- definitivamente i bosniaci che l’unizionali per evitare ogni forma di ca bandiera in grado di tutelarli e discriminazione; sono in molti, pe- proteggerli sia quella con le dodici rò, a non riconoscersi in questa ca- stelle su campo azzurro. Purtroppo tegoria ma che preferiscono inve- la Bosnia è però bloccata da un ce definirsi ancora “jugoslavi” (let- ostruzionismo delle forze etno-nateralmente, slavi del sud). A garan- zionaliste a cui bisogna aggiungezia degli accordi di Dayton, la Bo- re un’economia di tipo mafiososnia è sotto il protettorato dell’Ohr, clientelare e una diffusa corruzione l'agenzia internazionale a cui ne istituzionale. spetta l’implementazione, la super- Il processo di integrazione euro-

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pea e le dinamiche di allargamento stanno creando un vero e proprio paradosso all’interno dell’intera regione balcanica. Tutti i paesi interessati ruotano infatti attorno alla cosiddetta “questione serba” e alle pendenze bilaterali che praticamente coinvolgono tutti contro tutti. La controversia croato-slovena sul confine e sullo sbocco sul mare sembra essere a buon punto; più difficile sbrigare la matassa in cui si sono ingarbugliate la Grecia e la Macedonia, relativamente al nome di quest’ultima; è di pochi mesi fa, infine, la decisione dell’Onu di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, seppure siano in molti ancora a dubitarne la legittimità. Infine, la Serbia. Legata a doppio filo col suo passato recente, l’ingresso in Europa è drasticamente condizionato dalla consegna del ricercato numero uno per delitti contro l’umanità: Ratko Mladic, capo di Stato maggiore dell’esercito della Repubblica serba in Bosnia-Erzegovina, comunemente chiamato “il boia di Srebrenica”. Per dare un chiaro segnale di collaborazione, il governo serbo ha decuplicato la taglia su Mladic, portandola a dieci milioni di euro. La speranza è che l’esca economica possa consegnare il più grosso dei pesci serbi ancora in libertà direttamente nella rete della giustizia internazionale. Oggi Belgrado ha sicuramente voltato pagina nella sua storia, ponendo fine “agli sporchi giochi di guerra”, puntando invece a diventare lo Stato trainante della regio-

ne balcanica. Non a caso è il capofila in materia di questioni energetiche (ad esempio le nuove condutture che raggiungeranno l'Adriatico attraverso il Montenegro), sia per i suoi legami con la Russia, sia perché è la vera porta d'Oriente per l'Europa. Forse, dietro la cessione della Republika srpska prima e del Kosovo poi, c’era un disegno a lunga scadenza che gli organismi internazionali non sono stati in grado di interpretare per tempo. I più approfonditi studi accademici sui processi di transizione suggeriscono che quindici anni di massiccio intervento esterno dovrebbero essere sufficienti per il consolidamento degli accordi post-bellici e per stabilire un ordine costituzionale permanente. Proprio per questo l’attenzione mondiale nel 2011 nei confronti della Bosnia potrebbe essere focalizzata su un semplice obiettivo: trasformare il processo di peace implementation in european transition. Un banale gioco di parole dietro però cui si nasconde il futuro di un continente.

l’autore stefano caliciuri Giornalista professionista, già consulente per la comunicazione del ministro degli Affari esteri, lavora attualmente al ministero della Funzione pubblica. Collabora con Il Giornale, Il Secolo d’Italia e Ffwebmagazine. ha pubblicato il volume Giovani nel merito per I tipi di Rubbettino Editore


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Rodolfo Bastianelli

Usa, nella patria del federalismo Analisi ragionata del sistema federale americano, tra divisione dei poteri e delle competenze e contrappesi a garanzia dell’equilibrio istituzionale.


ESTERI

Il sistema federale degli Stati Uniti è uno dei più complessi ed articolati nonché quello che più attribuisce maggiore autonomia ai governi statali. Dalle origini ad oggi, l’assetto del federalismo statunitense, in virtù anche dei profondi cambiamenti storici avvenuti nel Paese, si è però sensibilmente modificato, riorientando a favore dell’Amministrazione federale la ripartizione delle competenze stabilite tra questa ed i governi statali.

La ripartizione di competenze tra i governi statali e l’amministrazione federale Sul piano della divisione dei poteri, la Costituzione statunitense fissa una netta ripartizione di prerogative tra il governo federale e quelli dei diversi Stati, anche se, sia per effetto della clausola dei poteri impliciti che di alcune sentenze pronunciate dalla Corte suprema nonchè dell’approvazione di una serie di emendamenti costituzionali, il ruolo dell’amministrazione centrale si è andato progressivamente ampliando. Si pensi in proposito all’importanza assunta dalla commerce clause, la disposizione costituzionale con la quale si attribuiva al Congresso la prerogativa di regolare il commercio internazionale e tra gli Stati dell’Unione ma che, grazie all’interpretazione data dalla Corte suprema, ha contribuito ad espandere notevolmente il ruolo del governo federale, attribuendogli anche le competenze indirettamente collegate alle attività commerciali. In base al dettato costituzionale (art. 1, sez. 8) tra i vari poteri spettanti al Congresso vi sono quello di raccogliere le imposte, regolare il commercio e mantenere le Forze armate, mentre alle autorità statali e locali, secondo quanto enunciato dal X emendamento che attribuisce i poteri residui non esercitati dal governo federale ai singoli Stati, compete la prerogativa di garantire ed assicurare una serie di servizi pubblici, tra i quali vanno annoverati la polizia, l’istruzione, i

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trasporti e l’assistenza sociale uni- te le norme sui diritti civili riguartamente ad una serie di funzioni in danti l’istruzione e ad amministrare materia di politiche agricole ed i programmi federali di assistenza ambientali, settori nei quali il legi- varati dal Congresso, mentre spetta slativo federale si limita a fissare esclusivamente ai governi statali fisolo alcuni aspetti regolamentari nanziarie gli istituti scolastici primalasciando ai governi dei diversi ri e secondari presenti sul loro terriStati la possibilità di determinare torio, fissare i programmi d’istruziotutti gli altri punti in questione. In ne e procedere all’assunzione del merito alla divisione di competen- personale insegnante, senza dize fissata dalla Costituzione si de- menticare come un importante ruove poi precisare come l’attribuzio- lo sia svolto dalle autorità municine al Congresso di una specifica pali, le quali non solo provvedono prerogativa non impedisce comun- al mantenimento delle strutture scoque ai singoli Stati di adottare dei lastiche attraverso la raccolta delle imposte locali, provvedimenti legislama anche a svitivi, come avviene in Spetta solo ai governi luppare autonomi materia di imposte, programmi in maistituzioni di tribunali, statali l’intera teria d’istruzione. costruzioni di infrapolitica finanziaria Un’altra importanstrutture stradali e preed educativa te funzione attristiti monetari. buita agli Stati è Questa competenza della scuola poi quella in madi tipo concorrente interia elettorale dacontra però un limite nel fatto che, qualora il Congresso to che, a differenza di quanto avdecidesse di varare in proposito viene negli altri paesi, negli Stati dei provvedimenti legislativi, questi, Uniti l’organizzazione delle consulper effetto della supremacy clause, tazioni presidenziali, legislative e verrebbero ad annullare le disposi- delle stesse primarie rientra tra le zioni introdotte dalle amministrazio- competenze dei governi statali, i ni statali. Passando ad esaminare quali stabiliscono i criteri per la le diverse prerogative spettanti ai concessione dell’elettorato attivo e singoli Stati, emerge come uno dei passivo, avendo anche la prerogasettori dove il decentramento è sta- tiva di disegnare i collegi elettorali to realizzato in maniera più ampia per la Camera dei rappresentanti. è quello riguardante l’istruzione. Tuttavia, dopo la fine della guerra Negli Stati Uniti non esiste una leg- civile, il governo federale ha apge che regoli la politica scolastica provato alcuni provvedimenti legia livello nazionale, limitandosi il slativi allo scopo di eliminare le diDepartment of education federale sposizioni discriminatorie presenti a controllare che vengano rispetta- negli Stati ex confederati, prima in-


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la metà del gettito fiscale dalle imposte esistenti sui redditi individuali e sulle imprese (corporate tax) e più di un terzo dai contributi versati dalle aziende per garantire la social security ai loro dipendenti, mentre le entrate dei governi statali derivano principalmente dalle tasse sulle proprietà e le attività commerciali, nonché da quelle provenienti dai tributi sulle vendite (sales tax) e dalle accise. A detta dei commentatori, però, il ruolo di dell’amministrazione federale dagli anni successivi al secondo conflitto mondiale sarebbe andato proLa Costituzione gressivamente espandendosi, Gli aspetti fiscali del federale permette rendendo di fatto federalismo sia al Congresso che il governo centraAssai complessa si agli Stati di legiferare le la sola autorità presenta negli Stati esistente in mateUniti la ripartizione di in materia fiscale ria fiscale. Se ficompetenze in mateno agli anni Trenria fiscale tra amministrazione federale e governi statali. ta, in linea con i principi del dual Stando a quanto esposto dal detta- federalism, la Corte suprema aveto costituzionale, al Congresso va interpretato il federalismo come spetta la facoltà di imporre e rac- una rigida divisione di competencogliere le imposte anche se tale ze tra il governo centrale e quelli prerogativa non deve intendersi statali, con l’avvento delle politiche come esclusiva, in quanto pure i le- del New Deal attuate dall’Amminigislativi statali possono introdurre strazione Roosevelt in risposta alla tasse, nel rispetto di quanto fissato Grande depressione, che compordalla Costituzione federale e da tarono un sempre più esteso ruolo quelle dei singoli Stati. Questa di- delle autorità federali, la teoria versificazione di competenze tra prevalente divenne invece quella governo centrale ed autorità statali per cui i poteri del governo nazioappare evidente osservando la nale potessero includere anche composizione delle entrate tributa- una serie di funzioni più ampie di rie, dalla quale emerge come l’am- quelle precedentemente enunciate. ministrazione federale ricavi oltre Tuttavia, con l’Amministrazione Nitroducendo nel 1870 il XV emendamento con cui si proibiva al governo nazionale ed a quelli statali di limitare il diritto di voto dei cittadini sulla base di motivi razziali e dopo varando nel 1965 il Voting Rights Act, in base al quale si introduceva il controllo federale sul procedimento elettorale obbligando quegli Stati, dove in passato erano stati utilizzati degli strumenti legislativi per limitare la partecipazione della popolazione afroamericana, a ricevere l’approvazione del Dipartimento della giustizia prima di attuare ogni modifica della legge elettorale.

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xon si inizierà ad assistere ad una critica dell’espansione del governo federale e, parallelamente, all’opportunità di attribuire un maggior numero di competenze agli esecutivi statali. IndiSolo con la presidenza cato con il nome di new feNixon si inizierà a criticare l’espansione deralism, questo nuovo apdel governo federale proccio nelle relazioni tra Washington ed i vari Stati si andrà affermando nel corso della presidenza di Ronald Reagan durante la quale un crescente numero di imposte verrà devoluto alle autorità statali e municipali. La stessa Corte suprema dagli anni 174 Ottanta inizierà nuovamente a rivedere in senso più favorevole ai governi statali le sue pronunce, anche se, è opinione condivisa dagli osservatori, il livello di integrazione economica e di interazione oggi esistente in materia regolamentare tra l’amministrazione federale ed i governi statali non potrà riportare alla radicale ripartizione di competenze del dual federalism. Ed a conferma della tendenza verso la decentralizzazione, negli ultiNegli ultimi anni è accresciuta mi anni gli esel’autonomia cutivi statali, padegli esecutivi statali rallelamente ad un’accresciuta autonomia in campo tributario, hanno anche assunto delle importanti iniziative riguardo all’ambiente, ai temi dei diritti civili ed alle politiche bancarie e creditizie, tutti settori dove il ruolo dell’amministra-

zione federale era stato sempre preponderante. Questo nuovo orientamento ha contribuito ad aprire una discussione su un ulteriore aspetto della politica fiscale, quello relativo ai crediti che il governo federale concede ai diversi Stati per la realizzazione di opere pubbliche e l’attuazione di programmi di assistenza sociale e sanitaria. Iniziato negli anni Trenta quando, per fronteggiare l’impatto della grave recessione che stava colpendo il paese, Washington decise di accordare ai governi statali una serie di crediti per consentirgli di mantenere in attività i programmi di assistenza sociale e la realizzazione di infrastrutture, l’uso


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dei federal grants in aid è stato però sempre visto con sfiducia dai repubblicani, per i quali questi rappresentavano solo uno strumento con cui l’amministrazione federale cercava di estendere la sua posizione sugli Stati dell’Unione, limitandone l’autonomia, ed influenzarne le scelte politiche. Inoltre, i critici sottolineano come l’uso della spending clause, per mezzo della quale il governo federale pone delle condizioni agli Stati per la concessione dei prestiti, rappresenti un mezzo con cui il governo nazionale cerca indirettamente di aggirare i limiti imposti alle sue competenze. L’istituto è stato quindi al centro di alcuni progetti di riforma che le varie

Amministrazioni del Grand old party succedutesi negli ultimi quarant’anni alla Casa Bianca hanno cercato di promuovere e realizzare. Tra questi vanno ricordati prima la proposta avanzata I presidenti repubblicani da Richard Ni- da Nixon a Reagan hanno xon tesa a facercato di limitare vorire una deil controllo del governo centralizzazione che attribuisse maggiori competenze alle autorità statali e poi quella promossa da Ronald Reagan per limitare il controllo del governo centrale sull’uso dei fondi destinati agli Stati ed attribuire a quest’ultimi un maggior ruolo deci175 sionale nella scelta dei piani da realizzare con i fondi federali. Inoltre, molti ritengono che il sistema federal grants in aid, il cui ammontare raggiunge attualmente al cifra di 467 miliardi di dollari, così com’è strutturato non reca alcun vantaggio a quegli Stati dove maggiori sono le necessità, ma finisce invece solo per contribuire al clientelismo, favorire la realizzazione di programmi di scarsa utilità appoggiati da determinati In molti ritengono che il federal grant in aid gruppi di presfavorisca clientelismo sione ed alimene la burocrazia tare la crescita dell’apparato burocratico, senza contare poi come questo ignori le diverse realtà che presentano i vari Stati, i quali vedono limitate le loro prerogative dai vincoli imposti dall’amministrazione federale.


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magistrati federali, è effettuata dal L’organizzazione della giustizia L’assetto giudiziario degli Stati Uniti presidente e successivamente sottopresenta una struttura del tutto parti- posta ad un voto di approvazione colare, esistendo un sistema statale da parte del Senato. Nella scelta ed un altro federale le cui compe- dei giudici, il ruolo presidenziale tenze divergono profondamente tra tuttavia differisce notevolmente a loro. Stando a quanto previsto dal- seconda se la nomina riguarda un la Costituzione, a quest’ultimo spet- giudice di un qualsiasi Tribunale feta il compito di giudicare sui casi derale oppure un membro della espressamente enunciati dalla Co- Corte suprema. Se nella designastituzione (art. 3, sez. 2), ovvero le zione dei membri di quest’ultima controversie derivanti da un trattato l’influenza della Casa Bianca assuinternazionale del quale gli Stati me un’importanza notevole perché Uniti siano parte, quelle sorte in al presidente, visto il rilevante peso materia navale oppure tra cittadini politico che rivestono le sue sentenze, risulta vantagappartenenti a due gioso avere una diversi Stati dell’UnioI giudici della Corte Cor te suprema ne, le liti in cui siano orientata favorecoinvolti diplomatici, suprema sono scelti volmente verso la consoli ed altre perdal presidente, sua Amministrasonalità appartenenti ma è il Senato che deve zione, nella nomiad un paese straniero na dei giudici ed infine su una lista approvare la nomina delle Corti distretdi crimini stabilita dal tuali di primo graCongresso che comprende il terrorismo, lo spionaggio do il peso presidenziale appare ined il traffico di stupefacenti. A livel- vece più limitato, esercitando in lo federale la funzione inquirente è questo caso un ruolo determinante esercitata dai procuratori federali gli esponenti politici dello Stato in (federal prosecutors) presenti in cui il magistrato andrebbe ad assuognuno dei distretti giudiziari, men- mere l’incarico. La stragrande magtre quella giudicante è svolta in pri- gioranza dei reati rientra quindi mo grado da 649 giudici dislocati nelle competenze delle autorità giunelle novantatrè U.S. district courts diziarie dei singoli Stati i quali die in appello da 179 magistrati spongono di un proprio codice cistanziati nelle dodici U.S. appella- vile e penale, tanto che ognuno te courts in cui è suddiviso il Paese. può contemplare o meno la presenAl vertice del sistema giudiziario è za dell’istituto della pena di morte, posta la Corte suprema degli Stati tuttora applicata in trentacinque Uniti, che si compone di otto giudi- Stati e non prevista invece nell’ordici più un Chief justice la cui nomi- namento di altri quindici e del Dina, al pari di quella di tutti gli altri strict of Columbia. Alla testa della


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struttura è posto il procuratore ge- torità federali e statali esiste per la nerale (general attorney), il quale polizia. Negli Stati Uniti non vi è ha il compito di fornire la consu- un corpo organizzato a livello nalenza legale ai vari uffici governa- zionale in quanto le funzioni invetivi statali, di trattare le cause civili stigative e di ordine pubblico sono in cui lo Stato è coinvolto nonché svolte dalle diverse polizie statali, di assistere i vari procuratori distret- cittadine e di contea, avendo le tuali nelle inchieste penali e che agenzie nazionali operanti l’autorigeneralmente viene eletto dai citta- tà di effettuare indagini solo sui dini o, come però avviene solo in reati classificati come federali, coun numero limitato di Stati, nomi- me avviene per l’Fbi, oppure di nato dal governatore oppure, ma compiere dei servizi particolari risolo in un caso, designato dalla guardanti l’attività del dipartimento Corte suprema. dal quale dipendono. A svolgere la funzione inquirente provvedono normalLa struttura istitumente proprio i procuzionale dei diNegli Stati Uniti ratori distrettuali (diversi Stati strict attorneys) presenSul piano istituun intero corpo ti nelle diverse contee zionale ogni Staper le investigazioni dello Stato e scelti di to è organizzato è decentrato solito attraverso con una propria un’elezione popolare, Costituzione che alle polizie locali mentre a livello giudipuò essere cante i compiti sono emendata indiesercitati dai tribunali di primo gra- pendentemente da quella federale, do, di appello, presenti tuttavia so- disponendo, come si è visto nel lo in trentanove Stati, e dalle Corti paragrafo precedente, di un prosupreme, le quali hanno l’ultima prio ordinamento giudiziario, nonistanza su tutti i ricorsi presentati ché di organi legislativi ed esecutinei vari procedimenti legali. I giu- vi, alla testa dei quali è posto il dici di ogni grado sono, di norma, governatore che costituisce la pereletti dai cittadini oppure nominati sonalità più importante del panoradalle locali assemblee legislative o ma politico dello Stato. La sua fidal governatore, mentre in alcuni gura negli ultimi anni si è però proStati quest’ultimo procede alla de- fondamente trasformata, non limisignazione scegliendoli da una li- tandosi solo a svolgere una funziosta diversi candidati che in seguito ne a livello statale ma assumendo vengono confermati o meno nell’in- una rilevanza politica anche sul carico con un voto popolare. piano nazionale, tanto che molti Al pari della giustizia, un’analoga governatori hanno aperto degli differenziazione di funzioni tra au- appositi uffici a Washington pro-

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prio per sensibilizzare meglio i membri del Congresso federale sulle necessità e le richieste degli Stati. I governatori sono eletti per un mandato di quattro anni – solo in New Hampshire e Vermont questo è di due anni – e possono essere riconfermati per il numero di volte fissato dalle disposizioni costituzionali statali. Le prerogative di cui dispongono possono essere riassunti come segue. Poteri nel legislativo: nei rapporti con le assemblee legislative statali, il governatore dispone di una serie di strumenti che rendono il suo peso determinante nel processo di approvazione delle leggi. Il governatore può proporre alcuni provvedimenti illustrandoli nel corso dello state of State Message – l’equivalente statale di quello che è lo state of the Union message a livello federale – oppure usare il suo peso politico per facilitare l’approvazione di quei disegni di legge ritenuti di particolare importanza per la realizzazione del programma di governo. Inoltre, al pari di quanto attribuito al presidente sul piano nazionale, il governatore dispone del diritto di opporre il veto sui testi approvati dal legislativo, mentre è sempre sua prerogativa quella di preparare e presentare davanti alle camere la legge di bilancio. Spetta infine al governatore anche la facoltà di richiedere la convocazione di una sessione straordinaria delle assemblee legislative.


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Poteri di nomina agli incarichi dell’amministrazione: in questo ruolo, il governatore dispone della prerogativa di nominare tutta una serie di personalità all’interno dell’amministrazione e di procedere alla riorganizzazione degli uffici così da disporre di una struttura burocratica che gli agevoli il lavoro. Poteri in situazioni di emergenza: Per fronteggiare delle eccezionali situazioni di crisi, al governatore è consentito di prendere tutte le misure necessarie quali richiedere l’intervento della guardia nazionale ed impegnare allo scopo il personale dei vari uffici governativi, nonché di ricorrere se necessario a l’uso di proprietà private, sospendere le leggi statali, utilizzare i fondi di emergenza ed autorizzare eventuali evacuazioni della popolazione da determinate aree dello Stato. Poteri nella giustizia: se si esclude il potere di procedere alla nomina dei giudici dei tribunali statali che però è previsto solo in alcuni Stati, la funzione più importante esercitata in ambito giudiziario dal governatore è quella di concedere la grazia, commutare le sentenze capitali e ridurre la durata delle condanne penali. Si deve tuttavia ricordare come solo in trentatrè Stati questa prerogativa sia attribuita esclusivamente al governatore, essendo in altri assegnata invece a dei Pardon boards ai quali spetta il compito o di raccomandargli le eventuali richieste di clemenza, oppure di decidere autonomamente

sulla loro eventuale concessione. Poteri militari: il governatore dispone dell’uso della guardia nazionale, una forza paramilitare il cui intervento può essere richiesto in caso di emergenza, disastri naturali o gravi disordini. Formalmente, il comando spetta al governatore quando la guardia nazionale svolge dei compiti a livello statale mentre invece questo è attribuito al presidente se i reparti vengano impiegati in ambito nazionale, visto che la guardia nazionale costituisce un corpo delle Forze armate statunitensi partecipando in questo ruolo pure alle missioni militari all’estero. Poteri in materia elettorale: in caso di dimissioni o scomparsa di un senatore eletto nello Stato il governatore può effettuare in sostituzione una nomina temporanea, mentre in alcuni Stati deve invece convocare una special election per colmare la vacanza del seggio senatoriale. Poteri esercitati come rappresentante dello Stato: si tratta di quelle funzioni essenzialmente cerimoniali come inaugurazioni, discorsi celebrativi o ricevimenti che sono usate dal governatore soprattutto per pubblicizzare la sua immagine davanti all’opinione pubblica ma in alcuni casi anche per sostenere delle iniziative politiche. In caso di decesso o dimissioni del governatore dall’incarico le sue funzioni vengono assunte dal lieutenant governor il quale, negli Stati dove questa figura è costituzionalmente prevista, spesso riveste anche il ruolo di speaker del Senato

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statale. Questo può essere o eletto assieme allo stesso governatore oppure in due votazioni separate, con la conseguenza in questo caso che le due cariche potrebbero essere ripartite tra esponenti di opposto colore politico. All’interno dell’esecutivo statale particolare importanza assumono poi le figure del procuratore generale – di cui si è accennato sopra – e del secretary of State, che può essere eletto oppure nominato dal governatore o dal legislativo statale ed al quale competono l’organizzazione e la supervisione delle diverse consultazioni elettorali che si tengono nello Stato. Riguardo al legislativo, questo in tutti gli Stati è di tipo bicamerale – solo in Nebraska il suo assetto è monocamerale – composto da una camera bassa e da un Senato i quali svolgono a livello statale pressappoco le stesse funzioni esercitate dal Congresso sul piano federale. La visibilità delle assemblee legislative risulta essere però molto più defilata rispetto a quella del governatore, per il suo più rilevante peso politico, ma soprattutto perché questo, ricoprendo anche il ruolo di leader del partito, viene ad assumere un ampio controllo sui suoi parlamentari, riduce sensibilmente il margine di manovra. Nei confronti del governatore, il legislativo dispone comunque dello strumento dell’impeachment, mentre si deve ricordare che le decisioni dei parlamenti statali in alcuni casi producono degli effetti a livello nazionale, come quando sono

chiamate a votare gli emendamenti costituzionali approvati dal Congresso federale oppure a decidere il sistema di voto per la designazione dei Grandi elettori dello Stato in occasione delle elezioni presidenziali. A proposito della struttura istituzionale delle amministrazioni statali, non va dimenticato come uno dei suoi tratti più caratteristici sia il largo uso che consente degli istituti di democrazia diretta. A seconda di quanto disposto dalle leggi dei diversi Stati, possono tenersi referendum abrogativi, propositivi o confermativi, come avviene quando un provvedimento od una modifica costituzionale varati dalle assemblee legislative vengono sottoposti al voto dei cittadini per deciderne o meno l’entrata in vigore. In conclusione, si può quindi affermare come, pur avendo il governo centrale assunto competenze più estese di quelle che originariamente gli erano state attribuite, il sistema federale degli Stati Uniti garantisce tuttora ampie prerogative alle amministrazioni statali, le quali si trovano così a gestire gran parte degli aspetti che interessano la vita quotidiana dei cittadini americani.

l’autore Rodolfo bastianelli Esperto di questioni internazionali, collabora con la rivista dello Stato Maggiore della Difesa Informazioni della difesa. Collabora inoltre con Liberal, Affari esteri, Rivista Marittima ed il periodico dello Iai Affari internazionali. Ha collaborato anche con Ideazione e la rivista Acque & Terre.


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Angelica Stramazzi

SocietĂ e partecipazione politica

Riconquistare il senso civico perduto Il radicarsi di una cultura politica in Italia ha stentato ad affermarsi, non riuscendo del tutto ad attecchire nelle coscienze e nelle esistenze della comunitĂ sociale nel suo complesso. DI ANGELICA STRAMAZZI

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ISTITUZIONI

La costruzione di un moderno e funzionante sistema democratico non può prescindere dal riconoscimento, da parte di tutti gli attori che lo compongono e rappresentano, di norme, regole, principi e valori condivisi. La “routinizzazione” di procedure e meccanismi decisionali, insieme alla sedimentazione di tecniche e prassi generalmente accettate, costituisce l’inizio di un più ampio processo, incarnato, come è noto, dall’edificazione di una compiuta (e completa) democrazia. La conoscenza del funzionamento, pratico e concreto, di un regime democratico si pone, quindi, come elemento essenziale per poter manovrare e gestire compiutamente le leve del potere, di un potere che, dopo aver affrontato il momento della discussione e della deliberazione, si trasforma e sfocia in decisione, in provvedimento, in legge dotata di cogenza ed efficacia normativa. Un’adesione passiva e abitudinaria, quasi scontata, al principio della rule of law non può di per sé bastare alla costruzione di un sistema che sia democratico e organicamente efficace non solo a livello formale, ma soprattutto a livello sostanziale. La fissazione, entro schemi e cornici ben definiti, di regole e procedure, così come il riconoscimento del concetto del ruling and being ruled, rappresenta il punto di avvio di un più vasto e articolato fenomeno che vede nel coinvolgimento degli attori sociali uno snodo fondamentale e strategi-

co. L’individuazione di soggetti partecipanti, totalmente inseriti nella vita e nell’esperienza della polis di appartenenza, la determinazione cioè di cittadini–agenti in grado di contribuire alla politicizzazione della società, costituisce un tassello irrinunciabile se l’obiettivo resta – sia per chi governa, ma soprattutto per chi è governato – quello del miglioramento delle odierne strutture democratiche. Dalle istituzioni politiche, passando per quelle scolastiche ed universitarie: in ognuna di queste realtà, non può venir meno la formazione di una cultura definita, lato sensu, politica, dal momento che è proprio quest’ultima a generare, oggi più di prima, la linfa vitale, necessaria ed indispensabile, affinché una democrazia possa dirsi davvero moderna, funzionante e capace di stare al passo con i tempi. Tuttavia, nel nostro paese, il radicarsi di una cultura politica, unitamente alla costruzione di un forte e profondo senso civico, ha stentato ad affermarsi, non riuscendo del tutto ad attecchire nelle coscienze e nelle esistenze della comunità sociale nel suo complesso. Le ragioni del mancato inserimento, sia nelle menti, ma in primo luogo nei cuori di ogni singolo cittadino, di credenze valoriali confluenti nell’idea di nazione, ritenute essenziali per riuscire a vivere il presente, vanno senza dubbio rintracciate nella gestione, da parte dell’allora classe dirigente, di quel processo che determinò la nascita della nostra Re-

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pubblica, stabilendo, de facto, i grado di archiviare la dicotomia tra contorni e le caratteristiche di una fascismo e antifascismo. L’impossinuova e più democratica forma di bilità di riconoscersi in un insieme governo rispetto a quella che si era di principi e valori comuni, costitutiaffermata nel periodo precedente. I vi di quello che J rgen Habermas principali interpreti e fautori della definiva “patriottismo costituzionaneonata democrazia postbellica le”, ha determinato una “partitizzanon seppero, più per volontà che zione” dell’idea di nazione, deriper caso, tracciare una esaustiva vante da una precedente e ben più descrizione della storia nazionale marcata “partitizzazione” della Coche fosse il più possibile inclusiva, stituzione. Si tratta di un passaggio ossia adeguata a narrare e a rap- importante, destinato a creare nel presentare l’intero complesso di at- tempo un insieme di fratture e cesutori che contribuirono a determinare re spesso difficili da cementificare, il radicale cambio di regime. Si op- con la conseguenza che il distacco tra società e istitutò invece per il ricorso zioni è finito per alla manipolazione I protagonisti della diventare ancor ideologica, con l’inpiù evidente e intento di presentare la democrazia postbellica controvertibile. In storia non come un non seppero tracciare sostanza, si è getuniverso di principi e una descrizione esaustiva tata all’aria un’ocvalori comuni, quanto casione unica ed piuttosto come un prodella storia nazionale irripetibile: quella dotto di esclusivo dodi costruire uno minio di pochi eletti. La conseguenza, inevitabile quanto spazio di interessi prevalenti in tutdisastrosa, di tale atteggiamento, ta la collettività, un’area spontafu quella di presentare la Costitu- nea e sottratta alle logiche dello zione – che dell’esperienza repub- scontro ideologico, da utilizzare, blicana resta di fatto il principale, da parte di chi governa, come serse non addirittura il più importante batoio di consenso e sostegno nei frutto – come la più alta elaborazio- momenti di crisi. proprio questa rine teorico–politica legata alla vi- serva di natura culturale, compocenda dell’antifascismo resistenzia- sta da elementi di carattere costitule, determinando a tutti gli effetti zionale e repubblicano, a costituinon solo una pesante riduzione al re la fonte di legittimazione per il silenzio di voci “altre”, ma soprat- sistema politico-istituzionale nel tutto – ed è questo il punto che va suo complesso1. evidenziato – una democrazia co- Se la debolezza del dato nazionastituzionale scarsamente inclusiva e le sembra ancora oggi mostrarsi incapace, a volte, di attuare un se- come un fenomeno incontestabile e rio sforzo di riappacificazione in assai difficile da sradicare, non va


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dimenticato che un filone di studi, chiede, per potersi nutrire e quindi legato soprattutto alle teorie della per poter durare, la presenza di un scuola di Gabriel Almond, ha cer- preciso modello culturale e valoriacato di tener conto della nozione di le, reiterato nel tempo e costantecultura politica – delle sue sfaccet- mente condiviso dalla maggiorantature e principali caratteristiche – za della popolazione, è essenziale nell’interpretare il rapporto che le- per la buona riuscita di ogni sistega la società al mondo delle istitu- ma democratico che si candidi a zioni e della politica in generale. divenire tale. La traslazione dello Mentre in passato, molti tra studiosi schema relativo all’identità sociale e analisti dei processi politici si era- – ossia di quel processo in base al no soffermati esclusivamente sul- quale tutta una serie di credenze l’analisi del momento elettorale, normative solo legate al comportaconsiderandolo come fattore rias- mento di una determinata collettivisuntivo ed esemplificativo di ulterio- tà, solo se queste sono condivise con un gruppo, ri stadi di un ben più definendo quindi vasto e articolato conLe teorie di Almond una importante cetto di partecipazione sociale, Almond e hanno cercato di tenere identità – su un piano meramenVerba hanno conferito conto della nozione te politico, comopportuna rilevanza di cultura politica porta l’affermarsi anche all’aspetto culturale, recuperando e delle sue sfaccettature della dimensione culturale, non sol’approccio behaviorilo sui momenti sta e funzionalista secondo cui la scienza politica dove- principali della vita di un regime va studiare anche gli orientamenti democratico, ma sulla stabilità delculturali degli individui, sofferman- la democrazia nella sua integrità e dosi in particolare sul loro atteggia- compiutezza. Prima di delineare mento nei confronti della democra- cosa debba intendersi, stricto senzia. Essi arrivarono ad ipotizzare, su, per cultura politica, sia Almond in tal modo, che una cultura politi- che Verba concordano nel sosteneca apatica e frammentata, alienata re che in ogni sistema politico che e scarsamente partecipativa, fini- si rispetti esiste sempre una cultura rebbe per generare un sistema de- politica, generata dall’insieme di mocratico instabile e mal funzio- atteggiamenti e credenze condivise nante, riducendo drasticamente le dalla maggioranza della popolapossibilità di riuscita, nonché di zione. Se quindi «la cultura politica successo, dello stesso. Riprenden- di una nazione consiste nella partido una delle numerose teorizzazio- colare distribuzione di atteggiani di Montesquieu, ossia quella se- menti esistenti nella popolazione condo cui ogni forma di governo ri- nei confronti di “oggetti” politici»,

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ne consegue che «quando parliamo della cultura politica di una società ci riferiamo al sistema politico così come esso è interiorizzato nelle conoscenze, Per Almond, la cultura sentimenti e vapolitica è formata dagli lutazioni della atteggiamenti condivisi popolazione»2. dalla maggioranza Interiorizzare un sistema politico significa anzitutto far sì che il singolo cittadino/elettore si impadronisca non solo di norme, prassi e procedure tecniche, ma che soprattutto incorpori quell’insieme di valori e princìpi cardine per la costruzione di una democrazia funzionante, che punti alla stabilità e alla sua ri186 cezione presso la gran parte della società. La creazione di meccanismi virtuosi, caratterizzati da lealtà e fiducia verso le istituzioni democratiche, nonché dalla convinzione che le élites al potere agiscano nel rispetto della rule of law e in conformità ai principi democratici, rappresenta uno dei più importanti rimedi al pericolo dell’instaurazione della“tirannia” della maggioranza, ossia di quella particolare modalità d’agire che raramente punta alla socializzazione Lealtà e fiducia verso del potere, prefele istituzioni sono rendo a questa i rimedi alla tirannia atteggiamenti della maggioranza scarsamente dialoganti e di chiusura dei rappresentanti nei confronti dei rappresentati. A tal proposito, occorre ribadire con fermezza che la sola presenza di istituzioni democratico-rappresentative non garantisce di per sé

la realizzazione, concreta e reale, di un regime democratico. L’aspetto formale della democrazia – comprensivo di norme, procedure e prassi – è quindi condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo di moderne strutture capaci di inglobare il più possibile richieste di partecipazione, derivanti da quei settori della cittadinanza maggiormente inclini alla socializzazione del potere. Il valore aggiunto – il surplus necessario a far sì che una


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democrazia sia davvero tale – è dato dalla possibilità che ha a disposizione il rivestimento esterno (aspetto formale) di tradursi in realtà concreta e tangibile, ponendosi come parte integrante di un modello istituzionale e costituzionale che non può essere formato solo da precetti astratti e fissati su carta. In tale contesto, notevole importanza riveste la dimensione culturale che, attraverso la diffusione di un’adeguata cultura, è l’unica che riesce a

conferire contenuto e sostanza reale alla democrazia nel suo complesso. Il passaggio immediatamente successivo all’interiorizzazione, da parte degli attori sociali, di L’aspetto formale una certa cultu- è condizione necessaria ra politica, è ma non sufficiente dato dall’indiviper una democrazia duazione di quello spirito civico (civicness) che altro non è se non l’humus e la linfa vitale di ogni sistema democratico– rappresentativo. Se la cultura politica – la cui prima formulazione avviene, da parte di Almond, nel 1956 – è data da credenze e va187 lori di base diffusi e largamente condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione, la cultura civica rappresenta un tipo particolare di cultura politica, essendo caratterizzata da atteggiamenti tendenti alla cooperazione e alla fiducia tra diversi soggetti agenti all’interno della stessa realtà istituzionale e sociale. Non a caso, Robert Putnam include, tra le diverse articolazioni e sfaccettature del concetto di civic culture, la quota di partecipazione ai referenGià Tocqueville riteneva dum, insieme all’associazionismo la tiratura dei il cardine delle società quotidiani e democratiche giornali nazionali e al tasso di vita associativo. Occorre ricordare che già Tocqueville, studiando il funzionamento della democrazia americana, riteneva l’associazionismo – le sue reti, i suoi scopi, le sue finalità – un


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elemento cardine e senza dubbio tadino al mondo delle istituzioni, costitutivo dell’esperienza sociopo- dando vita ad un sistema di raplitica di ogni realtà democratica, in presentanza degli interessi e delle particolare di quella statunitense. istanze sociali organicamente e Se il momento associativo rientra a strutturalmente stabile, ben articolapieno titolo tra quelle che lo stesso to al suo interno e funzionante nel Tocqueville definiva “abitudini del suo complesso. Per questo motivo, cuore”, indicando, con tale espres- è necessario far leva sugli orientasione, uno dei tanti atteggiamenti e menti soggettivi dei singoli individui comportamenti che animavano la nei confronti della realtà politica, vita dei cittadini americani, ne con- nel tentativo di realizzare una diffusegue che l’impegno civico, unita- sa adesione (commitment) a certi mente alla solidarietà e alla coope- valori politici, tale da influire positirazione, finisce per consentire (e vamente sulle prestazioni e sui risulgarantire) un miglior funzionamento tati prodotti dalle stesse istituzioni democratiche. Se dell’intera macchina la cultura politica governativa. Al conLo spirito civico è l’anello di contrario, la diffusione di giunzione tra citprassi e modalità è l’humus e la linfa tadino/elettore e comportamentali inclivitale di ogni sistema sistema politico, ni all’autorealizzaziodemocratico la cultura civica è ne, legate tout court l’humus culturale al raggiungimento e rappresentativo della democradella soddisfazione zia; è, in altri terpersonale, producono un sistema politico carente e mini, quel valore aggiunto, neceszoppicante, scarsamente capace sario quanto indispensabile, per la di intessere reti di relazioni (e di as- compiuta genesi e realizzazione di sociazioni) sociali che leghino i di- una democrazia funzionante, caversi strati della cittadinanza intor- pace, proprio perché altamente no ad un progetto di ampio respi- coesa al suo interno, di resistere a ro, fatto di credenze e valori condi- possibili ed eventuali derive, prima visi, percepiti e sentiti come indi- fra tutte quella rappresentata dal spensabili per la creazione del- presentismo. Infatti, solo attraverso la condivisione di regole in grado l’arendtiano essere in comune. A più riprese è stato ricordato che di oltrepassare la logica del conflitla creazione e lo sviluppo di una ef- to e dello scontro politico, è possificace cultura civica deve necessa- bile favorire il radicarsi di comporriamente passare attraverso l’indivi- tamenti e atteggiamenti tendenti al duazione di momenti (e sentimenti) dialogo, idonei alla costruzione di di aggregazione e sociale e politi- una coscienza della cittadinanza ca, in grado di legare il singolo cit- che sia conciliativa delle diverse


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fratture e divisioni presenti all’inter- special interests, cioè di interessi individuali e privati, settoriali e non no del corpo sociale. Restringendo il campo di analisi e collettivi. focalizzando l’attenzione sulla real- Il tentativo di spiegare il perché in tà italiana, va ricordato che tra il Italia abbia attecchito, trovando 1954 e il 1955, cioè quasi un ampi spazi di diffusione, una cultubiennio prima della teorizzazione ra di tipo parrocchiale o provinciadel concetto di cultura politica da le, non può prescindere dal recupeparte di Almond, Edward Banfield ro delle modalità in base alle quali sosteneva che in Italia si fosse diffu- avvenne, e successivamente fu reasa e sedimentata nel corso degli lizzata, l’unificazione nazionale in anni una cultura familista, divenuta, seguito alle profonde fratture e concon il trascorrere del tempo, il prin- trapposizioni sociali generate dal cipale e dominante paradigma cul- secondo conflitto mondiale. Nel turale di riferimento, caratterizzato nostro paese, l’edificazione di un sistema democrada modalità di azione tico, unitamente incapaci di generare L’impegno civico alla costruzione un clima di fiducia e di un “pacchetto” cooperazione reciproè l’esatto contrario di memorie e vaca in grado di superadel concetto lori condivisi, re il classico e tradiziodi “familismo amorale” non è avvenuta nale orizzonte familiaattraverso la mise re. Si tratta, in estrema teorizzato da Banfield en place di sintesi, di quel particoun’azione di calare sottotipo di cultura politica definita da Almond e Verba rattere pedagogico mirante alla dif“parrocchiale”, contrapposta a fusione, in tutte le varie articolazioquella “partecipante”, rispettosa ni del corpo sociale, di prassi e dell’autorità, impegnata e raziona- mentalità comunemente accettate e le, incline, per sua stessa natura, al- reiterate nel tempo, finendo invece la partecipazione politica. Non a per generare un vulnus importante, caso, l’impegno civico (civicness) si determinato dal fatto che, dopo la pone come l’esatto contrario del caduta del regime fascista, il paese concetto di “familismo amorale” si sia trovato sprovvisto di un’adeteorizzato dallo stesso Banfield, guata cultura civica. Quest’ultima che altro non è se non la rinuncia doveva essere conquistata attraveraprioristica – e in certi casi, condi- so un processo di democratizzaziozionata – allo sviluppo di virtù civili ne inaugurato dalle neonate istituin grado di contribuire al riconosci- zioni rappresentative, ossia da quemento e al perseguimento del bene gli organismi deputati alla diffusiopubblico, anche a costo di rinun- ne di “oggetti” democratici all’interciare alla massimizzazione degli no della società nel suo complesso.

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In Italia, invece, il ritorno alla de- po corporativo, finendo così per mocrazia – al dibattito, seppure a alimentare quella linea di pensiero volte aspro, alla discussione, al che rinuncia alla condivisione di confronto tra parti – ha finito per orizzonti comuni, preferendo invecoincidere con il ritorno, nell’agone ce curare il proprio universo parrocpubblico, dei partiti politici, sosti- chiale, all’interno di un contesto in tuendo, fin dagli albori, una visione cui la memoria (e la cultura) è voluconflittuale e dicotomica a prospet- tamente tenuta divisa e giammai tive dialoganti e di reciproco rispet- condivisa. Premesso che la cultura to. La ri-socializzazione degli italia- civica è, ex definitione, sempre pluni è quindi avvenuta non solo in as- ralistica, orientata sì al consenso, senza di istituzioni repubblicane ma al tempo stesso rispettosa delle ben radicate e interiorizzate, ma è diversità, occorre ribadire che essa stata in gran parte pilotata da due vive e sopravvive negli anni solo se grandi (e ampiamente diffuse) cultu- riesce a porsi in un rapporto di stretta interazione con re di massa, quella il mondo delle isticattolica e quella di La cultura civica, tuzioni, svolgenmatrice comunista, do, nei confronti caratterizzate da una orientata al consenso, delle stesse, una forte identità di parte rimane sempre funzione catalize organizzate in base e comunque rispettosa zatrice delle dia logiche di natura verse issues proconflittuale e correntidelle diversità venienti dalla sozia. La tardiva (e piutcietà. In tal motosto inefficace) introduzione dell’educazione civica nel- do, si conferma quanto affermato le scuole, unitamente allo scarso in precedenza, ossia il fatto che il coinvolgimento popolare rispetto trait d’union tra realtà politico–istitualla nascita della Repubblica (cfr. zionale e sfera sociale è dato apScoppola, 1998, 49), hanno de- punto dall’esistenza (e dallo svilupterminato la nascita di una cultura po) di un forte senso civico, orientapolitica democratica intesa fonda- to alla partecipazione e alla legittimentalmente in negativo, come ri- mazione delle strutture democratifiuto del fascismo, come sostanzia- co–rappresentative. Di fronte ad atle defascistizzazione. Anziché pun- teggiamenti di disaffezione e astentare sulla diffusione di un unico e sionismo elettorale, di allontanacondiviso sistema di credenze e va- mento e distacco del cittadino/eletlori unificanti, ricchi di spunti ricon- tore nei confronti di chi governa, la ciliativi e privi di elementi disgre- carenza di “approvazione sociale” ganti, si è preferito fortificare situa- verso i valori e le istituzioni demozioni caratterizzate dalla protezio- cratiche rischia di far svanire – o ne di privilegi particolaristici e di ti- quantomeno affievolire – l’elemento


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della responsiveness, con il risultato ra, che, invece, fa riferimento ad che l’eletto finisce sempre più per un sistema di valori opposti o alterrender conto a sé stesso (e ai suoi nativi a quelli dominanti. La formafedelissimi) e sempre meno all’elet- zione di enclave subculturali, carattore, ossia a colui che è chiamato terizzate da un alto grado di adea pronunciarsi e a esprimersi, in ter- sione intorno ad interessi di tipo lomini di consenso e sostegno eletto- cale, non è, come invece si potrebrale, a favore o contro l’operato be immaginare, sempre dannosa. Il dei governanti democraticamente localismo, se non distorto e viziato da logiche di parte, potrebbe costidesignati. A lungo si è scritto e riflettuto circa tuire una risorsa per la creazione di l’esistenza di fratture – di tipo cultu- una certa quantità di fiducia interrale, politico, ideologico, economi- soggettiva, mirante alla valorizzaco e sociale – all’interno della real- zione delle diverse appartenenze tà italiana, fratture e divisioni che territoriali. Il rischio, tanto pericoloso quanto dannospesso e volentieri finiso, si ha invece scono per acuirsi e alSe l’Italia del nord quando tra le diflargarsi anziché ridursi e riassorbirsi. Non è si riconosce nella Lega, ferenti subculture si creano spinte un caso se il dibattito al sud si afferma alla frammentariguardante le “mille una mentalità zione e alla comItalie”3, inerente cioè partimentazione, alla messa in evidenfamily oriented rinunciando alza di realtà “altre” ril’obiettivo virtuospetto a quella nazionale, è a tutti gli effetti ancora aper- so della compresenza e dell’interreto. Tuttavia, sarebbe non del tutto lazione. In tal senso, l’Italia rapprecorretto pensare che la creazione senta un caso di cultura politica di subculture – di un particolare si- segmentata e non omogenea, in stema politico, caratterizzato da un cui permangono e si fortificano dielevato grado di consenso nei con- visioni di tipo essenzialmente geofronti di quei gruppi capaci di rea- grafico. Se il nord del paese ha filizzare un’aggregazione (e una me- nito sempre più per riconoscersi, diazione) dei diversi interessi a li- grazie soprattutto all’azione svolta vello locale (cfr. Trigilia, 1986, 47) sul territorio dalla Lega, in un siste– generi sempre e comunque forze ma valoriale e culturale legato alla centrifughe in grado di attentare al- questione del federalismo e dell’aula coesione delle istituzioni sociali. tonomia regionale rispetto al cenSe infatti il concetto di subcultura tralismo burocratico–amministrativo designa un’entità distinta rispetto al di Roma, al sud si afferma e domiresto della società, non coincide na un tipo di mentalità family orienperò con la nozione di controcultu- ted piuttosto che una cultura com-

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munity oriented. Uno scenario di questo tipo, caratterizzato da forti legami familisti e vincoli localistici, ha come sbocco naturale, nonché inevitabile, quello della creazione di sacche di resistenza che ostacolano la produzione di momenti di aggregazione, non consentendo di colmare il ritardo che tuttora esiste nel processo di costruzione della nazione. Sulla scia di quanto appena ricordato, la società italiana finisce per essere considerata una realtà a “capitale sociale” variabile, in cui singoli cittadini impegnano le risorse a loro disposizione solo se il raggiungimento e la soddisfazione dei loro bisogni e necessità è realizzabile nel breve periodo e senza che questo comporti un grande dispendio di tempo e di energie. La volontà di arginare spinte e forze centrifughe, che minano un già debole e flebile sentimento di coesione nazionale (e sociale), passa inevitabilmente attraverso la costruzione di un adeguato spirito civico, inteso anzitutto come adesione costante ad un insieme di valori e credenze, riconosciuti da tutta la comunità quali elementi fondativi e costitutivi di un moderno patriottismo repubblicano. La sola individuazione di procedure e prassi democratiche non è di per sé sufficiente alla realizzazione di un idem sentire che parta dal presupposto che le istituzioni necessitano di una cultura civica che le sostenga e supporti costantemente, soprattutto nei momenti di crisi come

quello che stiamo vivendo. In tale prospettiva, i giovani – spesso considerati “incerti paladini” della cultura politica – dovranno impegnarsi a creare dei momenti di socializzazione e aggregazione che consentano loro di andare oltre il semplice e tanto desiderato orizzonte dell’autodefinizione e autorealizzazione. In sostanza, occorre un mutamento di mentalità, tale da rivoluzionare un sistema in cui a dominare sono ancora il “familismo amorale” e particolarismi di ogni genere ed entità.

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Cfr. E. Galli della Loggia, La morte della patria, Ed. Laterza, 1996. 2 G. Almond e S. Verba, Un approccio allo studio della cultura politica, in G. Sartori (a cura di), Antologia di scienza politica, Il Mulino, Bologna 1970, pp 215-222. 3 Cfr. E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998.

l’autore angelica stramazzi Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Università di Perugia. Collabora con Spinning Politics, testata online di comunicazione politica, e con diverse testate locali del Lazio. Svolge attività di consulente politico, occupandosi di comunicazione pubblica.


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