Le guerre dimenticate

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EDITORIALE DI PAOLO QUERCIA

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Presidente onorario

Gianfranco FINI

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Le guerre dimenticate

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno VII - Numero 2 - aprile/giugno 2012

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

le guerre dimenticate Trimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VII - n. 2 - aprile/giugno 2012 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Basta con la politica della conflittualità Con oltre venti guerre in corso di significativa portata, almeno altrettante guerre a intensità minore, svariate decine di conflitti violenti e centinaia di conflitti latenti più o meno violenti, il 2011 può sicuramente essere definito un anno ad alta conflittualità che lascia intravedere come la guerra e il suo opposto – ovvero le capacità di costruire la sicurezza e di gestire i conflitti violenti – resteranno ancora a lungo una variante determinante del sistema internazionale1. Nonostante la fine della Guerra Fredda, la caduta del comunismo, l’avvento delle guerre umanitarie, numerosi tentativi di esportazione della democrazia, un decennio di guerra al terrorismo e la cablatura del mondo in un sistema globale di valori politico-economici da cui nemmeno la Corea del Nord può restare immune, la guerra – una delle più antiche arti dell’umanità – continua a mietere annualmente il suo tributo di vittime e di distruzioni. Nessuna di queste guerre è combattuta tra due Stati sovrani ma riguardano tutte conflitti interni, che a volte coinvolgono più paesi. Secondo il prestigioso istituto tedesco Heidelberg Institute for International Conflict Research il 2011 è stato un anno record per il numero di guerre in corso, superando i valori toccati negli ultimi 50 anni, ossia da quando l’Hiik conduce le proprie anaIl 2011 è stato lisi. Nella piramide della conflittualità un anno record che parte dal gradino più basso delle per il numero dispute che non trovano una soluzione di guerre in corso politica fino alle guerre aperte (nella terminologia dell’Hiik disputes, non violent crises, violent crises, limited wars, wars) è evidente che il mondo dispone di un serbatoio pressoché inesauribile di conflitti potenziali dalla natura più diversa (ideologica, religiosa, territoriale, identitaria, per le risorse, di potenza, ecc.) che è influenzato ma non determinato dalla struttura del sistema internazionale e dal balance of power globale. In altre parole, un’analisi attenta della conflittualità dell’ultimo ventennio non potrebbe non evidenziare come alla riduzione delle conflittualità e delle divergenze sistemiche non sembra corrispondere a livello infrastatuale o intrastatuale né una riduzione nella radicalizzazione di vecchi conflitti né un calo nella apertura di nuove forme di conflittualità. Anzi, l’ideologia democratica delle guerre umanitarie o del diritto d’ingerenza umanitario che si è sviluppata nell’ultimo ventennio – con il decisivo supporto dei media occi-


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VII - NUMERO 2 - APRILE/GIUGNO 2012

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

Le guerre dimenticate Basta con la politica della conflittualità PAOLO QUERCIA - EDITORIALE

Crisi iraniana, non c’è più tempo - 140 RODOLFO BASTIANELLI

È ora che l’Europa diventi grande - 6 INTERVISTA a FRANCO FRATTINI di Fabiana Tonna

Africa, un continente che non conosce pace - 148 ENZO NUCCI

I militari italiani “producono” pace e sicurezza - 9 IGNAZIO LA RUSSA

Gioco di specchi tra le due Coree - 156 MARIA ELENA VIGGIANO

Nagorno-Karabakh e Khojaly, un crimine contro l’umanità - 16 CHRISTOPHER BADEAUX

Cristiani, come agnelli tra i lupi? - 162 INTERVISTA a FRANCO CARDINI di Luciano Capone

La strage di Khojaly è una ferita ancora aperta - 20 ELKHAN SULEYMANOV

Un’alleanza unita per il futuro globale - 170 FERDINANDO SAN FELICE DI MONTEFORTE

Quelle guerre figlie della nostra distrazione - 44 INTERVISTA a TONI CAPUOZZO di Cecilia Moretti

Serve un pilastro europeo della Nato - 174 FRANCESCO LA MOTTA

Buoenos Aires

Kosovo, la banalità del male della guerra - 52 CECILIA MORETTI

Droni, la scommessa è stata vinta - 178 CARLO JEAN

Seminario sui distretti industriali

La “matrigna” Russia? Ve la spiego io... - 58 INTERVISTA a NICOLAI LILIN di Antonio Rapisarda Transnistria, uno Stato nello Stato - 66 FILIPPO CINOGLOSSI Cecenia, il massacro dimenticato - 76 DOMENICO NASO Quella linea sottile tra Georgia e Russia - 82 FRANCESCA SICILIANO L’ultimo muro che separa l’Europa - 92 PIETRO URSO Il mosaico balcanico tra guerra e opportunismo - 108 INTERVISTA a MAURIZIO CABONA di Pietro Urso Il puzzle libanese - 116 INTERVISTA a GHADI SARY di Matteo Mannello Quel filo invisibile tra Derry e Bilbao - 128 STEFANO BASILICO Il peso geopolitico della Mezzaluna - 134 GIUSEPPE MANCINI

STRUMENTI THE LESSONS OF ARMENIA'S INVASION OF AZERBAIJAN AND THE KHOJALY MASSACRE; A WOUNDED LAND: THE CONSEQUENCES OF ARMENIA'S OCCUPATION AND ETHNIC CLEANSING IN AZERBAIJAN TERRITORY; GENERAL ASSEMBLY ADOPTS RESOLUTION REAFFIRMING TERRITORIAL INTEGRITY OF AZERBAIJAN, DEMANDING WITHDRAWAL OF ALL ARMENIAN FORCES

...e sui marò non fate gli indiani - 226 INTERVISTA a LUIGI DI STEFANO di Giovanni Basini Con l’Imu le tasse aumentano, ma i servizi? - 230 FRANCESCA SICILIANO

RUBRICHE LAND OF THE FREE La fatica dei repubblicani - 234 GIAMPIERO RICCI

ROMA

Can't Is Not an Option Nikki Haley, governatore repubblicano del South Carolina, originaria dall’India, presenta la propria autobiografia presso l’American Enterprise Institute. Giovedì 5 aprile

L’Unione europea e le strategie di stabilizzazione politica e sociale dei paesi extraeuropei del mediterraneo La seconda Adenauer – De Gasperi lecture della Konrad Adenauer Stiftung in Italia. Tra i relatori: Renato Schifani, Giulio Terzi, Franco Frattini, Nabil Elaraby (Segretario della Lega araba), Amr Moussa e l’ex Presidente libanese, Amine Gemayel. Mercoledì 18 aprile

Roma Le guerre “dimenticate”

Martedì 17 aprile Martedì 17 aprile alle ore 18, presso Palazzo San Macuto a Roma, in via del Seminario 76, viene presentato l'ultimo fascicolo della rivista Charta minuta, dal titolo Le guerre d’Europa.

Giovedì 26 aprile A Buenos Aires, si tiene il seminario dal titolo “Distretti industriali e internazionalizzazione delle imprese”. Con Adolfo Urso, Giancarlo Lanna, Federico Eichberg, Gianmaria Sparma.

MINUTA Porzûs, una storia da raccontare - 220 INTERVISTA a TOMMASO PIFFER di Angelica Stramazzi

WASHINGTON

Roma Banda larga, uno strumento per la crescita

Giovedì 29 marzo Giovedì 29 marzo alle ore 14 presso la Fondazione Farefuturo si tiene il workshop dal titolo “Banda larga, uno strumento per la crescita culturale ed economica del Paese”. Con i rappresentanti delle associazioni e delle imprese di settore.

BERLINO One Year After The "Arab Spring Conferenza internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sul ruolo dei giovani nei rapporti tra le diverse sponde del Mediterraneo, un anno dopo la “Primavera araba”. Tra i partecipanti, Hans-Gert Pöttering (già Presidente del Parlamento europeo) e il principe El-Hassan bin Talaal della casa reale della Giordania. Lunedì 16 aprile

ROMA La difesa della democrazia: Germania e Italia di fronte alla sfida del terrorismo Seminario della sezione italiana della Konrad Adenauer Stiftung sul terrorismo degli anni settanta in Germania e in Italia. Intervengono Giuseppe Parlato e Miguel Gotor, insieme a degli studiosi tedeschi. Lunedì 16 aprile

WASHINGTON The Impossible State: North Korea, Past and Future Presentazione presso la Heritage Foundation di un nuovo libro sulla Corea del Nord “lo Stato impossibile”. Partecipa l’autore, Victor Cha, già consigliere del Presidente Bush sulle politiche dell’estremo Oriente. Mercoledì 18 aprile

LONDRA Labour Market 2020 Seminario di Policy Exchange sul mercato di lavoro del futuro. Tra i relatori: Chris Grayling, Sottosegretario al Lavoro, John Hayes, Sottosegretario all’Istruzione e Stephen Timms, già sottosegretario laburista all’Economia. Mercoledì 18 aprile

WASHINGTON The U.S.-Japan Alliance and the Debate Over Japan's Role in Asia Dibattito, organizzato dalla Heritage Foundation, con il governatore di Tokio, il nazionalista Shintaro Ishihara, sulle prospettive dell’alleanza tra Giappone e Stati Uniti. Lunedì 16 aprile

LONDRA Financial regulation and economic policy in a European context Il think-tank Policy Exchange approfondisce in un seminario la proposta di una tassa europea sulle transazioni finanziarie. Mercoledì 24 aprile

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Giovanni Basini, Stefano Basilico, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Luciano Capone, Rosalinda Cappello, Pasquale Giordano, Silvia Grassi, Matteo Laruffa, Giuseppe Mancini, Matteo Mannello, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Antonio Rapisarda, Giampiero Ricci, Adriano Scianca, Francesca Siciliano, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


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APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VII - NUMERO 2 - APRILE/GIUGNO 2012

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

Le guerre dimenticate Basta con la politica della conflittualità PAOLO QUERCIA - EDITORIALE

Crisi iraniana, non c’è più tempo - 140 RODOLFO BASTIANELLI

È ora che l’Europa diventi grande - 6 INTERVISTA a FRANCO FRATTINI di Fabiana Tonna

Africa, un continente che non conosce pace - 148 ENZO NUCCI

I militari italiani “producono” pace e sicurezza - 9 IGNAZIO LA RUSSA

Gioco di specchi tra le due Coree - 156 MARIA ELENA VIGGIANO

Nagorno-Karabakh e Khojaly, un crimine contro l’umanità - 16 CHRISTOPHER BADEAUX

Cristiani, come agnelli tra i lupi? - 162 INTERVISTA a FRANCO CARDINI di Luciano Capone

La strage di Khojaly è una ferita ancora aperta - 20 ELKHAN SULEYMANOV

Un’alleanza unita per il futuro globale - 170 FERDINANDO SAN FELICE DI MONTEFORTE

Quelle guerre figlie della nostra distrazione - 44 INTERVISTA a TONI CAPUOZZO di Cecilia Moretti

Serve un pilastro europeo della Nato - 174 FRANCESCO LA MOTTA

Buoenos Aires

Kosovo, la banalità del male della guerra - 52 CECILIA MORETTI

Droni, la scommessa è stata vinta - 178 CARLO JEAN

Seminario sui distretti industriali

La “matrigna” Russia? Ve la spiego io... - 58 INTERVISTA a NICOLAI LILIN di Antonio Rapisarda Transnistria, uno Stato nello Stato - 66 FILIPPO CINOGLOSSI Cecenia, il massacro dimenticato - 76 DOMENICO NASO Quella linea sottile tra Georgia e Russia - 82 FRANCESCA SICILIANO L’ultimo muro che separa l’Europa - 92 PIETRO URSO Il mosaico balcanico tra guerra e opportunismo - 108 INTERVISTA a MAURIZIO CABONA di Pietro Urso Il puzzle libanese - 116 INTERVISTA a GHADI SARY di Matteo Mannello Quel filo invisibile tra Derry e Bilbao - 128 STEFANO BASILICO Il peso geopolitico della Mezzaluna - 134 GIUSEPPE MANCINI

STRUMENTI THE LESSONS OF ARMENIA'S INVASION OF AZERBAIJAN AND THE KHOJALY MASSACRE; A WOUNDED LAND: THE CONSEQUENCES OF ARMENIA'S OCCUPATION AND ETHNIC CLEANSING IN AZERBAIJAN TERRITORY; GENERAL ASSEMBLY ADOPTS RESOLUTION REAFFIRMING TERRITORIAL INTEGRITY OF AZERBAIJAN, DEMANDING WITHDRAWAL OF ALL ARMENIAN FORCES

...e sui marò non fate gli indiani - 226 INTERVISTA a LUIGI DI STEFANO di Giovanni Basini Con l’Imu le tasse aumentano, ma i servizi? - 230 FRANCESCA SICILIANO

RUBRICHE LAND OF THE FREE La fatica dei repubblicani - 234 GIAMPIERO RICCI

ROMA

Can't Is Not an Option Nikki Haley, governatore repubblicano del South Carolina, originaria dall’India, presenta la propria autobiografia presso l’American Enterprise Institute. Giovedì 5 aprile

L’Unione europea e le strategie di stabilizzazione politica e sociale dei paesi extraeuropei del mediterraneo La seconda Adenauer – De Gasperi lecture della Konrad Adenauer Stiftung in Italia. Tra i relatori: Renato Schifani, Giulio Terzi, Franco Frattini, Nabil Elaraby (Segretario della Lega araba), Amr Moussa e l’ex Presidente libanese, Amine Gemayel. Mercoledì 18 aprile

Roma Le guerre “dimenticate”

Martedì 17 aprile Martedì 17 aprile alle ore 18, presso Palazzo San Macuto a Roma, in via del Seminario 76, viene presentato l'ultimo fascicolo della rivista Charta minuta, dal titolo Le guerre d’Europa.

Giovedì 26 aprile A Buenos Aires, si tiene il seminario dal titolo “Distretti industriali e internazionalizzazione delle imprese”. Con Adolfo Urso, Giancarlo Lanna, Federico Eichberg, Gianmaria Sparma.

MINUTA Porzûs, una storia da raccontare - 220 INTERVISTA a TOMMASO PIFFER di Angelica Stramazzi

WASHINGTON

Roma Banda larga, uno strumento per la crescita

Giovedì 29 marzo Giovedì 29 marzo alle ore 14 presso la Fondazione Farefuturo si tiene il workshop dal titolo “Banda larga, uno strumento per la crescita culturale ed economica del Paese”. Con i rappresentanti delle associazioni e delle imprese di settore.

BERLINO One Year After The "Arab Spring Conferenza internazionale della Konrad Adenauer Stiftung sul ruolo dei giovani nei rapporti tra le diverse sponde del Mediterraneo, un anno dopo la “Primavera araba”. Tra i partecipanti, Hans-Gert Pöttering (già Presidente del Parlamento europeo) e il principe El-Hassan bin Talaal della casa reale della Giordania. Lunedì 16 aprile

ROMA La difesa della democrazia: Germania e Italia di fronte alla sfida del terrorismo Seminario della sezione italiana della Konrad Adenauer Stiftung sul terrorismo degli anni settanta in Germania e in Italia. Intervengono Giuseppe Parlato e Miguel Gotor, insieme a degli studiosi tedeschi. Lunedì 16 aprile

WASHINGTON The Impossible State: North Korea, Past and Future Presentazione presso la Heritage Foundation di un nuovo libro sulla Corea del Nord “lo Stato impossibile”. Partecipa l’autore, Victor Cha, già consigliere del Presidente Bush sulle politiche dell’estremo Oriente. Mercoledì 18 aprile

LONDRA Labour Market 2020 Seminario di Policy Exchange sul mercato di lavoro del futuro. Tra i relatori: Chris Grayling, Sottosegretario al Lavoro, John Hayes, Sottosegretario all’Istruzione e Stephen Timms, già sottosegretario laburista all’Economia. Mercoledì 18 aprile

WASHINGTON The U.S.-Japan Alliance and the Debate Over Japan's Role in Asia Dibattito, organizzato dalla Heritage Foundation, con il governatore di Tokio, il nazionalista Shintaro Ishihara, sulle prospettive dell’alleanza tra Giappone e Stati Uniti. Lunedì 16 aprile

LONDRA Financial regulation and economic policy in a European context Il think-tank Policy Exchange approfondisce in un seminario la proposta di una tassa europea sulle transazioni finanziarie. Mercoledì 24 aprile

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Giovanni Basini, Stefano Basilico, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Luciano Capone, Rosalinda Cappello, Pasquale Giordano, Silvia Grassi, Matteo Laruffa, Giuseppe Mancini, Matteo Mannello, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Antonio Rapisarda, Giampiero Ricci, Adriano Scianca, Francesca Siciliano, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

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EDITORIALE DI PAOLO QUERCIA

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Presidente onorario

Gianfranco FINI

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Le guerre dimenticate

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA, Giuseppe PUTTINI

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Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

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Consiglio di fondazione Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

le guerre dimenticate Trimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VII - n. 2 - aprile/giugno 2012 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Basta con la politica della conflittualità Con oltre venti guerre in corso di significativa portata, almeno altrettante guerre a intensità minore, svariate decine di conflitti violenti e centinaia di conflitti latenti più o meno violenti, il 2011 può sicuramente essere definito un anno ad alta conflittualità che lascia intravedere come la guerra e il suo opposto – ovvero le capacità di costruire la sicurezza e di gestire i conflitti violenti – resteranno ancora a lungo una variante determinante del sistema internazionale1. Nonostante la fine della Guerra Fredda, la caduta del comunismo, l’avvento delle guerre umanitarie, numerosi tentativi di esportazione della democrazia, un decennio di guerra al terrorismo e la cablatura del mondo in un sistema globale di valori politico-economici da cui nemmeno la Corea del Nord può restare immune, la guerra – una delle più antiche arti dell’umanità – continua a mietere annualmente il suo tributo di vittime e di distruzioni. Nessuna di queste guerre è combattuta tra due Stati sovrani ma riguardano tutte conflitti interni, che a volte coinvolgono più paesi. Secondo il prestigioso istituto tedesco Heidelberg Institute for International Conflict Research il 2011 è stato un anno record per il numero di guerre in corso, superando i valori toccati negli ultimi 50 anni, ossia da quando l’Hiik conduce le proprie anaIl 2011 è stato lisi. Nella piramide della conflittualità un anno record che parte dal gradino più basso delle per il numero dispute che non trovano una soluzione di guerre in corso politica fino alle guerre aperte (nella terminologia dell’Hiik disputes, non violent crises, violent crises, limited wars, wars) è evidente che il mondo dispone di un serbatoio pressoché inesauribile di conflitti potenziali dalla natura più diversa (ideologica, religiosa, territoriale, identitaria, per le risorse, di potenza, ecc.) che è influenzato ma non determinato dalla struttura del sistema internazionale e dal balance of power globale. In altre parole, un’analisi attenta della conflittualità dell’ultimo ventennio non potrebbe non evidenziare come alla riduzione delle conflittualità e delle divergenze sistemiche non sembra corrispondere a livello infrastatuale o intrastatuale né una riduzione nella radicalizzazione di vecchi conflitti né un calo nella apertura di nuove forme di conflittualità. Anzi, l’ideologia democratica delle guerre umanitarie o del diritto d’ingerenza umanitario che si è sviluppata nell’ultimo ventennio – con il decisivo supporto dei media occi-


tali – a partire dalla presidenza Clinton ha contribuito a far diventare guerre internazionali quelle che in passato erano conflittualità interne di portata minore. In un contesto dove l’informazione è sempre più accesI conflitti “illuminati” sibile, di portata globale, sempre più vedai media tendono a loce e sempre meno verificabile, è auintensificarsi per attrarre mentato anche il ruolo dei moltiplicatorisorse finanziarie ri – o dei silenziatori – delle conflittualità. Media e Ong hanno assunto un ruolo oramai determinante nella selezione, preparazione e giustificazione delle guerre contemporanee lasciando però nell’ombra decine e decine di conflitti. Inoltre, i media e l’azione delle Ong hanno chiaramente dimostrato di avere non solo l’effetto di mobilitazione internazionale ma anche quello di moltiplicazione dei conflitti: i conflitti “illuminati” dai media, dall’azione delle Ong e dall’opinione pubblica internazionale tendono spesso a intensificarsi e ad aumentare di potenza nel volgere di pochi anni, diventando poli per l’attrazione di risorse finanziarie e capacità militari, nella cui fornitura competono una vasta gamma di attori statuali e non statuali. I conflitti, dunque, possono venire accesi o spenti, in una complessa partita di potere globale in cui alcune guerre vengono dimenticate o abbandonate, magari nonostante le dimensioni rilevanti, e altre conflittualità secondarie vengono invece esasperate e fatte crescere artificialmente. Esiste dunque una politica della conflittualità, fatta di scelte, di priorità, di graduatorie, di missioni di peacekeeping, di interventi più o meno necessari. Una politica che in gran parte sfugge al diritto internazionale e solo in parte passa attraverso il sistema onusiano, entrambi emarginati dalla La politica del conflitto evoluzione presa dal sistema internazioin gran parte nale post Guerra Fredda. sfugge al diritto Un fenomeno interessante, inoltre, apinternazionale pare essere quello della intermittenza mediatica dei conflitti, ossia della sovraesposizione sui media globali che certi conflitti hanno nell’imminenza di un intervento militare e della loro successiva sparizione al termine dell’intervento, indipendentemente dal fatto se la conflittualità interna che aveva originato l’intervento sia o meno risolta. È il caso di conflitti come quello afgano, quello iracheno, ma anche della più recente guerra libica. Le fasi definibili come “la guerra dopo la guerra”2, ossia il deterioramento della situazione interna dopo la caduta dei regimi e l’apertura di nuove conflittualità viene presto dimenticato e oscurato alla pubblica opinione. La conflittualità post-bellica è deci-

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samente meno mediatizzata della conflittualità pre-bellica; mentre la prima serve a giustificare l’intervento armato, la persistenza della conflittualità post-bellica solitamente mette in dubbio l’efficacia dell’intervento militare, e sopratLa guerra “dopo tutto i suoi fini, mettendo in discussione il la guerra” viene spesso punto di vista umanitario e quello della dimenticata e taciuta democratizzazione, due motivazioni che all’opinione pubblica spesso sono la giustificazione per gli interventi militari occidentali, ai quali, però, difficilmente segue l’instaurazione di regimi democratici o l’istituzione di regimi di tutela dei diritti dell’uomo efficaci e compatibili con gli standard occidentali. Oggi, una quota importante di guerre – e in particolare i conflitti maggiori e quelli strategici – sono il frutto della politica del regime change, ossia dell’intervento militare volto a sostituire leadership politiche antidemocratiche e responsabili di ripetute violazioni dei diritti dell’uomo. Esiste dunque uno spazio ideologico oltre il quale i regimi possono spingersi solo al prezzo di esporsi al rischio di un intervento armato occidentale che oramai prescinde in buona misura dal diritto internazionale e dal divieto di uso della forza che non sia in legittima difesa, come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. L’Occidente è dunque un importante produttore di conflittualità in diverse parti del pianeta e mantiene il più ampio dispiegamento di forze militari impegnate in scenari post conflict. Un altro rilevante scenario di conflittualità è rappresentato dallo spazio post-sovietico. In questa vasta regione euro-asiatica numerosi sono i conflitti ad alta intensità che tuttora interessano gli Stati successori dell’Urss e in particolare la Russia. Molti di questi conflitti sono L’Occidente è un’eredità dell’imperialismo totalitario un importante dell’Unione Sovietica e in particolare produttore della politica staliniana delle nazionalidi conflittualità tà. Solo la Russia conosce svariati di questi conflitti interni, di particolare gravità quelli originati nell’area del Caucaso dovuti al confronto con i movimenti radicali jihadisti che rivendicano la creazione di un Emirato del Caucaso che comprenderebbe le Repubbliche del Dagestan, della Cecenia, dell’Inguscezia, la Cabardino Balkaria, il Carachay-Cirkassia. Nel 2011 questa cintura islamica del Caucaso russo è stata interessata da violenti atti di ribellione e terrorismo contro la popolazione civile, le forze di sicurezza russe, le istituzioni locali e gli imam moderati filo governativi causando quasi 1.000 vittime. Ma il 2011 ha aperto un altro fronte di conflittualità e di guer-


re civili nell’area Mediterranea all’interno del grande sommovimento provocato dalla cosiddetta primavera araba. Se la caduta dei regimi autoritari arabi ha gettato le basi per una democratizzazione nel lungo periodo della sponda Sud del Mediterraneo, vero è che la rimozione delle leadership autocratiche ha creato un enorme vuoto di potere che ha aperto le porte per numerosi nuovi conflitti interni che possono provocare nuovi conflitti tra gli Stati della regione. Nel 2011 lo Yemen è sprofondato in una complessa e sanguinosa guerra civile che ha prodotto migliaia di vittime e in cui si sono intrecciati almeno tre conflitti, tra forze governative e opposizione politica, tra governo e formazioni qaediste, tra forze sunnite e sciite. La Libia, dopo la guerra contro il regime di Gheddafi e le forze che lo sostenevano, è in piena anarchia con una precaria situazione di sicurezza e costantemente sull’orlo di una guerra civile e con il concreto rischio di frantumarsi in mini entità. La Siria è tutt’ora travagliata da un conflitto interno di difficile soluzione esploso nel 2011 che vede il governo di Damasco confrontarsi con l’opposizone del consiglio di Sicurezza nazionale (Snc) e il La Libia post Gheddafi suo braccio armato, l’Esercito libero siriano è in piena anarchia e (Fsa) che ha prodotto almeno 5.000 morti. la Siria è travagliata Infine, dal punto di vista delle guerre in corda un conflitto interno so e delle potenziali nuove conflittualità, particolare attenzione va riservata alla regione dell’Africa subsahariana che si dimostra essere il continente caratterizzato da maggiori trend di dinamicità e potrebbe diventare la nuova scacchiera del confronto internazionale tra le vecchie potenze e le nuove potenze emergenti, unendo endemiche cause di instabilità regionali ai cambiamenti prodotti dalla redistribuzione del potere mondiale. Molte delle guerre e dei conflitti di questa regione, in cui avvengo quasi la metà delle guerre, sono ancora di eredità coloniale, aggravate però dai regimi dispotici post-coloniali e dal loro intreccio con la conflittualità delocalizzata della Guerra Fredda. Il 2011 ha visto avverarsi per l’Africa un fatto storico, ossia l’indipendenza del Sud Sudan da Khartoum dopo decenni di conflitto per la secessione. È la prima volta che i confini ereditati dalla decolonizzazione vengono rimessi in discussione nel continente africano in continente la cui cultura politica aveva da decenni estromesso dalle opzioni possibili il riconoscimento e la legittimazione dei movimenti armati di secessione. Per tale motivo ancora a oggi sono pochissimi i paesi africani che hanno riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente, in quanto in Africa si possono contare centinaia e centinaia di

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situazioni simili da un punto di vista politico strategico e il loro incoraggiamento metterebbe a dura prova l’integrità territoriale di un ampissimo numero di Stati. Con l’indipendenza del Sud Sudan è finita una guerra di secessione Il Sudan ha attaccato che andava avanti dal 1995 ma la debolezil territorio del Sud za istituzionale del nuovo Stato, la povertà Sudan, indipendente da di mezzi e il conflitto per le risorse con poco dopo il referendum Karthoum potrebbe presto produrre nuove conflittualità, come in parte già avvenuto con le tensioni interetniche nel Sud Sudan e l’esplosione in territorio sudanese di un violento conflitto tra il Splm/A-Nord e il governo di Kartoum nelle regioni del Kordofan meridionale e del Blue Nile. La situazione in Nigeria si è ulteriormente deteriorata al punto che la conflittualità violenta rischia di divenire una generalizzata guerra civile che vede violenti scontri tra le popolazioni Mussulmane del Nord e quelle Cristiane originarie del Sud che vivono al Nord (800 morti e 60.000 rifugiati nel 2011). A questa conflittualità si aggiunge l’intensificarsi dell’attività terrorista del movimento pro Sharia Boko Haram i cui attentati hanno causato circa 600 morti e prodotto decine di migliaia di profughi fuggiti dalle violenze degli attentati. Anche la Somalia, paese che da vent’anni è privo di governo ed è precipitato in una sanguinosa guerra civile, ha visto nel 2011 un’escalation della conflittualità con la cacciata degli Shabaab dalla capitale Mogadiscio e l’avvio delle operazioni militari del Kenia nella regione meridionale del Juba. Uno scenario in rapida evoluzione ma che fa temere il ripetersi di una escalation del conflitto come quella avvenuta in seguito all’invasione etiope del 2006. Se in Europa progressivamente vanno riducendosi le guerre – ma non necessariamente le conflittualità Il 2012 potrebbe – con l’unico caso attivo del conflitto tra essere l’anno della Armenia e Azerbaijan per il Nagorno svolta per la travagliata Karabak, alle porte d’Europa guerre e questione del Kosovo conflittualità sono in aumento costante e pericoloso. Lo spazio ex sovietico, quello della primavera araba, e quello dell’Africa subsahariana (tre macro regioni di particolare interesse per l’Italia) vede la permanenza di numerose conflittualità latenti, e il radicalizzarsi di antichi conflitti sotto nuove forme della guerra contemporanea. C’è da sperare che il 2012 porterà delle novità positive per quanto riguarda l’annosa questione del Kosovo, su cui recentemente il governo di Belgrado e quello di Pristina hanno fatto importanti passi avanti al tavolo tecnico mediato dall’Unione europea. Eventuali progressi in tal senso potrebbero avere conseguenze positive anche sulla complessa questione bo-


sniaca, rimettendo il paese in marcia verso l’integrazione europea. Ma al di fuori dello spazio politico europeo il mondo degli Stati è ancora un mondo di conflitti e di guerre. Guerre che forse, a differenza del passato, non sono più un monopolio quasi esclusivo degli Stati sovrani ma sono alla portata delle cosiddette società civili, che sempre più spesso prendono le armi – per cause endogene o eterodirette – le une contro le altre o contro i rispettivi governi. Anche per questo il numero dei conflitti interni supera di gran lunga quello dei conflitti tra Stati, con ben 301 conflitti interstatuali e meno di un terzo di conflitti infrastatuali. Il costante mutamento delle forme della conflittualità e il “nascondersi” delle guerre all’interno degli Stati deboli, falliti o autoritari, non deve farci dimenticare che conflitti e guerre sono ancora parte importante della grammatica delle relazioni internazionali. L’Europa, più o meno pacificata lungo i suoi confini massimi, deve sempre più dedicarsi allo sviluppo di capacità di risoluzione dei conflitti interni agli Stati, specialmente nelle aree calde del mondo che fanno parte del suo estero vicino, ossia Nord Africa, Africa subsahariana, Medio Oriente, Europa Orientale e Caucasica. Note 1

I dati relativi alla conflittualità riportati in questo articolo sono tratti dal Barometro della Conflittualità 2011 pubblicato dall’Heidelberg institute for international conflict research. Pur utilizzando un metro troppo elastico di definizione di conflitto e non distinguendo in maniera opportuna tra conflitti interstatuali e conflitti infrastatuali, il Barometro dei Conflitti dell’Università di Heidelberg resta la più attendibile e documentata pubblicazione sul tema delle conflittualità violente e delle guerre. 2 Fabio Mini, La guerra dopo la guerra, Einaudi 2003.

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È ORA CHE L’EUROPA DIVENTI GRANDE È mancata da parte dell’Unione europea una capacità di leadership nei processi di cambiamento e di risoluzione delle crisi. Sull’Europa gravano le distinzioni in politica estera dovute a situazioni nazionali e nelle aree di crisi, a cominciare dal Medio Oriente, l’Ue deve dimostrare di poter incidere sullo scacchiere internazionale. intervista a FRANCO FRATTINI di FABIANA TONNA


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Frattini

Troppo spesso l’Unione europea preferisce appoggiare uno stato di fragile tregua piuttosto che lavorare ad un processo di pace. Questo perchè la politica estera dell’Europa paga le profonde differenze presenti all’interno dei paesi membri. L’ex ministro agli Affari esteri, Franco Frattini definisce da “spettatrice” la posizione che l’Ue troppo spesso prende di fronte alle gravi crisi mondiali. L’Europa ha perso molte occasioni per affermare la propria leadership e svolgere un ruolo chiave nelle risoluzioni di pace. Troppo presa da divisioni interne e poco attenta ai cambiamenti, l’Ue rischia di restare fuori dai giochi. L’Europa sembra non ricordare che nel suo continente esistono ancora diversi conflitti, più o meno armati, dalla Transnistria al Kosovo, da Cipro alla Georgia e per finire il Nagorno Karbakh. Come mai queste guerre sono state dimenticate?

Sono state dimenticate, purtroppo, perché l’Europa è stata presa, in primo luogo, da una crisi di crescita, poi dalle varie fasi dell’allargamento fino all’ultimo con Bulgaria e Romania e con la Croazia e perché evidentemente in molti di questi casi si è preferito mantenere una fragile tregua piuttosto che passare ad una vera e propria pace. L’ultimo esempio, proprio di questi giorni, è la prospettiva di una riapertura delle relazioni diplomatiche tra Russia e Georgia. Apparentemente ad iniziativa della Russia, cioè di quel paese che in qualche modo portò, insieme alla creazione delle repubbliche di Abkhazia e Ossezia, il

grande problema che fu risolto appunto con una fragile tregua. Questi meccanismi, che sono evidentemente lenti, dimostrano come sia mancata da parte dell’Unione europea una capacità di leadership, anche se in alcuni casi l’intervento europeo c’è stato ma è stato un intervento di monitoraggio, di osservazione, di aiuto, ma mai di guida nella risoluzione della crisi. Quanti inviati speciali dell’Europa ci sono in giro che si sono limitati a prendere atto dell’esistente invece di gestire il cambiamento? Questa è la triste realtà. Quindi l’Europa ha delle responsabilità?

Beh, l’Europa avrebbe potuto e dovuto essere leader nel promuovere i processi del cambiamento o la ricomposizione di crisi gravi. Crisi che ci riguardano perché sono nel cuore dell’Europa. Pensiamo alla situazione di Cipro, paese che dovrà assumere tra qualche mese la presidenza di turno della Unione europea avendo ancora una situazione di grave difficoltà e di grave crisi con la Turchia che è a sua volta paese candidato alla adesione all’Unione europea. Questo basta a dimostrare quanto purtroppo la politica di sicurezza e la politica estera dell’Europa, pilastri per l’Europa politica, ancora non abbiano funzionato. Stessa cosa per la Serbia e il Kosovo?

Per la Serbia e il Kosovo ha fatto molto l’azione dinnanzi alle Nazioni Unite quando siamo riusciti a trovare una posizione unitaria della Unione europea. Questo ha aiutato molto in un momento in

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cui sembrava proprio che la crisi fosse destinata ad aggravarsi. In questo caso l’Europa ha saputo assumere una posizione comune. Oggi, in Kosovo, malgrado la nomina di un inviato dell’Alto rappresentante della politica estera, nomina affidata ad un ex ministro degli Esteri quindi persona certamente competente, noi vediamo che gli sforzi delle parti restano fondamentali perché l’Europa da sola non ha la capacità di guida e di soluzione che probabilmente desidereremmo. Questo significherebbe che l’Europa avrebbe assunto finalmente quella leadership nella politica estera che purtroppo non è riuscita ad assumere. 8

Però è anche vero che non tutti gli Stati europei hanno riconosciuto il Kosovo. Come la Spagna e l’Inghilterra, che hanno stesso al loro interno dei problemi...

Certo, tutti i paesi che non l’hanno riconosciuto hanno al loro interno dei problemi. La Romania perché ha la Transnistria, ovviamente Cipro, la Spagna perché ha il problema della regione Basca. Quindi evidentemente ci sono distinzioni e differenze nella politica estera comune dovute a situazioni nazionali che determinano la posizione del paese e questo ovviamente aggrava ulteriormente questa divisione. In questi casi l’Europa dovrebbe agire come in Kosovo oppure bisognerebbe trovare una soluzione più interna agli Stati di cui si parla?

Credo, intanto, che in questi casi così diversi non si debbano fare generalizzazioni. La questione Ba-

sca per la Spagna è una questione che ha purtroppo delle implicazioni per il terrorismo dell’Eta che ancora non si è fermato. Ci sono implicazioni gravissime. La questione della Transnistria va affrontata con la forte collaborazione con le autorità russe che possono avere un’influenza e possono aiutare a trovare una soluzione importante e pacifica per questa provincia. La soluzione alla crisi tra Cipro e la Turchia, invece, non sembra vicina. Ha impegnato le Nazioni Unite, ha impegnato vari segretari dell’Onu che si sono succeduti e purtroppo ancora non siamo arrivati ad una soluzione . La conclusione è stata che per il veto di Cipro si è bloccato il processo di allargamento della Unione europea alla Turchia, aggiungendo una situazione difficile ad un’altra. Francamente non vedo molte ragioni di ottimismo in questo scenario che stiamo descrivendo. Lei è stato in Israele poche settimane fa per individuare insieme al governo israeliano un percorso che possa portare alla pace con i palestinesi. Quali sono i punti fondamentali per avviare definitivamente questo processo?

Credo che i punti essenziali siano due. In primo luogo gli israeliani pongono come elemento essenziale il riconoscimento dello stato israeliano come Stato ebraico di Israele, luogo dove hanno il diritto di vivere in pace e sicurezza. È lo Stato del popolo ebreo, e questo credo sia un punto difficile da smentire perché è proprio nella storia e nella tradizione della diaspora degli ebrei. Lo stesso presidente ameri-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Frattini

L’INTERVENTO

I militari italiani “producono” pace e sicurezza Le missioni internazionali di pace svolgono un ruolo fondamentale nella politica estera italiana. Lontani dai confini nazionali, laddove guerre civili e terrorismo le fanno da padrone, migliaia e migliaia di nostri uomini e donne con le stellette tutti i giorni sono impegnati per fornire un contributo determinante a favore della pace, della ricostruzione e della stabilità. Loro sono la testimonianza concreta, palpabile, di quel sentimento e di quegli ideali che hanno animato lo spirito di chi, dal Risorgimento fino ad oggi, si è prodigato spesso fino all’estremo sacrificio per salvaguardare gli irrinunciabili valori di libertà, giustizia e democrazia. Negli anni durante i quali ho avuto l’onore di guidare il ministero della Difesa, esperienza indimenticabile e che porto nel cuore, ho potuto apprezzare di persona l’orgoglio con il quale questi ragazzi e queste ragazze, seppur tra tanti sacrifici, hanno scelto di dedicare la propria vita ai meno fortunati. Coraggio, altruismo, senso del dovere e amor di Patria: queste le caratteristiche dei nostri soldati, capaci allo stesso tempo, con il loro modo di agire e di rapportarsi, di contrastare efficacemente la violenza e farsi apprezzare dalla comunità locale a cui portano il nostro aiuto con grande umanità, rispetto e sensibilità . “Chi non vive in nessun modo per gli altri, non vive in nessun modo per sé”. Le parole del filosofo francese Michel Eyquem de Montaigne si adattano perfettamente allo spirito con il quale i nostri militari svolgono ogni giorno il loro dovere. Quello spirito altruistico che è alla base dell’essere militari oggi. L’Italia è orgogliosa di questa capacità dei nostri uomini e delle nostre donne con le stellette, di dare senza nulla pretendere in cambio se non la soddisfazione di aver assolto al proprio dovere. Da decenni siamo un paese “produttore” di sicurezza e di stabilità. Caratterizziamo la nostra azione oltre che per le indiscusse capacità militari, lo voglio ribadire ancora una volta, anche per l’importanza che attribuiamo alla componente umanitaria, alla ricerca di una soluzione condivisa dei problemi che spesso affondano le proprie radici nel sottosviluppo e nella mancanza di dialogo fra le diverse culture e religioni. Dalle foreste del Congo nel lontano 1963 al deserto iracheno, dai cieli libici fino alle montagne di Bala Murghab in Afghanistan: ovunque le nostre Forze armate, i nostri soldati, hanno dimostrato il proprio valore, riscuotendo forti apprezzamenti dai paesi alleati e dai partner internazionali e divenendo una vera eccellenza italiana. Delle missioni internazionali, oltre all’aspetto strettamente militare, che vede l’Italia collocarsi tra i primissimi posti tra le nazioni che maggiormente contribuiscono con l’invio di truppe, è opportuno sottolineare anche il sesto posto che il nostro Paese occupa tra coloro che destinano risorse economiche al bilancio del peacekeeping Onu. Sono numeri che ci inorgogliscono e che ci garantiscono prestigio internazionale. Dalla missione in Eritrea del 1950 dove morì il primo militare italiano impiegato all’estero dopo la fine della seconda guerra mondiale – il maresciallo capo dei Carabinieri Pio Semproni - fino ai giorni nostri,165 uomini hanno perso la vita in missioni fuori i confini nazionali. A tutti loro e ai loro familiari va la nostra sincera gratitudine. Una volta, il generale Rommel riferendosi ai nostri paracadutisti della Folgore disse: “Con simile gente si va in capo al mondo”. E “in capo al mondo” oggi stanno facendosi ancora apprezzare i nostri militari, patrimonio preziosissimo per l’Italia di ieri, di oggi e di domani.

*Ignazio La Russa già ministro della Difesa nel governo Berlusconi

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cano Obama lo ha riconosciuto. Ovviamente da parte dei palestinesi invece c’è una grande difficoltà ad accettare questo principio. Sarebbe come affermare l’espulsione per tutti i rifugiati palestinesi e la negazione del diritto di tornare nel proprio Stato e di continuare a vivere nello Stato di Israele. Dovremmo cercare di conciliare il principio secondo cui lo Stato di Israele è certamente Stato ebraico con la garanzia per coloro che non sono ebrei, come i palestinesi e gli arabi, ma che vivono e vogliono continuare a vivere in Israele la pienezza dei propri diritti. Da parte palestinese c’è un punto altrettanto dirimente, quello degli insediamenti. Credo che la politica degli insediamenti sia sempre stata vista dalla comunità internazionale con grande preoccupazione. Una preoccupazione giustificata perchè se gli insediamenti si moltiplicano nel momento in cui si sta negoziando o si vorrebbe ricominciare a negoziare anche sui confini del futuro Stato palestinese, c’è il rischio che degli insediamenti definitivamente stabiliti in una certa area pregiudichino l’aspetto finale del territorio. Questo comporta una difficoltà da parte di Israele ad accettarlo. Secondo gli israeliani la questione degli insediamenti non è irreversibile, perchè in passato insediamenti israeliani sono stati smantellati e distrutti quando si è deciso di ritirarsi da una certa area occupata, come nel caso di Gaza. Con questo non voglio dire che il negoziato sia bloccato per questi due punti, ma che queste sono le

ragioni che le parti mettono sul tappeto. Il negoziato è bloccato perchè c’è una grande e profonda sfiducia tra le due parti. La verità triste è questa. Il mio auspicio, da parte palestinese, è che le prossime elezioni vedano un’affermazione del partito Fatah del presidente Abu Mazen, in modo che questo possa vedere rafforzata la propria posizione. Più forte sarà il partito, più forte sarà Abu Mazen e più la pace si avvicinerà. E da parte israeliana si comprenda che solamente aiutando Abu Mazen potremmo avere la garanzia che il negoziato non sarà abbandonato nelle mani di chi come Hamas addirittura nega ancora l’esistenza dello Stato di Israele, idea per noi inaccettabile. C’è un problema di fiducia. C’è un problema di forza politica delle due parti. La forza israeliana è molto grande, Netanyahu ha grandi consensi, ma adesso è il momento di rafforzare Abu Mazen. Anche perché il Medio Oriente sta tornando quella polveriera che è stata negli anni Settanta, adesso anche con i problemi causati da Siria e Iran?

Oggi tutti guardano con estrema preoccupazione al ruolo dell’Iran perché il programma nucleare non si ferma. Ovviamente questo è un problema serio, non solo per Israele che si sente direttamente minacciata, ma per tutti gli Stati della regione a cominciare dai paesi arabi del Golfo: dalla Arabia Saudita agli Emirati, il Qatar, l’Egitto. È chiaro che il tema Iran entra pienamente nella questione generale del grande Medio


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Frattini

Oriente. Per quanto riguarda la Siria, la crisi ha certamente indebolito Hezbollah e Libano e ha forse spaccato Hamas nei territori palestinesi, ma evidentemente il sostegno iraniano sta continuando. Questo crea una grande preoccupazione per un effetto domino. Per questo motivo si parla di una opzione militare, di una possibilità di attacco israeliano contro l’Iran. Credo che questa sarebbe una soluzione estremamente pericolosa anzitutto per Israele perché è evidente che l’Iran non sarebbe abbattuto in un solo colpo e quindi avrebbe lo spazio per reagire e l’azione iraniana si dirigerebbe prima di tutto su Israele ma non solo. Tutto questo crea quello che lei ha giustamente chiamato una polveriera. Un’area di grande pericolosità. L’Italia, che ha già un contingente abbastanza oneroso in Libano, come potrebbe agire o cosa dovrebbe fare nella zona mediorientale? Come potrebbe aiutare la mediazione?

L’Italia ha un grande vantaggio: ha per ragioni storiche la fiducia di tutte le parti in conflitto. Ha la fiducia dei palestinesi, degli israeliani, dei popoli arabi e quindi deve soltanto continuare a consolidare la sua presenza nell’area. Io sono sempre stato a favore della presenza italiana in Libano al comando di Unifil. È un comando italiano che premia il ruolo dell’Italia ma è anche qualcosa che fa molto bene alla stabilità non solo del Libano meridionale ma di tutta la regione. In più, evidentemente l’Italia deve essere ancora

più attiva in tutti i paesi della regione stessa a cominciare dall’Egitto dove noi eravamo il primo partner economico, ma anche nei paesi della regione come il Libano o i paesi del Maghreb che vedono l’Italia storicamente meglio piazzata di altri paesi della Unione europea. Ecco, lei ha parlato dell’Egitto e del Maghreb. Cosa pensa della Primavera araba?

È un tema estremamente complesso in cui noi dobbiamo attendere che il passare del tempo faccia consolidare questi processi che sono appena iniziati. Ci sono casi come quello della Tunisia che sembrano impostati in modo già piuttosto positivo, altri dove vi è incertezza come l’Egitto, altri ancora dove vi sono segnali già di crisi, penso alla Libia dove si deve molto accelerare il processo elettorale altrimenti c’è la tentazione di velleità di secessione, di separazione del paese. Quindi ogni paese è diverso dall’altro. Noi dobbiamo salutare l’affermazione di governi che parlano di democrazia, di libere elezioni, di diritti dell’uomo, ma attendere i risultati con rispetto, ovviamente facendo la nostra parte, quindi aiutando questi processi positivi ed evitando che poi alla fine ne approfittino i movimenti più estremisti che con il rischio di passare dalla padella alla brace. Un’ultima domanda. Negli ultimi anni la presenza turca, specialmente nella zona mediorientale, è stata molto forte. Come considera la politica di Erdogan?

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Erdogan ha avuto due grandi meriti. Il primo è stato mostrare che il modello islamico-turco può convivere con il consolidamento democratico. Io credo che se anche gli altri paesi della regione si muovessero abbandonando la visione iraniana e guardando la visione turca, anche le prospettive della primavera araba sarebbero più rassicuranti per tutti quanti. Il caso turco dimostra che un sistema politico, con un partito islamico al governo con una forte maggioranza, è assolutamente compatibile con un assetto di democrazia che si va rafforzando e non certo indebolendo. L’altro aspetto, l’altro grande merito di Erdogan è di avere costruito forti influenze in tutta la regione, comprese aree molto delicate come quella del Caucaso o dell’Iran. Proprio per tutte queste ragioni credo che l’Europa abbia sbagliato a rallentare la strada della Turchia verso l’Unione europea. Credo che ci sia un interesse dell’Europa ad avere la Turchia tanto forte quanto un interesse della Turchia a diventare membro dell’Unione europea. Non è un favore che facciamo alla Turchia, ma è un interesse anche nostro.

L’Intervistato

franco frattini Laureato in giurisprudenza, vince sia il concorso in magistratura sia quello di avvocatura dello Stato. Inizia la sua carriera nel 1981 prima come procuratore dello Stato a Roma, poi come giudice amministrativo al Tar del Piemonte. Nel 1986 diventa consigliere di Stato. Nel governo Ciampi è vicesegretario generale alla presidenza del Consiglio dei ministri. Nel maggio del 1994 viene nominato dall’allora presidente del Consiglio Berlusconi segretario generale di Palazzo Chigi. Nel gennaio 1995 Lamberto Dini lo chiama nel suo governo come ministro per la Funzione pubblica e per gli affari regionali. Nel 1996 viene eletto alla Camera per Forza Italia e diventa presidente del comitato parlamentare per i Servizi di informazione e sicurezza. Dal 2001 al 2002 è ministro per la Funzione pubblica e per il coordinamento dei servizi di informazione e sicurezza. Da novembre 2002 a novembre 2004 è ministro degli Esteri, fino a quando viene nominato vicepresidente della Commissione europea e commissario responsabile per il portafoglio Libertà, sicurezza e giustizia. Eletto nel 2008 tra le file del Pdl. Dal 2008 fino al novembre del 2011 è stato ministro per gli Affari esteri.

L’Autore fabiana tonna Giornalista pubblicista, già addetto stampa per il ministro per le Politiche europee dal 2005 al 2009.




LE GUERRE DIMENTICATE


Bisogna rispettare la risoluzione Onu

Nagorno-karabakh e Khojaly, un crimine contro l’umanità Dopo la disgregazione dell’Urss il conflitto tra Armenia e Azerbaigian è scoppiato nuovamente con l’invasione armena nella regione azera del Nagorno-Karabakh e il massacro di Khojaly, che da tutte le organizzazioni internazionali è stato definito un crimine contro l’umanità. Tutti, compreso l’Onu, chiedono il ritiro delle truppe armene dall’area. di CHRISTOPHER BADEAUX traduzione di BARBARA MENNITTI


LA GUERRE DIMENTICATE Christopher Badeaux

ll diritto internazionale moderno nasce dal massacro della Seconda guerra mondiale. Il mondo ha definito intere categorie di atti crimini formali contro l’umanità stessa, piuttosto che contro il singolo Stato o gruppo etnico colpito. L’embrione di questa idea si rintraccia nel concetto di hostis humani generi, del nemico dell’intera razza umana; in base a questo concetto, la comunità internazionale identifica azioni quali il genocidio, i crimini di guerra e la guerra di aggressione come crimini contro l’umanità, come azioni così terribili da danneggiare ogni essere umano e far nascere una giurisdizione internazionale.

Raramente è successo che si sia fallito nel prendere delle misure contro un atto universalmente riconosciuto come un crimine contro l’umanità. L’invasione armena dell’Azerbaigian è una dimostrazione pratica di questo fallimento. Dopo secoli di deportazioni e di pulizia etnica operata dai russi e dall’Impero ottomano, il popolo azero era diviso, mentre gli armeni erano stati trasferiti in massa nella regione. Quando l’Unione Sovietica crollò, l’equilibrio demografico della regione era così alterato che vaste sacche di armeni vivevano in Azerbaigan e un gran numero di azeri viveva ancora nelle case dei propri avi, in quella che


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era diventata la Repubblica socialista sovietica armena. La situazione non poteva durare, e infatti non durò. Milizie armate mossero guerra al Nagorno-Karabakh, presumibilmente aiutati dai leader della Repubblica socialista sovietica armena. La morsa di ferro dell’Unione Sovietica sulla regione si allentò all’improvviso e l’area esplose in un conflitto totale, le forze dell’Azerbaigian si trovarono a combattere contro le milizie armene e, secondo numerose fonti, contro le truppe regolari della Rss e poi della Repubblica armena. La guerra andò avanti a fasi alterne e, dopo il 1992 che segnò il momento di maggior successo dell’Azerbaigian, le forze regolari e le milizie armene riuscirono a prendere il controllo non solo del NagornoKarabakh, ma anche di sette distretti confinanti, che l’Armenia generalmente definisce zona cuscinetto. Più del 20% dell’Azerbaigian è oggi sotto occupazione armena. Nel corso del conflitto, furono comessi veri crimini di guerra, compreso il massacro di Khojaly. Si tratta di un utile esempio di come questo conflitto congelato abbia congelato anche il diritto internazionale. Nella notte fra il 25 e il 26 febbraio del 1992, forze armene, insieme a quelli che, secondo molti resoconti, erano gli elementi più criminali del 336esimo Reggimento della Comunità degli Stati Indipendenti, colpirono il paese di Khojaly. L’Armenia sostenne (e sostiene tutt’ora) che l’attacco fu condotto per sradicare forze armate azere che avevano bombardato Stepanakert e altri

centri della regione con forte concentrazione di armeni. Per questo obiettivo virtualmente militare, decisero di assassinare brutalmente oltre 600 fra uomini donne e bambini, anche piccolissimi, e di fare scempio dei loro corpi. Le donne incinta furono infilzate con le baionette. Le prove dimostrano chiaramente che quegli innocenti furono uccisi per il semplice crimine di essere azeri. Le loro case, gli ospedali, le aree religiose vennero deliberatamente distrutti. La città fu rasa al suolo. Gli uomini che hanno commesso questo crimine contro l’umanità a Khojaly sono liberi e celebrati come eroi in Armenia. Il comandante delle milizie del Nagorno-Karabakh oggi è il presidente dell’Armenia. Il costo di questa guerra non è facile da determinare. Oltre un milione di profughi sono stati trasferiti con la forza nei territori non occupati dell’Azerbaigian. I morti sono 20mila, 50mila i feriti. Il costo in termini di capitale umano e di vite umane, di memoria culturale e storica è incalcolabile. Nonostante questi eventi siano stati a livello internazionale ampiamente riconosciuti per quello che effettivamente erano – una guerra di aggressione e un crimine contro l’umanità – non è successo assolutamente niente. Tutte le più importanti organizzazioni internazionali – l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, l’Osce, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, l’Ue e la Nato


LA GUERRE DIMENTICATE Christopher Badeaux

– hanno in qualche modo condannato l’accaduto. L’Osce ha contribuito a organizzare uno specifico meccanismo di risoluzione della controversia – il Gruppo di Minsk – presieduto da Russia, Francia e Stati Uniti. Dalla formazione del Gruppo, i co-presidenti - e diverse altre organizzazioni internazionali e altri paesi - hanno chiesto alle parti di risolvere la questione, attenendosi alle norme internazionali che impongono una risoluzione non violenta del conflitto. Molte di queste risoluzioni offrono all’Armenia proprio quelle cose per le quali sostiene di aver fatto la guerra: uno status provvisorio in attesa di un voto vincolante sullo status finale del Nagorno-Karabakh, un collegamento territroriale fra l’Armenia e la regione, e forze di peacekeeping che proteggano sia la regione, sia il ritorno dei profughi. L’Armenia ha seccamente rifiutato queste proposte, senza che questo comportasse alcuna sanzione. L’Armenia in realtà sta cercando di ottenere esattamento quello che il mondo ha condannato nel Kossovo – un fait accomplì, un’occupazione talmente lunga che alla fine il mondo si limiterà a fare spallucce e lasciar perdere – e il mondo, infatti, sta facendo spallucce. L’Azerbaigian – uno Stato musulmano moderno e tollerante che confina con l’Iran, e un alleato di vitale importanza per la Nato, incuneato fra la Russia e l’Iran – è intrappolato in un conflitto congelato. Ma i conflitti non rimangono congelati, e il passaggio dal conflitto congelato alla sua esplo-

sione potrenne essere una questione di secondi. L’Armenia e l’Azerbaigian si stanno rapidamente riarmando, e il gruppo di Minsk è una presa in giro. La Russia lascia di buon grado che la questione resti irrisolta, perché appoggia il suo Stato-cliente, l’Armenia, e vuole maggior controllo sull’Azerbaigian. La Francia sembra prigioniera dei suoi cittadini di origine armena. Gli Stati Uniti, dove pure vi è una forte lobby armena, hanno scelto un’assurda posizione semineutrale. Forse questa è la lezione che serve seriamente al mondo per rispettare gli obblighi imposti da quella legge che esso stesso ha istituito. O forse no. È probabile che lo scopriremo presto nel modo peggiore. Nello stralcio del libro che segue questo articolo, ne sapremo molto di più da Elkahn Suleymanov, un eminente storico, accademico e membro del Parlamento, che descrive con passione le conseguenze dell’invasione armena dell’Azerbaigian e della tragedia di Khojaly. È grazie al lavoro di Suleymanove e di altri che gli studiosi e i diplomatici non possono più fingere di non conoscere il massacro di Khojaly. Adesso bisogna rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite, che finora sono state ignorate.

L’Autore Christopher Badeaux Avvocato e scrittore americano. Esperto di politica e diritto internazionale

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Il rischio di una nuova guerra

La strage di Khojaly è una ferita ancora aperta Nel 1992 gli armeni uccisero oltre 600 persone tra uomini, donne e bambini e la città fu rasa al suolo. Dagli azeri e dall’intera comunità internazionale l’atto è stato definito un crimine di guerra, ma da allora nessun tribunale competente ha processato gli autori del terribile massacro. 21 di ELKHAN SULEYMANOV tradotto da BARBARA MENNITTI

Gran parte dei principi fondamentali del diritto internazionale moderno derivano dal massacro della Seconda guerra mondiale. Approfondendo concetti che fino ad allora esistevano solo nel diritto internazionale consuetudinario e in documenti screditati come il Patto della Lega delle Nazioni1, il mondo ha scelto per la prima volta di estendere deliberatamente ed esplicitamente norme internazionali per impedire il ripetersi delle terribili atrocità della guerra. Per questo la Carta delle Nazioni Unite, le Risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le dichiarazioni di dozzine di organizzazioni intergovernative e non governative definiscono intere ca-

tegorie di atti crimini formali contro l’umanità stessa, piuttosto che contro il singolo Stato o gruppo etnico colpito. L’embrione di questa idea si rintraccia nel concetto di hostis humani generi, del nemico dell’intera razza umana; in base a questo concetto, la comunità internazionale identifica azioni quali il genocidio, i crimini di guerra e la guerra di aggressione come crimini contro l’umanità, come azioni così terribili da danneggiare ogni essere umano e far nascere una giurisdizione internazionale. La comunità internazionale ha applicato queste norme in maniera disomogenea, ma è successo raramente che si sia fallito nel prendere delle misure contro un atto


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universalmente riconosciuto co- Sovietica crollò, l’equilibrio deme un crimine contro l’umanità. mografico della regione era così L’invasione armena dell’Azerbai- alterato che vaste sacche di armegian è una dimostrazione pratica ni vivevano in Azerbaigan e un gran numero di azeri viveva ancodi questo fallimento. Il caos che seguì la disgregazione ra nelle case dei propri avi, in dell’Unione Sovietica diede la quella che era diventata la Repubstura a tensioni etniche e nazio- blica socialista sovietica armena. nali che il mondo aveva in gran La situazione non poteva durare, parte dimenticato. Anche se la se- e infatti non durò. Milizie armate parazione della Jugoslavia aveva mossero guerra al Nagorno-Karacatturato maggiore attenzione da bakh, presumibilmente aiutati parte dei media, i conflitti di al- dai leader della Repubblica socialora sono perlopiù risolti; la guer- lista sovietica armena. La morsa ra del Nagorno-Karabakh rimane di ferro dell’Unione Sovietica suluna questione irrisolta, con una la regione si allentò all’improvviso e l’area esplose linea di conflitto ancora prona ad La guerra del Nagorno- in un conflitto totale, le forze delazioni violente e la l’Azerbaigian si minaccia di guerra Karabakh è una trovarono a comimminente. questione irrisolta battere contro le Sia l’Azerbaigian milizie armene e, che l’Armenia fan- e il rischio di azioni secondo numerose no risalire l’inizio violente è imminente fonti, contro le di questo conflitto a centinaia di anni fa e lo fondano truppe regolari della Rss e poi su rivendicazioni territoriali e mo- della Repubblica armena2. La vimenti etnici che sono essi stessi guerra andò avanti a fasi alterne oggetto di discussione fra gli acca- e, dopo il 1992 che segnò il modemici. Il vero inizio di questo mento di maggior successo delconflitto, però, risale agli albori l’Azerbaigian, le forze regolari e del diciannovesimo secolo, duran- le milizie armene riuscirono a te le guerre di espansione russe prendere il controllo non solo del contro l’Impero ottomano e l’Im- Nagorno-Karabakh, ma anche di pero persiano. Il risultato finale, sette distretti confinanti, che raggiunto nel corso di un secolo, l’Armenia generalmente definisce fu di dividere il popolo azero, di zona cuscinetto. Più del 20% deltrasferire in massa gli armeni nella l’Azerbaigian è oggi sotto occuregione e di creare una polveriera pazione armena3. con una miccia che sarebbe stata accesa quasi due secoli dopo. Il massacro di Khojaly e la conIn Azerbaigian la pulizia etnica danna internazionale dell’aggresdiventò la prassi odinaria prima sione armena russa, poi sovietica, per gestire la Nel corso del conflitto, furono popolazione. Quando l’Unione comessi veri crimini di guerra,


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compreso il massacro di Khojaly. bia giurisdizione universale su Si tratta di un utile esempio di queste materie. come questo conflitto congelato Nonostante l’ampio riconosciabbia congelato anche il diritto mento internazionale di questi eventi per quello che effettivainternazionale. Nella notte fra il 25 e il 26 feb- mente erano – una guerra di agbraio del 1992, forze armene, as- gressione e un crimine contro sieme a quelli che, secondo molti l’umanità – non è successo assoresoconti, erano gli elementi più lutamente niente. Tutte le più criminali del 336esimo Reggi- importanti organizzazioni intermento della Comunità degli Stati nazionali – l’Assemblea generale Indipendenti, colpirono il paese e il Consiglio di sicurezza delle di Khojaly. L’Armenia sostenne Nazioni Unite, l’Organizzazione (e sostiene tuttora) che l’attacco per la Cooperazione Islamica, fu condotto per sradicare forze ar- l’Osce, l’Assemblea parlamentare mate azere che avevano bombar- del Consiglio d’Europa, l’Ue e la Nato – hanno in dato Stepanakert e qualche modo altri centri della La strage di Khojaly condannato l’accaregione con forte duto. L’Osce ha concentrazione di da parte degli armeni contribuito a orarmeni. è un crimine contro ganizzare uno spePer questo obietticifico meccanismo vo virtualmente l’umanita e per questo militare, decisero deve essere perseguito di risoluzione della controversia – il di assassinare brutalmente oltre 600 fra uomini Gruppo di Minsk – presieduto da donne e bambini, anche piccolis- Russia, Francia e Stati Uniti. simi, e di fare scempio dei loro Dalla formazione del Gruppo, i corpi. Le donne incinte furono in- suoi principali componenti – e filzate con le baionette. Le prove diverse altre organizzazioni indimostrano chiaramente che que- ternazionali e altri paesi, come gli innocenti furono uccisi per il vedremo nella seconda parte di semplice crimine di essere azeri. questo saggio – hanno chiesto alLe loro case, gli ospedali, le aree le parti di risolvere la questione, religiose vennero deliberatamen- attenendosi alle norme internate distrutti4. La città fu rasa al zionali che impongono una risoluzione non violenta del conflitsuolo. In base al diritto internazionale to. Molte di queste risoluzioni moderno, si è trattato di un cri- offrono all’Armenia proprio mine di guerra e di un crimine quelle cose per le quali sostiene contro l’umanità5. Però non è sta- di aver fatto la guerra: uno status to istituito alcun tribunale inter- provvisorio in attesa di un voto nazionale o nazionale per proces- vincolante sullo status finale del sare gli autori di questo atto, seb- Nagorno-Karabakh, un collegabene il diritto internazionale ab- mento territroriale fra l’Armenia

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e la regione, e forze di peacekeeping che proteggano sia la regione, sia il ritorno dei profughi6. L’Armenia ha seccamente rifiutato queste proposte. Il costo di questa guerra non è facile da determinare. Oltre un milione di profughi sono stati trasferiti con la forza nei territori non occupati dell’Azerbaigian. I morti sono 20mila, 50mila i feriti. Il costo in termini di capitale umano e di vite umane è incalcolabile. Cimeli di valore inestimabile e siti storici sono in rovina. L’ambiente nei territori occupati è devastato, le sue risorse naturali, la flora, la fauna e la ricchezza minerale sono state saccheggiate, derubate o distrutte. Le infrastrutture sono state demolite o trasformate in armi. Il diritto internazionale sembra disporre di meccanismi di compensazione per i crimini contro l’umanità, come la guerra di aggressione. Purtroppo, però, è stabilito chiaramente che la compensazione non può distruggere finanziariamente l’aggressore per generazioni; una stima conservativa dei danni quantificabili subìti dall’Azerbaigian nel conflitto supera i 130 miliardi dollari. Il Pil dell’Armenia ammonta a 9 miliardi di dollari. La cifra, inoltre, riflette solo i danni che possono essere quantificati, e non copre quelli intangibili – disagi psichici, la perdita di famiglie, di vite umane e di coesione nazionale. Il pericolo insito in ogni conflitto congelato è che prima o poi si scongelerà. La violenza rinasce

lungo la linea del cessate-il-fuoco. L’ordine internazionale che avrebbe dovuto fermare l’invasione, o almeno tentare di riportare la situazione allo status quo ante, è esso stesso congelato. Sembra sempre più probabile che il ritorno della guerra debba dipendere dalle stesse istituzioni create per fermarla, che non riescono o non vogliono agire durante la pausa di un conflitto congelato. Forse il mondo ha bisogno di questa lezione per prendere seriamente gli obblighi imposti da quella legge che esso stesso ha istituito. È probabile che lo scopriremo presto nel modo peggiore. Parte I

L’invasione armena dell’Azerbaigian e della regione autonoma del Nagorno-Karabakh ha lasciato un’area di incredibile distruzione, in una misura mai più vista dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il fatto che si tratti di uno dei pochi cosiddetti conflitti congelati rimasti fra quelli nati dal crollo dell’Unione Sovietica, che la linea del cessate-il-fuoco resti fonte di contrasti, la violenza strisciante, il continuo riarmo dell’Azerbaigian, dell’Armenia e dei dissidenti della regione del Nagorno-Karabakh, sono tutti elementi che indicano inesorabilmente che vi sarà una nuova guerra se la questione non verrà velocemente risolta. Dal suo inizio alla fine degli anni Ottanta fino al cessate-il-fuoco del 1994, la guerra ha causato la morte di oltre 20mila azeri, men-


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tre decine di migliaia sono stati i feriti e si stima che 5mila siano ancora i dispersi o i prigionieri di guerra. La pulizia etnica delle milizie e delle forze armate armene ha espulso oltre un milione di azeri residenti nella regione, la maggior parte dei quali è finita nei campi profughi. Sono state distrutte e saccheggiate circa mille aree residenziali, mentre le infrastutture civili, governative e commerciali sono state praticamente cancellate. Nella prima parte di questo saggio ci occuperemo delle radici storiche e geopolitiche del conflitto. Anche se non è importante per la comprensione giuridica degli eventi trattati qui – che raggiungono il livello di crimini contro l’umanità in base alle norme giuridiche consuetudinarie internazionali formali (o pubbliche) e allo jus cogens – è impossibile capire appieno il conflitto, e come lo descrivono gli attori coinvolti, senza queste informazioni generali. Tanto l’Armenia quanto l’Azerbaigian fanno risalire il conflitto a centinaia e migliaia di anni fa, a nazioni e imperi perduti nella sabbia della storia. Il conflitto moderno, tuttavia, ha origine all’inizio del 19esimo secolo, durante le guerre di espansione russe contro l’Impero ottomano e quello persiano della dinastia Qajar. Il successo dell’avanzata militare russa nella regione – e i trattati che ne seguirono – divisero la popolazione azera in una metà settentrionale e in una meridionale;

causarono trasferimenti di massa della popolazione in Iran e nell’Impero ottomano ormai in declino; diederono origine al dislcamento etnico e politico che avrebbe tormentato la Russia durante il declino dell’Unione Sovietica. La nuova popolazione armena in quello che oggi si chiama Nagorno-Karabakh era e rimane la principale giustificazione che la Repubblica armena dà per aver invaso l’Azerbaigian circa due secoli dopo. Inevitabilmente, il trasferimeto in massa di armeni in aree dominate per secoli dagli azeri provocò tensioni e alla fine violenze etniche, che culminarono in omicidi di massa e violenze in tutto il territorio azero soggetto alla Russia, quando l’impero russo entrò nella sua fase finale. La violenza degli azeri contro gli armeni, vicina nel tempo ma senza alcuna relazione con il Genocidio armeno, avrebbe poi fornito la base delle giustificazioni con se stessi col resto del mondo degli armeni per le loro azioni durante il conflitto del Nagarno-Karabakh. La fine dell’Impero russo portò un brevissimo periodo di riconciliazione fra le due parti che, insieme alla Georgia, nel febbraio del 1918 formarono la Federazione Transcaucasica come bastione contro il caos della Russia e l’avanzata degli ottomani7. Inevitabilmente, l’esperienza della federazione si concluse nel maggio del 1918. Quando la nascente Unione Sovietica marciò per riconquistare i territori persi nel crollo dell’Im-

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pero russo, Stepan Shaumyan, un nalmente riparati, anche se in comunista russo di origini etni- maniera imperfetta. Gli azeri perche armene, prese il controllo di sero le case che avevano abitato quella che fu poi chiamata la Co- per secoli e subirono le stesse demune di Baku. La propaganda portazioni e gli stessi omicidi di sovietica (e successivamente la massa alle quali l’Armenia faceva storia armena) lo avrebbero poi costantemente riferimento. La descritto come un campione del- sensazione di due diversi gruppi la pace che, non si sa bene come, etnici che fossero vicini e non nefinì al servizio del più sanguina- mici scomparve e i gruppi furono rio impero della storia nel suo segregati sotto la minaccia delle periodo più violento. L’Azerbai- armi in mezzo ad un susseguirsi gian ricorda Shaumyan come un di atti inumani. macellaio, un uomo che, col pre- Quando l’Unione Sovietica perse testo di reprimere le attività con- il controllo delle sue repubblitro-rivoluzionarie, fece massacra- che socialiste, queste tensioni esplosero all’imre oltre 10mila ciprovviso. vili azeri. I sovietici avevano Come parte della L’occupazione socosiddetta Pax sovietica dell’Arme- riconosciuto vietica, i sovietici nia e dell’Azerbai- all’Azerbaigian avevano riconogian avrebbe consciuto all’Azerbaitenuto, ma non la sovranità cessato, il conflit- sul Nagorno-Karabakh gian la sovranità sulla regione autoto. Sebbene ufficialmente l’Unione Sovietica con- noma del Nagorno-Karabakh, dannasse politiche indirizzate a pur avendone alterato l’equilibrio distinti gruppi etnici, l’uso di demografico a favore dei residenti trasferimenti di massa come stru- armeni. Nel 1988, i separatisti di mento di gestione politica non fu etnia armena dell’Oblost autonolimitato ai kulaki. Nel dopoguer- mo del Nagorno-Karabakh inira decine di migliaia di azeri fu- ziarono a chiedere l’unificazione rono deportati dalla Repubblica politica con l’Armenia, iniziativa sovietica socialista armena. Que- lodata dai politici della Rss armesto tipo di trasferimenti forzati na (con risoluzioni del Soviet suproseguì nei decenni seguenti premo) e condannata dagli azeri nella regione. La pulizia etnica in dell’Unione Sovietica. L’effetto finale di questi decenni Armenia fu una conseguenza: fu di esacerbare le tensioni etni- praticamente ogni azero fu espulche che già ribollivano e il risen- so dall’Armenia; anche una parte timento storico di entrambe le significativa della popolazione arparti. L’Armenia credeva che i mena dell’Azerbaigian abbandotorti perpetrati sugli armeni nò il paese, ma le cause della pardall’avanzata degli ottomani, dei tenza sono ancora controverse e, russi e dei persiani venivano fi- secondo il più recente censimen-


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to, oltre 120mila persone di etnia sere quello di mantenere il conarmena vivono in Azerbaigian, flitto cristallizzato il più a lungo anche se non è chiaro quanti di possibile, e questo è dovuto non essi vivano nella regione del Na- in piccola parte ai diversi obiettigorno-Karabakh e quante nella vi di politica interna e estera dei parte del paese sotto il controllo membri. La Russia vede l’Armenia come un prezioso Stato-cliendi Baku. Milizie armate mossero guerra al te e, dopo la sua invasione della Nagorno-Karabakh, presumibil- Georgia del 2008, non desidera mente aiutati dai leader della Re- che regioni strappate con la forza pubblica socialista sovietica ar- vengano restituite ai legittimi mena. La morsa di ferro del- proprietari. La Francia deve bil’Unione Sovietica sulla regione lanciare il desiderio di una fonte si allentò all’improvviso e l’area alternativa di combustibile fossiesplose in un conflitto totale, le le con la resistenza sua vasta poforze dell’Azerbaigian si trovaro- polazione di origine armena. Gli Stati Uniti consino a combattere derano l’Azerbaicontro le milizie Il ruolo principale gian un alleato armene e, secondo utile nella war on numerose fonti, del Gruppo Minsk contro le truppe sembra quello di tenere terror, ma, a causa dell’equilibrio del regolari della Rss e poi della Repub- cristallizzato il conflitto potere con la Russia e della sua poblica armena8. La il più a lungo possibile polazione armena guerra andò avanti a fasi alterne e, dopo il 1992 che proveniente dalla diaspora – consegnò il momento di maggior centrata in New Jersey e Califorsuccesso dell’Azerbaigian, le for- nia – non ha fatto pressioni per ze regolari e le milizie armene risolvere rapidamente il conflitto. riuscirono a prendere il controllo Dalla formazione del Gruppo, i non solo del Nagorno-Karabakh, suoi principali componenti – e ma anche di sette distretti confi- diverse altre organizzazioni internanti, che l’Armenia general- nazionali e altri paesi, come vemente definisce zona cuscinetto. dremo nella seconda parte di quePiù del 20% dell’Azerbaigian è sto saggio – hanno chiesto alle parti di risolvere la questione, atoggi sotto occupazione armena9. Nel 1992 fu creato il Gruppo di tenendosi alle norme internazioMinsk dell’Osce, che da subito nali che impongono una risolufece molto poco per risolvere il zione non violenta del conflitto. conflitto. Oggi la disputa fra i Molte di queste risoluzioni offrodue Stati viene mediata, senza no all’Armenia proprio quelle cograndi risultati, dai principali se per le quali sostiene di aver fatmembri del Gruppo – Russia, to la guerra: uno status provvisoFrancia e Stati Uniti. Il ruolo rio in attesa di un voto vincolante principale del Gruppo sembra es- sullo status finale del Nagorno-

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Karabakh, un collegamento territroriale fra l’Armenia e la regione, e forze di peacekeeping che proteggano sia la regione, sia il ritorno dei profughi10. L’Armenia ha seccamente rifiutato queste proposte. Il conflitto rimane congelato, ma entrambe le parti si riarmano. La maggiore ricchezza e il maggiore sviluppo economico sembrano avvantaggiare l’Azerbaigian in un potenziale conflitto, anche se l’Armenia può contare sui suoi alleati a Mosca e a Tehran per le forniture dell’equipaggiamento di cui ha bisogno. Il riaccendersi della violenza al confine è il segnale più chiaro che questo conflitto sta iniziando a riaccendersi e che la comunità internazionale dovrà rivolgere di nuovo la sua attenzione a un problema che preferirebbe dimenticare. Se questo conflitto non verrà risolto velocemente, la sua sarà una primavera di sangue. Parte II

Nella prima parte di questo articolo abbiamo fatto riferimento alle cause nella storia recente e alla situazione attuale della guerra fra Armenia e Azerbaigian. In questa parte ci occuperemo di come le organizzazioni giuridiche internazionali e le organizzazioni non governative vedono il conflitto. Prima di tutto, è utile capire la cornice giuridica della questione. Sebbene le leggi internazionali in corso di sviluppo siano molto solidali con le rivendicazioni storiche di regioni, Stati e

nazioni, l’ordine internazionale è cambiato irrevocabilmente dopo la Seconda Guerra mondiale. Gran parte dei principi fondamentali del diritto internazionale moderno derivano dal massacro della Seconda Guerra mondiale. Approfondendo concetti che fino ad allora esistevano solo nel diritto internazionale consuetudinario e in documenti screditati come il Patto della Lega delle Nazioni11, il mondo ha scelto per la prima volta di estendere deliberatamente ed esplicitamente norme internazionali per impedire il ripetersi delle terribili atrocità della guerra. Per questo la Carta delle Nazioni Unite, le Risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e le dichiarazioni di dozzine di organizzazioni intergovernative e non governative definiscono intere categorie di atti crimini formali contro l’umanità stessa, piuttosto che contro il singolo Stato o gruppo etnico colpito. L’embrione di questa idea si rintraccia nel concetto di hostis humani generi, del nemico dell’intera razza umana; in base a questo concetto, la comunità internazionale identifica azioni quali il genocidio, i crimini di guerra e la guerra di aggressione come crimini contro l’umanità, come azioni così terribili da danneggiare ogni essere umano e far nascere una giurisdizione internazionale. Questi concetti si applicano perfettamente alla guerra fra Armenia e Azerbaigian. È fuori discus-


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sione che la Repubblica armena, facendo affidamento su diverse rivendicazini di torti etnici, diritti storici e altre scuse classiche per le guerre di aggressione, abbia invaso l’Azerbaigian con truppe regolari e unità di mercenari nel 1992, e che prima di allora abbia aiutato i separatisti di etnia armena. Secondo qualsiasi ragionevole parametro, l’Armenia ha violato il divieto di guerra di aggressione – specialmente per conquistare territori – e continua a farlo. Inoltre, mentre entrambi i paesi lamentano allo stesso modo pulizia etnica e crimini di guerra compiuti l’uno ai danni dell’altro, il massacro di civili a Khojaly durante la guerra si distingue per la sua brutalità unica. Nella notte fra il 25 e il 26 febbraio del 1992, forze armene, insieme a quelli che, secondo molti resoconti, erano gli elementi più criminali del 336esimo Reggimento della Comunità degli Stati Indipendenti, colpirono il paese di Khojaly. L’Armenia sostenne (e sostiene tuttora) che l’attacco fu condotto per sradicare forze armate azere che avevano bombardato Stepanakert e altri centri della regione con forte concentrazione di armeni. Per questo obiettivo virtualmente militare, decisero di assassinare brutalmente oltre 600 fra uomini donne e bambini, anche piccolissimi e di fare scempio dei loro corpi. Le donne incinte furono infilzate con le baionette. Le prove dimostrano chiaramente che quegli innocenti furono ucci-

si per il semplice crimine di essere azeri. Le loro case, gli ospedali, le aree religiose vennero deliberatamente distrutti12. La città fu rasa al suolo. In base al diritto internazionale moderno, si è trattato di un crimine di guerra e di un crimine contro l’umanità13. Però non è stato istituito alcun tribunale internazionale o nazionale per processare gli autori di questo atto, sebbene il diritto internazionale abbia giurisdizione universale su queste materie. Dall’inizio del conflitto, praticamente ogni importante organizzazione non governativa nella regione o nella zona ha approvato una risoluzione o delle conclusioni in materia. Una schiacciante maggioranza ha riconosciuto l’invasione armena del territorio sovrano dell’Azerbaigian e invocato un risoluzione pacifica del conflitto, o ha chiesto esplicitamente all’Armenia di abbandonare i territori che continua ad occupare. La continua intransigenza dell’Armenia e la susseguente mancanza di azione da parte di quelle organizzazioni internazionali che hanno lo specifico compito di mantenere l’ordine internazionale e di riparare alla guerra di aggressione, rappresenta sia un colpo alla loro efficacia nel lungo termine sia un pericoloso segno del crollo dell’ordine instaurato dopo la Seconda guerra mondiale. Passando alle Nazini Unite, il Consiglio di sicurezza – il gruppo che ha soprattutto il compito di porre rimedio alle violazioni della


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pace – ha approvato quattro diverse risoluzioni esigendo il ritiro dell’Armenia dai territori occupati intorno al Nagorno-Karabakh14. Queste risoluzioni descrivono esplicitamente il conflitto come una minaccia alla pace e definiscono illegale l’invasione del territorio sovrano dell’Azerbaigian, che comprende esplicitamente il Nagorno-Karabakh. Le risoluzioni dell’Assemblea generale sull’argomento seguono grosso modo la stessa traccia15. Nonostante queste conclusioni esplicite, le diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza non hanno portato al tipo di conflitto militare – per porre rimedio all’aggressione dello Stato invasore – che i suoi fondatori avevano immaginato. Anche il Consiglio d’Europa ha esercitato la sua influenza, chiedendo ripetutamente che il conflitto venisse risolto secondo le norme giuridiche internazionali consuetudinarie. Così l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Pace) ha approvato la Risoluzione 1416, “Il conflitto nella regione del Karabakh montuoso seguito dalla Confernza di Minsk dell’Osce”. La risoluzine riconosce l’occupazione armena dell’Azerbaigian; riconosce la pulizia etnica operata prima e dopo il conflitto; reitera che qualsiasi sforzo per l’indipendenza deve essere compiuto pacificamente e in conformità alle leggi e che l’invasione di uno Stato da parte di uno Stato membro del consiglio d’Europa viola i vincoli di quest’ultimo in quanto mem-

bro; chiede il ritorno dei profughi; e riconosce l’importanza delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu16. L’Armenia continua a boicottare gli sforzi dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella regione. L’Organizzazione per la Cooperazione Islamica ha approvato innumerevoli risoluzioni e comunicati che seguono lo stesso solco, spingendosi anche oltre. L’Oic ha intimato all’Armenia di ritirarsi dalle aree occupate dell’Azerbaigian, compreso il Nagorno-Karabakh; ha descritto l’Armenia come l’aggressore illegittimo del conflitto; ha chiesto alle Nazioni Unite di approvare delle sanzioni contro l’Armenia17. L’Armenia considera le risoluzioni dell’Oic non vincloanti e accusa l’Azerbaigian di “sfruttare l’Islam per raccogliere maggior sostegno internazionale”. Nella prima parte di questo saggio, si è discusso brevemente dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e della sua creatura, il Gruppo di Minsk, ed è il caso di menzionarla anche qui. La posizione dell’Osce è che il NagornoKarabakh e i territori circostanti fossero e rimangano territorio dell’Azerbaigian. Sebbene non siano molti gli sviluppi positivi, si può obiettare che la richiesta di una forza di peacekeeping multinazionale – invece che solo russa – e il ricorso alla co-presidenza, abbiano almeno impedito che la situazione degenerasse in una nuova Ossezia del Sud.

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Il Gruppo di Minsk non si disco- anche in termini di perdita di vista dal sentiero tracciato dalla te umane. gran parte delle organizzazioni internazionali e chiede il ritiro Parte III delle forze armene dalla regione; Nella prima e nella seconda parte il ritorno dei profughi; forze di di questo saggio, ci siamo occupeacekeeping che garantiscano la si- pati dei motivi alla base dell’incurezza del Nagorno-Karabakh e vasione armena dell’Azerbaigian dei profughi che rientrano e che e di come la comunità internaziolo status definitivo della regione nale abbia risposto. In questa parvenga determinato con mezzi pa- te vedremo quali sono i danni cifici e democratici. umanitari e culturali prodotti da La posizione dell’Unione europea questa guerra. è più ambigua – pur riconoscen- Qualsiasi conflitto armato deldo il diritto dell’Azerbaigian alla l’era moderna causa enormi persua integrità territoriale, pur dite collaterali sia umane che maesprimendo la teriali. Anche se la propria costerna- L’Azerbaigian chiede capacità di centrare zione per l’enorme munizioni e obietnumero di rifugia- l’intervento di forze tivi militari è auti e di profughi di peacekeeping mentata in maniedovuto al conflitto ra significativa nee pur chiedendo per pacificare l’area gli ultimi due seuna rapida risolu- e garantire la sicurezza coli, la forza dizione, non fa diffestruttiva a cui sono renza fra l’aggressore e l’aggredi- sottoposti gli Stati è a sua volta to nel conflitto. Tuttavia chiede, aumentata geometricamente. I nelle sue risoluzioni, una fine pa- danni collaterali sono ingenti ancifica del conflitto e il ritiro im- che quando gli Stati si impegnamediato delle forze armene dai no, per quanto in maniera imperterritori occupati18. fetta, ad obbedire allo jus cogens e In questo conflitto la bilancia del al diritto pubblico internazionale diritto internazionale tanto pub- moderno sull’uso della forza in blico quanto consuetudinario un conflitto armato. Ed è infinipende decisamente a favore tamente peggio quando si tratta dell’Azerbaigian. Il fatto che la di una guerra di aggressione nella guerra sia congelata, anche se in quale entrano in gioco conflitti ripresa, e non risolta velocemen- etnici sedimentati da secoli e dete, rappresenta una messa in stato cenni. d’accusa delle norme internazio- L’invasione dell’Azerbaigian nali seria come quella del Geno- diede libero sfogo a risentimenti cidio in Ruanda. Se la questione e nazionalismi che si erano si non verrà risolta velocemente, erano stratificati nei secoli. La questo conflitto potrebbe presto Repubblica sovietica socialista iniziare a essere altrettanto atroce armena, e poi la Repubblica ar-


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mena, mise esplicitamente in re- conflitto – l’Azerbaigian ha spelazione la sua invasione con il so una grande parte del suo Pil Genocidio degli armeni, soste- proprio a questo scopo, che semnendo implicitamente che inva- bra aver raggiunto – la perdita dendo l’Azerbaigian stesse ripa- di vite umane ha avuto un costo rando a un torto vecchio di seco- reale anche in termini di svilupli e esigendo vendetta per secoli po del capitale umano del paese. Il ben noto effetto dello status di di atrocità subite19. Nella seconda parte ci siamo oc- rifugiato si è manifestato fra la cupati del Massacro di Khojaly e popolazione dei profughi, dove del fatto che esso si configuri co- si registrano più elevati tassi di me un crimine contro l’umanità. criminalità e minore tasso di Non è necessario riparlarne qui, istruzione (e minore reddito). se non per sottolineare come il Secondo la Commissione di Stadisastro di Khojaly rappresenti to per i rifugiati e gli sfollati inun esempio dell’enorme danno terni dell’Azerbaigian, nel 1999 i rifugiati e gli umano causato dalsfollati interni in la guerra. La mortalità infantile buone condizioni La storia dei sette di salute erano distretti occupati ha subito intorno al Nagor- un’impennata e solo da 301.359; di questi 196.380, cioè no-Karabakh, e del Nagorno-Ka- pochi anni la situazione il 65,2%, erano disoccupati. Semrabakh stesso, è la è migliorata pre nel 1999, storia di un disastro. Oltre un milione di uomi- 74mila sfollati interni viveno in ni, donne e bambini furono cac- tendopoli in precarie condizioni ciati dalle proprie case20. I civili sanitarie, 99mila in insediamenfurono uccisi, stuprati, torturati, ti con case fisse, 175mila in paimprigionati e ridotti in schiavi- lazzi pubblici, scuole, asili e tù. L’Azerbaigian stima che oltre ostelli, oltre 20 mila in casa di 3000 soldati e oltre 700 civili parenti, mentre il resto viveva siano ancora dispersi o prigio- in appartamenti occupati, palaznieri di guerra21. Come a Khoja- zi in costruzione, fattorie, vagoly, intere città o parti di esse fu- ni ferroviari o semplicemente in rono rase al suolo durante la baracche costruite lungo le strade. La mortalità infantile ha suguerra o dopo. La perdita in termini di vite bito un’impennata, così come umane subita dall’Azerbaigian d’altronde la mortalità generale. al di fuori del proprio territorio Il tasso delle nascite fra i profuè difficile da quantificare, ma è ghi è crollato al 22-26 per milreale. Oltre al costo enorme pa- le. Solo negli ultimi anni si sta gato per spostare i profughi e riuscendo a porre seriamente rigli sfollati interni dai campi nei medio a questa situazione. quali erano stati confinati dal In base alle sue stime, l’Azerbai-

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gian conta 20mila vittime e 50mila fra mutilati e feriti. Come già osservato nella seconda parte, il costo psicologico del conflitto e dell’occupazione ha ritardato la transizione democratica dell’Azerbaigian e, in assenza di una soluzione pacifica, ha incoraggiato il riarmo. Gli obiettivi per lo sviluppo economico del paese prevedono di usare la sua considerevole ricchezza di carbonio per sviluppare e diversificare l’industria; la necessità di riarmarsi, dovuta all’orgoglio e a un conflitto irrisolto, ha dei chiari costi economici e psicologici. Il danno non è stato limitato agli immediati costi umani. Monumenti e reliquie vecchie di secoli e millenni, a cavallo fra innumerevoli culture, sono andate perdute22. Manufatti che appartenevano al patrimonio collettivo dell’umanità – alcune delle prime dimore degli esseri umani come le grotte di Azix e di Taqlar, e le tombe di Qarakopak, Uzarliktapa, vengono oggi usate per scopi militari e sono state distrutte intenzionalmente. Le tombe dei distretti di Khojaly, Agdam, Agdara, Fuzuli e Jabrayil, così come cimiteri, sepolcri, lapidi, un numero enorme di moschee, templi e monumenti che appartenevano all’Albania caucasica e all’Azerbaigian, sono stati distrutti. Le moschee più recenti sono ridotte in macerie. Al tempo dell’occupazione armena, nella regione c’erano tredici monumenti di importanza modiale (6 dal punto di vista architettonico e 7 archeologico), 292 di importanza

nazionale (119 architettonici, 173 archeologici) e 330 di importanza locale (270 architettonici, 22 archeologici, 23 fra parchi, monumenti e memoriali, 15 di arte decorativa). Oggi sembra che non ne sia rimasto nessuno. Palazzi storici, scuole di musica, musei, santuari, le case di grandi artisti e compositori azeri e i monumenti ad essi dedicati – alcuni risalenti all’Impero persiano – sono a detta di tutti perduti. Quando non sono stati completamente distrutti, sono stati crivellati dai proiettili, fuoco d’artiglieria o di altre armi. Una parte dell’arte statuaria è stata riportata illegalmente in Azerbaigian; la maggior parte è in rovina. Il Museo del pane di Agdam, con il suo famoso mosaico frontale, è una rovina, il mosaico un disastro crivellato di colpi. È impossibile quantificare il costo di una devastazione culturale come questa; è per questo che esistono norme internazionali per impedirla. Solo l’idea di porre rimedio a un tale livello di perdita culturale, annebbia la mente. La perdita per la storia dell’umanità nel suo complesso è incalcolabile. In una parte successive di questo saggio, ci occuperemo del costo totale di questo crimine contro l’umanità. Ma non c’è modo di includervi questa distruzione – umana e culturale – e quindi quei dati ne saranno esclusi. Invece le urla provenienti dalle tombe serviranno a ricordare per sempre le atrocità a cui il mondo ha assistito e che ha lasciato accadessero.


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Parte IV

Nella prima parte di questo saggio abbiamo discusso delle radici storiche e delle cause attuali del conflitto armeno-azero. Nella seconda parte ci siamo occupati della reazione internazionale, della risposta degli organi legislativi internazionali alla guerra e ai suoi effetti secondari. Nella terza parte abbiamo esaminato il costo in termini di perdita di vite umane e di beni culturali esatto dalla guerra. In questa parte esamineremo i costi ambientali e socioeconomici del conflitto. Per sua stessa natura, la guerra causa sempre danni all’ambiente e alle infrastrutture. La guerra moderna – così come per le vite umane – tende ad avere un effetto distruttivo di un ordine di grandezza inimmaginabile per i nostri progenitori. Resoconti degni di credito, però, indicano che, anche dopo la fine delle ostilità attive, l’Armenia ha continuato la sua opera di distruzione dei territori occupati, a danno della flora e della fauna della regione e dell’Azerbaigian nel suo complesso. L’area occupata è perlopiù montagnosa e coperta di foreste e comprende numerose riserve naturali con flora e fauna protetta. Nella regione crescono 460 specie di alberi e arbusti selvatici, 70 dei quali sono specie endemiche che non crescono spontaneamente in altre parti del mondo. All’inizio del conflitto in quel territorio vi erano quattro specie di mammiferi, otto specie di uccelli, una specie di pesci, tre specie di anfibi e rettili, otto specie di insetti e

27 specie di piante che erano considerate protette. Anche se non è possibile sapere in quale misura oggi quelle specie siano minacciate, il comportamento dell’Armenia negli ultimi vent’anni suggerisce che la minaccia sia pressante. L’Azerbaigian sostiene che l’Armenia stia depauperando la flora e la fauna dell’area (quando non le dà deliberatamente fuoco) per venderla ad altri paesi. L’abitudine armena di dare fuoco a vaste zone del territorio occupato (sembra per rendere più agevoli le manovre militari), rende fondato questo sospetto. Un ulteriore indizio è il fatto che l’industria della carta e della pasta di legno in Armenia prosperi all’improvviso. Già da solo l’effetto del fuoco non è da sottovalutare, perché costituisce letteralmente un approccio distruttivo nel conflitto, il voler fare letteralmente terra bruciata. Ancora una volta, è difficile calcolare la misura dei danni ambientali immediati senza ulteriori informazioni, ma il fuoco non controllato produce danni a lungo termine ad una regione che non vi sia abituata e alle aree confinanti. Il danno è diventato abbastanza consistente da indurre l’Azerbaigian a pregare la comunità mondiale – compresi il segretario generale della Convenzione di Berna per la conservazione della natura e degli habitat naturali in Europa, il segretario della Convenzione per la biodiversità, il segretariato della Convenzione per il cambiamento climatico delle Nazioni Unite e il pre-

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sidente dell’Unione internaziona- l’agricoltura e le industrie che le per la conservazione della natu- utilizzavano materie prime e rira e delle risorse naturali – di por- sorse naturali sono devastate. Le re fine alla distruzione, ma nessu- moderne industrie che producena iniziativa è stata presa in que- vano vino, burro, formaggio e prodotti tessili sembrano perdute sto senso. L’Azerbaigian afferma anche, e vi per sempre, mentre i vigneti e gli sono prove a sostegno di quanto allevamenti di bovini sono stati dice, che l’Armenia usi le infra- semplicemente cancellati24. strutture idriche che già esisteva- La terra coltivabile è una delle no come un’arma contro la popo- principali vittime non umane di lazione umana e non delle aree questo conflitto. I territori occuche confinano con i territori oc- pati costituivano la più estesa recupati – causando inondazioni in gione rurale dell’Azerbaigian. La inverno, quando il suolo non rie- zona offre pianure in mezzo alle sce ad assorbire l’acqua, e tratte- montagne, colline pedemontane, nendo l’acqua in dolci pascoli e un estate, quando ser- Secondo il governo clima umido, che ve di più23. Il resono ottimali per l’agricoltura e l’alsto delle infra- di Baku, l’Armenia levamento del bestrutture per l’irri- userebbe stiame. Nella regazione – costruite nel corso dei de- le infrastrutture idriche gione i cereali, la produzione alicenni per l’uomo e contro la popolazione mentare, la viticolla natura – è in rovina. I costi umani sono enormi. tura, la coltivazione deitabacco, La perdita di biodiversità è incal- patate, cotone, l’allevamento di bovini e ovini rappresentavano colabile. Nei territori occupati vi sono importanti industrie, che oggi milioni di tonnellate di risorse sembrano andate perdute25. minerali, che sembrano oggetto In termini di produzione indudi un vigoroso sforzo estrattivo striale, la regione autonoma del da parte dell’Armenia. Oro, Nagorno-Karabach era la più piombo, perlite, gesso, pomice e avanzata dei territori occupati, e cenere vulcanica, agata, onice, copriva il 40% della produzione mercurio, rame – la lista è lunga. industriale e il 18,7% delle attiSembra che l’Armenia stia estra- vità fisse di tutti i distretti occuendo tutto. pati. I distretti di Agdam e FuL’impatto socio-economico non è zulli fornivano il 51% della promeno allarmante. Nei territori duzione industriale e il 41% deloccupati le industrie alimentari, le attività fisse; gli altri distretti tessili e edili – parte essenziale – Lachin, Kalbajar, Jabrayil, Qudegli sforzi di diversificazione badli e Zangilan – erano scarsaeconomica dell’Azerbaigian – mente industrializzati. Nel 1988 non esistono più. Come già, queste regioni fornivano circa il


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3% della produzione industriale larlo in base al diritto internaziocomplessiva della Repubblica so- nale. Diciamo subito che quanto vietica socialista dell’Azerbai- segue non vuole essere un dato esatto o una metodologia definigian. Anche le infrastrutture socio-eco- tiva, ma piuttosto un tentativo di nomiche sono state decimate – quantificare ciò che è in qualche non solo nei territori occupati, modo inquantificabile e mai tenma anche nelle aree ad essi adia- tato prima: cosa deve un aggrescenti. L’Azerbaigian stima che sore ingiusto alle sue vittime? dopo la guerra siano ridotti in Chiaramente le norme internamacerie in totale 900 aree resi- zionali si sono evolute dai tempi denziali (città, insediamenti, vil- del Trattato di Versailles, che stalaggi, ecc.), circa 150mila abita- biliva le sanzioni applicate alla zioni per un totale di 9,1 milioni Germania dopo la Prima guerra di metri quadrati, 4336 infra- mondiale. Le norme generali prestrutture sociali e culturali, 7mi- vedono che il risarcimento debba essere equo, prola palazzi pubblici, porzionato ai dan2389 strumenti L’Armenia dovrebbe ni inferti e in industriali o agricoli, 1025 scuole, risarcire lo Stato azero qualche modo pagabile. 855 asili, 4 case di ma nessuno è in grado Qui si combinano cura, 798 strutture due ordini di prosanitarie (fra cui di quantificare 695 ospedali), 927 una cifra per tali scempi blemi. Prima di tutto, letteralbiblioteche, 1510 entità culturali e 598 impianti di mente non esistono precedenti di comunicazione. Inoltre sono stati calcoli di questo tipo. A parte il distrutti 5198 chilometri di stra- Trattato di Versailles, nessuno ha de, 348 ponti, 286 chilometri di mai calcolato seriamente quanto ferrovia, 116 ponti ferroviari, una forza occupante e distruttiva 224 riserve idriche, 7568 chilo- debba alla sua vittima; e certametri di acquedotto, 2000 chilo- mente nessuno ha mai nemmeno metri di gasdotto e 76940 chilo- tentato di dare un valore economico alla perdita di vite umane e metri di linee elettriche. È difficile calcolare il danno tota- ai danni ambientali. Si tratta letle subito dai cittadini e dalle isti- teralmente di un calcolo senza tuzioni dell’Azerbaigian. Ma è di precedenti. quello che ci occuperemo nell’ul- In secondo luogo, la necessità che il risarcimento sia limitato alla tima parte di questo saggio. capacità della forza occupante di pagarlo in un periodo di tempo Parte V Nella parte finale di questo sag- ragionevole, costituisce un serio gio, ci occuperemo sia del risarci- ostacolo in questo caso. Il malmento che spetta di diritto al- funzionamento del sistema polil’Azerbaigian, sia di come calco- tico armeno con la sua corruzione

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dilagante, ha trasformato quello che una volta era un futuro economico promettente in un piccolo incubo. Pur con tutta la ricchezza proveniente dai territori occupati, l’Armenia rimane un rottame economico, ben lontano dallo sviluppo dell’Azerbaigian26. Chiedere a un paese con un Pil pari a circa 9 miliardi di dollari di ripagare i danni all’Azerbaigian, sarebbe stato come chiedere alla Russia, nel 1994, di ripagare gli enormi danni fatti dall’Unione Sovietica a tutti i paesi che aveva invaso e occupato. Tuttavia, il diritto sembra suggerire che in questo caso parlare di risarcimento non sia fuori luogo. La Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 56/83, “Responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali”, prevede che uno Stato aggressore debba pagare un risarcimento per tutti gli atti illeciti commessi27. La Risoluzione, che sembra la prosecuzione logica del divieto di guerra di aggressione, afferma che “la riparazione totale per i danni causati da un atto illecito internazionale debba avvenire sotto forma di restituzione, compensazione e soddisfazione da soli o insieme, in base a quanto previsto in questo capitolo”. La natura della riparazione dipende dalla natura dell’atto illecito internazionale e dal tipo e dalla misura dei danni causati. La Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 60/147, “Principi e linee guida fondamentali del diritto al risarcimento e alla riparazione per le vittime di gravi

violazioni del diritto internazionale sui diritti umani e di serie violazioni del diritto umanitario internazionale”, rimanda a questo punto. Ma anche senza la cornice del diritto pubblico internazionale, un passo logico e minimo è di trattare la questione almeno come una norma di jus cogens o in via di elaborazione. Bisogna chiedersi, allora, quale sia il livello di compensazione, e di quale natura, appropriato in questo caso. Il semplice ripristino dello status quo ante, inteso come il ritiro delle forze armene e il ritorno dei profughi e degli sfollati interni, non è e non può essere abbastanza. I crimini internazionali commessi in questo caso sono di enorme portata; come si fa a dare un prezzo ai bambini assassinati? Quanto vale la sovranità nazionale? Quanto vale perdere la casa in cui si abitava da generazioni e il mestiere che avrebbe garantito la sussistenza alle generazioni future? Quanto costa un ecosistema rovinato per sempre? Qual è il prezzo di una disperata corsa a piedi nudi, a un soffio dall’artiglieria e dalle milizie irregolari, stringendosi al petto il proprio figlio e sperando che sia ancora vivo?28. Non sono domande banali e nemmeno espendienti per far salire il livello del melodramma. Il solo pensiero della portata della riparazione fa inorridire. L’Organizzazione per la cooperazione islamica, nel 1994, ha stabilito che il solo danno economico ammontava a 60 miliardi di


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dollari; oggi sarebbero circa 92 miliardi di dollari29. Il ministero per l’Ecologia e le Risorse naturali dell’Azerbaigian ha stimato che l’enorme danno ecologico equivaleva (nel 2011) a 40,15 miliardi di dollari. Ancora una volta, però, questi costi riguardano danni difficili ma quantificabili – mancati profitti, il costo della ricostruzione, i soldi necessari a ricostruire e, si spera, ripopolare le riserve naturali e ecologiche. Ma non esiste un modo facile per quantificare i danni immateriali – la perdita di ogni preziosa vita umana, giovani donne che per anni si sono svegliate nel terrore degli stupri di gruppo, ragazzi e ragazze cresciuti senza uno o entrambi i genitori o senza fratelli – tutti i costi umani dei crimini contro l’umanità. In un tribunale americano, in un qualsiasi processo per atti illeciti, ciascuna vittima avrebbe diritto a milioni su milioni di dollari. A quanto ammonterebbe il totale per ogni profugo e per ogni deportato? Per ogni famiglia che ha perso i suoi cari nella regione durante la guerra? Per l’intero Azerbaigian per il trauma psicologico subito? E tuttavia, come osservato, se anche ci fermassimo a 132 miliardi di dollari per il risarcimento, ritirandosi oggi l’Armenia sarebbe ridotta in miseria per 15 anni, dovendo dare il suo intero Pil per pagare questo debito, senza contare gli interessi. Con il tempo la situazione non farà che peggiorare. La comunità internazionale deve

essere all’altezza del suo atto istitutivo, deve mantenere gli impegni presi nel fuoco e nel sangue e sanciti davanti a un mondo stanco di morte e dolore. L’alternativa è quella di stare a guardare un conflitto congelato che riprende vita, con alle spalle due decenni di ulteriore rabbia e dolore.

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L’Autore elkhan suleymanov Storico e politico dell’Azerbaigian, membro del parlamento del suo paese, e anche membro della delegazione azera all’assemblea parlementare del Consiglio d’Europa e del comitato degli affari legali e diritti umani. Questo articolo è un brano ripreso dal suo nuovo libro A wounded land: The Consequences of Armenia's Occupation and Ethnic Cleansing in Azerbaijan Territory.


Note 1

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Patto della Lega delle Nazioni, articoli X e XI, http://www.unhcr.org/refworld/publisher,LON, 3dd8b9854,0.html. 2 L’Armenia nega questo fatto, anche se, secondo la maggior parte degli osservatori, le sue forze erano già sul teatro di guerra almeno nel 1992. 3 Nella guerra di informazione in corso fra le due parti, il dato è controverso. Si potrebbe identificare il lavoro della campagna di relazioni pubbliche dell’Armenia in quelle fonti che stabiliscono il controllo armeno al 9% senza il NagornoKarabakh e appena sopra il 10 con esso. 4 Il maggiore Seyran Mushegovich Ohanyan, oggi ministro della Difesa armeno, comandava il secondo battaglione del 366esimo Reggimento. Serzh Sargsyan, oggi presidente dell’Armenia, al tempo comandava le forze armate del NagornoKarabakh. Il diritto internazionale, di solito, ritiene responsabili di un crimine di guerra coloro che che diedero l’ordine di eseguirlo o che erano direttamente al comando. 5 La posizione ufficiale dell’Armenia è che la cosa non sia accaduta, o che, qualora fosse accaduta, si sia verificata nella confusione della guerra e che quindi non si possa trattare di crimine di guerra. Numerose Ong, compresa Human Rigth Watch, hanno esaminato le prove e giudicato questa posizione non credibile. L’Azerbaigian qualifica il massacro come genocidio. Indipendentemente dalla natura precisa dell’atto criminale, è fuori discussione che esso rappresenti una violazione delle norme internazionali moderne. 6 Si veda, ad esempio, la Dichiarazione congiunta sul conflitto del Nagorno-Karabakh di Dmitri Medvedev, presidente della Federazione Russa, Barack Obama, presidente degli Stati Uniti d’America, e Nicolas Sarkozy, presidente della Repubblica Francese del 26 gennaio del 2010. http://www.whitehouse.gov/the-pressoffice/g8-summit-joint-statement-nagornok a ra b a k h - c o n f l i c t- d m i t r y - m e d v e d e v president-russi . 7 La storia stessa dell’Armenia contribuisce per una parte non piccola a questo conflitto, ma descriverla non è compito di questo articolo. L’aspetto più saliente è il modo in cui l’Armenia è entrata in possesso del suo attuale territorio: la versione armena si fonda su vittorie conseguite combattendo duramente e torti vendicati durante il crollo dell’Impero ottomano in seguito al genocidio degli armeni; la versione dell’Azer-

baigian si fonda sui territori presi dall’Impero russo, che poi il paese ha lasciato al nascente Stato armeno, quando l’Impero russo si è sgretolato. Non sorprende che le rispettive versioni di questa storia combacino con le rispettive visioni del conflitto in corso. 8 L’Armenia nega questo fatto, anche se, secondo la maggior parte degli osservatori, le sue forze erano già sul teatro di guerra almeno nel 1992. 9 Nella guerra di informazione in corso fra le due parti, il dato è controverso. Si potrebbe identificare il lavoro della campagna di relazioni pubbliche dell’Armenia in quelle fonti che stabiliscono il controllo armeno al 9% senza il NagornoKarabakh e appena sopra il 10 con esso. 10 Si veda, ad esempio, la Dichiarazione congiunta sul conflitto del Nagorno-Karabakh di Dmitri Medvedev, presidente della Federazione Russa, Barack Obama, presidente degli Stati Uniti d’America, e Nicolas Sarkozy, presidente della Repubblica Francese del 26 gennaio del 2010. http://www.whitehouse.gov/the-pressoffice/g8-summit-joint-statement-nagornok a ra b a k h - c o n f l i c t- d m i t r y - m e d v e d e v president-russi . 11 Patto della Lega delle Nazioni, articoli X e XI, http://www.unhcr.org/refworld/publisher,LON, 3dd8b9854,0.html. 12 Il maggiore Seyran Mushegovich Ohanyan, oggi ministro della Difesa armeno, comandava il secondo battaglione del 366esimo Reggimento. Serzh Sargsyan, oggi presidente dell’Armenia, al tempo comandava le forze armate del NagornoKarabach. Il diritto internazionale, di solito, ritiene responsabili di un crimine di guerra coloro che che diedero l’ordine di eseguirlo o che erano direttamente al comando. 13 La posizione ufficiale dell’Armenia è che la cosa non sia accaduta, o che, qualora fosse accaduta, si sia verificata nella confusione della guerra e che quindi non si possa trattare di crimine di guerra. Numerose Ong, compresa Human Rigth Watch, hanno esaminato le prove e giudicato questa posizione non credibile. L’Azerbaigian qualifica il massacro come genocidio. Indipendentemente dalla natura precisa dell’atto criminale, è fuori discussione che esso rappresenti una violazione delle norme internazionali moderne. 14 Si vedano le Risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 822, 853, 874 e 884. 15 Si veda, per esempio, la Risoluzione del-


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l’Assemblea generale 60/285 (che riconosce i pericoli ambientali e civili nel contesto degli incendi incontrollati nei “territori occupati dell’Azerbaigian”) http:// www.un.org/ ga/search/ view_doc.asp?symbol=A/RES/60/285&Lang=E; si veda anche la Risoluzione dell’Assemblea generale 62/243 (che riconosce l’occupazione del territorio dell’Azerbaigian e chiede il ritiro dell’Armenia e il ritorno dei profughi) http:// www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=a /res/62/243. I membri del Gruppo di Minsk dell’Osce hanno votato contro quest’ultima risoluzione, perché non vi erano inserite tutte le risoluzioni del conflitto suggerite dal Gruppo di Minsk. 16 Anche l’Assemblea generale del Consiglio d’europa riconosce l’impatto deleterio che questo conflitto ha avuto sullo sviluppo democratico dell’Azerbaigian. Si veda la Risoluzione 1614, paragrafo 25, http:// assembly.coe.int/ Mainf.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta08/ ERES1614.htm. 17 Si veda, ad esempio, la Risoluzione n. 12/I0P(IS), Rapporto e risoluzioni sugli affari politici adottati dalla decima sessione dell’Islamic Summit Conference, “Sull’aggressione della Repubblica Armena ai danni della Repubblica dell’Azerbaigian”. http://www.azembassyjo.org/conflict/process/islamic.htm.http://www.azembassyjo.org/conflict/process/islamic.htm. 18 La Nato, pur rimanendo in qualche modo ambigua sulla questione, ha detto chiaramente che preferirebbe una soluzione fondata sulla sovranità e l’integrità territoriale. Dato che il territorio in questione appartiene all’Azerbaigian, tanto equivale a una dichiarazione a favore di quest’ultimo nel conflitto. In ogni caso, che la Nato sia un organo legiferante è, nel migliore dei casi, incerto. 19 La popolazione dell’Azerbaigian è prevalentemente di discendenza caucasica albanese, non turca. I suoi stretti legami con la Turchia derivano da una identificazione storica e, in misura limitata, religiosa (gli azeri sono per la maggior parte musulmani sciiti, i turchi sunniti), non da un’identità etnica o da un’unione politica. In altre parole, non vi sono prove che gli azeri abbiano avuto una qualsiasi parte nel Genocidio degli armeni. Questo però non ha impedito all’Armenia e agli armeni della Diaspora di mettere in relazione l’invasione del Nagorno-Karabakh con il Genocidio. 20 Il numero esatto è controverso. L’Azerbaigian sostiene che la guerra ha causato circa un milione

di profughi e sfollati interni. L’Armenia ricusa questa cifra (e ha propri numeri di persone che sostiene siano state espulse dall’Azerbaigian). Stime indipendenti stabiliscono che vi sono stati fra 700mila e un milione di profughi. 21 Entrambe le parti coinvolte nel conflitto lamentano prigionieri di guerra non ancora rilasciati. Data la difficoltà della questione, non esistono conferme indipendenti di questi dati. 22 Questi crimini sono contemplati dalla Convenzione dell’Aia per la protezione della proprietà culturale in caso di conflitto armato (1954); dalla Convenzione di Parigi sul traffico illegale di proprietà culturale; dalla Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico; e dalla Convenzione dell’Unesco per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale. 23 L’Azerbaigian accusa l’Armenia anche di avvelenare deliberatamente alcuni fiumi della regione, al fine di trasformare in un’arma le scarse risorse idriche della regione. L’Armenia respinge quest’accusa. 24 L’Azerbaigian è specializzato nell’allevamento dei bovini – un orgoglio nazionale – e non si è ancora ripreso dalla perdita della razza bovina tipica della regione causata dai combattimenti o dalla fuga. 25 Si tratta di una perdita significativa per la popolazione dei profughi e gli sfollati interni, e il cambiamento di suolo e di condizioni idriche hanno danneggiato economicamente gli agricoltori. 26 Nella classifica delle peggiori economie mondiali, la rivista Forbes ha messo l’Armenia al secondo posto, dopo solo il Madagascar. http:// www. forbes.com/sites/danielfisher/2011/07/05/theworlds-worst-economies. 27 Nella seconda parte di questo saggio si spiega che la guerra di aggressione è illecita in base al diritto internazionale. 28 L’Armenia ha calcolato che i danni agli armeni che sono fuggiti o sono stati espulsi a causa del conflitto, equivalgono a circa l’8% del valore dell’Azerbaigian, 70 miliardi di dollari, e ha chiesto al paese quella cifra. 29 Il calcolo, la cui accuratezza non è l’obiettivo di questo documento, viene fornito semplicemente come materia di discussione.

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SCHEDA PAESE Informazioni Generali Superficie: 86.600 Km2 Capitale: Baku (1.917.000) Popolazione: 8.900.000 Lingua: La lingua ufficiale è l’azero. Si sta eliminando gradualmente l’uso del russo. Religione: Sciiti musulmani (70%) 42

Moneta: L’unità monetaria dell’Azerbaijan è il Manat, introdotto ufficialmente a metà del 1993 al posto del Rublo. Dal 1° gennaio 2007, il "vecchio" Manat è stato sostituito dal "nuovo". 5.000 “vecchi” Manat corrispondono a 1 “nuovo”. Il cambio a ottobre 2010 è di 1.0958 Manat (nuova moneta AZN) per 1 €. Media annuale 2010: 1.0667 Manat (AZN) per 1€. Rischio paese La Sace colloca l’Azerbaijan nella 2a categoria consensus, nella 5a categoria di rischio Ocse ad aprile 2010. Rischio politico. La situazione politica appare stabile. I rapporti con l’Armenia sono tesi a causa del conflitto congelato (il “cessate il fuoco” è in vigore dal 1994) per il controllo del Nagorno-Karabakh, una regione occupata dalle truppe armene ma all’interno dei confini azeri. L’Azerbaijan ha visto crescere la propria importanza nella partita energetica tra Russia e Ue. Oltre a detenere un discreto livello di riserve di greggio e gas, il paese è una via di passaggio obbligata per il transito degli idrocarburi dei giacimenti dall’area caspica. Rischio economico. La crescita del Pil reale è stata robusta negli

ultimi anni grazie all’esportazione degli idrocarburi con ricadute positive su tutti i fondamentali. Tuttavia la perdita di competitività del settore non-oil e la riduzione dei prezzi degli idrocarburi ha comportato un rallentamento nella perfomance economica del paese. Rischio finanziario. Il sistema bancario è poco sviluppato e subisce il ruolo giocato dallo stato attraverso Iba. La disponibilità di finanziamenti sul mercato dei capitali è andato riducendosi a causa della crisi internazionale. Tuttavia gli effetti della crisi sono stati contenuti e non hanno compromesso la stabilità del sistema. Rischio operativo. Il sistema legislativo è in fase di transizione. Nonostante le riforme in via di approvazione, la separazione tra potere esecutivo e giudiziario è molto debole e la legislazione locale è ancora lontana dagli standard minimi di un’economia di mercato. Gli investimenti esteri nel settore petrolifero e nel suo indotto sono regolamentati in modo dettagliato. Il paese soffre un certo grado di insicurezza legato alla criminalità. Prospettive future Anche se l’Azerbaijan ha sentito gli effetti della crisi economica globale per via dei prezzi del petrolio più bassi e della più debole domanda estera, l’impatto è stato molto meno grave che in altri Paesi della regione. Dato che il settore dell’energia è stato il principale motore della crescita negli ultimi anni, la più lenta crescita della produzione di petrolio nel 2010 e nel 2011 sarà un ostacolo significativo sull’attività economica nel prossimo anno. La crescita del settore non-petrolifero sarà ampiamente insufficiente per compensare il rallentamento del settore petrolifero. Come conseguenza delle più deboli prospettive economiche per il settore petrolifero, ci si aspetta che la crescita economica rallenti al 3,5% nel 2010 e al 3,1% nel 2011. I prezzi dell’energia e delle materie prime più alti, combinati con una continuata e maggio-


LE GUERRE DIMENTICATE Elkhan Suleymanov

re spesa pubblica, un aumento degli afflussi di capitali e la crescita della domanda interna, contribuirà a sostenere il ritmo dell’aumento dei prezzi negli ultimi mesi del 2010, a una previsione media del 4,8%. Le pressioni inflazionistiche si allenteranno nel 2011, in quanto i prezzi del petrolio cadranno moderatamente. La ripresa della crescita globale negli ultimi mesi del 2010 dovrebbe portare a un aumento dell’afflusso di capitali stranieri in Azerbaijan, che fornirà da supporto per il Manat. Ci si aspetta che la valuta rimanga stabile negli ultimi mesi del 2010 e nel 2011, a 0,8 Manat per 1 dollaro. Gli elevati prezzi del petrolio rispetto al 2009 e un aumento dell’afflusso di capitali stranieri sosterranno la valuta locale. Nel 2010-11 si prevede un aumento modesto del volume delle esportazioni di petrolio e di gas rispetto al 2009. Tuttavia, l’aumento atteso dei prezzi globali del petrolio supporterà le entrate da esportazione. La spesa per le importazioni di beni riprenderà nel 2010-11 in quanto gli investitori aumenteranno le spese in conto capitale, sebbene a un ritmo più lento rispetto al 2008. In aggiunta, la ristrutturazione delle infrastrutture richiederà importazioni di macchinari e di attrezzature, anche se le spese per beni di consumo importati saranno più basse rispetto a prima della crisi. L’avanzo delle partite correnti è previsto in crescita a circa 15,9 miliardi di dollari negli ultimi mesi del 2010 (pari al 32,2% del Pil). Un lieve calo nei prezzi dell’energia a livello mondiale nel 2011 peserà sulla bilancia commerciale, con una conseguente diminuzione del surplus di conto corrente previsto al 29,8% del Pil nello stesso anno. Settori produttivi L’economia dell’Azerbaijan risente in modo rilevante del peso dell’industria petrolifera. L’80% delle esportazioni sono legate al comparto petrolifero, che rappresenta circa il 31% del Pil e contribuisce per il 36% alle entrate dello Stato. Le variabili del mercato del petrolio sono un dato esogeno per l’Azerbaijan, e

una loro sfavorevole evoluzione avrebbe un forte impatto negativo sull’economia. Le Autorità sembrano consapevoli di questo rischio e si stanno adoperando per diversificare l’economia, sebbene risultati apprezzabili non siano facili nel breve periodo. Inoltre è da segnalare che le riserve di petrolio dell’Azerbaijan sono destinate a esaurirsi intorno al 2025. Anche per questa ragione parte degli introiti petroliferi vengono destinati a un fondo che viene poi reinvestito sui mercati finanziari internazionali. La forte crescita del settore petrolifero ha detrmianto un boom nel settore delle costruzioni; anche il settore dei servizi ha conosciuto una notevole crescita, con lo sviluppo del settore alberghiero, dei ristoranti e delle telecomunicazioni, mentre l’agricoltura ha visto progressivamente ridurre il suo contributo alla formazione del Pil. Interscambio Durante il triennio 2007-2009, l’interscambio Azerbaijan-Italia ha fatto registrare sempre un saldo negativo per l’Italia. Il risultato migliore è stato ottenuto nel 2007, con un saldo di -2.497.174.263 euro, principalmente a causa della forte contrazione delle esportazioni e delle importazioni. Nel complesso, nel 2009 il valore delle esportazioni è stato pari a 206.164.841 euro, a fronte dei 279.314.653 euro del 2008, le importazioni sono passate di 4.229.181.662 euro del 2008 ai 3.247.716.490 del 2009. I prodotti principali dell’export italiano verso l’Azerbaijan nel 2009 sono stati le macchine da miniera, cava e cantiere (17 milioni di euro), abbigliamento esterno confezionato in serie, di sartoria o confezionato su misura (13,1 milioni di euro) e macchine per l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco (8,1 milioni di euro). Le importazioni azere dall’Italia si compongono principalmente di petrolio greggio (3.1 miliardi di euro), prodotti della raffinazione del petrolio (circa 77,7 milioni di euro) e alluminio e semilavorati (circa 6,5 milioni di euro).

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Quelle guerre figlie della nostra distrazione Non fanno gola ai mass media e l’opinione pubblica ne viene informata poco o male. Non hanno le prime pagine. Sono i cosiddetti “conflitti dimenticati”: non implicano interessi economici rilevanti per l’Occidente, niente petrolio, né materie prime, nessuna operazione di peacekiping . Senza gli interessi politici della Guerra Fredda o personaggi forti che ne aiutino il racconto, questi contesti bellici rischiano l’oblio. 44 intervista a TONI CAPUOZZO di CECILIA MORETTI

Alla definizione di inviato di guerra preferisce quella di cronista e basta. Toni Capuozzo, comunque, – vicedirettore del TG5, curatore e conduttore del settimanale del TG5 Terra!, autore di libri e della rubrica Occhiaie di riguardo su Il Foglio – ha raccontato i conflitti nell’ex Jugoslavia, in Somalia, in Medio Oriente e in Afghanistan. Sempre dal posto, con la lucidità di chi sa fotografare le cose spogliate di appartenenze pregiudiziali e verità preconfezionate. E senza mai mutuare dall’esperienza l’abitudine alla professione, né gli anestetici per sentire meno forte la compassione verso le tragedie dell’uomo.

Che cosa sono, innanzitutto, le “guerre dimenticate”?

Si parla molto spesso di guerre dimenticate riferendosi ai conflitti più trascurati da media e opinione pubblica, ma trattandole così complessivamente, come fossero una categoria, si finisce per non rompere l’oblio sui singoli contesti bellici che, appunto, costituiscono le guerre dimenticate. Perché certi conflitti sono meno fotogenici di altri?

Ci sono tre ragioni principali, persino piuttosto banali. La prima e più importante è che nei conflitti dimenticati non sono in gioco grandi interessi econo-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Toni Capuozzo

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mici occidentali. Non c’è petrolio, non ci sono materie prime, sembrano coinvolgere solo le parti in conflitto. La seconda ragione, che è poi conseguenza della prima, è che in questi conflitti non sono presenti contingenti dei Caschi blu e missioni militari occidentali di peacekeeping che allarmerebbero l’attenzione, sono figli della distrazione dell’Occidente. E la terza ragione?

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La terza ragione è che fino alla fine degli anni Ottanta ogni conflitto o quasi era iscrivibile in una contesa fra le due superpotenze Unione Sovietica e Stati Uniti e quindi implicava sempre degli interessi politici: ogni Stato appoggiava in genere uno dei due contendenti. Oggi si parla molto di multipolarismo – un governo di grandi potenze su scala planetaria –, ma la realtà è che gli stessi Stati Uniti hanno diminuito la propria presenza nel mondo e tendono a concentrare il loro intervento nelle aree dove hanno robusti interessi economici e politici. Per di più vengono da esperienze tormentate come quelle irachena o afgana e sono quindi molto riluttanti a mettere piede in conflitti minori, dove non ne vedano un forte interesse. A questo si aggiunge il fattore dell’opinione pubblica. Cioè?

L’opinione pubblica occidentale, e ancor di più la classe politica dell’Occidente, hanno un bisogno di identificazione nelle parti

in causa, per cui se si capisce chi è il buono e chi il cattivo, chi è la vittima e chi il carnefice, allora può scattare una reazione morale o, almeno, un’attenzione. Spesso, però, si tratta di conflitti confusi, dove è difficile tracciare una linea netta tra ragioni e torti, che allora rischiano di essere dimenticati. Questo è successo anche per conflitti a noi vicini, come quello in Bosnia, dove non c’erano grossi interessi materiali in gioco e per la classe politica italiana rappresentava un conflitto politico poco spendibile: non si capiva qual era la destra e quale la sinistra, era difficile creare delle partnership, e questo si è riverberato sulle reazioni dei mass media e dell’opinione pubblica. Io ricordo solo qualche piccolo gruppo, in genere cattolico, che si muoveva per pura solidarietà umana, ma non mi vengono in mente grandi manifestazioni pacifiste a favore di Sarajevo assediata. Il disorientamento politico spesso si accompagna anche a una certa inerzia di tipo morale. Quindi le ragioni di “dimenticanza” sono prevalentemente politiche?

Perlopiù sì. Poi c’è anche un ultimo elemento che ha più direttamente a che vedere con l’informazione. Quando si tratta di conflitti incancreniti, lunghi e senza grandi svolte o apparenti novità, scatta un meccanismo quasi televisivo: se non ci sono colpi di scena, né affabulazione del conflitto e mancano delle figure forti o terribili che riescano a favorire il racconto di una situazione, nel


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bene o nel male, l’informazione diminuisce moltissimo la sua azione. Per esempio, il conflitto libico a un certo momento ha smesso di interessare, fino a quando non è stato preso Gheddafi, figura dagli elementi molto forti. Lo stesso vale anche per gli elementi positivi, per esempio, in Birmania, Au san suu kyi, che, con la sua figura carismatica, aiuta il racconto in una situazione per la quale altrimenti sarebbe stato difficile mantenere alta l’attenzione. Quando non ci sono mostri né eroi i conflitti sono molto più facilmente senza nome o incancreniti. Capita anche che mostri o eroi siano enfatizzati ad arte per favorire la narrabilità o il coinvolgimento dell’opinione pubblica?

Questo può essere un vizio giornalistico, ma in genere la descrizione riflette la realtà. Per esempio, il popolo Saharawi del Sahara occidentale – dove è stata sequestrata la nostra Rossella Urru – non ha un leader o una figura forte e questo rende molto più anonimo quel conflitto, confinandolo tra quelli incancreniti. Infatti l’informazione se ne occupa per il coinvolgimento di una cooperante italiana, ma se non ci fosse stato questo caso sarebbe stato un conflitto seguito solo da pochi esperti. Citava le categorie di buoni e cattivi, ma in guerra sono davvero nettamente distinguibili gli uni dagli altri?

I buoni sono le vittime innocenti, in genere le donne i bambini

Il Libro La vita oltre il conflitto Toni Capuozzo Il giorno dopo la guerra. tra la Bosnia di oggi e un’Italia lontana Feltrinelli 1996, 173 pp., 10,33 euro Un viag gio nella guerra di un popolo e nella memoria individuale: incredibili storie di sopravvivenza si mescolano alla rievocazione del dopoguerra italiano. Sullo sfondo, una troupe televisiva cattura immagini e racconti; in primo piano si affacciano i volti dei personaggi di un mondo minore, travolti da vicende inaudite. A Sarajevo, un passante compie un’estrema affermazione di dignità sotto gli occhi del cecchino che l’ha preso di mira. Il custode di uno zoo si prende cura di un orso taciturno, che resiste all’assedio mentre gli altri animali vengono mangiati. Il guardiano di un manicomio cerca di contrastare l'esuberanza amorosa dei pazienti. Un gruppo di sordomuti gioca silenziose partite di calcio in mezzo alle detonazioni delle granate. Una donna cieca vive gli odori e i rumori della guerra. Uno zingaro non rinuncia al nomadismo in una terra sempre più fitta di confini. “Non riuscite a dormire e guardate la città. Non si capisce se chi veglia invidi quelli che dormono. Forse si chiedono solo che cosa sogna adesso la città che dorme, dove vanno i sogni liberi di andare, nel silenzio di questa notte che durerà quarantadue mesi”.

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e i civili che non c’entrano con il conflitto. Ma tra le parti belligeranti?

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L’orrore della guerra sta nel fatto che la ferocia dello scontro porta in genere le parti belligeranti ad assomigliarsi. Cioè, vediamo che Gheddafi aveva esercitato una dittatura spietata, ma poi anche che i suoi oppositori non sono così differenti nel trattare l’avversario. E quanto più dura uno scontro – in particolare se ha caratteristiche di guerra civile, con i contendenti che parlano la stessa lingua, si conoscono, hanno identità confuse – tanto più si accumula una sorta di odio passionale, che manca invece nei conflitti più regolari, dove si affrontano nazioni diverse, con eserciti in divisa che parlano lingue diverse e, tra virgolette, hanno una certa professionalità nel condurre un conflitto. Per esempio, se uno osserva la Seconda guerra mondiale, vede il tedesco occupante in Italia compiere stragi civili e gli alleati radere al suolo Dresda e sganciare le bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima. Questo nulla toglie al giudizio storico sulle ragioni – guai se il nazismo non fosse stato battuto! –, però, a bocce ferme, si può dire che la guerra è contagiosa nella sua ferocia, sentimento che molto spesso i contendenti condividono, e che la storia è sempre scritta dai vincitori: di solito davanti ai tribunali internazionali compaiono i vinti.

Ha raccontato da inviato molte guerre, quelle della ex Jugoslavia, della Somalia, del Medio Oriente, dell’Afghanistan. Qual è la più dimenticata, o quella che è stata meno o peggio comunicata?

Nel Terzo mondo sono molte le guerre dimenticate. Per esempio la Somalia – e penso alla carestia dell’anno scorso e alle migliaia di profughi – non sarebbe tornata a fare notizia, se non ci fosse stato il fenomeno della pirateria a toccare interessi occidentali. Ci sono sicuramente molti conflitti dimenticati fino a quando qualcosa non scompagina quelle ragioni alle quali accennavo prima. Poi ci sono anche i conflitti in cui l’Occidente ha qualcosa da dimenticare. Penso ai bombardamenti sulla Serbia, ai tempi della cosiddetta guerra del Kosovo. La coalizione Nato vuole ispirarsi a principi di democrazia anche nel momento in cui sceglie di usare lo strumento militare: bombarda treni di civili, l’ambasciata cinese, la televisione serba, uccidendo dei tecnici più che innocenti. E questo viene ricordato poco. È scomodo ricordare che anche l’Occidente delle democrazie quando dissotterra l’ascia di guerra non sempre riesce a mantenere saldi una serie di comportamenti che comunque dovrebbero mitigare la ferocia del conflitto. Le stesse convenzioni di Ginevra sono la constatazione malinconica che purtroppo, non potendo essere il nostro mondo esente da guerre, tanto vale stabilire delle re-


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gole, linee rosse che, però, talvolta varchiamo anche noi.

apparire oggi ormai inadeguata a definire i conflitti.

Parlare di guerre umanitarie si può o è una contraddizione in termini?

In che senso?

L’espressione guerra umanitaria suona come un ossimoro. Ma credo che, se assisti a un gesto di violenza e non intervieni, rischi l’indifferenza, esattamente come se vedi qualcuno picchiato per strada e lasci correre. Certo, si può decidere se intervenire e menar le mani a propria volta per fermare la prepotenza o chiamare la polizia. L’ingerenza umanitaria – il cui padre dal punto di vista della comunità internazionale è Clinton – per me è più che legittima. Però ci sono molti modi di usare lo strumento militare pacificatore che non costituiscono guerra, termine che ha sempre un significato di aggressione, di rottura di uno statu quo. Un intervento militare costa sempre vittime – le bombe intelligenti e la guerra chirurgica sono un’illusione –, ma se oggi lo strumento militare venisse utilizzato per esempio in Siria per fermare certe carneficine e anestetizzare un’aggressione contro i civili, dal punto di vista etico io non sarei contrario. Il problema atroce per chi decide certe misure è capire gli sviluppi e purtroppo fare un calcolo triste, da droghiere: per evitare la morte di migliaia di persone, quante persone sono legittimato a uccidere? Sono decisioni che non dovrebbero mai essere prese con leggerezza. Comunque, è la parola guerra ad

Le guerre di oggi sono diverse da quelle del passato di cui sono pieni i nostri libri di storia. Spesso l’umanità ha fatto anche dei passi in avanti grazie alle guerre, le civiltà hanno viaggiato anche sulla punta della spada. La fine della guerra era un addio alle armi con cui vecchi nemici tornavano a rispettarsi, pensiamo a un tedesco occupante nell’ultima fase del secondo conflitto mondiale in Italia che nel giro di pochi anni diventa il turista delle nostre riviere. Anche il dopoguerra, per esempio per come lo ha vissuto uno della mia generazione, era un periodo povero, ma anche tutto sommato felice, perché si percepiva che si stavano ponendo le basi per la rinascita economica. Oggi è diverso. Le guerre spesso non sono dichiarate dalle cancellerie, non ci sono armistizi firmati da Stati maggiori, né la fine del conflitto è l’addio alle armi. Anzi, troppe volte i dopoguerra sono addirittura più sanguinosi che non le guerre stesse –come a Baghdad dopo Saddam –, o sono semplicemente il silenzio delle armi – come il Kosovo e Mitrovica, confine invisibile tra serbi e albanesi ma ancora molto saldo nell’anima delle persone. E il principio dell’autodeterminazione dei popoli? Vale sempre o vale a volte? Chi sceglie e come?

Non noi, né le Nazioni unite. Per esempio, in Siria chi fa vale-

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re l’autodeterminazione del popolo siriano? C’è un dittatore che può mettere in piedi dei referendum farsa... Il principio di determinazione dei popoli è nobilissimo, però, come spesso succede, finisce per essere molto astratto. Sarebbe bello che tutto il mondo avesse la maturità e la saggezza di confrontarsi con i voti, l’alzata di mano, nelle piazze, senza violenza. Ma non è così. Penso, per esempio, all’Egitto: c’è oggi un’autodeterminazione del popolo egiziano, ci son state delle elezioni, eppure credo che chiunque possa concludere che lo spirito della cosiddetta primavera araba in qualche modo abbia subito dei tradimenti, cioè una deviazione verso un governo militare e una maggioranza politica fortemente orientata in senso conservatore, almeno dal punto di vista del rapporto con la religione. E quindi?

Quindi, a volte, quella che a noi pare autodeterminazione è semplicemente il pensiero manifestato da una minoranza più illuminata, più coraggiosa, più avanti degli altri. Poi, però, la maggioranza, che è quella che conta in democrazia, la pensa diversamente e persino certi cambi possono apparire dei passi all’indietro. Ricordo l’ingenuità dell’Occidente alla vigilia della guerra in Bosnia, quando propose un referendum che in realtà accelerò il conflitto. Ci sono degli equivoci persino lessicali: quello che a noi sembra

quieto, pacifico e persino logico e razionale altrove può essere interpretato in tutt’altro modo e dare dei frutti contrari a quelli auspicati. Ma a livello mondiale chi decide che cosa è auspicabile? Non si corre il rischio che sia il più forte?

Oggi il mondo è più povero che mai di un governo globale. A molti piace parlare di nuovo ordine mondiale, ma a me sembra che dalla fine dei due blocchi ci sia semplicemente molto più disordine nel mondo. È più facile forse parlare di governo mondiale nel campo dell’economia, dove ci sono poteri in grado di condizionare, ma dal punto di vista della nascita e dello sviluppo delle democrazie, degli ordinamenti politici e dei conflitti, credo che gli Stati Uniti non riescono e neanche vogliano essere il gendarme unico del mondo, né le Nazioni unite sono il governo globale quieto e responsabile, auspicato quando sono nate. E persino il crescere di nuovi attori anche sul piano politico – come la Cina o la Russia – non fanno altro che confondere le acque. Basti pensare al veto cinese e russo sulla risoluzione in Siria o alla politica della Cina in Africa, per la quale contano gli affari e basta, senza mai uno sguardo all’identikit democratico o meno di un paese, cosa che, invece, bene o male la Comunità europea continua a fare. Il mondo oggi è molto disordinato. E se nel campo dell’economia una


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Toni Capuozzo

razionalità, magari cinica, comunque c’è, la stessa è difficile da trasferire sul piano della politica, dove hanno il sopravvento passioni, emozioni e ideologie, tutti fattori molto più difficili da governare.

L’Intervistato

toni capuozzo Giornalista dal 1979, lavora a Lotta Continua, per la quale segue l’America Latina, e diviene professionista nel 1983. Dopo la chiusura di Lotta Continua scrive per il quotidiano Reporter e per i periodici Panorama Mese ed Epoca. Durante la Guerra delle Falkland (1982) ottiene un'intervista esclusiva al grande scrittore Jorge Luis Borges. Successivamente, si occupa di mafia per il programma Mixer di Giovanni Minoli. È inviato per la trasmissione L’istruttoria. In seguito, collabora con alcune testate giornalistiche del gruppo editoriale Mediaset (TG4, TG5, Studio Aperto), seguendo in particolare le guerre nell’ex Jugoslavia, i conflitti in Somalia, in Medio Oriente e in Afghanistan. Vicedirettore del TG5, dal 2001 cura e conduce Terra!, il settimanale del TG5. Attualmente tiene tre rubriche sulla carta stampata: una sul quotidiano Il Foglio, una sul mensile del Touring Club Italiano, una su Riders.

L’Autore cecilia moretti Giornalista professionista, è redattrice di FareitaliaMag. Collabora con Lettera43.

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Quando è l’odio a colmare la diversità

Kosovo, la banalità del MALE della guerra Una carneficina tra abitanti di una stessa terra, nazionalismi esasperati, diritti umani violati, un territorio prostrato. Poi l’intervento della comunità internazionale e le bombe. Il bilancio, oltre le troppe vittime, è fatto di cicatrici indelebili e di un paese proclamato unilateralmente indipendente, con uno status che per altri è un precedente pericoloso. 53 di CECILIA MORETTI

«La guerra è cominciata per un pezzo di terra. La guerra tra la Serbia e il resto del mondo si è combattuta per un semplice pezzo di terra, una macchia sulla pianta del mondo, con monti e prati, boschi e miniere, una terra fertile, sterile, semplice, terra pesante come la vita, terra devastata, terra nera. Questa guerra è stata la rapina del territorio, quello stesso che volevano gli uni e gli altri: quelli che hanno vissuto e lavorato su di esso, e ne cercavano la proprietà, e quelli che la proprietà non l’avrebbero mai potuta avere, e volevano ottenerla con la forza. Il richiamo alla storia si è trasformato nel conto necrofilo dei guerrieri caduti. Sarà possibile portare alla luce questo tesoro storico solo con un’esumazione, con un’autopsia gigantesca

con cui dal mucchio delle ossa ritrovate si tenterà di separare quelle serbe dalle altre. Quelle stesse ossa che adesso, insieme, servono solo da concime per questa terra disgraziata». Biljana Srbljanovic, drammaturga serba che decise di non abbandonare la sua Belgrado sotto le bombe, salutava così la fine della guerra nella pagina di diario del 23 giugno 1999. Iniziava allora la difficile cicatrizzazione dell’ultima ferita dei Balcani, quel mosaico di nazionalità, culture, etnie e religioni, con distanze talvolta così grandi da poter essere superate solo con l’odio, come ebbe a scrivere Ivo Andric. Accadde così anche nel caso del Kosovo, la piccola lingua di terra montagnosa e senza approdi al mare, racchiusa tra


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Serbia, Macedonia, Albania e “questione interna”. In tutta riMontenegro nell’estremità sud- sposta alle istanze separatiste, nel occidentale della Penisola Balca- marzo dell 1989 furono approvanica. Un piccolo appezzamento te delle leggi costituzionali che di terreno dove la convivenza in- limitavano l’autonomia del Kotima tra l’etnia albanese musul- sovo concessa da Tito: venne remana e quella serba ortodossa ha vocato lo status paritario goduto reso il gioco facile a chi, soffian- dalla lingua albanese-kosovara, do sul senso di appartenenza, ha che fino ad allora era stata lingua esasperato i nazionalismi fino a co-ufficiale nel Kosovo accanto al trasformare due popoli connazio- serbo-croato, furono chiuse le nali in due nemici dentro la stes- scuole autonome e rimpiazzati i funzionari amministrativi e gli sa casa. Da sempre oggetto di controver- insegnanti di etnia albanese con sie con i serbi, la regione del Ko- persone serbe o ritenute fedeli alsovo, popolata da una maggio- la causa serba. Nel giugno dello stesso anno il preranza di lingua albanese e tra le zo- Quella che per il leader sidente Miloševic ne più sottosvivenne incoronato a luppate della fe- serbo era una paladino del nuovo derazione, costituì “questione interna”, nazionalismo serun nodo cruciale bo, quando, nel nella dissoluzione sarebbe diventato giorno del seicendella Jugoslavia. un problema mondiale tesimo anniversaL’autonomia conrio della sconfitta cessa alla provincia kosovara già dei serbi per mano ottomana, dalla Jugoslavia di Tito, non ba- pronunciò un discorso nel quale stava più all’etnia albanese, le ri- promise al popolo serbo: «Nessuvendicazioni autonomiste si fece- no vi toccherà più», dinnanzi ai ro indipendentiste, per le piazze serbi kosovari, là nella “piana dedella regione era sempre più fre- gli uccelli neri”, dove nel 1389 quente sentire riecheggiare lo furono trucidati dai turchi 10mislogan “Kosovo republika” e di la nobili serbi. giorno in giorno diventava sem- Dal 1989 al 1995, la maggioranpre più esplicita la richiesta alba- za albanese del Kosovo fece sentinese che il Kosovo diventasse la re la sua voce con una campagna settima repubblica della Jugosla- di resistenza non violenta sotto la via socialista, con il distacco dal- guida del partito Ldk e del suo la Serbia. leader Ibrahim Rugova, mentre i Quello che di lì a poco sarebbe rapporti di convivenza tra le due diventato un problema mondiale etnie venivano sempre più esada risolversi in un conflitto ar- sperati. Nel ‘96, con la fine della mato, per Slobodan Miloševic – guerra in Bosnia-Erzegovina, presidente della repubblica di nacquero tra i separatisti albanesi Serbia dal 1989 – restava una formazioni armate, che si orga-


LE GUERRE DIMENTICATE Cecilia Moretti

IL FILM

La guerra raccontata a “Radio West” Tre soldati italiani in missione all’estero e una giovane ragazza albanese in lotta per la propria sopravvivenza. Sono questi i protagonisti di Radio West, film diretto da Alessandro Valori e ambientato nel corso della guerra in Kosovo. Ale, Rizzo e Petroni sono tre ragazzi del contingente di pace multinazionale della K-FOR. Ognuno per ragioni diverse, viene catapultato nella dura realtà della guerra fratricida tra serbi e albanesi. Ale è un giovane soldato che ha imparato a non fidarsi di nessuno ma che non vuole arrendersi alle brutture della guerra; non ricorda più il motivo per il quale si è arruolato, ma è proprio per questo che, con i compagni, ostenta durezza e intransigenza. Petroni è il tipico soldato tutto d’un pezzo, che pensa solo a eseguire gli ordini del Capitano. Burbero, orgoglioso e senza grilli per la testa, è l’esatto

contrario di Rizzo, ragazzo semplice e troppo ingenuo, che tenta sempre di sdrammatizzare le circostanze grigie come quella della lotta quotidiana e a non perdere la speranza di riuscire a far qualcosa di buono per quel popolo dilaniato che ogni giorno si trova davanti agli occhi. La speranza nel futuro, invece, l’ha persa Iliana, ragazza lacerata dalla guerra e con una personalità ambigua che sembra oscillare perennemente tra ferocia e fragilità nei confronti della vita e del prossimo. Alessandro Valori narra un dramma nel dramma. O meglio, tanti piccoli drammi quotidiani legati da un unico, tragico fil rouge - la guerra appunto - che si alternano tra loro accompagnati dalla musica di Radio west, emittente radio gestita dai militari italiani in Kosovo. (F.S.)

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nizzarono nell’Uck, l’“Esercito di nell’accordo una appendice in cui liberazione del Kosovo” che si si prevedeva l’occupazione militascontrava con le postazioni mili- re della federazione serba da parte tari e le entità statali serbe. Le della Nato, i rappresentanti serbi azioni dell’Uck non restarono abbandonarono il negoziato, consenza risposta, i nazionalisti serbi siderato inaccettabile dalla parte reagirano con una campagna anti serba da un’ampia fetta della polispinte indipendentiste albanesi tica internazionale e dallo stesso fitta di incendi di case, distruzio- ex segretario di Stato americano ni di villaggi, stupri, omicidi, Henry Kissinger, non favorevole violenze perpetrate contro la par- all’intervento militare Nato, bolte più debole della popolazione, lato come una «provocazione, una che provocarono, l’esodo di cen- scusa per iniziare il bombardatinaia di migliaia di profughi ver- mento». so l’Albania e altri paesi europei, I contingenti Nato decisero allora assumendo i tratti di una atroce di intervenire, e con il patrocinio dell’allora presioperazione di pudente Usa Bill lizia etnica. Oltre due mesi di Clinton, fu varato Per tutto il ’98 la guerriglia messa bombe: 34mila missioni il cosiddetto metodo delle guerre in atto dall’U ck aeree, 20mila lanci tra umanitarie, una continuò, la restrategia di interpressione delle for- bombe e missili, 450 vento bellico in dize di sicurezza ser- bersagli fissi distrutti fesa dei diritti be divenne sempre più pesante e sanguinosa e l’opi- umani non rispettati. Le prime nione pubblica mondiale sempre operazioni militari per tentare di più insofferente verso una situa- dissuadere Miloševic e i suoi zione, riverberata dai media di dall’intraprendere una vera e protutto l’Occidente con i suoi con- pria guerra restarono senza frutto, notati più mostruosi. Gli ordini il leader serbo, confidando anche di ritiro delle forze armate e di nell’appoggio della sua decisione cessazione delle violenze da parte da parte della Cina e della Russia, della Nato furono ripetuti e pe- con le quali vantava saldi legami, rentori, ma né la politica di dis- non indietreggiò. Si passò allora suasione né le minacce portarono alla seconda fase, per la quale frutto. Fu tentata la via diploma- l’Italia, allora sotto il governo tica con l’avvio dei negoziati di D’Alema, autorizzò l’utilizzo dei Rambouillet, fortemente voluti propri spazi aerei e basi Nato. Tra dagli Stati Uniti, ma l’accordo l’aprile e il giugno del ‘99, 77 non fu trovato. Quando il segreta- giorni di bombardamenti si abrio di Stato Usa Madeleine Al- batterono sulla Serbia: 34mila bright si impegnò a garantire il missioni aeree, 20mila lanci tra distacco del Kosovo dalla Federa- bombe e missili, 450 bersagli fissi zione entro tre anni e introdusse distrutti. Accanto agli obiettivi


LE GUERRE DIMENTICATE Cecilia Moretti

militari, alla torre della tv serba e all’ambasciata cinese a Belgrado, qualche tragico errore non mancò di colpire i civili, dell’una o dell’altra etnia. «Le nostre vite somigliano sempre di più a delle tragedie greche – scrive Biljana Srbljanovic il 15 maggio 1999 nel suo diario, commentando l’orrore di quei giorni: – un mucchio di vicende terribili, tanto sangue, carneficine, tradimenti ed errori, e tutto per confermare una verità comune. Nel nostro caso la morale è questa: la guerra non è buona (è cattiva?). Per essere più precisi, è banale. In guerra soffrono più di tutti proprio quelli in nome dei quali la guerra è scoppiata. Il nostro presidente l’ha iniziata, come dice lui stesso, in nome del popolo serbo. La Nato ha risposto in nome del popolo albanese del Kosovo. Poi è seguito il macello. E le conseguenze più gravi le hanno subite proprio i popoli albanesi e serbi, cittadini legittimi e illegittimi di questo paese». L’8 giugno sono cessati i bombardamenti, il governo serbo è capitolato e si è raggiunto un accordo di pace russo-occidentale per il Kosovo, che prevedeva la fine delle violenze e della repressione nella regione, il ritorno dei profughi albanesi, il disarmo dell’ Uck e una presenza internazionale con ruolo da garante sul territorio. A nazionalistico memento di quello che è stato e lugubre dimostrazione di una memoria che non ha intenzione di dimenticare, Belgrado porta tuttora volontariamente i segni di

quei giorni, tra le voragini dei bombardamenti lasciate intatte sugli edifici ricostruiti di fresco, le targhe per le strade a ricordare esplosioni e vittime, i cartelloni pubblicitari sugli autobus che ringraziano i paesi che hanno contribuito alla ricostruzione. Nel Kosovo, nonostante la supervisione straniera, la convivenza dei due popoli – tra ritorni di esuli albanesi e contro-esodi serbi – ha continuato a essere dolorosa e complessa, scandita da apartheid, lacerazioni, boicottaggi, appartenenze divisive. Nel 2007, scaduto il periodo dei negoziati condotti dall’Onu, le posizioni serbe e albanesi sono rimaste invariate. Il 17 febbraio 2008 il Parlamento di Pristina ha proclamato unilateralmente l’indipendenza del Kosovo, status giuridico riconosciuto da 83 dei 193 paesi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Oltre a Stati come Russia e Cina, membri permanenti del consiglio di sicurezza con diritto di veto, in Europa sono cinque i paesi (Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro) che non riconoscono il Kosovo, nel timore di un precedente che possa presto o tardi ritorcersi contro di loro.

L’Autore cecilia Moretti Giornalista professionista, è redattrice di FareitaliaMag. Collabora con Lettera43.

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(Mala)educazione russa

La “matrigna” Russia? Ve la spiego io... È antiputiniano, ma crede che Vladimir Putin sia l’unico politico in grado di gestire la Russia di oggi. Ma per l’autore di “Educazione siberiana”, il suo paese non cambierà con una rivoluzione. Basta la cultura della legalità, la ribellione all’omologazione e il ritorno a radici identitarie che sono andate smarrite (anche in Italia). 58

intervista a NICOLAI LILIN di ANTONIO RAPISARDA

Che qualcosa in Russia potesse cambiare con il risultato di una tornata elettorale non se lo aspettava: «Non c‘era da illudersi». Nicolai Lilin – scrittore e tatuatore di origini siberiane educato alla maniera degli Urca lì, in Transnistria, dove i suoi sono stati deportati da Stalin – non legge le pagine della storia con la lente deformata dal facile entusiasmo: non fosse altro perché un determinato fatalismo, imparato dai codici della strada, lo conosce molto bene. Per questo la vittoria di Vladimir Putin alle Presidenziali non la giudica, nonostante viva ormai stabilmente in Italia, con le categorie dei media occidentali: al contrario, la valuta come inserita tutta nella vicenda di una terra «che non conosce ancora il senso della parola

democrazia». Ma non è per nulla scontato che la subisca emotivamente. Cerca, invece, di capirla e di spiegarcela. E quello che dirà non piacerà a tutti. Nicolai, Putin è riuscito a tornare al Cremlino. Che cosa accadrà adesso, continuerà questo movimento di protesta?

Io l’ho detto e scritto più volte, che tutto in Russia rimane così com’è. Nonostante la stampa, il giornalismo internazionale cerchino di accendere i riflettori, più di quello che meritano, sulle manifestazioni di dissenso. Sono state poche, e quasi tutte insignificanti. Perché San Pietroburgo e Mosca, che sono le città dove si manifesta di più il sentimento critico a Putin, non rappresentano di certo la Rus-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Nicolai Lilin

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sia. È vero, sono città importanti, ma non danno il senso del grosso del paese. Perché?

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In queste realtà le persone hanno costumi più occidentalizzati, più globalizzati. Riescono a percepire la vita, la situazione attuale, molto meglio di persone che vivono in periferia. Purtroppo, però, loro non fanno la Russia. Chi conosce quella terra sa bene come in realtà i moscoviti sono odiati, ci sono proverbi, modi di dire che lo testimoniano, non sono popolari. Anche per questo Putin rimane forte: finché la mentalità dei russi non cresce e con questa cresce la capacità di percepire il senso della parola democrazia, la necessità dei meccanismi sociali. La Russia non è un paese sociale. Be’, ha conosciuto decenni di socialismo.

Gli anni del comunismo non hanno fatto per nulla bene: la socializzazione forzata non ha funzionato. Ha trasformato il popolo in un branco di ladri e bugiardi. Adesso è un paese allo sfascio. Ha bisogno di essere ricoltivato. Putin sta facendo questo. Putin come una sorta di ennesimo “male necessario”?

A me lui non piace. Non fosse altro perché ha lavorato per il Kgb, che ritengo la più importante tra le organizzazioni a delinquere. E quindi avere una persona del genere in un paese che rappresenta la sesta parte del mondo a me non suscita nes-

sun tipo di entusiasmo. Però, dall’altro lato, sono consapevole, facendo poche approfondite analisi, che lui è l’unica persona, l’unico politico che può oggi condurre il paese. Verso una sorta di democratizzazione della Russia?

Questo non succederà mai. Come si può democratizzare un popolo? Non avvengono mai i cambiamenti politici, sociali, che possano rispecchiare le aspettative proporzionali alla durata della nostra vita. Dobbiamo smetterla con questa arroganza di misurare con la solita “unità di misura” gli avvenimenti. Se vogliamo cambiare qualcosa dobbiamo seminare adesso: e forse la terza, quarta generazione potrà essere diversa da ciò che siamo. Noi stiamo vivendo in un sistema già formato. Possiamo solo cominciare a “deformarlo”. Ci parli di questo sistema?

In Russia è stata la Rivoluzione del ’17 a demolire il Paese, a distruggere il bagaglio culturale di un popolo. Quel che è avvenuto dopo è stata una pazza corsa: i crimini di Stalin, la morte di novanta milioni di persone. E tutto questo proprio perché ci sono state persone che volevano cambiare in breve tempo un sistema. Noi faremmo lo stesso nel momento in cui intendessimo democratizzare i russi. Vuoi sapere come funziona questo sistema? Sì.

Sono abituati alla corruzione. Ec-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Nicolai Lilin

co, come facciamo a spiegare che la corruzione è un male a una popolazione abituata a pagare l’infermiere di un ospedale per avere una prestazione? Lì sono abituati a pagare per gli attestati scolastici del proprio figlio, per farlo entrare all’università, oppure per non fargli fare il servizio militare: che è uno dei fondamenti di un paese civile, sviluppa nei cittadini il senso di appartenenza al proprio paese. Ecco, quando i cittadini di una nazione pagano per “non contribuire” al servizio di un paese è il massimo: io a persone del genere toglierei il passaporto, toglierei i diritti. È così la Russia oggi?

La Russia è un paese così grande, dove ci sono così tante persone , che è normale a un certo punto che si generino contraddizioni. Non a caso qui è nato il concetto di anarchia. La cosa che mi stupisce oggi, ad esempio, è vedere come – rispettivamente – sia cresciuto il neonazismo e una forma di nostalgia del comunismo in un paese che ha subito l’invasione nazista e la dittatura comunista. Insomma, è un paese caotico, con grandi problemi, che non ha ancora imparato a gestire.

vi” dissidenti sfruttano la possibilità di criticare un sistema per usarla per piccoli interessi privati. Un chiaro esempio: molti conduttori televisivi che sono diventati anti-putiniani. Qualche mese fa parlavi con grande enfasi delle manifestazioni e dei giovani coi “nastri bianchi”.

Speravo nei giovani. Sono un interessante terreno politico da coltivare. Anche perché molti di questi sono persone che hanno visto i prodotti del comunismo, ma anche l’incapacità dei vecchi sistemi di inserire le regole del capitalismo e della globalizzazione. Queste persone sono consapevoli che c’è un’alternativa: ma – è questo il loro problema – nessuno di loro ha la possibilità di un sviluppare un discorso con l’attuale classe dirigente in modo così da arrivare a un accordo, a una tregua. Anche se a noi non piacciono queste espressioni perché sembrano l’anticamera di un complotto, di un segreto, in Russia le persone devono fare questo: cercare un interlocutore e definire il futuro. Anche perché Putin non potrà fare lo zar della Russia per sempre. È quello che sostengono i contestatori.

Esiste una società civile?

Qualcosa di serio è sorto con il movimento dei dissidenti, che hanno tentato di creare un dialogo con altri paesi, con altre culture, ma che sono stati brutalmente combattuti dai comunisti. Oggi non vedo granché all’orizzonte. Soprattutto perché i “nuo-

Già, adesso ci sono dei movimenti nelle città principali: chiedono di consumare di più, di avere la macchina più grossa, le pensioni più alte, un servizio medico migliore… È come se non ti piacesse più di tanto l’idea che parte di questa contestazione

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RUSSIA

La versione di Anna

62 La Russia descritta dalla Politkovskaja (1958-2006) nel suo “La Russia di Putin” non è quella di una brillante potenza economica e democratica uscita con successo dall'epoca sovietica. È una Russia diversa, fatta da un esercito affamato e allo sbando e da madri forti e coraggiose, dove convivono affaristi mafiosi, politici corrotti, ma anche tante persone comuni che di fronte alle ingiustizie reagiscono adattandovisi. Ma soprattutto è il teatro storico di un presidente, Valdimir Putin, uomo del Kgb. C’è la storia del processo Budanov, raccontata in modo minuzioso e dettagliato, dove evidenzia come alcuni metodi sovietici – ad esempio l’utilizzo politico delle perizie psichiatriche – vengano riesumati ed utilizzati per un processo sul comportamento delle truppe russe in Cecenia. Ci sono le storie del Nord Ost – noto come Teatro Dubrovka – e di Beslan, di come le vittime e i superstiti siano, di fatto, vittime dello Stato, della strategia di antiterrorismo, della sfacciata dimenticanza del presidente e di chi avrebbe dovuto difenderli. L'immagine della Russia che esce da questo libro è cruda. Anche se non mancano i segni di speranza, è talmente basata su dati e documenti, su fatti di cronaca e atti, su testimonianze e racconti di persone comuni, che si percepisce come sia tragicamente vera. Anna Politkovskaja, giornalista russa, era considerata una delle voci più esperte e imparziali rispetto sulla in Cecenia. Durante il maxisequestro del teatro Dubrovka dell’ottobre 2002, fu l’unica ammessa dai terroristi a trattare e mentre tentava di raggiungere Beslan il 1° settembre 2004, subì un avvelenamento sull’aereo sul quale era riuscita ad imbarcarsi. Anna Politkovskaja venne ritrovata morta il 7 ottobre del 2006 – il giorno del compleanno di Valdimir Putin – nell’ascensore del suo palazzo a Mosca. La polizia rinvenne una pistola e quattro bossoli accanto al cadavere. La prima pista seguita fu quella dell'omicidio premeditato e operato da un killer a contratto; il mandante, tuttavia, è ancora oggi sconosciuto. Voci non confermate imputano il delitto proprio al presidente Putin, più volte bersaglio di pesanti critiche da parte della giornalista. (F.S.)


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Nicolai Lilin

chieda, tra le altre cose, una certa declinazione occidentale di libertà.

Non vedo nel consumismo una soluzione. Perché in ogni caso è un male. Quello che serve alla Russia è una forte iniezione di cultura, un forte mercato interno e poi dare più sicurezza. Oggi non c’è sicurezza istituzionale, perché le persone vivono immerse in una serie di meccanismi corrotti. Come termine di paragone possiamo immaginare alcune zone del nostro Sud Italia (ho avuto un’esperienza in un ospedale in Calabria e ho visto la differenza con quelli della Lombardia). Ecco, figurati in Russia, paese enorme con nove fasce orarie. Tutto questo forma una serie di situazioni che vengono sfruttati dai corruttori. Dubito che tutto ciò possa essere risolto con una semplice e nuova amministrazione del paese. Ci vuole un investimento a lungo termine. Con un meccanismo di riunificazione, non possiamo permettere che ciò che a Mosca non va bene da un’altra parte sia giudicato all’opposto. Fatico a comprendere, però, chi dovrà essere interprete di tutto questo.

Spero ancora nei giovani, che devono riuscire a creare una nuova categoria politica. Ma non serve fare rivoluzioni. Far scorrere sangue per strada è inutile, anche perché in questo modo il sistema che ricostruiremo nascerà sempre dalle basi di un sistema corrotto. Noi invece dobbiamo studiare, andare all’università, entrare nella politica e lì farci valere. Quello

che oggi dimenticano i giovani è proprio questo: l’impegno. Sembra che la gente voglia solo consumare. E non contribuire. Sì, abbiamo dimenticato un’antica regola: quella per la quale quando si chiedeva una cosa a Dio bisognava prima concedere un sacrificio a Dio. Da questo detto – così come dai tuoi romanzi - si percepisce quanto è stata importante la tua formazione. Soprattutto quella che hai imparato dai combattenti che si sono opposto all’imperialismo sovietico.

Io, per fortuna, non ho mai lottato contro l’imperialismo. Però sono cresciuto con la base educativa, con le suggestioni culturali, di persone che l’hanno affrontato. Mio nonno era anticomunista e nella mia famiglia ci sono stati anche dei martiri che hanno combattuto contro l’imperialismo sovietico. L’imperialismo è il male, innanzitutto perché cancella il sociale. Quando parliamo di socialismo, quello umano, vero e sano, noi partiamo prima di tutto dalla persona. L’imperialismo, invece, si rivolge alla massa, dialoga con la massa e non sopporta l’individuo. L’imperialismo si ha quando c’è una persone, o una serie di persone, che gestiscono la massa e questo uccide l’uomo. Dobbiamo imparare a essere individui, con senso di orgoglio, di onore, di dignità. Ma soprattutto con senso di appartenenza: non mi sento una piuma che volteggia nell’aria. Sono un individuo che sta coi piedi per terra, conosco la mia

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cultura e la preferisco alle altre. Quest’ultimo punto – la rivendicazione identitaria – in molti non te lo perdonerebbero.

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Non capisco questo finto pacifismo, questo finto garantismo – sviluppato da alcuni eventi storici – dovuto al fatto che, parlo ad esempio dell’Italia, siamo un paese piccolo, con un governo deciso da paesi imperialisti come gli Stati Uniti. Noi non possiamo essere italiani, ma solo omologati, come quelli che vogliono che suoniamo il mandolino. Per uscire da questo cliché, dobbiamo investire nella nostra cultura, nel nostro sviluppo, nella nostra intelligenza. Lo diceva Antonio Gramsci: imparate, perché un giorno avrete bisogno di tutta la vostra intelligenza. Noi oggi affrontiamo lo stesso problema: siamo diventati la proiezione del pensiero di qualcun altro. Per riprendere noi stessi dobbiamo smettere di disonorarci. Fa un certo effetto sentire un uomo nato in una terra così distante dalla nostra, rivendicare l’Italia.

Nel mio libro dico di essere orgoglioso di essere italiano, non capisco il motivo per cui molti italiani disprezzano il loro paese. Per questo non sopporto il fatto che questi nostri due marò, questi nostri due fratelli, rimangano sequestrati in un paese imperialista come l’India, sapere che i nostri due militarti – qualunque sia la loro responsabilità – sono bloccati in terra straniera. Ma soprattutto questa è l’ulteriore

conferma che i nostri rappresentanti storicamente non valgono niente. Noi non contiamo niente, e per recuperare dobbiamo diventare intelligenti. Dobbiamo re-imparare a essere una nazione: che passa anche dal difendere Dante e la Divina Commedia dalla banalità di chi – in nome del politicamente corretto – vorrebbe censurare una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi. Che sia questo – il livellamento – il peggiore degli imperialismi?

In realtà il mondo così non viene uniformato ma diviso. Già da diverso tempo noi abbiamo diviso il mondo in paesi occidentali e paesi di Terzo o Quarto mondo: ma che razza di espressione è questa? Li abbiamo già condannati. Per me ognuno ha il diritto di essere se stesso, poi ciò che accade nel proprio paese sono fatti suoi. Noi non possiamo trattare tutti con la categoria che rappresenta noi stessi. A me, ad esempio, il modello americano non piace: mangiano male, non sono ben formati. L’unica cosa positiva che hanno? La libertà di possedere le armi. Solo che non la sanno utilizzare e si ammazzano come cani. Bella questa. Non l’avevo mai sentita.

Nel Rinascimento – che è nato qui in Italia e che ha contributo allo sviluppo del mondo, al modo di comprendere l’arte e l’immaginario – ogni cittadino poteva avere un’arma, un coltello, la spada di lato. Col tempo, quando


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Nicolai Lilin

la politica è diventata corrotta, il nostro paese ha cominciato a subire i danni provocati da entità terze. Qui, tra le altre cose, sono entrati i divieti: uno di questi è l’uso di armi. In Irlanda fino a qualche tempo non si poteva portare nemmeno un coltello con la punta. Una legge, questa, che proveniva direttamente dall’imperialismo britannico. Ma che cosa hanno da insegnare i britannici? I loro giovani sono quasi tutti alcolizzati, non sanno come sfogarsi, hanno aperto le porte al terrorismo islamico, sono coinvolti in tutte le guerre. E che fanno? Intervengono con leggi razziste arrivando a vietare anche i coltelli da cucina. Insomma, noi dobbiamo imparare a riconquistare i nostri diritti. Non con la violenza, ma con sacrificio e duro lavoro.

L’Intervistato

Nicolai liNiN è uno scrittore russo di origine siberiana, nato nel 1980 a Bender, in Transnistria (stato indipendente riconosciuto oggi come Repubblica Moldava, ma all’epoca facente parte dell’Unione Sovietica) e dal 2004 si è trasferito in Italia. Nel 2009 pubblica per Einaudi Educazione siberiana, il suo romanzo d’esordio, scritto direttamente in italiano, che diventa subito un caso editoriale. Senza ideologie né filtri, Lilin scrive della guerra in Cecenia come

Quanto è stato importante nascere in Transnistria?

Sono nato lì, in un posto dove le persone, per cultura, cercavano di combattere il regime sovietico. In realtà, guardando a alcuni principi del regime, quelli “sani” sono filtrati. Solo che sono i siberiani a rappresentare i “veri” comunisti: perché lì il principio di condivisione dei beni è sacro. Spesso, infatti, questo principio viene offuscato e tradito dai politici, perché arrivando al potere ci si dimentica delle persone per trasformare tutto in massa: si sa, la massa è più facile da controllare.

nessuno aveva ancora fatto, trasformando quel conflitto nello specchio di tutte le guerre contemporanee, iper tecnologiche, disumane. Il romanzo nel 2010 vince il Premio Minerva per la “Letteratura di impegno Civile” ed il Premio “La Magna Capitana” di Foggia ed è finalista ad altri tre premi letterari. Oltre a dedicarsi alla scrittura, Nicolai Lilin scrive per Repubblica e L’Espresso e collabora con altri magazine.

L’Autore aNtoNio rapisarda Giornalista professionista. Collabora con il Secolo d’Italia e Fareitaliamag.

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LE GUERRE DIMENTICATE Filippo Cinoglossi

TRANSNISTRIA, uno Stato nello Stato L’instabilità nella regione indipendentista della Moldavia è la sintesi perfetta dell’interesse russo a frenare l’espansione a Est dell’Unione europea e della Nato. Ma alcuni sviluppi recenti sembrano in grado di far calare la tensione. di FILIPPO CINOGLOSSI

La Transnistria, una striscia di terra posta a oriente del fiume Dnjestr, che la separa dal restante territorio moldavo, aveva proclamato già nel settembre 1990 la propria indipendenza, per iniziativa della consistente minoranza di lingua russa, in seno a quella che allora era ancora la Repubblica socialista sovietica di Moldavia. Sin dall’inizio l’obiettivo dei dirigenti della Transnistria era stato posto nei termini di una riaggregazione all’Unione Sovietica, la quale però nel corso del 1991 si dissolveva. Tra il 1991 e il 1992 si aprì un conflitto tra i secessionisti della Transnistria, sostenuti militarmente da Mosca, e l’esercito moldavo, che provocò in tutto un migliaio di vittime: nel luglio 1992, un accordo tra la Russia e la Moldavia – nel frattempo divenuta indipendente – riconobbe alla Transnistria il diritto di separarsi nel caso in cui la Moldavia si fosse unita alla Romania.

Nel frattempo le autorità della Transnistria, estesa poco più di 4.000 km² e con meno di 600.000 abitanti, completavano il proprio assetto istituzionale, mirando a stabilire i tratti caratterizzanti e gli emblemi di una piena statualità: venivano pertanto individuati una bandiera, un inno nazionale, una capitale (Tiraspol), una moneta (il rublo della Transnistria), un sistema educativo, una banca centrale, un Parlamento (che si chiama ancora soviet supremo), proprie forze di sicurezza. Alla ricerca di un’identità statuale

L’esperienza di circa un ventennio in cui la situazione fra Transnistria e Moldavia è rimasta sostanzialmente congelata, seppure senza ulteriori confronti armati, dimostra da un lato la rilevanza politico-strategica per Mosca ma parimenti la volontà dei ceti dirigenti della Transnistria di fornire al territorio

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un’identità forte, o almeno suf- smo sfociavano naturalmente in ficiente a legittimarne le aspira- una pronunciata dipendenza dalzioni indipendentistiche nel la Russia, simboleggiata anche dall’importanza storica conferita lungo periodo. Se è vero infatti che anche la alla figura del maresciallo Suvoquestione della Transnistria con- rov, che aveva conquistato la refluisce per diversi profili con gione della Bessarabia nel 1792 quella più generale delle situa- ed è considerato il fondatore di zioni “calde” ai confini dell’im- Tiraspol. menso territorio della Federazio- L’ideologia di matrice sovietica ne russa, è altrettanto vero che in giungeva fino a sostenere – per Transnistria la speciale identità la verità con scarsi riscontri che si vuole rivendicare non può scientifici – che le popolazioni appoggiarsi su motivazioni di ti- della Bessarabia parlavano una po etnico, in quanto le due etnie lingua scritta in caratteri cirillirussofona e ucraina superano nel ci e diversa da quella romena, come anche a necomplesso la pregare che la Transenza moldava, Il prodotto interno snistria – che pure ma questa rimane comunque la più lordo della Transnistria non ha mai goduto nella storia di cospicua. Pertanto è più di un terzo una propria indiè stato necessario pendenza – avesse l e g i t t i m a r e l e dell’intera economia mai fatto parte aspirazioni identi- della Moldavia della Moldavia. tarie del territorio con riferimenti di tipo storicoculturale, quali l’armoniosa coe- Il ruolo di Igor Smirnov sistenza delle tre componenti et- Un altro tratto distintivo delniche, l’orientamento nel com- l’identità della Transnistria è staplesso di tipo slavo-orientale e il to giocato sul piano economico e moldovenismo. su quello politico-simbolico, Quest’ultimo concetto allude a esaltando la prosperità peculiare un’ideologia alimentata dal- di questa regione rispetto alla ril’Unione Sovietica nel periodo va destra del Dnjestr, in parallelo tra le due Guerre mondiali, volta al culto della personalità del prea distinguere le popolazioni della sidente, solo recentemente non Bessarabia, che aveva fatto parte rieletto, Igor Smirnov. dell’impero russo fra il 1812 e il Sul piano economico, infatti, la 1918 e poi era tornata all’Unione Transnistria rappresenta solo il Sovietica a seguito del patto Mo- 10% della superficie e il 17% dellotov-Ribbentrop, dalle popola- la popolazione totale moldava, ma zioni che facevano riferimento al- il prodotto interno della regione è la vicina Romania. Sia il concet- più di un terzo di quello dell’inteto dell’orientamento slavo-orien- ra nazione. Anche in questo caso tale che quello del moldoveni- deve farsi riferimento alla politica


LE GUERRE DIMENTICATE Filippo Cinoglossi

sovietica verso la regione, che ave- Tra regime autoritario va privilegiato nettamente la pre- e “capitalismo di contrabbando” senza industriale in Transnistria Assai problematico appare inolrispetto al carattere essenzialmen- tre il grado di democraticità delte agricolo della Moldavia. Per le consultazioni elettorali in quanto concerne la figura di Igor Transnistria, che non sono mai Smirnov, questi, di origine sibe- state oggetto di osservazione imriana, direttore di una impresa parziale e godono assai scarso elettrica e sindaco di Tiraspol, ini- credito a livello della Comunità zia la sua parabola al vertice poli- internazionale. Tale è stato anche tico della Transnistria nel settem- il destino del referendum del 17 bre 1990, ovvero già all’atto della settembre 2006, nel quale si è registrato un consenso plebiscitaproclamazione dell’indipendenza. Da allora, Smirnov è stato rielet- rio a favore dell’indipendenza to per quattro volte presidente, della Transnistria e della prospetda ultimo nel dicembre 2006, tiva della sua aggregazione alla Federazione russa: con consensi sempre crescenti. L’in- La Russia e la comunità svolto in un ambiente politico sieme del suo clan privo di mezzi di familiare e delle internazionale sue clientele si è non hanno riconosciuto comunicazione indipendenti e senza sempre confuso sostanzialmente con lo Stato, con- l’esito contestato del alcuna libertà di trollandone gran referendum del 2006 riunione, lo scruparte delle risorse. Sebbene poi dal dicembre 2005 tinio è stato giudicato negativavi siano stati segnali di un allar- mente dall’intera Comunità ingamento in senso pluralistico ternazionale, e persino la Russia dello spettro politico, con l’affer- non ne ha riconosciuto esplicitamazione del Partito del rinnova- mente la validità. mento a fronte di quello della Così, il referendum è stato un Repubblica di Smirnov, alcuni boomerang, poiché invece di legitosservatori hanno rilevato come timare le aspirazioni indipendensi sia trattato di un’operazione tistiche della Transnistria le ha prevalentemente di facciata, poi- piuttosto svalutate, anche perché ché anche il gruppo facente capo in casi paragonabili di referenal Partito del rinnovamento si dum per l’autodeterminazione, differenziava da quello di Smir- come quelli del Kosovo o del nov solo per un più marcato rife- Montenegro, non veniva parallerimento ad ambienti economici lamente richiesto agli elettori di locali, in particolare l’impresa legittimare la successiva conSheriff, che monopolizza moltis- fluenza in un altro Stato. sime attività economiche e com- Per quanto riguarda l’economia merciali e che appartiene del re- della Transnistria, essa si appoggia su una quindicina di imprese sto al figlio di Smirnov.

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alle quali fanno capo circa il 70% delle esportazioni, ed è tra l’altro favorita dai bassi prezzi dell’energia fornita dal gigante russo Gazprom. L’apertura al mercato è stata in Transnistria più lenta che in Moldavia, proprio a causa della presenza di complessi industriali integrati di tipo sovietico, che non avrebbero potuto reggere l’urto della concorrenza mondiale. La particolare situazione istituzionale e politica del territorio ha poi favorito la nascita di quello che è stato definito un capitalismo di contrabbando, nel quale, accanto a una serie notevole di attività economiche palesemente illegali, come i traffici di armi e di droga, vi sono altri aspetti che lucrano sulla situazione geopolitica del territorio, quali l’imponente flusso di riesportazione in Moldavia di prodotti importati dall’Ucraina con dazi bassissimi, quali la benzina, le sigarette, l’alcool, i prodotti farmaceutici e quelli alimentari: soprattutto l’impresa Sheriff viene indicata come beneficiaria di gran parte di questi traffici. L’influenza di Mosca

Mosca si riserva un droit de regard su tutte le vicende della piccola entità che è stato esercitato e tuttora si esercita in forme assai articolate, pur nel quadro di forte dipendenza già in precedenza accennato. Il carattere non scontato della collocazione della questione della Transnistria nell’azione diplomatica di Mosca deriva proprio dall’importanza strategica

della zona meridionale come uno dei teatri più importanti dell’azione di contenimento dell’espansione dell’Unione europea e soprattutto della Nato verso i confini della Federazione russa. La Russia non ha potuto tuttavia ignorare completamente la pressione diplomatica internazionale per una soluzione della questione della Transnistria: così il vertice Osce di Istanbul del novembre 1999 si chiudeva con la decisione del ritiro completo delle truppe russe dalla Transnistria entro la fine del 2002, e a tal proposito la Russia elaborava un progetto di accordo (memorandum Kozak) concernente la forma di uno Stato federale moldovano-transnistriano e la trasformazione delle truppe russe ivi stanziate in forze di peacekeeping sotto l’egida dell’Osce. Tutti questi progetti non hanno però avuto alcun seguito, anche per il fallimento di un’altra delle decisioni del vertice di Istanbul, ossia la distruzione di quegli armamenti che il Trattato sulle forze convenzionali in Europa (Cfe) aveva limitato, e che avrebbero dovuto sparire dal territorio della Transnistria entro la fine del 2001. La difficile situazione della legalità in Transnistria induceva comunque alla fine del 2005 l’Unione europea, su richiesta dei presidenti di Ucraina e Moldavia, a costituire la Missione di assistenza alle frontiere della Moldavia e dell’Ucraina (Euban), per sostenere le polizie di confine dei due paesi nell’arduo compito di controllo e contrasto ai traffici il-


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IL PERSONAGGIO

Stalin, il grande dittatore russo Josef Vissarionovic Dzugasvili, più noto con lo pseudonimo di Stalin – che in russo significa uomo d’acciaio – nacque a Tbilisi (in Georgia) nel 1879 da un ciabattino alcolizzato e da una lavandaia. Dal 1894 al 1899, grazie all’aiuto di un parroco, frequentò un seminario teologico dove potè conoscere le idee liberali e rivoluzionarie che in quegli anni si erano profondamente diffuse nel Caucaso. Nel 1898 si iscrisse ad un’associazione segreta di Tbilisi, ma quando fu scoperto venne espulso dal seminario. Cominciò poco dopo una importante attività politica, di contrasto a quella zarista, che gli costò sei anni di carcere in Siberia. Nel 1904, tornato in Caucaso, seguì le idee di Lenin che prevedevano l’inizio di una rivoluzione coordinata dal partito socialista; nel corso della rivoluzione del 1905, infatti, Lenin notò Stalin e le sue azioni violente e spregiudicate. Fino al 1917, dunque, la notorietà di Stalin fu in costante ascesa (entrò a far parte del comitato centrale del partito e divenne direttore della Pravda, si fece notare per la pubblicazione del saggio Il marxismo e il problema nazionale, divenne assistente di Lenin), al punto che si trasferì a Pietroburgo, aderendo totalmente alle tesi rivoluzionarie di Lenin. E Mentre Trozki e Lenin si affermavano alle riunioni del partito bolscevico, Stalin – assieme a Sverdlov – assunse il compito dell’organizzazione del comitato centrale che gli diede la possibilità di mantenere il controllo del partito. Una volta creato il Politbjuro, l’organo direttivo del partito comunista, ne entrò a far parte. In seguito alla rivoluzione dell’ottobre del 1917, Stalin si adoperò per vincere la guerra civile, divenne segretario del comitato generale nel 1922 e col progredire del processo di burocratizzazione del partito il suo potere aumentò notevolmente. Con la morte di Lenin, nel 1924, Stalin iniziò un duro scontro con Trozki: mentre lui avrebbe voluto imporre le proprie idee di socialismo, Trozki avrebbe voluto continuare il proselitismo dell’ideologia di Lenin. Prevalse la linea di Stalin che avviò diverse riforme atte a perseguire le proprie idee in contrasto alla tradizione internazionale del marxismo. Tra le più importanti ricordiamo la collettivizzazione delle campagne e i piani quinquennali per industrializzazione della Russia. Nel 1936, con l’avvento del nazismo, Stalin decise di eliminare ogni tipo di opposizione (le cosiddette purghe staliniane); leader come Kamenev, Zinov’ev, Trozki e Radek – che avrebbero potuto sostituirlo in caso di crisi – vennero esiliati o fatti uccidere (come nel caso di Trozki). Nel 1939 all’inizio della seconda guerra mondiale, le capacità di Stalin furono messe a dura prova; egli tuttavia seppe resistere e anche nei momenti più difficili usò il conflitto per reintrodurre i valori tradizionali – il patriottismo, la solidarietà slava, la valorizzazione della storia russa. Al termine del conflitto riuscì ad imporre i regimi comunisti in tutti quegli Stati occupati dall’Armata rossa, ma questo non fece altro che inasprire i rapporti con i paesi capitalisti che culmirarono con l’inizio della Guerra Fredda. Stalin morì a Mosca nel 1953. (F.S.)

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leciti che hanno come fulcro proprio la Transnistria. Nel frattempo, la crescente pressione della Nato verso est, con la prospettiva addirittura di un allargamento all’Ucraina e alla Georgia, che era stato posto all’ordine del giorno del vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, accentuava l’importanza strategica per la Russia di un bastione nell’area caucasica e del Mar Nero. Non a caso, di lì a poco, il conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008, incentrato sul sostegno di Mosca alle aspirazioni indipendentistiche in Ossezia del sud e in Abkhazia, poneva la questione con la più grave urgenza. Tuttavia – ed è per questo che deve parlarsi di strategia articolata di Mosca – la Russia dissipava ben presto il timore moldavo che la Transnistria potesse a breve seguire la strada dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud: infatti la Russia si proclamava impegnata a rispettare l’integrità territoriale della Repubblica di Moldavia, purché fosse garantita l’autonomia della Transnistria. Poco prima, infatti, il governo moldavo, di stampo centrista e liberale, aveva respinto un tentativo, paradossalmente guidato proprio dal Partito comunista della Moldavia, di cancellare dalla Costituzione il principio della neutralità del paese, considerato invece da Mosca un baluardo contro i rischi di apertura della Moldavia verso la Nato. Alla luce di questi sviluppi sembrava possibile riaprire in qualche modo il tavolo negoziale sul-

la Transnistria interrotto dal marzo 2006, nel formato cosiddetto 5+2, che vedeva protagonisti la Moldova, la Transnistria, l’Osce, la Russia e l’Ucraina, con gli Stati Uniti e l’Unione europea in qualità di osservatori. Tuttavia i successivi incontri tra i vertici politici della Moldavia e della Transnistria non hanno prodotto particolari risultati. Resta comunque il fatto che nelle relazioni tra Russia e Moldavia sembra rivestire solo limitata importanza l’orientamento politico della dirigenza di Chisinau, perché la vera arma di pressione di Mosca è proprio la Transnistria: infatti, anche negli anni in cui la guida politica della Moldavia è stata nelle mani del presidente comunista Voronin, Mosca non ha spinto in nessun modo Tiraspol a trattare una propria reintegrazione nello Stato moldavo, né si è astenuta da misure di restrizione commerciale notevolmente pregiudizievoli per il paese. Dal lato moldavo, per converso, proprio gli anni della direzione comunista vedevano le maggiori aperture verso l’Unione europea. In modo solo apparentemente paradossale i rapporti della Russia con l’attuale dirigenza centrista-liberale della Moldavia si sono invece rivelati assai più distesi del previsto, nonostante la presenza di numerosi esponenti filorumeni nell’esecutivo di Chisinau. Dal punto di vista moldavo, del resto, potrebbe non essere secondario un calcolo politico-elettorale in base al quale, in caso di


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reintegrazione della Transnistria, il peso degli abitanti di questa regione, in maggioranza slavi (russi e ucraini) e tendenzialmente favorevoli a rapporti privilegiati con Mosca, potrebbe rovesciare l’intero indirizzo politico della nazione. Il perpetuarsi del congelamento della situazione della Transnistria appare così soddisfare simultaneamente molteplici esigenze degli attori regionali. Le elezioni presidenziali del dicembre 2011: un nuovo corso politico?

Va comunque sottolineato che proprio gli ultimi mesi hanno visto sviluppi di una certa novità in Transnistria: come già accennato, infatti, nelle recenti elezioni presidenziali non si è avuta l’ennesima rielezione di Smirnov, sempre più inviso a Mosca anche in ragione di poco chiare manovre finanziarie del suo clan nei confronti di entità russe. Dei due candidati che al primo turno hanno superato Smirnov, ovvero Anatoli Kaminsky e Evgheni Schevchuk, il primo, appoggiato dalla Russia, ha ottenuto nel ballottaggio del 25 dicembre 2011 solo un quinto dei consensi. Il nuovo presidente Schevchuk, leader del Partito del rinnovamento, già pervenuto nel 2005 alla presidenza del Parlamento della Transnistria, è visto come rappresentante di una nuova leva politica più aperturista, e pur pagando tributo, durante la cerimonia d’investitura, ai forti rapporti con la Federazione russa e al dogma dell’indipendenza della

Transnistria, ha parallelamente dichiarato di voler intrattenere rapporti di buon vicinato con la Moldavia e l’Ucraina, facilitando anzitutto la libertà di movimento da e verso Chisinau – prova di ciò è stata la fine dei dazi punitivi sui beni importati dalla Moldavia, vigenti dal 2006. Inoltre Schevchuk ha proceduto a rimuovere molti esponenti di punta della precedente amministrazione, incluso il figlio di Smirnov, che era stato posto a capo dei servizi doganali. D’altra parte, la morte il 1° gennaio 2012 di un giovane moldavo per mano di un soldato russo sul confine di fatto tra Moldavia e Transnistria ha nuovamente sollevato interrogativi e preoccupazioni sulla presenza militare russa, che secondo Chisinau dovrebbe evolvere da missione di peacekeeping a missione civile. Non va sottovalutato che anche da parte ucraina si tenta di indurre i militari russi al ritiro dalla Transnistria, poiché la loro presenza e i pericoli di confronto armato che ne derivano collidono con l’interesse dell’Ucraina ad avere situazioni di stabilità ai propri confini. L’Autore filippo cinoglossi Consigliere parlamentare della Camera dei deputati. Attualmente coordina le attività di ricerca e documentazione per la Commissione Affari esteri. Si è perfezionato in storia delle istituzioni e diritto parlamentare ed è autore di saggi di argomento storico-politico.

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SCHEDA PAESE Informazioni Generali Superficie 33.700 Km2 Capitale: Chisinau Popolazione: 4.300.000 abitanti Lingua: La lingua ufficiale è il moldavo, un dialetto rumeno che tra il 1941 e il 1989 è stato scritto con l’alfabeto cirillico. Il Russo è molto diffuso. Religione: Chiesa Metropolitana Moldova, subordinata al patriarcato della Chiesa cristiano-ortodossa russa.

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Moneta: Nel novembre 1993 è stato introdotto il Leu in sostituzione della precedente moneta, il Ban, per un valore di 1 leu=100 bani. Nel corso del 2009, il tasso di cambio medio è stato di 15.5159 Lei per 1€. Al novembre 2010 il tasso di cambio è di 16.1168 Lei per 1€ Rischio paese: La Sace colloca la Moldova nella settima categoria Ocse; il rischio paese è aggiornato a dicembre 2010. Prospettive future Il Pil reale è diminuito del 6,5% su base annua nel corso del 2009. Anche se quest’ultimo è stato inferiore alle contrazioni registrate in alcuni Paesi della regione, come l’Ucraina e la Russia, la crisi ha colpito la Moldavia con un certo ritardo, in quanto l’impatto principale è stato avvertito attraverso i canali tradizionali, piuttosto che attraverso i mercati finanziari. In un contesto di rallentamento della crescita della domanda esterna, la ripresa della domanda esterna nel 2012 dovrebbe consentire all’ economia moldava di crescere del 4% in tale anno. Il prestito del Fmi sosterrà la fiducia nel periodo di previsione e contribuirà a stabilizzare la situazione fiscale ed economica. Insieme ai sostanziali aiuti da altri finanziatori bilaterali e multilaterali, ciò sosterrà la crescita economica. Anche se i vincoli di bilancio e la disoccupazione ancora elevata fungeranno da vincoli, una modesta ripresa nei consumi delle famiglie saranno sostenuti dalla crescita nel 2011-12 dagli afflussi delle rimesse da moldavi che lavorano all’estero. Gli investimenti fissi dovrebbero essere sostenuti nell’ambito dei programmi

di prestito internazionali in materia di investimenti pubblici. Tuttavia, le esportazioni nette eserciteranno un freno alla crescita globale del Pil, come del resto il recupero della domanda interna che incrementerà le importazioni. I rischi per la nostra previsione di crescita includono la possibilità che il prestito del Fmi e di altre fonti internazionali potrebbero essere inferiori alle attese, se il prossimo governo si rivela meno riformista di quello attuale. L’inflazione è diminuita notevolmente a partire dal picco di circa il 17% su base annua a maggio del 2008, e nel luglio 2009 la deflazione su base annua è stata registrata per il quarto mese consecutivo. La brusca inversione nella dinamica dell’inflazione ha riflettuto i più bassi prezzi alimentari e del petrolio rispetto al 2008, le strette di politica monetaria e, in misura crescente, il calo della domanda interna, in quanto l’economia si è spostata verso la recessione. Le pressioni inflazionistiche rimarranno contenute nel 2011-12 rispetto al periodo pre-crisi. Una stabilizzazione dei prezzi mondiali di petrolio e altre materie prime dovrebbero contribuire ad alleviare l’inflazione nel 2011, da un valore stimato all’8,4% a fine 2010, ma un aumento dei prezzi di importazione del gas sono in grado di esercitare una pressione al rialzo. Si prevede un’inflazione al 6,5% a fine 2011, mentre dovrebbe rallentare ulteriormente nel 2012, al 5,8% entro la fine dell’ anno; sebbene l’attività economica si rafforzerà in tale anno, l’adeguamento dei prezzi delle importazioni di gas a livello europeo dovrebbe essere completato nel 2011. Si prevede che il lei, in media, sia sostanzialmente stabile nel 2011-12, sostenuto dalla più stabile situazione economica esterna e interna. Anche se il disavanzo delle partite correnti rimarrà ampio, sarà molto più piccolo di quanto non fosse fino al 2009 e la moneta sarà supportata da afflussi collegati al programma del Fmi della Moldavia, così come da altre fonti multilaterali e bilaterali. Tuttavia, l’incertezza della politica interna e la vulnerabilità dell’economia agli shock esterni, rimarranno le fonti di potenziale pressione al ribasso sul lei. Il consistente deficit commerciale per il 201112 continuerà ad essere in parte compensato da afflussi di rimesse dai moldavi che lavorano all’estero. Queste sono previste crescere a un ritmo relativamente lento nel 2011-12 con


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le economie che ospitano i lavoratori moldavi che continuano a recuperare. La diminuzione del disavanzo commerciale consentirà al disavanzo delle partite correnti di scendere da circa il 17% del Pil nel 2008 ad una media del 10,4% nel 2010 e dell’ 11,3% del Pil nel 201112. Settori produttivi La Moldova ricopre una superficie di 33.700 km2 e il paesaggio si presenta collinare, ricco di fiumi e corsi d’acqua. Circa ¾ della superficie sono coltivabili, lo sfruttamento della terra ad uso agricolo ha avuto la priorità a lungo sulle altre attività, andando anche a incidere e deteriorare le condizioni ambientali. Le colture intensive sono inoltre responsabili per i livelli relativamente alti di nitrati rintracciabili nell’acqua potabile. La Moldova rappresentava la principale fonte regionale di frutta e verdura dell’Urss. La crescita del Pil in termini reali ha ripreso nel 2000, segnando una media di crescita di circa il 7% negli anni 200105. Successivamente il Pil è sceso del 4,8% nel 2006 e del 3% nel 2007, riflettendo il divieto di importazione russo su una gamma di prodotti agricoli, così come una grave siccità nel 2007. Il settore industriale è stato invece duramente colpito dalla secessione del Transdniestr, sede delle industrie pesanti nella regione, e il suo contributo al Pil è sceso sensibilmente. L’agricoltura e le foreste rappresentano circa il 22% del Pil nel 2006, in calo dal 29% nel 2000. Nel 2007, i dati si sono contratti al 18% circa a causa di una grave siccità. Il settore industriale, che è dominato dalla trasformazione alimentare, ha contribuito per il 22% del Pil. La quota dei servizi, comprese le costruzioni, il commercio ed i trasporti, sono in crescita costante dopo l’indipendenza, al 61% del Pil nel 2007. Il settore privato rappresenta circa i quattro quinti del Pil. La sua quota di tassi di occupazione varia da oltre il 95% dell’ agricoltura a circa il 55% dei servizi, il che include l’occupazione nel settore pubblico come l’istruzione e la sanità. Interscambio I volumi di interscambio tra Italia e Moldova non sono tradizionalmente grandi, sebbene avessero registrato una crescita negli ultimi anni, grazie anche agli investimenti italiani in Moldavia nel settore del tessile, voce princi-

pale dell’interscambio tra i due paesi. Il confronto su base annuale rileva un incremento del saldo commerciale nel 2008 (27,49%), con un aumento sia delle esportazioni (11,86%) che delle importazioni (6,26%). L’andamento sul triennio 20072009 evidenzia un trend altanelante con un aumento nel 2008 di ambedue le voci e un conseguente ribasso nel 2009 in linea con l’andamento della crisi economica globale. Per quanto riguarda la composizione merceologica, le principali voci dell’import di prodotti moldavi in Italia rientrano nel comparto del tessile/abbigliamento (TA): sostanzialmente stabili o in leggera diminuzione nel 2009 l’import di indumenti esterni, di biancheria intima e corsetteria, di calzature, suole e tacchi in gomma e plastica e di Articoli da viaggio, borse, marocchineria e selleria, pullover, cardigan e altri articoli simili a maglia.Altra voce importante che è comparsa proprio nel 2009 è stata quella dell’ Olio raffinato o grezzo da semi oleosi o frutti oleosi che è passata da 0 a 10,8 milioni di €. L’Italia è principale fornitore per la Moldavia nel 2009 di Tessuti (18,7 milioni di €), accessori per l’abbigliamento (il cui valore è in considerevole diminuzione sul 2008 a 12,1 milioni di € dai 21. Bene anche le esportazioni di cuoi e pelli e Abbigliamento esterno confezionato in serie, di sartoria o confezionato su misura. Quasi scomparsa la voce di parti in cuoio per calzature che è scesa nel 2009 ad un livello minimo sul 2008-07.Stando ai dati Istat, le esportazioni cipriote verso l’Italia, sempre nei primi otto mesi del 2010, sono ammontate a 57,6 milioni di euro. Le principali esportazioni cipriote sono state: navi ed imbarcazioni; metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi, medicinali e preparati farmaceutici e componenti elettronici. Queste quattro voci rappresentano il 72,0% del totale esportato da Cipro verso l’Italia.

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LE GUERRE DIMENTICATE Domenico Naso

CECENIA, il massacro dimenticato Dal 1991 a oggi, la lotta indipendentista della piccola repubblica caucasica ha causato due lunghe guerre e centinaia di migliaia di vittime. Una mattanza infinita inquinata dalla ferocia imperialista russa e dall’ingiustificabile ricorso al terrorismo da parte cecena. di DOMENICO NASO

Per molti è l’ultima guerra coloniale d’Europa, per altri è affare interno della Federazione Russa. Fatto sta che il conflitto ceceno, in quasi vent’anni ha provocato quasi 200mila morti. Soprattutto di parte cecena, ovviamente, visto che la sproporzione delle forze in campo è evidente. Eppure le vittime russo-cecene sembrano far meno rumore. Sarà che l’orso russo incute ancora timore e la comunità internazionale non se la sente di interferire troppo; o forse è un problema di sensibilità occidentale, a prescindere da calcoli geopolitici. Ma suona davvero strano che solo pochi eroi del nostro tempo abbiano

speso la loro vita, qualcuno morendo, per offrire testimonianza al mondo di ciò che avevano visto a Grozny e dintorni. Il pomo della discordia, in quella lontana repubblica caucasica incastonata tra Inguscezia e Daghestan, è l’indipendenza da Mosca. Il 6 settembre 1991, quando l’Urss cominciava a sgretolarsi inesorabilmente, a Grozny si riuniva il Soviet locale agli ordini del generale Dudaev e, dopo aver letteralmente defenestrato il rappresentante del Pcus, veniva ufficialmente sciolgo il governo della Repubblica autonoma sovietica Ceceno-Inguscia. Dopo essere stato eletto presidente in maniera

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schiacciante, Dudaev dichiarò no. Dopo tre anni di capovolgil’indipendenza da Mosca unilate- menti di fronte e crisi diplomatiralmente. Eltsin, allora presiden- che, l’11 dicembre 1994 le forze te della Repubblica russa e pron- armate russe bombardarono da to a succedere all’ormai debole tre fronti la capitale Grozny. ElGorbaciov, non fece tardare la ri- tsin aveva scelto la via della dusposta del governo centrale, in- rezza più totale, nonostante i viando le truppe federali, respin- dubbi e i veri e propri “ammutinamenti” di alcuni generali conte però dagli uomini di Dudaev. Nel frattempo, l’Inguscezia rien- trari al conflitto. Particolarmente trò tra i ranghi, tornando a di- significativo il caso del generale pendere da Mosca, mentre Groz- Vorobyov, che fermò il bombarny continuò la sua lotta solitaria damento di Grozny, considerando verso l’indipendenza. Non fa ma- “un crimine” mandare le forze arle ricordare che Mosca aveva per- mate contro il suo stesso popolo. so luoghi simbolicamente molto Negli stessi giorni, il viceministro della Difesa più importanti a Gromov aveva rasseguito della di- Eltsin sperava in segnato le dimissgregazione del Moloch sovietico: un attacco chirurgico e sioni dal governo, addirittura un an- celere, ma la resistenza lanciando l’allarme di un nuovo Afno prima, infatti, ghanistan, un vero l e r e p u b b l i c h e cecena deluse e proprio “bagno baltiche di Litua- le aspettative russe di sangue”. nia, Lettonia ed Estonia erano state le prime a Ma la guerra andò avanti, visto sfuggire al giogo di Mosca, con che Eltsin sperava in un attacco l’innescarsi di un effetto domino chirurgico che in pochissimo che avrebbe distrutto l’Urss. Per- tempo avrebbe scardinato il regiché, dunque, la Russia non pote- me di Dudaev. Mai previsione fu va rinunciare a una piccola re- più errata, visto che l’aeronautica pubblica caucasica? Questione di cecena crollò subito sotto i colpi petrolio, ovviamente. Quella par- russi, ma il resto dell’operazione te del Caucaso è sempre stato il fu tutt’altro che celere. Dalla serbatoio petrolifero dell’Unione guerra lampo auspicata al conflitSovietica e oggi è anche lo snodo to infinito e sanguinoso il passo cruciale di oleodotti e gasdotti di fu breve. Soprattutto quando ebimportanza strategica. È eviden- be inizio l’assedio finale a Grozte, dunque, che dietro il residuo ny, dopo aver faticosamente occudi imperialismo russo ci sia un pato l’aeroporto militare della cainteresse economico ed energeti- pitale. Un assedio che oggi ricorco fondamentale per i sogni di dano in pochi ma che resterà nella storia d’Europa: il peggior grandeur putiniana. Ma torniamo al racconto dello bombardamento aereo dai tempi scoppio del primo conflitto cece- di Dresda, con migliaia di vitti-


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Il Libro L’orrore della guerra negli occhi di un bimbo ASNE SEIERSTAD Il bambino dal cuore di lupo. Storie dall’inferno della Cecenia in guerra Rizzoli 2008, 336 pp., 18 euro

Timur aveva solo pochi mesi quando nel 1994 sentì per la prima volta lo scoppio delle bombe e aveva tre anni quando rimase orfano. Ora è un dodicenne magro, dagli occhi brillanti e affamati, spesso dorme da solo sulla riva del fiume e sogna di diventare come i guerrieri che sulle montagne lottano contro i russi, di battersi come da secoli – glielo ha raccontato il nonno – si battono i lupi. Siamo a Grozny, la capitale devastata di una Cecenia in cui da quattordici anni l’unica legge è quella del più forte e nessuna ricostruzione sembra possibile a margine di un conflitto che si ferma per brevi tregue, ma che non accenna a finire. Così come il dolore dei sopravvissuti: Abdullah distrutto dalla morte della moglie cerca senza sosta il suo ultimogenito; Tamara ha visto morire il marito e i suoi tre figli, mentre il quarto è tornato irriconoscibile, invecchiato da una sofferenza inguaribile; O Nikolaj, ex soldato russo, ha perso l’uso della vista e una mano calpestando una mina e, sentendosi dimenticato dal suo governo, maledice tutti i ceceni considerandoli “cattivi dentro”. Åsne Seierstad, ne Il bambino dal cuore di lupo, con i suoi racconti dalla Cecenia dà un volto alle migliaia di vittime della guerra e documenta l’umiliazione di un paese schiacciato dalla politica russa di Putin e dal silenzio di media “corrotti”. Partendo dal rifugio di un orfanotrofio e inoltrandosi tra le distese ghiacciate e le rovine, l’autrice profila un racconto crudo e appassionato, l’epilogo di un conflitto disastroso, tanto insensato da risultare quasi grottesco. Ma tra il fumo dei bivacchi e le piaghe delle bombe, la Seierstad riscopre l’orgoglio di un popolo risoluto a far sentire la propria voce e a preparare dalle ceneri la propria rinascita. (F.S.)

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me civili e una sconfitta brucian- sempre più islamiste radicali, te per l’esercito russo, che solo trasformando la lotta per l’autosuccessivamente riuscì a ripren- determinazione di un popolo in dere in mano le redini della bat- una sorta di Jihad caucasica. Nel taglia e occupare la città. Per tut- maggio 2000, le truppe russe to il 1995, la Russia tentò di al- avevano già ripreso in mano tutlargare il conflitto alle altre zone to il territorio della repubblica cecene ancora sotto il controllo indipendentista dopo una camdegli indipendentisti, per chiu- pagna senza precedenti e altre dere definitivamente la “partita”. migliaia di vittime. La risposta Nel 1996 un missile russo uccise cecena, però, è stata caratterizzail presidente ceceno Dudaev e El- ta da un’escalation terroristica tsin dichiarò la vittoria e un tem- controproducente: dal giugno poraneo cessate il fuoco. Ad ago- 2000 al settembre 2004, i ribelli sto, però, i ribelli ceceni lanciaro- ceceni hanno aggiunto alla loro no un attacco a sorpresa su Groz- strategia l’attacco suicida. In concomitanza con ny, con l’intenziol’acuirsi del fenone di riconquista- Dopo le infiltrazioni meno islamista rare la capitale. Ridicale in ogni parpreso il controllo jihadiste, Putin della città, l’eser- ha “venduto” la guerra te del mondo, la Cecenia non ha cito russo rispose fatto eccezione. con inaudita fero- come un’operazione E anzi, l’imperdocia, nonostante la anti-terrorismo nabile e ingiustifipresenza in città di 200mila civili ceceni e russi. cabile ricorso al terrorismo da La prima guerra russo-cecena, parte cecena ha permesso a Putin persa da Mosca contro ogni previ- di “vendere” la guerra cecena cosione, si concluse con l’accordo di me campagna anti-terrorismo, Khasav-Yurt del 31 agosto 1996. approfittando anche del periodo Nel frattempo il generale Ma- di psicosi, giustificata in realtà, schadov era diventato presidente seguita all’11 settembre 2001. In quattro anni, dunque, 23 asdella Cecenia. La “pace”, fragile e vacillante, salti terroristici hanno attaccato durò tre anni, fino a quando, il obiettivi militari e civili in Cece26 agosto 1999, un presidente nia e in altre regioni. I terroristi Eltsin ormai prossimo a cedere il ceceni, guidati da Shamil Basapotere al delfino Putin lanciò yev, si sono resi responsabili deluna nuova campagna in territo- la morte di 46 persone a Stavpario ceceno per recuperare i terri- rol, 40 a Mosca e 89 a Tula tori controllati dai ribelli. Guer- Oblast, senza parlare delle due ra diversa, la seconda guerra rus- vicende chiave della seconda so-cecena, visto che gli indipen- guerra russo-cecena, entrate dentisti ceceni si erano fatti infil- nell’immaginario pubblico come trare e condizionare da frange due tra gli eventi più tragici e


LE GUERRE DIMENTICATE Domenico Naso

cruenti della storia recente. Nel 2002, 850 persone furono prese in ostaggio nel teatro Dubrovka di Mosca, fino a quando le forze speciali russe fecero irruzione con agenti chimici, provocando la morte di 129 ostaggi e 39 terroristi (sui 40 in azione). Nel 2004, invece, il mondo inorridì quando i terroristi ceceni tennero in ostaggio 1127 persone in una scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, provocando la morte di 334 civili, 11 soldati russi e 31 sequestratori. Il terrorismo ceceno, terribile e ingiustificabile, non deve però far scordare gli orrori dell’esercito russo, messi a tacere dal sistema putiniano di controllo dei media e dell’opinione pubblica. Orrori e crimini svelati da pochi eroi, prima fra tutti la giornalista di Novaja Gazeta Anna Politkovskaja, che proprio perché aveva deciso di raccontare la verità sul dramma ceceno, fu uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006. E intanto, mentre il mondo si disinteressava al sangue versato in nome di un rinnovato imperialismo russo, Vladimir Putin ha potuto condurre una guerra spregiudicata fino alla dichiarazione di una vittoria che sa tanto di sconfitta per tutti. Troppi morti, troppo sangue, troppe pagine poco chiare che qualcuno prima o poi dovrà svelare. La Cecenia meriterebbe più attenzione, non fosse altro che per quelle centinaia di migliaia di vittime innocenti, cadute in nome di una grandeur zarista fuori tempo massimo e di interessi economici innominabili.

I media occidentali potrebbero fare qualcosa in più per raccontare vent’anni di soprusi e di violenze, da una parte e dall’altra; vent’anni di umanità divenuta barbarie e che non fanno notizia. Forse perché il petrolio di Grozny non è “contendibile” dalle potenze occidentali. O Mosca o morte. Letteralmente.

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L’Autore domenico naso Direttore di FareitaliaMag, collabora con Vanity Fair e Il Fatto Quotidiano online.



LE GUERRE DIMENTICATE Francesca Siciliano

La guerra dei cinque giorni

Quella linea sottile tra Georgia e Russia Il conflitto del 2008 rischiò di compromettere irreparabilmente i rapporti tra paesi aderenti alla Nato e Mosca. Per quindici giorni il braccio di ferro tra Putin e Saakashvili ha rischiato di travolgere ogni tipo di diplomazia e di soluzione. 83

di FRANCESCA SICILIANO

Nell’agosto del 2008 ancora una volta Georgia e Russia si sono trovate al centro di un conflitto. Dopo quello scoppiato a cavallo tra il 1991 e il 1992, terminato con il “cessate il fuoco” imposto dalla Russia, i due Stati sono sull’orlo di una guerra a causa dell’Ossezia del sud e dell’Abcasia, regioni separatiste georgiane che godevano dell’appoggio di Mosca. Nel giugno 2008 in Georgia tornò a salire la tensione; nonostante il conflitto con le regioni separatiste fosse “congelato” da qualche anno, l’escalation di guerra si profilò nel giro di pochi mesi. Il partito di Mikhail Saakashvili – Movimento nazionale unito – era riuscito ad affermarsi alle elezioni legislative del 2008, nonostante le proteste di piazza delle opposi-

zioni contro i presunti brogli commessi dal partito. a una instabile situazione di politica interna si aggunse lo scontro frontale tra Mosca e Tbilisi, capitale della Georgia. La Federazione Russa già dal 1992 aveva una presenza militare in Ossezia del sud e in Abcasia come forza di interposizione su mandato internazionale, con ruolo di mantenimento di pace, anche se Tbilisi da tempo invocava all’Osce l’eliminazione della presenza militare russa dal proprio territorio. Nell’estate del 2008 molti piccoli segnali di violenza fecero presagire lo scoppio di un conflitto in piena regola: l’abbattimento da parte dei russi di un aereo-spia georgiano sul territorio abcaso, un attentato georgiano nel mercato della città abcasa


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di Gagry, la provocazione del scontri diplomatici proseguirono presidente abcaso, Sergei Ba- per tutto il mese di luglio: russi gapch, che minacciò l’immediata e georgiani si accusavano a vicenchiusura delle frontiere con la da di violazione dello spazio aeGeorgia. Il terreno di scontro si reo in Ossezia del Sud, Tbilisi riestese anche in Ossezia del Sud: tirò il proprio ambasciatore in il 7 luglio la Georgia effettuò un Russia e minacciò l’abbattimento bombardamento notturno sulla di qualsiasi velivolo russo sorvocapitale sudosseta, Tskhinvali, lante il proprio territorio. La sigiustificandolo come risposta ob- tuazione sembrò precipitare alla bligata: il bilancio fu di 3 morti fine del mese, quando l’Ossezia e 11 feriti. Le autorità sudossete del Sud accusò Tbilisi del sequesmentirono di aver attaccato per stro di quattro cittadini in rispoprimi, ma si prepararono alla ri- sta, secondo il governo georgiasposta e nei giorni successivi si no, all’arresto di un cittadino sussegirono attacchi da entrambe della Georgia. Secondo Tbilisi Mosca mirava ad le parti: un ordig n o e s p l o s e a Sin dal giugno del 2008 annettere l’Abcasia e l’Ossezia del Dmenis, villaggio Sud, mentre il osseto, provocan- i due Stati iniziarono Cremlino sostenne do l’uccisione di ad accusarsi a vicenda che la Georgia voun comandante delle milizie sepa- di atrocità e di attacchi lesse recuperare le regioni indipenratiste; poche ore nell’Ossezia del Sud dentiste con la fordopo una bomba scoppiò al passaggio dell’auto di za e invitò Tbilisi a non peggioSanakoev, capo dell’Amministra- rare una situazione già grave. zione provvisoria dell’Ossezia del Il 6 agosto Mosca si dichiarò sud. La Russia avanzò una prima pronta a difendere i propri cittaproposta di cessare l’uso della dini in caso di conflitto e accusò forza in Ossezia, lanciando in Tbilisi di aver inviato aerei miliquesto modo un segnale distensi- tari nel Sud dell’Ossezia. Il govo, ma il giorno successivo altre verno georgiano negò, ma la tenquattro esplosioni colpirono la sione tra le forze georgiane e città abcasa di Sukhumi. Gli at- quelle sudossete si acuì. L’Ossetacchi non provocarono vittime, zia del Sud, al centro della contema il segnale era chiaro: la Geor- sa, lanciò una proposta di dialogia faceva sul serio. L’Abcasia, go allargata a Georgia, Russia, dal suo canto, definì i continui Ossezia del Nord e del Sud, ma attacchi georgiani “terrorismo di la Georgia pose una conditio sine Stato” e decise di porre fine a qua non: Mosca non avrebbe doogni contatto con Tbilisi, chi- vuto partecipare alle trattative. Il dendo all’Onu e all’Osce di pre- giorno successivo, in seguito alla venire la minaccia terroristica mancata apertura del tavolo di proveniente dalla Georgia. Gli confronto, in Ossezia del Sud ri-


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presero gli scontri: 20 carri arma- sposta alle azioni aggressive della ti georgiani si diressero verso il Georgia», seguirono, secondo confine meridionale dell’Ossezia fonti georgiane, i primi raid aerei del Sud e la popolazione iniziò ad russi che sorvolarono la Georgia sganciando due bombe sulle città abbandonare Tskhinvali. L’8 agosto 2008, pochi minuti di Kareli e Gori. Tra la popoladopo la mezzanotte, un alto uffi- zione civile sudossetina si regiciale del ministero della Difesa strarono decine di morti e così georgiano dichiarò: «La Georgia pure tra i militari delle forze ha deciso di riportare l’ordine co- d’interposizione russe appartestituzionale in Ossezia del Sud». nenti alla Csi. Il presidente russo, Iniziò, dunque, l’accerchiamento Dmitri Medvedev, dopo aver del capoluogo separatista da par- smentito i raid aerei denunciati te delle forze di Tbilisi e fu guer- dai georgiani, riunì il Consiglio ra aperta. L’Abcasia palesò fin da di sicurezza nazionale russo per subito il proprio sostegno all’Os- discutere la strategia da adottare. Poche ore dopo le sezia del Sud e dure dichiarazioni Tbilisi colse l’oc- Non aver incluso di Putin, la capicasione per ripritale sudosseta stinare l’ordine co- la Georgia nella Nato venne dichiarata stituzionale nelle ha reso più facile quasi totalmente province ribelli. distrutta; nel fratIntanto, diversi l’intervento militare tempo le truppe villaggi sudosseti e della Russia russe venivano avlo stesso capoluogo furono presi di mira da bombar- vistate nei pressi dell’Ossezia. I damenti e violenti assalti da par- carri armati della 58esima armata russa attraversarono il tunnel te delle milizie georgiane. La diplomazia, che fino a quel di Roki – che separa l’Ossezia giorno aveva clamorosamente fal- settentrionale da quella meridiolito, rimise in moto la propria nale – segnando ufficialmente mediazione; il Consiglio di sicu- l’entrata in guerra della Russia. rezza dell’Onu si riunì – su ri- E proprio mentre la prima colonchiesta della Russia – per discu- na di blindati russi entrava a tere l’escalation della guerra, al fi- Tskhinvali, i jet russi iniziarono ne di «evitare un bagno di san- a bombardare la base militare gue», ma non riuscì a siglare un georgiana di Vaziani, a 15 km a accordo condiviso. «La guerra è Tbilisi. Saakashvili, sorpreso daliniziata» furono le lapidarie paro- l’immediata controffensiva russa, le di Valdimir Putin, da pochi accusò Mosca di aggressione almesi premier russo, pronunciate l’interno del territorio sovrano a Pechino nel corso della cerimo- della Georgia e invocò l’internia d’apertura dei giochi olimpici vento degli Usa «in difesa della del 2008. Alle dichiarazioni di questione georgiana e dei valori Putin, che minacciava «una ri- americani». Putin, ancora a Pe-

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chino, durante un colloquio con i georgiani – attaccati anche dai l’allora presidente americano separatisti abcasi e dai militari George W. Bush affermò che la russi – riconquistò Tskhinvali, guerra scoppiata in Ossezia del costringendo le truppe al ritiro Sud fosse una conseguenza del- dalla capitale sudosseta. l’attacco georgiano alle forze di Da Washington iniziarono a susinterposizione russe. La replica seguirsi dichiarazioni di condanna fu affidata al Segretario di Stato nei confronti della amministrazioamericano, Condoleeza Rice, che ne moscovita e di solidarietà alla invitò i russi a «fermare gli at- Georgia: Dick Cheney, vice presitacchi in georgia, ritirare le dente americano, dichiarò che truppe dall’Ossezia del Sud e ri- l’aggressione della Russia non pospettare la sovranità nazionale teva restare impunita; altrettanto sostenne Bush, definendo «inacgeorgiana». Sul fronte di guerra, intanto, sia cettabile la violenza della Russia le forze separatiste che le unità nei confronti della Georgia». Saakashvili, nel corso militari georgiane di una teleconfedichiararono di Nell’ultimo periodo renza internazionaavere il controllo della capitale su- il presidente Saakashvili le, rilasciò una pesantissima dichiadosseta, dove era ha aperto un dialogo razione: «L’obietin corso un vera e propria guerriglia. diplomatico per trovare tivo della Russia Il giorno successi- una soluzione duratura non è l’Ossezia ma tutta la Georgia e vo la Russia attaccò Tbilisi con bombardamenti le sue rotte energetiche. E non si mirati alle infrastrutture e a una fermerà finchè non ci avrà conquipostazione di artiglieria. In quel- stato». le ore oltre 30mila profughi ab- Il conflitto era in una situazione bandonarono le proprie case di stallo e la diplomazia, anziché nell’Ossezia del Sud e mentre il intervenire direttamente, discupresidente georgiano dichiarava teva ancora sulle responsabilità: lo stato di guerra proponendo l’ambasciatore russo all’Onu, Viuna smilitarizzazione nella regio- tali Ciurkin, accusò gli Usa di ne, Putin replicò che l’intervento aver appoggiato l’attacco georrusso era da considerarsi legitti- giano, poiché sembrava impossimo poiché in Ossezia «era in atto bile che Saakashvili avesse lanun vero e proprio genocidio» da ciato una sfida così drastica senza parte dei georgiani. Da carnefice una forma di approvazione, anla Georgia si trasformò in vitti- che tacita, da parte degli Usa. A ma: le dichiarazioni ufficiali pro- difesa dell’intervento russo si venienti da Tbilisi furono grida schierò Nicolas Sarkozy, presid’aiuto alla comunità internazio- dente francese, che giudicò «asnale per far fronte all’invasione solutamente normale» l’intervenrussa, mentre un altro fronte per to della Russia a difesa del suo


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popolo, discostandosi così dal coro unanime di critiche provenienti dall’occidente. Il 13 agosto, con il conflitto georgiano ancora in corso, la Russia aprì uno scontro diplomatico anche con l’Ucraina, colpevole, a suo parere, di aver imposto restrizioni alla libertà di movimento della flotta russa nel Mar Nero; contemporaneamente gli Usa conclusero l’accordo con la Polonia sullo scudo parziale in chiave anti-russa. Da quel momento la diplomazia iniziò ad attivarsi concretamente per la pace, grazie al trattato di pace proposto dall’Ue – guidata da Sarkozy – con l’avallo degli Usa. In concomitanza arrivò la decisione della Georgia di rafiticare all’unanimità l’uscita dalla Comunità di Stati indipendenti, sottoscritta all’indomani della fine dell’Urss. Saakashvili, nel corso della conferenza stampa alla presenza di Condoleeza Rice, accusò apertamente la Russia di aver programmato l’intervento militare in Georgia da mesi e la Nato di non aver incluso la Georgia nella membership per paura di ritorsioni russe. Il giorno del “cessate il fuoco”, ottenuto grazie alla firma del presidente Medvedev e all’accordo di pace in sei punti mediato da Sarkozy, la Russia annunciò che il ritiro delle sue truppe sarebbe iniziato il 18 agosto, a seguito delle misure aggiuntive di sicurezza. In contemporanea arrivarono dalla Nato le prime aperture all’ingresso della Georgia anche da parte tedesca, mentre il presidente Saakashvili chiese il

Il Libro Le idee di un presidente Saakashvili Mikheil, Glucksmann Raphaël Io vi parlo di libertà Spirali 2009, 178 pp., 18 euro Nell'agosto 2008, la guerra tra la Russia e la Georgia proietta al centro dell'attualità mondiale Mikheil Saakasvili, quarantunenne presidente georgiano. In questo libro, colui che è diventato per la Russia il nemico pubblico numero uno risponde allo scrittore francese Raphaël Glucksmann, e così racconta della propria vita, dei sogni e dei progetti per l'avvenire della Georgia. Perché Saakasvili ha scelto il confronto con la superpotenza russa attaccando l'Ossezia del Sud? È caduto in una trappola oppure ha semplicemente fermato l'invasione in corso? È un agente dell'Occidente, come afferma il Cremlino? Che cosa vuole realmente per il bene del suo popolo? Si considera un rivoluzionario sempre? E chi è davvero Vladimir Putin? A tutte queste domande, e molte altre, Mikheil Saakasvili risponde senza tergiversare: fa rivelazioni sullo svolgimento della guerra d'agosto; dà chiarimenti sui legami con Israele, con George W. Bush, con George Soros e con la Cia; ripercorre i primi attriti con il Kgb quando era studente a Kiev e a Tbilisi; informa sulla rivoluzione delle Rose; fa sentire l'emozione e la sorpresa dei suoi primi anni in Francia e negli Stati Uniti.

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controllo sull’effettivo ritiro delle truppe russe. Tra smentite e annunci contraddittori iniziò il ritiro delle truppe russe, lo scambio di prigionieri tra le due nazioni e la revoca dello stato di guerra in Abcasia annunciato l’11 agosto. La Russia, tuttavia, proseguì la battaglia in ambito diplomatico: denunciò il tentativo della Georgia di riorganizzare una nuova offensiva incoraggiata dall’appoggio della Nato e volle rivedere il piano di cooperazione militare del 2008, congelando i rapporti con gli Usa fino a nuovo ordine. Inoltre, ccusò la Georgia di non aver rispettato i patti del piano dell’Ue in relazione al ripristino delle posizioni antecedenti il conflitto e sottolineò il pericolo che navi da guerra statunitensi, canadesi e polacche si potessero installare nelle acque del Mar Nero in funzione antirussa. Il 19 agosto venne approvata la bozza di risoluzione dell’Onu che chiedeva «il ritiro immediato delle forze russe e il ritorno delle forze georgiane alle loro basi». Da Whashington, mentre il governo turco autorizzava l’ingresso nel Mar Nero di due unità militari statunitensi diretti in Georgia, Bush dichiarò che l’Ossezia del Sud e l’Abcasia facevano parte della Georgia e quindi l’integrità territoriale andava garantita. Il 22 agosto iniziò ufficialmente il ritiro delle truppe russe. Nel frattempo iniziavano a trapelare dichiarazioni che illuminavano sui motivi dell’escalation di guerra: l’inviato Usa alla Nato, Kurt

Volker, dichiarò che gli Usa avevano messo in guardia la Georgia contro ogni tentativo di riprendersi il Sud dell’Ossezia. L’ambasciatore raccontò di aver avvertito Tbilisi – prima ancora dell’inizio della crisi – che la Russia cercava un pretesto per far entrare le sue truppe in Georgia; pretesto che ottenne quando le truppe georgiane, il 7 agosto, entrarono nel Sud dell’Ossezia. Il bilancio finale del conflitto fu tragico: in 5 giorni persero la vita 170 militari e 14 poliziotti georgiani, 67 militari russi, 365 osseti tra militari e civili; oltre 2000 i feriti e circa 135mila i profughi costretti ad abbandonare le proprie terre. Le conseguenze del conflitto furono molteplici, in primis l’indipendenza ottenuta dall’Abcasia e dall’Ossezia del Sud; al ritiro delle truppe il Senato russo approvò all’unanimità un appello del Cremlino per il riconoscimento dell’indipendenza delle due regioni. Arrivarono, però, durissimi ammonimenti da parte di tutta la comunità internazionale, in particolare dagli Usa, dall’Ue e anche dall’Italia; nonostante le minacce, anche la Duma approvò la richiesta di indipendenza delle regioni separatiste georgiane. La tensione militare, tuttavia, non diminuì poiché alcune unità della flotta russa si stabilirono al largo delle coste abcase, mentre alcune navi della Nato si avvicinarono al settore nord orientale del Mar Nero. Si temette il peggio: a guerra praticamente conclusa, sfidando le


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pressioni degli Usa e dell’intera comunità internazionale, Medvedev riconobbe l’indipendenza delle due regioni, lo annunciò nel corso di un discorso alla nazione in diretta tv, comunicando di aver firmato i decreti per il riconoscimento dei due territori. Per Saakashvili fu una vera e propria disfatta politica: il riconoscimento delle due regioni, oltre ad aprire nuovi scenari internazionali, sancì la vittoria politica e militare della Russia; questo, soprattutto, a causa di un’insensata guerra che Saakashvili volle lanciare senza un reale sostegno americano. Il presidente georgiano sostenne per molto tempo di aver attaccato per legittima difesa; Putin continuò a sostenere il contrario, dicendosi convinto che l’amministrazione americana di Bush volesse una guerra per lanciare il proprio candidato John McCain in corsa alla Casa Bianca contro Obama. Dal punto di vista interno il dopoguerra portò in Georgia un inasprimento delle posizioni anti-russe da parte del regime di Saakashvili, il quale aumentò i poteri sotto il suo diretto controllo, favorito anche dall’incombente crisi economica. Nelle relazioni internazionali la Georgia riuscì a incrementare il dialogo con l’Alleanza atlantica. Il presidente georgiano Saakashvili, nel febbraio scorso, ha offerto alla Russia la cancellazione dei visti di viaggio per i cittadini russi come gesto per migliorare le relazioni con Mosca; al contem-

po, tuttavia, ha ribadito che le truppe russe devono uscire da quello che Tbilisi considera “suo territorio”, le repubbliche separatiste di Abcasia e Ossezia del Sud. «Siamo pronti a dare alla pace una più grande opportunità e di prendere l'iniziativa di cancellare unilateralmente il regime dei visti con la Russia», ha dichiarato enfaticamente Saakashvili nel corso del suo discorso annuale al Parlamento di Tbilisi. Il presidente georgiano ha anche ricordato il via libera della Georgia, lo scorso novembre, all’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto). Saakashvili, però, ha ribadito la richiesta che le forze di Mosca si ritirino dalle due regioni separatiste per le quali s’è combattuto nel 2008. «Una vera pace – ha affermato il presidente georgiano – è possibile solo se la Russia riconoscerà e rispetterà tutte le norme internazionalmente riconosciute e le relazioni tra gli stati sovrani». Pochi giorni dopo il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha accolto con soddisfazione la proposta del presidente georgiano, ma ha sottolineato come anche Mosca abbia «offerto il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi».

L’Autore francesca siciliano Laureata in Scienze politiche, collabora con FareitaliaMag e Il Secolo d’Italia.

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SCHEDA PAESE Informazioni Generali Pur con alcune difficoltà, l’economia georgiana ha saputo sin qui reggere all’impatto congiunto della crisi finanziaria internazionale e del conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008. Nonostante perduri una fase di relativa incertezza, si scorgono incoraggianti segnali di ripresa, anche se appare ancora lontano il raggiungimento dei ritmi di crescita che avevano segnato il periodo dal 2004 all’agosto 2008, quando il Pil georgiano era cresciuto in media del 9% all’anno. Superficie Superficie 69.700 Km2 Capitale Tbilisi (1.107.000 abitanti) 90

Popolazione 4.380.000 abitanti Lingua La lingua ufficiale è il georgiano; la maggioranza della popolazione parla anche il russo. Altre lingue parlate: armeno, azero, abkhaziano, osseziano. Religione Ortodossa georgiana, musulmana, ortodossa russa. Moneta L’unità monetaria della Georgia è il Lari (Gel), suddiviso in 100 Tetri; è stato introdotto ufficialmente nel settembre 1995 al posto del rublo. Il tasso di cambio a dicembre 2009 è stato di 2.45371 Lari per 1 €; Media annuale 2009: 2.32987 lari per 1 € Rischio paese La Sace colloca la Georgia nella 6a categoria su 7 (1 minor rischio; 7 maggior rischio); il rischio paese è aggiornato a dicembre 2009. Rischio sovrano: apertura; rischio corporate: apertura; rischio bancario: apertura. Prospettive future La crescita economica dovrebbe registrare una contrazione del 3% per il 2009 nel suo

complesso. In corrispondenza di una maggiore stabilità regionale, si prospetta un ritorno alla crescita economica nel 2010, seppure al ridotto tasso dell’1%. Persistono tuttavia dei rischi per una revisione al ribasso delle stime. La perdita di potere del presidente Saakashvili, che potrebbe determinare un periodo di incertezza politica, o una ripresa del conflitto con la Russia scoraggerebbero gli investimenti esteri nel paese. Bisogna, però, considerare anche altri fattori che rappresentano un traino per la crescita economica. In primo luogo, le privatizzazioni in corso di diverse aziende statali stimoleranno gli investimenti e lo sviluppo economico. In aggiunta, l’interesse nei confronti della Georgia da parte dei paesi occidentali e delle istituzioni finanziarie internazionali continuerà ad attrarre aiuti economici, che verranno utilizzati per la copertura delle spese di budget, la costruzione di infrastrutture e l’implementazione delle riforme economiche. Una moderazione della crescita economica nel periodo successivo al conflitto, insieme a una flessione dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari dovrebbe portare l’inflazione al di sotto del 10% nel 2009-2010. Il Lari ricomincerà ad apprezzarsi nel 20092010, come conseguenza di una progressiva ripresa degli investimenti esteri. Nel corso del 2008 e nella prima metà del 2009 le esportazioni sono state ostacolate dai danni alle reti di trasporti, mentre le importazioni hanno registrato un incremento a causa dei più alti costi dell’energia e per il ripristino delle infrastrutture danneggiate durante il conflitto. La Georgia ha una base industriale scarsamente sviluppata: l’economia locale non è attrezzata per supportare i ritmi di crescita del comparto delle costruzioni relative agli oleodotti e alle altre infrastrutture in corso di realizzazione. Pertanto, le importazioni di beni capitali e servizi correlati all’edilizia, ai trasporti e alle consulenze continueranno ad aumentare nel corso del 2009. Inoltre, la Georgia continua a dipendere dalla Russia per le importazioni di gas; tuttavia, l’aumento nella diversificazione delle fonti per le importazioni dovrebbe ridurre il prezzo effettivo pagato dal paese per l’import di gas. La bilancia commerciale estera dei ser-


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vizi dovrebbe trarre benefici anche da un aumento del transito di idrocarburi attraverso il paese, visto che i gasdotti e gli oleodotti del paese sono entrati in piena operatività. Sul versante delle esportazioni, nel corso del 2009 dovrebbero progressivamente migliorare, in seguito a una diversificazione dei mercati da parte degli esportatori georgiani. Complessivamente, nel 2009 la ripresa delle esportazioni e il decremento dei prezzi dell’energia permetterà di riportare il deficit della bilancia commerciale ai livelli del 2007. Per il biennio in esame si prospetta quindi una diminuzione del deficit di bilancio, che dovrebbe passare dal 24,8% del Pil registrato nel 2008 al 20,2% nel 2009 e al 16% nel 2010. Settori produttivi L’economia della Georgia ha ruotato tradizionalmente, prima dell’indipendenza, attorno al turismo sul Mar Nero, alla coltivazione del cedro, della frutta, del tè e della vite a allo sfruttamento delle miniere di manganese e rame. Durante questo periodo, il paese ha ricevuto anche forti investimenti nel settore industriale, che hanno trasformato la sua economia, basata prevalentemente sulla produzione agricola di sussistenza. Il settore industriale – assai limitato – si concentra fondamentalmente sulla produzione di vino, metalli, macchinari e tessili, ma la maggior parte degli impianti industriali sono obsoleti; il paese importa parte del suo fabbisogno energetico, inclusi gas naturale e petrolio, nonostante sia potenzialmente capace di produrre energia sufficiente per il fabbisogno interno. L’unica risorsa energetica di una certa rilevanza è quella idroelettrica. La ripresa, che ha avuto inizio nel 1995, ha visto la progressiva espansione di settori quali il commercio al dettaglio, le costruzioni e i servizi, cui si è affiancato negli ultimi anni il recupero dell’agricoltura e dell’industria – soprattutto nei comparti metallurgico e minerario, mentre rimane debole la performance di quello manifatturiero. Risultati particolarmente positivi si sono avuti nel settore delle infrastrutture energetiche, con l’apertura, nell’aprile 1999, di un

oleodotto che congiunge Baku, capitale dell’Azerbaijan, al porto georgiano di Supsa. Nell’aprile 2003 sono iniziati i lavori di costruzione dell’ oleodotto che congiungerà Azerbaijan, Georgia e Turchia (la linea BakuTblisi-Ceyhan), con un percorso lungo 1.750 km ed un costo di 3 miliardi circa di US$. Il turismo potrebbe divenire un settore trainante per l’economia del paese, ma il suo sviluppo è contrastato dalla persistente instabilità della regione e dalla carenza di infrastrutture adeguate. Interscambio L'interscambio Italia-Georgia per il 2008 ha registrato un incremento del saldo nella bilancia commerciale per un valore di 116.522.798 €, a seguito di un incremento delle dell’export (per un valore complessivo di 150.556.566 €) di contro una leggera flessione delle importazioni (34.033.768 €). I dati sul triennio 2006-2008 rilevano un costante trend positivo sul fronte delle esportazioni, mentre le importazioni hanno registrato una decremento nel 2007 dopo la crescita del 2006. I principali prodotti importati in Italia sono carburanti per motori, combustibili minerali e gassosi (escluso gas naturale), una nuova voce entrata nel 2008, seguiti da alluminio e semilavorati, in sensibile flessione nel 2008 dopo l’aumento esponenziale registrato nel 2007. Quasi triplicato nel 2008 il valore dell’import di concimi chimici e composti azotati. Per quel che concerne le esportazioni, la voce “carburanti per motori, combustibili minerali e gassosi (escluso gas naturale)” sono divenuti la prima voce dell’export georgiano, con un valore di 39.933.443 € nel 2008 rispetto ai 5.843.540 € del 2007, mentre le esportazioni di alluminio e semilavorati hanno registrato una drastica flessione rispetto all’anno precedente (6.941.807 € nel 2008 rispetto ai 32.312.528 € del 2007). Ottima le perfomance della voce “attrezzature industriali per la refrigerazione e la ventilazione”, con un valore di 7.675.767 € nel 2008, in notevole flessione, invece, le esportazioni di “giostre, altalene e altre attrezzature meccaniche per luna-park”.

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Oltre mezzo secolo di conflitto

L’ultimo muro che separa l’Europa La tensione tra greci e turchi per la supremazia su Cipro sembra non aver fine. Sono falliti tutti i tentativi internazionali di trovare un accordo tra le parti. Anche per questo motivo, dunque, la Turchia non è ancora entrata nell’Ue. di PIETRO URSO

Cipro è sempre stato un importante punto di scambio fra gli imperi d’Europa, Africa e Medio Oriente e nella sua storia molti se la sono contesa. I primi abitanti che formarono le antiche città provenivano dalla Siria e dall’Anatolia. Nell’era del bronzo Cipro diventa importante grazie alle esportazione degli oggetti in rame costruiti sull’isola. L’isola fu colonia micenea tra il XVII e il XV secolo a.C., mentre nel 58 a.C., e sino al 330 d.C., cadde sotto il dominio dei romani, che mantennero l’isola in relativa pace e sicurezza, quando gli imperi bizantino e islamico iniziarono un sanguinoso conflitto destinato a durare tre secoli. Nel complesso, Cipro rimase parte dell’Impero romano d’Oriente per quasi nove secoli. Nel 1191 il re d’Inghilterra Riccardo I Cuor di Leone, lungo il tragitto che lo conduceva alla

Terza Crociata, conquistò l’isola, ma la tenace resistenza dei ciprioti che si opposero al nuovo conquistatore convinse il re d’Inghilterra a cedere l’isola sotto compenso ai Templari. Questi, a loro volta, la cedettero a Guido di Lusignano, re di Gerusalemme, che diede vita al Regno Franco di Cipro. I suoi eredi regnarono per i tre secoli successivi. Nel 1489 Cipro finì sotto il controllo dei veneziani che, però, furono attaccati dai turchi, che nel 1571 conquistarono l’isola nonostante l’eroica resistenza del Capitano di Famagosta, Marcantonio Bragadin, atrocemente torturato e ucciso. L’Impero ottomano governò l’isola per ben trecentosette anni, prima di cederla alla Gran Bretagna. Nel giugno 1878, infatti, a seguito della guerra russo-turca (1877-1878), i turchi, al fine di prevenire ogni tentativo di espansione da parte

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della Russia verso i Dardanelli, Grecia (enosis) e nel 1951 ad Ateconcedettero alla Gran Bretagna ne venne elaborato un piano, netil diritto di amministrare e occu- tamente respinto dal ministro depare Cipro. La concessione, sigla- gli esteri britannico Eden, che in ta il 4 giugno 1878 e passata alla cambio dell’enosis prevedeva la storia come la “Convenzione di cessione alla Gran Bretagna delle Cipro”, consentì alla Gran Breta- basi militari cipriote e di altre gna di occupare e amministrare basi in Grecia. l’isola, ottenendo in cambio la Nel 1954 la Grecia, fino allora protezione britannica dall’espan- estranea a ogni coinvolgimento sionismo russo e un affitto an- diretto per non opporsi alla Gran nuale. La sovranità dell’isola, pe- Bretagna, sostenuta dalle manifestazioni di piazza in patria e dai rò, restava alla Turchia. La somma che il governo britanni- risultati del plebiscito, portò la co doveva versare all’Impero Otto- questione di Cipro dinanzi almano, e che ovviamente prelevava l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiedalla popolazione, divenne il simbolo Nel ‘54 la Grecia, dopo dendo il diritto all’autodeterminadell’oppressione. zione per gli abiN o n s o l o , n e l una manifestazione 1882 la potenza cittadina, chiese all’Onu tanti di Cipro. Durante la discussione mandataria dotò che seguì in seno Cipro di una Co- il diritto per Cipro stituzione abba- all’autodeterminazione all’Onu, la Turchia, trascurando il stanza sproporzionata per la popolazione e, a tutti fatto che con il trattato di Losangli effetti, il governatore dell’isola na aveva rinunciato a qualsiasi disi dimostrò di fatto un dittatore, ritto sull’isola, annunciò che si infatti, fino al 1943 governerà per sarebbe opposta all’unione di Cidecreto e nominerà personalmente pro con la Grecia e dichiarò che, in caso di ritiro da parte delle fortutti i pubblici ufficiali. Dopo la seconda guerra mondia- ze inglesi, l’isola sarebbe passata le, durante la quale era stata po- sotto l’amministrazione turca. Da tentemente fortificata, si aprì per parte delle Nazioni Unite non ci l’isola un nuovo periodo di insta- fu una chiara presa di posizione. bilità legato al movimento irre- Il fuoco della lotta armata contro dentista che fin dal 1931 si era gli inglesi si stava accendendo. andato sviluppando tra la popola- Nacque l’Eoka (Ethniki Organozione greca. specialmente con sis Kypriakou Agonos, Organizl’elezione di Makarios III a etnar- zazione nazionale dei ciprioti ca e leader nazionale dei greco-ci- combattenti). A capo del partito prioti (1950), la crisi acquistò di- armato greco-cipriota troviamo il mensioni internazionali. Un ple- generale greco Gheorghios Gribiscito organizzato (1950) da vas, già protagonista della resiMakarios optò per l’unione alla stenza in Grecia durante la guer-


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ra, capo di un’organizzazione di Londra mandò un vero e proprio estrema destra (denominata Khi) corpo di spedizione militare, e fautore della rivolta armata. nonché – nell’autunno del 1955 Grivas, che diresse l’organizzazio- – un governatore generale famoso ne dal 1955 al 1959, si diede il per la sua severità, il maresciallo nome di battaglia di “Dighenìs”. sir John Harding, che subito proIl nome fu scelto prendendo clamò lo stato d’emergenza con spunto da una leggenda bizanti- l’introduzione della legge marna che narrava di un certo Dighe- ziale. Nel marzo del 1956 Makanìs Akritas che nel Medio Evo rios fu arrestato ed esiliato nelriuscì a respingere gli invasori l’arcipelago delle Seychelles, perché dichiarato responsabile assiedall’isola di Cipro. Gli indipendentisti greco-ciprio- me al vescovo di Kyrenia di alcuti subito si divisero sulla leader- ne dimostrazioni antigovernatiship del movimento che chiedeva ve. Questa decisione tuttavia inl’énosis: da una parte i fautori del- debolì la leadership moderata dei greco-ciprioti, a la lotta armata che tutto vantaggio riconoscevano co- Gli indipendentisti del colonnello me capo GrivasGrivas che passò Dighenìs, dall’al- greco-ciprioti si tra i più moderati divisero subito su come all’attacco rinnovando le violenze e che appoggiavano la via diplomatica ottenere l’enosis: lotta proclamando uno sciopero generale. e pacifica dell’arci- armata o diplomazia Nell’aprile del vescovo Makarios III. Anche i turco-ciprioti si an- 1955 iniziò, dunque, una violendarono preparandosi a opporre ta campagna militare dell’Eoka resistenza contro un’eventuale con una serie di attentati diretti énosis, formando gruppi clande- unicamente contro le autorità stini armati quali il “Vulcano” britanniche, senza colpire i turcoche nel 1957 assunse il nome di ciprioti. Tuttavia, dopo appena “Organizzazione di Resistenza un anno di terrore e violenza, nell’ottobre del 1956 Grivas propoTurca (Tmt)”. Il rinvio da parte delle Nazioni se una tregua al governatore inUnite della decisione su Cipro glese sir Harding. Ma il rappregettò nello sconforto i più accesi sentante governativo britannico indipendentisti greco-ciprioti interpretò questo gesto come una che immediatamente reagirono resa, o comunque come un atto di con la forza. Uno sciopero gene- debolezza militare dell’Eoka, e rale inaugurò la nuova lotta per cominciò subito a dettare condil’énosis, a questo seguirono i pri- zioni inaccettabili per Grivas e compari. La violenza ovviamente mi violenti scontri di piazza. La reazione inglese agli attentati riprese in grande stile. e alla lotta armata dell’Eoka non Nel frattempo un tentativo di dirimere la controversia attraverso si fece attendere:

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la convocazione di una conferenza tripartita a Londra e formata da rappresentanti dei governi britannico, turco e greco, da cui furono esclusi proprio i leader ciprioti, fallì apertamente. La riunione internazionale, però, sancì un riconoscimento ufficiale da parte dei britannici della posizione di Cipro: per la prima volta la Gran Bretagna riconobbe che non si trattava di una questione puramente domestica, pur non intendendo procedere verso l’énosis o almeno l’autogoverno di Cipro. Altri piani per ammorbidire la situazione sull’isola e fornire una soluzione del conflitto tra le comunità greco-cipriote e turco-cipriote furono presentati, ma ben presto decaddero tutti. Tra questi il “Piano di Lord Radcliff”, per una riforma costituzionale che includesse l’opzione dell’autodeterminazione, e il “Piano Mc Millan” tendente a offrire governi locali separati alle due comunità. Dopo che il livello delle violenze aumentò, coinvolgendo questa volta anche entrambe le comunità, si giunse finalmente a un accomodamento: grazie al compromesso di Zurigo-Londra del febbraio 1959, il governo greco e turco svilupparono un’intesa nella quale si superarono le posizioni a favore dell’énosis o di una spartizione dell’isola per giungere a discutere di un’eventuale indipendenza. Quest’accordo gettò le basi fondamentali per la costituzione della Repubblica di Cipro del 1960, accettata da tutte le parti coinvolte. Infatti, seguirono incontri bilaterali tra i diversi par-

titi in lotta, giungendo il 19 febbraio 1960 a un accordo sulla possibilità di una costituzione per un’entità territoriale indipendente: il 16 agosto 1960 nacque la Repubblica di Cipro. Lo status di repubblica fu garantito dalla Grecia e dalla Turchia, anche il Regno Unito riconobbe la nuova entità politica, però mantenne la propria sovranità su due basi militari situate ad Akrotiri e a Dhekelia. L’arcivescovo Makarios, rientrato a Cipro il 1° marzo, fu eletto presidente il dicembre successivo. Grivas aveva accettato a malincuore l’indipendenza dell’isola e la sua non riunione alla Grecia. Tuttavia uscì dalla clandestinità e ritornò ad Atene. Accolto come un eroe nazionale dai greci, re Paolo di Grecia lo decorò pubblicamente e gli confermò il titolo di “luogotenente generale”. La nuova realtà cipriota fu subito caratterizzata da un predominio greco-cipriota, ma con ampie garanzie per la minoranza turco-cipriota, difatti accanto a Makarios si insediò come vicepresidente della Repubblica di Cipro un turco-cipriota, Küchük. La carica di presidente spettò dunque ai greco-ciprioti e quella di vicepresidente ai turco-ciprioti, a quest’ultimi fu riconosciuto anche il diritto di veto all’interno nell’organo legislativo; mentre le cariche nel governo centrale e nei governi locali furono suddivise secondo una proporzione del 70% ai primi e del restante 30% ai secondi. La diffidenza tra i due gruppi etnici, però, non tardò a riaffiorare.


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Il giovane Stato cipriota si trovò ben presto paralizzato dai veti incrociati tra le due comunità: infatti secondo la Costituzione a un presidente greco-cipriota, capo di stato e di governo, era affiancato un vice-presidente turco-cipriota con diritto di veto. Il governo era formato da sette ministri grecociprioti e tre turco-ciprioti, e il Parlamento monocamerale era diviso fra trentacinque membri greco-ciprioti e quindici turcociprioti, con elezioni separate e necessità di avere la maggioranza su ogni disegno di legge all’interno di entrambi i gruppi. In pratica un sistema di questo tipo poteva funzionare se si fosse messa in campo un’alleanza di programma tra le due comunità. Uno dei primi momenti di tensione tra le due comunità dell’isola si verificò sulla questione dell’integrazione delle comunità nel pubblico impiego e nell’esercito, al cui riguardo il vicepresidente Fazil Küchük pose il veto. Inoltre molti dei ministri scelti da Makarios erano collegati direttamente o indirettamente all’Eoka, tra questi Polykarpos Gheorgadis, nominato ministro dell’Interno dopo essere stato comandante di una pattuglia guerrigliera in montagna. E questo creava il clima di fiducia ideale per portare avanti la nuova realtà politica. I primi tre anni della Repubblica passarono così in una serie di veti incrociati, per questo non fu possibile approvare le leggi attuattive per la crescita dell’isola attraverso riforme fiscali, sulla pub-

FOCUS

Quella linea di colore verde

97 Nel 1974 la Turchia inviò truppe di occupazione, che si installarono nella parte settentrionale di Cipro. Nove anni dopo ci fù l’autoproclamazione della Repubblica turca di Cipro, che fu riconosciuta solo dal governo di Ankara. La frontiera fra le due Cipro, chiamata “linea verde”, è sorvegliata da trent’anni da un contingente di più di mille soldati dell’Onu, che costano 45 milioni di euro all’anno. Recentemente, nell’aprile del 2003, la “linea verde” è stata riaperta e per la prima volta dopo decine di anni i cittadini delle due entità politiche si sono potuti recare liberamente nell’area accanto a quella da loro abitata. La strada per la riunificazione rimane però ancora lunga, come dimostrano i risultati del referendum per la riunificazione: mentre moltissimi turchi, nel settore nord di Cipro, hanno votato sì, nella Repubblica greca cipriota ben ¾ dei votanti si è espresso per il no. L’isola rimane quindi divisa, e per questo solo la repubblica greca, Stato sovrano riconosciuto internazionalmente, è potuta entrare nell’Unione europea.


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blica amministrazione, sulla poli- nominò un mediatore e nel marzo zia. Data l’impossibilità di costi- del 1964 organizzò una forza mituire l’esercito misto previsto litare per il mantenimento della dalla Costituzione, varie milizie pace (Unficyp - United Nations etniche, da una parte e dall’altra, Peacekeeping Force in Cyprus) con un mandato semestrale da alprosperarono indisturbate. Il 30 novembre del 1963 Maka- lora sempre rinnovato. L’accettarios propose a Küchük l’approva- zione della risoluzione dell’Onu zione di tredici emendamenti alla per il cessate il fuoco del 10 agoCostituzione tesi a garantire un sto 1964 pose fine, almeno all’apmigliore funzionamento del go- parenza, ai feroci scontri tra le verno, tra cui l’abolizione del po- opposte fazioni. tere di veto da parte della mino- Nel frattempo sull’isola era riranza turca nell’organo legislati- comparso il comandante greco vo. I turco-ciprioti intesero l’abo- Gheorghios Grivas, che si affrettò lizione del diritto di veto e le al- a riorganizzare tutte le formazioni paramilitari gretre misure propoco-ciprioti che lotste come un’aperta Makarios dichiarò che tavano per l’énosis minaccia alla pronella famigerata pria comunità e la questione cipriota Guardia Nazionacome uno strata- non poteva essere le. Il 6 agosto 1964 gemma per aprire la strada all’énosis. risolta con la forza, ma le milizie guidate da Grivas sferraroInfatti, le tredici solo con la diplomazia no un vero e promodifiche costituzionali facevano parte di un pro- prio attacco militare in piena regetto noto come “Piano Akritas”, gola contro la testa di ponte di destinato a rimettere le strutture Kokkina dove si erano concentradella Repubblica completamente te le milizie turco-cipriote. Dopo nelle mani dei greco-ciprioti, in tre giorni di combattimenti bastò particolare abolendo i diritti di un bombardamento dimostrativo veto ai vari livelli, per poi poter da parte dell’aviazione di Ankara procedere a un referendum sul- sulle postazioni della Guardia Nazionale e sui villaggi greco-cil’énosis. Le tensioni perciò ascesero a livel- prioti del circondario per calmare li preoccupanti e nel mese di di- le acque. Grazie alle pressioni del cembre iniziarono veri e propri presidente americano Lyndon combattimenti da guerra civile. Johnson sul governo turco, l’inTurchia e Grecia minacciarono di vasione su larga scala fu solo rinintervenire militarmente sull’iso- viata. Per protesta la Grecia si rila, quest’ultima, per intimorire la tirò dalla Nato, di cui faceva parcontroparte, svolse un’imponente te assieme alla Turchia. esercitazione militare nel mar Un nuovo piano per risolvere la questione cipriota venne fuori a Egeo di fronte alle coste turche. Come risposta ai disordini, l’Onu una riunione a Ginevra tra i rap-


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presentanti di Grecia e Turchia padopoulos “licenziò” Grivas che con la mediazione degli Stati subito si allontanò dall’isola, alUniti. Il piano, detto “Piano meno temporaneamente. Gli StaAcheson” dal nome del mediato- ti Uniti erano troppo interessati a re statunitense Dean Acheson, mantenere le basi militari in Turprevedeva l’énosis in cambio della chia e Grecia e quindi a non percessione delle isole di Kasteloriz- dere l’alleanza militare con Anzon alla Turchia, che in ogni caso kara e Atene, ma soprattutto a manteneva le enclavi turco-ci- installarne nuove a Cipro in caso priote nell’isola di Cipro e la so- di partenza degli inglesi. vranità su una base militare. Il Nel frattempo Makarios, uscito Piano fu però rifiutato da Maka- notevolmente rafforzato dalle rios, perché prefigurante un’inac- nuove elezioni, dichiarò che la questione cipriota non poteva escettabile spartizione dell’isola. Ma l’idea dell’énosis faceva parte sere risolta con la forza, ma solo del Dna del comandante Grivas, nell’ambito delle Nazioni Unite. Proprio sotto gli che continuò la sua auspici dell’Onu azione terroristica La paura che Cipro furono intrapresi a contro i turco-ciprioti. L’apice di diventasse “comunista” Beirut dal 1968 queste azioni mili- diede l’avvio ai tentativi dei colloqui tra le due comunità che tari si ebbe nel nodureranno fino al v e m b r e 1 9 6 7 , di golpe e all’uccisione q u a n d o f u r o n o del presidente Makarios 1974, senza pervenire ad accordi sterminate diverse d’ampia portata. decine di turco-ciprioti. A seguito di questa azione, la Nel settembre 1971 la giunta Turchia procedette a intimare un militare al potere ad Atene, che vero e proprio ultimatum, minac- appoggiava il partito dell’énosis, ciando un intervento armato inviò clandestinamente a Cipro il sull’isola e contro la Grecia. Le colonnello Grivas-Dighenìs. condizione turche includevano Questo appena arrivato sull’isola, l’espulsione di Grivas, lo sciogli- pare travestito da pope ortodosso, mento della Guardia Nazionale, costituì un nuovo gruppo terroriil ritiro delle truppe greche da stico, l’Eoka B, per far cadere MaCipro e la cessazione delle rap- karios, considerato un «traditopresaglie contro la comunità tur- re» dall’opinione pubblica greca. In pratica, le ragioni che spinsero co-cipriota. Grazie alla mediazione segreta il governo militare greco a inviadegli Stati Uniti attraverso l’in- re Grivas sull’isola rispecchiano il tervento di Cyrus Vance, diplo- desiderio dell’énosis con Cipro, matico inviato dal presidente de- ma anche i timori nascosti degli gli Stati Uniti Johnson, nel no- stessi greci e degli Stati Uniti sul vembre 1967 la giunta dei colon- ruolo di primo piano che Makanelli greci guidata da George Pa- rios svolgeva nel “Movimento dei

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Non Allineati”: i due governi non potevano permettere a Makarios di diventare “il Fidel Castro del Mediterraneo”. Tuttavia, prima di procedere con le maniere forti, Grivas decise di incontrare Makarios per tentare di convincerlo sull’énosis. L’incontrò risultò infruttuoso per il colonnello greco, anche perché l’arcivescovo-presidente era contrario ad alcun tipo di énosis con una nazione governata da un regime dittatoriale, in più aveva altre idee, tra cui le tante “attenzioni” dell’Unione Sovietica. La paura che Cipro diventasse “comunista”, diede l’avvio ai tentativi di golpe e dell’eliminazione fisica dell’arcivescovo-presidente. Il terrorismo si riaccese con attentati contro politici (come il rapimento, il 27 luglio 1973, del ministro della Giustizia cipriota Christos Vakis), attentati contro l’enclave turco-cipriota, contro lo stesso Makarios. Grivas, per sostenere la sua lotta sull’isola, ebbe contatti con la destra eversiva italiana. Infatti, secondo gli atti del Sismi relativi all’organizzazione terrorista Eoka-B, emerge infatti che alla fine degli anni Cinquanta un emissario del generale Grivas si era recato in Italia per valutare la possibilità di acquistare nel nostro paese armi per l’organizzazione. Un corposo arsenale bellico appartenuto a fuoriusciti della X-MAS (“Gruppo Sigfried”) passò dai magazzini veneti di Pian del Consiglio sull’isola di Cipro. Tra i cinquecento-seicento uomini in armi dell’Eoka-B, si andava

distinguendo per efferatezza un certo Nikos Giorgiadis, detto Sampson, che con la sua banda terrorizzò l’isola. Già arrestato dagli inglesi per l’assassinio di almeno cinque soldati britannici, ai tempi della prima Eoka, nel 1974 divenne il referente cipriota del governo greco al posto di posto di Grivas-Dighenìs nel frattempo morto per attacco di cuore. Sarà proprio Sampson a portare a compimento il colpo di Stato


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contro Makarios con la famosa “Operazione Afrodite”. L’“Operazione Afrodite” prevedeva l’uccisione, o almeno la cattura, dell’arcivescovo-presidente. Ma quando il 15 luglio 1974 piano segreto fu attuato, nonostante la presenza di dodicimila uomini della Guardia Nazionale grecocipriota, inquadrati da seicentocinquanta ufficiali greci, l’etnarca, già sopravvissuto a due attentati (nel 1970 e nel 1973), non

solo rimase illeso sotto le macerie del palazzo presidenziale, ma riuscì a fuggire rifugiandosi dapprima a Paphos, suo paese natale, e poi, con l’aiuto degli inglesi, a Londra dove trascorse il suo secondo esilio. Riuscito il golpe, GiorgiadisSampson pretese la presidenza dell’isola. A seguito del crollo del regime dei colonnelli ad Atene il 23 luglio e della scoperta di fosse comuni nelle quali fu-


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rono occultati i civili turco-ci- mente della sola parte greco-ciprioti, Sampson fu sostituito da priota. Subito furono approntati Glafkos Clerides, un moderato nuovi negoziati con la controleader della comunità greco-ci- parte turco-cipriota per risolvere priota già presidente della Ca- la difficile situazione politica dell’intera isola. I negoziati tra mera dei Deputati. Di fronte a tali mutamenti la Makarios e Denktas giunsero reazione di Ankara non si fece tuttavia solo vicini alla soluzione attendere: il 20 luglio le forze della questione cipriota, propoarmate turche sbarcarono nel nendo un modello di federalinord di Cipro incontrando una smo bi-nazionale (bi-camerale e strenua resistenza e impossessan- bi-zonale) con il territorio assedosi di circa un terzo dell’intero gnato alle comunità greche e territorio, ossia il 34% dell’inte- turche all’interno di un’isola ra isola corrispondente alla parte unita. L’arcivescovo Makarios si settentrionale di Cipro. Con il mostrò favorevole a concessioni territoriali per la pretesto di difenminoranza turcodere la minoranza La comunità cipriota, a conditurco-cipriota, il zione che si potespresidente Den- internazionale negò se instaurare un ktas scacciò da il riconoscimento forte governo cenquesto territorio trale e sostenendo circa duecentomi- della Repubblica turca fermamente il rila greco-ciprioti. di Cipro nel 1983 torno dei rifugiati Appena più tardi, il 16 agosto 1974, il settore oc- da entrambi i lati alle proprietà cupato dai turchi fu dichiarato sgomberate nella migrazione del come Stato autonomo federale 1974, basandosi sia sulle risoluturco-cipriota. La nuova frontie- zioni delle Nazioni Unite che ra attraversava (ed attraversa) sulle decisioni della Corte euroNicosia, un confine lungo cen- pea dei Diritti dell’Uomo tottanta chilometri che attraver- Nel febbraio 1977 i due leader sa da parte a parte l’isola, sulla sottoscrissero quattro punti guiquale ancora tutt’oggi staziona da, ma la possibile risoluzione una forza internazionale di pace della questione cipriota fu invalidelle Nazioni Unite. Una zona data dal rifiuto della Turchia di tristemente nota come “Nekri ritirare le proprie truppe. RestaZoni”, la zona morta, proprio va sull’isola il grave problema per le innumerevoli morti vio- dei rifugiati, che rese più profonlente avvenute. La comunità in- de le divergenze e le ostilità tra ternazionale non riconobbe que- le due fazioni. Nell’aprile del 1975, sotto l’egista nuova entità politica. Nel dicembre di quello stesso da delle Nazioni Unite ripresero anno Makarios rientrò sull’isola i colloqui fra le parti. Questi, per e assunse la presidenza, ovvia- risolvere la crisi, miravano alla


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creazione di un sistema federale per assicurarsi di essere rieletto per entrambe le zone. La princi- nel 1983. Comunque nello stesso pale questione che divideva le anno, il 15 novembre 1983, fu due comunità riguardava la for- proclamata la Repubblica Turca ma di federalismo da adottare, in di Cipro del Nord tra la disapaltre parole le modalità di distri- provazione della comunità interbuzione delle funzioni tra il po- nazionale, che ne negò il riconotere centrale e quelli locali. La scimento. Solo la Turchia ricocomunità turco-cipriota era mol- nobbe questa nuova entità politito interessata a preservare il più ca, dando inizio a una forte impossibile l’autorità locale, a diffe- migrazione turca diretta nella renza della controparte greco-ci- Repubblica del Nord dell’isola priota che mirava a stabilire un che portò a contare all’inizio deforte potere del governo centrale. gli anni Novanta un aumento I colloqui non si fermarono no- della popolazione di quarantaminostante la morte dell’arcivesco- la coloni turchi, trentacinquemila soldati e ventivo Makarios, avvemila profughi. Tanuta nell’agosto La questione cipriota li flussi equilibradel 1977. rono la presenza Il nuovo presiden- è alla base di turchi nell’area te, Spyros Kypria- del congelamento portandola a panou, leader del Parreggiare quella tito democratico, dell’ingresso greco-cipriota. proseguì sulla scia della Turchia nell’Ue Nonostante quedel suo predecessore, negando il riconoscimento sto, i negoziati proseguirono portando a un apparentemente risodella divisione dell’isola. Nel 1978 la diplomazia interna- lutivo summit a New York nel zionale, guidata dal presidente gennaio del 1985, in occasione degli Stati Uniti Jimmy Carter, del quale un accordo preliminare si impegnò di nuovo per risolvere promosso dalle Nazioni Unite fu la questione cipriota, proponendo accettato dalla comunità turcoun piano promosso congiunta- cipriota, ma rifiutato all’ultimo mente da Stati Uniti, Gran Bre- momento dal presidente Kypriatagna e Canada, sulla falsariga del nou. Nel maggio 1985 la Recompromesso del 1977 tra Maka- pubblica Turca di Cipro del rios e Denktas, che fallì a causa, Nord indisse un referendum sulquesta volta, dell’opposizione l’adozione di una nuova Costituzione, che vide un’enorme astengreco-cipriota. Una nuova fase dei negoziati par- sione (30%) e solo il 65% dei votì nel 1979, ma ancora una volta tanti esprimersi favorevolmente. si rivelarono un grosso fiasco, Nel 1988 Kyprianou perse di sembra perché le trattative fosse- misura le elezioni che videro ro state strumentalizzate dal- ascendere alla presidenza della l’uscente presidente Kyprianou Repubblica George Vassiliou, un

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outsider politico con un passato da uomo d’affari di successo, candidato per una lista indipendente e che aveva impostato la sua campagna elettorale promettendo un nuovo approccio per una rapida soluzione della questione cipriota. Dall’agosto del 1988 riprese il dialogo tra le due comunità, ma la distanza tra le parti rimase incolmabile, nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite di guidare i negoziati e le concessioni offerte da Vassiliou che mostrò effettivamente una maggiore flessibilità rispetto ai suoi predecessori. Nel 1990 le trattative naufragarono definitivamente sotto la pressione dell’opposizione interna ostile ai propositi vagamente conciliativi di Vassiliou e Denktas. Nel 1991 il presidente degli Stati Uniti George Bush rilanciò i negoziati con l’intenzione di favorire le rivendicazioni turco-cipriote, ma l’intera operazione si concluse con un nulla di fatto per l’opposizione congiunta di Nicosia e Atene. L’anno seguente le Nazioni Unite sancirono la bipartizione politica dell’isola, riconoscendo l’autorità dei governi di ambo le comunità. Ma quasi contemporaneamente la Corte europea di giustizia ordinò di provvedere a misure di embargo nei confronti del governo turcocipriota. L’embargo andò a colpire un’economia già di per sé estremamente fragile e arretrata, in favore della quale Ankara cercò di provvedere con aiuti economici a fondo perduto in ogni caso insufficienti.

Nel febbraio 1992 si tenne a Cipro la Conferenza dei Paesi non allineati, mentre nel febbraio dell’anno dopo il presidente uscente Vassiliou, che aveva tradito la promessa di risolvere la questione cipriota nell’arco di sei mesi, perse le elezioni. Al suo posto fu eletto presidente Glafkos Klerides, candidato del partito conservatore, che durante la campagna elettorale aveva pienamente abbracciato le posizioni ufficiali delle Nazioni Unite, in particolare il punto che riguardava la posizione dei duecentomila greco-ciprioti cacciati dalle loro case nel territorio settentrionale dell’isola. Subito, nel marzo di quell’anno, i negoziati ripresero apparentemente con buone prospettive, quanto meno nell’impegno di costruire una fiducia reciproca, ma alla fine dell’anno ancora una volta s’insabbiarono in una situazione di stallo con ambo le parti non disposte a fare concessioni. Nel 1996, in seguito all’uccisione da parte della polizia turcocipriota di un giovane della comunità greca durante una manifestazione, si verificarono ulteriori scontri armati lungo la linea di confine. Nel corso del 1997 Clerides e Denktas si incontrarono più volte per creare i presupposti di una riunificazione finalizzata a risolvere definitivamente la questione e procedere a un ingresso comune nell’Unione europea. Gli incontri tra le delegazioni delle due comunità non ebbero alcun esito. Nel 1998 la crisi tra le due comunità si aggravò improvvisamente,


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quando il governo di Nicosia ha acquistato missili antiaerei dalla Russia, con l’intenzione di installarli sull’isola. Di fronte alla minaccia di ritorsioni da parte della Turchia, Nicosia raggiunse un accordo con la Grecia per l’installazione dei missili nell’isola di Creta, sotto controllo cipriota. A tutt’oggi, la questione cipriota è alla base del congelamento dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea, che invece ha avviato le trattative con Cipro per la sua adesione. Nel febbraio 1998 Glafkos Klerides è stato riconfermato alla carica di presidente. Anche la popolazione dell’area dell’isola sotto controllo turco ha a sua volta riconfermato alla presidenza Rauf Denktash nell’aprile 2000. Nella Repubblica di Cipro, invece, le elezioni legislative del 2001 registravano la vittoria di stretta misura dei comunisti dell’Akel sulla coalizione di centrodestra del presidente Glafkos Clerides. Nel 2002, il segretario generale dell’Onu Kofi Annan avviò una nuova serie di negoziati per la riunificazione dell'isola. Dopo due anni, nel 2004, con lunghe trattative tra le due parti, emerse un possibile piano di riunificazione dell’isola. Il piano risultante fu sostenuto dall’Assemblea delle Nazioni Unite, dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti. La parte turca dell'isola accettò il piano ma la parte greca lo respinse, perché non riconosceva a tutti i Ciprioti greci scacciati dall'invasione turca il diritto di ritornare nelle loro case e non ri-

mandava in Turchia tutti i coloni turchi. Cipro divenne membro dell’Unione europea nel 2004 e adottò l’Euro come propria valuta dal 1º gennaio 2008, sostituendo la sterlina cipriota utilizzata in precedenza; la zona nord, invece, continuò ad utilizzare la Lira turca e il 1º gennaio 2008 adottò la Nuova Lira Turca.

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L’Autore pietro urso Giornalista, direttore responsabile di Charta minuta, conduce un programma radiofonico su Elle radio.


SCHEDA PAESE Informazioni Generali Dal 1974, data dell’invasione turca, l’isola di Cipro è formalmente divisa in due comunità: quella greca, che è la più numerosa, e quella turca (che ricopre circa il 37% della superficie totale). L’unico Stato internazionalmente riconosciuto è la Repubblica Cipriota formata dalla comunità greca. La Repubblica Turca di Cipro del Nord, infatti, non è riconosciuta nè dalle Nazioni Unite, nè dall`Unione europea e né da alcun altro Stato (inclusa l`Italia), con l`unica eccezione della Turchia. Superficie 9.251 km2. Capitale Nicosia (307.000 abitanti).

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Altre città principali Limassol (224.000 abitanti); Larnaca (130.000 abitanti); Paphos (75.000 abitanti). Popolazione La popolazione della Repubblica cipriota è di circa 793.100 abitanti; le stime per Cipro del nord vanno dagli 88.100 abitanti (stime Repubblica cipriota) a 215.800 (stime amministrazione turca). L’87,7% appartiene alla comunità greca ed il 12,3% alla comunità turca. Lingua Lingue locali ufficiali: greco nella parte grecocipriota e turco nella parte turco-ciprota. L’inglese è parlato da buona parte della popolazione, soprattutto nella parte greco-cipriota. Religioni presenti Ortodossa nella parte greco-cipriota e musulmana nella parte turco-cipriota. Sono presenti Chiese cattoliche, anche se poche. Moneta Dal 1° gennaio 2008 l’unità monetaria di Cipro è l’euro. Durante gli anni precedenti, Cipro ha soddisfatto tutti i criteri economici e finanziari richiesti e dal 1° gennaio 2008 è entrata a far parte del club della moneta unica, incrementando ancora il numero dei paesi di eurolandia. Fino al 31 dicembre 2007, l’unità moneteria del paese

era la Lira Cipriota (C£) CYP, divisa in 100 centesimi. Rischio paese La Sace colloca Cipro nella categoria Ocse 0 su 7 (dove 0 rappresenta il rischio minore e 7 il rischio massimo). Condizioni di Assicurabilità: nessuna restrizione (apertura per tutti i tipi di operazione). Prospettive future Ormai membro a tutti gli effetti dell’Unione europea, il paese è pronto a sfruttare le opportunità ed ad affrontare con successo i rischi economici derivanti dall’appartenenza alla mercato europeo. Cipro rappresenta un’economia dinamica e flessibile che, grazie ad un’intensa cooperazione con l’Unione europea, si avvia verso la mondializzazione. Le riforme in corso hanno alimentato la stabilità economica ed aperto delle nuove opportunità di affari e di investimento per imprenditori locali ed esteri; sono in corso di implementazione, infatti, importanti strategie per modernizzare e sviluppare ulteriormente l’economia cipriota e per accrescerne la competitività all’interno dell'Unione europea ed ad livello internazionale. Queste riforme strutturali insieme alla stabilità macroeconomica, di cui l’isola può godere, rappresentano una solida base per il successo del paese in ambito europeo, già a partire dall’immediato futuro. Le previsioni potrebbero essere ancora più ottimistiche, se si potesse ipotizzare un’imminente riunificazione dell’isola, poiché ciò comporterebbe effetti positivi sia sui consumi, che sulla fiducia degli imprenditori, anche di quelli esteri che potrebbero essere maggiormente attirati da un clima socio-politico più disteso. Sempre in politica economica, si prevede l’implementazione da parte del governo cipriota di una serie di azioni volte ad una maggiore liberalizzazione delle settore industriale. Questa apertura del mercato interno, richiesta dalle leggi dell’Unione europea, passa anche attraverso la concessione di una più vasta autonomia per le compagnie di proprietà statale. Nonostante le previsioni di crescita, è necessario sottolineare però alcune debolezze strutturali del paese.


LE GUERRE DIMENTICATE Pietro Urso

Cipro è fortemente dipendente dall’esterno, soprattutto per i prodotti manufatturieri. Il paese ha anche una forte dipendenza dall’approviggionamento energetico in quanto non produce nè gas nè petrolio. Il governo ha concluso nel 2007 un accordo di cooperazione in materia di gas e petrolio con l’Egitto, finalizzato alla ricerca e all’esplorazione delle zone lungo la linea di separazione delle rispettive acque territoriali. Il governo cipriota prevede inoltre la costruzione di un impianto Gnl a Vassilikos. Per il 2011 si prevede una crescita pari allo 0.1%. La crescita economica registrerà un sensibile miglioramento rispetto al 2009 (-1.7%). La Commissione europea ha approvato, in base alle norme vigenti sugli aiuti di Stato, la proposta, avanzata dal governo, che prevede di introdurre la tonnage tax nell’ordinamento cipriota. Il meccanismo, opzionale, riguarda tutte quelle imprese armatoriali operanti nel settore del trasporto marittimo internazionale. La Commissione ha rilevato che la proposta, applicata con successo in molti altri Stati dell’Unione europea, contribuirà a rafforzare la competitività della flotta cipriota, senza falsare indebitamente la concorrenza. Le compagnie di navigazione ammesse a beneficiare dell’imposta sul tonnellaggio possono decidere di tassare le proprie attività in base alla stazza netta della flotta piuttosto che in base agli utili effettivi. Secondo l’esecutivo Ue il regime è conforme al massimale di aiuti previsti dagli orientamenti comunitari in materia e il governo cipriota ha calcolato che il costo annuale della misura si aggirerebbe intorno agli 1,5 milioni di euro. La Commissione ha autorizzato il regime di tonnage tax fino al 31 dicembre 2019. L’obiettivo è sostenere il settore della navigazione a Cipro così come in altri Stati dell’Ue con una forte caratterizzazione marittima dell’economia. Settori produttivi Prima della divisione dell’isola, l’economia cipriota era largamente incentrata sull’agricoltura ed aveva un settore manifatturiero poco sviluppato. In seguito alla separazione, la comunità greca della Repubblica di Cipro ha compiuto importanti sforzi per implementare programmi governativi di sviluppo edilizio, industriale e

commerciale al fine di portare l’economia del paese verso i modelli occidentali. Attualmente, il settore dell’edilizia rappresenta una componente importante del Pil del paese, contribuendo alla sua crescita. Infatti, il numero di permessi edilizi (includendo gli edifici residenziali ed altri) continua ad aumentare ad un ritmo molto più veloce di quanto accada a livello mondiale, sostenuto, soprattutto, dalla forte richiesta di case per le vacanze turistiche. Interscambio Durante il triennio 2007-2008-2009, l’interscambio Cipro-Italia ha fatto registrare sempre un saldo positivo. Ciò nonostante, nel 2009, si sono registrati decrementi sia nelle attività di esportazione che in quelle di importazione. Nel periodo gennaio-agosto 2010, in base agli ultimi dati Istat disponibili, l’interscambio fra Italia e Cipro ha raggiunto i 485,1 milioni di euro, con un saldo commerciale attivo di 369,9 milioni. L’interscambio mostra un incremento del 5,7% rispetto al medesimo periodo del 2009 dovuto essenzialmente all’aumento dell’import italiano dell’ordine del 126,8% (57,6 milioni contro 25,4 milioni del medesimo periodo del 2009). L’export italiano, invece, è stato pressochè stabile, con una contrazione dell’1,4%, passando dai 433,5 milioni dell’agosto 2009 ai 427,5 milioni nel 2010. Le principali voci del nostro export sono state: petrolio raffinato, abbigliamento, mobili, altre macchine di impiego generale, macchine di impiego generale, materiali da costruzione in terracotta e altre macchine per impieghi speciali. Da segnalare, inoltre, gli incrementi delle voci: navi ed imbarcazioni con 9,6 milioni (+114,1%), motori e generatori elettrici con 7,9 milioni (+134,7%) e prodotti chimici di base con 6.3 milioni (+17,5%). Stando ai dati Istat, le esportazioni cipriote verso l’Italia, sempre nei primi otto mesi del 2010, sono ammontate a 57,6 milioni di euro. Le principali esportazioni cipriote sono state: navi ed imbarcazioni; metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi, medicinali e preparati farmaceutici e componenti elettronici. Queste quattro voci rappresentano il 72,0% del totale esportato da Cipro verso l’Italia.

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IL MOSAICO BALCANICO TRA GUERRA E OPPORTUNISMO

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Il conflitto nell’ex Jugoslavia, unico scontro armato in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, per molti è stato un pretesto per provare le forze Nato sul suolo europeo. Solo tale intervento ha condannato la Serbia alla sconfitta. Ma molti sono ancora i lati oscuri di una vicenda nata per manifesto disinteresse da parte degli Stati europei. intervista a MAURIZIO CABONA di PIETRO URSO

Maurizio Cabona è stato inviato di politica internazionale per Il Giornale, nei momenti liberi che gli lasciava la critica cinematografica, praticata con l’occhio del geopolitico. Commenti dai grandi festival s’alternavano ad analisi delle situazioni in Cina, Congo, Egitto, Giordania, Indonesia, Iraq, Siria, Thailandia. Oltre alla predilezione per il Sud e l’Est del mondo, Cabona ha frequentato la Serbia, la Sparta della Jugoslavia. Ciò fin dai giorni seguenti l’attentato contro il primo ministro Zoran Djindjic; in quelli del ritorno al potere di Vojislav Kostunica; in quelli dei funerali di Slobodan Milosevic, che il governo Djindjic aveva consegnato al tribunale dell’Aia; e in

quelli dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Boris Tadic. Cabona aveva infatti curato, con Ditelo a Sparta. Serbia e Europa. Contro l’aggressione della Nato (Graphos, 1999), una raccolta degli interventi di Giulio Andreotti, Pierluigi Battista, Luciano Canfora, Franco Cardini, Alain de Benoist, Maurice Couve de Murville, Régis Debray, Massimo Fini, Jean-Jacques Langendorf, Alberto Pasolini Zanelli, Alain Peyrefitte, Harold Pinter, Nico Perrone, Sergio Romano, Giovanni Sartori, Aleksandr Solgenitsin, Stenio Solinas, Tomaso Staiti, Marco Tarchi, Aleksandr Zinoviev, Danilo Zolo, cioè dei refrattari all’“interventismo umanitario”.


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Maurizio Cabona

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Il conflitto in Jugoslavia è stato l’unico in Europa dalla Seconda Guerra mondiale. Come maturò?

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Il declino economico del Patto di Varsavia comportava quello politico-militare, fino allo scioglimento del Patto e al frazionamento dell’Urss. Nata dal trattato di Versailles, la Jugoslavia s’era ricostituita come Stato sovrano dopo la sconfitta della primavera 1941 e l’occupazione tedesca, durata fino all’autunno 1944. Fino al 1989, la Jugoslavia è stata uno Stato-cuscinetto, determinante specie per l’Italia. Poi agli occhi delle grandi potenze la Jugoslavia ha perso la ragion d’essere. Complice il Vaticano, la semi-riunificata Germania incoraggiava la secessione di Slovenia e Croazia... Semi-riunificata la Germania?

Per raggiungere i confini del 1937, le mancavano – le mancano – Slesia, Danzica, Koenigsberg… Una volta che li recuperasse, l’Unione europea non sarebbe più un’alleanza, ma una coalizione. Dov’è la differenza?

Un’alleanza ha un primus inter pares, una coalizione ha un padrone. Posso continuare sulle cause dei conflitti jugoslavi?. Certo.

L’Europa del 1992-1999 vedeva l’Alleanza atlantica perdere ogni apparenza difensiva, ma funzione egemonica non le era estranea nemmeno prima. Nel 1967 e nel 1974 aveva ‘corretto’ l’indisciplina – allora politica – della Grecia.

Nel 1973 aveva guidato in Spagna la mano dell’Eta basca nell’assassinio dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco, erede di Francisco Franco. Nel 1974 aveva favorito in Portogallo il rovesciamento di Marcelo Caetano. Anche in Italia, nel 1964, c’era stato un tintinnar di sciabole, al quale l’Alleanza atlantica non era estranea, come non lo sarà alla strategia della tensione… Dunque?

L’Alleanza atlantica non s’era ancora esercitata in conflitti offensivi sul suolo europeo. La Jugoslavia le offrì l’occasione. A forzare la mano stavolta non furono gli Stati Uniti: fu la Germania. Un caso di sub-imperialismo “assertivo”, come lo definì la stampa americana, abituata a vedere i vassalli europei trascinati, non trascinatori. Morale?

La guerra, che la Serbia stava vincendo, fu capovolta dai bombardamenti della Nato. Si arrivò alla pace di Dayton, dove Milosevic sacrificò i serbi di Bosnia alla propria sopravvivenza politica. Per pochi anni, però. All’Alleanza atlantica serviva un nemico. La residua Jugoslavia, ovvero Serbia e Montenegro, con la repressione in Kosovo offrì il pretesto di un “intervento umanitario”. E si sa che chi dice umanità vuole fregarti. Prosegua.

L’Italia subì il ricatto di quella guerra, che il ministro degli Esteri, Lamberto Dini, denunciò.


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Maurizio Cabona

Ma come dissociarsi? Chi si fosse dissociato dall’Alleanza atlantica, ne sarebbe diventato nemico… Quindi L’Italia concesse le basi per i bombardamenti aerei, ma – unica tra i paesi della coalizione anti-serba – tenne aperta l’ambasciata di Belgrado e, da allora, protegge la minoranza serba in Kosovo, che gli albanofoni vorrebbero espellere del tutto.

che alla loro secessione non aveva sostanzialmente resistito con le armi. Non poteva però fare lo stesso di fronte alla secessione della Bosnia-Erzegovina, a prevalenza musulmana, ma con forti minoranze ortodosse. I Balcani sono tradizionalmente una polveriera. Come mai etnie così diverse si sono trovate nella stessa regione?

In seguito a invasioni, conversioni di massa, scismi religiosi. CerMa in seguito l’Italia avrebbe po- ti tedeschi dicevano che l’Oriente tuto evitare la secessione del Ko- comincia a Vienna. Il concetto di sovo e la nascita di uno Stato cri- Balcani include anche Ungheria e Romania, Bulgaria e Albania, minale nelle sue adiacenze. Grecia e Turchia. Limitandoci alla Jugoslavia, la lingua separa gli Come? Durante la preparazione della se- sloveni dai croati, mentre la linconda guerra americana in Iraq. gua e la religione li separano dai Francia e Germania erano contra- serbi. La religione separa i croati rie e gli Stati Uniti sarebbero en- dai serbi e dai musulmani. trati in rottura con l’Unione europea. Proprio l’Italia ruppe l’isola- Il caso del Kosovo è un po’ diverso. mento americano, senza chiedere Stirpe, lingua e religione separano contropartite: una avrebbe potuto serbi e albanofoni. E poi il Kosovo essere una dichiarazione di Bush non è un posto qualsiasi della Ser– indifferente al Kosovo, priorità bia: ne simboleggia la resistenza dei Clinton – che la provincia ser- serba ai turchi. Ma proprio in Koba tale sarebbe rimasta. sovo gli albanofoni sono diventati maggioranza, mentre, per i serbi, il ricordo della dominazione ottoLei ha detto “una” contropartita… Un’altra avrebbe potuto essere ri- mana si ravviva a ogni conflitto vedere le clausole segrete del con coloro che, come gli albanesi, trattato di pace del 1947. Ma si sono convertiti all’Islam. questa è un’altra storia. Il 1999 fu un momento delicato.

Oltre alla politica italiana e a quella tedesca, mi diceva, in Jugoslavia pesò, almeno all’inizio della crisi, la religione cattolica.

La politica di Tito, chiamata Bratsvo i Jedinstvo, aveva ottenuto grandi risultati e sembrava poter arginare le rivalità etniche. C’era anche un relativo benessere. Morto il Maresciallo, che cos’è mancato?

Alcune aree della Jugoslavia erano relativamente omogenee: lar- L’equilibrio interno. Tito era gamente cattoliche la Slovenia e un comunista più sensibile agli la Croazia, ortodossa la Serbia, interessi di Londra che a quelli

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IL PERSONAGGIO

di Mosca; ed era un croato che governava da Belgrado, Serbia. Per giunta aveva schierato la Jugoslavia tra i non-allineati (Algeria, Egitto, India, Indonesia, Cina…). Alla sua morte la Jugoslavia resse finché servì all’Alleanza atlantica come una sorta di Svizzera socialista. L’Europa e la Nato avevano sottovalutato la situazione jugoslava. Si poteva evitare il conflitto?

Tito, l’uomo che si ribellò a Mosca

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Josip Broz (vero nome di Tito) nasce nel 1892 in un villaggio croato, da madre slovena e padre croato. Nella Prima guerra mondiale è fatto prigioniero dai russi. Nel 1917 partecipa alla rivoluzione d’ottobre a Pietroburgo e nel 1921, tornato in patria, entra in clandestinità dopo che il Partito comunista è messo fuori legge. Nel 1928 è condannato a cinque anni di carcere, durante i quali approfondisce la sua formazione marxista e in seguito è a Mosca, dove lavora all’internazionale comunista. Nominato segretario generale dei comunisti jugoslavi, Tito rinnova l’apparato dirigente del partito e al momento dell’invasione delle truppe dell’Asse può contare su un’organizzazione efficiente e ramificata in Serbia, Slovenia e Croazia. È il principale leader delle formazioni partigiane jugoslave e alla fine del conflitto presiede il Comitato popolare di liberazione. Dopo il 1945 entra in conflitto con Stalin e instaura un regime comunista che si allontana dal modello sovietico. Guida la Jugoslavia nel difficile cammino verso l’autonomia e promuove lo sviluppo economico puntando sull’autogestione. Più tardi Tito sarà la figura di spicco del movimento dei paesi non allineati. Muore nel 1980.

Non generalizzerei. Certi governi europei sapevano. Altri erano indifferenti. Roma e Parigi si lasciarono sorprendere da Berlino, ma poi armarono i serbi, mentre i tedeschi, con l’arsenale dell’ex Ddr, armarono i croati. Ci sarà un perché se a Zagabria c’è un monumento a Hans-Dietrich Genscher, ministro degli Esteri tedesco. Con la consegna di Mladic la Serbia ha fatto un altro passo verso l’Unione europea…

Grazie al sostegno della diplomazia italiana, ha avuto lo status di candidato alla medesima, dopo un percorso umiliante, specie rispetto alla Croazia. La Serbia aveva infatti già consegnato Milosevic, Seselj, Karazdic e molti altri accusati minori. Che cosa pensa di Tito, Milosevic, Tudjman, Kucan, Karadzic, Hoolbroke…

Uno alla volta... Su Tito, Stalin aveva ragione, ma essere un rinnegato non significa essere stupido. Tito, che aveva capito che la Jugoslavia era l’Impero asburgico in scala ridotta, seppe mantenere


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Maurizio Cabona

l’unità di quel mosaico di popoli. In una prospettiva italiana, se l’Esercito sovietico non bivaccava alla periferia di Trieste, era merito dell’Esercito jugoslavo.

coinvolta. Perciò Kucan è il più dimenticato dei capi di allora. Veniamo a Radovan Karadzic.

Cominciamo dalla fine: nel 2006 ero ai suoi funerali, con altre cinquantamila persone in lacrime. Al funerale di Boris Tadic – presidente serbo uscente, quello che ha consegnato Karazdic e Mladic al tribunale dell’Aia – ci sarà altrettanta folla? È per la patria, nel carcere dei nemici della patria, che Milosevic è morto. Ed è morto innocente. Infatti non c’è stata sentenza contro di lui.

In un brutto film della Mostra di Venezia, Richard Gere lo catturava e lo faceva linciare dai parenti della vittime di Srebrenica. Ma era un’opera di semi-fantasia, girata prima dell’arresto del vero Karazdic. Presidente della Repubblica Srspska di Bosnia, originario del Montenegro, psichiatra, al momento degli accordi di Dayton ottenne l’immunità per crimini di guerra. Si usa, in questi casi. C’è poi l’esiguo valore della parola data da un rappresentante degli Stati Uniti.

Veniamo a Franjo Tudjman.

Cioè Richard Hollbroke.

Militare croato quanto Milosevic era un civile serbo, Tudjman vinse, grazie agli aerei della Nato, la guerra con la Serbia che, sul campo, aveva perso. Ricordo che i neofascisti tifavano per la Croazia, memori degli ùstascia e immemori che il popolo di Tudjman aveva l’uniforme austriaca durante il Risorgimento degli italiani... Tudjman è il secondo fondatore, dopo Ante Pavelic, della sovranità serba. E non si piegò al tribunale dell’Aia.

Che voleva diventare segretario di Stato. Non c’è riuscito. Aveva in curriculum i conflitti peggiori per gli Stati Uniti, a cominciare dal Vietnam. Negli anni di Reagan, lui, democratico, era banchiere d’affari. Conosceva Milosevic fin da quando anche lui era banchiere e lavorava a New York... Holbrooke però non è entrato nella storia del suo popolo: al suo funerale, nel 2010, c’erano solo i parenti.

Veniamo a Slobodan Milosevic.

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Veniamo a Milan Kucan.

Sloveno, veniva dalla Lega dei comunisti. Nel 1990 aveva capito che tutto doveva cambiare perché tutto restasse come prima. Gli sarebbe andata male, se anche in Slovenia ci fossero state forti presenze serbe. La marginalità della Slovenia la aiutò a non finire

Gli intellettuali contrastavano le ingerenze militari, in Algeria come in Vietnam. Oggi alcuni, come Bernard-Henri Lévy, vogliono intervenire in Bosnia, in Libia, in Siria... Come lo spiega?

Una volta c’erano due blocchi: quello comunista, dal richiamo ideale; quello capitalista, dal richiamo sostanziale. Nell’ultimo quarto di secolo c’è stato solo il


secondo e gli intellettuali di opposizione si sono rarefatti, perché la sinistra, anche in Europa, è ormai quasi solo socialdemocratica. È principio sempre valido l’autodeterminazione dei popoli?

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In politica un principio ammanta una mascalzonata. Il principio d’autodeterminazione esordì servendo agli Stati Uniti per sottrarre l’Adriatico agli accordi di Londra del 1915: fu dunque all’origine della “vittoria mutilata” dell’Italia. Oggi la Repubblica Serpska di Bosnia vorrebbe confluire nella Serbia, ma gli viene negato. Eppure al Kosovo è stato riconosciuto il diritto di secedere. Caso Serbia-Kosovo e riconoscimento del Kosovo da parte di alcuni Stati dell’Ue sono precedenti pericolosi?

Sì. L’Alto Adige ha una popolazione in maggioranza non italofona. Pochi attentati, come nel 1963-64, con relativa repressione, e Vienna e Berlino potrebbero accampare il precedente del Kosovo per intervenire, visto che oggi l’Ue è espressione della Germania e dei suoi clientes. Si può contare solo sulla forza propria e su quella dei nemici dei nemici. Se ci sono. In una situazione analoga a quella del Kosovo, l’Ue che cosa dovrebbe fare?

Diciamo che cosa farà. S’adeguerà alla volontà dei componenti più forti. Ma la crisi economica ha introdotto sulla scena europea nuovi protagonisti, come la Cina, cui il Tibet è rinfacciato come un al-

tro Kosovo. Inoltre lo stesso precedente minaccia la Francia, per la Corsica, e la Spagna, per i Paesi baschi. E minaccia Israele per i territori occupati. Perché gli Stati Uniti si sono impegolati nel Kosovo?

A una superpotenza occorre sempre un nemico. Un giorno è stato l’Iraq, che – se era una preoccupazione per Israele – era molto di più il suo baluardo contro l’Iran. Un giorno è stata la Serbia, che non minacciava nessuno, meno che mai gli Stati Uniti. Un giorno è stato l’Afghanistan, che non è nemmeno uno Stato. Un giorno è stata la Libia, pozzi di petrolio con una bandiera sopra. Oggi è la Siria, più che altro per infastidire Iran, Russia e Cina. Tutto ciò serve a far girare l’apparato militare e quello economico. E a dar l’esempio. A potenziali nemici?

E ad alleati indocili. Le guerre si fanno principalmente per interesse?

Fatta per malinteso disinteresse ricordo solo quella di Corea: il segretario di Stato, Dean Acheson, omise la Corea del Sud dai confini delle aree di influenza americana dell’epoca Truman e Stalin ne trasse le conseguenze. Sempre le guerre si fanno per interesse: non l’infedeltà di Elena, ma il controllo dei Dardanelli, spinse i greci contro Troia; non lo sdegno per le carceri borboniche, ma l’opportunità di indebolire Francia e Austria, eliminan-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Maurizio Cabona

do insieme l’intesa tra Impero zarista e Regno delle Due Sicilie, che orientò la Gran Bretagna a favore dei garibaldini e dell’unità italiana. E non fu la “difesa della libertà”, ma l’occasione di subentrare all’Impero britannico che spinse gli Stati Uniti a sostenerlo in tre guerre, inclusa la fredda.

L’Intervistato

Un vero e proprio esercito europeo non renderebbe l’Europa più “unita”?

Tre eserciti – quello romano imperiale, quello francese napoleonico e quello tedesco nazista – l’hanno già fatto. L’Italia non è Roma, mentre Francia e Germania e clientes, con duecento milioni di abitanti, sono una forza, specie se il declino americano continua senza la corrispettiva ascesa della potenza russa e di quella cinese. Un esercito europeo eviterebbe almeno altri conflitti sul continente?

Ne eviterebbe di piccoli, provocandone di grandi. Esso avrebbe un comando franco-tedesco, cui l’Italia potrebbe rassegnarsi. Non la Gran Bretagna. Non la Russia. Il romanziere Larry Bond ha descritto in Chaos questo scenario come replica della prima fase della Seconda Guerra mondiale.

maurizio cabona

Laureato in giurisprudenza, ha lavorato per Candido, Gazzetta Ticinese, Il Secolo XIX e Il Giornale. Ha curato Intervista sulla Guardia di ferro (Thule, 1978); C’eravamo tanto a(r)mati (Settecolori, 1984, 1998, 2011); Ditelo a Sparta (Graphos, 1999), Il caso Autant-Lara (Asefi, 2001). Nel 2006 è stato giurato al Festival di Cannes.

Se l’esercito europeo nascesse in modo più equlibrato, come potrebbe essere usato?

Replicando, in Siria, l’operazione libica e, in Iran, l’operazione irachena. Ma insistere nell’‘esportare la democrazia’ indurrebbe Russia, Iran e Cina a un’alleanza di fatto, saldando l’Heartland in un blocco solo.

L’Autore pietro urso Giornalista, direttore responsabile di Charta minuta e di Fareitaliamag, conduce un programma radiofonico su Elle radio.

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IL PUZZLE LIBANESE Capire il Libano è capire il Medio Oriente. Forse è per questo che negli ultimi anni, dopo l’ennesimo conflitto con Israele, la comunità internazionale ha deciso di impegnarsi fattivamente per favorire la pacificazione di un paese chiave per gli equilibri fragili dell’intera regione. Ma forse anche i media occidentali dovrebbero imparare a giudicare la società e la politica libanese senza i soliti cliché. intervista a GHADY SARY di MATTEO MANNELLO


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Ghady Sary

All for the country, for the glory, for the flag From the beginning of centuries, our pencil and sword Our field and mountains are making the men Our word and work on the way of perfection All for the country, for the glory for the flag Young and old at the voice of the country Lions of forest at the time of violation Our east is its heart forever Lebanon Its God protects it all over the time All for the country, for the glory for the flag Its sea, its land, are the pearl of the two orients Its symbol, its charity, fill up the two poles Its name is its triumph since the time of our grandfathers Its glory is its cedars, its symbol is for the end of epochs All for the country, for the glory for the flag

guida del contigente Unifil (United nation interim force in Lebanon), guidato dal gennaio 2012 dal generale italiano Paolo Serra. Il Libano, culla della civiltà e portatore di un patrimonio immenso di valori culturali e religiosi, è da tempo terra di dissidi, guerre di religione o economiche, scontri che sembrano non avere fine. E proprio per comprendere bene il Libano e più in generale gli ultimi sviluppi mediorientali, abbiamo incontrato il giornalista della Bbc Ghady Sary, libanese e studioso di questioni mediorientali, figlio di un importante giudice e da anni di stanza a Londra, senza però dimenticare le sue radici.

(Inno libanese)

Il Libano è sempre stato un microcosmo di conflitti e situazioni di stallo in Medio Oriente. Molti, al suo interno, fungono da agenti per le politiche estere di quasi tutti i protagonisti internazionali o locali in Medio Oriente, che proteggono i propri interessi ricevendo in cambio aiuti e sostegni politici per l’avanzamento di questi gruppi all’interno dello stato libanese. Con i recenti sviluppi nella regione e la replica della rivolta araba, in particolare nella vicina Siria, il governo libanese ha adottato una politica di “non coinvolgimento” quando alcuni partiti in Libano hanno spinto

L’inno libanese comincia con il verso “Kulluna lil-watan, lil’ula lil-’alam”, ossia “Tutto per il paese , la gloria, la bandiera”. Già da queste parole si comprende il forte sentimento nazionalista radicato nel popolo libanese. Oggi parliamo del Libano come di un territorio sempre piu di grande interesse per la comunità internazionale, all’interno del quale si stanno impegnando, in una difficile operazione di peacekeeping, tutte le potenze occidentali. L’Italia svolge un ruolo molto importante dopo aver assunto la

Com’è la situazione oggi in Libano? Quindi: vi sono conflitti ancora radicati? ne possiamo tracciare una mappa?

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per stare dalla parte del regime siriano e del suo presidente Bashar El Assad mentre altri hanno reclamato il pieno sostegno dello Stato per l’opposizione siriana e i rifugiati. Il passo successivo del governo libanese è stato quello di orientare gli sforzi per evitare scontri tra queste due opposte fazioni che sono principalmente divise da linee confessionali che vedono una gran parte della popolazione sunnita sostenere la rivolta contro la maggioranza degli sciiti, e gli alawiti che appoggiano il presidente Assad e il suo regime. Questo rappresenta una sfida importante per lo Stato libanese in quanto tali conflitti tendono a formarsi in aree miste come la capitale Beirut, dove la maggior parte dei partiti ha una presenza consistente, e a Tripoli, nel nord del Libano, dove la più alta concentrazione di alawiti (la stessa setta della famiglia di Assad) si è recentemente scontrata con i salafiti e gruppi radicali sunniti nella città che è a maggioranza sunnita. Lo stesso timore è presente nella regione di Bekaa dove Hezbollah e Amal, altra milizia sciita, anni fa si sono scontrati con gruppi sunniti e milizie armate. Lo stesso vale per altre parti del paese dove la situazione potrebbe peggioare in caso di un cambiamento radicale e drammatico in Siria. Questo, sul fronte interno e per lo stesso Libano, rappresenta l’ombra di un altro scontro tra Israele e Libano o l’estendersi di uno sconfinamento sul confine

siriano che resta fonte di incertezza e causa di instabilità. Infine, ma non meno importanti, gli scontri tra l’esercito libanese e i gruppi terroristici radicali come Fatah Al Islam, che trovano per la maggior parte rifugio nei campi profughi palestinesi al di fuori della giurisdizione dello Stato e sono un altro esempio di come la stabilità del Libano possa essere facilmente distrutta. Pensi che si possa arrivare a una soluzione senza l’uso della forza? Cosa si dovrebbe fare?

La realtà in Libano è che si può giungere a una soluzione solo se non si usa la forza. La complessità del sistema settario rende impossibile avere un vincitore o un perdente in un conflitto armato. Come ho spiegato prima, il Libano è un microcosmo della regione e le sue differenze rappresentano, in generale, quelle del Medio Oriente. La strada giusta è mirare a una soluzione regionale, sia per il conflitto arabo-israeliano che per la correzione (per non dire l’introduzione) di un rapporto governo-cittadino al posto di quello del sovrano-suddito che è ancora oggi la mentalità dominante. La ragione è che entrambe queste questioni sono interconnesse e auto-giustificanti, visto che i dittatori stessi giustificano se stessi dando la colpa al perenne conflitto arabo-israeliano, mentre Israele giustifica i propri atteggiamenti aggressivi verso i paesi circostanti imputandoli al-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Ghady Sary

la mancanza di democrazia e al radicalismo dei regimi della regione. Lo stesso vale per la crescente paura occidentale e araba per l’espansione dell’Iran che, a sua volta, si sente circondato e intrappolato dalla presenza militare americana negli stati del Golfo. Credo che il problema stia nella separazione di queste questioni e nella corsa allo sfruttamento delle risorse di questa parte del mondo, in assenza di una qualsiasi pianificazione a livello collettivo o regionale per un accesso pacifico e razionale a queste risorse. Un rapido sguardo alla mappa della regione con i confini chiusi da ideologie militari o religiose è sufficiente per capire come il conflitto abbia bloccato la prosperità economica che, a sua volta, ha alimentato il radicalismo e le guerre. È un circolo vizioso che potrà concludersi solo quando la comunità internazionale si renderà conto dell’importanza strategica di questa regione per tutti. La gioventù araba ha recentemente preso questa iniziativa che, purtroppo, è stata recepita solo da forze opportuniste della regione e non globalmente dalla collettività. Tu, da libanese cosmopolita che ha viaggiato e vissuto in Europa e negli Stati Uniti, “condanneresti” Hezbollah come gli americani per terrorismo o hai un’idea diversa al riguardo?

Questa è sempre una domanda difficile alla quale rispondere in quanto una cosa è un terrorista e

FOCUS

Unifil, una missione senza fine La missione Unifil è nata con la Risoluzione 425 adottata in data 19 marzo 1978 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a seguito dell’invasione del Libano da parte di Israele (marzo 1978). Successive Risoluzioni hanno prorogato, con cadenza semestrale, la durata della missione. A seguito di un attacco alle Israeli defence force (Idf), avvenuto il 12 luglio 2006, a Sud della Blue Line nelle vicinanze del villaggio israeliano di Zar’it, da parte di elementi Hezbollah, vennero uccisi otto soldati israeliani mentre altri sei vennero feriti e due catturati da dette milizie. Al rifiuto della richiesta di rilascio, Israele iniziò una campagna militare in Libano mirata ad annientare le milizie di Hezbollah ed altri elementi armati; in conseguenza di ciò, milizie Hezbollah condussero degli attacchi contro infrastrutture civili israeliane nel Nord di Israele. L’escalation delle ostilità portò le Idf a condurre una vasta campagna militare nel Nord della Blue Line contro le milizie armate di Hezbollah. Le ostilità continuarono per 34 giorni durante i quali venne svolta una intensa attività diplomatica internazionale tesa al conseguimento di una tregua/cessate il fuoco per la successiva creazione di stabili condizioni di pace, che è culminata con la Risoluzione n. 1701 dell’11 agosto 2006 con la quale si sanciva la cessazione delle ostilità a partire dal 14 agosto 2006. Dall’inizio del cessate il fuoco, le Idf continuarono ad occupare larghi tratti dell’Area di Operazioni (AO) di Unifil mentre gli Hezbollah e gli elementi armati rimasero nel Sud del Libano. Durante i giorni di conflitto, inoltre, i contingenti di Unifil di India e Ghana continuarono ad occupare le proprie postazioni nella AO mentre, dal 24 luglio 2006, i 4 posti di osservazione vennero abbandonati dagli osservatori Onu.

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altro è un combattente per la libertà. Gli americani hanno definito Hezbollah come gruppo terroristico dal 1983 quando l’organizzazione della Jihad Islamica in Libano, la pietra miliare degli Hezbollah, ha lanciato attacchi contro interessi americani e occidentali di stanza in Libano, tra i quali i marines e il quartier generale francese dei paracadutisti, uccidendo 241 militari americani e 58 paracadutisti francesi. Anche se l’ultima volta che si è sentito parlare dell’organizzazione è stato nel 1992, molte fonti portano a credere che si sia fusa con quella che ora è Hezbollah. La Gran Bretagna, per esempio, distingue tra l’ala politica di Hezbollah e quella militare, denunciando solo la seconda come organizzazione terroristica. Hezbollah in realtà fa parte della vita politica del Libano, partecipa alle elezioni e al governo dal 1992 e, anche se il partito non ha preso parte alla guerra civile, ha però concentrato le proprie operazioni contro forze di occupazione israeliane nel sud del Libano fino al loro ritiro nel 2000. La resistenza a Israele ha dato loro la legittimità tra la popolazione del Libano meridionale che hanno visto Hezbollah non solo come un liberatore, ma anche come un difensore delle frontiere meridionali libanesi, cosa che lo Stato non è stato in grado di fare fin dalla creazione del Libano. Ancora una volta questo è successo dopo la guerra del 2006, quando Hezbollah ha avuto la meglio dopo 33 giorni

di attacchi aerei, marittimi e terrestri da parte di Israele, ma è stata la stretta alleanza con l’Iran, che li sostiene militarmente e finanziariamente, che ha fatto sì che Hezbollah non sia gradito a diversi gruppi del Libano, timorosi delle capacità del gruppo di forzare un cambiamento all’interno del paese. Si tratta di una situazione complessa, perché da un lato è vero che Hezbollah è un gruppo armato religioso che per anni ha adottato lo stile della guerriglia, ma resta il fatto che non può essere paragonata ad Al-Qaeda, a esempio, perché partecipa al sistema politico libanese e, anche se non in veste ufficiale, la sua forza militare è stata ingaggiata come esercito di occupazione nel sud del Libano. Il gruppo ha ripetutamente invitato al dialogo le controparti libanesi, ma deve ancora mostrare la volontà di cedere le sue armi allo Stato libanese, quando quest’ultimo dimostrerà la sua capacità di proteggere i propri territori e la popolazione. Secondo te è giusto e normale che un partito politico sia così radicato alla religione?

Penso che Hezbollah si sia evoluto negli ultimi 30 anni: da una manciata di jihadisti iraniani sono diventati il gruppo più grande e influente del Medio Oriente. Però, avendo un ruolo più incisivo, arrivano maggiori responsabilità e io credo che Hezbollah abbia riformato la propria politica per assicurarsi


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Ghady Sary

una più ampia accettazione da parte della popolazione della regione. Parte di tale cambiamento si è notato nelle alleanze politiche tra Hezbollah e molti gruppi politici con larghi collegi cristiani come il “Free Patriotic Movement (Fpm)” di Al-Marada, così come il riavvicinamento di Hezbollah a figure sunnite e gruppi del paese, il che dimostra l’apertura inter-settaria e l’avanzamento della coesione nazionale. D’altra parte molti libanesi considerano Hezbollah semplicemente come un procuratore (mandatario) iraniano, interessato solo a portare avanti gli interessi iraniani e sciiti rispetto a quelli di altri libanesi, Hezbollah deve ancora dimostrare che è disposto a sacrificarsi per garantire l’unità nazionale e l’avanzamento dello Stato libanese lontano dalle accuse di voler creare uno Stato parallelo all’interno dello stesso Stato libanese. Non importa quale ideologia politica abbiano i gruppi come Hezbollah finché non cerchino di imporla agli altri e cerchino invece soluzioni democratiche e politiche alle differenze, con altri gruppi religiosi o laici. Quanto influisce la religione in questi conflitti territoriali?

Un nuovo termine è stato coniato di recente per rappresentare il ruolo crescente della religione, sia nei conflitti territoriali interni e quelli inter-statali, ed è la “nazionalizzazione della religione”.

Quello a cui stiamo assistendo oggi è il rimodellamento della regione secondo linee settarie e religiose. In termini realisti, c’è una deframmentazione dello stato, con gruppi statali che si uniscono o si incrociano per portare avanti i propri interessi, a prescindere da quelli dei loro rispettivi Stati di appartenenza. Tutto questo è dovuto al vuoto creato dal fallimento degli Stati arabi nella creazione di una coesione politica, sociale ed economica per il popolo del mondo arabo. Oggi sentiamo parlare dell’asse sciita dall’Iran al Libano, passando per Iraq, Kuwait e Bahrain, così come l’influenza delle forze radicali sunnite sono aumentate in tutto il Nord Africa, nel Golfo Persico così come in Libano, Siria e Iraq. Questo è un dato allarmante non solo per altre minoranze della regione, come i cristiani, i drusi e i laici, ma anche per la comunità internazionale che ha assistito alle ripercussioni dell’11 settembre, così come è negativa la storia del Medio Oriente con le sue guerre di religione. Sappiamo che monìtori la Siria per le agenzie internazionali: che ne pensi di quello che sta accadendo?

La differenza con gli altri paesi che hanno visto aumentare le rivolte negli ultimi due anni è che la Siria è un paese incuneato e strettamente incorporato nel contesto del conflitto araboisraeliano, come è anche vicino all’Iran e alla Russia. Questi fat-

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tori hanno contribuito negativamente nella rivolta pacifica in Siria, portandola dallo scenario di Piazza Tahrir a quello della Libia, con il governo che ha represso con violenza i manifestanti, portando alla defezione ranghi dell’esercito e alla creazione della Free Siria Army (Fsa), che ha promesso di difendere le manifestazioni pacifiche dagli attacchi delle forze di sicurezza. Col passare dei mesi, la lotta è diventata una guerra civile tra i sostenitori e gli oppositori del presidente siriano Bashar El Assad. Anche in questo caso il settarismo ha svolto un ruolo importante nel conflitto perché la famiglia al potere in Siria è alawita, e l’affermazione delle autorità siriane secondo cui ci si trovava di fronte a una rivolta armata sunnita contro gli alawiti è diventata un’auto-profezia e nelle cittadine periferiche della Siria si è assistito a un aumento delle tensioni confessionali alimentate da interventi stranieri da parte di quasi tutti i protagonisti della regione per aiutare ogni singolo gruppo in Siria. L’opposizione, divisa da differenze ideologiche e metodologiche, non è riuscita a presentare una strategia unificata per la soluzione della crisi siriana, e nulla vieta di pensare che l’intervento militare porterà a ulteriori violenze in Siria e a una escalation militare nella regione ma, allo stesso tempo, se l’esercito siriano e le forze di sicurezza continuano la loro violenta repressione sui manifestanti, uno scenario di

una guerra civile e una divisione della Siria è anche possibile, soprattutto vista la divisione della comunità internazionale sulla vicenda. Su un piano parallelo, la situazione economica in Siria si sta deteriorando con gran parte del capitale straniero che si sbarazza degli investimenti siriani o, semplicemente, ferma le loro attività a causa della situazione della sicurezza che è una questione allarmante anche per la comunità internazionale, ancora impreparata a un crollo totale di uno Stato che governa una popolazione di quasi 24 milioni di persone. Credo che una risoluzione in Siria dovrebbe consistere in uno sforzo interno congiunto attraverso il quale venga richiesto a ogni partito di arrivare a un compromesso che porti a un trasferimento del potere a un governo di transizione, la cui missione sarà la stabilizzazione dell’economia e l’organizzazione di elezioni libere e democratiche, con la supervisione delle Nazioni Unite. Gioca qualche ruolo il Libano?

Il Libano confina con la Siria e Israele, e con la chiusura dei confini israelo-libanese dalla creazione di Israele nel 1948, la Siria ha sempre rappresentato l’unico passaggio terrestre per le importazioni e le esportazioni libanesi. Oggi, invece, il Libano è uno dei pochi spazi di “respiro” sia per gli attivisti siriani che per il regime. Gli attivisti uti-


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lizzano il Libano per contrabbandare aiuti, medicine, cibo e persino munizioni per l’Fsa, e giornalisti, rifugiati e civili feriti cercano aiuto negli ospedali libanesi perché, come tutti gli ospedali all’interno delle aree assediate, diventano trappole di sicurezza per gli attivisti e i sostenitori dell’opposizione. Al tempo stesso, il regime siriano era in grado di esercitare la sua influenza in Libano per garantire che il Libano non venisse utilizzato come “tallone d’Achille” per lanciare un’operazione contro il regime. Il governo libanese però ha promesso di mantenersi neutrale, anche a seguito della pressione esercitata sia dal regime che dall’opposizione affinché prendesse una posizione nel conflitto. Parli spesso di “rinascita islamica” anche nei conflitti siriano e libanese. Che significa esattamente?

L’Islam, o la religione in generale, colma un vuoto e trova una soluzione per le questioni senza risposta. Gli islamici utilizzano lo slogan Islam is the solution quando si trovano ad affrontare i diversi e complessi problemi del mondo arabo, dal punto di vista economico, sociale e politico, motivo per cui si assiste oggi a una ripresa delle forze islamiche e della politica perché nessuno é stato in grado di dare soluzioni ai problemi dei giovani arabi e della società in generale. Il problema è che nessuna delle forze islamiche al potere o all’oppositione, ha presentato alcuna solu-

zione a queste problematiche. Oggi assistiamo a una crescita dei gruppi di influenza islamica e il conservatorismo è in aumento, sia in Siria che in Libano, cosi la gente vede nell’Islam l’alternativa al fallimento dei decadenti modelli sovietico-dittatoriali. E quali sono le ricadute economiche di questa fase di instabilità?

Se guardiamo la mappa del Medio Oriente, ci rendiamo conto che la maggior parte dei paesi della regione sono in uno stato di guerra o di ostilità con i loro vicini. Ci si rende conto delle perdite economiche che derivano dal frazionamento della zona, che apre la strada a un ulteriore frazionamento quando invece la maggior parte del mondo sta cercando di arrivare a una convivenza economica e sociale. I problemi economici sono un fattore importante dei conflitti in Medio Oriente, anche in quello arabo-israeliano, e a loro volta le guerre stanno esaurendo le già fragili economie, creando un circolo vizioso. Credo che l’interdipendenza economica e sociale sul modello dell’Unione europea, abbia almeno messo fine ai conflitti nel continente, e ha portato a una certa stabilità per la popolazione e può servire come un buon esempio per i paesi del Medio Oriente, sia nel contesto di un’organizzazione regionale che in quello di uno spazio euro-mediterraneo.

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IL PERSONAGGIO

Oriana Fallaci, in guerra per raccontare la verità

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Oriana Fallaci (1929 – 2006) fu la più celebre tra i corrispondenti italiani di guerra. Cresciuta durante la Seconda Guerra mondiale, Oriana è diventata adulta con l’immenso desiderio di raccontare la guerra, quella che lei stessa definì «inutile e sciocca, la più bestiale prova d'idiozia della razza terrestre». Si è conquistata larga fama in tutto il mondo con i suoi reportage dal Vietnam. Scrittrice di talento, dal tipico carattere toscano, ha saputo raccontare storie e drammi aprendo uno spaccato di verità sui risvolti più crudi del conflitto indocinese, a quel tempo ancora semi clandestino per molti giornali. C’era una vicenda nella vita di Oriana che segnava un prima e un dopo: questo spartiacque era proprio il Vietnam. Nel 1969, dopo i reportage dal Vietnam del Sud, nel suo Niente e così sia, Oriana Fallaci raccolse tutti i suoi reportage che raccontano non solo il coraggio e l’acutezza di una giornalista di prima linea, ma anche la sua immensa grandezza di scrittrice. In Vietnam, in Cambogia, così come in Libano, Oriana faticava come un soldato: amava saltare da un elicottero all’altro, sguazzare nel fango, “friggere” sotto un elmetto arroventato o rinchiusa in un autoblindo. La gente che le stava attorno aveva visto raramente qualcuno lavorare con tanta passione, trasferire quel sentimento nei propri scritti e imprimere in ogni frase tutte le sequenze di immagini significative, diventate poi un cult. «Per quasi otto anni ho fatto il corrispondente di guerra in Vietnam. Niente e così sia è il diario del primo anno che trascorsi laggiù. Quello che vide la battaglia di Dak To, l’offensiva del Tet, l’assedio di Saigon e che per me si concluse altrove. Cioè nella strage di Città del Messico dove rimasi gravemente ferita. So che è stato definito un libro brutale, disperato, spietato. E forse lo è. Ma io volevo soltanto raccontare la guerra a chi non la conosce». (Oriana Fallaci). *F.S.


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Qual è la situazione nella cosidetta “linea blu” tra il confine libanese e quello israeliano dopo l’evacuazione delle truppe israeliane nel 2006?

La linea blu delimita i confini tra Libano e Israele, ma con l’assenza di negoziati diretti e di accordi tra i due paesi, la linea resta fragile e aperta alle violazioni. Numerosi incidenti lungo la linea dopo la guerra del 2006 avrebbero potuto portare a un conflitto su vasta scala se non fosse stato per la presenza di Unifil come negoziatore e osservatore dei confini. Tuttavia, con le continue, quasi quotidiane, violazioni israeliane dello spazio aereo libanese e il disaccordo sulle frontiere marittime tra i due paesi, il ruolo di Unifil deve ampliarsi per garantire che eventuali controversie territoriali tra il Libano e Israele portino a un nuovo conflitto. Come è stato visto dai cittadini l’intervento delle forze di pace dell’Unifil, guidate dal generale Italiano Paola Serra?

La presenza di Unifil è stata accolta con sollievo da una vasta maggioranza del popolo libanese. Anche se Hezbollah ha dichiarato che non gli importa che ci siano forze di pace sul suolo libanese fintanto che non agiscano come forze in favore dell’esercito israeliano, ma svolgendo le loro operazioni in base al loro mandato e alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1701, per il mantenimento della pace sui confini

israelo-libanese e per monitorare ogni attività ostile attraverso le frontiere. La presenza di queste forze è necessaria, e la partecipazione di truppe tedesche, francesi, spagnole e italiane è stata incoraggiante in termini di serietà ed efficacia. L’Italia gode di un senso di prossimità mediterranea con il Libano e le sue truppe di pace sono state accolte bene dagli abitanti del Libano meridionale e sono riuscite a creare buoni rapporti con i residenti locali. Ci sono comunque stati diversi incidenti allarmanti, compresi attacchi lungo le strade che hanno procurato vittime e feriti nei caschi blu delle Nazioni Unite, ma le indagini hanno indicato come responsabili gruppi radicali legati ad Al-Qaeda e misure di sicurezza sono state adottate sia da Unifil che dall’esercito libanese per evitare altri incidenti del genere. Che ruolo ha la Turchia nei conflitti mediorientali, come in Siria, Israele e Libano? In che modo esercita la sua influenza?

La Turchia gioca senza dubbio un ruolo importante a livello regionale: ha sempre avuto ottimi rapporti con la maggior parte dei paesi del Medio Oriente ed è stata in grado per anni di svolgere il ruolo di mediatore tra arabi e israeliani. La situazione è mutata però con il cambio di leadership in Turchia: le sue relazioni con Israele sono peggiorate dopo che l’amministrazione turca ha ridimen-

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sionato le relazioni diplomatiche con Tel Aviv a seguito dell’incidente della flotta a Gaza e, più recentemente, si è ripresentato lo stesso scenario quando la Turchia è diventata molto critica nei confronti della repressione di manifestanti pacifici del presidente siriano Bashar El Assad e poi per l’assistenza da parte della Turchia di migliaia di profughi siriani in fuga ma, ancora più importante, per il gruppo di opposizione siriana Snc (Syrian national council) e il gruppo Fsa (Free syrian army). Oggi qualsiasi risoluzione in Medio Oriente dipende dal ruolo della Turchia, essendo un membro della Nato e allo stesso tempo una guida per i gruppi islamici che vogliono adottare il modello turco di partecipazione politica. L’influenza turca si basa anche sulla crescente popolarità del primo ministro Erdogan in una regione che ha un’ammirazione per i leader forti e decisi, che siano allo stesso tempo in accordo con i propri elettori. Infine, ma non meno importante, la forza economica turca è fondamentale nelle sue relazioni estere e Ankara è riuscita ad assicurarsi non pochi alleati e sostenitori nella regione grazie ai suoi scambi commerciali bilaterali e ad accordi economici a diversi livelli, nonché alla sua trasformazione in importante meta turistica e culturale per persone provenienti da tutto il mondo arabo.

Come è cambiato il Libano dopo l’attentato di Rafiq Hariri?

Dall’assassino dell’ex primo ministro Rafiq Hariri il 14 febbraio 2005, il Libano è molto cambiato. Hariri ha giocato un ruolo importante nel periodo post guerra civile, tanto che il suo ruolo nazionale ed internazionale è mancato a molti solo dopo la sua morte. Hariri ha sempre gestito la coesistenza tra i progetti di ricostruzione guidati da lui e dal suo partito e i progetti di resistenza difensiva degli Hezbollah, in un “duetto” che comunque ha salvato il paese dalla indecisione, dalla divisione a cui oggi assistiamo. Il suo omicidio e le accuse al regime siriano e a Hezbollah, coinvolti nel suo assassinio, hanno sconvolto un già teso sistema politico libanese e hnno portato le tensioni settarie al periodo pre-guerra civile. Nonostante che le accuse arrivassero dal Tribunale Speciale per il Libano (Tsl) delle Nazioni Unite, c’è stato in Libano molta divisione sul giudizio alle azioni e alla neutralità del Tribunale, che è stato accusato da importanti segmenti della società libanese di avere obiettivi politici o quantomeno di aver avuto una scarsa credibilità. Il Tsl si è difeso chiarendo che non poteva rivelare, in questa fase, tutte le prove, ma le accuse agli Hezbollah enfatizzate dalla comunità sciita hanno portato tensioni sul mandato del Tsl e sulle sue finalità. Mentre quasi tutti i libanesi vedevano nell’assassinio di Hariri un segnale per


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Ghady Sary

la partenza dei militari e dei servizi speciali presenti nel paese sin dalla guerra civile del ’75, altri non erano d’accordo che questo fosse il momento di disarmare Hezbollah, visto da molti come l’unica linea di difesa contro Israele, ma da altri visto come un’estensione della egemonia iraniana. I disaccordi legati all’armamento di Hezbollah continuano ad essere l’argomento principale della politica libanese e senza la coraggiosa ingenuità di Rafiq Hariri di unire resistenza e indipendenza dello Stato, i libanesi rimangono divisi e il paese vulnerabile ai pericoli interni ed esterni.

L’Intervistato

ghady sary Giornalista della Bbc, ha studiato all’Università americana di Beirut e all’istituto di Studi internazionali a Barcellona.

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L’Autore matteo mannello Studente di Scienze politiche, sociali e internazionali. Collabora con la Fondazione Farefuturo e con FareItaliamag. Presidente del Circolo Territoriale Fare Italia - Roma II, Rinnovamento, è membro del Comitato Promotore del Team Italia.


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LE GUERRE DIMENTICATE Stefano Basilico

QUEL FILO INVISIBILE TRA DERRY E BILBAO Dopo decenni di guerra armata per l’indipendenza con migliaia di morti, sia l’Ira che l’Eta hanno deciso di deporre le armi e di cercare solo tramite la politica e la diplomazia una soluzione alle loro richieste seguendo il modello vincente scozzese. di STEFANO BASILICO 129

Prendete in mano una cartina dell’Europa. Stendendola su un tavolo e percorrendo con gli occhi le fredde praterie d’oriente, le produttive pianure del centro e le romantiche viti e i campi di lavanda dell’ovest arriverete all’Oceano Atlantico. Ora, se invece di fantasticare verso lo sterminato Oceano che porta nelle Americhe alzate il naso all’insù vedrete una gigantesca insenatura, due braccia accoglienti nonostante il mare freddo che gli si stende davanti. Si tratta del Golfo di Biscaglia, nome che richiama vascelli e guasconi dei romanzi di Dumas e che vede come suo ombelico la bella Bordeaux, sotto la quale si sporgono sulla costa, una delle più affascinanti del continente, i paesini del Pais Vasco, i Paesi Baschi. E se spostate gli occhi ancora più in alto vedrete

un’isola piccola e tozza, di fianco a una sorella più slanciata. Si tratta dell’Irlanda, con una costa liscia, industrializzata e popolata verso l’Inghilterra, più selvaggia e frastagliata dal lato opposto, quasi a slanciarsi verso quell’America, dove tanti suoi figli hanno cercato fortuna. Ora, pensate di essere Dio e di guardare dall’alto questo continente pieno di storia e di cultura, di prendere con le dita le due estremità – nord e sud, da Derry a Cork – d’Irlanda, e di trascinarla, ruotandola leggermente, fianco a fianco con i Paesi Baschi. Vedete? Ci entra perfettamente. Due storie e visioni politiche che corrono parallele quelle di Irlanda e Paesi Baschi, pur con alcune rilevanti differenze, e due popoli in cammino sulla stessa strada: quella che porta all’indipendenza.


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Una strada complessa, percorsa loro confronti, con il sogno di riin maniera diversa e con risultati tornare uniti a Dublino, che però differenti, ma che permette gra- nel frattempo sosteneva solo zie a questa comunione di intenti blandamente le loro lotte. a entrambi i popoli di sentirsi le- Oltre a misure di polizia restritgati da un destino comune. I mu- tive e limitative della libertà, rales di Belfast ricordano la fra- anche i diritti politici delle cotellanza con la lotta basca, le munità cattoliche e repubblicascritte sui muri di Bilbao spesso ne in Irlanda del Nord erano raccontano la storia dell’isola di messi in difficoltà a causa di misure come il Gerrymandering, che smeraldo. Una storia che fa un po’ gola ai ritagliava le popolose circoscribaschi, visto che l’Irlanda, alme- zioni elettorali cattoliche distrino parzialmente si è liberata dal buendone l’elettorato in altri giogo dell’antico impero britan- quartieri in cui diventava irrilenico, ormai sfaldatosi e soprav- vante, e causando una sottorappresentazione divissuto soltanto scriminatoria della negli scambi eco- Ira ed Eta hanno minoranza repubnomici e in un blicana. sempre più blan- abbandonato la lotta Fu proprio in quedo e leggero con- armata, ma tentano gli anni, quelli in trollo politico dei cui in tutto il paesi del Com- la via democratica mondo soffiava il monwealth. In se- all’indipendenza vento della conteguito alle lotte per l’indipendenza che duravano stazione, che nacquero due moda secoli, ma che fecero breccia vimenti profondamente diffenell’armata britannica impegna- renti ma adiacenti, quello per i ta sui fronti caldi della Prima diritti civili, che subì una vioGuerra Mondiale, e grazie al- lenta repressione durante il l’impegno di padri della patria Bloody Sunday di Derry nel come Eamon De Valera e Micha- 1972, e la lotta armata dell’Ira. el Collins, gli stessi che poi si Gli attentati, specialmente le combatterono nella guerra civi- autobombe, uccisero migliaia di le, l’Irlanda divenne Repubblica, persone in tutto il Regno Unito lasciando al Regno Unito le sei negli anni dei Troubles, però porcontee del nord, nella regione tarono visibilità a una battaglia in quegli anni poco considerata. dell’Ulster. Un vulnus incurabile, in seguito Lo stesso sistema venne utilizzaal quale i repubblicani general- to dai baschi dell’Eta, il movimente cattolici rimasti nelle sei mento terroristico Euskadi Ta contee a maggioranza protestan- Askatasuna, nato nello stesso te, si organizzarono per resistere periodo dell’Ira e dedicatosi analle discriminazioni e alle nega- ch’esso alla lotta armata predilizioni dei diritti civili operate nei gendo obiettivi militari come


LE GUERRE DIMENTICATE Stefano Basilico

caserme della polizia e dell’esercito, ma anche obiettivi civili, stazioni, locali pubblici, aeroporti. La linea parallela tra il terrorismo basco e quello nordirlandese non correva solo sui muri, ma sulla rete di informazioni e protezione reciproca che i due movimenti si davano, ospitando spesso a vicenda i latitanti dell’altro paese. Ora, però, la lunga scia di sangue che ha caratterizzato queste zone calde d’Europa sembra essersi fermata. I principali cartelli terroristici delle zone, decimati dagli arresti dei loro leader storici, hanno dovuto cambiare metodo, privilegiando la lotta politica e abbandonando quella armata. L’Ira lo fece nel 1998, con gli accordi del Venerdì Santo, propiziati dagli Stati Uniti di Bill Clinton e sotto l’egida di Tony Blair, che dopo anni di muso duro conservatore ha scelto, evidentemente con successo, la linea morbida e il dialogo, riuscendo a portare a casa un accordo storico che ha portato una relativa pace e stabilità in Ulster. Nell’accordo, oltre al “cessate il fuoco” per l’Ira e per le sigle paramilitari unioniste, venivano proclamati una serie di diritti civili e di misure di protezione delle minoranze, oltre a essere messi in atto meccanismi internazionali che ammorbidivano i rapporti tra Regno Unito e Repubblica d’Irlanda. Le misure ottennero l’appoggio di tutti i partiti, fatta eccezione del Dup, il partito unionista di centro-sini-

Il Libro L’Ira di Gerry Adams Ed Moloney La storia segreta dell’Ira Baldini Castoldi dalai 2004, 699 pp., 23 euro

Grazie allo straordinario lavoro di ricerca dell’autore e alla ricchissima documentazione esaminata e prodotta, La storia segreta dell’Ira colpisce e smonta tutte le nostre nozioni, le conoscenze e le opinioni sul processo di pace irlandese e, soprattutto, sulla storia inglese e irlandese del tardo XX secolo. Scritta dall’autorevole giornalista irlandese Ed Moloney, questa monumentale ricostruzione svela la drammatica vicenda delle trame e delle mortali rivalità tra i membri di uno dei più oscuri gruppi terroristici d’Europa. Al centro della storia un uomo solo: Gerry Adams. Moloney porta alla luce nuovi sconvolgenti materiali e testimonianze sulla sua carriera di giovane leader dell’Ira a Belfast e sull’incessante scalata al potere, ponendosi e ponendoci una forte e inquietante domanda: come può un uomo che ha comandato e condonato spaventose atrocità essere anche la forza trainante del cessate il fuoco e del processo di pace?

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stra. Un “sì” importante venne Good friday agreement, l’ex presidal principale partito repubblica- dente della Repubblica d’Irlanda no, il Sinn Féin di Gerry Adams Bertie Ahern e il leader del Sinn e Martin McGuinness, ora vice- Féin Gerry Adams. presidente dell’Ulster, inizial- Ora sembra sia stata raggiunta mente braccio politico dell’Ira, la pace in entrambi i paesi, anora movimento esclusivamente che se le tensioni sopravvivono. Alcuni gruppi minoritari non si politico. L’Eta invece, decimata dai conti- arrendono e portano avanti la nui arresti e dalle faide interne al strategia della lotta armata, cosuo gruppo dirigente, rifugiatosi me fa la Real Ira, un manipolo prevalentemente in Francia e di dissidenti dalla linea dello dunque senza il controllo del ter- Sinn Féin, che proprio nell’anno ritorio, ha abbandonato le armi degli accordi del Venerdì Santo nel 2011, in seguito alla confe- organizzò il più sanguinario atrenza di San Sebastian. Il Pnv, tentato nella storia dei Troubles. Nel 1998 un’auprincipale partito tobomba scoppiò separatista, ha in- Il modello che baschi nel centro di fatti deciso di acOmagh in un cordarsi con il go- e irlandesi vogliono giorno di festa, verno spagnolo, seguire è quello causando la morte perseguendo la via di 29 persone. dell’indipendenza del partito Ogni estate poi le con sistemi pacifi- nazionalista scozzese marce orangiste ci. Del resto se in Irlanda del Nord quella cattolica per celebrare l’antica vittoria delè una minoranza, seppur ampia- la popolazione protestante su mente presente in tutto il paese, quella cattolica vengono viste conel Paìs Vasco la voglia di indi- me una vera e propria provocapendenza è tanta, anche se il zione, specie quando queste tenproblema principale rimane la tano di passare attraverso i quargrande frammentazione dei par- tieri “papisti”, e i tafferugli sono titi che la perseguono, e che non ormai una ricorrenza fissa. permettono a Bilbao di ottenere Nei Paesi Baschi il principale i successi autonomisti della Ca- partito indipendentista, il Pnv di Iñigo Urkullu, è stato democratalogna. Agli accordi di San Sebastian, ticamente al governo della regioimportante città basca vicina al ne, divisa in tre provincie, per confine con la Francia, hanno molti anni anche recentemente, partecipato oltre agli esponenti tuttavia la volontà rimane quella del governo Zapatero e dei parti- di fare di più. ti indipendentisti, anche media- Il sogno a cui questi movimenti tori d’eccezione, come l’ex segre- aspirano è di riuscire ad avere il tario delle Nazioni Unite Kofi successo dello Scottish national Annan e due degli artefici del party, da anni primo partito


LE GUERRE DIMENTICATE Stefano Basilico

scozzese e che alle ultime elezioni è riuscito ad avere una maggioranza tale da permettergli di proporre un referendum per l’indipendenza. Nonostante l’ostruzionismo del governo inglese il referendum si farà nel 2014, anche se è difficile che abbia esito positivo, dato che i consensi partitici del Snp non si traducono automaticamente in una volontà di distacco da Londra. Lo stesso vale nei Paesi Baschi, dove una consultazione plebiscitaria non avrebbe un esito scontato, e dove rimane vivo il problema della Francia, in cui si estendono alcune zone del Pais Vasco fin sotto Bordeaux, e in cui lo stesso Pnv si presenta alle elezioni. In Ulster invece la maggioranza unionista non permette che timide richieste alla minoranza repubblicana, e l’idea di un referendum, a cui si opporrebbe anche buona parte della Repubblica del sud, naufragherebbe senza chance. Un altro aspetto del quale tenere conto è quello economico: i Paesi Baschi, l’Ulster, la stessa Scozia e anche altre regioni con spinte separatiste come il Galles o la Transnistria, zona al di là del fiume Nistro, la cui indipendenza è fortemente supportata dalla Russia, che non lontano da lì reprime i guerriglieri islamici Ceceni, non hanno risorse energetiche (fatta eccezione per la Scozia e i suoi giacimenti nel Mare del Nord) né industriali per sopravvivere senza dipendere economicamente dallo Stato di cui attualmente fanno parte. Sembra strano che nell’evoluta

Europa e nei suoi dintorni, passato il periodo romantico ottocentesco degli irredentismi e degli indipendentismi, ci siano ancora regioni che lottano per staccarsi da nazioni grandi e prestigiose. Ma questi paesi, grazie alla vicinanza di ideali che li lega e grazie ai moderni strumenti tecnologici come il web, riescono a fare quadrato e a far sentire la propria voce anche nel 2012, quando l’ardore rivoluzionario degli anni della contestazione che hanno accompagnato l’apice delle loro lotte si è affievolito. Ira, Eta e altri movimenti sembrano avere deposto le armi. Viene da domandarsi se si tratta di una scelta temporanea o definitiva e se la legittima voglia di indipendenza degli abitanti di queste regioni europee sia in grado di trovare sbocchi nella via decisionale democratica.

L’Autore stefano basilico Studente di Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano. è redattore del Patto Sociale, collabora con FareitaliaMag.

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LE GUERRE DIMENTICATE Giuseppe Mancini

Il peso geopolitico della Mezzaluna La Turchia sta diventando il paese di riferimento per stabilizzare l’area mediorientale, lo stesso Obama sta puntando tutto su Recep Tayyip Erdogan per trovare una soluzione duratura e pacificare l’intera area. Un nuovo impero ottomano fondato sulla democrazia e la libertà.

di GIUSEPPE MANCINI 135

La “primavera araba” ha trasformato la Turchia – già efficacemente propositiva negli ultimi anni – nell’attore indispensabile per assicurare l’equilibrio geopolitico di tutta l’area mediorientale: dagli stati dell’Africa settentrionale alla Siria, dall’Iraq all’Iran. Come ha sostenuto il professor Fawaz Gerges della London School of Economics, impegnato nelle scorse settimane in un ciclo di conferenze tra Ankara e Istanbul e autore del volume di imminente pubblicazione Obama and the Middle East. The End of America’s Moment?, dato che il presidente statunitense ha deciso di liberarsi dall’impegno militare in Iraq e in Afghanistan – e di rendere prioritari gli interessi americani nel Pacifico, anche in funzio-

ne anti-cinese – gli Usa puntano decisamente su Ankara per riempire il conseguente vuoto di potere; in quest’ottica, la salda partnership con la Turchia è per il professor Gerges “il più importante successo strategico di Obama”. Il governo dell’Akp di Recep Tayyip Erdogan, infatti, al contrario di quanto affermato in ambienti neo-conservatori, non ha mai pensato di “cambiare asse”, di “abbandonare l’Occidente”, di “riorientarsi verso il mondo islamico”; quello che vuole la nuova Turchia, invece, è semplicemente una politica estera autonoma, tendenzialmente allineata ma non rigidamente subordinata a quella della Nato e dagli altri paesi occidentali: una politica dell’interesse nazionale, insom-


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ma. Il ministro degli esteri Ah- stante per i problemi di rilevanza met Davutoglu, in carica da tre planetaria; il recupero dell’espeanni e in precedenza consigliere rienza storica del defunto Impero del premier Erdogan, è l’artefice ottomano, nei cui territori la Turdi questa politica detta “degli ze- chia è chiamata a esercitare una ro problemi”: il cui obiettivo fon- più accurata influenza geopolitica damentale è “creare una cintura e una più capillare penetrazione di stabilità, sicurezza e prosperità geoeconomica, per ristabilirne le attorno alla Turchia”, che aspira a interconnessioni perdute e dar vidiventare “il centro geopolitico ta a medio-lungo termine ad aree della regione afro-eurasiatica”; regionali di libero scambio in regrazie a questa cintura estesa al- gime di libera circolazione delle l’intero Medio Oriente – dove persone, diversificando al massiesercitare influenza politica ed mo i mercati di sbocco; la volontà economica – la Turchia potrà così di acquisire un’assoluta centralità continuare la sua fragorosa cresci- nello spazio afro-euroasiatico, rigettando implicita economica (8% anche nel 2011) La Turchia sta cercando tamente il ruolo di ponte tra Est e che la sta rendendo Ovest – energetico sempre più ricca, di creare attorno e politico-culturamoderna e globa- ai suoi confini le – in cui molte lizzata. Il professor Davu- una cintura di sicurezza cancellerie occidentali vorrebbero toglu ha minuzio- e prosperità confinarla. Una visamente illustrato la sua visione in un libro che – sione che è anche di completa rotpubblicato nel 2001 e più volte tura con la tradizione kemalista in ristampato – in Turchia si è ven- auge per otto decenni: invece imduto come un bestseller: Stratejik perniata sul primato della sicurezderinlik (Profondità strategica), un za militare, sulla percezione dei piano d’azione che ha per l’appun- vicini come nemici non solo poto come caposaldo la promozione tenziali, su un generale isolamendegli interessi nazionali e in cui to, sulla granitica fedeltà (con emergono come punti determi- qualche piccola crepa, l’invasione nanti l’eliminazione di tutti i pro- di Cipro nel 1974) all’Alleanza blemi esistenti coi paesi vicini, atlantica e all’Occidente della anche quelli più sedimentati e ap- Guerra fredda come antemurale parentemente intrattabili (con la anti-sovietico; una visione – quelRussia, con la Grecia, con l’Arme- la kemalista – che ha cominciato a nia); la diplomazia “ritmica”, cioè esser messa in discussione solo neil ruolo di infaticabile mediatore gli anni Novanta, dopo lo sfalda– a ritmo sostenuto, un’iniziativa mento dell’impero di Mosca. dietro l’altra – nei conflitti regio- Il piano di azione di Davutoglu è nali di più immediato impatto stato bollato come “neo-ottomaper la Turchia e l’attenzione co- no” dai suoi detrattori: il rigurgi-


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to imperiale dalla legittimità e con l’islam, promettendo il suo dalla connotazione islamiche, la impegno per assicurare nelle detentazione di dominio neo-calif- mocrazie in divenire della regiofale per imporre la supremazia di ne diritti, libertà, giustizia: «CreAnkara su tutto ciò che – territo- detemi, oggi Sarajevo ha vinto ri, beni, persone – appartiene come quanto Istanbul, Beirut coall’ex Impero ottomano (in Asia, me quanto Izmir, Damasco come in Africa, nei Balcani). All’ex quanto Ankara, Ramallah […] e professore questa etichetta non Gerusalemme come quanto piace e lo ha affermato a più ri- Diyarbakır». prese, ad esempio nel celebre di- In Asia centrale e nel Caucaso, la scorso di Sarajevo del 16 ottobre Turchia si è fatta promotrice – 2009: in cui ha invece rivendica- nel 2010, in occasione di un verto l’eredità ideale dell’Impero ot- tice in riva al Bosforo – dell’istitomano fatta d’integrazione mul- tuzionalizzazione del Consiglio ticulturale e multireligiosa, di di cooperazione degli Stati turcofoni: che per il apertura agli scampresidente Abdulb i e c e n t r a l i t à Il ministro degli Esteri lah Gül sono «una nell’economia globale dell’epoca, di Davutoglu sta cercando sola nazione divisa in sei Stati fratelcircolazione delle di eliminare ogni li» (fanno parte élites citando i casi dell’organizzaziodel bosniaco Meh- attrito con gli altri ne l’Azerbaigian, med Sokolovic di- paesi confinanti il Kazakistan e il venuto il gran Vizir Mehmet Paša Sokollu e del- Kyrgyzistan; il Turkmenistan e l’albanese Mehmet Ali divenuto l’Uzbekistan non hanno aderito, khedive e fondatore dell’Egitto mentre ne è escluso il Tagikistan moderno. «Come il XVI secolo persianofono). Il Ccst dispone di vide l’affermazione dei Balcani una struttura istituzionale ramiottomani come centro della poli- ficata e ben congegnata, basata su tica mondiale, renderemo in fu- di un segretariato generale a turo i Balcani, il Caucaso e il Me- Istanbul e su vertici regolari ai lidio oriente di nuovo il centro del- velli di capi di Stato, di ministri la politica mondiale. Questo è degli Esteri, di alti funzionari; l’obiettivo della politica estera estesa alle pre-esistenti Türkpa turca: e lo conseguiremo!» Lo (l’assemblea parlamentare) e Türstesso Erdogan, nel suo discorso ksoy (si occupa della valorizzaziotrionfale dopo le elezioni vitto- ne del patrimonio culturale e linriose del 12 giugno 2011, si è guistico comune); da espandere – presentato come riferimento per i secondo i piani – con la costru“popoli fratelli” dell’area ex otto- zione di un grande museo di stomana e ha proposto la Turchia co- ria dei popoli turchi ad Astana e me esempio di stabilità politica e con la creazione di un’unione indi modernizzazione compatibile teruniversitaria e di un fondo per

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la ricerca scientifica. Nel vertice di Almaty dello scorso ottobre, invece, è stato istituito un Consiglio economico di cui fanno parte anche le organizzazioni imprenditoriali: col duplice obiettivo di rafforzare la cooperazione multilaterale dei quattro e di eliminare gli ostacoli al commercio, a cominciare dai visti; mentre non è stata perfezionata l’opzione di affiancargli una Banca per lo sviluppo e una Compagnia d’assicurazioni per finanziare le attività private nei settori non legati all’energia: che costituisce oggi – gli idrocarburi del Caspio e il loro trasporto verso Occidente – il vero collante del raggruppamento. La Piattaforma di cooperazione per la stabilità e la cooperazione, che nelle intenzioni di Erdogan avrebbe dovuto contribuire a superare il contenzioso tra Turchia, Russia, Georgia, Armenia e Azerbaigian (anche attraverso lo sviluppo economico), non ha invece convinto i partner previsti e giace sulla carta. La Turchia aveva ambiziosi progetti su base regionale anche per il Levante: il “Quartetto del Levante”, un’area di libero scambio tra Turchia, Siria, Giordania e Libano, aperta all’adesione di altri paesi mediorientali e accompagnata dall’abolizione già avvenuta dei visti d’ingresso: una sorta di Schengen del Mediterraneo orientale – Shamgen, dal nome arabo di Damasco e in precedenza della Siria (Sham) – da far pienamente decollare, secondo il programma elettorale dell’Akp, entro il 2023. «Anche se parliamo

lingue diverse, non dobbiamo dimenticare che abbiamo valori comuni, una storia e una cultura condivise»; e ancora: «vogliamo rendere possibile (attraverso l’abolizione dei visti) un’aspirazione delle nostre genti vecchia di centro anni»: questi gli obiettivi e le ragioni enunciati dal premier turco. Sempre nel 2010, Turchia, Siria, Giordania e Libano hanno dato vita a un Alto consiglio quadripartito di cooperazione politica: per risolvere esclusivamente attraverso negoziati diplomatici le loro controversie, per affrontare in modo congiunto i problemi di sicurezza comuni, per assicurare libera circolazione delle persone e delle merci. È stato creato un Consiglio di partnership economica e commerciale tra vicini, per occuparsi anche di grandi progetti infrastrutturali; sono stati calendarizzati incontri periodici tra i ministri dell’energia, dei trasporti, del turismo, con risultati concreti e fulminei. La crisi in Siria ha bloccato tutto. Erdogan e Davutoglu hanno tentato – anche in prima persona – di convincere il presidente Assad a concedere tempestivamente le riforme democratiche necessarie a disinnescare la crisi. Non sono stati ascoltati, hanno prima denunciato i crimini del regime siriano e hanno poi chiesto ad Assad di farsi da parte; hanno concesso alle opposizioni di organizzarsi in Turchia, si sono fatti promotori di iniziative diplomatiche internazionali per rimuovere il presidente siriano attraverso pressioni e sanzioni, ma non con un


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intervento militare esterno. Per Ankara la situazione è estremamente delicata, in considerazione del prevedibile afflusso di rifugiati in caso di guerra e della presenza dei miliziani curdi del Pkk anche in Siria, che potrebbero sfruttare l’occasione – magari armati e guidati direttamente dall’intelligence siriana – per infiltrarsi in territorio turco e compiere attentati. In Tunisia, in Egitto e in Libia la Turchia ha invece avuto un ruolo all’inizio molto defilato, decisamente passivo: prendendo quasi immediatamente posizione contro la feroce repressione perpetrata dai regimi dittatoriali di Ben Alì e di Mubarak, ma opponendosi ad esempio all’intervento militare franco-britannico per spodestare Gheddafi; non aveva alcun interesse alla perpetuazione dello status quo, voleva semplicemente evitare una riedizione del caos sanguinoso in cui sono piombati l’Afghanistan e l’Iraq. Ha poi saputo trarre profitto dall’ascesa di nuove forze politiche ispirate a principi islamici e interessate a uno sviluppo armonico e diffuso – non più limitato alle élites rapaci – del sistema produttivo e a una generale democratizzazione dello spazio pubblico: presentandosi come “esempio” più che come “modello”, come protettore e suggeritore politico, come ideale partner economico attraverso accordi commerciali, investimenti e aiuti (persino per restaurare il patrimonio culturale ottomano) – non ancora su base regionale, per il momento in

chiave solo bilaterale. La Turchia si è proposta come esempio da seguire perché l’Akp ha saputo sconfiggere la dittatura laicista dei militari e integrare le masse devote in un’architettura costituzionale comunque laica (laica, non laicista: Erdogan lo ha sostenuto nel suo discorso al Cairo di settembre), ha affiancato ai monopoli economici delle grandi famiglie un tessuto di piccole imprese dinamiche e orientate all’esportazione, ha promosso il rispetto delle minoranze non musulmane prima sistematicamente marginalizzate, ha assicurato – e questo è probabilmente il merito maggiore – la compatibilità tra Islam, modernità, democrazia e sviluppo economico. Un esempio – o modello – apprezzato dai leader politici (salafisti a parte) come dalla popolazione; e se l’Europa fosse più lungimirante, dovrebbe lanciare senza indugi iniziative euro-turche – dopo aver garantito ad Ankara l’ingresso nell’Ue – per l’Africa settentrionale. È nell’interesse di tutti.

L’Autore giuseppe mancini Esperto di relazioni internazionali, giornalista e storico, dottorando di ricerca dell’Istituto italiano di Scienze umane con uno studio sulla politica estera di Francia e Italia negli anni Cinquanta e Sessanta.

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CRISI IRANIANA, NON C’È PIÙ TEMPO La popolarità del presidente Ahmadinejad è in netto calo a causa dell’embargo che da anni la comunità internazionale ha sancito per obbligare l’Iran ad abbandonare la via del nucleare. Israele è pronto a un attacco preventivo e ormai la diplomazia ha poco tempo per risolvere la questione ed evitare una nuova guerra nella regione. di RODOLFO BASTIANELLI

Gli sviluppi del programma nucleare iraniano costituiscono sicuramente il problema più delicato che la diplomazia oggi si trova ad affrontare. Nonostante le aperture effettuate da Obama subito dopo la sua elezione, nel dialogo tra Teheran e la comunità internazionale non si è registrato alcun progresso significativo e anzi, negli ultimi due anni, i timori di escalation causata dai progressi nei piani di realizzazione dell’atomica da parte del regime iraniano sono andati sempre più incrementandosi. Nell’analisi che segue si osserverà prima la complessa struttura istituzionale iraniana per comprendere quali riflessi ha avuto sul programma nucleare, poi le valutazioni dei servizi d’intelligence per comprendere dove questo sia effettivamente arrivato.

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La struttura istituzionale iraniana e i suoi riflessi sul programma nucleare

Sulla struttura istituzionale iraniana è opportuno soffermarsi in maniera dettagliata per comprendere quali ripercussioni ha avuto sul programma atomico del paese. Estremamente complessa, la struttura pone al vertice dello Stato la Suprema guida spirituale Sayyed Ali Khamenei, il quale detiene nelle sue mani la maggior parte dei poteri di indirizzo politico. E stando proprio a quanto affermato da quest’ultimo, l’Iran non starebbe assolutamente progettando di dotarsi di una forza nucleare in quanto lo sviluppo di un dispositivo atomico sarebbe in contrasto con i precetti della religione islamica. Una dichiarazione rilasciata nel 2005 dal capo nego-


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ziatore iraniano presso l’Aiea, Si- gioso impregnato di misticismo rus Naseri – quale aveva aggiun- sciita. In questo la leadership irato anche come lo stesso Khame- niana si è dimostrata in continuinei aveva emesso una fatwa con tà con quanto dichiarato a suo cui si dichiarava che lo stoccaggio tempo dall’Ayatollah Khomeini di materiale fissile e l’uso di per il quale si poteva anche venire eventuali armi atomiche erano as- meno ai precetti religiosi se quesolutamente proibiti e che, di sto fosse servito a garantire la siconseguenza, l’Iran non si sareb- curezza della Repubblica Islamibe mai dotata di armi di distru- ca. Lo stesso Khomeini, proprio zione di massa. Tra gli esperti le per rafforzare il suo convincimendichiarazioni di Khamenei hanno to che la sopravvivenza del regisollevato delle reazioni contra- me era da anteporre all’osservanza stanti. Se da una parte alcuni dei principi coranici, poco prima commentatori hanno sottolineato della sua scomparsa aveva istituirichiamo all’Islam dimostrerebbe to il “Consiglio del Discernimento”, un organismo che il regime di incaricato di meTeheran non in- Khamenei nel 2005 diare, in caso sortende proseguire nel suo program- aveva emesso una fatwa gessero dei contrasti tra il Parlamenma nucleare, dal- in cui dichiarava che to e il “Consiglio l’altro non pochi hanno ricordato l’uso delle armi atomiche dei Guardiani della Rivoluzione” noncome all’interno era proibito per l’Iran ché di consigliare del mondo politico iraniano esiste una corrente di la Suprema guida spirituale del pensiero che ritiene che, nono- paese riguardo ai provvedimenti stante i precetti religiosi vietino legislativi da adottare. È chiaro, la realizzazione dell’arma atomi- dunque, come il potere decisioca, non si possono fermare lo svi- nale risieda nelle mani della Guiluppo di una forza nucleare qua- da Suprema Khamenei il quale, lora la sicurezza della Repubblica alla luce di questi principi, non è obbligato ad assumere una deciIslamica lo richieda. Stando a uno studio preparato al- sione politica a rispondere alle cuni mesi fa dal Washington Insti- prescrizioni contenute in una tute for Near East Policy, contraria- precedente fatwa, perché può mente a quanto percepito dal- emettere, qualora le circostanze l’opinione pubblica, le decisioni lo richiedono, una nuova fatwa adottate in politica estera dai di- con cui disapplicare quanto pririgenti di Teheran in questi ulti- ma enunciato. Negli ultimi anni mi anni sarebbero state impron- questo contrasto tra i sostenitori tate più a un pragmatismo teso a di una linea religiosa-radicale e evitare un conflitto potenzial- quelli più propensi a porre gli inmente disastroso con i paesi occi- teressi dello Stato in primo piano dentali che a un oltranzismo reli- rispetto a quelli coranici, ha por-


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tato all’emergere di una nuova Repubblica Islamica combattere classe di esponenti politici che, ogni intossicazione ideologica pur se non ispirati nella loro proveniente dall’occidente e che ideologia da considerazioni reli- un conflitto tra l’Iran e gli Stati giose, intendono comunque ri- Uniti era da ritenersi inevitabile prendere alcuni dei principi radi- nel lungo periodo. cali che furono alla base della ri- Subito dopo Khamenei l’istituvoluzione del 1979. Fedeli a zione più importante è il “ConsiKhamenei, questi esponenti, glio dei guardiani della rivoluziomolti dei quali provengono dalle ne”, un organismo composto da fila dei “Guardiani della rivolu- sei esponenti religiosi e altrettanzione”, si contraddistinguono per ti giuristi islamici che, tra le sue le loro dure posizioni in politica prerogative, ha anche quella di estera, la quale deve essere intesa valutare le candidature per le elecome uno strumento con cui la zioni presidenziali. Non è un caso Repubblica Islamica si impegna a quindi che l’organismo, eliminando dalle comcombattere le inpetizioni elettorali giustizie subite dai La contrapposizione alcune figure i cui popoli islamici nel orientamenti eraMedio Oriente. tra i sostenitori della no ritenuti troppo Convinti non solo linea religiosa e quella progressisti, abbia che l’Iran sia una in questi anni conpotenza emergen- statale sta diventando tribuito a rafforzate, ma anche che sempre più forte re il potere delgli Stati Uniti siano avviati verso un inesorabile l’Ayatollah Khamenei e la sua lideclino che Israele abbia i giorni nea politica. Paradossalmente, contati, i radicali vedono nello quindi, i due organismi eletti del sviluppo di un dispositivo nu- paese: il Presidente della Repubcleare un mezzo per accelerare blica e “Maijlis” (Parlamento) – questo processo e affermare un vengono a disporre di un ruolo nuovo sistema internazionale. Ri- molto più limitato rispetto a guardo al programma nucleare, quello degli apparati, espressione diversi commentatori sottolinea- del potere teocratico. È vero che no come alcune affermazioni rila- il Capo dello Stato Mahmoud sciate da Khamenei negli ultimi Ahmadinejad rappresenta la figuquattro anni contraddirebbero in ra politica più importante del maniera evidente la fatwa emessa paese, ma gran parte delle preronel 2005. Tra queste si citano gative attribuite alla Guida suprima quella in cui sei anni fa la prema e al “Consiglio dei guarSuprema guida spirituale affer- diani della rivoluzione” rendono mò che il programma nucleare di fatto questi due organismi ascostituiva una ragione di orgo- sai più importanti della Presidenglio nazionale, aggiungendo za sul piano istituzionale: il ruolo inoltre come fosse dovere della del Parlamento invece viene a

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trovarsi in una posizione ancora più defilata, non potendo le sue deliberazioni entrare per nessuna ragione in contrasto con quanto deliberato da Khamenei e dal “Consiglio dei guardiani della rivoluzione”. Come si vede, quella iraniana è quindi una struttura estremamente complessa, dove spesso le valutazioni politiche s’intrecciano con le idee religiose rendendo assai difficile per gli analisti comprendere gli orientamenti del regime iraniano. Un’altra questione su cui si è accesa la discussione tra gli esperti è se le mosse di Teheran siano dettate da considerazioni politiche razionali oppure se le sue azioni restino imprevedibili e, di conseguenza, capaci di produrre conseguenze dagli esiti estremamente pericolosi. Se la maggior parte degli analisti ritengono che, nonostante i toni enfatici usati dalla leadership iraniana, le decisioni di Teheran siano improntate su criteri di razionalità basati sulla valutazione dei costi/benefici di ogni azione, per altri i comportamenti della teocrazia sarebbero più difficili da decifrare. A sostegno di questa tesi viene citata la responsabiltà dei servizi segreti iraniani nell’attentato ai danni dell’ambasciatore saudita a Washington, un gesto che avrebbe potuto portare anche a uno scontro militare con gli Stati Uniti dal quale l’Iran ne sarebbe uscito inevitabilmente sconfitto. Se da un lato, dunque, è opinione unanime che lo scopo primario della dirigenza iraniana sia quello di preservare la sopravvivenza del regime, dall’altro esi-


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stono notevoli divergenze sulle modalità con cui questa debba essere assicurata e, di conseguenza, su quali possano essere le azioni poste in essere dai vertici politici di Teheran per raggiungerla. Non pochi ritengono che la visione della situazione internazionale di cui dispone Khamenei sia profondamente distorta. Secondo fonti d’intelligence, la Suprema guida spirituale del paese non solo non avrebbe più viaggiato al di fuori dell’Iran dal 1989 – anno della morte di Khomeini – ma le informazioni di cui questo disporrebbe sarebbero quantomai incomplete, poichè i suoi principali collaboratori tenderebbero a isolarlo dal mondo esterno filtrando ogni notizia negativa in arrivo. E se la leadership di un paese manca di valutazioni attendibili, è assai difficile per gli osservatori valutare quali potranno essere le sue mosse sulla scena diplomatica. Le valutazioni dell’intelligence sul programma nucleare iraniano

Negli ultimi cinque anni le valutazioni sullo stato dei piani atomici iraniani da parte degli analisti e dei servizi intelligence hanno profondamente differito tra loro, contribuendo indirettamente ad accrescere l’incertezza su quale indirizzo stia effettivamente prendendo il programma di Teheran. Se nel 2007 una valutazione del “National intelligence estimate” degli Stati Uniti era giunta alla conclusione che l’Iran aveva fermato il suo programma nucleare aggiungendo che questo

probabilmente risultava bloccato da almeno quattro anni, al contrario le ultime valutazioni della stessa Aiea avanzano numerosi dubbi sul comportamento tenuto da Teheran. In un rapporto presentato lo scorso novembre, l’Agenzia delle Nazioni Unite affermava come l’Iran, non avendo risposto alle informazioni richieste, poteva ritenersi coinvolto nella fabbricazione di un dispositivo atomico per scopi militari, aggiungendo che i documenti attualmente in possesso dell’Aiea dimostravano l’intenzione iraniana di acquisire i mezzi per procedere all’arricchimento dell’uranio e portarlo ai livelli necessari alla fabbricazione di un ordigno nucleare. Davanti a queste dichiarazioni la risposta degli Stati Uniti e della Comunità internazionale è stata di varare ulteriori sanzioni economiche e commerciali nei confronti del regime di Teheran i cui effetti rischiano di avere forti ripercussioni non solo sull’economia ma anche sulla vita stessa dei cittadini iraniani. La decisione presa dall’Unione europea lo scorso gennaio con cui si proibisce non solo la stipula di nuovi contratti petroliferi con il paese ma anche lo scambio di forniture tecnologiche, secondo gli osservatori produrrà pesanti effetti sull’Iran poichè attraverso la vendita del petrolio acquista sul mercato i prodotti agricoli e alimentari di cui necessita la popolazione. Stando a quanto riportato dagli osservatori, il mese scorso Teheran si è trovato nell’impossibilità di saldare all’India il conto delle

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forniture di riso precedentemente la legge islamica di possedere arinviate, senza contare che, per ef- mi nucleari. Per Teheran, quindi fetto della svalutazione a cui è an- i piani atomici hanno esclusivadato incontro il Rial iraniano, il mente una valenza civile in quanprezzo del cereale nei mercati si è, to possono essere utilizzati solo a di fatto, raddoppiato passando da scopi medici ed energetici, dal momento che, come sostiene un 2 a 5 Dollari il chilogrammo. Allo stesso modo il regime è stato rapporto dell’Accademia delle costretto a dimezzare le importa- scienze iraniana, il paese dal 2015 zione di mais dall’Ucraina che co- potrebbe veder ridotte consideresì oggi viene a costare quasi il tri- volmente le entrate derivanti dalplo rispetto a un anno fa, andan- l’esportazione di petrolio. Gran do ben oltre le capacità d’acqui- parte degli osservatori ha comunsto della maggior parte dei citta- que accolto con forte scetticismo dini iraniani. Se l’Aiea ha dichia- le rassicurazioni di Teheran; sorato che l’Iran, continuando prattutto in Israele l’eventualità che l’Iran possa donell’arricchimento dell’uranio e por- Israele è ormai convinto tarsi in tempi brevi di armi nucleari sta tandolo a un livello del 90%, po- che bisogna intervenire suscitando una crescente preoccupatrebbe in breve con un attacco zione. In proposito tempo disporre di il premier israeliaalmeno quattro preventivo prima che no Netanyahu ha ordigni nucleari, sia troppo tardi dichiarato come al contrario il direttore del “National intelligen- sempre più elementi confermano ce” statunitense, James Clapper, che l’Iran stia sviluppando un ha affermato come al momento programma nucleare per scopi non esistono prove dirette e circo- militari. Inoltre, ha aggiunto il stanziate che Teheran stia proce- Primo ministro, questo appare dendo alla costruzione di un’arma giunto a uno stadio molto più nucleare. Posizione questa rite- avanzato di quanto si possa imnuta troppo ottimistica dal Se- maginare ed è quindi è necessario gretario di Stato alla Difesa Leon intervenire prima che sia troppo Panetta, il quale nel gennaio tardi. Ad accrescere le preoccupascorso ha sostanzialmente confer- zioni israeliane contribuiscono mato quanto precedentemente anche le ultime informazioni cirespresso dall’Aiea. Da parte sua, ca la dislocazione degli impianti il regime iraniano ha sempre ne- nucleari. Stando a quanto riferito gato che il programma nucleare dal New York Times, l’Iran avrebbe abbia uno scopo militare, ricor- trasferito diverse installazioni in dando inoltre come le fatwa un impianto altamente sorvegliaemesse prima da Khomeini e suc- to situato alla periferia di Qom il cessivamente da Khamenei, di- quale disporrebbe di validi struchiarino l’assoluta contrarietà per menti di difesa in grado di resi-


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stere sia a eventuali raid aerei che ad attacchi informatici sul modello di quelli del 2009 e del 2010 quando un potente virus, denominato “Stuxnet”, infettò i computer rendendo inutilizzabili 1/5 delle centrifughe atomiche e rallentò notevolmente l’attività del programma nucleare. Sul piano politico Israele deve fronteggiare anche i dubbi di Obama, preoccupato da un’eventuale escalation di tensione possa mettere a rischio le sue prospettive di rielezione. Se la crisi precipitasse, potrebbe avere serie ripercussioni sull’economia americana, causando una fiammata dei prezzi petroliferi che a sua volta condurrebbe a un ulteriore rialzo dei carburanti il cui costo già elevato sta danneggiando la popolarità del presidente. Ma se i costi economici di una crisi con l’Iran rischiano di essere assai elevati, i contraccolpi politici di un’eventuale frattura tra Washington e Gerusalemme potrebbero essere ancora più devastanti. Come sottolineano gli analisti, qualora la Casa Bianca si mostrasse tiepida o apertamente critica verso Israele, la credibilità degli Stati Uniti verrebbe gravemente compromessa. Convinti di non poter più contare sulla garanzia militare statunitense, i paesi arabi del Medio Oriente potrebbero essere spinti a dotarsi di un dispositivo nucleare per fronteggiare la minaccia iraniana; in Asia la Corea del Sud sarrebbe esposta alle minacce di Pyongyang e Taiwan si troverebbe in una posizione molto più debole

nei confronti di Pechino. In pratica gli Stati Uniti vedrebbero ridursi la loro forza di deterrenza nelle aree più strategiche del pianeta. E a sette mesi dalle elezioni, nessuno a Washington può permettere che questo scenario si concretizzi.

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L’Autore rodolfo bastianelli Esperto di questioni internazionali, collabora con la rivista dello Stato Maggiore della Difesa Informazioni della difesa, firmando anche su Liberal, Affari Esteri, Rivista Marittima e il periodico dello Iai Affari internazionali. Ha collaborato con Ideazione e la rivista Acque & Terre.



LE GUERRE DIMENTICATE Enzo Nucci

Molte le situazioni critiche e ingestibili

Africa, un continente che non conosce PACE Nonostante il silenzio dei mass media occidentali, le guerre nel continente africano continuano a proliferare. Da Nord a Sud, grandi e piccoli conflitti fanno parte ormai della vita quotidiana dei cittadini mentre la comunità internazionale sembra inerme, bloccata da veti incrociati e interessi. 149 DI ENZO NUCCI

Le guerre combattute (ma non dichiarate) e i conflitti armati interni (spesso classificati a “bassa intensità”, una definizione che non rende giustizia all’alto numero di morti e rifugiati) rischiano di provocare un effetto domino nel continente africano, travolgendo come un mare in tempesta fragili accordi di pace e faticose intese di cessate il fuoco. Tra le 54 nazioni africane si annoverano molte situazioni critiche che acquistano rilevanza internazionale solo di fronte a eventi che si impongono all’attenzione dei media. Conflitti armati (di diversa importanza, natura ed entità) sono in corso in Algeria, Ciad, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Liberia, Libia, Repubblica Centrafricana, Re-

pubblica Democratica del Congo, Sahara occidentale e Uganda. In questo articolo focalizziamo la nostra attenzione sulle aree oggi “più calde”. Ma i conflitti dimenticati in Africa restano ancora tanti, troppi. Sarà per noi un incentivo per squarciare il velo dell’oblìo. Nigeria

Provate a passeggiare per le strade di Victoria Island, il quartiere più elegante di Lagos, la capitale economica della Nigeria: vi imbatterete in una delle più alte concentrazioni al mondo di super ricchi. Potrete ammirare nelle vetrine dei concessionari di automobili gli ultimi modelli di Porsche, Lamborghini e Aston Martin. E se avete voglia di champa-


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gne francese non avrete che l’im- prodotti raffinati per le scarse cabarazzo della scelta perché in Ni- pacità produttive interne. Ad geria lo scorso anno se ne sono alimentare l’instabilità politica si vendute 650 mila bottiglie, fa- aggiunge la guerriglia guidata cendo balzare il paese al primo dal Movimento per l’Emancipaposto in Africa nel consumo del zione del Delta del Niger (Mend) proprio nelle aree sud prezioso vino. Ma usciti da questo ghetto d’oro orientali dove sono concentrate lo scenario cambia radicalmente le attività di estrazione petrolifee ci vuole poco per rendersi con- ra delle grandi compagnie occito che il 65% dei 160 milioni di dentali e cinesi. Attacchi ai poznigeriani vive con meno di due zi, rapimenti e riscatti per liberadollari al giorno perché quasi re i tecnici stranieri: è la stratel’80% delle enormi risorse della gia del Mend (in cui operano annazione è saldamente concentra- che elementi della criminalità to nelle mani di meno dell’ 1% comune) per chiedere l’autonomia della regione, della popolazione, la redistribuzione i super ricchi ap- L’obiettivo dei gruppi dei proventi petropunto. Una iniliferi e fermare qua distribuzione nigeriani è quello l’inquinamento della ricchezza è di imporre la sharia che sta distrugalla base dello stogendo pesca e agririco malcontento nelle regioni del Nord coltura. che origina vio- e cacciare i cristiani Ma oggi a far paulenza endemica nel primo paese produttore di ra è il gruppo terroristico islamipetrolio in Africa e l’ottavo al co Boko Haram che sta seminanmondo. 5 giorni di sciopero ge- do morte e distruzione nel nord nerale (e 15 manifestanti uccisi) est a maggioranza musulmana. Il hanno paralizzato il paese nello biglietto da visita più sanguinoscorso gennaio: la protesta era so (e mediaticamente “forte”) è contro il raddoppio del costo del stato recapitato a Natale scorso carburante deciso dal governo quando una cinquantina di criche ha soppresso il sussidio stata- stiani riuniti in varie chiese per le per calmierare il prezzo della celebrare la nascita di Gesù sono benzina. L’esecutivo ha giustifi- stati falciati da una serie di cato la scelta come una manovra esplosioni che hanno raso al suotesa a ridurre la spesa pubblica e lo i luoghi di culto. Migliaia le incoraggiare gli investimenti lo- vittime degli integralisti negli cali nel settore della raffinazione. ultimi 3 anni, insomma cifre da È il drammatico paradosso della guerra civile. Nigeria: benché l’esportazione di L’obiettivo dei “talebani d’Afrigreggio e gas copra il 95% del- ca” è imporre nelle regioni setl’export complessivo, deve poi tentrionali la sharia (ovvero la importare dall’estero l’85% dei legge coranica), cacciare via cri-


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stiani e animisti per impossessarsi dei loro beni. Per questo non hanno esitato a lanciare lo jihad (ovvero la guerra santa) trovando terreno fertile negli strati più poveri della popolazione musulmana, tradizionalmente conservatrice nel nord. Il governo centrale (che guida 36 stati federali) ha applicato la pilatesca strategia del “laissez-faire” disinteressandosi della modernizzazione del nord a fronte di un sud a maggioranza cristiana più ricco e sviluppato. Ha così concesso ampi poteri agli sceicchi locali che hanno creato oligarchie in forte competizione tra loro alimentando la gestione clientelare delle risorse petrolifere, la corruzione e favorendo la povertà di cui è prigioniera la stragrande maggioranza della popolazione. I consensi intorno a Boko Haram sono cresciuti alla velocità della luce grazie alla strage perpetrata dall’esercito governativo di 3 mila militanti che nel 2009 si erano asserragliati in una moschea: alla sanguinosa repressione sono seguiti l’arruolamento di massa, la radicalizzazione dello scontro, l’ingresso del gruppo nell’ internazionale del terrore. Il risultato è che oggi Boko Haram ha strettissimi collegamenti con la casa “madre” Al Qaeda e con Al Qaeda per il Maghreb Islamico (Aqmi). Le sue accresciute capacità militari sono dimostrate dall’attentato che nell’agosto scorso ha distrutto il palazzo delle Nazioni Unite ad Abuja, la capitale della Nigeria. Una attitu-

Il Libro Testimonianze di atrocità infinite Luca Leone Uomini e belve Infinito edizioni 2008, 176 pp., 13 euro Palpitanti testimonianze, politicamente e socialmente contestualizzate, dai Sud del mondo d’Europa (Georgia, Cecenia, Romania, Italia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo), Africa (Sierra Leone, Liberia, Togo, Burkina Faso, Etiopia, Eritrea) e America (Canada, Cuba, Ecuador, Bolivia). “Luca Leone tiene saldamente ferma la barra del suo timone sull’Uomo che resta l’unico, solo e imprescindibile argomento di ricerca. Egli stesso ricorda che ‘in guerra, anche in conflitti considerati di liberazione, non ci sono mai buoni o cattivi. Quelli li creano i media’…” (dalla prefazione di Enzo Nucci). “Uomini e belve è un libro inquieto, politico, perché rammenta alle diplomazie le loro responsabilità. L’autore racconta, con dati e fatti, eventi poco menzionati, polverizzando le certezze di una Storia dozzinale servita all ora di cena a uomini e donne sempre più distratti” (dall’introduzione di Angelo Lallo), poiché “la macchina della guerra ha le sue logiche di potere, che non sempre sono facilmente o immediatamente comprensibili da uno spettatore distratto” (padre Gerardo Caglioni).

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dine allo scontro armato da esi- parti delle forze speciali delbire orgogliosamente (grazie an- l’esercito statunitense affiancheche alle complicità di cui gode ranno nei prossimi mesi i militanelle istituzioni, compresi i ser- ri governativi. vizi segreti, parlamento ed esercito come ha denunciato il presi- Corno d’Africa dente Goodluck Jonathan) tanto Qui c’è il pericolo che i venti di che i terroristi hanno tenuto sot- guerra tra Somalia, Etiopia ed to scacco con bombe e colpi di Eritrea si trasformino in tempemortaio addirittura per l’intera sta trascinando nell’inferno belligiornata del 20 gennaio esercito co anche Kenya, Uganda, Sudan e polizia nella città di Kano, la e Sud Sudan. Lo conferma il repiù grande del nord con 10 mi- centissimo rapporto delle Naziolioni di abitanti, causando 162 ni Unite sul forte rischio di un vittime. conflitto “regionale”. Boko Haram (che in lingua Migliaia di persone scappano da hausa significa Gedo, regione sud “l’istruzione occi- Si rischia un conflitto occidentale della dentale è peccaSomalia, per sotto”) gestisce cam- regionale nel corno trarsi ai combattipi di addestra- d’Africa che potrebbe menti tra le milimento nei paesi zie di Al Shabaab confinanti, in par- coinvolgere numerosi (gli integralisti ticolare in Niger, Stati dell’area islamici federati Ciad e Camerun e con Al Qaeda) e ha creato una propria autonoma l’esercito del Governo Federale rete terroristica che abbraccia di Transizione sostenuto dai mianche Sudan e Somalia. Alcuni litari kenyani. Senza cibo, acqua, militanti (poi pentiti) hanno medicinali, masse di diseredati anche combattuto in Afghani- cercano la salvezza ma le vie di stan con la promessa di una ri- comunicazione con la capitale compensa di 35 mila dollari. Mogadiscio sono interrotte e il Boko Haram rappresenta una confinante Kenya non vuole più minaccia all’esistenza stessa del- accogliere altri rifugiati. Infatti la Nigeria. Non a caso il presi- Dadaab, il campo profughi più dente cristiano Goodluck Jona- grande del mondo che ospita più than ha evocato il fantasma della di 500 mila somali, situato in guerra civile del Biafra che tra il territorio kenyano a 80 chilome1967 e il ’70 causò un milione e tri dal confine con la Somalia, sta 200 mila morti. Ma è anche un scoppiando e rappresenta un forforte elemento di destabilizza- te elemento di destabilizzazione zione per tutti i paesi confinanti per il governo di Nairobi alla viche rischiano di diventare il por- gilia di importantissime elezioni to sicuro del terrorismo interna- politiche e presidenziali. Il 16 zionale. Per questo motivo re- ottobre 2011 l’esercito del Ke-


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nya ha ufficialmente invaso la roristici. Ma le bombe non hanSomalia meridionale per contra- no fermato la strategia di penestare le milizie Al Shabaab ma i trazione nel paese messa a punto risultati di questa operazione mi- dal premier turco Erdogan che litare sono ancora confusi e con- sta assumendo sul palcoscenico traddittori, specialmente dopo del mondo islamico il ruolo che che nella prima fase le truppe di prima rivestiva l’Egitto. La TurNairobi sono rimaste impantana- chia ha ristrutturato l’aeroporto, te per le forti piogge che si sono avviato un programma per la abbattute sulla zona. Mentre da realizzazione di infrastrutture cipiù parti vengono denunciate vili e sanitarie, raddoppiato le stragi di cittadini innocenti col- borse di studio per i giovani stupiti da bombardamenti aerei. Il denti: oggi i somali riconoscono Kenya ha deciso l’intervento mi- nel governo di Ankara il primo litare dopo aver subìto attacchi paese amico mentre fino a qualdei fondamentalisti sul proprio che anno fa la Turchia era un paese lontano, adterritorio, atti di dirittura sconobanditismo ai con- La Turchia di Erdogan sciuto. La ciliegifini, attentati dina sulla torta è namitardi nella ca- negli ultimi anni che un volo della pitale e una serie è diventato il primo Turkish Airlines è di rapimenti ai atterrato agli inizi danni di turisti e paese amico di marzo all’aerooperatori umanita- per la Somalia porto di Mogadiri stranieri. Intanto lo scorso 14 marzo il governo scio. È il primo aereo commerdi Nairobi ha annunciato che en- ciale internazionale che vi arriva tro pochi mesi saranno rimpa- dopo 21 anni. La compagnia di triati 630 mila rifugiati nelle zo- bandiera turca effettua due collene liberate della Somalia, una de- gamenti settimanali verso la cacisione che segna la fine della pitale somala, segno che anche i “tolleranza”. Pensate infatti che business men del Bosforo non si solo a Nairobi nel quartiere di dedicano all’ozio. Eastleigh vivono 500 mila soma- Segnali incoraggianti che però li, la gran parte clandestini e non bastano a far calare la tensiosenza documenti, ma è una pre- ne nell’area, anzi. Il Kenya accusenza di grande peso economico sa l’Eritrea, nemica storica delperché la capitale del Kenya è la l’Etiopia, di aver fornito armi ai seconda casa per gli uomini d’af- miliziani Shabaab. Il governo di fari e i “colletti bianchi” dei pi- Addis Abeba pone condizioni per aiutare il fragile esecutivo di rati “made in Mogadiscio”. Mogadiscio, ufficialmente libera- Mogadiscio in cambio della geta dagli Shaabab che controllano stione di un porto commerciale il sud del paese, continua a subi- sulle coste somale. Da quando re quotidianamente attentati ter- infatti Asmara è diventata indi-

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pendente, l’Etiopia non ha più uno sbocco sul mare. In questa chiave vanno letti gli attacchi militari che gli etiopi stanno conducendo da metà marzo contro quelli che bolla come “campi di addestramento sovversivi” in territorio eritreo dove si esercitano i ribelli indipendentisti dell’Ogaden in guerra con Addis Abeba. Una operazione militare che preoccupa moltissimo gli osservatori: è infatti il primo attacco dell’Etiopia in territorio eritreo dalla fine del conflitto nel 2000 tra i due paesi che causò 80 mila morti. Insomma Addis Abeba accusa Asmara di addestrare terroristi per lanciare attacchi sul territorio etiope. La strategia del dittatore eritreo Isaias Afewerki (al potere con il pugno di ferro dal 1993) è di tenere occupato l’esercito etiope costringendolo a misurarsi con indipendentisti e Shabaab somali: in questa chiave vanno interpretate le distribuzione di armi. A inchiodarlo c’è un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nel luglio 2011 che evidenzia gli stretti legami tra il regime eritreo e i radicali somali. Un caleidoscopio di interessi nazionali e personali, differenze etniche e religiose, alleanze regionali e internazionali rischiano di far esplodere questa santabarbara chiamata Corno d’Africa. Sudan e Sud Sudan

Il 9 luglio 2011 è nato ufficialmente il Sud Sudan, il 54° stato africano. Il parto non è stato indolore. Sono state necessarie due

guerre civili (combattute a partire dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1956 fino al 2005 con una sola interruzione di dieci anni dal 1973 al 1983), due milioni e mezzo di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel nord islamico del paese. È stata la guerra più lunga del Novecento, 39 anni di interminabile orrore, “la più dura operazione di islamizzazione forzata del secolo scorso – secondo alcuni osservatori – che ha generato per reazione un corale e coraggiosissimo movimento di resistenza contro il genocidio di un popolo animista e cristiano, profondamente africano”. Ma la festa è durata poco perché nessuno a Khartoum (capitale del Sudan islamico) così come a Juba (capitale del Sud Sudan cristiano e animista) ha mai nutrito soverchie illusioni. I rapporti tra di due paesi restano tesississimi, sull’orlo di una nuova guerra, l’ennesima. Il presidente Omar El-Bashir (dittatore incontrastato del Sudan, accusato di genocidio e crimini di guerra dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja) ha stroncato nel sangue un timidissimo tentativo di “primavera araba” animato dagli studenti e deve fronteggiare una crisi economica (aggravata dal cancro di una corruzione diffusa anche nei più piccoli gangli della società) che sta mettendo in ginocchio il paese. Il neonato Sud Sudan paga il prezzo della mancanza di una ruling class in grado di promuo-


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vere lo sviluppo economico perché tutta la sua leadership politica si è forgiata durante gli anni duri della clandestinità e della guerra. Anche al Sud la corruzione strangola tutte le attività. Un ulteriore elemento di divisione all’interno dei due Sudan sono i conflitti etnici e tribali che non conoscono tregue e che provocano migliaia di morti: neanche la presenza di 4 mila caschi blu dell’Onu nello scorso gennaio è riuscita a evitare a esempio sanguinose stragi a Lukangol. La guerra è dietro l’angolo. A febbraio il Sud Sudan ha dispiegato il suo esercito lungo il confine con il Sudan. “Dobbiamo essere pronti a difendere la sovranità e le risorse del nostro paese” ha ammonito il presidente sud sudanese Salva Kiir. A dividere i due Sudan in realtà è proprio il petrolio. Più di due terzi delle risorse si trovano nel sud ma è il nord ad avere oleodotti, raffinerie e sbocco sul mare (Port Sudan sul Mar Rosso). Il sud ha riserve petrolifere per 6,6 miliardi di barili, ovvero l’80% del petrolio di tutto il paese prima della secessione ma l’unico oleodotto (lungo mille chilometri) per trasportarlo passa attraverso il nord che a metà gennaio ha deciso di aumentare a 32,2 dollari la tassa al barile per i diritti di passaggio che Juba deve pagare. “È la compensazione per le perdite economiche subite dopo il distacco di Juba” fanno sapere da Khartoum ma la tassa imposta è esageratamente fuori mercato. Il Sud Sudan ha quindi bloccato l’eroga-

zione dell’oro nero e sta premendo l’acceleratore sull’accordo sottoscritto con il Kenya per costruire un oleodotto (tempo di realizzazione 11 mesi) che unirà il paese con il porto di Lamu sull’oceano Indiano. I cinesi (che acquistano il 5% del petrolio loro necessario dai due Sudan) si è offerto di mediare. Ma la pace tra i due Sudan resta appesa a un filo che si assottiglia di ora in ora.

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L’Autore enzo nucci Corrispondente Rai da Nairobi per l’Africa Subsahariana.



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L’Asia e i suoi conflitti dimenticati

GIOCO DI SPECCHI TRA LE DUE COREE Dopo la morte di Kim Jong-il e la presa del potere del figlio Kim Jong-un, la tensione tra i due Stati è arrivata all’apice. Nonostante le aperture da parte della Corea del Nord sulla questione nucleare, i movimenti di truppe cosiddetti di “routine” si sono intesificati da entrambe le parti. di MARIA ELENA VIGGIANO

L’ultima notizia è che la Corea del Nord ha deciso di interrompere i programmi nucleari, di sospendere il lancio dei missili a lungo raggio e l’arricchimento dell’uranio, di dare il via libero agli ispettori dell’Aiea. In cambio gli Stati Uniti forniranno 240mila tonnellate in aiuti alimentari, per sostenere una popolazione ormai ridotta alla povertà e un paese al totale isolamento, e di impegnarsi per fermare le sanzioni imposte al regime coreano. Dopo la morte del “caro leader”, è il primo segno di cambiamento intrapreso dal giovane erede Kim Jong-un che, in un primo momento, sembrava non volesse modificare la linea politica adottata dal padre. Un

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gesto accolto con entusiasmo da Seul e da Tokyo, che parlano di un passo importante per lo sviluppo di relazioni future, mentre Washington continua a esprimere perplessità. Diverse volte Pyongyang ha proclamato di voler fermare le proprie attività nucleari ma poi alle promesse non sono mai seguiti i fatti. Di certo non sono stati modificati gli assetti militari in corso perché la Corea del Sud non può ancora dormire sonni tranquilli e, per garantire sicurezza e stabilità alla penisola e ai cittadini, un esercito è schierato sulla linea di confine. Sono solo 655mila uomini contro un milione e 200mila soldati nordcoreani, ma sapere che un contingente è


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pronto ad agire in qualsiasi mo- to di intraprendere “una guerra mento, è un utile deterrente per santa” in risposta alle esercitaziole intenzioni bellicose della Corea ni militari considerate “una silendel Nord. Seul può poi contare ziosa dichiarazione di guerra”. sull’appoggio di Washington che Non è detto quindi che i recenti a Yongsan ha dislocato la seconda accordi con gli Stati Uniti possabase militare americana più gran- no scongiurare un attacco nei de al mondo. Conta una presenza confronti della Corea del Sud con di 28mila soldati che sorvegliano cui, a colpi di provocazioni e di la zona anche con aerei e satelliti minacce, i rapporti sono diventamentre, secondo un rapporto, il ti sempre più tesi a partire dal Directorate of Public Works dispone 2009, dopo il lancio dei missili di un budget di 78,4 milioni di che ha portato allo stallo dei “Six dollari. Queste cifre indicano Party Talks” (le due Coree, Cina, chiaramente che la paura di un Giappone, Usa e Russia) per la attacco è ancora reale e la sicu- denuclearizzazione della Corea del Nord. La situarezza militare zione si è poi agnell’area è una Tra le due Coree gravata nel 2010 a priorità. Così come ha avu- la tensione è alle stelle seguito dell’affondamento della corto luogo, dal 27 dopo la morte di Kim vetta sudcoreana febbraio al 9 marCheonan, colata a zo scorso, Key Re- Jong-il e il passaggio picco a causa di solve, un’operazio- di poteri al figlio uno squarcio nello ne militare congiunta tra le forze militari sudco- scafo, provocato probabilmente reane e americane, avvenuta con da un siluro o da una mina, deterun impiego di 200mila soldati minando la morte di 46 marinai. della Corea del Sud e 2.100 trup- Ciò significa che in Asia, così cope degli Stati Uniti. Ufficialmen- me in altre parti del mondo, le te è stata “una esercitazione di guerre non appartengono al pasroutine”, una manovra orientata sato ma sono solo dimenticate, i alla difesa e pianificata da mesi, massacri rimangono sconosciuti e che non ha nulla a che vedere con gli orrori celati, ma questo non la situazione internazionale at- significa che non esistono. Se il tuale, ma è evidente che si tratta primo pensiero del presidente di una contraddizione in termini della Corea del Sud, Lee Myungpoiché è noto che le relazioni tra bak, appena saputo della morte di le due Coree non sono pacifiche e Kim Jong-il, è stato convocare sono diventate ancora più delica- d’urgenza il Consiglio di sicurezte dopo la morte di Kim Jong-il e za nazionale e ordinare alle forze il passaggio di poteri nelle mani armate lo stato di massima allerdel giovane Kim Jong-un. Non si ta, vuol dire che i sudcoreani non è fatta attendere la risposta del possono dare nulla per scontato regime nordcoreano che ha giura- poiché la routine delle loro vite


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potrebbe essere interrotta dagli Turkestan orientale e lo rinominò attacchi militari del Nord. La si- Xinjiang, privando i suoi abitancurezza e la difesa della penisola ti della propria identità. Sono una costa alla Corea del Sud 621 tri- minoranza a prevalenza musullioni di won, utilizzati per le ri- mana, con un’identità culturale e forme nell’ambito della difesa per religiosa che si avvicina di più alil periodo 2006-2020, con un le popolazioni dell’Asia centrale budget militare pari al 2,6% del piuttosto che ai cinesi ma non Pil e al 15% delle spese del go- riescono a ottenere la loro autoverno. Cifre che ricordano come nomia. Pechino non può permetla pace abbia un prezzo, spesso tersi di riconoscere l’indipendennon pagato solo in termini di de- za, altrimenti ogni minoranza naro ma soprattutto in termini che vive sull’immenso territorio umani. È il caso di Rebiya Kade- cinese si sentirebbe autorizzata a er e Aung San Suu Kyi, due don- rivendicare la propria libertà, con ne che in modo diverso combat- conseguenze negative per la stabilità interna del tono per la liberapaese. Nel 2009 zione dei propri In Cina nessuno l’attenzione del paesi: la regione mondo si focalizzò dello Xinjiang e la si ricorda della guerra su questa regione Birmania. Hanno che il popolo uiguro a causa di una mapagato di persona, nifestazione degel’una con l’esilio e combatte per la sua nerata in scontri l’altra con la pri- indipendenza repressi nel sangionia, per cercare di dare voce all’oppressione subi- gue, il bilancio fu di ottocento morti e tremila feriti e il primo ta dal loro popolo. Rebiya Kadeer, una donna minu- Ministro turco, Tayyip Erdogan, ta con due lunghe trecce ma con lo definì un genocidio. un piglio determinato, è in esilio Gli episodi di protesta sono alnegli Stati Uniti ma continua a l’ordine del giorno e il governo battersi per vedere il riconosci- usa la repressione e le persecuziomento delle libertà fondamentali ni per fermare le ribellioni, così al popolo uiguro. Turcofoni e di nello Xinjiang il programma di origine islamica, sono venti mi- rieducazione continua e l’elenco lioni nel mondo ma otto milioni delle restrizioni è lungo al punto costituiscono una delle minoran- che gli uiguri sono spesso costretze etniche presenti in Cina. Le ti a pagare delle multe. Le attivitensioni sono dovute, anche in tà ritenute illegali sono sopratquesto caso, a un problema sui li- tutto legate alla libertà di culto miti territoriali poiché questa po- per cui si sono verificati episodi polazione vive in una zona di come studenti musulmani espulsi confine tra la Repubblica popola- dalle università pubbliche perché re cinese e l’Asia centrale. Nel sorpresi a pregare in una moschea 1949 l’esercito cinese occupò il o persone costrette a pagare per-

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ché avevano recitato il Corano dal colore delle loro tuniche, e nelle proprie abitazioni. Parteci- sfocerà in una violenta repressiopare ad attività religiose illegali ne con la chiusura di 16 monastecosta 1.500 yuan, un prezzo altis- ri, 1.000 monaci spariti, imprisimo se si considera che per la gionati o presi a bastonate. Il momaggior parte il salario medio è naco Shin Gambira, uno dei prodi 1.000 yuan all’anno. Non è ra- tagonisti di quegli eventi, è stato ro poi che gli uomini siano mul- imprigionato, rilasciato qualche tati perché portano la barba e le mese fa per una amnistia riguardonne indossano il velo. Il con- dante i prigionieri politici e fertrollo è costante e il governo ci- mato di nuovo per aver riaperto nese cerca di arginare ogni for- dei monasteri. In occasione della ma di ribellione con l’esercito sua breve liberazione ha espresso che viene continuamente man- scetticismo sull’attuazione di ridato in ricognizione nei villaggi forme in Birmania e la democradella regione dello Xinjiang e tizzazione del regime. Il primo passo in questa dinon si fa scrupolo rezione dovrebbe di uccidere i ri- Ridurre al silenzio è essere con le elevoltosi. Le accuse zioni di aprile, più gravi rivolte a la prima regola dei questo gruppo et- regimi che non vogliono quando Aung San Suu Kyi potrebbe nico musulmano ottenere un seggio è di essere “terro- voci discordanti in Parlamento, ma risti, separatisti nel proprio paese anche la leader ed estremisti”, un modo secondo Rebiya Kadeer birmana pensa che una democraper seguire la scia del fonda- zia sarà possibile solo in modo mentalismo islamico e legitti- graduale e, se necessario, mantemare gli imprigionamenti, le nendo le sanzioni o chiedendo alla comunità internazionale di torture e le esecuzioni. Ridurre al silenzio. È questo il evitare relazioni commerciali primo obiettivo dei regimi che con il regime. non vogliono voci discordanti e La Birmania è il primo produttocolpiscono i singoli per mettere a re di metanfetamine al mondo e tacere i dissidenti o gli attivisti il secondo per traffico di oppio, che si battono per affermare, pur- segnalato per l’altissimo numero troppo ancora oggi, i diritti in- di popolazione senza cibo ma con violabili dell’uomo. Birmania, una fortissima dipendenza dalle estate 2007: un lungo corteo di droghe, oltre alla totale mancanmonaci sfila lungo le strade e pas- za di controllo sul traffico di essesa davanti alla casa-prigione di ri umani. Gli uomini vengono Aung San Suu Kyi, in segno di utilizzati per i lavori forzati, le protesta pacifica contro la ditta- donne avviate alla prostituzione e tura della giunta militare. “Rivo- i bambini reclutati nell’esercito. luzione zafferano” sarà definita, Questa è una parte della lunga se-


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rie di orrori subiti dalla popolazione birmana in oltre mezzo secolo di regime dittatoriale, così Aung San Suu Kyi, nonostante gli arresti domiciliari nella sua casa di Rangoon, è diventata simbolo del movimento non-violento e l’unica voce che ha cercato di ridare dignità a un paese dimenticato. Stabilità, sviluppo, Stato di diritto sono le parole chiave che la leader birmana ripete ma è convinta che un cambiamento profondo possa avvenire solo da un moto di ribellione della popolazione, rimasta per troppo tempo prigioniera nel proprio paese. La mente inevitabilmente va alla Primavera araba, al gesto estremo di Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco come segno di protesta contro il sequestro della sua merce da parte della polizia. È un’altra parte del mondo ma il comune denominatore si ripete: la violazione dei diritti umani, la mancanza di libertà, la povertà estrema della popolazione e la ricchezza inaudita dei leader dei regimi, le condizioni di vita inaccettabili e la dilagante corruzione. Queste distorsioni portano un paese al collasso, i dittatori all’uso della forza per fermare le repressioni e la popolazione all’esasperazione. Lotte, massacri, genocidi sono le molteplici forme della violenza, l’ultimo atto di un fenomeno e di un malcontento nato e cresciuto molto tempo prima rispetto al momento in cui si manifesta, ma di solito nessuno presta molta attenzione. Le guerre non esplodono mai all’improvviso ma le prime avvisaglie si possono scorgere

nelle voci discordanti di uomini e donne che hanno il coraggio di esprimere il malessere di molti, solo che per comodità è meglio dimenticare o non ascoltare. Aung San Suu Kyi, Liu Xiaobo, Rebiya Kadeer sono noti ma è lunghissimo l’elenco delle persone che ora si trovano nei campi di lavoro forzati, che ora vengono torturati, che ora sono sottoposti alla pena di morte, che ora hanno un fucile in mano per salvaguardare la sicurezza delle popolazioni. Nomi che nessuno conosce, guerre combattute in nome della pace e della libertà. Un concetto che è già una contraddizione. 161

L’Autore maria elena viggiano Esperta di Cina, collabora con diverse testate giornalistiche su temi riguardanti i paesi dell’Estremo Oriente e dell'Asia centrale. è laureata in Lingue e civiltà orientali, in giapponese e cinese.


Si combatte ancora per la religione

CRISTIANI, COME AGNELLI TRA I LUPI?

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Le Fedi sono in ripiegamento sotto i colpi di un Occidente perdente a livello strategico, ma a livello tattico ancora forte. Questa crisi vale per i cristiani, ma anche per l’Islam, le classi dirigenti islamiche si sono occidentalizzate accettando il primato di economia e tecnologia. E legandosi all’estremismo politico, una malattia senile molto pericolosa. intervista a FRANCO CARDINI di LUCIANO CAPONE

Sembrava che nel mondo globalizzato gli scontri dovessero avvenire sul terreno economico, per conservare la propria egemonia o per ribaltare l’ordine mondiale, per accaparrarsi risorse energetiche e materie prime o per colonizzare nuovi mercati. Eppure si combatte ancora per la religione, nel mondo c’è una guerra dimenticata e silenziosa che vede i cristiani quotidianamente discriminati e perseguitati per la loro fede religiosa. Il professor Franco Cardini è un celebre medievista, esperto di Islam, che si è occupato del tema nel libro Cristiani, perseguitati e persecutori.

Se in passato i cristiani sono stati anche persecutori, la situazione attuale li vede senza ombra di dubbio nel ruolo di vittime. È la situazione che vivono in larga parte dell’Asia e dell’Africa, sotto regimi comunisti e in paesi induisti, ma senza dubbio il problema principale riguarda il Dār al-Islām. Tra i primi dieci paesi al mondo che perseguitano i cristiani, ci sono 8 nazioni islamiche e più generalmente ce ne sono 32 tra le prime 50. Perché c’è questa profonda ostilità dell’Islam nei confronti dei cristiani?

In parte dipende da una serie di malintesi che non sarebbe particolarmente difficile eliminare, ma c’è un interesse a mantenere il rapporto tra cristiani e Islam sot-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Cardini

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to una luce particolarmente sfavorevole. In generale nei paesi in cui viene praticata la shari’a, le “religioni del libro” (cristiani ed ebrei) possono esercitare il proprio culto. Naturalmente ciò è possibile una volta espletata la formalità della sottomissione: pagamento di una tassa, rinunzia al culto pubblico e al proselitismo. Storicamente, sulla base di queste regole, gli appartenenti alle altre religioni sono stati trattati meglio che nel mondo cristiano, basti pensare alla Spagna del Quattrocento/Cinquecento in cui ebrei e musulmani venivano convertiti con la forza, espulsi o uccisi. Nella modernità si è sviluppata una giustificata reazione all’Occidente che taglieggia, sfrutta e colonializza il mondo musulmano. In questo clima di risentimento, la propaganda dei gruppi fondamentalisti guida la rabbia delle popolazioni contro i cristiani, dipingendoli come complici o alleati dell’Occidente. Il malinteso è che i cristiani non c’entrano nulla con l’Occidente. Al fondamentalismo islamista fa da contraltare la propaganda dei gruppi fondamentalisti occidentali, secondo cui l’Occidente sarebbe cristiano. L’Occidente ha cessato di essere una cristianità da due secoli a questa parte e i nostri tradizionalisti lo sanno bene da tempo. Questo i musulmani lo hanno sempre frainteso oppure, anche quando lo sanno, fanno finta che l’Occidente sia ancora cristiano per alimentare la propria guerra.

Quindi le comunità cristiane radicate in quei territori da millenni si trovano, loro malgrado, coinvolti nella guerra tra fondamentalisti e Occidente?

Ci sono Cristiani che non fanno proselitismo ma attività sociali, caritatevoli, di assistenza. Negli strati più poveri della società un cristiano che fa la carità diventa un occidentale buono e gli estremisti che hanno interesse a identificare i cristiani con l’Occidente vogliono eliminare questo riflesso positivo. È un gioco al massacro, è un gioco cinico, ma lo si può comprendere. Ci sono però anche cristiani che vengono presi di mira perché accettano coscientemente di fare il gioco delle potenze occupanti ed egemoniche: mi riferisco ai molti gruppi protestanti che fanno proselitismo pur sapendo che l’Islam lo vieta. Noi comunemente condanniamo chi non rispetta le leggi, a esempio ci sono paesi occidentali in cui alle donne è proibito portare l’hijab. Se noi condanniamo una donna islamica che porta il foulard perché viola una legge francese, dobbiamo avere la coerenza di condannare i gruppi cristiani che fanno proselitismo. Tra l’altro non è affatto vero che per i cristiani sia obbligatorio fare proselitismo, è obbligatoria la testimonianza. Tutti dovrebbero rileggere la testimonianza di S.Francesco d’Assisi davanti al Sultano e la regola francescana, in cui si parla solo di affermare l’identità cristiana. Né l’islam, né l’ebraismo fanno proselitismo, è solo una prerogativa dei gruppi modernisti.


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Cardini

Però il rapporto tra Islam e Cristianesimo e tra Islam e violenza politica rimane un rapporto irrisolto…

L’idea che l’Islam sia di per sé una religione violenta mentre i cristiani fanno violenze solo in deroga alla loro religione di pace, è un’idea sbagliata nelle sue premesse teoriche, storiche e sul piano della concretezza fenomenologica. La prova è che nel mondo islamico le chiese cristiane, anche se qualche volta perseguitate o in posizione di inferiorità, sono ancora lì da tredici secoli, mentre nel mondo cristiano le culture diverse sono completamente sparite. L’islam è una religione di legge e, tenendo da parte la realtà attuale, ha lasciato alle religioni monoteiste la possibilità di sopravvivere come entità culturali. Nel mondo cristiano questa possibilità è sempre stata negata, basti pensare a celti, pagani, indios, aborigeni. Su questo non si riflette quasi mai. Esiste comunque il tema del rapporto con la violenza: chi dice che i musulmani uccidono in nome di Dio, dice la verità. Per quanto riguarda la religione invece noi siamo tollerantissimi, il nostro interesse principale è rivolto altrove. Tra qualche mese scoppierà una grande crisi petrolifera legata allo stretto di Hormuz e sarà l’ennesima conferma che quando all’Occidente toccano i suoi idoli – petrolio e finanza – reagisce con violenza. È inutile fare i furbi e dire di essere tolleranti, gli occidentali sono tolleranti con le cose che non interessano più: Dio non interessa più e su Dio sono tolleranti.

La persecuzione dei cristiani non può essere limitata a uno scontro economico sulle risorse energetiche. Nei paesi storici alleati dell’Occidente come Arabia Saudita, Emirati Arabi, ecc. le persecuzioni non sono più leggere, anzi…

Questo dimostra il cinismo prima di “sua maestà britannica” e poi degli americani che si sono presi come principale alleato uno stato assolutamente intransigente e reazionario. Non l’hanno trovato precostituito. L’Arabia Saudita è stata creata negli anni Venti dai britannici e i suoi alleati francesi smembrando il califfato ottomano per garantirsi l’estrazione petrolifera. Hanno messo da parte il liberale Hussein e hanno chiamato a reggere l’Arabia il capo dei wahabiti, una setta ottusa e misoneista che dà un’interpretazione bestiale del Corano. Siamo in contraddizione quando diciamo che l’Islam non si apre alla modernità: la prima forza oscurantista l’abbiamo piazzata noi perché il petrolio ci interessa più della libertà. La realtà è che noi occidentali deploriamo le violenze e facciamo la nostra sceneggiata solo contro i nemici, quando le persecuzioni avvengono in paesi alleati non facciamo mai nulla. Si figuri se gli occidentali hanno intenzione di mettersi contro il governo pakistano che servirà nell’autunno prossimo per un’eventuale invasione da Oriente dell’Iran. All’Occidente la libertà religiosa interessa solo per motivi demagogici questo ormai lo sanno benissimo anche i cristiani orientali. Persino il generale Aoun, storico alleato dell’Occi-

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Il Libro Come nacque la cristianità Franco Cardini Cristiani perseguitati e persecutori Aculei 2011, 188 pp., 12,50 euro

I rapporti tra potere e società all’avvento dell’era cristiana, i divieti e le 166

repressioni. Le persecuzioni e la libertà di culto. La cristianizzazione concepita come sistema fondato sui valori dell’amore e della libertà; il paganesimo inteso come libera convivenza tra i differenti culti: i ruoli del perseguitato e del persecutore chiaramente distinti. In un momento di gravi sconvolgimenti proprio nei luoghi dove cristiani e islamici vivono quotidianamente una tormentata convivenza, Franco Cardini indaga il momento fondativo della cristianità, per restituirci il quadro storico dei secoli che furono cruciali nell’affermazione della nuova religione di Stato.

dente e capo dei cristiani in Libano, se ne è accorto e ha fatto una denuncia di fuoco contro tutta la politica occidentale. La tolleranza religiosa non è tutelata dalle alleanze geopolitiche, ma nemmeno dalla forma di governo democratica. Stati democratici come l’Indonesia, la Malesia e la stessa Turchia che molti vorrebbero nell’Ue non sono affatto tolleranti. Stesso discorso vale per i paesi in cui si è tentata l’ “esportazione della democrazia” come Afghanistan e Iraq, o quelli in cui la spinta democratica è partita dal basso con la Primavera araba come Egitto e Libia. Si può dire che la democratizzazione ha spesso peggiorato le condizioni dei cristiani?

La Primavera araba, come le guerre americane, è stato un fallimento. Ci si è limitati a dire che gli sciiti non sono democratici, mentre Algeria, Oman, Qatar e i paesi sunniti vicini all’Arabia Saudita sono per definizione democratici. Lo stesso Gheddafi diceva che tra i suoi antagonisti c’erano i fondamentalisti e aveva perfettamente ragione, lo sapevamo tutti; vedremo che anche nella “Siria liberata” le condizioni dei cristiani peggioreranno. D’altra parte bisogna stare al gioco e la regola della democrazia è che vincono le maggioranze: se vincono gli estremisti, ci rimangiamo i nostri principi democratici? Il fatto è che in quei paesi non esistono democrazie per come le intendiamo, c’è solo Israele che però è una democrazia limitata. Prima di essere uno Stato democratico, Israele giustamente vuole essere uno Stato ebraico e quindi è


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Cardini

uno Stato democratico solo per chi è ebreo. Ogni tanto sembra che qualcuno voglia ammiccare alle responsabilità israeliane, anche se non osa dirlo perché ha paura di beccarsi dell’antisemita. In realtà queste responsabilità sono molto limitate, o quantomeno giustificate da interessi reali come la sicurezza. Gli israeliani possono sbagliare o essere in malafede quando impostano in un certo modo la questione della sicurezza, ma per loro il problema è centrale e non si interessano del resto della politica occidentale. Rispetto all’atteggiamento ottuso ma politicamente redditizio di Netanyahu, mi ha sorpreso favorevolmente l’atteggiamento dei leader del Mossad che sono molto cauti sulla questione iraniana e non hanno intenzione di far precipitare la situazione. Le responsabilità principali sono dei governi occidentali, che fino a qualche tempo fa erano solo gli Stati Uniti. Ora, di fronte alla conduzione incerta, debole e contraddittoria di Obama, sono passati in prima linea i francesi e gli inglesi, tra l’altro a scapito di quel vecchio fantasma che è l’Ue, ma su cui non ci facevamo illusioni da tempo. Se la Chiesa non può fare affidamento sugli stati occidentali e men che meno sulle istituzioni internazionali, deve muoversi autonomamente. Ma come può cercare interlocutori in un Islam che è fortemente frammentato e politicizzato?

La Chiesa sa benissimo di essere estremamente debole. Bisogna

ricordare la lezione di Giovanni Paolo II, non è detto che siamo costretti a tornare nelle catacombe, però bisogna mettersi in testa che non siamo più egemoni nel mondo. Tutto quello che possiamo fare è rimanere fedeli al Vangelo e cercare di essere il “sale della terra”. Penso che Benedetto XVI non possa fare più di quello che fa, la Chiesa conta molto poco ed è ascoltata solo con un rispetto che è principalmente formale. In ogni paese l’Islam ha tanti interlocutori quante sono le comunità. Nei paesi musulmani in cui sono state adottate istituzioni occidentali, le classi dirigenti hanno eretto una sorta di “Chiesa di Stato”, l’esempio più classico è l’università di Al Azhar in Egitto. In questi casi la Chiesa può intervenire, cercare il dialogo e mi risulta che lo faccia con buoni risultati. Restano comunque delle differenze tra i cattolici e il mondo islamico: la Chiesa ha sempre preso delle posizioni pubbliche di condanna alle guerre degli Stati Uniti, mentre dal mondo islamico si sono sentite poche e flebili voci contro le persecuzioni di cristiani…

Dal momento che le potenze occidentali sono alleate di Qatar, Bahrein, Oman e Arabia Saudita e non hanno mai fatto nulla per un maggiore rispetto delle fedi, non vedo come si possa chiedere di prendere posizione a poteri o istituzioni musulmane. Lei ce le vede le Nazioni Unite che chiedono al re saudita una maggiore libertà religiosa? Lei mi risponderà che è una richiesta assurda,

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e appunto non l’hanno fatto. Come può pretendere che i musulmani si muovano in direzione di interessi e principi che sono nostri, dal momento che noi non usiamo nessuno degli strumenti a disposizione per affermarli? Se l’Islam è una religione pacifica che predica il rispetto per le “religioni del libro”, non dovrebbe condannare le persecuzioni sulla base dei suoi stessi principi?

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Infatti hanno fior di collegi teologici che in ogni paese assicurano che il loro modo di adempiere ai comandamenti dell’Islam è quello più corretto, a partire dall’Arabia Saudita. Esistono forze dell’Islam che noi definiremmo più aperte al mondo occidentale, al suo modo di vivere, ai suoi valori ed esistono forze che sono più chiuse. Disgraziatamente le forze più aperte possono fare poco perché l’Occidente non le aiuta, salvo quando ha un tornaconto. Non è possibile chiedere ai musulmani delle cose nei confronti di alcuni loro correligionari, in un mondo dove non c’è unità teologica ed è strano che vogliamo chiedere a loro cose che noi per primi non facciamo. Nel XXI secolo sembra non valere più la massima di Tertulliano secondo cui «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani». Mentre Occidente e Islam continuano a trascinarsi questi storici malintesi, le comunità cristiane si assottigliano sempre di più. I cristiani in terra di Islam sono destinati a scomparire?

Non credo in quella che Bauman definisce “modernità liqui-

da” ci sarà molto più spazio per il religioso. Nella modernità solida si riteneva che il religioso sarebbe scomparso sotto la spinta congiunta del progresso, del benessere, della scienza e dello spirito democratico laico. Ci siamo accorti che non è così: la modernità ha perso la sua battaglia e infatti sono scomparse le ideologie. Nella modernità fluida sta succedendo quello che nel ’24 aveva profetizzato Berdjaev nel Nuovo Medioevo: le utopie e la modernità tecnologico-economica si sarebbero schiantate, lasciando spazio alla rinascita delle fedi religiose. Dovremo però affrontare una serie di passaggi che non saranno indolore. In apparenza le religioni sono in ripiegamento sotto i colpi di un Occidente che sarà perdente al livello strategico, ma che a livello tattico è ancora forte. Questa crisi vale per i cristiani, ma anche per l’Islam. Tutte le classi dirigenti islamiche sanno di essere diventate occidentali, hanno accettato l’individualismo, il primato dell’economia, la tecnologia, la teoria del progresso illimitato. Vedremo come reagiranno al fatto che sono saltati su un cavallo che era economicamente, militarmente e tecnologicamente vincente, ma che sta implodendo. Per ora l’Islam si è legato all’estremismo politico ed è la dimostrazione che, al contrario di quanto sosteneva Lenin, l’estremismo è una malattia senile e molto pericolosa. Si scenda da questa nave dei folli che è l’individualismo assolu-


LE GUERRE DIMENTICATE intervista a Franco Cardini

to, il primato della finanza, la fede cieca nel progresso. Sono forze che singolarmente possono essere utilissime allo sviluppo dell’umanità, ma che prese insieme diventano una teologia distruttiva.

L’Intervistato

franco cardini

Professore ordinario di storia medievale presso l’Università di Firenze. Come giornalista collabora alle pagine culturali di vari quotidiani, è autore di numerosi saggi, riguardanti soprattutto il Medioevo. Tra questi ricordiamo Guerre di primavera. Studi sulla cavalleria e la tradizione cavalieresca (1992), Studi sulla storia e sull’idea di crociata (1993), L’avventura di un povero crociato (1997), Quella antica festa crudele (2000), Europa e Islam. Storia di un malinteso (2002), Il naso del templare (Questioni di storia) (2012), Il turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683 (I Robinson. Letture) (2011).

L’Autore luciano capone Laureato in Scienze politiche presso l’Università Cattolica di Milano con una tesi su Theodore Roosevelt, giornalista, collabora con Rivoluzione Liberale e Fareitaliamag.

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LE GUERRE DIMENTICATE Ferdinando Sanfelice di Monteforte

Un passo in più per la sicurezza globale

UNA ALLEANZA UNITA PER IL FUTURO GLOBALE Dallo sgretolamento nel 1991 del blocco sovietico con conseguente fine della Guerra Fredda, l’Alleanza atlantica ha dovuto gradualmente rivedere il suo ruolo nel panorama globale. Le priorità sono cambiate e servirebbe una struttura più snella per favorire gli interventi. di FERDINANDO SANFELICE DI MONTEFORTE

Durante i lunghi anni della Guerra Fredda, la Nato aveva garantito l’Europa dalle pressioni e dalle minacce sovietiche, ma si era anche gradualmente snaturata, perdendo una parte dei suoi ruoli originari, tra i quali quello del coordinamento per “eliminare i conflitti fra le loro politiche economiche internazionali e per incoraggiare la collaborazione economica tra loro”1. In tal modo, la dimensione politico-militare era divenuta predominante, almeno agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali, ma la sua struttura viveva in un mondo irreale, preparando la difesa contro possibili attacchi da parte di un nemico che, nel frattempo, si stava in-

debolendo da solo. La descrizione di Buzzati di cosa avveniva nel forte Bastiani, di fronte al deserto dei Tartari, si attaglia perfettamente alla situazione dell’Alleanza in quel periodo. Lo sgretolamento del blocco orientale, a partire dal 1991, fu quindi una brusca sveglia da un lungo torpore: la Nato dovette rivedere gradualmente il proprio ruolo, nel tentativo di restare uno strumento rilevante per i paesi alleati, ma soprattutto per mantenerli uniti in una situazione molto rischiosa, dati i continui cambiamenti che si verificavano in Europa: quello che noi ora chiamiamo la fine della Guerra Fredda fu in effetti una serie di eventi clamoro-

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si che durò vari mesi, senza che si rezionali”. Finiva quindi l’ossespotesse ipotizzare cosa sarebbe ac- sione del Fronte Orientale, dato che la decadenza dell’Urss non la caduto dopo ognuno di essi. La prima sorpresa per gli Occi- rendeva più temibile come midentali fu lo scioglimento del naccia, almeno a medio termine. Patto di Varsavia, per effetto del- In questo quadro, il pericolo le sommosse che si erano verifica- maggiore era appunto un allonte in quasi tutti i cosiddetti “Pae- tanamento tra i paesi delle due si Satelliti”, con l’eccezione, al- sponde dell’Atlantico. Quindi il l’inizio, dell’Ungheria. L’Unione concetto riaffermava l’importanSovietica, prostrata dai suoi vani za del legame transatlantico disforzi di controllare l’Afganistan, chiarando, con una preveggenza non era in grado di reprimerli, e notevole, che “la sicurezza delrinunciò a tenerli sotto la sua in- l’America Settentrionale è perfluenza, ma non era ancora morta. manentemente legata a quella La Nato quindi manteneva la sua dell’Europa”. In questo suo tentativo, però, il ragion d’essere Concetto non ebbe iniziale, che era L’Alleanza dovrà un successo comstata definita da pleto, non riuscenLord Ismay come: avere una struttura “tenere gli Stati più agile, meno costosa do a incanalare nella Nato la crescenUniti dentro, la te spinta, da parte Russia fuori e la e rimanere nel campo degli alleati euroGermania sotto”. di ciò che è fattibile pei, verso una loro Con notevole lungimiranza, la Nato non si limitò maggiore libertà di azione in maa prendere atto di questi cambia- teria di sicurezza: la cosiddetta menti, ma nel suo ‘concetto stra- Identità europea di sicurezza e ditegico’, prontamente preparato fesa rimase infatti lettera morta. nel 1991, notava che, accanto al- Va ricordato che questa spinta la difesa collettiva, sarebbe stato autonomistica non aveva nulla di necessario salvaguardare la sicu- illogico: nelle crisi, spesso gli inrezza dei suoi membri, affrontan- teressi dei singoli paesi divergono do rischi, sfide, attacchi terrori- e si crea quindi una competizione stici, anche con l’uso di armi di interna, fatta anche di colpi bassi, distruzione di massa; era però an- come la crisi della ex Jugoslavia che necessario stabilizzare le aree avrebbe dimostrato di lì a pochi più importanti, specie nell’Euro- mesi. La costruzione dell’Europa pa centrale e orientale. Si osser- della Sicurezza e della Difesa era vava, infatti, nel documento, che quindi inevitabile, anche se la sua “permangono molte incertezze crescita tumultuosa avrebbe sicusul futuro e molti rischi relativi ramente creato – e crea a ogni alla sicurezza dell’Alleanza”, ri- passo – difficoltà crescenti tra le schi che, peraltro, erano conside- due organizzazioni. rati essere “molteplici e multi di- In questa situazione, era soprat-


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tutto importante saper agire in senso”, che la obbligava a svolgeconcreto, al di là degli schemi di re solo le operazioni approvate da difesa territoriale ormai superati tutti i governi – tanto che l’Euroe ossificati. Nel concetto, infatti, pa della sicurezza e difesa ha non si parlava più di “fuori area”, adottato lo stesso vincolo – ma un’espressione che odorava di soprattutto la sua “struttura miliscappatella rispetto ai compiti tare”, una serie di comandi operafondamentali, ma si ponevano le tivi che si dimostrarono, a diffebasi per la gestione di quelle si- renza dell’Onu, particolarmente tuazioni di crisi che puntualmen- abili nel dirigere le operazioni te si sono verificate, e che la Nato non solo su terra, ma anche per mare e nell’aria. ha risolto piuttosto bene. Negli anni successivi, né l’au- Forte dei suoi successi, la Nato mento dell’instabilità, né tanto- aveva acquisito in quegli anni meno la corsa in massa dei paesi una rilevanza sempre maggiore, del disciolto Patto di Varsavia malgrado nessuno si desse la pena di rivedere la sua verso la Nato, per “ragion d’essere”, proteggersi dalle La Russia ha sempre finché l’imprupossibili pressioni di Mosca, né infine più bisogno della Nato dente condotta delle operazioni in l’implosione del- per recuperare il gap Afganistan non l’Unione Sovietica, l’ha messa imche privava l’Alle- tecnologico rispetto provvisamente alanza della sua ra- ai paesi occidentali le corde. Nel fratgion d’essere originale, furono ritenute sufficienti tempo, però, la Nato aveva otteper rivedere il ruolo della Nato. nuto un altro importante succesNon a caso, quando nel 1999 fu so, riuscendo ad allacciare rapporfinalmente deciso di porre mano ti di partenariato con molti paesi, a un nuovo concetto, ne venne in Europa, in Nord Africa, in fuori un documento che – a dire Asia Centrale, nel Golfo Persico, dei più attenti – guardava indie- ma soprattutto con il vecchio netro, limitandosi ad aggiornare il mico, la Russia. quadro generale e a ribadire Non tutto è andato liscio negli quanto di buono vi era nel Con- anni successivi, su questo versancetto precedente, ma senza ag- te, dato che da un lato i cosiddetgiungervi niente di sostanzial- ti partner si sono lungamente illusi che il loro rapporto privilegiato mente nuovo. La Nato, nel frattempo, si era co- con l’Alleanza li avrebbe protetti munque dimostrata l’unica orga- in ogni circostanza – e l’esperiennizzazione in grado di gestire le za della Georgia li ha infine cooperazioni di stabilizzazione in stretti a capire che questo non era modo efficace e coerente, grazie sempre vero – mentre dall’altro il soprattutto a due suoi fattori di rapporto con la Russia vive di alti forza: anzitutto la “legge del con- e bassi, anche se oggi Mosca ha

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FOCUS

Serve un pilastro europeo della Nato

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A seguito del mancato coinvolgimento dell’Alleanza atlantica, dopo l'attacco alle Torri Gemelle, la Nato è rimasta un pò isolata e non appare in grado di svolgere un ruolo da protagonista nella lotta al terrorismo. Peraltro la strategia americana è stata improntata maggiormente, dopo l’Il settembre, alla collaborazione con singoli Stati (Canada e Gran Bretagna) e non orientata a richiedere sostegno alla Nato. È da ritenersi che l’Alleanza, nata nell'immediato dopoguerra, e quindi modellata su uno scenario di scontro da Guerra Fredda, per ragioni, quindi, storico-politiche non sia in grado di svolgere un ruolo attivo nella lotta al terrorismo. Essa deve evolversi e diventare, con l’adeguamento della normativa, uno strumento di azione collettiva per combattere gli Stati canaglia e le “organizzazioni del terrore”, attraverso: l’aumento del budget, che nell'attuale momento è improponibile; la costituzione di una forza speciale di risposta rapida in grado di intervenire in combattimenti limitati nel tempo ed ad alta intensità. Purtuttavia in ambito europeo la Nato ha molto da dire. Infatti, la autorità politico-militari, per adeguarsi all’attuale contesto storico, oltre l’allargamento a est e al coinvolgimento in qualche modo della Russia, strategie in buona parte realizzate, sono propense all’impiego della componente europea in operazioni che interessino la sicurezza e la difesa dell’Unione europea. Quindi la Nato come “pilastro” della politica di difesa

europea. Occorre avvertire che la componente europea è separabile ma non separata dalla struttura complessiva. In tal modo si tratterebbe di conseguire la formazione di quella Ced (Comunità di difesa europea) che non fu possibile realizzare negli anni 50 per l’assoluta contrarietà della Francia: l’auspicio è che il pilastro europeo della Nato si concentri su due filoni tematici: operazioni militari, in senso stretto, attraverso la “forza di risposta rapida”; operazioni umanitarie e di soccorso, a guida Ue, nell’ambito di missioni di Petersburg, cittadina tedesca dove nel 1992 l’Europa decise di concentrarsi su questi settori della sicurezza. Inoltre, i processi decisionali della Nato e della Ue, pur distinti, non devono causare duplicazioni e, invece, confluire in un unico processo di pianificazione e tendere alla razionalizzazione delle risorse umane e delle limitate disponibilità finanziarie. Saprà la componente europea essere un “valore aggiunto” dell’Alleanza o essere esclusivamente “complementare” a essa? Comunque il processo avviato è irreversibile. L’Alleanza atlantica per gli Usa costituisce un valore della propria politica estera e per l’Ue. deve rappresentare un elemento essenziale della propria sicurezza, senza dimenticare la visione strategica d’insieme di “difesa comune” per storia e per tradizione del legame transatlantico.

*Ammiraglio Francesco La Motta


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sempre più bisogno della Nato per recuperare il gap tecnologico rispetto all’Occidente, oltre a non poter fare molto di più che intervenire lungo i suoi confini, data la sua debolezza militare. Infine, i partner impegnati in operazioni a fianco dell’Alleanza si sono più volte lamentati per l’incompletezza delle informazioni operative che le loro forze ricevevano. In questa nuova situazione l’attuale Segretario Generale, Rasmussen, ha quindi dovuto accelerare il tormentato processo di ridefinizione degli obiettivi, sapendo benissimo che – a parte la necessità di enfatizzare l’importanza del “ponte transatlantico” – gli Stati non erano d’accordo tra loro: infatti, le nazioni confinanti con la Russia volevano ribadire l’importanza della difesa collettiva, dimostratasi preziosa per limitare le pressioni di Mosca su di loro, come il caso dell’Estonia aveva dimostrato. I nord-europei, invece, consideravano l’Alleanza come lo strumento militare per salvaguardare i loro interessi, in giro per il mondo, mentre i paesi mediterranei la vedevano ancora alla maniera di Daveluy, grande studioso di strategia francese, alias come un modo per “fare la guerra a buon mercato”. Il nuovo concetto, frutto delle attenzioni dirette di Rasmussen, è interessante, anzitutto perché rivela la preoccupazione di consolidare la solidarietà fra i paesi Nato, anche a costo di un parziale ridimensionamento del suo ruolo, accontentandosi di compiti magari meno ambiziosi ma indub-

biamente tali da poter essere svolti solo su base collettiva. La principale “ragion d’essere” della Nato è infatti proprio quella di salvaguardare il ponte transatlantico, dato che l’Europa ha bisogno degli Stati Uniti più di quanto non si creda, mentre l’opposto non è altrettanto vero. La Nato aveva quindi bisogno di un ruolo indubbio, per sopravvivere. In questo campo, si erano già create, nella Nato, due “nicchie di eccellenza”, grazie al buon lavoro compiuto negli ultimi anni: la prima era l’area dei sistemi di sorveglianza e coordinamento della difesa contro i missili balistici, un’attività che solo la Nato avrebbe potuto gestire in modo coerente, come del resto aveva fatto – e fa ancora – per la difesa e la sorveglianza aerea del continente. La seconda, più specializzata, era la “difesa cibernetica”, un settore dove il moltiplicarsi dei tentativi di penetrazione dall’esterno aveva consentito alla Nato di trovare soluzioni sempre nuove per sventare questo genere di attacchi, inclusi i più sofisticati. Il successo ottenuto nel limitare i danni sofferti in questo settore dall’Estonia prima e dalla Georgia poi, hanno convinto tutti che l’Alleanza ha molto da insegnare ai propri membri. In conclusione, la Nato è soprattutto importante per tenere unito l’Occidente, di fronte a una crescente ostilità da parte del resto del mondo, che si manifesta per lo più con attacchi isolati, condotti per procura, usando i mezzi più vari, dal terrorismo alla pira-


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teria, per finire con la guerra cibernetica. Ma i tentativi di metterci in difficoltà non si limitano a questo: la minaccia costituita dai missili balistici, un mezzo per condizionarci nelle nostre scelte, non è un problema immaginario, e solo una credibile capacità di sventarla ci può consentire quella libertà di scelta che i nostri paesi hanno cercato di difendere fin dal 1949. La “dissuasione tecnologica” è infatti il modo più saggio per scoraggiare eventuali avventurieri, senza umiliarli. Rimane quindi alla Nato un altro ruolo essenziale, quello di mantenere la superiorità tecnologica collettiva dell’Occidente, rispetto al resto del mondo, una garanzia fondamentale, di fronte ad alcune vaste e popolose aree del mondo, delle vere e proprie “galassie” che mirano a conquistare la supremazia su di noi, limitando la nostra crescita e il nostro benessere. Le collaborazioni nello sviluppo dei nuovi mezzi, le cui ricadute sulla tecnologia civile sono sempre notevoli, saranno ancora più importanti rispetto al passato, anche se la voglia di autarchia europea in questo campo non è del tutto scomparsa. Indubbiamente, l’Alleanza avrà bisogno di una struttura più agile, meno costosa e soprattutto dovrà fare più attenzione a rimanere nel campo di ciò che è fattibile, nel decidere le operazioni sul campo. Non a caso, nel trattare le operazioni di supporto alla pace, il nuovo concetto dice saggiamente “la Nato si impegnerà, quando possibile e laddove neces-

sario, nel prevenire le crisi, gestirle, stabilizzare situazioni postconflittuali e appoggiare la ricostruzione”. È un po’ come dire che la Nato svolgerà questa attività se proprio non ne potrà fare a meno! Tutto questo ci dimostra come la Nato possieda una notevole vitalità, malgrado siano passati più di 60 anni dalla sua fondazione. Le nostre crescenti difficoltà interne e l’ostilità di una parte del mondo ci impongono di restare uniti, e solo l’Alleanza ci consentirà di affrontare uniti le sfide del futuro. Nota 1 Nato. Washington Treaty, 4 aprile 1949, Art. 2.

L’Autore Ferdinando SanFelice di MonterForte Rappresentante Militare Italiano alla Nato ed all’Ue fino a luglio 2008, insegna Studi strategici all’Università Cattolica di Milano; insegna all’Università di Trieste (Polo di Gorizia) Strategia e conflitti al corso di preparazione per il concorso diplomatico. È membro dell’ Académie de Marine e della giuria del Premio di strategia Amiral Daveluy. Ha pubblicato i libri Strategy and Peace, I Savoia e il Mare e La Strategia. Ha scritto numerosi saggi di storia e di strategia per riviste italiane, americane e francesi, oltre ad altri otto sulla Marina dell’Ordine di Malta per il Centro Studi Melitensi.

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LE GUERRE DIMENTICATE Carlo Jean

DRONI, LA SCOMMESSA È STATA VINTA Gli Uav non saranno solo i guerrieri del futuro, ma diventeranno anche strategici per prevenire attacchi terroristici e per scopi civili come la protezione delle frontiere. Ma ora serve una regolamentazione circa la loro diffusione e impiego prima che il settore si espanda. di CARLO JEAN

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Le operazioni in Afghanistan e in Iraq si sono concluse con un solo vero vincitore: il velivolo non pilotato, sia quello non armato (Uav) che quello dotato di armi a bordo (Ucav). L’aumento della loro importanza era già stata prevista negli anni Novanta. Ma allora aveva incontrato resistenze e critiche anche maliziose. Talune erano giustificate: le tecnologie necessarie non erano ancora mature. Altre corrispondevano invece a visioni strettamente corporative delle varie Forze Armate. Non è per caso, infatti, che i più rapidi progressi negli Uav – denominati anche drone, cioè robot particolarmente sofisticati – siano stati fatti nelle Forze Armate israeliane. Lottando per la sopravvivenza del paese, sono meno portati a difendere privilegi e prestigi. Ricordo ancora le critiche e ironie che avevo ricevuto a metà degli

anni Novanta, quando avevo scritto che le due priorità più elevate, su cui concentrare sforzi e risorse delle nostre Forze Armate, avrebbero dovuto essere i velivoli non pilotati e le forze speciali1. Oggi, le cose sono radicalmente cambiate. Nel mondo, più di 50 Stati dispongono di Uav e nella loro costruzione sono coinvolte oltre 270 imprese2. Vengono messi a punto Uav con prestazioni sempre più diverse e sofisticate. Nel campo della ricognizione, gli Uav Leha (Long endurance high altitude) competono ormai con i satelliti in orbita bassa e con gli aerei ricognitori del tipo dell’RS71, successore dell’U2. Sono stati previsti il rifornimento in volo, per aumentare il già elevato tempo di sorvolo sugli obiettivi; Uav stealth, del tipo di quello recentemente caduto in circostanze alquanto misteriose in


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Iran; Ucav, dotati di missili aria- lo Eads-Germania e Alenia. Abaria; Uav e Ucav a decollo verti- bastanza curiosamente, entrambi cale, cioè ad ala rotante, che pos- i programmi di collaborazione per sono essere schierati anche su na- gli Uav sono denominati con nomi presi a prestito dall’antichità vi di piccole dimensioni. La gamma degli Uav schierati in greca – Telemos, quello francoAfghanistan va da quelli piccoli, britannico; e Telerion, quello itaportatili a spalla e del costo di po- lo-tedesco. Taluni hanno argutache migliaia di dollari, a quelli mente suggerito che non si tratti più pesanti, in grado di orbitare di un caso. La scelta è derivata per una giornata e più sugli dalla cattiva coscienza degli euroobiettivi, rilevando a esempio la pei per come è stata trattata la posa di Ied (Improvised explosive questione del bailout necessario devices), cioè dei mezzi responsa- per evitare – o per ritardare – bili del maggior numero di per- temporaneamente il default greco dite delle forze occidentali impie- (cioè fino al momento in cui sistemi bancari di Frangate in operazioni cia e Germania si contro-insurrezio- Ricerche e sviluppo siano alleggeriti nali. Solo la permanenza di senso- dei droni conosceranno dei titoli greci, per limitare le loro perri che controllino una forte espansione, dite. Poi, inevitain continuazione nodi e assi stradali grazie agli investimenti bilmente, la Grecia può rilevarla. cospicui di alcuni Stati dovrà fare default o, come diplomaticamente si dice, “ristrutturare” il Le ricerche in corso Ricerche, sviluppo e costruzione suo debito sovrano). degli Uav conosceranno ancora Il primo gruppo industriale è una forte espansione. A essi sono chiuso alle collaborazioni di altri destinati consistenti finanziamen- paesi; il secondo invece è aperto ti. Si tratta di un settore che è re- all’entrata di nuovi membri. Il lativamente nuovo, almeno dal demone della frammentazione, punto di vista sistemico. Su di es- delle inevitabili duplicazioni delso sono state attivate talune delle la ricerca e sviluppo e della ridotmaggiori collaborazioni interna- ta serializzazione delle produzioni zionali, a esempio quella di fine continuerà a pesare sulle capacità 2011 fra l’Italia e la Germania e militari dell’Europa. Esse sono già quella, di poco precedente, fra la state fortemente colpite dai draFrancia e il Regno Unito3. Con stici tagli subiti da tutti i bilanci tale doppia collaborazione, sem- europei della difesa, con l’ecceziobra delinearsi in Europa la costi- ne fatta di quello norvegese. tuzione di due gruppi industriali L’importanza del settore degli in competizione fra di loro: uno Uav, soprattutto di quelli armati, basato sul raggruppamento Das- ha indotto la Commissione delle sault-Bae Systems; l’altro su quel- Forze Armate del Congresso Usa a


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vietare il trasferimento ad altri lamentazione del traffico aereo da paesi delle tecnologie più critiche parte della Federal aviation assorelative agli Uav, con la parziale ciation (Faa), le limitazioni poste eccezione del Regno Unito e, in dalla saturazione dello spazio parte, anche dell’Italia. Con ciò si elettromagnetico e anche dalla cerca solo di proteggere propri in- tutela della privacy. Nell’articolo teressi industriali, ma anche di dell’Iht si prevede che, ai circa 15 evitare che le relative tecnologie miliardi di dollari che il Pentagocadano nelle mani del terrorismo no destina annualmente agli Uav, internazionale aumentando consi- se ne aggiungeranno circa sei per derevolmente pericolosità ed effi- il solo mercato civile statunitencacia4. Particolarmente avanzati se. Si tratta insomma di un busisono gli Uav israeliani. Essi hanno ness molto interessante. Beninteprestazioni competitive con quelli so, la ricerca di prestazioni semcostruiti dagli Usa e sono ricerca- pre più sofisticate aumenta il coti da molti paesi, fra cui la Russia, sto unitario degli Uav e richiede consistenti invela Cina e la Francia (l’Heron e la sua Gli Uav possono essere stimenti di ricerca e sviluppo specie versione più avanzata, Heron 2 o Ei- utilizzati per molti altri per gli Hale e per i Male. I potenziali tan, costituiscono scopi civili, come utilizzi degli Uav il modello a cui si ispirano i francesi guardia costiera o per il in campo civile soHarfang e il franco- controllo delle frontiere no molto numerose. È difficile farne britannico Telemos, un Male (Medium Altitude un elenco esaustivo, anche perché Long Endurance), che avrà presta- i campi della loro utilizzazione si zioni paragonabili a quelli del stanno moltiplicando. Quelli Predator 2 o Reaper statunitense. principali riguardano la Guardia Costiera, il controllo delle frontiere terrestri, la protezione civile L’uso degli Uav per scopi civili Ma a parte gli impieghi in campo (gli Uav hanno l’unica capacità di militare, gli Uav non solo nelle poter rilevare i dati in ambienti versioni più semplici, collegate molto contaminati, lo dimostra il all’aeromodellismo, ma anche in grande uso fattone nel disastro di alcune più sofisticate sia dal pun- Fukushima), la difesa civile, speto di vista dell’avionica che degli cie in caso di attacco chimico e apparati e sensori montati a bor- biologico, la sorveglianza del do, sono sempre più diffusi anche traffico stradale e marittimo, la in campo civile. Recenti articoli5 lotta contro gli incendi nel rilene hanno illustrato le enormi po- vamento della contaminazione tenzialità, la versatilità e il nume- atmosferica e come stazioni radioro dei settori in cui sono già uti- relais. Il loro impiego si è esteso lizzati o sono destinati a espan- anche all’agricoltura per il monidersi, i problemi posti alla rego- toraggio dei raccolti, nel control-

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FOCUS

L’evoluzione del “ronzio”

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Gli aeromobili a pilotaggio remoto sono dei veicoli che volano senza l’ausilio di un pilota a bordo. Vengono, talvolta, chiamati impropriamente “droni”, italianizzando la parola inglese drone che significa “ronzio” per via del rumore prodotto. Questi mezzi possono essere completamente automatizzati, possono cioè seguire un profilo di volo pre-programmato, oppure essere telecomandati a distanza da una stazione fissa o mobile. Per molto tempo i droni sono stati considerati solo un sistema di addestramento per piloti o utilizzati come operatori di batterie antiaeree e operatori radar. Ma con l'evolversi delle tecnologie hanno fatto la loro comparsa anche i cosiddetti Apr tattici, aerei senza pilota con strumenti di Elmnit – Electronic Intelligence – forniti di macchine fotografiche o telecamere per il controllo del territorio. L’Italia fin dalla fine degli anni ’60, cercò di sviluppare questo tipo di velivoli. Il primo vero drone impiegato dall’Esercito italiano fu il CL-89, in servizio fino al 2000. L’Aeronautica ha poi sviluppato il Mirach 20 (1985-2002), un velivolo ad ala fissa con telecamera e raggio d’azione di 120 km. Successivamente lo sviluppo dei droni è continuato grazie all’utilizzo dei pre-prototipi dei sistemi Mirach 26 e Mirach 150. Dal 2002 e in particolare dopo il 2004, l’Esercito italiano si approvvigionò con il Rq-1 Predator, al quale l’anno successivo vennero apportate numerose modifiche e migliorie. I droni Predator sono stati impiegati in Afghanistan e in Pakistan a partire nel 2001, nella Striscia di Gaza nel 2008 e in Libia nel 2011 per attaccare le forze di Gheddafi e proteggere i ribelli. (F.S.)

lo della pesca, nel monitoraggio dei ghiacciai e nell’ambito delle società immobiliari. Con una sofisticazione eccessiva, verrebbe vanificato uno dei principali vantaggi degli Uav rispetto ai velivoli pilotati: quello del loro minore costo. Ciò dovrebbe indurre ad accurate valutazioni di costo/efficacia, dando adeguato spazio anche agli Uav appartenenti alle gamme meno sofisticate. Con costi modesti, essi potrebbero aumentare le capacità delle forze esistenti e la possibilità delle utilizzazioni civili. La concentrazione sulle categorie più basse degli Uav dovrebbe offrire interessanti possibilità esportative per l’Italia, valorizzando la consistente expertise italiana nel settore dell’aeromodellismo6. L’Italia possiede anche interessanti capacità di punta nella “gamma alta”, in aziende come la Meteor, la Galileo, la Selex, l’Alenia, l’Avio, l’A2 Tech, la Selex-Galileo, il Cira, e altre ancora. Esistono poi interessanti capacità di spin-off e spin-in dal settore spaziale a quello degli Uav, a esempio nel campo dei sensori e delle nanotecnologie. Come dimostra il successo del lancio del missile Vega, l’Italia possiede capacità di eccellenza nell’intera gamma tecnologica coinvolta nel settore aero-spaziale. Purtroppo sono pressoché ignorate dal grande pubblico e dalla stessa classe politica. Il necessario “rilancio” della crescita nazionale richiede la piena valorizzazione proprio di tali capacità, anche per i loro rilevanti spillover nelle produzioni commer-


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ciali. Occorre un cambiamento culturale. La psicopatologia del Festival di Sanremo ha quasi “ucciso” comunicativamente il successo del Vega che, tra l’altro, avrebbe potuto costituire per tutti italiani un’occasione di fiducia nel loro futuro e di orgoglio nazionale. Vantaggi strategici, operativi e tattici degli Uav e degli Ucav

A parte il minor costo di approvvigionamento operativo, gli Uav presentano in campo militare interessanti vantaggi rispetto ai velivoli pilotati. Dal punto di vista politico-strategico, il loro principale vantaggio consiste nel non avere piloti a bordo. In caso di abbattimento o di incidente, con gli Uav non si lasciano prigionieri in mano nemica. Tutti ricordano l’imbarazzo per la cattura del capitano americano Fowell, il cui U2 era stato abbattuto sull’Urss, oppure per il pilota del caccia francese colpito sulla Bosnia nel 1995. La cattura dei piloti crea “casi” di estrema gravità sia diplomatica che comunicativa. Ciò non si verifica con gli Uav. L’abbattimento di un Uav Usa sull’Iran ha avuto ridotte conseguenze politico-comunicative. Ciò beninteso induce i politici a fare un più disinvolto uso degli Uav. Essi presentano ricadute comunicative molto simili a quelli delle operazioni covert, svolte dai servizi segreti. Non è un caso il fatto che gli Uav costituiscano l’arma preferenziale per la lotta al terrorismo. Basti pensare alla disinvoltura con la quale il presidente Ba-

rack Obama e il Segretario della Difesa Usa, Leon Panetta (già direttore della Cia), utilizzano gli Uav e i Ucav per il controllo e per l’eliminazione di obiettivi di alto valore strategico, quali i capi del terrorismo, dall’Afghanistan al Pakistan e dallo Yemen alla Somalia. Gli Uav possono assolvere, con rischi minori, molte delle funzioni affidate a raid delle forze speciali o ad agenti infiltrati. Il loro abbattimento non crea “casi diplomatici” molto pesanti. L’esposizione di prigionieri all’opinione pubblica interna e internazionale è sempre molto imbarazzante per qualsiasi governo. Dimostra la sua inefficienza, oltre che la sua “sfacciata” violazione del diritto internazionale. Se un Uav cade, oppure se viene distrutto in volo e intercettato con misure elettroniche e fatto atterrare (come sembra sia stato il caso dell’Uav Stealth RQ-170 Usa, caduto in Iran), i danni sia pratici che d’immagine sono ridotti. Un governo potrà sempre affermare che l’incidente è derivato da un errore dell’operatore che lo guida a distanza, oppure da un guasto tecnico. Gli Uav presentano poi un altro grande vantaggio: la capacità di orbitare per lungo tempo (e, in futuro, per diversi giorni) sulla verticale di un obiettivo. In tal modo, possono rilevare particolari che non possono essere colti da un semplice passaggio di un ricognitore o di un satellite, che presentano sempre “buchi” di copertura. La continuità del rilevamento permette di neutralizzare gran parte delle misure di mascheramento e

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d’inganno, con le quali vengono sempre protetti gli obiettivi più critici. La sorveglianza continua ha permesso – come prima ricordato – effetti molto rilevanti nella lotta contro le Ied. L’invisibilità degli Uav, unita alla loro lunga permanenza sugli obiettivi, sottopone poi a una minaccia continua e, quindi, a un forte logoramento anche psicologico gli obiettivi controllati. In tal modo, i gruppi terroristici devono concentrare sforzi e attenzione sulla loro sopravvivenza, anziché sulla preparazione di nuovi attentati. La necessità di adottare misure di sicurezza molto severe ne riduce poi l’operatività e anche la possibilità di comunicazione. Per garantire il grande vantaggio del permanente controllo degli obiettivi e tenendo conto dei tempi morti per il rifornimento carburanti, la manutenzione e le riparazioni programmate, si sta affermando come misura delle capacità Uav di un paese il concetto di “orbita”. Essa è costituita dall’insieme di Uav collegati con una stazione a terra, in condizioni di garantire la copertura continua di un obiettivo. L’Aeronautica militare Usa dispone oggi di 50 orbite nel solo teatro operativo di responsabilità del Control Comand, ma prevede di disporne di 65 nel 2013, per un totale di 2 milioni di ore di volo dei Predator MQ-1 (il cui primo volo ebbe luogo nel 1994) e degli Ncas tipo Reaper RQ-9). L’importanza che gli Usa attribuiscono agli Uav è dimostrata dall’aumento sia del loro

numero (nel 2005 costituivano il 5% della flotta aerea Usa; oggi sono il 30%)7. Diverse migliaia sono impiegati in Afghanistan, da quelli strategici come il Global Hawk o quelli spalleggiabili, dal peso di pochi kg, utilizzati direttamente dai reparti avanzati per vedere “dietro la collina”, come l’RQ-11 Raven, portato a spalle dalle unità terrestri avanzate. Mentre le informazioni dei drone di un tempo (tipo C259) erano utilizzabili solo dopo aver sviluppato le fotografie che avevano scattato, oggi la trasmissione delle informazioni è in tempo reale e viene sfruttata immediatamente spesso dallo stesso operatore. A parte la continuità della “copertura” degli obiettivi, gli Ucav presentano altri vantaggi. Il primo è che nelle loro versioni armate, unendo nello stesso mezzo capacità di acquisizione obiettivi e di fuoco, permettono una reazione immediata. Annullano il tempo di reazione – seeker to shooter – consentendo di colpire obiettivi puntuali, anche in movimento, prima che possano porsi al riparo. Gli Ucav garantiscono inoltre una più elevata precisione, riducendo i cosiddetti “danni collaterali”, in particolare le perdite fra la popolazione civile. Beninteso, non possono annullarli completamente, anche per la tendenza diffusa di insorti, guerriglieri e terroristi, di disperdersi fra la popolazione e di utilizzare i civili come scudi umani. Il vantaggio connesso con la precisione degli Uav è rilevante anche nelle operazioni convenzionali nell’appoggio


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aereo ravvicinato. Per i moderni cacciabombardieri a elevatissime prestazioni è estremamente difficile farle, eccetto nel caso in cui l’obiettivo venga “illuminato” da un designatore laser, radar o a raggi infrarossi. Insomma, gli Uav presentano numerosi vantaggi. Svolgono già, in modo meno costoso e più efficace, missione di ricognizione e di attacco al posto degli aerei pilotati e anche di una parte dei sistemi satellitari8. Rispetto ai satelliti, presentano il vantaggio aggiuntivo di poter portare armi offensive a bordo e di non violare il Trattato sulla non-militarizzazione dello spazio. È il caso dell’X-47B Pegasus, in corso di sviluppo, capace di restare in volo per 50 ore, con il suo serbatoio di quasi 10 mila litri di carburante. La sua autonomia può poi essere aumentata indefinitamente con il rifornimento in volo. I tempi di azione degli Uav sono svincolati dalle capacità di resistenza dei piloti, che è sempre limitata nonostante l’aumento che è stato consentito dall’automazione della strumentazione di bordo. All’altro estremo della gamma degli Uav pesanti, esistono o sono in corso di sviluppo mini- e micro-Uav, dal peso di pochi chilogrammi, trasportati al seguito anche delle truppe a terra. È il caso del Black Widow, il più piccolo Uav esistente dalla lunghezza di 15 cm e dalla propulsione elettrica, capace di restare in volo per 30 minuti. Sono poi in corso di sviluppo da parte della Darpa, Uav dalle dimensioni

di un insetto, in grado si posarsi sul davanzale di una finestra o di penetrare inosservati in una stanza, registrando le conversazioni che si svolgono in essa. All’altro estremo, si collocano progetti come quello Zephyr, specie di ala volante di 18 metri, che rimarrà in volo da 3 a 6 mesi a una quota di oltre 20.000 metri. I progressi della mini-elettronica e delle nanotecnologie uniti a quelli della riduzione della marcatura con tecnologie stealth e delle nanotecnologie fanno prevedere notevoli progressi nel prossimo futuro. In particolare, è allo studio la possibilità di rendere operativi nel 2020 Ucav completamente automatizzati. Essi si aggireranno come falchi sul campo di battaglia, alla ricerca degli obiettivi per i quelli sono state programmati, e li attaccheranno senza l’intervento dell’operatore. Insomma, gli Uav sono considerati sempre più importanti force multipliers a livello sia strategico che tattico. Il loro impiego è destinato a espandersi grandemente. Le limitazioni degli Uav

Le principali limitazioni degli Uav riguardano quattro settori: le implicazioni che hanno sul controllo del traffico aereo; l’occupazione di ampie bande dello spettro elettromagnetico; la vulnerabilità a contromisure elettroniche e, per quanto riguardo la loro utilizzazione in campo civile, l’incidenza sul diritto alla privacy. I problemi del controllo del traffico aereo sono stati per ora af-

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frontati con strette limitazioni poste agli spazi e alle altezze di volo consentita. In futuro, la situazione migliorerà certamente con lo sviluppo del sistema Sesar. Le limitazioni connesse con la disponibilità di sufficienti bande del spettro elettromagnetico sono reali e rappresentano una limitazione oggettiva alla diffusione massiccia degli Uav. La maggior parte di essi deve ricevere segnali e inviare informazioni alle stazioni a terra. Attualmente, le Forze Armate tendono a suddividere nel tempo l’invio di segnali agli Uav delle varie orbite, in modo da poter usare contemporaneamente per molte di esse la medesima banda di frequenza. Beninteso, tale limitazione è oggettiva. L’imprevedibilità che caratterizza ogni operazione militare limita il ricorso a Uav completamente automatizzati che incorporano nella memoria dei loro sistemi di bordo l’indicazione della tipologia di obiettivi da attaccare. Essa è possibile soprattutto nelle operazioni di tipo tradizionale, contro Forze Armate regolari, i cui mezzi da combattimento sono conosciuti e inseriti nella memoria dell’Ucav. È molto meno praticabile in operazioni di tipo irregolare, contro guerriglieri e insorti, data la loro capacità di rendersi indistinti dalla popolazione civile e l’importanza che assume l’attacco a obiettivi di opportunità individuati nel corso delle missioni. Anche la vulnerabilità a contromisure elettroniche rappresenta un grave problema. È ineliminabile, se non con misure contro-

contromisure elettroniche e con l’indurimento dei circuiti. La loro adozione implica però una riduzione del carico utile dei velivoli. In ultimo, il tentativo della American civil liberties union9, di limitare l’uso civile degli Uav per la violazione della privacy può danneggiare la loro diffusione nel mercato civile e il pieno sfruttamento della loro potenzialità. È necessario che i vari Stati, possibilmente in coordinamento fra di loro, definiscano una regolamentazione. Non ci si devono però nascondere le difficoltà che comporterà la sua applicazione. Un Uav impiegato in agricoltura potrebbe essere trasformato in uno per la sorveglianza con la semplice installazione a bordo di esso di adeguati sensori e strumenti di comunicazione. Considerazioni conclusive

La versatilità degli Uav e il fatto che essi impiegano tecnologie ampiamente disponibili sul mercato, ne estendono enormemente le possibilità di diffusione in campo sia militare che civile. Un aspetto a cui va dedicata molta attenzione consiste nel pericolo che gli Uav vengano impiegati per attentati terroristici. La difficoltà d’individuazione e, quindi, di dissuasione determina consistenti difficoltà per gli organismi preposti alla sicurezza. Infatti, l’uso di Uav in attentati terroristici aumenta il raggio d’azione dei terroristi e le loro possibilità di fuga. Gli attacchi potrebbero moltiplicarsi a dismisura, data che verrebbero condotti con


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mezzi meccanici, anziché con shahid suicidi. Insomma, l’Uav non muterà solo il campo di battaglia del futuro. Avrà anche consistenti implicazioni per la sicurezza interna anti-terroristica. Una stretta regolamentazione circa la loro diffusione e impiego è necessaria. Deve essere fatta prima che il settore si espanda grandemente, creando interessi consolidati che si opporrebbero a ogni restrizione. Note 1 Carlo Jean, Se vuoi la pace comprendi la guerra, Laterza, Roma-Bari, 1996. 2 Dati tratti dal Rapporto della Conferenza “Unmanned Aircraft Systems” della Federating the International Uas Community, Paris, May 8, 2008. 3 Per inciso, la diversità di questi due raggruppamenti industriali, rappresenta una dimostrazione di quanto sia difficile la creazione di un’Europa della difesa. Molto più probabile è la frammentazione dell’Unione fra una “sezione” atlantica ed una americana. Componenti di quest’ultima sarebbero gli Stati europei centro-orientali, dipendenti dagli Usa per la loro sicurezza. La loro paranoia russofoba è stata aumentata dall’enorme programma di potenziamento della Forze Armate di Mosca, annunciato da Putin (oltre 600 miliardi di dollari in dieci anni). 4 Iiss, The MTCR: Staying relevant 25 years on, Strategic Comment, volume 18, Comment 6, February 2012. Il Missile Technology Control Regime riguarda anche le tecnologie per gli Uav. 5 Nick Wingfield and Somini Sengupta, U.S. skies open up to drones and a fight over privacy begins, International Herald Tribune, February 17, 2012, pp. 1-15; vds. anche Francis Fukuyama, Why We All Need a Drone of Our Own, in the Financial Times, February 24, 2012. 6 Si segnala, al riguardo, (il K4A) la realizza-

zione di un’azienda napoletana che sta mettendo a punto un elicotterino propulso da due motori di Guzzi 500 (quindi idoneo per la sua doppia motorizzazione al sorvolo di aree abitate). La sua capacità di carico, di 250 kg, è più che sufficiente per la guida a distanza e per l’installazione sia di relais per le comunicazioni sia di sensori per il rilevamento. A parte i ridotti costi di acquisizione e di esercizio, esso è molto versatile, si presta a numerosi impieghi dalla protezione civile alla guardia costiera, al controllo del traffico, e così via. 7 Stratfor, Armed Uav Operations 10 Years On, January 12, 2012. 8 International Institute for Strategic Studies, Unmanned Aerial Vehicles, in Military Balance 2008, pp. 455-60. 9 Nick Winfield, US skies Open Up to Drones, Iht del 17 Febbraio 2012, cit.

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L’Autore Carlo Jean Generale, esperto di strategia militare e di geopolitica. Ha scritto numerosi articoli e pubblicazioni su Geopolitica e Geoeconomia che ne fanno uno dei più autorevoli esperti a livello italiano e internazionale. Attualmente insegna studi strategici alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università Luiss ed alla Link Campus di Roma, è membro del Consiglio scientifico della Treccani, del Comitato scientifico della Confindustria e del Comitato scientifico della Fondazione Italia-Usa. Collabora alla rivista di geopolitica italiana Limes come membro del relativo Consiglio scientifico.


gli strumenti di

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Nella sezione degli strumenti potete trovare pubblicati in inglese i due articoli di Badeaux e Suleymanov sulla storia della guerra tra Azerbaigian e Armenia. Inoltre, sempre in inglese, la risoluzione adottata dall’Assemblea dell’Onu contro l’Armenia in cui si intima allo Stato armeno di lasciare il Nagorno-Karabakh.


STRUMENTI


The Lessons of Armenia's Invasion of Azerbaijan and the Khojaly Massacre

By Christopher Badeaux*

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Modern international law was born of the carnage of World War II. The world declared whole categories of acts crimes against humanity itself, rather than against a single affected nation-state or ethnic group. The germ of this idea lies in the concept of hostis human generis, that is, an enemy of the whole human race; from that, the international community identified acts such as genocide, war crimes, and aggressive war as crimes against humanity, as acts so terrible that they harm every living human, and give rise to universal jurisdiction. Only rarely has the international community both universally recognized that a crime against humanity has taken place and failed to act on it. The Armenian invasion of Azerbaijan provides an object lesson in that failure. After centuries of relocations and ethnic cleansings by Russia and the Ottoman Empire, the Azerbaijani people were divided, and Armenians relocated en masse to the region. By the time of the breakup of the Soviet Union, the region’s demographic balance had been shifted so that large pockets of Armenians lived in Azerbaijan, and large numbers of Azerbaijanis still lived in their ancestral homes in what was now the Armenian Soviet Socialist Republic. The situation could not last, and did not. Armed militias took to war in the NagornoKarabakh, allegedly aided by Armenian

leaders in the Armenian SSR. The Soviet Union’s iron grip on the region slipped altogether and the area exploded into full-on conflict, with ethnic Armenian militias battling Azerbaijan’s forces, and, according to numerous sources, Armenian regulars from the SSR and later Republic of Armenia. Armenian regular forces and militias from the Nagorno-Karabakh managed to seize control over not only the NagornoKarabakh but seven surrounding districts, which Armenia generally characterizes as a buffer zone. Upward of 20 percent of Azerbaijan is now under Armenian occupation. During the course of the war, real war crimes, including the Khojaly Massacre, took place. Khojaly is a useful example of the extent to which this frozen conflict has frozen international law. On the night of February 25-26, 1992, Armenian forces, working with what was by most accounts rogue elements of the 366th Motor Rifle Regiment of the Commonwealth of Independent States, struck the village of Khojaly. Armenia claimed (and claims) that the nominal basis for the strike was to root out Azerbajiani armed forces who had been shelling Stepanakert and other heavily-Armenian population centers in the region. In the process of this nominally military operation, the Armenians decided to brutally murder upward of 613 men, women, and children, even down to toddlers, and to desecrate their bodies thereafter. Pregnant women were bayonetted. The evidence clearly shows that those innocents were killed purely for the crime of being Azerbaijani. Their homes, hospitals, and religious areas were deliberately targeted


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for destruction. The town was razed. The men who committed the crime against humanity in Khojaly are free, lauded as heroes in Armenia, and the commander of the Nagorno-Karabakh’s militias is now Armenia’s President. The toll of this war has been beyond easy description. Upward of one million refugees were forcibly relocated into Azerbaijan’s unoccupied territory. Some 20,000 are dead, 50,000 wounded. The cost in human capital and human life, in cultural memory and history, in economic terms and in society, is incalculable. Despite widespread international recognition of these events for what they were – an aggressive war and a crime against humanity – precisely nothing has happened. Every major international body – the United Nations Security Council and General Assembly, the OIC, the OSCE, PACE, the EU, and NATO – has at some level decried what has happened here and noted Armenia's occupation. The OSCE helped organize a specific dispute resolution mechanism – the Minsk Group – co-chaired by Russia, France, and the United States. In the time since the Minsk Group’s formation, the Group’s co-chairs – and several other international organizations and nation-states – have called on the parties to resolve the matter according to international norms that call for non-violent resolution of the conflict. Many of these resolutions provide those things for which Armenia claims it fought the conflict in the first place: An interim status and a binding vote on the Nagorno-Karabakh’s final status, a territorial link between Armenia and the region, and peacekeeping forces to protect

both the region and its returning, displaced persons. Armenia has flatly refused these entreaties, without penalty. Armenia is in effect working to effect the very sort of thing the world decried in Kosovo – a fait accompli, an occupation so durable that the world merely shrugs and moves on – and the world is indeed shrugging. Azerbaijan — a moderate and tolerant Muslim nation bordering on Iran, and a vital NATO ally wedged between Russia and Iran — is caught in a frozen conflict. Conflicts do not stay frozen, and the time-lapse between frozen conflict and flashpoint may be mere seconds. Armenia and Azerbaijan are rapidly re-militarizing, and the OSCE Minsk group is a sham. Russia is content to allow the matter to fester because it backs its client state Armenia and wants more control over Azerbaijan. France is apparently captive to its Armenian population. The United States, with its own Armenian lobby strong, has taken on an absurd position of near-neutrality. Perhaps this will be the lesson the world needs to take seriously if it is to honor its obligations under the laws of its own making. Perhaps not. Unfortunately, we will likely find out the hard way soon. In the book excerpt that follows this article, we can a great deal learn more from Elkhan Suleymanov, a respected Azerbaijani historian, scholar and active member of parliament who writes with passion about the consequences of the Armenian invasion of Azerbaijan and the Khojaly tragedy. It is thanks to the work of Mr. Suleymanov and others that both scholars and diplomats

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can no longer pretend not to know about the Khojaly massacre. What is needed now is a dignified respect for the UN resolutions that have been so far ignored. *Christopher Badeaux: is an attorney and writer in the United States. His writing specializes in foreign policy and questions of international law.

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A wounded land: The Consequences of Armenia's Occupation and Ethnic Cleansing in Azerbaijan Territory

By Elkhan Suleymanov Overview Many of the principal pillars of modern international law arose out of the carnage of World War II. Expanding concepts theretofore existing only in customary international law and largely discredited documents such as the Covenant of the League of Nations1, the world elected for the first time to deliberately and explicitly broaden international norms to prevent another round of that terrible war’s atrocities. Thus, the United Nations Charter, United Nations General Assembly and Security Council Resolutions, and the pronouncements of dozens of intergovernmental organizations and non-governmental organizations declared whole categories of acts formal crimes against humanity itself, rather than against a single affected nation-state or ethnic group. The germ of this idea lies in the concept of hostis humanč generis, that is, an enemy of the whole human race; from that, the international

community identified acts such as genocide, war crimes, and aggressive war as crimes against humanity, as acts so terrible that they harm every living human, and give rise to universal jurisdiction. The international community has had an uneven track record in enforcing these norms, but only rarely has it both universally recognized that a crime against humanity has taken place and failed to act on it. The Armenian invasion of Azerbaijan provides an object lesson in that failure. In the breakup of the Soviet Union, the chaos that followed loosed ethnic and national tensions about which the larger world had for the most part forgotten. While the breakup of Yugoslavia captured significantly more media attention, the military conflicts of the time are now largely resolved; the Nagorno-Karabakh War remains unresolved, with a line of conflict still prone to acts of violence and a threat of imminent war. Both Azerbaijan and Armenia peg the beginning of this conflict hundreds of years ago, based on territorial claims and ethnic movements that are themselves subject to constant scholarly conflict. However, the real beginning of this conflict lies in the early nineteenth century, during Russia’s wars of expansion against the Ottomans and the Persian Empire. The net result, carried forward over the course of a century, was to divide the Azerbaijani people; to relocate Armenians en masse to the region; and to set in place a tinderbox and fuse that would be lit nearly two centuries later. Ethnic cleansing in Azerbaijan became the regular course of Russian, and later Soviet,


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population management. By the time of the breakup of the Soviet Union, the region’s demographic balance had been shifted so that large pockets of Armenians lived in Azerbaijan, and large numbers of Azerbaijanis still lived in their ancestral homes in what was now the Armenian Soviet Socialist Republic. The situation could not last, and did not. Armed militias took to war in the NagornoKarabakh, allegedly aided by Armenian leaders in the Armenian SSR. The Soviet Union’s iron grip on the region slipped altogether and the area exploded into full-on conflict, with ethnic Armenian militias battling Azerbaijan’s forces, and, according to numerous sources, Armenian regulars from the SSR and later Republic of Armenia2. The war went back and forth, and after Azerbaijan’s high-water mark in 1992, Armenian regular forces and militias from the Nagorno-Karabakh managed to seize control over not only the NagornoKarabakh but seven surrounding districts, which Armenia generally characterizes as a buffer zone. Upward of 20 percent of Azerbaijan is now under Armenian occupation3. The Khojaly Massacre and International Condemination of Armenia's Aggression During the course of the war, real war crimes, including the Khojaly Massacre, took place. Khojaly is a useful example of the extent to which this frozen conflict has frozen international law. On the night of February 25-26, 1992, Armenian forces, working with what was by most accounts rogue elements of the 366th Regiment of the Commonwealth of Independent States, struck the village of

Khojaly. Armenia claimed (and claim) that the nominal basis for the strike was to root out Azerbajiani armed forces who had been shelling Stepanakert and other heavily-Armenian population centers in the region. In the process of this nominally military objective, they decided to brutally murder upward of 600 men, women, and children, even down to toddlers, and to desecrate their bodies thereafter. Pregnant women were bayonetted. The evidence clearly shows that those innocents were killed purely for the crime of being Azerbaijani. Their homes, hospitals, and religious areas were deliberately targeted for destruction4. The town was razed. Under modern international law, this is a war crime, and a crime against humanity5. There is as yet no sign of an international or national tribunal formed to try the perpetrators of this act, even though international law provides for universal jurisdiction over such things. Despite widespread international recognition of these events for what they were – an aggressive war and a crime against humanity – precisely nothing has happened. Every major international body – the United Nations Security Council and General Assembly, the OIC, the OSCE, PACE, the EU, and NATO – has at some level decried what has happened here. The OSCE helped organize a specific dispute resolution mechanism – the Minsk Group – cochaired by Russia, France, and the United States. In the time since the Minsk Group’s formation, the Group’s principals – and several other international organizations and na-

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tion-states, as will be discussed in the next part of this series – have called on the parties to resolve the matter according to international norms that call for non-violent resolution of the conflict. Many of these resolutions provide those things for which Armenia claims it fought the conflict in the first place: An interim status and a binding vote on the Nagorno-Karabakh’s final status, a territorial link between Armenia and the region, and peacekeeping forces to protect both the region and its returning, displaced persons6. Armenia has flatly refused these entreaties. The toll of this war has been beyond easy description. Upward of 1,000,000 refugees were forcibly relocated into Azerbaijan’s unoccupied territory. 20,000 are dead, 50,000 wounded. The cost in human capital and human life is incalculable. Priceless relics and historic sites lie in ruins. The environment in the occupied territories is in shambles, its natural resources, flora, fauna, and mineral wealth plundered, despoiled, or dead. Infrastructure has been demolished or turned into a weapon. International law appears to provide mechanisms for redress for crimes against humanity, such as aggressive war. Unfortunately, those mechanisms make clear that redress cannot financially destroy the aggressor for generations; a conservative estimate of the quantifiable costs to Azerbaijan of the conflict exceed USD130 billion. Armenia’s gross GDP is USD9 billion. Furthermore, that number reflects only that damage that can be quantified, and does not touch on the more intangible damage – broken psyches, lost families, lost lives, lost national cohesion.

The danger of any frozen conflict is that it will thaw. Violence is picking up along the cease-fire line. The international order that should have stopped the invasion, or at least attempted to return the situation to a status quo ante, is itself frozen in place. What looks increasingly like the inevitable return of war must lie at the feet of the very institutions created to stop it, unable or unwilling to act during the pause of that frozen conflict. Perhaps this will be the lesson the world needs to take seriously its obligations under the law of its own making. Perhaps not. Unfortunately, we will likely find out the hard way soon. Part I Armenia’s invasion of Azerbaijan and the Nagorno-Karabakh autonomous region of Azerbaijan has left a swath of incredible destruction, of a kind largely unseen since the end of the Second World War. One of the few remaining so-called frozen conflicts of the breakup of the Soviet Union, the cease-fire line from the end of the conflict remains a source of constant, low-level violence, and continued re-militarization by Azerbaijan, Armenia, and the breakaway Nagorno-Karabakh region point inexorably to another war unless the situation is quickly resolved. As a result of the conflict, from the late 1980s until the cease-fire of 1994, upward of 20,000 Azerbaijanis were killed, with tens of thousands wounded and an estimated 5,000 either missing or still prisoners of war. Ethnic cleansing of the region by Armenian militias and Armenian armed forces expelled upward of 1,000,000


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Azerbaijani residents of the region, with most ending up in refugee camps. Nearly 1,000 residential areas were destroyed and plundered, and civilian, governmental, and commercial infrastructure and enterprises were wiped out. In this first part of this series, we will address the historic and geopolitical underpinnings of the conflict. Although not important for the ultimate legal understanding of the events at issue here – which rise to the level of crimes against humanity under prevailing formal (or public) international legal norms and jus cogens – a full understanding of the conflict, and its description by the actors involved, is impossible without this background. Both Armenia and Azerbaijan are prone to describing the conflict in terms reaching back hundreds and thousands of years, to empires and nations lost to the sands of history. However, the modern conflict begins during the Russia’s early 19th Century wars of expansion against the Ottomans and Qajar Persian Empire. Russia’s successful military advances in the region – and the treaties that followed – split the Azerbaijani population into northern and southern halves; drove periods of mass-relocation of Armenian populations in Iran and the declining Ottoman Empire; and began the ethnic and political dislocation that would come to haunt Russia in the decline of its Soviet Empire. The new Armenian population in what is now called the Nagorno-Karabakh was and remains the foremost justification offered by the Republic of Armenia for its invasion of Azerbaijan nearly two hundred years later. Inevitably, the result of the mass relocation

of Armenians into areas dominated by Azerbaijanis for centuries led to rising tensions and eventual ethnic violence, culminating in mass murder and violence across Russian-dominated Azerbaijan as the Russian Empire entered its final phases. Reciprocal violence by Azerbaijanis against Armenians, close in time to but unrelated to the Armenian Genocide, would form the basis for internal and external Armenian rationalization of their actions during the Nagorno-Karabakh conflict. The end of the Russian Empire was very briefly a time of reconciliation between the two sides, as they, together with Georgia, formed the Transcaucasian Federation in February 1918 as a bulwark against the chaos in Russia and the advancing Ottomans7. Inevitably, the Transcaucasian Federation ended in May 1918. As the nascent Soviet Union marched to regain territories lost in the Russian Empire’s breakup, Stepan Shaumyan, a Russian Communist of Armenian ethnic origin, took control of what was then called the Baku Commune. Soviet propaganda (and later, Armenian history) would later describe Shaumyan as an exemplar of peace who somehow ended up serving the bloodiest empire in human history during its most violent period. Azerbaijan remembers Shaumyan as a butcher, a man who used the pretext of putting down counterrevolutionary activities to effect the slaughter of upward of 10,000 Azerbaijani civilians. Soviet occupation of both Armenia and Azerbaijan would contain, but not end, the conflict. Although the Soviet Union would officially decry policies targeted at discrete

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ethnic groups, its use of mass-relocation as a political management tool was not limited to the Kulaks. Azerbaijanis by the tens of thousands were forcibly relocated from the Armenian Soviet Socialist Republic in the post-World War II period. Forced relocations of this type continued for the remaining decades of the Soviet Union. The net effect of these decades was to exacerbate already simmering ethnic tensions and each side’s sense of historic grievance. Armenia believed that the wrongs done to Armenians by the advancing Ottomans, Russians, and Persians were finally being righted, albeit imperfectly. Azerbaijanis lost their homes of centuries as their people suffered from the same sort of forced dislocation and mass murder to which Armenia constantly harkened. The sense of different ethnic groups as neighbors instead of enemies disappeared as the groups were segregated at gunpoint amidst inhuman acts, one after another. As the Soviet Union lost its internal grip over its Socialist Republics, these tensions came to the fore – all at once. As part of the so-called Pax Sovietica, the Soviets had recognized Azerbaijani sovereignty over the autonomous NagornoKarabakh region even while altering its demographic balance in favor of Armenian residents. In 1988, ethnic Armenian separatists in the Nagorno-Karabakh Autonomous Oblost began demanding political unification with Armenia, an action politicians in the Armenian SSR lauded (with Supreme Soviet resolutions) and Azerbaijanis in the region decried. Ethnic cleansing in Armenia followed, with virtu-

ally every Azerbaijani in Armenia expelled; while a significant portion of Azerbaijan’s Armenian population left, the cause of the departure is in some dispute, and according to the most recent census, upward of 120,000 ethnic Armenians live in Azerbaijan, though it is unclear what percentage of those live in the Nagorno-Karabakh region and how many live in the portion of Azerbaijan under Baku’s control. Armed militias took to war in the NagornoKarabakh, allegedly aided by Armenian leaders in the Armenian SSR. The Soviet Union’s iron grip on the region slipped altogether and the area exploded into full-on conflict, with ethnic Armenian militias battling Azerbaijan’s forces, and, according to numerous sources, Armenian regulars from the SSR and later Republic of Armenia8. The war went back and forth, and after Azerbaijan’s high-water mark in 1992, Armenian regular forces and militias from the Nagorno-Karabakh managed to seize control over not only the Nagorno-Karabakh but seven surrounding districts, which Armenia generally characterizes as a buffer zone. Upward of 20 percent of Azerbaijan is now under Armenian occupation9. In 1992, the OSCE Minsk Group came into being, and promptly did very little about the conflict. Today, the dispute between these two states is being mediated, fairly ineffectively, by the principals of the Minsk Group – Russia, France, and the United States. The Minsk Group’s primary role appears to be to keep the conflict frozen in amber as long as possible, in no small part due to the principals’ differing domestic and foreign policy objectives. Russia views Armenia as a valuable client state and, af-


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ter its invasion of Georgia in 2008, has no desire to see forcibly-carved out regions return to their rightful owners. France balances a desire for an alternative source of fossil fuels with a large and restive Armenian population. The United States views Azerbaijan as a useful ally in its war on terror, but because of balance-of-power politics with Russia and its own Armenian Diaspora population – concentrated in New Jersey and California – has not pushed for a rapid resolution of the conflict. In the time since the Minsk Group’s formation, the Group’s principals – and several other international organizations and nation-states, as will be discussed in the next part of this series – have called on the parties to resolve the matter according to international norms that call for non-violent resolution of the conflict. Many of these resolutions provide those things for which Armenia claims it fought the conflict in the first place: An interim status and a binding vote on the Nagorno-Karabakh’s final status, a territorial link between Armenia and the region, and peacekeeping forces to protect both the region and its returning, displaced persons10. Armenia has flatly refused these entreaties. The conflict remains frozen even as both sides re-arm. Azerbaijan’s greater wealth and economic development appear to give it the edge in a potential conflict, though Armenia’s allies in Moscow and Tehran can be counted on to provide needed additional materiel. Rising border violence is the surest signal that this frozen conflict is beginning to thaw, and that the international community will have to return its attention to a problem it would prefer to forget.

If this conflict is not resolved quickly, the spring of this conflict will be a bloody one. Part II In Part I of this series, we addressed the modern historic underpinnings and current status of the Armenia-Azerbaijan War. In this Part, we will address international legal organizations’ and non-governmental organizations’ views of the conflict. As an initial matter, it is helpful to understand the legal framework at issue here. Although developing international law provides a great deal of sympathy for, and resolution frameworks surrounding, historic claims to regions, states, and nations, the international order changed irrevocably in the wake of the Second World War. Many of the principal pillars of modern international law arose out of the carnage of World War II. Expanding concepts theretofore existing only in customary international law and largely discredited documents such as the Covenant of the League of Nations11, the world elected for the first time to deliberately and explicitly broaden international norms to prevent another round of that terrible war’s atrocities. Thus, Article I of the Charter of the United Nations, United Nations General Assembly and Security Council Resolutions, and the pronouncements of dozens of intergovernmental organizations and non-governmental organizations declared whole categories of acts formal crimes against humanity itself, rather than against a single affected nation-state or ethnic group. The germ of this idea lies in the concept of hostis humanī generis, that is, an enemy of the whole human race; from that, the interna-

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tional community identified acts such as genocide, war crimes, and aggressive war as crimes against humanity, as acts so terrible that they harm every living human, and give rise to universal jurisdiction. These concepts are very much in play in the Armenian-Azerbaijan War. It is beyond dispute that the Armenian Republic, relying on varying claims of ethnic grievance, historic entitlement, and other traditional excuses for aggressive war, invaded Azerbaijan with regular military units and mercenary units no later than 1992, and aided ethnic Armenian separatists before that time. By any reasonable measure, Armenian violated the prohibition on aggressive war – especially aggressive war for territorial gain – and continues to do so. Moreover, while both Armenia and Azerbaijan have competing claims of ethnic cleansing and war crimes against each other, the massacre of the civilians of Khojaly during the war stands out for its unique brutality. On the night of February 25-26, 1992, Armenian forces, working with what was by most accounts rogue elements of the 366th Regiment of the Commonwealth of Independent States, struck the village of Khojaly. Armenia claimed (and claim) that the nominal basis for the strike was to root out Azerbajiani armed forces who had been shelling Stepanakert and other heavily-Armenian population centers in the region. In the process of this nominally military objective, they decided to brutally murder upward of 600 men, women, and children, even down to toddlers, and to desecrate their bodies thereafter. Pregnant women were bayonetted. The evidence clearly

shows that those innocents were killed purely for the crime of being Azerbaijani. Their homes, hospitals, and religious areas were deliberately targeted for destruction12. The town was razed. Under modern international law, this is a war crime, and a crime against humanity13. There is as yet no sign of an international or national tribunal formed to try the perpetrators of this act, even though international law provides for universal jurisdiction over such things. In the time since the conflict began, virtually every major non-governmental organization in or around the region has passed a resolution or finding on the conflict. The overwhelming majority have either recognized the invasion of Azerbaijan’s sovereign territory by Armenia; called for a peaceful resolution of the conflict; or have explicitly called on Armenia to vacate the captured territory it holds. Armenia’s continued intransigence and the subsequent lack of follow-through by those international organizations explicitly committed to maintaining international order and reversing aggressive war is both a rebuke to their long-term effectiveness and a dangerous sign of the breakdown of the post-World War II order. Turning to the United Nations, the Security Council – the group entrusted first and foremost with remedying breaches of the peace – has passed four, separate Resolutions demanding that Armenia withdraw from the occupied territories around the Nagorno-Karabakh14. These resolutions explicitly describe the conflict as a threat to the peace and describe as illegal the invasion of Azerbaijan’s sovereign territory,


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which explicitly includes the NagornoKarabakh. General Assembly Resolutions on the topic have followed roughly the same track15. Despite these explicit findings, the Security Council’s several resolutions did not end in the sort of military conflict – to reverse the aggression of the invading state – that its founders envisioned. The Council of Europe has also weighed in, repeatedly calling for a resolution of the conflict in accordance with prevailing international legal norms. Thus, the Parliamentary Assembly of the Council of Europe (PACE) passed Resolution 1416, “The conflict over the Mountainous Garabagh region dealt with by the OSCE Minsk Conference.” The resolution recognizes Armenia’s occupation of Azerbaijan; recognizes the preceding and subsequent ethnic cleansing of the conflict; reiterated that any independence effort must be achieved peacefully and lawfully, and that the invasion of a state by a member state of the Council of Europe violates the latter’s obligations as a member; calls for the return of displaced persons; and recognizes the relevant UNSCRs16. Armenia continues to boycott PACE’s efforts in the region. The Organization of Islamic Cooperation has passed untold resolutions and communiques that follow the same theme, though going farther: The OIC has called on Armenia to withdraw from the occupied areas of Azerbaijan, including the Nagorno-Karabakh; characterized Armenia as the unlawful aggressor in the conflict; and called for sanctions against Armenia from the United Nations17. Armenia treats

these as non-binding resolutions, and accuses Azerbaijan of “exploiting Islam to muster greater international support.” The role of the Organization for Security and Cooperation in Europe (OSCE) and its creation, the Minsk Group, were discussed briefly in the first Part of this series, and bear mentioning here. The OSCE itself has held to the position that the NagornoKarabakh and the surrounding, occupied territories were and remain parts of Azerbaijan. While few other positive developments have come of the process, arguably the call for a multinational – instead of merely Russian – peacekeeping force and the use of co-chairs has at least kept the situation from devolving into another South Ossetia. The Minsk Group follows the general path of most other international organizations and calls for withdrawal of Armenian forces from the region; the return of displaced persons; peacekeeping forces to ensure security both for the NagornoKarabakh and the returning persons; and a final determination of the NagornoKarabakh’s final status through peaceful, democratic means. The European Union is more ambivalent on the matter – recognizing Azerbaijan’s right to territorial integrity, openly noting its dismay with the huge number of refugees and displaced persons as a result of the conflict, and calling for a speedy resolution, while not differentiating between aggressor and defender in the conflict. Its resolutions nevertheless call for a peaceful end to the conflict and the immediate withdrawal of Armenian forces from the occupied territories18.

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The weight of both public and customary international law lies firmly in Azerbaijan’s favor in this conflict. That the war is frozen, if thawing, rather than resolved is as powerful an indictment of international norms as the Rwandan Genocide. If the matter is not resolved quickly, this conflict will likely begin to resemble that atrocity in the death toll as well.

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Part III In Parts I and II of this series, we addressed both the underlying causes of the Armenian invasion of Azerbaijan and the international community’s responses to it. This Part is concerned with the humanitarian and cultural damage incurred as a result of the war. Any armed conflict in the modern era tends to produce an enormous number of collateral losses, both human and material. While the ability to target munitions and force has increased significantly over the last two centuries, the destructive power nation-states bring to bear has increased geometrically. The collateral damage is severe even where nation-states commit themselves, however imperfectly, to obeying jus cogens and modern, public international law on the use of force in armed conflicts. It is infinitely worse in aggressive war where decades- and centuries-old ethnic conflicts are involved. The invasion of Azerbaijan loosed resentments and nationalism centuries in the making. The Armenian SSR and, later, the Republic of Armenia explicitly and internally tied its invasion to the Armenian Genocide, implicitly arguing that by invading Azerbaijan, it was both righting a wrong

centuries old and exacting revenge for a century-old atrocity19. Part II touched on the Khojaly Massacre and its status as a crime against humanity. There is no need to recreate that section here except to note that the ruins of Khojaly are merely a symbol of the enormous human damage incurred during the war. The tale of the seven occupied districts surrounding Nagorno-Karabakh, and the Nagorno-Karabakh itself, is one of ruin. Men, women, and children, numbering upward of 1,000,000, were expelled from their homes20. Civilians were killed, raped, tortured, imprisoned, and pressed into slavery. Azerbaijan estimates that over 3,000 armed personnel and over 700 civilians are either still missing or are unreleased prisoners of war21. As with Khojaly, whole towns and sections thereof were razed to the ground during the war or afterward. The human toll on Azerbaijan outside the territories is hard to estimate, but is very real. In addition to the enormous cost to move the refugees and IDPs from the camps into which the conflict thrust them – Azerbaijan has dedicated an enormous fraction of its GDP to this very goal, and appears to have largely reached it – the human costs have taken real tolls on its human capital development. The well-known effect of refugee status has become evident in the refugee population, with higher crime rates and lower education (and income) statuses as a result. In 1999, according to Azerbaijan’s State Committee on Refugees and IDPs, there were 301,359 able-bodied refugees and IDPs; 196,380 of them, or 65.2 percent, were unemployed.


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As of 1999, 74,000 IDPs were settled in sub-sanitary tent towns, 99,000 in settlements with fixed houses, 17,500 in social buildings, schools, kindergartens and hostels, 20,200 in the apartments belonging to relatives, and the rest were domiciled in seized apartments, unfinished buildings, farms, railway carriages, or simply in roadside shanties. Infant mortality skyrocketed, as did overall mortality. The birth rate among the displaced collapsed to 22-26 per 1,000. Only in the last several years has this situation come under serious remediation. Azerbaijani estimates place the death toll at 20,000; the maimed and wounded at 50,000. As noted in Part II, the psychic toll of the conflict and occupation has retarded Azerbaijan’s transition to democracy, and encourages re-armament in the absence of peaceful resolution. Azerbaijan’s economic development goals explicitly include using its considerable carbon wealth to develop and diversify into other industries; the need, born of pride and a still-unresolved war, to re-arm carries well-established economic and mental costs. The damage has not been limited to the immediate human cost. Monuments and relics hundreds and thousands of years old, straddling innumerable cultures, have been lost22. Artifacts belonging to humanity’s collective heritage – some of the first human dwellings, such as the caves of Azix and Taqlar, and the burial mounds of Qarakopak, Uzarliktapa, are now used for military purposes and have been intentionally destroyed. Burial mounds in Kho-

jaly, Agdam, Agdara, Fuzuli, and Jabrayil districts, as well as cemeteries, sepulchers, gravestones, untold numbers of mosques, temples, and monuments that belonged to the Caucasian Albania and Azerbaijan have been destroyed. Newer mosques lie in ruins. Thirteen monuments of worldwide importance (6 architectural and 7 archeological), 292 of national importance (119 architectural and 173 archeological), and 330 of local importance (270 architectural, 22 archeological, 23 parks, monumental and memorial monuments, 15 decorative art samples) lay in the region at the time of Armenia’s occupation. At this time, it appears that few if any survive. Historic palaces, music schools, museums, sanctuaries, preserved homes of and monuments to great Azerbaijani artists and composers – some extending back to the Persian Empire – are by all accounts gone. Where these things were not destroyed outright, they were riddled with bullets, artillery fire, or other ordnance. Some of the statuary has been smuggled back into Azerbaijan proper; most lies in ruins. The Agdam Bread Museum, with its famous front mosaic, is now a ruin, the mosaic a bullet-riddled mess. Placing a price on this sort of cultural devastation is impossible; this is of course the reason for the international norms against it. The mere thought of repairing this level of cultural loss staggers the mind. The loss to mankind’s history as a whole is incalculable. In a later Part of this series, we will address the total cost of this crime against humanity. There is simply no way to include this destruction – human and cultur-

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al – and so those numbers cannot and will not be included. There cries from the graves will instead serve as constant reminders of the atrocities the world watched and allowed.

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Part IV Part I of this series discussed the historic and present underpinnings of the Armenian-Azerbaijan War. Part II discussed the international reaction and the response of international law-making bodies to the war and its fallout. Part III discussed the human and cultural toll the war and subsequent occupation took. This Part will address the environmental and socio-economic costs of the conflict. By its very nature, war always causes infrastructure and environmental damage. Modern war – as it does with human life – tends to destroy orders of magnitude more than our more distant ancestors ever imagined possible. Credible reports, however, indicate that Armenia has not allowed the end of active hostilities to stand in the way of continued destruction of the occupied territories, to the detriment of the flora and fauna of the region and Azerbaijan as a whole. The occupied area is largely mountainous and forested, with numerous former wildlife sanctuaries and preserves located in the region. There are more than 460 species of wild trees and bushes in the region, including 70 endemic species which do not naturally grow in other parts of the world. At the time the conflict began, four species of mammals, eight species of birds, one species of fish, three species of amphibians and reptiles,

eight species of insects, and 27 species of plants were under conservation in those territories. While it is impossible to know the extent to which those species are now under threat, Armenia’s actions over the last two decades suggest that the threat is dire. Azerbaijan maintains that Armenia is harvesting the flora and fauna of the area (when not deliberately burning it down) for sale to other countries and consumers. Armenia’s habit of setting fire to large swathes of occupied territory (apparently to make military maneuvers easier to accomplish) lend some credence to this suspicion. Armenia’s suddenly-thriving paper and pulp industry lends further support. The effect of the fires alone is not insignificant, constituting as it does a literally scorched-earth approach to conflict. Again, the extent of the damage to the immediate environment is hard to identify without better information, but uncontrolled fire produces long-term damage to a region unused to it, and to neighboring areas. The damage has become significant enough that Azerbaijan has begged the world community – the including Secretary-General of the Bern Convention on the Conservation of European Wildlife and Natural Habitats, the Executive Secretary of the Convention on Biodiversity, the Secretariat of the UN Convention on the Climate Change and the President of the International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources – to bring the destruction to an end, without any action taken. Azerbaijan also maintains, with some evidence to support this claim, that Armenia


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uses the pre-existing water management infrastructure as a weapon against the human and non-human populations of the areas bordering the occupied territories – flooding those regions in winter when the ground cannot absorb the water, and withholding it in the summer when the water is needed most23. Much of the remaining irrigation infrastructure in the region – built over decades for human and natural use – lies in ruins. The human cost is enormous. The loss of biodiversity is incalculable. Millions of tons of mineral resources lie in the occupied territories and appear to be the subject of vigorous extraction efforts by Armenia. Gold, lead, peralite, gypsum, pumice and volcanic ash, agate, onyx, mercury, copper – the list is extensive. It would appear that Armenia is extracting all of it. The socio-economic impact is no less. Food, textile, and construction industries in the occupied territories – a vital part of Azerbaijan’s economic diversification efforts – are simply gone. As suggested above, agriculture, raw materials, and natural resource use industries were devastated. Modern wine, butter, cheese, and textile industries appear to be permanently lost, with vineyards and cattle ranches simply wiped out24. Arable land is one of the greatest non-human casualties of this conflict. The occupied territories were Azerbaijan’s large agricultural regions. The area’s favorable mountainous plains, foothills, and smooth pastures are coupled with good humidity and provide immense opportunities for raising cattle and agriculture. Grains, food production, viticulture, tobacco cultivation, potatoes, cotton, cattle, and sheep

were important industries in the region, now apparently lost25. In terms of industrial output, the NagornoKarabakh Autonomous Region was the most advanced of the occupied territories, with 40 percent of all industrial output and 18.7 percent of fixed assets in the occupied districts. The Agdam and Fuzuli districts accounted for 51 percent of industrial output and 41 percent of fixed assets; the remaining districts – Lachin, Kalbajar, Jabrayil, Qubadli and Zangilan – had poorly-developed industry. In 1988, these regions accounted for roughly 3 percent of the Azerbaijan SSR’s total industrial output. The socio-economic infrastructure has been decimated as well – not just in the occupied territories, but in those areas adjacent to them as well. Azerbaijani estimates place the total at more than 900 residential areas (towns, settlements, villages, etc.), roughly 150,000 houses and flats with a total space of 9.1 million square meters, 4,366 social and cultural objects, 7,000 social buildings, 2,389 industrial and agricultural objects, 1,025 schools, 855 kindergartens, 4 sanatoriums, 798 healthcare facilities (including 695 hospitals), 927 libraries, 1,510 cultural entities and 598 communication facilities lie in ruins as a result of the war. Moreover, 5,198 kilometers of roads, 348 bridges, 286 kilometers of railways, 116 railway bridges, 224 water reservoirs, 7,568 kilometers of water lines, 2,000 kilometers of gas pipe, and 76,940 kilometers of electricity lines have been destroyed. The total damage to Azerbaijan’s people and institutions is hard to calculate. Never-

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theless, that will be the subject of the final part in this series.

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Part V In this final Part of this series, we will address both the necessary redress to which Azerbaijan is entitled and the method by which the same is calculated under international law. As an initial note, what follows is not intended as an exact figure or definitive methodology, but rather an attempt to quantify what in some ways is unquantifiable and has never been attempted before: What does an unjust aggressor owe its victim? Clearly, international norms have evolved since the Treaty of Versailles and the sanctions placed on Germany at the end of World War I. Prevailing law holds that compensation must be proportionate, it must be fair, it must correct the damages done, and it must be at some level payable. The problem is compounded on two levels here. First, there is literally no easy precedent for this sort of calculation. Aside from the Treaty of Versailles, no one has ever seriously calculated what an occupying and destroying power owes its victim; and certainly, no one has ever attempted to put monetary values on the human and environmental tolls for the same. This is literally a calculation without precedent. Second, the requirement that the compensation be within the range of the occupying power’s ability to pay in some sort of reasonable time span is a severe stumbling block here. Armenia’s dysfunctional political system with its rampant corruption has

turned the once-promising economic future there into a minor nightmare. Even with the wealth it has appropriated from the occupied territories, it is an economic basketcase, and is nowhere near Azerbaijan’s development26. Expecting a country with a GDP in 2010 of roughly USD9 billion to repay the extent of its damage to Azerbaijan would be not unlike asking Russia in 1994 to repay the enormous damage the Soviet Union did to every nation it invaded and occupied. Nevertheless, the law of nations seems to suggest that compensation is in order here. United Nations General Assembly Resolution 56/83, “Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts,” holds that an aggressor state must pay restitution for all damages caused by its wrongful act27. That Resolution, which appears to be a logical extension of the prohibition on aggressive war, states that “[f]ull reparation for the injury caused by the internationally wrongful act shall take the form of restitution, compensation and satisfaction, either singly or in combination, in accordance with the provisions of this chapter.” The nature of the reparation depends on the nature of the international wrongful act, and on the type and extent of the injury that has been caused. UNGAR 60/147, “Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law,” echoes this point. Without a great deal of public international law as a framework, treating this as at least jus cogens or a developing norm is a


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minimal and logical step. The question, then, is what level and nature of compensation is appropriate here? Simply restoring the status quo ante in terms of the withdrawal of Armenian forces and the return of refugees and internally displaced persons would not and could not be enough. The international crimes involved here are enormous in scope; how does one put a price tag on murdered children? How much is national sovereignty worth? What is the value of losing one’s home of generations, and one’s craft of generations more? How much is a permanently ruined ecosystem worth? What price attaches to a desperate, barefoot run through the freezing cold, mere breaths ahead of artillery and irregular military, clutching one’s child tight to the chest and praying she still lives?28. These are not trivial questions, nor are they intended to rise to the level of melodrama. The sheer scope of the reparations involved boggles the mind. The OIC set the economic damage alone at USD60 billion in 1994; in today’s dollars, that would be roughly USD92 billion29. To deal with the extensive ecological damage, the Ecology and Natural Resources Ministry of the Azerbaijani Republic sets the price tag (as of 2011) at USD40.15 billion. Again, however, these costs capture difficult but quantifiable things – lost profits, the cost of reconstruction, the amount of money needed to rebuild and hopefully repopulate wildlife preserves and ecologies. There is simply no easy way to quantify the intangible damages – the loss of each precious human life, young women waking up in terror of rape gangs for years, young

men and women growing up without one or both parents and even siblings – all of the human costs of crimes against humanity. Any one sufferer would be entitled to millions upon millions of dollars in an American courtroom on any ordinary tort case. What would the total be for every refugee and displaced person? Every family who lost everyone they loved in the region during the war? Azerbaijan as a whole for the psychic trauma inflicted? Yet, as noted above, even at the discounted cost of USD132 billion, Armenia would be impoverished for 15 years were it to devote its entire GDP to paying this debt, interest-free, if it left today. The situation will only grow worse over time. The international community must live up to its founding charter, must uphold obligations learned in blood and fire and sworn before a world weary of death and pain. The alternative is to watch a frozen conflict thaw, with two decades of additional anger and pain behind it. Elkhan Suleymanov: member of the Azerbaijani delegation to the Parliamentary Assembly of the Council of Europe, and member of the concerned Committee for Legal Affairs and Human Rights. This article is extracted from the is book A wounded land: The Consequences of Armenia's Occupation and Ethnic Cleansing in Azerbaijan Territory.

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Note 1

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Covenant of the League of Nations, Articles X and XI, located at http://www.unhcr.org/refworld/publisher,LON, 3dd8b9854,0.html. 2 Armenia largely denies this allegation, though most observers place its forces in the theatre by 1992 at the latest. 3 As part of the ongoing information campaign waged by the two sides, this number is in some dispute. One can identify where Armenia’s public relations campaign has been at work by those sources that identify the amount under Armenian/Nagorno-Karabakh control as 9 percent without the Nagorno-Karabakh, or just over 10 percent with it. 4 Major Seyran Mushegovich Ohanyan, now Armenia’s Defense Minister, commanded the 2nd Battalion of the 366th. Serzh Sargsyan, now President of Armenia, was the commander of the Nagorno-Karabakh armed forces at the time. International law generally holds those directly in command of a war crime, and those who ordered it, liable for it. 5 Armenia’s official position is that either this did not happen, or if it did, it happened in the fog of war, and therefore cannot be a war crime. Numerous NGOs, including Human Rights Watch, have examined the evidence and have found this position to be not credible. Azerbaijan characterizes the massacre as a genocide. Regardless of the precise nature of the criminal act, its violation of modern international norms is beyond dispute. 6 See, e.g., Joint Statement On The NagornoKarabakh Conflict by Dmitry Medvedev, President Of The Russian Federation, Barack Obama, President Of The United States Of America, and Nicolas Sarkozy, President Of The French Republic, January 26, 2010. Found at http://www.whitehouse.gov/the-press-office/g8-summit-jointstatement-nagorno-karabakh-conflict-dmitrymedvedev-president-russi. 7 The history of Armenia itself contributes in no small part to this conflict, but is beyond the scope of this article to outline. The most salient aspect is the manner by which Armenia became in possession of its current territory: Armenian history tends to focus on gains hard-fought and wrongs requited in the breakup of the Ottoman Empire in the wake of the Armenian Genocide; Azerbaijan’s

history focuses on the territory taken by the Russian Empire and Azerbaijan’s relinquishing of that territory to the nascent Armenian state as the Russian Empire dissolved. Unsurprisingly, the respective versions of this story dovetail with each side’s internal understanding of their ongoing conflict. 8 Armenia largely denies this allegation, though most observers place its forces in the theatre by 1992 at the latest. 9 As part of the ongoing information campaign waged by the two sides, this number is in some dispute. One can identify where Armenia’s public relations campaign has been at work by those sources that identify the amount under Armenian/Nagorno-Karabakh control as 9 percent without the Nagorno-Karabakh, or just over 10 percent with it. 10 See, e.g., Joint Statement On The NagornoKarabakh Conflict by Dmitry Medvedev, President Of The Russian Federation, Barack Obama, President Of The United States Of America, and Nicolas Sarkozy, President Of The French Republic, January 26, 2010. Found at http://www.whitehouse.gov/the-press-office/g8-summit-jointstatement-nagorno-karabakh-conflict-dmitrymedvedev-president-russi. 11 Covenant of the League of Nations, Articles X and XI. Found at http://www.unhcr.org/refworld/publisher,LON,,,3dd8b9854,0.html. 12 Major Seyran Mushegovich Ohanyan, now Armenia’s Defense Minister, commanded the 2nd Battalion of the 366th. Serzh Sargsyan, now President of Armenia, was the commander of the Nagorno-Karabakh armed forces at the time. International law generally holds those directly in command of a war crime, and those who ordered it, liable for it. 13 Armenia’s official position is that either this did not happen, or if it did, it happened in the fog of war, and therefore cannot be a war crime. Numerous NGOs, including Human Rights Watch, have examined the evidence and have found this position to be not credible. Azerbaijan characterizes the massacre as a genocide. Regardless of the precise nature of the criminal act, its violation of modern international norms is beyond dispute. 14 See UNSCRs 822, 853, 874, and 884.


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15 See, e.g., General Assembly Resolution 60/285 (recognizing environmental and civilian dangers in the context of wildfires in the “occupied territor i e s o f A ze r b a i j a n ” ) , f o u n d a t h t t p : / / www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A /RES/60/285&Lang=E; see also, General Assembly Resolution 62/243 (recognizing the occupation of Azerbaijan’s territory and calling for Armenia’s withdrawal and the return of displaced persons), found at http:// www.un.org/ga/ search/view_doc.asp?symbol=a/res/62/243. The OSCE Minsk Group principals voted against the latter, stating that the Resolution did not encapsulate all of the Minsk Group’s suggested resolutions of the conflict. 16 PACE also recognizes the deleterious impact this conflict has had on Azerbaijan’s democratic development. See PACE Resolution 1614, Par. 25. F o u n d a t h t t p : / / a s s e m b l y. c o e . i n t / Mainf.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta08/ ERES1614.htm. 17 See, e.g., Resolution No. 12/I0-P(IS), Report and Resolutions on Political Affairs Adopted By the Tenth Session of the Islamic Summit Conference, “On the Aggression of the Republic of Armenia Against the Republic of Azerbaijan.” Found at http:// www.azembassyjo.org/ conflict/ process/islamic.htm. 18 The North Atlantic Treaty Organization, while somewhat ambivalent on the matter, has made clear that its preferred resolution of the situation would be based purely on sovereignty and territorial integrity. Given that the territory at issue belongs to Azerbaijan, this is as pronounced a statement in favor of Azerbaijan in the conflict as anything outside the OIC. However, NATO’s status as a law-making body is, at best, uncertain. 19 Azerbaijan’s populace is largely of Albanian Caucasian, not Turkic, descent. Its close ties with Turkey are a function of historical and to a limited extent, religious identification (Azerbaijanis are largely Shi’i, Turks largely Sunni Muslims), not ethnic identity or political union. Put differently, there is no evidence of any involvement by Azerbaijan in the Armenian Genocide. This has not stopped Armenia or its Diaspora from linking its invasion of the Nagorno-Karabakh to the Armenian Genocide.

20 The exact number is in some dispute. Azerbaijan states that roughly 1,000,000 refugees and internally displaced persons were created as a result of the war. Armenia denies this number (and has its own number for persons it claims were expelled from Azerbaijan). Independent estimates place the number somewhere between 700,000 and 1,000,000. 21 Both parties to the conflict claim unreleased prisoners of war. Independent confirmation of these accounts has been difficult to obtain, with no independent confirmation as yet existing. 22 These crimes are covered by the Hague Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict (1954); the Paris Convention for Prevention of Illicit Traffic in Cultural Property; the European Convention on the Protection of the Archaeological Heritage; and the UNESCO Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage. 23 Azerbaijan also accuses Armenia of deliberately poisoning some of the region’s rivers in an attempt to further weaponize the area’s limited water resources. 24 Azerbaijan’s specialized cattle industry – a point of national pride – has not recovered from the cattle specially bred in the region and lost either to the fighting or in the attempt to flee the region. 25 The loss is not insignificant for the refugee and internally-displaced person population, and the change in soil and weather condition has left their agriculture specialists crippled economically. 26 Forbes Magazine recently ranked Armenia the second-worst economy in the world, just ahead of Madagascar. Found at http:// www.forbes. com/sites/danielfisher/2011/07/05/the-worldsworst-economies. 27 The illegality of aggressive war under international law is addressed in Part II of this series. 28 Armenia has calculated the damages to Armenians fleeing the conflict or expelled at roughly 8 percent of Azerbaijan’s value, or USD70 billion, and has made a claim of that amount to Azerbaijan. 29 The accuracy of this calculation and other calculations herein is beyond the scope of this paper, and is provided purely for discussion.

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General assembly adopts resolution reaffirming territorial integrity of Azerbaijan, demanding withdrawal of all armenian forces Seriously concerned that the armed conflict in and around the Nagorny Karabakh region of Azerbaijan continued to endanger international peace and security, the General Assembly today reaffirmed Azerbaijan’s territorial integrity, expressing support for that country’s internationally recognized borders and demanding the immediate withdrawal of all Armenian forces from all occupied territories there. By a recorded vote of 39 in favour to 7 against (Angola, Armenia, France, India, Russian Federation, United States, Vanuatu), with 100 abstentions, the Assembly also reaffirmed the inalienable right of the Azerbaijani population to return to their homes, and reaffirmed that no State should recognize as lawful the situation resulting from the occupation of Azerbaijan’s territories, or render assistance in maintaining that situation. (See annex for voting details.) At the same time, the Assembly recognized the need to provide secure and equal conditions of life for Armenian and Azerbaijani communities in the Nagorny Karabakh region, which would allow an effective democratic system of self-governance to be built up in the region within Azerbaijan. Introducing the draft resolution, the representative of Azerbaijan said he did not accept the argument that the text was unilateral and untimely. It had been prepared in accordance with international law and was impartial. It had been prompted by unfolding circumstances, both regionally and in-

ternationally, which had heightened concerns over the status of the settlement process. It was, therefore, apropos and timely. Meanwhile, he said, Azerbaijan was gravely concerned and alarmed at the lack of clear proposals from France, the Russian Federation and the United States, the co-chairs of the Organization for Security and Cooperation in Europe (OSCE) Minsk Group, under whose auspices talks had begun in 1992. The co-chairs had expressed in words their support for the objective of liberation for all the occupied territories and the return of the Azerbaijani population to Nagorny Karabakh, but by their deeds, they were trying to belittle that common endeavour. The co-chairs had no right to deviate from the principle of territorial integrity for the sake of their “notorious neutrality”, he stressed. Neutrality was not a position; it was the lack of one. There could be no neutrality when the norms of international law were violated. Neutrality under such conditions meant total disregard for those norms. Four Security Council resolutions adopted in 1993 demanded the immediate withdrawal of the occupying forces from Azerbaijan, while the General Assembly’s dispatch of a fact-finding mission to the territories in early 2005 had confirmed Armenian settlement there. Several delegates, speaking in explanation of position before the vote, expressed support for the text and for Azerbaijan’s just stance. They included the representative of Pakistan, who spoke on behalf of the Organization of the Islamic Conference (Oic), noting that the group had repeatedly called


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for the immediate, complete and unconditional withdrawal of Armenian forces from all the occupied territories, and for the peaceful resolution of the conflict on the basis of respect of territorial integrity and the inviolability of internationally recognized borders. Oic was deeply distressed by the plight of more than 1 million Azerbaijani displaced persons and refugees, and called for the creation of conditions for their safe return home. Also speaking before the vote, the representative of the United States noted that the Minsk Group co-chairs had jointly proposed to the two sides last November a set of basic principles for the peaceful settlement of the conflict. The proposal comprised a balanced package of principles currently under negotiation. Today’s resolution did not consider the proposal in its balanced entirety. Because of that selective approach, the three co-chairs must oppose that unilateral text, which threatened to undermine the peace process. However, he reaffirmed the negotiators’ support for the territorial integrity of Azerbaijan, and thus did not recognize the independence of Nagorny Karabakh. But, in light of serious clashes along the Line of Contact, which had occasioned loss of life, both sides must refrain from unilateral and excessive actions, whether at the negotiations table or in the field. Calling the resolution a “wasted attempt” to predetermine the outcome of the peace talks, Armenia’s representative said that was not how responsible members of the international community conducted the difficult but rewarding mission of bringing peace and stability to peoples and regions.

The co-chairs had found that the text did not help the peace talks; so had Armenia. Refugees and territories had been created by an Azerbaijan that had “unleashed a savage war against people it claims to be its own citizens”. Only when the initial cause was resolved would the fate of all the territories and refugees concerned be put right. Others speaking before the vote were the representatives of Slovenia (on behalf of the European Union), France, Uganda, Ukraine, China and Turkey. Speaking in explanation of position after the vote were the representatives of Indonesia, South Africa and Libya. Azerbaijan’s representative also spoke in exercise of the right of reply. The General Assembly will meet again at a date and time to be announced. Background The General Assembly met this morning to consider the situation in the occupied territories of Azerbaijan and to take action on a related draft resolution. Introduction of Text AGSHIN MEHDIYEV (Azerbaijan), introducing the draft resolution on the situation in the occupied territories of Azerbaijan (document A/62/L.42), said the conflict in and around the Nagorny Karabakh region of Azerbaijan had a long history. Qarabag (Karabakh in Russian) - both its mountainous (Nagorniy in Russian) and lowland parts, economically and politically linked -had always been a historic province in Azerbaijan. In antiquity and the early Middle Ages, the region had been part of a State known as Caucasian Albania, which

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had existed from the fourth century B.C. to the eighth century A.D. in the territory of present-day Azerbaijan. In 313, Christianity had been proclaimed a State religion in Albania. He noted that, in 1918, Azerbaijan had proclaimed independence and, guided by the principle of good-neighbourliness, handed over the Azerbaijani Iravan ( Yerevan) Province of the Republic of Armenia. Nevertheless, the newly established Armenian Government had raised claims to other territories, including Nagorny Karabakh, over which the Armenian Assembly had formally accepted Azerbaijani rule in 1919. During Soviet times, the Nagorny Karabakh region had enjoyed political, economic and cultural autonomy and had developed faster than Azerbaijan and Armenia as a whole. The present stage of the Armenian-Azerbaijani conflict dated back to the end of 1987, he noted. As a result of the repression carried out in Armenia, 220 Azerbaijanis had been killed, 1,154 wounded and approximately 250,000 expelled. That had been the last deportation of Azerbaijanis who for centuries had resided in the territory presently called Armenia. In early 1988, the Armenian Government had instigated a secessionist movement in the Nagorny Karabakh region, he said. In 1989, the Armenian Parliament, in total contradiction to the Constitution of the Union of Soviet Socialist Republics, had adopted a decree on “Reunification of the Armenian SSR and Nagorny Karabakh”. In continuation of those steps, Armenia, with the support of foreign troops and the direct participation of international mercenaries and terrorist groups, had unleashed a full-

scale military operation that had led to the occupation of the Nagorny Karabakh region and seven adjacent districts. That occupation had been accompanied by a policy of ethnic cleansing. As a result, more than 1 million Azerbaijanis had become refugees and internally displaced persons. He recalled that, in response to the occupation of the Azerbaijani territories and alarmed by the severe humanitarian catastrophe, the Security Council had adopted four resolutions in 1993 demanding the immediate, complete and unconditional withdrawal of the occupying forces. Negotiations under the Organization for Security and Cooperation in Europe (Osce) Minsk Group had begun in 1992, and Armenia had been the only one of the 54 participating Osce States that had not accepted the principles proposed as the basis for settlement of the conflict. Moreover, Armenia had sought to consolidate the occupation through illegal activities. It had falsified history and misappropriated the cultural and architectural heritage of all the occupied territories. Further, it had launched an outrageous policy of massive illegal settlement of Armenians in the occupied territories. Having included the item on its agenda, the General Assembly had considered it in 2004, as a result of which the first ever fact-finding mission had been dispatched to the occupied territories in early 2005, he said. The mission had confirmed the facts of Armenian settlement in the occupied territories. The mission had become feasible, owing to the Assembly’s “just and right approach to the grave concern articulated by Azerbaijan”. In a dangerous development, massive fires


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had occurred in 2006 in the eastern part of the occupied territories, where the Azerbaijani population would eventually return, he said. The most dangerous development, however, had occurred on 4 March 2008, when the Armenian occupying forces had grossly violated the ceasefire regime, resulting in five casualties on the Azerbaijani side and 27 on the Armenian side. That Armenian-led provocation had clearly been intended to divert attention from the tense situation in the country. The use of force had become a traditional method of Armenia’s foreign and domestic policy. He said his country had always conducted negotiations in good faith, whereas Armenia used negotiations as a cover for its illegal activities. The talks were built on the clear stance of the full restoration of Azerbaijan’s territorial integrity and sovereignty, which were both indisputable and non-negotiable, both from the legal and political view, and deserved support in the framework of the negotiations and the draft resolution. The final settlement stage envisaged a peaceful and prosperous region, where the Azerbaijani and Armenian populations of Nagorny Karabakh would live in friendship and security within the Republic of Azerbaijan. To arrive at that point, the consequences of the conflict must be eliminated. That meant the withdrawal of the occupying forces from all occupied territories and the return of internally displaced persons. Transport and communication links should also be restored. Meanwhile, Azerbaijan was gravely concerned and alarmed at the lack of clear proposals from the co-chairs of the Minsk Group, he said. In words they expressed

support for the objectives of liberation for all the occupied territories and the return of the Azerbaijani population to Nagorny Karabakh, but in deeds they were trying to belittle that common endeavour. The cochairs had no right to deviate from the principle of territorial integrity for the sake of their “notorious neutrality”. Neutrality was not a position; it was a lack of one. There could be no neutrality when the norms of international law were violated. Neutrality under those conditions meant total disregard for those norms. He concluded by describing as unacceptable the argument that the draft resolution was unilateral and untimely. The text had been prepared in accordance with international law and it was impartial. It had been prompted by the unfolding circumstances, both regionally and internationally, which had heightened concerns over the status of the settlement process and, therefore, was apropos and timely. Action on Text The representative of Slovenia, speaking in explanation of position before the vote on behalf of the European Union, said that, while recognizing the right of Member States to bring issues to the attention of the General Assembly for consideration, the Minsk Group should retain the lead in settling the Nagorny Karabakh conflict. The European Union reiterated its support for all the principles, without exception, set up within the Minsk Group, and valued the views of the Group’s co-chairs. She said the settlement of Nagorny Karabakh dispute was an important part of the Union’s European Neighbourhood Pol-

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icy and featured prominently in the related action plans. The European Union was ready to support all steps that contributed to a peaceful resolution of the conflict, and called on the parties concerned to avoid any actions that could lead to heightened tensions and undermine the ongoing mediation efforts. The representative of the United States said the political-level representatives of France, the Russian Federation and the United States, as co-chairs of the Osce Minsk Group dealing with the Nagorny Karabakh conflict, had jointly proposed to the two parties a set of basic principles for the peaceful settlement of the conflict, on the margins of the Osce Ministerial Council in Madrid in November 2007. Those basic principles were founded on the provisions of the Helsinki Final Act, including those related to refraining from the threat or use of force, the territorial integrity of States and the equal rights and self-determination of peoples. The proposal transmitted to the two sides comprised a balanced package of principles currently under negotiation. The sides had agreed that no single element was agreed until all elements were agreed by the parties. Unfortunately, the draft resolution before the Assembly selectively propagated only certain of those principles to the exclusion of others, without considering the cochairs’ proposal in its balanced entirety, he said. Because of that selective approach, the three co-chairs must oppose the unilateral draft resolution. They reiterated that a peaceful, equitable and lasting settlement of the Nagorny Karabakh conflict would require unavoidable compromises by the par-

ties, reflecting the principles of territorial integrity, non-use of force, equal rights of peoples and other principles of international law. He said that, while the co-chair countries would oppose the unilateral draft resolution, which threatened to undermine the peace process, they reaffirmed their support for the territorial integrity of Azerbaijan and, thus, did not recognize the independence of Nagorny Karabakh. At a time when serious clashes had occurred along the Line of Contact, occasioning loss of life, both sides must refrain from unilateral and excessive actions, either at the negotiations table or in the field. The representative of France said he would vote against the draft resolution unilaterally presented by Azerbaijan, although his delegation fully supported the common position of the European Union on the question of the Nagorny Karabakh conflict. The representative of Pakistan, speaking on behalf of the Organization of the Islamic Conference (Oic), said the group had a long-standing, principled and firm position concerning Armenia’s aggression against Azerbaijan, and had articulated its full support for the latter’s just stance in relevant Oic declarations, communiqués and resolutions at the summit and ministerial levels. At their May 2007 session, Oic foreign ministers had reiterated their condemnation of Armenia’s continuing aggression against the sovereignty and territorial integrity of Azerbaijan, which constituted a blatant violation of the principles of the United Nations Charter and international law. They had called for the immediate, complete and unconditional withdrawal of Armenian


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forces from all the occupied territories and for the peaceful resolution of the conflict on the basis of respect for territorial integrity and the inviolability of internationally recognized borders. He also expressed support for the Azerbaijan Government’s efforts to remove obstacles to the peace process, such as the illegal transfer of settlers of Armenian nationality to the occupied territories, the alteration of geographic, cultural and demographic practices, unlawful economic activity and exploitation of natural resources in the occupied territories of Azerbaijan. OIC demanded that Armenia stop those activities, as well as the continued destruction of Azerbaijan’s cultural and historical heritage, including Islamic monuments. OIC was deeply distressed by the plight of more than 1 million Azerbaijani displaced persons and refugees from the occupied territories, and called for the creation of conditions for their safe, honourable and dignified return home. Expressing deep concern over Armenia’s efforts to consolidate the status quo of occupation, particularly its continued illegal settlement of Armenians in the occupied territories, he said they undermined and prejudiced a negotiated settlement. OIC supported the efforts of the Osce Minsk Group and bilateral consultations between the two parties to settle the conflict peacefully. The parties were expected to negotiate in good faith, and OIC called on the international community to support the peace process, steering it clear of impediments and a possible stalemate. The representative of Uganda, aligning himself with the statement by Pakistan, said his

country firmly believed in a peaceful settlement of disputes between States and was a fervent supporter of the principle of inviolability of the sovereignty of States and respect for territorial borders, in accordance with the United Nations Charter. If there was any departure from those principles, it must be well grounded in international law. Uganda saw no justifiable departure in the present case; Azerbaijan had been a victim. Uganda, therefore, supported the draft resolution, which was also in line with Security Council resolutions, and would vote “yes”. The representative of Ukraine said today’s discussion once again highlighted the problem of protracted conflicts in the territories of Azerbaijan, the Republic of Moldova and Georgia. They remained major impediments to the democratic and economic development of those States. It was of vital importance that the international community continue to take practical steps to help settle the conflicts based on unconditional recognition of the territorial integrity of those countries. He said each of those conflicts had their own history and nature, and therefore, settlement mechanisms should differ, but have a strong basis in the clear adherence to human rights. Ukraine strongly rejected attempts to connect the case of Kosovo to the conflicts in the territories of Azerbaijan, the Republic of Moldova and Georgia. At the same time, Ukraine consistently supported the Minsk Group regarding settlement of the conflict, he said, noting further that the Minsk process had not been exhausted. Azerbaijan and Armenia should demonstrate flexibility and not undermine the possibilities for a settlement.

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The representative of China, expressing serious concern over the question of Nagorny Karabakh, said he respected and supported Azerbaijan’s sovereignty and territorial integrity, as well as the international community’s efforts to promote the peaceful settlement of the conflict. The situation was complex and sensitive. It had a direct bearing not only on the relationship between Azerbaijan and Armenia, but also on peace and stability in the entire Caucasus region. He said his country had always advocated the settlement of disputes through peaceful negotiations, and had hoped the two countries would pursue talks, in accordance with the Charter and in the context of the Minsk Group. China supported the co-chairs’ continued efforts to play a constructive role, and hoped the three would continue seeking to bring the two parties together for an earnest and in-depth dialogue, leading to a breakthrough in negotiations. The representative of Turkey, aligning himself with Oic, pointed out that there was an ongoing peace process within the Minsk Group framework. While there were concerns that the United Nations might cause some “deviation”, it should not be forgotten that the foundations of the Minsk process were indeed embedded in the United Nations Charter. Thus, it was difficult to understand how the United Nations could derail a process that the Organization had helped bring to fruition in the first place. He said everyone should support the draft resolution as a means towards that goal, turning it into an opportunity, rather than a distraction. Everyone should remain com-

mitted to the Minsk Group framework. As for timing, Turkey begged to differ with the argument that the text might blur the assessment of the co-chairs. If it was a critical time in the Minsk process, then there could be no better occasion for the General Assembly to extend its support for the early and peaceful settlement of the 16-year-old conflict. The draft resolution sufficiently addressed the core of the predicament. After all, the problem was essentially one of occupation, as close to 20 per cent of Azerbaijan’s territory was occupied. The representative of Armenia said it was unprecedented for a draft resolution to be put to the vote without there having been any consultations on it, in cynical disregard of the foundation of the United Nations and every other organization. The purpose of the drafters had never been to encourage or facilitate discussion. It was simply a way for Azerbaijan to list its wishes on a piece of paper. If the intention had truly been to contribute to the success of ongoing negotiations, Azerbaijan would have put its energy into the existing Minsk Group negotiation format. He said that, after Azerbaijan had militarized the conflict 20 years ago, there had been a full-scale war between Armenians of Nagorno Karabagh and Azerbaijan. The result was thousands dead, nearly 1 million refugees and lost territories on both sides. Today, there was a self-maintained ceasefire and negotiations under the auspices of the Minsk Group. Despite that and attempts by Azerbaijan to divert from the peace process, the talks were indeed moving forward. There was now a negotiating document on the table that addressed all


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fundamental issues, security being foremost among them. The Minsk Group cochairs had presented the latest version to the two sides at the Osce Ministerial Meeting in Madrid. Yet, Azerbaijan risked sabotaging that process by presenting a draft that ignored fundamental international norms and the real issues, which must be addressed, he continued. In short, the draft was counterproductive. It called for the immediate and unconditional withdrawal of armed forces, while ignoring the security vacuum that would result. Who would be responsible for the security of the population of Nagorno Karabagh, which was already vulnerable, in the absence of “international cover” safeguarded by those very armed forces? The draft also called for self-governance within Azerbaijan, he noted. That had become impossible 20 years ago and was not possible today, when the security of the Armenian minority was clearly endangered. The international community had demonstrated that it understood that, in various conflicts around the world. The Government of Azerbaijan had forfeited its right to govern people it considered its own citizens when it had unleashed a war against them 20 years ago. Armenians would not return to such a situation. Just as victims of domestic violence were not forced back into the custody of the abuser, the people of Nagorno Karabagh would not be forced back into the custody of a Government that sanctioned pogroms against them, and later sent its army against them. Noting that the draft also asked for commitment by the parties to humanitarian

law, he questioned their commitment to the non-use of force, the peaceful resolution of disputes and all the other provisions of the Helsinki Final Act. The draft talked about territories and refugees, but not how the consequences of the conflict would be resolved if the original cause was not addressed. Refugees and territories had been created by an Azerbaijan that had “unleashed a savage war against people it claims to be its own citizens”. Only when the initial cause was resolved would the fate of all the territories and refugees in question be put right. The draft was a “wasted attempt” to predetermine the outcome of the peace talks, he said. That was not how responsible members of the international community conducted the difficult but rewarding mission of bringing peace and stability to peoples and regions. The co-chairs had found that today’s text did not help the peace talks. Armenia also knew it would undermine the peace process and asked other delegations not to support it. Taking action on the draft resolution, the Assembly adopted the text by a recorded vote of 39 in favour to 7 against (Angola, Armenia, France, India, Russian Federation, United States, Vanuatu), with 100 abstentions (see annex). The General Assembly President then stated that, under Article 19 of the Charter, Paraguay’s vote would not be recorded today. The representative of Indonesia, speaking in explanation of position after the vote, said he had voted in favour of the text because it reaffirmed Charter principles and objectives in addressing the conflict; it sup-

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ported the peaceful settlement of the conflict and underlined the principles of respect for territorial integrity and the inviolability of internationally recognized State borders. It was to be hoped that the adoption of the resolution would contribute to the intensifying of efforts to achieve a settlement that was acceptable to both sides and in accordance with international law. Indonesia continued to support the mediation efforts within the framework of the Minsk Group, as well as bilateral consultations between the parties. Both parties should remove obstacles to the peace process. The representative of South Africa said his delegation had abstained from voting on the resolution because it supported the efforts of the Minsk Group towards the settlement of the dispute between Azerbaijan and Armenia, specifically the “Basic Principles for the Peaceful Settlement of the Nagorny Karabakh Conflict”. As a member of the United Nations, the Non-Aligned Movement and the African Union, South Africa affirmed the territorial integrity of States and took note with concern of the latest developments in the region, specifically the outbreak of violence between the two sides on 4 March. The parties should return to negotiations based on the norms and principles of international law. The representative of Libya, having also voted in favour, said he supported countries under the yoke of occupation and the right of refugees to return. Libya had hoped that the parties would have reached agreement, but the international community had been asked to pronounce itself on the item. The will of the international community should

be supported, as should the principles of national sovereignty and territorial integrity. Flowing from the draft, the two parties should overcome obstacles through direct negotiations, respecting international law and international humanitarian law. Right of Reply The representative of Azerbaijan emphasized the utmost importance of the resolution, which had been adopted despite the efforts of some Member States. The text indicated Member States’ firm stance. It was timely, constructive, balanced and based on international law. It provided the population of the Nagorny Karabakh region with the possibility of self-rule and the territorial integrity of the State to which it belonged, as well as the right of return and the withdrawal of all occupying forces. It also supported mediation efforts and made clear to Armenia that settlement of the conflict could only be achieved on the basis of Azerbaijan’s territorial integrity. He said the Armenian side and those supporting it must understand that negotiations could continue only on the basis of international law, and the status of Nagorny Karabakh could only be defined at the level of international law. As long as Armenia continued to dictate its will, proceeding from a fait accompli that sought to tear the region away from Azerbaijan, it would not achieve peace with Azerbaijan. There could be no talks on the basis of a fait accompli; objective conditions must be created, such as relieving the territories of occupation, rehabilitating them and allowing the return of refugees. There was deep resentment over the posi-


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tion of the Minsk Group co-chairs, who had voted against the resolution, since the text had been drafted carefully on the basis of the settlement they had repeatedly assured that they would pursue, he said. However, the co-chair’s draft contained more disagreements than clarity. Azerbaijan had taken note, however, of the co-chair’s support for continuing the process and expected them to work towards a draft on basic principles, which would take today’s resolution into account. Azerbaijan would continue to be guided by the principles adopted in the resolution and by the draft on basic principles. Annex Vote on Occupied Territories of Azerbaijan The draft resolution on the situation in the occupied territories of Azerbaijan (document A/62/L.42) was adopted by a recorded vote of 39 in favour to 7 against, with 100 abstentions, as follows: in favour: Afghanistan, Azerbaijan, Bahrain, Bangladesh, Brunei Darussalam, Cambodia, Colombia, Comoros, Djibouti, Gambia, Georgia, Indonesia, Iraq, Jordan, Kuwait, Libya, Malaysia, Maldives, Moldova, Morocco, Myanmar, Niger, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Saudi Arabia, Senegal, Serbia, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Turkey, Tuvalu, Uganda, Ukraine, United Arab Emirates, Uzbekistan, Yemen. Against: Angola, Armenia, France, India, Russian Federation, United States, Vanuatu. Abstain: Albania, Algeria, Andorra, Antigua and Barbuda, Argentina, Australia, Austria, Bahamas, Barbados, Belgium, Bolivia, Bosnia and Herzegovina, Botswana, Brazil,

Bulgaria, Cameroon, Canada, Chile, China, Congo, Costa Rica, Croatia, Cyprus, Czech Republic, Democratic People’s Republic of Korea, Denmark, Dominican Republic, Ecuador, Egypt, El Salvador, Equatorial Guinea, Estonia, Finland, Germany, Ghana, Greece, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Hungary, Iceland, Ireland, Israel, Italy, Jamaica, Japan, Kazakhstan, Kenya, Latvia, Liberia, Liechtenstein, Lithuania, Luxembourg, Madagascar, Malta, Mauritius, Mexico, Monaco, Mongolia, Montenegro, Mozambique, Namibia, Nepal, Netherlands, New Zealand, Nicaragua, Norway, Panama, Papua New Guinea, Peru, Philippines, Poland, Portugal, Republic of Korea, Romania, Saint Lucia, Samoa, San Marino, Singapore, Slovakia, Slovenia, Solomon Islands, South Africa, Spain, Sri Lanka, Suriname, Swaziland, Sweden, Switzerland, Thailand, The former Yugoslav Republic of Macedonia, Timor-Leste, Togo, Trinidad and Tobago, United Kingdom, Uruguay, Venezuela, Zambia. Absent: Belarus, Belize, Benin, Bhutan, Burkina Faso, Burundi, Cape Verde, Central African Republic, Chad, Côte d’Ivoire, Cuba, Democratic Republic of the Congo, Dominica, Eritrea, Ethiopia, Fiji, Gabon, Guinea, Guinea-Bissau, Iran, Kiribati, Kyrgyzstan, Lao People’s Democratic Republic, Lebanon, Lesotho, Malawi, Mali, Marshall Islands, Mauritania, Micronesia (Federated States of), Nauru, Palau, Paraguay, Rwanda, Saint Kitts and Nevis, Saint Vincent and the Grenadines, Sao Tome and Principe, Seychelles, Syria, Tajikistan, Tonga, Tunisia, Turkmenistan, United Republic of Tanzania, Viet Nam, Zimbabwe.

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Minuta LA STORIA

Porzûs, una storia da raccontare Intervista a Tommaso Piffer di Angelica Stramazzi ESTERI

...e sui marò non facciamo gli indiani Intervista a Luigi Di Stefano di Giovanni Basini POLITICA E CITTADINI

Con l’Imu le tasse aumentano, ma i servizi? Francesca Siciliano RUBRICA Land of the free

La fatica dei repubblicani Giampiero Ricci



Intervista a Tommaso Piffer di Angelica Stramazzi

Porzûs, una storia da raccontare È arrivato il momento che anche in Italia le storie, anche quelle più difficili da accettare, vengano alla luce e quindi raccontate. L’antifascismo non deve aver paura di confrontarsi con i propri errori, e i giovani devono avere la possibilità di conoscere tutti gli aspetti di quegli anni tormentati. 220

Utilizzare la forza per eliminare fisicamente i nemici del popolo: questo il denominatore comune che ha unito stragi, vendette, rivalse ed eccidi del secolo scorso. Una costellazione di casi dimenticati, relegati negli angoli più bui della memoria e per questo sottoposti all’inevitabile destino dell’oblio, del non ricordo. Tommaso Piffer nel volume “Violenza e Resistenza sul confine orientale”1 ricostruisce la tragica vicenda delle malghe di Porzûs. Dott. Piffer, l’eccidio di Porzûs fu il più grave episodio di conflitto interno alla Resistenza italiana. Cosa realmente accadde in quel lontano 7 febbraio 1945?

Quel giorno un commando di Gap comunisti attaccò a sorpresa l’avamposto delle formazioni Osoppo, di orientamento cattolico

e azionista, che era stanziato alle malghe di Porzûs. Uccisero subito il comandante, il vicecomandante e il delegato politico, e nei giorni successivi anche tutti gli uomini che erano stati catturati in quell’occasione. L’eccidio aveva radici profonde, di natura sia ideologica che nazionale: la contrarietà delle formazioni Osoppo al progetto di trasformazione sociale del quale erano portatori i comunisti, e la loro ferma opposizione ai progetti di annessione di quelle terre da parte dei partigiani jugoslavi, che erano invece appoggiati dai garibaldini. Cosa collega l’eccidio di Porzûs alla vicenda delle foibe?

Entrambi gli episodi nascono dalla stessa logica: l’utilizzo della forza per l’eliminazione fisica di chi vie-


LA STORIA

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Intervista a Tommaso Piffer di Angelica Stramazzi

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ne etichettato come un “nemico del popolo”: in pratica, di tutti coloro che non si riconoscono nel progetto comunista. Da questo punto di vista l’eccidio rispecchia più la logica jugoslava, dove Tito scatenò fin da subito una guerra civile per la presa del potere, che quella italiana, dove il Pci, seguendo le indicazioni di Stalin, aveva scelto la via della collaborazione con le altre forze antifasciste. Anche se c’è da dire che in alcune zone d’Italia, penso ad esempio all’Emilia, nel dopoguerra si assiste al dispiegarsi della stessa logica, con lo scoppio di una guerra civile strisciante che si protrarrà fino al 1948. Veniamo quindi al libro pubblicato di recente dal Mulino e che Lei ha curato. Da cosa nasce l’idea del testo e che difficoltà ha riscontrato nel trattare una vicenda che ancora oggi molti ignorano?

Il volume raccoglie alcune delle relazioni, rielaborate e approfondite dagli autori, presentate nel corso di un convegno su Porzûs tenutosi a Udine nel febbraio del 2010. Lo scopo del convegno, e quindi anche del libro, è stato quello di chiedere una riflessione su questo tema particolarmente delicato a storici di estrazione culturale tra loro diversa, ma accumunati da una stessa passione per la ricerca storica senza pregiudizi. Non si tratta di un lavoro sempre semplice perché, come ho cercato di mettere in luce anche nella prefazione al vo-

Il Libro Alla ricerca della verità Tommaso Piffer Porzûs Il Mulino 2012, 168 pp., 15 euro Nel febbraio del 1945 si consumava ad opera di un commando di Gap comunisti l’eccidio di 20 partigiani delle formazioni «Osoppo» stanziate sul confine orientale: si trattò del più grave e sanguinoso scontro interno alla Resistenza italiana. Nei decenni successivi le responsabilità morali e materiali dell’eccidio sono state al centro di un infuocato dibattito politico e storiografico, soprattutto per quanto riguarda il ruolo del Partito comunista italiano e i suoi rapporti con la Resistenza jugoslava. Negli ultimi anni il tema è tornato nuovamente al centro dell’attenzione anche in seguito alla proposta di attribuire lo status di monumento nazionale delle Malghe di Porzûs, dove avvenne la strage. L’intento di questo volume è duplice: da una parte fare il punto sulle più recenti acquisizioni della storiografia sull’eccidio e più in generale sul tema degli scontri interni alla Resistenza italiana, con particolare riferimento alla zona del confine orientale; dall’altra riflettere sulle categorie fin qui utilizzate per analizzare la storia della Resistenza italiana, e sul rapporto tra antifascismo, anticomunismo e democrazia.


LA STORIA

lume, le perduranti polemiche di natura molto ideologica sulla Resistenza italiana spesso restringono lo spazio di chi desidera sottrarre i propri studi dalla disputa politica contingente. A questo proposito, occorre domandarsi la ragione – o le ragioni – che ha condotto in questi anni a far sì che molte vicende, interne a guerre internazionali, venissero sottaciute o troppo spesso dimenticate. Perché è accaduto ciò secondo Lei?

Le ragioni sono diverse, relative ai singoli episodi storici. Il tema degli scontri interni all’antifascismo ad esempio è stato passato per lungo tempo sotto silenzio perché metteva in crisi una rappresentazione della Resistenza, affermatasi soprattutto a partire dagli anni Settanta, che poneva l’accento sull’unità di questa esperienza. L’eccidio di Porzûs invece metteva in discussione l’immagine di un partito comunista strenuo difensore dell’interesse nazionale. In generale, la mistificazione della storia è sempre il frutto dell’attaccamento a interessi e rappresentazioni ideologiche più che alla verità dei fatti. Oggi il clima storiografico e politico comunque è molto diverso, e si possono discutere più serenamente fatti come quello di Porzûs. L’annunciata visita del presidente Napolitano alle Malghe di Porzûs è da questo punto di vista un evento straordinariamente importante, segno del fatto che certi steccati ideologici sono venuti definitivamente meno.

È significativo il fatto che giovani ricercatori e professori di Storia Contemporanea , tra cui possiamo annoverare anche Lei, stiano contribuendo con i loro lavori a ricostruire una memoria storica che in passato è stata volutamente frammentata. Cosa vi spinge a non tacere e a sensibilizzare l’opinione pubblica su determinate tematiche?

Certamente il venir meno di certe contrapposizioni politiche ha molto aiutato la ricerca. Nessuna circostanza storica però può impedire la ricerca appassionata della verità, e questo è vero adesso come lo era prima. Il ricercatore naturalmente si muove sempre partendo da un’ipotesi, che nasce dalle innumerevoli circostanze personali della sua storia e dei suoi studi precedenti. Ma poi si trova davanti alla necessità di modificarla quando questa non trova riscontro nei dati che raccoglie durante la ricerca. Qui entra in gioco l’onestà intellettuale di chi studia, e resto convinto che in definitiva la verità conviene sempre, anche quando non corrisponde agli schemi e alle rappresentazioni ideologiche che ognuno di noi ha. La sensibilizzazione dell’opinione pubblica ha a che fare con gli strumenti che poi ognuno sceglie per comunicare i risultati del suo lavoro, ma il cuore della ricerca è questo incontro tra l’ipotesi del ricercatore e la realtà. Come mai la politica non riesce a superare i vecchi steccati ideologici e a proporre sé stessa come custode ed interprete della nostra memoria?

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Intervista a Tommaso Piffer di Angelica Stramazzi

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La ragione mi sembra risieda in una concezione della politica come difesa di interessi particolari e non come servizio al bene di tutti. A quel punto è evidente che ciò che prevale è la contrapposizione ideologica. Per quanto riguarda il resto, invece, non sono convinto che compito della politica sia quello di essere custode e interprete della memoria: se la politica si limitasse a sostenere i tentativi di ricerca e studio che la società esprime sarebbe già abbastanza. Purtroppo spesso non fa neanche questo, e invece tenta di arruolare gli storici in uno o nell’altro schieramento: così facendo snatura sia la sua funzione che quella degli storici. Quale è la strada ancora da percorrere per avvicinare le giovani generazioni alla conoscenza di un pezzo di storia italiana spesso bypassata dagli stessi testi scolastici?

Studiare e scrivere. Il problema non è quello di contrapporre a una lettura ideologica un’altra lettura di segno opposto. In altri termini, è sacrosanto rilevare la faziosità di certi volumi, ma ancor più interessante mi parrebbe se chi ha a cuore la verità della storia ne scrivesse di meno faziosi. Da questo punto di vista, il lavoro non manca di certo. NOTE

1 Tommaso Piffer (a cura di) Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale, Collana Percorsi, Il Mulino 2012.

L’Intervistato

Nazionale.

tommaso piffer

È assegnista di ricerca di Storia contemporanea dell’Università degli Studi Milano e attualmente Visiting Scholar presso il Center for European Studies di Harvard. Ha pubblicato Il banchiere della Resistenza (Mondadori 2005), Gli alleati e la Resistenza italiana (Il Mulino 2009) e Società totalitarie e transizione alla democrazia. Saggi in memoria di Victor Zaslavsky (Il Mulino 2011, a cura di e con Vladislav Zubok).

l’autore angelica stramazzi Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Università di Perugia, collabora con Spinning Politics, testata on line di comunicazione politica. Corrispondente locale de La Provincia Quotidiano, svolge attività di consulente politico, occupandosi di comunicazione politica ed istituzionale.



Intervista a Luigi Di Stefano di Giovanni Basini

...e sui marò non facciamo gli indiani Errori nell’autopsia, analisi balistiche nemmeno iniziate e troppi punti oscuri in una vicenda che dobbiamo affrontare a viso aperto. Il governo italiano deve fare tutto ciò che è in suo potere per riportare a casa i nostri soldati.

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Luigi Di Stefano, perito di parte civile per vari tribunali in processi tecnicamente difficili, a cominciare dalla strage di Ustica, sul web è considerato da molti internauti italiani anche un grande divulgatore. Oltre alle pagine in cui racconta della strage di Ustica, sono suoi anche un sito informativo sugli attacchi dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono e, oggi, anche una dettagliata analisi tecnica dedicata alla vicenda dei marò trattenuti dalle autorità indiane dal 15 febbraio scorso, con una pesante accusa di omicidio. Ingegner Di Stefano, prima di entrare nel vivo della vicenda dei due marò, può dirci cos’è che l’ha portata ad occuparsi di questo caso?

Le discussioni sui forum, sul web.

Cominciavano a girare articoli dove il calibro del proiettile era quello dell'archibugio del bisnonno garibaldino. E se un commissario di polizia dichiara una cosa del genere, beh, incuriosisce. Lei con dovizia di dettagli conclude che i numeri dati dalla stampa sui proiettili sono incompatibili con l'armamento dei marò, tuttavia il sottosegretario De Mistura ha recentemente dichiarato che «se si evincerà che i marò non hanno sparato, ci sarà un’accelerazione della vicenda; se invece si dimostrerà che le pallottole sono italiane, è già pronta una strategia chiara. I marò erano a difesa della nave italiana, su cui sono imbarcati anche 19 marinai indiani». Come giudica questo porsi in modo equidistante, rispetto alla prova balistica, alla luce degli elementi citati nella sua rela-


ESTERI

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zione? Questa è prudenza diplomatica o un atteggiamento tiepido da parte del nostro governo?

De Mistura fa bene a lasciarsi una porta aperta. È prudenza diplomatica. Ma l’autopsia è stata eseguita il 16 febbraio – giorno successivo ai fatti – dall’anatomopatologo del tribunale indiano, professor Sasikala. Le misure del proiettile rilevate da Sasikala sono state rese note da un giornalista del Corriere della Sera che ha avuto accesso al referto e ha pubblicato le misure in un articolo del 3 marzo. Gli ho chiesto conferma e me l’ha data. Sasikala rende queste misure in forma non canonica (indica la circonferenza del proiettile e non il diametro), ma applicando una banale formula di geometria piana si risale al calibro, che è il 7,62 e non il

5,56. Prudenza va bene, ma i fatti vanno considerati per essere più incisivi. Sempre sul tema delle possibili interpretazioni delle prove balistiche De Mistura ha dichiarato che «al massimo ci sono elementi di fragilità tecnica. Ma trucchi no. È garantito dalla presenza di due esperti del Ros». Questo è sicuramente un dato rassicurante ma qui in patria ci chiediamo un po’ tutti se sia vero. Per quanto riguarda le tracce radar, ad esempio, lei che ci ha lavorato può dirci se le registrazioni sono inalterabili o se è possibile che gli indiani trucchino con successo i dati prima ancora che arrivino in possesso dei nostri esperti?

Non confondiamo. Finora risulta che siano state fatte solo delle prove di sparo coi fucili Beretta in do-


Intervista a Luigi Di Stefano di Giovanni Basini

tazione e sequestrati sulla nave Enrica Lexie. L’analisi balistica non è nemmeno incominciata. Questo apre un problema: le pallottole sparate dai Beretta dove stanno?

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Chi ne ha il controllo? Sono e rimangono di proprietà dello Stato italiano. Vede, la prova di sparo secondo gli standard internazionali si fa in un blocco di plastilina che di fatto replica un soft target (i tessuti del corpo umano) e permette di recuperare il proiettile integro. Ora siamo nella situazione che le autorità indiane dispongono esattamente di ciò che serve a dimostrare le loro accuse: i proiettili sparati dai fucili dei marò. Non un qualsiasi proiettile calibro 5,56 Nato, ma proprio i nostri! Qualsiasi tribunale a questo punto invaliderebbe la prova; se il proiettile è uscito dal controllo della controparte. E sui radar?

I tracciati radar semplicemente “non ci sono”, nessuno ne ha mai parlato. Dovrebbero esserci quelli delle Capitanerie di Porto, del comando della Guardia Costiera a Mumbay, delle navi militari in zona e delle navi commerciali. Certo che possono essere manipolati, ma se poi ne viene fuori qualcuno non manipolato – e soprattutto se escono “le benedette” fotografie satellitari – qualcuno si trova nei guai. Mi auguro che neanche ci si pensi.

Quindi il governo fa bene a essere prudente e facciamo bene anche noi a essere preoccupati. Non c’è alcuna sicurezza che i nostri marò vengano liberati, se non è certo che le prove siano al riparo da eventuali inquinamenti. Come si dovrebbe intervenire a suo avviso da parte italiana per consolidare le certezze tecniche sulla faccenda?

Dando mandato a uno studio legale indiano di acquisire i dati emersi finora e facendo chiedere alle autorità tutto quello che la difesa chiede di acquisire in questi casi, compresi tracciati radar, referti medici etc. Insomma: dimostrare che se si arriva al processo non ci limiteremo ad aspettare le decisioni. Tutto sarà pubblico e quasiasi manchevolezza da parte degli inquirenti e delle forze militari indiane sarà denunciata. È quello che ho iniziato a fare io, è pronto il sito internet, anche nella versione inglese, e cominceremo a confrontarci con i media e il pubblico indiano sugli elementi veri, i dati di fatto. E li convinceremo, prove alla mano, che contro i militari italiani qualcuno ha montato accuse campate in aria, mentre fin dal 16 febbraio le autorità avevano le prove che scagionavano i nostri militari. Sarà battaglia, fin da adesso. Anche noi di Charta Minuta continueremo a seguire la vicenda e, se fra tre mesi non dovessero ancora essere liberi, le chiederemo aggiornamenti per il prossimo numero. Possiamo contarci?

Sicuramente. E in chiusura vorrei citare una frase profetica di Sir


ESTERI

Winston Churchill, a monito di chi pensa che anche in questo caso convenga comportarci secondo gli schemi negativi del passato. Churchill commentava la decisione dei governi inglese e francese di accettare le pretese di Hitler allo smembramento della Cecoslovacchia, il Trattato di Monaco del 1938. Potevano scegliere fra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore, avranno la guerra.

Riferimenti Siti internet: Ustica: www.seeninside.net 11/9: http://www.seeninside.net/911/ Riassunto dell’analisi sul Sole 24 ore: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-25/lesperto-maro-indiahanno-143435.shtml Testo integrale dell'analisi: http:// www.seeninside.net/piracy/enricalexie_it.pdf

L’Intervistato

Nazionale.

Luigi di stefano

Ingegnere e imprenditore attivo nel settore del trattamento industriale dell’acqua, ha lavorato per l’Istituto nazionale di Fisica nucleare, per industrie militari nella fabbricazione di strumenti ottici ed è stato perito di parte civile per l’Italia al processo di Ustica. Perito giudiziario per la Procura di Ancona e perito di Parte civile in un incidente aereonautico.

l’autore Giovanni basini Già presidente di Alternativa studentesca, responsabile nazionale scuola di Forza Italia Giovani e dirigente nazionale dei Giovani del Pdl, ha contribuito alla fondazione dell’associazione Fareitalia, nel consiglio direttivo nella quale siede attualmente.

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Francesca Siciliano

Con l’Imu le tasse aumentano, ma i servizi? La nuova Ici da giugno peserà non poco per gli italiani, ma non sempre con le nuove imposte migliorano i servizi...

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Era il 1992 quando per la prima volta in Italia fu introdotta la tassa sugli immobili. Nacque per opera del governo tecnico di Giuliano Amato come Imposta straordinaria immobiliare (Isi) sul valore dei fabbricati e delle aree fabbricabili, ma già dall’anno successivo perse la straordinarietà prendendo il nome di Imposta comunale sugli immobili: Ici. Mentre l’Isi nella sua breve durata apportò direttamente il ricavato nelle casse statali (si pensi che nel 1992 l’Isi, insieme al prelievo sui conti correnti, generò un gettito di 11.550 miliardi di lire), l’Ici, introdotta nel 1993, divenne un’entrata a favore dei comuni, calcolata sul valore catastale del fabbricato con una percentuale fissa stabilita mediante apposita delibera del Consiglio comunale. Nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2006, Silvio Berlusconi nel suo programma parlò per la prima volta di abolire l’Ici sulla prima casa. Le elezioni fu-

rono vinte, però, dal centrosinistra e il governo di Romano Prodi, con la Finanziaria per il 2008, approvò un provvedimento che, pur non abolendo la tassa, ne aumentava le detrazioni esentando così di fatto il 40% delle famiglie italiane e riducendo il carico per le altre. A decorrere dal maggio 2008 Berlusconi, tornato al governo, con il suo esecutivo estese il provvedimento escludendo tutti i contribuenti dal pagamento dell’Ici sull’unità immobiliare adibita ad abitazione principale, fatta eccezione per le abitazioni signorili, le ville e i castelli: il minor gettito che ne derivò fu rimborsato ad ogni singolo comune con oneri a carico dello Stato. A distanza di circa tre anni, con l’acuirsi della crisi finanziaria internazionale e facendo un raffronto con il resto d’Europa, la Banca d’Italia rilasciò una dichiarazione che suonò come un de profundis: «Sarebbe necessaria una riflessione sull’opportunità di reintrodurre l’abitazione principale fra


POLITICA E CITTADINI

gli immobili soggetti a imposta. Le imposte sulla propietà immobiliare costituiscono il perno della fiscalità locale nella maggior parte dei paesi. Sotto questo profilo l’esenzione dall’Ici delle abitazioni principali costituisce, nel confronto internazionale, un’anomalia nel nostro ordinamento tributario». Dello stesso avviso è stato anche Mario Monti che, insediatosi con il suo esecutivo tecnico il 16 novembre 2011, nel corso del primo Consiglio dei ministri, ha manifestato la necessità di reintrodurre l’imposta sulla proprietà immobiliare. Ed ecco che, con la manovra “lacrime e sangue” varata nel dicembre 2011, tra i vari provvedimenti per salvare l’Italia dalla crisi finanziaria, è rispuntata la tassa sugli immobili anche se rinnovata nel nome: Imu Imposta municipale unica. Nonostante il governo abbia in più occasioni tenuto a precisare che l’Imu non sarà la vecchia Ici, gli italiani hanno avuto l’impressione di un dejavu, poiché nell’imposta municipale unica confluiranno, oltre la vecchia imposta comunale sugli immobili, anche quella sulla spazzatura e sui servizi comunali (la vecchia Irperf), con la quale le casse dello Stato saranno

rimpinguate per una cifra stimata intorno ai 22 miliardi di euro, ovvero due volte e mezzo rispetto a quanto si percepiva con l’Ici (9,7 miliardi). Di conseguenza, non più agevolazioni sull’acquisto della prima casa, con l’Imu si farà un passo indietro. Anzi due, visto che l’aliquota salirà al 7,6 per mille sulla prima casa, mentre per gli edifici non adibiti ad abitazione principali l’imposta aumenterà del 74%. Con la manovra “salva Italia”, inoltre, è stata introdotta una nuova tassa a carico di chi, risiedendo in Italia, possiede degli immobili all’estero: in questo caso si dovrà versare un’ulteriore imposta dello 0,76% del valore catastale dell’immobile. In seguito al varo della Finanziaria Monti, la questione che ha fatto più discutere l’opinione pubblica è stata la polemica scoppiata intorno al mancato pagamento dell’Ici da parte della Chiesa. Il D.L. del 1992, al quale ancora oggi si fa riferimento, recita: «Sono esenti dall’imposta gli immobili utilizzati dai soggetti che svolgono attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto, e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a sco-

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Francesca Siciliano

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pi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana». Sin dalla sua introduzione, quindi, la Chiesa ha sempre beneficiato dell’esenzione dall’Ici, nonostante la Corte di Cassazione in più di un’occasione abbia espresso parere negativo sulla vicenda. É noto, infatti, ciò che avvenne all’Aquila: a metà degli anni ‘90 il Comune dell’Aquila avviò un contenzioso contro l’Istituto delle suore del Sacro Cuore, intimando il pagamento dell’imposta per alcuni immobili utilizzati come casa di cura per anziani e come pensionato per studentesse universitarie. Ne scaturì una battaglia legale, durata oltre dieci anni, tra le religiose e l’amministrazione comunale, al termine della quale la Corte di Cassazione stabilì che l’attività delle suore non era di culto né di beneficenza ma commerciale, dal momento che sia gli anziani che le studentesse universitarie pagavano profumatamente. Il testo del D.L. era ambiguo, ma l’esenzione, stabilì la Corte, sarebbe dovuta spettare solo alle unità all’interno delle quali si svolge «un’attività effettivamente meritoria e legata al culto». Il governo Berlusconi nel 2005 modificò la legge, esentando dall’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica in cui si svolgevano anche attività commerciali, purché «connesse a finalità di religione o di culto»; l’anno successivo il governo Prodi modificò ulteriormente la rotta giocando sugli avverbi: sono esentati dall’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica (e degli «enti senza fini di lucro») destinati al culto e allo svolgimento di atti-

vità assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, culturali, ricreative e sportive purché «non abbiano esclusivamente natura commerciale». Il «non esclusivamente» affossò in maniera definitiva la questione, mantenendo inalterati i privilegi di tutti quei conventi trasformati in alberghi, case di riposo, cliniche, scuole private. E nonostante l’Europa abbia avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per l’esenzione dell’Ici a molti edifici ecclesiastici, Monti, appena insediatosi, non ha pensato immediatamente di reintrodurla affermando candidamente nel corso di una conferenza stampa: «La questione Ici sugli immobili della Chiesa è un provvedimento che non ci siamo posti». Il focolaio di polemiche ha incendiato media, opinione pubblica e classe politica. I vari esponenti dei maggiori partiti hanno chiesto di modificare le esenzioni e per la prima volta è stata presentata una mozione da parte di venti deputati del Pd. Per il Pdl si è espresso Denis Verdini:«Se fosse per me, che sono un laico, metterei l’Ici sulla Chiesa, o meglio su una parte di beni della Chiesa dedicati a usi commerciali e non religiosi». Della stessa opinione anche la governatrice del Lazio, Renata Polverini: «L’Ici è una tassa che deve ritornare per tutti». Il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini, ha stigmatizzato la «falsa polemica nata sul nulla che come tale va spenta»; tuttavia ha chiesto chiaramente che la Chiesa paghi l’Ici sulle attività commerciali, confermando invece l’esenzione nel caso si tratti di attività benefica. Più a


POLITICA E CITTADINI

sinistra, invece, un coro unanime che chiedeva l’abolizione: dalla vicepresidente del Senato Emma Bonino ad Antonio Di Pietro, a Nichi Vendola, tutti si sono indignati. E hanno stilato un elenco degli immobili appartenenti alla Chiesa e adibiti ad attività commerciali, che ammonterebbero a 30 mila, per un ricavato di circa 2 miliardi di euro. L’accordo raggiunto circa un mese fa tra la Chiesa e il governo è l’Imu “a percentuale”. Si prevede, perciò, il pagamento dell’Imu solo per le strutture “miste”, quelle in cui convivono sia l’aspetto religioso sia quello commerciale. Tale accordo, oltre a venire incontro alle richieste della società civile, servirà a chiudere come ha affermato il premier Monti, la procedura di infrazione dell’Unione europea, che definì l’esenzione alla Chiesa «un illegittimo aiuto di stato». Il ritorno dell’imposta sugli immobili, considerata la tassa più odiata dagli italiani, lascia presagire tempi difficili per il nostro paese, anche perché l’Europa è stata categorica definendo l’assenza dell’Ici «un’anomalia tributaria del nostro ordinamento». In Francia, ad esempio, le imposte sull’abitazione sono due: la tax fonciere e la taxe d’habitation; entrambe sono richieste dallo Stato, ma la seconda viene totalmente riversata ai comuni. In Gran Bretagna viene direttamente tassato l’acquisto di una casa e non vi è alcun tipo di Ici, ma esiste la council tax, un’imposta a sostegno dei servizi municipali per i rifiuti e la manutenzione stradale; l’aliquota è legata alla residenza –

non alla proprietà – e varia a seconda dell’appartamento in cui si abita. In Germania chi affitta una casa viene considerato un piccolo imprenditore e nonostante non vi siano tasse sugli immobili, esistono diverse imposte il cui ricavato viene destinato direttamente ai comuni. In Spagna c’è l’Ibi – Impuesto sobres Bienes Inmuebles – che varia in base al comune di appartenenza e grava tra lo 0,3% e l’1,1% del valore catastale dell’immobile. In Belgio c’è la Precompt immobilier ed è un’imposta che viene applicata su base regionale in riferimento al valore dell’immobile; nelle Fiandre è al 10%, a Bruxelles al 12%. Spostandoci oltre oceano, anche negli Usa, nonostante il fisco statunitense incentivi l’investimento immobiliare mediante una serie di incentivi e sgravi fiscali, i governi locali si avvalgono della Property tax, variabile da Stato a Stato, che si traduce in un’imposta tra lo 0,2% e il 4% del valore delle abitazioni. Non c’è speranza dunque: nel mondo gli immobili sono tassati e dovremo rassegnarci a pagare nuovamente l’odiato balzello. Speriamo solo che questo ennesimo sacrificio, che dovrebbe rimpinguare le anemiche casse dei comuni, ci dia in cambio servizi efficienti alla pari di quelli europei.

l’autore francesca siciliano Laureata in Scienze politiche, collabora con FareitaliaMag e Il Secolo d’Italia.

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RUBRICA

La fatica dei repubblicani DI GIAMPIERO RICCI*

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Dick Armey e Matt Kibbe sono i coautori di Give us Liberty: A Tea Party Manifesto, 2010, William Morrow, 272 pag., testo grazie al quale i due leader di FreedomWorks, associazione che si batte all'interno del circuito dei Tea Party per il rispetto negli Usa dei limiti costituzionali posti al governo ed all’imposizione fiscale, sono riusciti a salire all’attenzione del movimento che ha scosso e scuote le viscere del sistema politico statunitense. I Tea Party sono infatti riusciti in breve tempo a qualificarsi all’attenzione soprattutto delle giovani generazioni quale movimento trasversale senza velleità di diventare partito tradizionale. L’ endorsment dei Tea Party per un candidato repubblicano o democratico significa voto giovane, certificato di disinteresse a ricoprire la carica per scopi personali, coerenza alla causa che nel caso specifico è quella del ripristino delle condizioni costituzionali di limite all’intervento pubblico, significa riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti naturali: vita, libertà, proprietà. Sebbene il movimento dei Tea Party sia piuttosto e volutamente sfaccettato nella sua configurazione, esso è costituito per

l’appunto da una serie di associazioni come FreedomWorks, da liberi pensatori influenti, giornalisti dalla discreta visibilità, intellettuali, giovani e vecchi politici accomunati da un estremismo libertario vissuto con intransigenza in nome della filosofia che animò i Padri Fondatori del paese a stelle e strisce che su di essa poggiarono le fondamenta costituzionali che dovevano regolare la nazione nata dalla ribellione all'Impero Britannico. Per via del manoscritto Give us Liberty, diventato un cult tra si sostenitori dei Tea Parties, Dick Armey, già leader della maggioranza repubblicana nella House tra il 1995 ed il 2003 ed il coautore Matt Kibbe, hanno raggiunto una popolarità tale tra gli attivisti del movimento, da venire considerati una sorta di guida morale per giudicare la coerenza con le ragioni del movimento di una scelta, di una posizione politica o anche solo di una candidatura alle primarie per un seggio al prossimo Congresso. Sì, perché i Tea Party sono più che altro interessati alla parte delle prossime elezioni che riguarda il rinnovo della Camera


LAND OF THE FREE

Il partito dell’elefantino, invece di rinnovare la propria offerta politica ed economica per battere il presidente Obama, si ostina sempre più a trovare volti nuovi e sorridenti fatti di cartone ma privi di spessore politico.

e del Senato, convinti come sono che solo con un Congresso autenticamente libertario sarà possibile riportare gli Stati Uniti sui binari della libertà e del progresso sui quali hanno corso per oltre due secoli di storia e quindi far uscire il paese dalla crisi strutturale che lo attanaglia sin dai giorni del credit crunch dell’agosto 2008. In un articolo apparso di recente su The Wall Street Journal a doppia firma di Armey e Kibbe (21/03), i due si chiedono per quale motivo, da qualche tempo, nel partito dei Repubblicani sia maturata una certa vocazione masochistica per cui si finisce per commettere sempre lo stesso errore. L’accusa verte sull’attitudine dell’establishment del partito dell’elefantino a voler selezionare come candidatura “forte” per le sfide nei seggi alle prossime legislative, personalità che si ritiene possano essere più commestibili dall’elettorato allargato e non solamente dalla propria base, uomini e donne che abbiano pensieri ed idee convenzionali, piuttosto che candidature che si facciano portatrici di programmi e visioni di lungo periodo ma che possano venire catalogati dal mainstream nazionale democratico con il marchio di infamia dell’estremismo. Il riferimento è quello del caso Arlen Specter, il senatore repubblicano (poi passato ai Democratici) che con il suo sessan-

tesimo voto ha consegnato al Presidente Obama la maggioranza al Senato necessaria per il passaggio della sua ObamaCare, la tanto voluta riforma della sanità. Arlen Specter era stato eletto nel 2004 in Pennsylvania, preferito nelle primarie a Pat Toomey, perché la burocrazia del partito non credeva che Toomey, troppo intransigente, potesse essere mai eletto in un seggio come quello della Pennsylvania, dove a loro parere serviva un politico navigato come Specter. Specter poi, si è dimostrato però, troppo navigato. Quanti casi Arlen Specter dobbiamo digerire prima che nel Gop si cominci ad andare nella giusta direzione? La domanda è questa ed è una di quelle domande dalla quale un partito, un movimento politico in crisi come quello dell’elefantino, non può evitare. Difficile non constatare come le più grandi vittorie ottenute nei seggi alle elezioni di mid term, sono arrivate proprio grazie agli outsider con il bollino dei Tea Party. Proprio Mr Toomey, poi Joh n Boozman in Arkansas, Rand Paul in Kentucky, Kelly Ayotte in New Hampshire e Rob Portman in Ohio, senza parlare della vittoria in Wisconsin di Ron Johnson contro il democratico Cook. Armey e Kibbe battono dove il dente duole.

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Il fatto è che da quando Barack Obama ha fatto irruzione sullo scacchiere politico nazionale archiviando un ventennio di fusionismo repubblicano di successo, nel partito più che chiedersi come rinnovare la propria offerta programmatica, a quale filosofia politico economica ispirarsi per continuare a dare una prospettiva di sviluppo al paese e quindi una motivazione alla propria base, ci si continua a chiedere su quale possa essere la faccia più bella e il politico più forte in un dibattito televisivo per mettere alla porta della Casa Bianca Obama. Un paradigma fallimentare naturalmente, giacché vuol dire accettare la sfida di Obama sul proprio terreno, ma un paradigma che nel caso specifico della selezione dei candidati per il Congresso si traduce nella ricerca del candidato più “presentabile” e “moderato”, scelta questa che è facile prevedere preluda ad una sconfitta. Una sconfitta probabile non perché la base repubblicana sia autenticamente costituita da una massa di individui anarchici che vuole solo pagare meno tasse e non sentirsi chiamata a responsabili sociali ma perché la stessa base, che costituisce il nerbo della classe media americana, non ne può più dei giochetti al Congresso, dell’annacquamento dei programmi, dei budget che aumentano, del deficit che sale, del debito che esplode come le tasse e dei soldi pubblici buttati nei bailout. La condiscendenza del Gop la volontà del partito di mediare con Obama viene letta come impotenza e demotiva gli attivisti nella propaganda pre-voto, negli States divenuta fondamentale per il successo. Non sappiamo se l’allarme di Armey e Kibbe possa essere utile a scuotere le co-

scienze e dare coraggio nelle scelte sulle candidature, se la corsa alle presidenziali alla luce delle candidature proposte, appare difficile, la partita sulle legislative è tutt’altro che conclusa. Di certo l’unica possibilità che ha il Gop di evitare che al secondo mandato l’inquilino di Pennsylvania Avenute riesca nel disegno di uno shifting in senso “europeo” della macchina statale americana è quella di un voto che lo renda un’anatra zoppa, ossia che il Gop, per lo meno sino alle prossime elezioni di mid term confermi la propria maggioranza alla Camera ed ottenga quella al Senato. Se così fosse a BHO non basterebbe più un sorriso per far curvare l’universo.

*Esperto di cultura americana


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