La Ciminiera 2020 n. 9

Page 1

la Ciminiera 1


PANDEMIA Ieri e Oggi Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali. Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute negli articoli è esclusivamente degli autori.

Anno XXIV Numero 9 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente Raoul Elia Progetto Grafico csbruttium.altervista.org Centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org Direzione, redazione e amministrazione CENTRO STUDI BRUTTIUM

Un barbiere all’aperto durante la pandemia di influenza spagnola. Stati Uniti, 1918

Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114 Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n. 7675 via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro tel. 339-4089806 - 347 8140141 www.centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org C.F. 97022900795 Stampa: pubblicato sul sito associativo: www.centrostudibruttium.org

Pandemia di coronavirus, Italia, 2020 2 la Ciminiera

DISCLAIMER: Le immagini riprodotte nella pubblicazione, se non di dominio pubblico, riportano l’indicazione del detentore dei diritti di copyright. In tutti i casi in cui non è stato possibile individuare il detentore dei diritti, si intende che il © è degli aventi diritto e che l’associazione è a disposizione degli stessi per la definizione degli stessi.


Anche questa estate è un ricordo e il nuovo mese si propone come una logica continuazione delle paure e angosce già sperimentate. La realtà che ci circonda, a volerla vivere a 360 gradi, è alquanto sconfortante. Nulla è più certo, tutto è precario e, su questa precarietà, la nostra bella Italia, nel momento che non dà più certezze, si prepara a situazioni estreme con personaggi, più o meno pubblici, che spargono odio e rancori come fossero petali di rosa. Una nuova fase, molto pericolosa, si sta preparando. Miseria e fame dei più si sta trasformando in rabbia e violenza, complici una politica e i suoi responsabili materiali, affaristi e nullafacenti ambiziosi, presuntuosi e di provata ignoranza e incapacità. Da si fatte situazioni, chi ha l’onere di difenderci come cittadini italiani? A chi spetta rassicurarci che possiamo ancora vivere nel nostro paese in pace? Nei tempi, anche attuali, tutte le nazioni hanno un esercito che è predisposto a questo, ma in Italia, da tempo, non si riesce più ad identificarne il ruolo, in considerazione del fatto che il Comandante Capo è da più di 30 anni il rappresentante di una sola parte degli Italiani, quella che ha il culto del politicamente corretto a tutti i costi, anche a costo della distruzione della cultura e delle tradizioni italiche. La stampa e i relativi giornali, pur dichiarandosi continuamente non di parte, rivelano continuamente la sua subalternità quasi a dar ragione a questa bellissima vignetta che allego. Siamo circondati da faziosità e false informazioni e noi, consapevoli di questo, ci rifugiamo nella nostra rivista che ancora ci fa emozionare ad ogni piccola ricerca culturale e che non propina nulla di falso o, peggio, costruito per plagiare il lettore. Leggete con piacere le pagine che seguono e abbiate il piacere dell’informazione vera e storicizzata, senza strumentalizzazioni alcune. Alla prossima.

MEGLIO NON AVER NOTIZIE CHE AVERLE FALSE E /O NON VERE!

la Ciminiera 3


SETTEMBRE, I IL MESE DELLA TRIADE CAPITOLINA di Daniele Mancini Settembre è il mese della Triade Capitolina, ma anche il mese sacro a POMONA, Signora dei Pomi d’Oro che offre all’Eroe Aurificato e questi, cogliendoli, li eleva al cielo nell’attuare la Divinizzazione Assoluta. Con la Cornucopia colma di frutti, la Dea inonda della pienezza del compimento il mondo e l’anima, avvicinandola alle divinità. Pomona è connessa anche a VERTVMNVS, nume del Reggimento del mutamento: Pomona ha un Flamen Pomonalis (un sacerdote predisposto al suo culto) con un santuario sulla via Ostiense, circondato da un bosco sacro, il Pomonal, sempre curato con amore e devozione dai fedeli. Nell’Equinozio d’autunno, la natura sembra arrestare il suo moto, il suo incessante divenire; nella Pax aurificata tutto tace e si tinge di rosso-aureo, gli ultimi frutti sono raccolti e custoditi nell’Hortvs Pomonalis, immagine della pienezza dell’Età Perfetta. Il ciclo solare giunge a compimento della sua fase diurna con l’ingresso in Bilancia, la costellazione polare originale, prima che il seme sia nuovamente affidato alla Terra, e si effettuano i riti di ringraziamento ed Apoteosi Divina. 4 la Ciminiera

Nel mese di settembre, durante l’Equinozio di Autunno, BOEDROMIONE, si celebrano a Eleusi i Grandi Misteri, dove si realizza l’EPOPTEIA, la Aphotheosis perfetta, espressione dell’Aurificazione del seme della spiga. Dopo il rosso dell’estate, ecco, dunque, l’Oro dell’Equinozio, l’Etere principale, la chiusura e la suprema ignificazione: la vita si ritira per un nuovo ciclo che nasce dai semi nuovi. E’ così che tutto il mese è sacro alla grande Triade capitolina, GIOVE, GIUNONE, MINERVA, espressione dell’esaltazione della Tri-Unità divina, potenze unificate nella trasfigurazione del mondo nel suo agire metafisico. Il solenne Epvlvm, il banchetto sacro in cui uomini e Dei sono riuniti, sancisce la divina ricomposizione della natura, la comunione della sostanza: l’identità dell’essenza, l’Evcaristia Divina, si compie nel fine implicito nella religione, la Pax Deorvm Hominvmque.


I giorni di Settembre più importanti per i Romani: 1 Settembre, Kalendae – FERIAE IOVI – Festa di Giove Tonante e Giove Libertas e Festa di Ivno, Regina sull’Aventino 2 S., IV Nonas – FERIAE EX S C QVOD EO DIE IMP CAES DIVI F AVGVSTVS APVD ACTIVM VICIT 3 Settembre , III Nonas – FERIAE EX S C QVOD EO DIE IMP CAES DIVI F AVGVSTVS VICIT IN SICILIA 4 S., Pridie Nonas – I LUDI PATRIZI hanno inizio. Processione maestosa con la Triade Capitolina 6 Settembre, VII Idvs – DIES RELIGIOSVS 8 S., VI Idvs – Natalis AVRELIANI 11 Settembre, III Idvs – Si propizia il dio Esculapio nel giorno dell’anniversario della dedica del suo tempio 13 S., Idvs – IOVI EPVLVM – Idi sacre a Giove Ottimo Massimo e si compie il solenne Epvlvm in onore della Triade Capitolina. Presiede il Senato 14 Settembre, XVIII Kalendas – DIES RELIGIOSVS EQVORVM PROBATIO 15 S., XVII Kalendas – LVDI IN CIRCO 18 Settembre, XIV Kalendas – Natalis TRAIANI 19 S., XIII Kalendas – Natalis PII ANTONINI 20 Settembre , XII Kalendas – Natalis ROMVLI 23 S., XII Kalendas – CONSVALIA – Flamine Qvirinale e Vestali propiziano CONSO per il grano raccolto e la pienezza dei semi. Sono praticate corse di muli nel Circo Massimo 23 Settembre, IX Kalendas – Dies Natalis Avgvsti. Anniversario della dedica dei tempi a Marte, Nettuno, Apollo, Latona, Giove Statore e Giunone nel Circo Flaminio 26 S., VI Kalendas – Anniversario della dedica del Tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare

Bibliografia consultata: R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992 G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 2001 J. Champeaux, La religione dei Romani, Bologna 2002 J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari 2003 A. Brelich, Calendari festivi, Roma 2011

la Ciminiera 5


Luca Signorell - Cappella di San Brizio Predica e punizione dell’anticristo

Di alfabeti universali, profezie da fine del mondo, informatica e altre quisquilie di cultura (?) generale

Di recente, è ricomparso una certa ambiguità di fondo: in rete il tema dell’alfabeto “Qui sta la sapienza. Chi ha universale, stavolta connesso intelligenza calcoli il numero al tema dell’Apocalisse e della bestia: essa rappresenta dell’Anticristo. un nome d’uomo. E tal cifra è 666”. La frase in corsivo è quella Pare, infatti, che, secondo la più ambigua e la traduzione trascrizione numerica in chiave tutt’altro che accettata ASCII del nome, ad essere unitariamente. rappresentato dal numero che, da film come Il presagio e Or dunque, chi potrebbe mai di Raoul Elia L’esorcista in poi, rappresenta celarsi dietro questo numero per tutti l’Anticristo (tra l’altro, emblematico? erroneamente, ma questa è un’altra storia) Da tempo immemore si tenta di interpretare ovvero il famosum 666, sarebbe proprio ed individuare questo fatidico “facilitatore” papa Francesco, al secolo Bergoglio. della fine del mondo e, di volta in volta, sono La traduzione del capitolo 13, versetto 18 stati identificati con il fatidico numero, per (nel brano che parla della “bestia che sale ragioni più o meno (più più che meno, se dalla terra”, ovvero del “falso profeta”), vogliamo essere sinceri) credibili i personaggi effettuata od utilizzata dagli autori di questa storici più disparati, fra cui spiccano Federico singolare “indagine” riporta, anche qui con II, lo “stupor Mundi”, Hitler, lo zar Ivan il 6 la Ciminiera


terribile, Gengis Kahn, Napoleone, Stalin e così via. Profezie millennaristiche tutte, come possiamo testimoniare, dato che siamo ancora qua, “andate in prescrizione”, come quelle presunte Maya legate al 2012 o al 2020 (ma anche questa è un’altra storia). E’ naturale che un papa “rivoluzionario” come Bergoglio finisse per essere associato al tremendo numero di San Giovanni da Patmos. Meno chiaro è perché il visionario evangelista abbia utilizzato un codice, allora e per la maggioranza ancora oggi, sconosciuto per veicolare i suoi “presunti” messaggi criptici ed esoterici. Così, proviamo ad affrontare insieme il problema partendo dal cosiddetto “alfabeto universale”.

Ritorno alle origini, ovvero cos’è e come nasce l’idea di un alfabeto universale Partiamo da un’affermazione, perentoria quanto certamente sgradita: non esiste un alfabeto universale. Prima di essere assalito da torme di zelanti difensori delle più disparate teorie esoteriche e a scanso di equivoci, voglio chiarire che un alfabeto universale non può esistere, per lo meno al momento. L’alfabeto, ovvero le lettere, i segni grafici con cui componiamo i nostri testi scritti, infatti, sono segni scelti arbitrariamente, senza nessun rapporto o quasi con il suono a cui sono legati. L’alfabeto è un fattore chiaramente culturale, frutto della necessità di dare forma e stabilità alle informazioni scambiate all’interno di un gruppo sociale e, come tale, finalizzato al gruppo sociale che lo ha prodotto. Il che spiega perché tuttora esistano differenti alfabeti per differenti lingue: oltre a quello “latino”, diffuso nell’area occidentale a partire dalla lingua dei Romani, esiste il greco, legato alla tradizione greca, quello cirillico, in uso fra le popolazioni slave, quello ebraico ecc….

Poi ci sono quelle lingue, come il mandarino e il giapponese, che usano ideogrammi, che associano fra loro non solo suoni e simboli, ma anche concetti, sempre però in modo arbitrario. L’idea di un alfabeto universale è legata, almeno in Occidente, dove sembra essersi ben radicata anche nell’immaginario collettivo, all’elemento religioso: la lingua adamitica, presunta madre di tutte le lingue post-babeliche, è stata a lungo considerata la lingua originaria e primeva, da cui tutte le altre sarebbero scaturite. Era quindi naturale pensare che anche l’alfabeto ebraico fosse parimenti da considerare l’alfabeto originario. Ora, a parte il fatto che originario non vuol dire universale, se mai in questo caso potremmo parlare di origine di tutti gli alfabeti, e anche su questo ci sarebbe da riflettere. Tuttavia occorre ricordare che su questo argomento non avevano le idee chiare neanche gli antichi o gli uomini del Medioevo. Perfino il Sommo Poeta era convinto che la lingua universale fosse il latino, ritenuta (non solo da lui) lingua artificiale e perfetta, per cui in questo caso, l’alfabeto universale sarebbe proprio quello latino (per niente eurocentrico, il nostro Ghibellin fuggiasco, vero?). Ma qui siamo già passati ad un altro concetto di universale: non più originale/originario, antenato comune da cui discendono tutti gli alfabeti, ma struttura artificiale e scaturita dal consenso di chi la usa per esprimersi, e quindi virtualmente universale in quanto, appunto, condivisa. E’ proprio in quest’ottica che il tema si affaccia alla modernità: nella consapevolezza che è impossibile la “reductio ad unum” di lingue/alfabeti così differenti come quelli che operano sulla superficie dell’Orbe terraqueo, che ricomporre l’unità originaria sarebbe, oltre che impossibile, una grave perdita di diversità e ricchezza, non solo lessicale, si è lavorato per costruire una lingua che, artificiale e convenzionale, nel senso di costruita a tavolino e scelta liberamente da tutti i parlanti, consentisse una maggiore integrazione linguistica, almeno nel mondo scientifico e culturale. la Ciminiera 7


Il caso Lodwick Un caso di “tentata universalità alfabetica”è l’Alfabeto Universale di Lodwick. Francis Lodwick (o forse Lodowick), un mercante di origini olandesi che viveva a Londra nella seconda metà del XVII secolo, è forse il primo inventore di un Alfabeto Universale.

L’alfabeto universale di Lodwick

In due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1647 (A Common Writing: Whereby two, although not understanding one the other language, yet by the helpe thereof, may communicate their minds one to another) e nel 1652 (The Ground-Work, or Foundation Laid (or so intended), For the Framing of a New Perfect Language: And an Vniversall or Common Writing), infatti, Lodwick proponeva un linguaggio artificiale “universale”, come l’Esperanto o il Volapük; quello di Lodwick potrebbe essere stato il primo tentativo di Linguaggio Universale, di sicuro il primo proveniente dall’area anglofona. Lodwick intendeva ottenere un sistema di scrittura che rendesse possibile rappresentare accuratamente ed univocamente la pronuncia di tutte le lingue, esperimento più o meno riuscito per la maggior parte delle lingue europee. Il mercante, però, non usa i caratteri latini, pur modificati, come quasi tutti gli alfabeti fonetici, a partire dall’IPA, ma inventa glifi del 8 la Ciminiera

tutto nuovi, le cui forme dovevano avere tra loro relazioni che potessero far risalire al loro valore fonetico (mah!), dunque un alfabeto che, essendo strumento di una lingua he vuol essere universale, si proponga anche lui come universale.

Aiuto Universale Ben più famoso del sistema di Lodwick è il codice NATO. A differenza dell’alfabeto Lodwick, il codice NATO non si punta di sostituire i simboli fonetici con altri di “nuovo conio”, ma di indicare parole chiave che segnalino con le iniziali le lettere delle parole usate, in modo da rendere più chiaro e diretto il messaggio di SOS. Se la trasmissione di soccorso usa un alfabeto radiofonico, facendo corrispondere ad ogni lettera dell’alfabeto una parola codice, i messaggi più importanti verrebbero compresi più correttamente. Vediamone un po’ la storia. Nel 1920, l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU) produce un primo tentativo di alfabeto fonetico riconosciuto internazionalmente. Esso menziona i nomi delle città di tutto il mondo: Amsterdam, Baltimore, Casablanca, Denmark, Edison, Florida, Gallipoli, Havana, Italia, Jerusalem, Kilogramme, Liverpool, Madagascar, New York, Oslo, Paris, Quebec, Roma, Santiago, Tripoli, Uppsala, Valencia, Washington, Xanthippe, Yokohama, Zurich. Sul versante militare, gli Stati Uniti adottano nel 1941 un Alfabeto Fonetico per Esercito e Marina Militare chiamato “Able Baker Alphabet” per via delle prime due parole che lo caratterizzano. Due anni dopo, la British Royal Air Force decide di utilizzare l’alfabeto Able Baker. Una nuova versione che incorpora suoni comuni sia all’inglese che al francese e allo spagnolo viene proposta dall’Associazione di Trasporto Aereo Internazionale (IATA) e va in vigore il 1 novembre 1951 solo per l’aviazione civile: Alfa, Bravo, Coca, Delta, Echo, Foxtrot, Gold, Hotel, India, Juliett, Kilo, Lima, Metro, Nectar, Oscar, Papa, Quebec, Romeo, Sierra, Tango, Union, Victor, Whiskey, eXtra, Yankee, Zulu L’alfabeto NATO entra in vigore nel 1956 e


solo qualche anno dopo viene decretato come alfabeto fonetico universale. L’“Alfabeto Universale NATO” è composto dai seguenti nomi: ALFA, BRAVO, CHARLIE, DELTA, ECHO, FOXTROT, GOLF, HOTEL, INDIA, JULIETT, KILO, LIMA, MIKE, NOVEMBER, OSCAR, PAPA, QUEBEC, ROMEO, SIERRA, TANGO, UNIFORM, VICTOR, WHISKEY, X-RAY, YANKEE, ZULU. Ma, come è evidente, questo alfabeto non è un vero e proprio alfabeto, ma solo un sistema articolato e condiviso per gestire le comunicazioni di emergenza. Anche solo fare una conversazione normale con questo sistema diverrebbe rapidamente un incubo linguistico e comunicativo.

Le lingue filosofico-matematiche Il problema dell’alfabeto e della lingua universali è sempre stato legato a quello della comunicazione internazionale. Non può quindi sconcertare che l’impulso ad una lingua e ad un codice alfabetico universale provenga proprio dall’area scientifica, poiché è proprio al suo interno che già da Galileo si è immediatamente evidenziata la necessità di una lingua comune, che non poteva essere il latino, troppo letterario. E infatti René Descartes (1596-1650) e Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) hanno avanzato seicento progetti di lingua universale che per le loro caratteristiche, in stretta connessione con le loro concezioni filosofiche e matematiche, sono stati inseriti fra quelli denominati “lingue filosofiche”. Descartes sostiene in particolare che sono soprattutto la difficoltà della grammatica a costituire un ostacolo per la comprensione delle lingue. Se si semplificano le regole grammaticali, è l’assunto del filosofo, il “volgo” sarà in grado, con l’aiuto del dizionario, di scrivere nella lingua così costruita. Tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento prolificano progetti di lingue artificiali ed associazioni sorte proprio allo scopo di insegnarle e diffonderle. La necessità di costituire una lingua internazionale che permettesse un legame diretto fra nazioni diverse assume rilevanza

con lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, e con il conseguente intensificarsi delle relazioni commerciali e intellettuali tra i popoli. Hermann Grassmann (1809-1877), seguace di Schleiermacher, si dedica con impegno ad una lingua filosofica universale, diventando un esperto cultore del sanscrito e curando fra l’altro un glossario al Rig Veda. Giusto Bellavitis (1803-1880) pubblica nelle memorie dell’Istituto Veneto un ampio e articolato studio sulle caratteristiche che una lingua filosofica universale deve avere circa l’etimologia, la grammatica e l’ortografia, la pronuncia e la scrittura. L’idea del filosofo Charles Renovier (1815-1903) di creare una lingua artificiale improntata su una grammatica semplificata e su un vocabolario tratto dalle lingue viventi riceve ampi consensi e sarà la base comune di tutti o quasi i progetti di lingue artificiali di maggior diffusione fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Su questa strada si muove, ad esempio, il Latino sine flexione, detto anche Interlingua, una lingua artificiale inventata nel 1903 dal matematico italiano Giuseppe Peano, in pratica una versione semplificata del latino classico, in cui tutte le difficoltà delle terminazioni (declinazioni) sono state soppresse.

Giuseppe Peano

La lingua denominata Volapuk è quella che raggiunge il successo più rapido subendo però un altrettanto velocedeclino. Ideata nel 1879 dal sacerdote cattolico Johann Martin Schleyer (1831-1912), si compone la Ciminiera 9


di vocaboli delle lingue naturali e presenta una grammatica molto regolare e basata sull’inglese popolare. Nel 1887 compare invece l’Esperanto, lingua internazionale artificiale che prende il nome dallo pseudonimo scelto nella stampa dal suo ideatore, il medico russo Ludovic Lazarus Zamenhof (1859-1917), che pensò di costruire una lingua neutra che potesse porre fine alle ostilità culturali tra le etnie (russa, polacca, tedesca ed ebrea) che vivevano nella sua città, Bielostok. Anche qui, più o meno lo stesso modello, grammatica semplificata e vocabolario frutto di eterogeneo pescaggio nelle lingue europee, con buona pace di asiatici, musulmani, amerindi ecc… del resto, sono o non sono gli anni del colonialismo più sfrenato? Più fortunata, si fa per dire, l’Interlingua proposta dalla International Auxiliary Language Association (IALA) nel 1951. L’interlingua, secondo alcuni, avrebbe un lessico dall’aspetto particolarmente naturale, perché non ottenuto con strumenti artificiali, confrontando dei vocabolari di cinque diffuse lingue viventi: le quattro principali lingue romanze (italiano, spagnolo-portoghese, rumeno e francese) e l’inglese. A queste lingue si aggiunge l’apporto del tedesco e del russo, i cui lessici sono considerati nei casi in cui quelli delle cinque lingue principali siano discordanti fra loro. Come si può vedere, però, vi sono alcune importanti limitazioni, che ne hanno minato fin dal nascere la diffusione: 1) queste soluzioni utilizzano come alfabeto base il set di caratteri latino ampliato, soprattutto nell’ultimo caso fondamentale per consentire il confronto fra le lingue europee. Sono quindi strettamente legate alla cultura occidentale e tende a tener furi le altre lingue non europee; 2) quella proposta è comunque una lingua asettica, più adatta, forse, alla comunicazione scientifica, ma in generale fredda e limitata nelle possibilità espressive.

L’alfabeto dell’informatica(?) L’unico vero linguaggio comune, probabilmente, al giorno d’oggi è quello 10 la Ciminiera

dell’informatica. Certo, un alfabeto di 0 e 1 è poco utile e macchinoso più del codice NATO per comunicare, ma la specificità della comunicazione digitale da una parte, il progressivo e rapidissimo passaggio della comunicazione a soluzioni informatiche (chi scrive più le lettere a mano?) dall’altra ne hanno reso a diffusione capillare su tutto l’Orbe terracqueo, senza distinzioni di razza, religione o lingua. Questi fattori hanno anche spinto alla creazione di un sistema di caratteri che sostituisca tutti i segni grafici (e quindi gli alfabeti) utilizzati. Nasce così nel 1963 il codice ASCII (acronimo di American Standard Code for Information Interchange, Codice Standard Americano per lo Scambio di Informazioni) inizialmente su proposta dell’A.N.S.I (American National Standard Institute). Il codice,conla sua codifica a 7 bit, diviene definitivo nel 1968. Il codice ASCII è stato inventato per le comunicazioni fra telescriventi, poi è man mano divenuto uno standard mondiale.

Windows-1252 è stato creato da Microsoft Ecco l’elenco dei caratteri US-ASCII stampabili

Tuttavia, è tutt’altro che un alfabeto, men che meno universale. Nel corso del tempo, in effetti, è stato più volte modificato per comprendere tutti i caratteri. E’ un set di caratteri che consente di sostituire i segni fonetici (e non solo quelli,


perché ci sono i segni di interpunzione e perfino dei codici di stampa) con un valore numerico, così che si possa rapidamente inserire il carattere premendo Alt + il codice numerico. Chiaramente, assume grande significato soprattutto per i caratteri normalmente non presenti sulla tastiera. Lo standard che sta prendendo piede e che dovrebbe essere il successore di ASCII è l’UTF-8, la cui carta vincente è la sua “estensibilità” estrema: UTF-8 si distingue dalle altre codifiche Unicode, infatti, perché sfrutta il vecchio bit di parità di ASCII, non come bit di controllo, bensì come indicatore: analizza ogni byte, e se al posto del vecchio bit di parità c’è 0, allora il byte sarà letto come

ASCII Art

ASCII a 7 bit e teoricamente compatibile anche da programmi obsoleti; se però il byte corrente inizia con 1, allora sarà concatenato al byte successivo (o ai successivi, in realtà il meccanismo è un poco più complesso). In tal modo riesce ad includere tutti gli alfabeti delle lingue viventi, di alcune morte e potenzialmente può essere esteso per rappresentarne ancora altri (infatti spesso viene aggiornato). Con questo codice è possibile, fare molte cose, certamente, perfino farci degli splendidi disegni, sfruttando la disposizione del codice sullo sfondo nero; tuttavia, il codice ASCII non è un alfabeto, ma solo un codice di sostituzione, nel senso che sostituisce un segno, non rappresenta un fonema. In più, è tutt’altro che “universale”. Anzi. Infatti, poiché il numero dei simboli usati nelle lingue naturali è molto più grande dei

caratteri codificabili con il sistema US-ASCII, è stato più volte necessario espandere il set di codifica di questo “standard”. Le varie estensioni utilizzavano 128 caratteri aggiuntivi codificabili grazie all’ottavo bit disponibile in ogni byte. L’IBM, in particolare, ha introdotto una codifica a 8 bit sui suoi IBM PC con varianti per i diversi paesi e sistemi di “tastiera”. Le codifiche IBM risultavano comunque ASCII-compatibili poiché i primi 128 caratteri del set mantenevano il valore originario (US-ASCII) e le varie codifiche vennero divise in pagine, dette code page, che differivano nei 128 caratteri aggiuntivi codificati grazie all’utilizzo dell’ottavo bit disponibile in ogni byte; tuttavia l’espandersi dell’informatizzazione ha causato un proliferare di varianti locali e quindi di “confusione”, rendendo tutt’altro che “universale” anche il codice ASCII. E dunque? Ma veniamo al nostro quesito: è davvero la somma dei valori ASCII di Bergoglio il n° 666? Ni. Nel senso che lo sarebbe ma ci sono alcun condizioni sine qua non ovvero: 1) questo valore si ottiene solo se si usa la numerazione corrispondente alle sole vocali maiuscole (la E corrisponde al 69, la e al 65, ad esempio); 2) ed è valido solo se si usa il codice decimale (in quello esadecimale, ad esempio, la E corrisponde a 45). 3) Come potete vedere, ci sono delle forti limitazioni. Se volessimo, potremmo fare lo stesso gioco con altri nomi: In genere, questa è una regola che vale per tutte le elucubrazioni di tipo numerico: qualunque risultato si può ottenere, con un po’ di fatica e di operazioni. Con buona pace dei teorici del complotto e ricercatori esoterici vari…

la Ciminiera 11


Il Padre Nostro (in inglese) trascritto con l’Alfabeto Universale Lodwick

Bibliografia: Allan J., 1978, An Introduction to Elvish, Bran’s Head Books Burgess A., 1979, They wrote in English, Tramontana editore, Presso. Castellina P., 2009, nterlingua: manuale teorico-pratico, Edizioni Lulu.com, Seconda edizione. Couturat L., 1901, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Alcan, Paris, 1901; Olms, 1961, pp. 51-80. Galilei G., Dialogo sopra i massimi sistemi, Giornata prima, Opere VII, Barbera, Firenze, 1993, pp. 130-131. Gopsill F. P., 1990, International languages: a matter for Interlingua. Sheffield, England, British Interlingua Society. Gode A, 1971, “Introduction”, Interlingua-English: A dictionary of the international language, Revised Edition, New York, Continuum International Publishing Group. Peano G., 1903, Il latino quale lingua ausiliare internazionale, in Atti Acc. Sci. Torino, XXXIX, 1903-04. Pucci C., 1996, Sui temi di italiano nella scuola secondaria, riflessioni e ricordi, in Archimede, 2 (1996) pp. 72-78. Roero C.S., 1999, I matematici e la lingua internazionale, in Bollettino U.M.I., (8) 2° (1999) pp. 159-182. 12 la Ciminiera


Reati Sessuali nell’Ecloga di Leone III di Gabriele Campagnano Zweilawyer Un tema interessante, sembra ormai essere Il rapporto fra sesso e quellodellasessualitànell’Alto troppo complesso e non reati sessuali diventa, nel Medioevo, soprattutto più adeguato alla pratica nella sua parte relativa ai Tardo Antico e all’inizio del giuridica bizantina. A questo reati sessuali. Tuttavia, non Medioevo cristiano, molto problema cerca di ovviare bisogna immaginare che Leone III, imperatore dal stretto. L’Ecloga di Leone nel precedente periodo la 717 al 741 (e più conosciuto III ne traccia alcune linee sessualità fosse del tutto per la lotta iconoclasta, che sregolata e promiscua divise i cittadini dell’Impero fondamentali. come alcune opere più di ogni altra controversia cinematografiche e letterarie cristologica). vogliono far credere. Fin dall’inizio del suo regno inizia a far Trattandosi di un argomento che tocca redigere la sua famosa Ecloga (Εκλογὴ τῶν diverse materie, dal diritto alla sociologia, è νύμων, ossia “Scelta di leggi”), che nasce necessario dare dei riferimenti cronologici e come forma semplificata o riassunto del geografici a questo articolo. Corpus Juris; una sorta di manuale pratico, Siamo all’inizio dell’VIII secolo, l’Impero più che un codice nel senso moderno del Romano d’Oriente è in guerra con nemici termine, per gli addetti ai lavori. Lungi temibili quali i Bulgari a Occidente e gli dall’essere un semplice riassunto, l’Ecloga Arabi a Oriente. Nonostante gli onerosi introduce elementi di dottrina cristiana e impegni esterni, gran parte delle energie punizioni dal sapore orientale all’interno dei governanti di Costantinopoli è rivolta al del corpus del diritto romano. Per quanto possano sembrare crudeli al lettore moderno, diritto e alle dispute teologiche. A quasi 150 anni dalla sua pubblicazione, le punizioni previste dalle norme penali il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano vengono introdotte per eliminare, in alcuni la Ciminiera 13


casi, proprio la pena di morte. Altro elemento da sottolineare è l’introduzione della lingua greca. Per quanto i greci continuino a chiamarsi “romani“, la maggior parte di loro non è più in grado di comprendere il latino. L’Ecloga, quindi, è redatta per intero nella lingua ufficiale dell’Impero Romano d’Oriente. Al Corpus Iuris Civilis si erano poi aggiunte molte altre norme (in greco, le Novelle) che, al tempo di Leone III, sono disperse in una

miriade di codici, commentari e manuali. Una situazione molto complessa, specie pensando che all’originale latino del Corpus Iuris ormai si preferiscono (per ignoranza dei magistrati e facilità d’uso) le traduzioni commentate in greco. Secondo gli studi più recenti, l’Ecloga viene emanata nel marzo del 720, anche se molti continuano a ritenere che sia stato il successore di Leone III (Costantino, suo figlio) a promulgarla.

Illustrazione del IX secolo [www.medievalists.net]

Nonostante l’Ecloga sia stata davvero rilevante, anche per l’influenza esercitata sulle raccolte normative successive (e per la visione giuridica del sesso nel Medioevo), ad oggi viene citata solo di rado quando si parla di Leone III l’Isaurico. A farla da padrone è sempre la più noiosa questione iconoclasta. Anche sulla questione iconoclasta hanno forse pesato le considerazioni relative all’avanzata araba. L’islam, con il suoi divieto di proporre immagini di Allah e il suo rifiuto di qualsiasi idolatria (anche solo formale), non è percorso dalle stesse cogitazioni astratte, e rimane ancorato al binomio formato da Corano e jihad (intesa in senso militare e di proseliti). I 144 capitoli dell’Ecloga contengono moltissime previsioni di diritto penale e, per la parte che oggi chiameremo “diritto civile”, si limitano a trattare la materia matrimoniale, di famiglia e successoria. 14 la Ciminiera

Ci sono norme interessanti, come quella che assegna l’esercizio della patria potestas anche alla madre o quella che elenca i differenti tipi di amputazione (naso, lingua, mani) cui può essere sottoposto il reo.


Tuttavia, in questo caso siamo interessati ai c.d. reati sessuali.

Nell’Ecloga troviamo questi: 1. Un uomo sposato che commetta adulterio dovrà, come modo di correzione, ricevere dodici frustate e, che sia ricco o povero dovrà pagare una multa. 2. Un uomo non sposato che commetta fornicazione dovrà ricevere sei frustate. 3. Alla persona che abbia conosciuto carnalmente una suora, visto che ha profanato la Chiesa di Dio, verrà tagliato il naso… e alla suora sarà riservato un trattamento simile. 4. L’uomo che, avendo intenzione di sposare la propria figlioccia [nel battesimo portatore di Salvezza], fornica con lei senza sposarla, e viene giudicato colpevole di tale offesa sarà, dopo essere stato esiliato, condannato alla punizione prevista per gli altri adulteri. Di conseguenza, dovrà essere tagliato il naso sia all’uomo che alla donna. 5. Il marito che è a conoscenza, e perdona, l’adulterio della moglie, dovrà essere frustato ed esiliato, mentre all’adultero e all’adultera dovrà essere tagliato il naso. 6. Le persone che commettano incesto, genitori e figli, figli e genitori, fratelli e sorelle, saranno condannati a morte tramite spada [decapitazione]. A quelli che, legati da altre relazioni, si corrompono carnalmente l’uno con l’altra, che siano padre e figliastra, figlio e matrigna, fratello e moglie del fratello, zio e nipote, nipote e zia, verrà amputato il naso. E accadrà lo stesso anche se uno ha conoscenza carnale di due sorelle o anche cugine. 7. Una donna che, rimasta incinta, provi ad abortire, sarà frustata ed esiliata. 8. Coloro che sono colpevoli di sodomia [offese contro natura], attiva o passiva, saranno condannati a morte tramite spada [decapitazione]. Il soggetto passiva della sodomia, quando minore di anni dodici, sarà perdonato per ignoranza giovanile del crimine commesso. 9. I colpevoli del “crimine abominevole” [omosessualità] saranno evirati. Per chi fosse interessato ad altri fonti storiche sul diritto e non solo, consiglio di farsi un giro sul sito della Fordham University. L’influenza cristiana nell’Ecloga è molto forte anche quando parliamo di Matrimonio. L’età legale per contrarre il matrimonio è stabilita in quindici anni per i ragazzi e tredici per le ragazze, e deve ovviamente esserci il consenso dei parenti. Il contratto matrimoniale però passa sempre più dalle mani del potere civile a quelle del potere ecclesiastico. L’interesse dell’Ecloga per il matrimonio sembra infatti diretto maggiormente a delineare le porzioni ereditarie in caso di morte del coniuge con o

senza la presenza di figli. Come anticipato, Leone III introduce una serie di mutilazioni (il taglio del naso la fa da padrone) in sostituzione della pena di morte. Quest’ultima è mantenuta per alcune fattispecie, ma in linea di massima si cerca di limitarla il più possibile, in modo da dare concreta attuazione al perdono cristiano, che si inserisce fra le maglie del diritto romano in maniera sempre più netta. la Ciminiera 15


Impero bizantino Leone III - L’Impero Romano d’Oriente nel 717

Per meglio comprendere questa virata verso la mutilazione, occorre sottolineare che Leone III si trova a governare un Impero fiaccato dal punto di vista militare e religioso, in cui è importante dare un’immagine di istituzioni presenti e capaci di punire con la massima severità.

quello giuridico. Da un lato lasciano sul reo un marchio d’infamia indelebile che lo relega ai margini della società (anche perché, spesso, queste mutilazioni lo rendono disabile); dall’altro non hanno mai mostrato una grande efficacia come deterrente (funzione preventiva della pena).

Ad oggi, siamo perfettamente a conoscenza Ci sono ancora molti paesi dell’area islamica di come le mutilazioni siano una pena che puniscono i ladri con l’amputazione della insensata sia dal punto di vista morale che da mano, fedeli a questo passo del Corano:

Tagliate la mano al ladro e alla ladra, per punirli di quello che hanno fatto e come sanzione da parte di Allah. Allah è eccelso, saggio. (Corano 5:38) 16 la Ciminiera


In questo senso, purtroppo, non aiuta neanche la Sunna che, insieme al Corano, costituisce la Sharīʿa. Ci sono infatti decine di ḥadīth che riportano aneddoti relativi alla vita di Maometto in cui quest’ultimo ordina di far amputare le mani a ladri e nemici.

Narrò Anas: Alcuni membri degli ‘Ukl arrivarono da Maometto e si convertirono all’Islam. Non riuscivano però a sopportare il clima di Medina, così il profeta gli permise di usufruire dei cammelli da latte che gli erano stati donati e di bere il loro latte e le loro urine [l’urina di cammello era considerata un medicinale utile alla cura di molte malattie già nell’Arabia pre-islamica]. Appena si furono rimessi in sesto, gli ‘Ukl rinnegarono l’islam e rubarono i cammelli dopo aver ammazzato il pastore che li accudiva. Maometto li fece inseguire dai suoi uomini, che li catturarono e li portarono innanzi a lui. Il profeta ordinò di far tagliare loro mani e gambe, e di accecarli con chiodi incandescenti. E che le loro ferite fossero cauterizzate. E alla fine morirono. Sahih Bukhari Volume 8, Libro 82, Numero 794 Insomma, nell’area mediorientale il diritto romano perde progressivamente efficacia di fronte all’avanzare dell’Islam, che porta con sé anche alcune vestigia normative (altrettanto cruente, per i nostri standard) dei Sasanidi. Ed è del tutto possibile che, nell’Ecloga, ci sia anche l’influenza del nuovo assetto giuridico delle ex-province orientali dell’Impero.

Nel prossimo numero di Gabriele Campagnano Zweilawyer

Gli Indios, Uomini o Animali ? I navigatori europei non poterono fare a meno di chiedersi se quei selvaggi fossero fatti a immagine e somiglianza del Creatore oppure si trattasse di animali, non compresi quindi nel concetto di “uomo la Ciminiera 17


Il vero uomo d’acciaio

Anni ‘30, l’Italia sta L’uomo meccanico uscendo lentamente dalla sarebbe stato mostrato Grande Depressione, in (almeno) due come il resto del mondo. occasioni, la prima il 9 La guerra è qualcosa di per i soli giornalisti e la lontano e si avvicina, si seconda il 10, al pubblico pensava allora almeno, generalista. un’era di miracoli. Nella descrizione di un Così, non era difficile giornalista, “l’uomo del che girassero per le piazze 2000 è naturalmente e i musei delle principali venuto fresco fresco città europee straordinarie dall’America e si presenta meraviglie. con le fattezze e le sembianze di un uomo di Raoul Elia Ad esempio, nella Torino dei nostri giorni; vestito del novembre 1934, i secondo l’ultimo figurino torinesi accorrevano per di moda… in tessuto di vedere un vero e proprio alluminio”. “miracolo della tecnica e della scienza fascista”, la principale attrazione della terza, A quanto sembra, l’uomo del 2000 avrebbe grande, “Mostra meccanica e metallurgica”, parlato, si sarebbe mosso per la sala e fortemente voluta dal neo-prefetto Cesare avrebbe persino salutato “romanamente“. Giovara: l’Uomo del Futuro. Fantastico vero? Nei padiglioni della Microtecnica, grande Ma non è tutto, ovviamente. impresa di meccanica di precisione, in via Il 18 novembre, il Corriere della Sera Madama Cristina 149, era infatti esposto veniva pubblicato un lunghissimo articolo niente meno che un uomo meccanico, in terza pagina dedicato alla sessione per i la meraviglia del futuro, altrimenti detto giornalisti torinesi. L’autore del resoconto l’Uomo del 2000 (come lo ribattezzarono i si firmava con lo pseudonimo Metron, giornali locali).

era italiano (o no?)

18 la Ciminiera


dietro il quale si nascondeva l’ingegner Filippo Tajani (1873-1944), docente al Politecnico di Milano, scrittore e giornalista, che descriveva l’Uomo del Duemila come “un grande giocattolo”, costruito quasi con materiale di scarto, suggerendo possibili usi; anche se un po’ deludente, il robot sembrava genuino all’ingegnere torinese. La fama del robot (il termine, in realtà, appena creato, si era diffuso rapidamente) e così la meraviglia del Duemila andò avanti ancora per un po’, raccogliendo consensi e suscitando meraviglia nel pubblico che accorreva a vederlo muovere e salutare. Successo che si ripeté a Roma e in altre grandi città italiane. Ma tutte le cose belle finiscono, e così anche le truffe. Infatti, il Corriere della Sera, il 24 dicembre, riportava quanto segue: “Robot, l’uomo meccanico del duemila, l’uomo teleradioelettrico, l’uomo metallico… è ora tenuto in sequestro presso gli uffici della Questura di Pavia, dove si è pure proceduto al “fermo” del suo ideatore e del suo… animatore. […] Ora si sarebbe scoperto che si trattava di un volgare trucco. Da alcuni giorni Robot si produceva sul palcoscenico del Politeama Principe Umberto di Pavia, destando l’interesse di un pubblico sempre più fitto e plaudente. L’ultimo giorno della sua permanenza a Pavia, il custode del palcoscenico, Eligio Giorgi, un po’ mortificato e ingelosito perché durante le rappresentazioni lo si allontanava dal palco dove si impediva a chiunque di mettere piede, fu colto dal dubbio che vi fosse di mezzo qualche trucco. Bisogna notare che [il] Robot, prima di entrare in scena, per ubbidire ai comandi dell’operatore, era tenuto celato in una specie di cabina costruita appositamente presso le quinte. Il Giorgi volle vederci chiaro e praticò un foro nel pavimento di legno in modo che, stando sotto il palcoscenico, poteva scorgere quel che accadeva in quel luogo così religiosamente custodito. Egli così riuscì ad osservare nell’intimità l’uomo meccanico appena ritornato in cabina dopo la rappresentazione: ebbene, egli afferma che, appena lasciato solo, Robot lasciava uscire

Anatole, il robot francese I di passaggio a Roma

dal suo seno un uomo che evidentemente lo aveva animato in luogo del cosiddetto ‘congegno elettromeccanico’. Il custode ne informò il proprietario del teatro ingegnere Angelo Pollini il quale ne parlò occasionalmente con un agente di Questura. Di qui oggi il sequestro di Robot e il “fermo” per ulteriori accertamenti del suo ideatore e costruttore Giovanni Lazzarini, da Lerici, di 41 anni, residente a Genova, e dell’uomo che sostituiva nel corpo di Robot le pile a secco o gli accumulatori, certo Flavio Massa, di 25 anni, da Crusinallo di Novara”. In realtà, il nostro Uomo del 2000 non era proprio il primo esemplare della specie: già nel 1928 in Inghilterra era comparso sui palcoscenici il robot Eric, definito come “rivoluzione scientifica”: sul petto recava la scritta R.U.R., passato poi al pubblico degli la Ciminiera 19


Stati Uniti. Due anni dopo, era stata la volta di George, sempre dello stesso inventore, che fece il giro d’Europa. Nel 1934 è stata la volta di Miss Alpha, robot inglese, che rispondeva a comandi vocali grazie a un altoparlante (in realtà l’automa era connesso via filo ad un microfono, tramite il quale una signora le prestava la voce). Ovviamente, essendo un robot-donna, non desiderava altro che sposarsi… Come mai tanti finti robot? Come mai il pubblico correva a vederli e i credeva, pure? Una possibile spiegazione potrebbe essere di ordine psicologico. Gli anni ‘30 erano gli anni della Grande Depressione che aveva devastato gli States prima, i paesi europei, Italia compresa, dopo sia economicamente e fisicamente che emotivamente. La paura dell’automazione, già innestata nella psicologia delle masse fin dalla prima Rivoluzione industriale, anche con manifestazioni di violenza e L’”arresto” del robot nell’illustrazione da Illustrafuria iconoclasta (pensiamo ai Luddisti, zione del Popolo del 15 gennaio 1935 ad esempio), acquista dalla crisi del ‘29 si manifestava un po’ ovunque. La tecnologia Aggiungiamo che non c’erano né la tv né era qualcosa da temere perché si pensava la rete, che la cultura scientifica era negletta avrebbe tolto il lavoro a tutti, quindi più o meno come oggi, che qualunque mostrare robot in grado di compiere novità era l’occasione buona per sconfiggere semplici operazioni (muoversi, salutare, la noia, che la nostra psicologia è orientata parlare) consentiva di consolidare e nel a credere (la cosiddetta “sospensione contempo sublimare la paura della futura dell’incredulità”) e il gioco è fatto: l’Uomo automazione. del 2000 è servito.

Eric The Robot - 1932

https://youtu.be/hwnfVRT7IjI

The Face Of Things - To Come! Alpha The Robot (1934) https://youtu.be/Fiiq0V9QRJ4

Se vuoi vedere i filmati clicca sulle immagini

20 la Ciminiera

Electro the Smoking Robot alla fiera mondiale di New York del 1939 https://youtu.be/AuyTRbj8QSA


Traslazione della “Santa Casa” a opera degli angeli

La Madonna di Loreto, patrona degli aviatori Eccomi qui, di nuovo di ritorno dalle vacanze e di nuovo con storie da raccontare. Del resto, ogni viaggio che si compie ci permette di apprendere aneddoti curiosi. Questo, almeno, è quello che è capitato a me quest’anno, nelle zone dell’Umbria e delle Marche, dove oltre ai posti stupendi ho potuto scoprire nuove cose.

e visse con Gesù e Giuseppe per un imprecisato periodo di tempo. Lì si riunirono anche gli Apostoli dopo la Resurrezione, celebrando l’Eucarestia come il Maestro aveva insegnato loro.

Questa dimora è dunque un luogo importante nella di Greta Fogliani tradizione cristiana. Ora facciamo un importante salto temporale e arriviamo all’anno 1291. Siamo nel mese di maggio, in Terra Santa, dove i Una tappa dei miei viaggi è stata Loreto, Turchi selgiuchidi hanno preso il potere. con il suo celebre santuario. Ciò che distingue La leggenda vuole che il 10 di maggio questa chiesa dalle altre è la leggendaria alcuni angeli avessero prelevato la casa di presenza al suo interno della casa della Maria per trasportarla in volo da Nazareth a Madonna. Tersatto, vicino all’odierna Fiume. Furono dei boscaioli a trovare quella casa misteriosa e a Si tratta, secondo la tradizione cristiana, informare del fatto il parroco don Alessandro, della piccola casa di Nazareth dove viveva che non poteva recarsi sul posto a causa di Maria. Proprio in quella casa, la Madonna un’infermità che lo costringeva a letto. Ma ricevette l’annunciazione della prossima e non fu necessario che il parroco si muovesse prodigiosa maternità dall’arcangelo Gabriele dalla sua casa per avere notizie più precise. La Madonna stessa apparve a don Alessandro la Ciminiera 21


per certificare che quella era veramente la casa dove ella aveva vissuto e dove Pietro aveva celebrato la prima Eucarestia. Come segno dell’apparizione, don Alessandro venne guarito dalla malattia. La straordinaria notizia giunse anche agli orecchi del conte Nicolò Frangipani, governatore all’epoca di Dalmazia, Croazia e Illiria. Costui decise di inviare una delegazione in Terra Santa, che potè constatare l’effettiva sparizione della casa di Maria in Palestina.

La Santa Casa vista dall’esterno

Il viaggio della Santa Casa, però, non finisce qui. Tre anni e sette mesi dopo la prima traslazione, gli angeli ripresero nuovamente la casa e la posarono presso Ancona, dove attualmente sorge la chiesa di Santa Maria Liberatrice di Posatora, il cui nome si riferisce proprio a questo episodio. “Posatora” deriverebbe infatti dalla locuzione latina posa-et-ora, fermati e prega. Dopoottomesisoltanto,gliangelispostarono ancora la casa vicino a Porto Recanati, presso località Banderuola. Dei pastori di quei luoghi videro una luce abbagliante uscire dalle nubi e, avvolta dal bagliore, la casa. Ma si trattava di un luogo troppo pericoloso per la dimora della Madonna, poiché da una parte vi era il pericolo delle invasioni turche dal mare, e 22 la Ciminiera

dall’altra i pellegrini rimanevano vittime di numerosi malfattori che derubavano i fedeli. Così, gli angeli trasportarono la casa su un terreno poco distante, posseduto dai fratelli e conti Stefano e Simone Rinaldi di Antici. Costoro tentarono di trarre profitto personale dalla presenza della casa appropriandosi delle offerte dei pellegrini. I fratelli giunsero addirittura a inviare una petizione al papa Bonifacio VIII per ottenere il titolo di proprietà. Stando così le cose, gli angeli decisero di traslocare per l’ennesima volta e come località decisiva scelsero un luogo pubblico, che nessuno avrebbe potuto reclamare: una collina coperta da lauri. Dalla parola latina laurus, il luogo assunse il nome di Lauretum, l’odierna Loreto. Era la notte tra il 9 e il 10 dicembre 1294. Per questo da allora, nelle Marche si diffuse l’usanza di accendere, la notte tra il 9 e il 10 dicembre, dei grandi fuochi (detti “focaracci”) per illuminare il cammino alla Santa Casa. Il 10 dicembre si celebra tuttora nel mondo cattolico la festa della Madonna di Loreto, che coincide con la giornata della Marche. Dal 1920, la Madonna di Loreto divenne anche patrona degli aviatori, proprio per l’affinità tra gli aeronauti e gli angeli che trasportarono la Santa Casa in volo. Le discussioni sulla veridicità della leggenda sono ancora accese e lontane da una conclusione soddisfacente. Ciò che è veramente suggestivo, però, è l’atmosfera di raccoglimento che vi è all’interno del Santuario di Loreto. E’ vero che vi sono anche dei negozi, come la libreria presente nel complesso della chiesa e delle piccole attività vicine al Santuario che ne sfruttano la popolarità per trarre dei profitti, come già succedeva in passato. Ma all’interno della chiesa, nonostante i numerosi turisti, ci si sente davvero accolti. Le celebrazioni non vengono interrotte per l’afflusso dei visitatori, diversi religiosi, all’interno delle cappelle del santuario, si pongono all’ascolto dei fedeli, tentando di dare una mano a chi soffre. Perfino l’aspetto del Santuario sembra richiamare alla comunione tra popoli diversi, come dimostra la coesistenza di stili diversi (tedesco, americano e polacco) per ogni cappella.


Leggenda o no, forse è per questo che gli angeli hanno lasciato la Santa Casa a Loreto. Perché nonostante la speculazione economica superficiale, lo spirito della Madonna, che accorre in aiuto dei suoi fedeli, è rimasto intatto nei secoli. L’interno della casa

Fonti: - MOR, Emanuele, “La traslazione a Loreto della casa di Nazareth”; -Wikipedia,voce “Loreto”.

Il prossimo mese

La genesi norrena di Greta Fogliani Era al principio dei tempi: Ymir vi dimorava; non c’era né mare né spiaggia né onde gelide; terra non si distingueva né cielo, in alto: un baratro informe c’era ed erba in nessun luogo. [Völuspá, in Il canzoniere eddico, str. 3, p. 5] Questo è l’inizio del mondo norreno secondo quanto recita la Völuspá, il primo dei poemi eddici, che raccoglie le profezie della vǫlva, la veggente che narra a Odino l’origine del mondo. la Ciminiera 23


IL MUSEO EGIZIO DEL CAIRO

Qualche mese fa ho avuto la possibilità di visitare il Museo Egizio del Cairo con alcuni membri del team EuroTeCHErasmus+, constatandone, ahimè, il grave stato di mantenimento a causa dello spostamento delle maggiori collezioni nell’erigendo Grand Egyptian Museo (GEM), sempre al Cairo.

La spedizione napoleonica in Egitto con i suoi savants (scienziati), tra gli anni 1798 e 1801, da un lato ha inaugurato la nascita dell’Egittologia scientifica, dall’altro ha dato il via, in Europa, a una vera e propria caccia alle antichità di Daniele Mancini egizie, divenendo una deleteria moda-mania e che ha portato alla creazione di importanti collezioni ufficiali e anche private praticamente in tutti i paesi vero e proprio vanto dei governi Vediamo come è nato il museo. europei, dell’epoca. Mariette è stato il primo direttore del La figura di Auguste Mariette, egittologo e Service des Antiquités de l’Egypte, organismo curatore del Louvre, è stata determinante per istituito nel 1858 con il preciso compito la nascita di una coscienza storica nell’Egitto di sovrintendere e promuovere gli scavi moderno. A lui si deve la formazione di un archeologici in tutto l’Egitto, a preparare primo nucleo museale di antichità egizie sul personale specializzato, controllando il suolo egiziano e la costituzione del Servizio lavoro delle missioni straniere e aprendo delle Antichità, al fine di monitorare quel contemporaneamente cantieri indipendenti mercato selvaggio di antichità faraoniche che e altrettanto scientifici. i diversi paesi e collezionisti privati europei ConilServiceveaivanoinoltrecostantemente andavano creando, in molti casi distruggendo monitorati i reperti antichi recuperati e quelli monumenti senza alcun rispetto. 24 la Ciminiera


Ritratto di Auguste Mariette

che potevano uscire dall’Egitto, soltanto previa autorizzazione. Qualche anno dopo, nel 1863, è stato ufficialmente inaugurato dal viceré dell’Egitto, Ismail Pasha, il Museo Egizio del Cairo, fortemente voluto e sostenuto da Mariette, convinto che l’Egitto dovesse salvaguardare dalla distruzione e conservare le proprie vestigia, al riparo da bramosie straniere e depredazioni selvagge. Per circa un secolo il Direttore del Servizio delle Antichità ebbe anche la carica di Direttore del Museo del Cairo.

Museo di Bulaq Il primo nucleo museale, alloggiato in un edificio della vecchia Compagnia Fluviale, nel quartiere di Bulaq, è andato vertiginosamente ad aumentare grazie agli scavi archeologici ed a una politica di salvaguardia attenta. Il pericolo continuo di allagamento del Museo di Bulaq, a causa delle inondazioni del Nilo e la crescita esponenziale dei suoi reperti, hanno spinto la Direzione dapprima a spostarlo a Giza, nel 1890, in un palazzo messo a disposizione dal viceré, poi a progettare ad hoc l’attuale edificio di Qasr el-Nil, inaugurato ufficialmente nel 1902, sotto la direzione del successore di Mariette, Gaston Maspéro. Questo nuovo museo dallo stile classico, progettato del francese Marcel Dourgnon,

che vinse una gara internazionale molto accesa, ha ospitato, fino a qualche mese fa, circa 150.000 reperti esposti al pubblico e circa 30.000 altri pezzi conservati nei magazzini. Il percorso espositivo, che si snoda tutto intorno a un salone centrale, segue un itinerario cronologico al piano terra mentre, al piano superiore, procede secondo un ordine tematico e per contesti archeologici: corredo di Tutankhamon, corredo di Yuya e Tuya, tesori di Tanis, ritratti del Fayum, gioielli, sarcofagi, divinità, vita quotidiana, corredi funerari, mummie, papiri e ostraca. Le continue scoperte, nel corso del tempo, hanno portato a cambiamenti nell’allestimento originario e alla creazione di nuovi settori: dai gioielli delle principesse del Medio Regno rinvenuti nel 1894 e poi nel 1914, si aggiunsero il tesoro di Tutankhamon, che arrivò nel museo nel 1923, il corredo della regina Hetepheres, ritrovato nel 1925, i corredi regali da Tanis, scoperti nel 1939, i reperti da Tell el-Amarna, da Deir el-Medina, dal Favum, dalle ricognizioni in territorio nubiano a seguito del progetto per la costruzione della diga di Assuan, solo per citarne alecuni. Non solo la bellezza dei reperti esposti ha conferito un grande Fascino al Museo Egizio del Cairo, che resta uno dei più visitati al mondo, ma anche la sua impostazione espositiva di tipo ottocentesco; sono stati proprio i suoi ambienti ricolmi, in certo modo caotici, che hanno raccolto monumenti straordinari, quasi fossero stati velocemente accatastati, a conferirgli un’aura unica al mondo, che in parte sarà sacrificata a favore del nuovo GEM.

Museo di Bulaq la Ciminiera 25


Anche i giardini tutto intorno all’edificio, immerso nel caos del traffico cairota, rappresentano un “museo all’aperto”, unico nel suo genere, dove è possibile ammirare importanti reperti di grandi dimensioni. Qui giacciono le spoglie di Mariette, tra gli amati monumenti, per i quali tanto si era prodigato. Per la pubblicazione dei pezzi del Museo del Cairo si è adoperato, fin dal principio, Maspéro che riconobbe l’importanza di una loro classificazione e di uno studio sistematico. Nacque così il Catalogue Général du Musée du Caire, che conta numerosi volumi, tutti editi da specialisti insigni, fonte indispensabile e inesauribile per l’approfondimento di tutti gli aspetti della civiltà egizia. Nel 1900 Maspéro aveva già fondato gli Annales du Service des Antiquités, una rivista scientifica periodica con cui si diffondevano le notizie relative a scavi, restauri e studi in corso sul suolo egiziano. Questi strumenti preziosi sono stati, e sono ancora oggi, una spinta e un sostegno notevoli per gli studi di egittologia.

Prima di andare al GEM, facciamo questo viaggio… Ho affrontato fino a ora, in generale, la storia che ha portato alla nascita di uno dei più bei musei del mondo. Oggi, vi lascerò addentrare nella sua visita, sebbene, vi ricordo, molti dei reperti della collezione originaria sono già stati disposti nel nuovo GEM, sempre al Cairo. Di fronte all’ingresso, l’ampia sala è dedicata ai Periodi Pre (dal 4000 a.C. alla Dinastia “0”) e Proto Dinastico (I e II Dinastia), i due periodi che gli studiosi identificano, convenzionalmente, come le fasi di formazione dello stato egizio. Uno dei fiori all’occhiello del Museo egizio è la Tavolozza o Paletta di Narmer, realizzata in scisto, che celebra proprio l’unificazione dello stato egizio sotto un unico sovrano. Alta 64 cm e larga 42 cm, la Tavolozza di Narmer è riferibile alla cosiddetta Dinastia “0” (secondo una verosimile cronologia bassa corrisponderebbe al 2950 a.C. circa). La ricca decorazione della Tavolozza, ritrovata nel Tempio di Horus a Hierakonpolis, nel 1894, dagli archeologi Quibell e Green, presenta il trionfo del sovrano su entrambi i lati. In 26 la Ciminiera

particolare, il verso presenta il re, nel registro principale, con la corona bianca dell’Alto Egitto (il sud del paese), raffigurato nell’atto di abbattere con una mazza levata un nemico vinto, tenuto per i capelli e inginocchiato, secondo uno schema figurativo che diverrà canonico e avrà grandissima fortuna per tutta la durata della civiltà egizia. Sul recto, nel registro superiore, Nermer, con la corona del Basso Egitto (il nord del paese), è incedente con in pugno una mazza, nell’atto di avanzare verso quattro portatori di stendardi che lo precedono con gli emblemi probabilmente di regioni o nòmoi vinti, al di là dei quali sono disposti, su due file, i corpi dei nemici suppliziati con le teste tagliate collocate tra le gambe. A sinistra dell’ingresso del Museo egizio, si avvia il percorso dedicato all’Antico Regno dove è ancora alloggiata, in una teca, la statua del farone Djoser (III Dinastia) proveniente dal serdab (una camera destinata a conservare lo spirito del defunto) del suo complesso funerario. Proseguendo nella sala successiva, le tre triadi del farone Micerino (IV Dinastia) sono quelle che attirano i turisti: alte dai 92 ai 95 cm, realizzate in scisto grigio-verde, le statue, ritrovate da Reisner, nel 1908, nel tempio a valle di Micerino, a Giza, mostrano il faraone, sempre al centro, in cui in una stringe la mano della dea Hator, come una sposa, accompagnato dalla dea del nòmo di Diospolis Parva; in un’altra il sovrano non ha alcun contatto fisico con Hator né con il dio del nòmo tebano che incede alla sua sinistra; nella terza, il re è abbracciato da Hator e dalla dea del nòmo di Cinopoli, ricevendone la protezione. Il significato di questi gruppi statuari può essere identificato in offerte del


sovrano alla dea Hator o materializzazioni dei nòmi d’Egitto che avrebbero garantito al re un potere imperituro anche dopo la morte. Tra i reperti di rilievo ancora conservati nelle sale, troneggia la splendida statua in diorite del faraone Chefren (IV Dinastia). Alta 160 cm, larga 57 cm, questa superba statua è stata rinvenute nel 1860 da Mariette, insieme ad altre statue, nella sala a pilastri del tempio a valle di fronte alla sua piramide. Scolpita magistralmente nella diorite, la statua cela il mistero della regalità egizia mostrandolo come Horus vivente sulla terra. Frontalmente il re appare in tutta la sua maestà, assiso su alto trono, mentre nella visione laterale appare, incarnato in lui, il mistero divino sotto forma del falco celeste Horus, posato sul capo. La rivoluzionata esposizione del museo conduce il visitatore a incontrare la pregevole statua in legno di sicomoro, alta 112 cm, del sacerdote-lettore Kaaper (V Dinastia, Regno di Userkaf), detto anche “sindaco del villaggio”: incede con un lungo bastone, originariamente ricoperta di gesso, è stata rinvenuta da Mariette all’interno della mastaba del sacertote, a Saqqara, nel 1860. Notevole è anche la statua di scriba in calcare dipinto, alta 51 cm della prima metà della V Dinastia. Scoperta a Saqqara, questa statua di anonimo è stereotipata nella posa di scriba, con stilo, perduto, nella mano destra e un

Tavolozza o Paletta di Narmer

rotolo di papiro nella mano sinistra. Anche le statue in calcare dipinto di Rahotep e Nofret, alte rispettivamente 121 e 122 cm, ritrovate da Mariette, nel 1871, nella mastaba di Rahotep a Maidum, sono un capolavoro dell’inizio dell’Antico Regno (IV Dinastia, Regno di Snefru). La classica rigidità delle figure dei due personaggi è vivacizzata dalle incrostazioni in quarzo e cristallo degli occhi. Singolare è anche la statua in calcare dipinto del nano Seneb con famiglia. Alta 34 cm, larga 22,5 cm, profonda 25 cm, è riferibile al periodo tra V e VI Dinastia; è stata scoperta da Junker, nel 1926-1927, nella mastaba di Seneb, a Giza, rivela una certa dinamicità grazie alle diverse posizioni assunte dai membri della famiglia, in cui il nanismo di Seneb è mascherato dalla posa seduta. Il viaggio nell’Antico Regno si conclude con due manufatti altrettanto magnifici ma esposti, come gli altri, in modo abbastanza dozzinale. La statua di Ti, in calcare dipinto, alta 198 cm, riferibile al Regno di Niuserra (V Dinastia), rinvenuta presso il complesso funerario di Djoser, a Saqqara, è una delle più spettacolari dell’Antico Regno e mostra il dignitario in posa incedente. Di notevole pregio è anche la Portantina di Hetepheres, in legno ricoperto da lamine d’oro, alta 52 cm e lunga 99 cm, databile al Regno di Snefru (IV Dinastia). La portantina è decorata, alle estremità, da rosette dorate.

farone Djoser (III Dinastia) la Ciminiera 27


Le tre triadi del farone Micerino (IV Dinastia)

Faraone Chefren (IV Dinastia)

Scriba in calcare dipinto 28 la Ciminiera

Statue di Rahotep e Nofret

Sacerdote-lettore Kaaper

Statua di Ti


Portantina di Hetepheres

Il viaggio all’interno del Museo Egizio del Cairo prosegue. Dopo le sezioni dedicate ai periodi più antichi, fino all’Antico Regno, la visita entra nel vivo del Medio Regno, la cui cultura raggiunse un livello tale essere identificato come “età classica”, un punto di riferimento e confronto già per l’epoca successiva. Dei reperti rimasti in mostra, non spostati al GEM, ancora il bella mostra è la Statua di Mentuhotep II, in arenaria dipinta, alta 138 cm, larga 47, riferibile al Regno di Mentuhotep II dell’XI Dinastia (XXI secolo a.C.). Il re indossa la tunica bianca del Giubileo e la corona rossa, creando un contrasto cromatico di notevole impatto con il nero della pelle, evidente richiamo al dio della rigenerazione, Osiride. L’imponente statua fu rinvenuta da Carter a Dei el-Bahari, nel 1900, nel tempio funerario del sovrano. In uno degli ambienti laterali, fanno bella mostra diverse statue di Sesostri I seduto, in calcare, alte circa 200 cm, imputabili alla XII Dinastia (XX secolo a.C.). E’ un gruppo di dieci statue di Sesostri I, ritrovate sepolte presso il tempio funerario del re a el-Lisht, nel 1894, dall’Istituto francese di Archeologia del Cairo, in cui la perfezione del modellato accentua la maestà del sovrano. Di notevole impatto visivo è la Sfinge di Amenemhat III, in granito nero, alta 150 cm, larga 236 cm, attribuibile alla XII Dinastia (fine XIX-inizi XVIII secolo a.C.). Questa splendida statua, scoperta, nel 1863 da Mariette, si

ricollega a una serie di sfingi con criniera di Amenemhat III trafugate durante il Periodo Hyksos, ma anche tra la XIX e la XXII Dinastia, trasportate a Tanis per essere riutilizzate. Spettacolare è la doppia Statua di Amenemhat III, in granito grigio, alta 160 cm, larga 100 cm, profonda 80, attribuibile alla XII Dinastia (fine XIX-inizi XVIII secolo a.C.), riportata in luce a Tanisa, nel 1861, da Montet. Essa raffigura Amenemhat III come divinità nilotica, offerente vassoi di pesci e piante acquatiche. Di fattura unica è la statua del Ka di AuibraHor, in legno, laminata d’oro, intarsiata da pietre dure. Alta fino a 207 cm, è della XII Dinastia, Regno di Auibra-Hor (fine XVIIIprima metà XVII secolo a.C.). Rinvenuti negli scavi di Dashur nel 1894 da De Morgan, rapresenta il faraone Auibra-Hor, con le due braccia sul capo simboleggianti il ka, che esce dal naos. Il Pyramidion della Piramide di Amenemhat III (nella foto con i due pyramidion, quello a sinistra), in basalto, alto 140 cm e largo alla base 185 cm, contrastava con il calcare bianco che rivestiva la piramide del sovrano, a Dashur. Il pyramidion è impreziosito da eleganti incisioni geroglifiche disposte su tutti i lati, sormontate da due grandi occhi sul lato orientale.

Andiamo ancora avanti Ora vi mostrerò i reperti, rimasti nell’esposizione e non ancora trasferiti al GEM, del Nuovo Regno, di quei faraoni guerrieri, incluso Tutankhamon, che si succedono sul trono con l’esercito che si la Ciminiera 29


Statua di Mentuhotep II

Statua di di Amenemhat III

Statue di Sesostri I

Sfinge di Amenemhat III

Il Pyramidion della Piramide di Amenemhat III

impone come nuova realtà del panorama sociale. Le notevoli ricchezze che provengono dall’esterno contribuiscono al fiorire della società e al progredire delle arti. La guerra e la vittoria contro gli Hyksos asiatici, inaugura una dinastia forte e capace di respingere le minacce dall’esterno e per circa cinquecento anni si presenta come una delle super potenze nel panorama del Vicino oriente tra Bronzo Medio e Finale. Molti dei reperti presentati, incluso i pochi rimasti della celebre Tomba di Tutankhamon (le cui due foto della maschera sono state rubate all’attenzione dei solerti custodi), provengono da Tebe/Luxor, dove si trovavano le tombe reali di molti faraoni del Nuovo Regno e il Santuario più importante del paese, quello di Amon-Ra, a Karnak. Statua del Ka di Auibra-Hor, 30 la Ciminiera


Carter all’opera nella tomba prima della rimozione del secondo sarcofago antropomorfo di Tutankhamon

Andiamo con ordine Nel gruppo di quattro statue in granito in un ambiente del museo tra reperti del Medio e del Nuovo Regno, spiccano la Statua di Amenothep II con Meretseger (la seconda da sinistra, è in granito, alta 125 cm, di fine XV secolo a.C./inizi XIV secolo a.C., mostra il sovrano nell’atto di calpestare i nove archi, protetto dalla dea della riva occidentale tebana, Meretseger; la scultura proviene dalla cachette di Karnak, dove fu trovata da Legrain nel 1904) e il Gruppo statuario di Tutmosis IV con Tia (la terza da sinistra, è in granito grigio, alta 115 cm, larga 69 cm, di inizi XIV secolo a.C., in cui la regina madre Tia è assisa accanto al figlio faraone, entrambi dal volto sereno e abbracciati; il gruppo proviene dal Tempio di karnak). Interessante, seppur oscurata dal vetro, la Statua di Hathor nella Cappella hathorica, ascrivibile ai regni di Thutmosis III e Amenothep II, ine XV secolo a.C./inizi XIV secolo a.C. Thutmosis III incede sotto

la protezione di Hator in forma di vacca all’ingresso della cappella hathorica, al cui interno il sovrano compie un’offerta ad Amon-Ra. Rinvenuta a Deir el-Bahari nel 1906 dall’Egypt Exploration Fund. Di notevole impatto la Testa di colosso osiriaco di Harthepsut, in calcare dipinto, alta 61 cm, di fine XV secolo a.C. Una serie di pilastri osiriaci sul fronte e una fila di colonne corrispondenti sul retro ornano il portico della terrazza superiore del Tempio di Deir el-Bahari, che introduce al cortile delle feste a cielo aperto. I pilastri osiriaci presentano attributi maschili, così come la regina preferì farsi sempre rappresentare, con la pelle color rosso e la barba posticcia. I primi scavi del sito furono condotti dal Metropolitan Museum of Art nel 1926. Di notevole pregio artistico, la Statua a forma di sfinge in granito di Ramses II e quella di Thutmosis III offerente di due vasi globulari alla divinità, esposte lungo il corridoio di passaggio, in attesa di migliore collocazione. La sala dedicata ad Amarna e al faraone Amenhotep IV/Akhenaton è ancora quasi integra. Il Colosso di Akhenaton, in arenaria, alto 185 cm, ascrivibile al XIV secolo a.C., ritrovato da Chevrier, nel 1926, nel santuario dell’Aton a Karnak, mostra i caratteri tipici fisiognomici dell’età di Amarna. Notevole è anche il Rilievo amarniano in calcare dipinto, alto 55 cm, largo 48 cm. dallo spessore di 8 cm. Il faraone, unico sacerdote dell’Aton, svolge il rituale accompagnato dai suoi familiari alla luce del sole, fuori dal tempio. Il rilievo, proveniente dalla tomba reali di Amarna, fu rinvenuto dal Servizio delle Antichità nel 1891. Nella sala amarniana, splendito è l’Altare domestico con scena familiare, in calcare dipinto, alto 44 cm che mostra come l’arte di Amarna inaugura un nuovo stile più naturalistico, caratterizzato da ricchezza di movimento nelle scene e individualizzazione dei membri della famiglia reale. Fu portato alla luce da Borchardt a Tell el-Amarna nel 1912. Numerosi sono i frammenti di decorazioni pavimentali e murali in stile amarniano: in gesso dipinto, le bellezze della natura, cantate nell’Inno all’Aton, sono descritte in tutti i reperti presenti nella sala rinvenuti nei vari palazzi di Amarna a fine XIX secolo. la Ciminiera 31


Il piano superiore, dedicato alla Tomba di Tutankhamon, seppure magnifico per i reperti pregevoli ancora rimasti, tra cui la famosa Maschera funeraria del faraone, è difficile da godere nella sua bellezza a causa dell’enorme afflusso di pubblico. La maschera, in oro massiccio, pietre dure, quarzo, pasta vitrea, è alta 54 cm e pesa 11 kg. Fu ritrovata sulla mummia intatta del sovrano, ancora coperta dagli usuali oggetti rituali apposti sopra e tra le bende, come protezione. Il volto di Tutankhamon apparve così, in tutto il suo splendore, al suo scopritore, Koward Carter, nel 1922. Una menzione particolare alla Stele della Vittoria di Meremptah, ex Stele di Israele (con il mio amico Lorenzo di spalle), in granito nero, alta 313 cm, larga 163 cm e profonda 32cm, risale ad Amenothep III ma

Statua di Amenothep II

Sfinge in granito di Ramses II 32 la Ciminiera

fu modificata da Merenptah, XIX dinastia (1213-1203 a.C.), figlio e successore di Ramses II, noto per aver respinto libici e «popoli del mare» che avevano tentato con la forza di insediarsi nel Delta egiziano. Nella «stele della vittoria» si celebrano le vittoriose campagne militari di Meremptah in Palestina e, tra le tribù sconfitte, è per la prima volta menzionato Israele. La stele è stata rinvenuta da Petrie nel 1896 presso il tempio funerario di Merenptah, a Tebe Ovest. Incantevole è il colpo d’occhio fornito dalla sala centrale del pianterreno, ancora dominata dalle statue colossali del faraone Amenhotep III e della regina Teye.

Statua di Hathor

Sfinge di Thutmosis III

Testa di colosso osiriaco di Harthepsut

Faraone Amenhotep III e della regina Teye


Sala dedicata ad Amarna

faraone Amenhotep IVAkhenaton

Maschera funeraria di Tutankhamon

Frammenti di decorazioni pavimentali e murali

Stele della Vittoria di Meremptah la Ciminiera 33


Thutmosis IV

Si chiude... La rassegna sul Museo Egizio del Cairo termina con questa parte: vi mostro una sezione particolare del museo, quella dedicata alle mummie dei più grandi sovrani della storia faraonica, giunte a noi attraverso le celebri cachette. Il nuovo museo, il GEM, ospiterà una sezione super tecnologica dedicata alla conservazione e alla valorizzazione delle mummie, ma al “vecchio” Museo Egizio, la loro presenza, visitabile con biglietto a parte, ottiene ancora un enorme successo, in attesa di prossimo definitivo trasferimento. cachette Da sinistra, in alto, in senso orario, la mummia di Thutmosis II, Ramses II, Meremptah, Sethi I. In copertina, Thutmosis IV I meravigliosi corpi mummificati sono giunti fino a noi grazie all’infinita devozione dei sacerdoti della XXI Dinastia. I drammatici fatti che segnarono la fine del Nuovo Regno, e la conseguente crisi economica, significarono di fatto anche il saccheggio dei tesori della necropoli della Valle dei Re. Alla tarda età ramesside si datano numerosi papiri di resoconti di processi contro predatori a conferma di tale fenomeno, che coinvolse anche importanti funzionari dell’amministrazione locale. I ladri, in molti 34 la Ciminiera

casi, sembrerebbero essere stati in contatto con mercanti della riva orientale tebana, pronti a smerciare la mercanzia rubata. Fu allora che si cercò di salvare dal saccheggio le mummie dei faraoni, in base alla credenza religiosa che la distruzione del corpo avrebbe significato anche l’impossibilità di accedere alla vita ultraterrena. Gran parte delle mummie reali venne così radunata in due nascondigli, la tomba di Amenhotep II nella Valle dei Re (KV 35) e una tomba nella necropoli di Deir el-Bahari (DB 320) di dubbia attribuzione, nota come la cachette di Deir elBahari. Mancano però ancora alcuni sovrani all’appello, quali Horemheb, Ay e Thutmosi I Fu nel 1881 che Emile Brugsch, a nome dell’allora direttore del Servizio delle Antichità, Gaston Maspéro, entrò per primo nella DB 320, grazie all’aiuto di un membro della famiglia locale di Abd el-Rassul, che aveva scoperto questa tomba nel 1875, saccheggiandola a poco a poco. Era stata proprio l’introduzione nel mercato antiquario di oggetti reali ad avere incuriosito il Servizio delle Antichità, che aveva così aperto indagini al riguardo. La cachette venne svuotata in soli due giorni e le mummie presero la strada per Il Cairo, via fiume, richiamando lungo le rive una grande folla ansiosa di dare l’estremo saluto ai loro più insigni sovrani. Nel 1898 l’egittologo francese Victor Loret


scoprì la tomba di Amenhotep II e con grande sorpresa trovò in due annessi le spoglie di altri faraoni, posti uno accanto all’altro. Anche questi corpi presero la strada per Il Cairo, tranne la stessa mummia di Amenhotep II che venne lasciata riposare nel suo sarcofago e nella sua tomba, perché uno dei pochi sovrani ad essere stato ritrovato nel suo originario luogo di sepoltura. Ma dopo un’incursione di predatori, appartenenti ancora una volta alla famiglia di Abd el-Rassul, nel 1901, anche questo corpo fu trasportato via. La maggior parte delle mummie e dei sarcofagi, in cui erano state adagiate in seguito allo spostamento, presenta una sorta di etichetta in ieratico che, in alcuni casi, indica soltanto il nome del defunto, mentre in altri più dettagliatamente fornisce informazioni anche sulla data dello spostamento e sulle persone coinvolte.

Le mummie erano state dunque evidentemente bendate di nuovo e restaurate, in alcuni casi, in molto posti diversi, come testimonierebbero graffiti e altri documenti. Tali accadimenti comportarono anche il riutilizzo di oggetti dei corredi funerari regali durante il Terzo Periodo Intermedio, come in molti casi è stato possibile appurare. Le mummie reali furono scientificamente esaminate per la prima volta nel 1912 da G. Elliot Smith, che pubblicò il suo studio nel volume The Royal Mummies, denunciando la necessità di un loro esame radiologico. Sarà soltanto nel 1967 che l’Università del Michigan, in collaborazione con l’Università di Alessandria d’Egitto, a seguito di un loro intervento per lo studio radiografico di popolazioni nubiane della seconda cateratta, esaminò ai raggi X tutte le mummie del Museo del Cairo, dal Medio Regno all’Età

Da sinistra, in alto, in senso orario, la mummia di Thutmosis II, Ramses II, Meremptah, Sethi I. la Ciminiera 35


Greco-Romana, incluso le celebri cachette. Si arrivò così a un atlante delle mummie reali del Nuovo Regno, che conta 34 mummie, di cui 31 scheletri completi. Molti dei corpi risultarono avere subito numerosi traumi post-mortem, addirittura vere e proprie amputazioni in alcuni casi, inferti dagli stessi predatori alla ricerca di gioielli e amuleti preziosi nascosti generalmente tra le bende. Questo studio sistematico ha permesso di conoscere numerose patologie di cui soffriva la popolazione dell’epoca, nonché

di approfondire meglio la tecnica di imbalsamazione faraonica che, proprio con il Nuovo Regno, raggiunse il più alto livello di specializzazione, concordando in gran parte con le notizie fornite da Erodoto, che indica tredici passaggi sequenziali dalla morte alla sepoltura. A questa rassegna mancano diverse sezioni del museo, visitate, nell’ultimo viaggio, in modo approssimativo per mancanza di tempo e, pertanto, non verranno recensite. Presto provvederò a recuperare la mancanza…

La chiave di volta di Iside viene issata sopra l’ingresso principale del Museo Egizio. Foto di V. Giuntini. Il Cairo, Egitto 1910.

Sul prossimo numero

LEONIDA A TEATE di Daniele Mancini

Ho impiegato del tempo ma ho voluto partorire questo racconto su una vicenda storica frutto della mia fervida fantasia, un altro racconto che arricchisce la collana “Teate si racconta” del mio modesto blog di archeologia.

36 la Ciminiera


STORIA DI UN AFFORCATO SUICIDA E DI UN PADRE PARRICIDA PER AMORE Si narra che in Acerenza, in Basilicata, tale Vito Rocco Sileo, per una serie di gravi reati fu condannato a morte. Il vecchio padre, Giuseppe Antonio Sileo, dopo aver speso tutto ciò che aveva, pensò di andare a trovare il figlio in galera.

per salvarlo, aveva venduto già tutto i suoi beni, e non essendovi inoltre altre strade giudiziarie da perseguire, sarebbe stato opportuno, per non infangare il nome della famiglia, ormai povera e costituita dai vecchi genitori, da tre fratelli e sorelle, di scegliere Così, conosciuto in anticipo di morire dignitosamente direttamente da un altro figlio, bevendo un veleno che aveva di Angelo DiLieto che aveva deliberatamente portato con sé. Se non lo avesse inviato a Napoli, che la bevuto sarebbe stato da lui per Cassazione aveva respinto la sempre maledetto, mentre se richiesta di sospensione della condanna a lo avesse fatto, la sua anima avrebbe ricevuto morte, prima che la notizia arrivasse, si recò benedizioni e preghiere. nel carcere dove il figlio era rinchiuso con la Qualche lacrima scese sul viso del figlio, si scusa di voler desinare con lui per l’ultima mise il veleno in un bicchiere, baciò la mano volta. al canuto padre e bevve. Corrotti i gendarmi, non gli fu difficile A questo punto il padre si alzò, benedisse mettere in atto il suo piano. il figlio tre volte e si allontanò. Nell’arco di Finito il pasto, informò il figlio del mezz’ora il figlio era morto. pronunciamento della Cassazione e della Ovviamente quando la giustizia ebbe notizia sentenza di morte che sarebbe stata tra breve dell’accaduto, fu costretta ad arrestare il eseguita proprio innanzi alla sua casa. parricida. Proseguendo con gran serietà nel suo In questa storia, lo scenario dei sentimenti si discorso, affermò che non potendo più sposterà di volta in volta, per cui, ricostruendo aiutarlo in alcun modo, anche perchè, con più fedeltà possibile gli avvenimenti, si la Ciminiera 37


arriva a tracciare ed a valutare con difficoltà inusitata la molteplicità degli stati d’animo e delle considerazioni che sicuramente si saranno accavallati nello svolgersi dell’intera vicenda umana. Infatti si avranno da una parte gli attori che vivranno i fatti in un alternarsi di speranze deluse, di dubbi, di sofferenze fisiche e morali, mentre dall’altra, vi saranno i giudici che, innanzi ad una situazione di senza ritorno, faranno fluttuare i loro pensieri tra il dovere deontologico di applicare in pieno la giustizia ed il ben più difficile compito di ponderare gli avvenimenti soprattutto sotto il profilo del sentimento, dell’ umanità e della pietà umana. L’incontro tra padre e figlio sarà stato sicuramente molto patetico e triste, però è da ipotizzare che anche il comportamento dei giudici sarà stato inusitato e misericordioso. Infatti, essi, pur osservando la legge, ascoltarono soprattutto le loro intime emozioni, perchè con una serie di motivazioni, dettate più dalla coscienza che dal diritto, tentarono di salvare quel genitore che aveva ucciso col veleno un figlio già morto e senza speranza e che in ogni caso non avrebbe potuto ricevere più alcuna grazia. Il quadro è veramente intrigato e difficile perchè si rileva un padre preoccupato della morte del figlio condannato all’impiccagione e nello stesso tempo vi è la contestuale ferma volontà di sottrarlo a quest’ infamia, anche se indirettamente vuole altresì tutelare per l’avvenire l’onore della famiglia. Dagli atti processuali, inoltre, si scopre che il figlio Rocco era veramente un autentico delinquente, un vero brigante che non aveva avuto rispetto dell’onore e della vita altrui, e che forse molto probabilmente, anche la sua famiglia era temuta, perché facente parte di un clan di malfattori che terrorizzava spietatamente i paesani e tutto il territorio. Infatti, queste ultime informazioni sono riportate negli atti con formula dubitativa perchè non si ebbe mai la piena certezza della veridicità di quanto fosse stato rapportato. Però se la morte del figlio, per veleno e non per impiccagione, doveva salvare la 38 la Ciminiera

La bellisima Cattedrale di Acerenza.

famiglia dal disonore, questa premeditata uccisione, secondo l’ ipotizzata logica del padre, aveva anche la funzione di far sì che la morte di Rocco per suicidio non caricasse emotivamente il contado contro il nucleo familiare. Infatti, se nel tempo passato vi era sempre stato da parte di tutti timore e rispetto verso “il clan“, durante o dopo l’esecuzione, sicuramente la massa, che singolarmente è sempre vile ma che, nell’insieme, per le angherie subìte, sa fare esplodere la rabbia accumulata negli anni, avrebbe potuto acquistare coraggio e forza e caricarsi esplosivamente a tal punto da aggredire ed uccidere eventualmente per vendetta anche gli altri figli. Intanto, la famiglia non poteva più salvarlo perché il padre, quando era andato a trovare il figlio in carcere, con vergogna e dignità gli aveva rappresentato l’imo stato di povertà in cui la famiglia in quel momento era caduta. Perciò, con dolore, aveva riferito che non poteva fare più nulla per lui, perché aveva già venduto tutto, compreso la vigna che lui stesso aveva piantato e che era stato l’ultimo bene rimastogli ancora in proprietà. Con questo scenario era veramente difficile


sostenere se la soluzione scelta dal genitore fosse stata giusta o meno, così come non si era nemmeno in grado di plaudire o per converso di criticare la decisione che i giudici avrebbero potuto emettere contro o a favore del padre. I più sapevano benissimo che la legge avrebbe dovuto seguire la sua strada fino in fondo, per cui, anche se pienamente consapevoli che i giudici, per come la cronaca riferiva i fatti delittuosi, non avrebbero certamente emesso una sentenza assolutoria nei confronti del vecchio Sileo, pur tuttavia caritatevolmente confidavano e speravano nell’emissione di un verdetto di assoluzione, fondato sul senso di pietà e di umanità verso un infelice padre, piuttosto che nella stesura di un provvedimento di condanna, elaborato sul piano strettamente giuridico-penale. Ma sicuramente vi dovettero essere anche coloro che restarono increduli, perplessi e dubbiosi, sia innanzi agli eventi succedutisi ed al commovente comportamento della famiglia Sileo, che davanti alle decisioni che gli organi giudicanti dovettero adottare. Ancora oggi si è portati a chiedersi se l’eliminazione del figlio Rocco da parte del padre fu un sincero e profondo atto di pietà, un tenero tentativo per farlo soffrire di meno fisicamente e psicologicamente, oppure fu un’azione premeditatamente egoistica e crudele sotto il profilo umano. Infatti, il padre, con la notizia dell‘esecuzione del figlio, pensò veramente al crollo del prestigio personale malavitoso sul territorio e della stella in caduta della famiglia ferita, oppure secondo un’altruistica valutazione fu invece preoccupato della ferocia della folla che avrebbe potuto scatenare e rivolgere ogni tensione contro gli altri figli? In questo groviglio di tensioni, Giuseppe Antonio Sileo pensò bene di sacrificare penalmente se stesso per salvare la famiglia dal disonore, poi di evitare al figlio Vito una

morte disonorevole visto che era già morto per mano della stessa giustizia ed infine di salvare il resto della famiglia nel caso che avesse potuto subire l’aggressione da parte della folla giustiziatrice. Però, quando durante il colloquio, il padre riferì al figlio che la Cassazione aveva respinto la sua domanda di grazia, dovette essere molto duro indurlo a prendere la drammatica decisione e a proporgli con crudezza le due opposte ipotesi: condannarlo per l’eternità, o perdonarlo ed assolverlo nel caso che avesse compiuto l’estremo gesto. Il figlio intanto, forse per la prima volta, visse un momento nel quale il suo cuore duro fu profondamente toccato, per cui, nel comprendere a pieno il contenuto di quelle parole, con grande immediatezza e coscienza, baciò la mano all’infelice padre, quasi per ringraziarlo di quella liberatoria e dignitosa decisione, alla quale sicuramente non aveva minimamente pensato, e nel prendere il veleno, si sottrasse dall’infamante esecuzione in pubblico vicino casa sua e tra i suoi certamente soddisfatti e compiaciuti paesani. Però, quando fu scoperto l’intrigo pietoso, anche il padre, dopo il suo arresto, visse l’incubo della condanna a morte, che il Pubblico Accusatore aveva già chiesto nella requisitoria del 27 giugno del 1811. A questo punto i giudici si trovarono per la prima volta innanzi ad un inusitato caso di coscienza e così furono costretti a chiedersi se la condanna a morte del figlio per impiccagione avesse potuto offendere veramente la famiglia, ed inoltre, se la pronunciata condanna a morte avesse potuto realmente arrecare grande disonore non tanto al reo, quanto e soprattutto a tutta la stirpe e agli stessi discendenti. Restava anche la considerazione che Vito Rocco Sileo sarebbe morto lo stesso per mano dello Stato, che tra l’altro gli aveva negato la grazia, e che inoltre lo aveva affidato irreparabilmente nelle mani del boia per compiere il suo lavoro di giustiziere. La Cassazione fu interpellata ed innanzi a questo dilemma, preferì suggerire agli organi decidenti di emettere una pronuncia in privato e di accomodare la cosa in silenzio, perchè era un caso veramente unico e che molto probabilmente non si sarebbe più la Ciminiera 39


verificato nella storia degli uomini. Alla fine il vecchio padre Giuseppe Antonio Sileo fu assolto e restituito in seno alla famiglia, ancora più povera, ma con l’onore salvo. Però, assoluzione a parte, il dilemma rimase sempre: comminare la morte spettava al padre, che aveva così salvato l’onore della famiglia, oppure allo Stato che aveva diritto di dare esecuzione al dettato dei giudici della Corte Criminale, diritto che non aveva potuto esercitare perchè gli era stato sottratto dallo stesso padre ? Ma a questo punto, tralasciando le considerazioni di ordine psicologico, giuridico ed emozionale, la vera storia va riesaminata sulla base della lettura degli autentici atti giudiziari e non appresa solo dal fantasioso racconto che il cronista, per fare maggiore presa sull’opinione pubblica, presentò a fasi alterne in modo profondamente patetico e commovente ed in altri casi da spietato giustizialista. In verità i fatti si svolsero in un modo un po’ diverso anche se poi nel complesso la sostanza rimase. Infatti le storie hanno sempre un fondamento di realtà, però nel narratore, specie nei cronisti, vi è sempre tendenzialmente uno spirito ed un impulso strano, cioè quello di raccontare gli avvenimenti, aiutandosi con strumenti passionali, speculativi o di altro genere e facendosi aiutare anche notevolmente dalla fantasia, che di solito non manca mai e che in ogni caso sa essere pure molto fervida, convincente ed anche spietata. Pertanto, quando vi è il dubbio sulla veridicità degli avvenimenti e si rileva che il racconto orale non coincide perfettamente con la storia scritta, allora, in nome della verità, occorre caparbiamente indagare e rinvenire documenti inediti ed inconfutabili che possano riportare, il più possibile, il racconto nell’alveo dell’autenticità storica. Così, dal riesame della documentazione, vien fuori che il territorio dove è sorta la vicenda non è Acerenza, ma Ruoti, un antico paesino della Lucania, nei pressi di Potenza, sito in cima ad un colle; che i delitti commessi da Vito Rocco Sileo sono di una gravità e di un’efferatezza inaudita; che la vicenda si svolge in modo diverso da quella romanzata 40 la Ciminiera

Panorama di Ruoti (PZ)

e che nel patetico della scena l’incontro non avviene tra padre e figli, ma tra il figlio ed un estraneo che ha avuto l’incarico di consegnargli un messaggio della famiglia. A questo punto il racconto diventa una diversa storia, ma racchiude lo stesso in sé una grande e forte tensione. Vito Rocco di Giuseppe Antonio Sileo e di Annamaria Contaldi era nato e battezzato a Ruoti il 3 gennaio 1776. Il 27 aprile 1797 l’Arciprete Don Felice Angiolillo, lo stesso che lo aveva battezzato, lo aveva congiunto in matrimonio con Cecilia Gabriele. Il padre di Giuseppe, originario di Avigliano, era massaro ed aveva una propria casa, vigne, pecore ed apparentemente poteva essere considerato un benestante. Giuseppe Antonio Sileo e la moglie Annamaria Contaldi (o Contaldo) li incontriamo per la prima volta malmenati e feriti durante i tumultuosi eventi della storia di Ruoti del 1768. Gli scontri violenti erano originati tra il feudatario Luigi, figlio di Ferdinando Francesco Pascale Capece Minutolo, VI Principe di Ruoti ed i cittadini, perché questi ultimi erano stati spogliati, con sequestri di pane e di “robbe” commestibili,


a causa di tasse non pagate e ritenute particolarmente esose, ed inoltre, perché erano stati privati dallo stesso feudatario, nelle località “Borriti e Serradenti”, dell’erba demaniale che doveva servire per il pascolo delle loro bestie. Ma Antonio Sileo, che si era ribellato più degli altri, venne nella circostanza arrestato, anche se fu subito liberato dal suo stesso popolo che aveva difeso, dopo avere assaltato la prigione e scassinato la porta. Vito Rocco, figlio di Giuseppe Antonio Sileo, invece, con la scusa che era lo “scherano“ del barone del posto, da cui riceveva ordini di violenza e di “oppressioni”, oltre che protezione, era invece veramente un delinquente che commetteva reiteratamente azioni delittuose con grande efferatezza e spirito vendicativo, nel mentre la gente, costretta a subire la tracotanza e la ferocia del suo comportamento, non lo accusava alle Autorità per timore di ricevere angherie e ritorsioni ben più gravi. Inoltre, chi aveva il coraggio di denunciarlo, si accorgeva dall’inerzia della complicità dell’autorità giudiziaria e del minaccioso potere feudale esistente sul territorio. Nel 1794 scoppiò a Ruoti una sommossa

contro il barone e Vito Rocco indirizzò “una scoppettata“ contro Francescangelo Gentilena (o Gentilesca) e sua moglie Antonia Berardo. Nel 1799 rapì e violentò tale Carmina Buccico. Nel 1802 compì azioni ignominiose nei confronti di una ragazza di Picerno, certa Teresa Capece, serva di un commerciante di salnitro per polvere da sparo. Quest’ultimo era stato costretto a cedere la ragazza a Vito Rocco, sennonchè la moglie Cecilia, non avendo giustamente accettato tale situazione, aveva messo fuori casa la povera Teresa intimandole altresì di ritornarsene nel suo paese di origine. Intanto, nell’attesa di un passaggio, si era rifugiata momentaneamente nella casa di un aiutante della famiglia Sileo, che probabilmente per pietà aveva ospitato quest’infelice domestica. Ma una notte, sette uomini mascherati scassinarono la porta della casa del garzone, afferrarono Teresa Capece che si era nascosta sotto il letto, la condussero nel giardino e la violentarono tutti con grande libidine, Vito Rocco compreso. Nel 1803 la ribellione di alcuni contadini verso certe imposizioni baronali che non intendevano pagare sfociò in un altro fatto di sangue: Vito Rocco ferì ad una gamba con un colpo di “scoppetta“ tale Domenico Telesca di Avigliano, che credeva in combutta con i ribelli, poi, temendo una vendetta, la sera stessa si appostò su una loggetta della casa dello stesso Telesca al fine di eliminarlo definitivamente. Anche questa volta ferì il Telesca ad un braccio, però il somaro che lo conduceva restò ucciso. Nel 1804 violentò la vergine Domenica de Josepho Errichetta. Nel 1808 rapinò un orefice ambulante siciliano, tale Giuseppe Fiore, per poi ucciderlo con un colpo di fucile, sezionandone il corpo con un coltello. Ferì inoltre col coltello Vito Mariano e la moglie Angiola Fiore. Nel febbraio 1808, ancora, uccise in casa la propria moglie Cecilia Gabriele, oppure la stessa restò vittima di una vendetta, che oggi si definirebbe trasversale. Con la morte dell’orefice la giustizia incominciò finalmente a muoversi. Vito Rocco, per tutti i reati che reiteratamente aveva commesso, specie contro le donne, la Ciminiera 41


Acerenza

stava divenendo veramente il terrore della zona. Sicuramente per corruzione degli stessi scrivani giudiziari, i fascicoli non furono più rinvenuti e quindi dovettero essere ricomposti. Se Vito Rocco nel 1807 doveva risultare in carcere per i reati commessi e continuò invece nel 1808 a mettere in atto altri delitti, voleva dire che in qualche modo era riuscito ad ottenere il favore della libertà, anche perchè, sicuramente, per timore, nessuno testimoniava contro di lui, denunciando le angherie subìte. Nessuno denunciava i reati e la paura era un fatto automatico che induceva tutti a subire minacce ed aggressioni senza sporgere querela. Senza dubbio anche gli scrivani giudiziari, in cambio di piccoli favori o di protezione, si resero indirettamente responsabili delle azioni delittuose successive che il Sileo non avrebbe potuto commettere se fosse stato rinchiuso in tempo nelle carceri. E molto probabilmente non sarebbe stato nemmeno 42 la Ciminiera

condannato a morte per i gravi reati commessi nel periodo in cui avrebbe ricevuto il favore di restare libero, perché, da recluso, non avrebbe potuto nemmeno commettere altri terribili misfatti e non si sarebbe altresì più sentito tanto sicuro e forte nella sua ormai precaria condizione di protetto. Finalmente qualcosa si scoprì nel 1808, allorchè nelle indagini avviate sulla violenza subìta dalla Buccico, il cognato di Vito Rocco, Domenico Gabriele, fratello della moglie Cecilia, ammise di aver sentito le urla della Buccico, ma che per paura del cognato non era intervenuto. Il 26 giugno 1810, Vito Rocco Sileo, per l’azione violenta contro la serva Teresa Capece, essendo un reato classificato come speciale, fu condannato a morte, con sentenza da eseguirsi a Ruoti nei pressi della casa della sua stessa famiglia. Intanto il ricorso che era stato inoltrato in Cassazione era stato respinto, per cui non restava altro che l’esecuzione della pena capitale mediante impiccagione.


A questo punto il padre, per non far morire un figlio sulla forca e salvare così anche l’onore della famiglia, ebbe l’idea di ucciderlo. Così la sera del 2 settembre 1810, Giuseppe Antonio Sileo, dopo aver appreso il mancato accoglimento del gravame da parte del figlio mandato appositamente a Napoli per conoscere in anticipo l’esito del ricorso in Cassazione, in presenza della propria moglie Anna Maria Gabriele, chiese ad un suo nipote, tale Leonardo Antonio Di Carlo, alias “Scartillo“ se poteva accompagnarlo, prendendosi cura delle cavalcature, perchè avrebbe preferito vedere da vivo per l’ultima volta il figlio in carcere e non “afforcato“ nei pressi della casa. Leonardo Antonio assentì, solo che la mattina, il vecchio Sileo, con la scusa che l’anziana moglie non avrebbe sopportato il viaggio e non avendo nemmeno lui la forza di andarvi, pregò il nipote di recarsi da solo, stabilendo altresì il compenso in venti carlini. Gli consegnò delle lettere ed aggiunse ancora che se si fosse affrettato lo avrebbe trovato ancora nelle carceri di Matera, all’epoca capoluogo della Basilicata giudiziaria, altrimenti lo avrebbe incontrato cammin facendo, perchè i gendarmi lo avrebbero condotto tra breve a Ruoti per l’esecuzione. Scartillo in due giorni, 3 e 4 settembre del 1810, raggiunse Matera, andò presso il capoposto delle carceri di S. Giovanni di Dio, gli parlò ed ebbe così la possibilità di incontrarsi con Vito Rocco, ignorando che sarebbe stato il tramite di un assassinio. Nell’incontro Vito Rocco ricevette dalle mani dell’incaricato due lettere: una doveva contenere all’in circa le decisioni del padre, l’altra doveva contenere il mortale veleno. A missione compiuta Scartillo, appena ritornò al paese, fu pagato con i venti carlini concordati. Quella sera i compagni del carcere si accorsero che Vito Rocco si presentava particolarmente turbato, come pure il giorno dopo notarono che non stava bene. Vito Rocco si era già avvelenato, e pur soffrendo per la corrosione interna, affermava che il dolore era dovuto ad una “ritenzione di urina“ che aveva avuto qualche tempo addietro. Giovambattista Torricelli, il medico del carcere, prescrisse al detenuto dei farmaci, che ovviamente rifiutò, e quando il prete

giunse presso di lui, egli era già morto. Erano le 14 del 5 settembre del 1810. Il Regio Procuratore Generale presso la Corte Criminale e Speciale della Basilicata, pur pienamente certo che il condannato non aveva ancora avuto notizia dell’esito del gravame in Cassazione inoltrato per ottenere la sospensione della pena capitale, invitò lo stesso il Giudice di Pace di Matera ad effettuare un’autopsia su quel cadavere. All’esame parteciparono il chirurgo fiscale, che poi era lo stesso medico del carcere Giovambattista Torricelli, ed il collega Emanuele Padovani. Le conclusioni furono che il condannato aveva ingoiato un veleno spumoso e nero, tipo arsenico od altro, che gli aveva infiammato le labbra e la lingua, oltre che corroso e prodotto ulcerazioni all’esofago, ai polmoni con relativi vasi sanguigni, al duodeno ed alle viscere stesse, che erano divenute livide ed anche particolarmente fragili. Ovviamente Leonardo Antonio Di Carlo, alias Scartillo, appreso la notizia della morte di Vito Rocco per avvelenamento, temendo un suo personale coinvolgimento nell’accaduto, invitato a deporre il 24 marzo 1811, anche perché facilmente individuato come latore, dichiarò che il padre di Vito Rocco gli aveva dato incarico di consegnare al figlio due lettere, dove probabilmente in una di esse vi doveva essere il veleno che il figlio aveva tempestivamente ingerito. Il 27 giugno del 1811 fu emesso un mandato di arresto contro Giuseppe Antonio Sileo, imputato per il reato di parricidio nella persona del figlio Vito Rocco Sileo, mediante la propinazione di veleno. La Corte Criminale nella sua sentenza non confermò il capo d’imputazione ed assolse Giuseppe Antonio Sileo dal reato ascrittogli con la motivazione che molto probabilmente era stato lo stesso figlio a procurarsi il veleno e non quindi il padre a farglielo recapitare. Le conclusioni della Corte Criminale erano ampiamente fondate sul fatto: - che la legge dell’epoca non prevedeva la punibilità di chi avesse aiutato un suicida a suicidarsi, quando questi era stato condannato a morte; - che non v’era più alcuna possibilità di essere salvato dalla clemenza della giustizia perchè la Cassazione aveva confermato la Ciminiera 43


l’esecuzione; - che se il padre in qualche modo si era mosso, aveva agito per far morire un figlio in un modo meno infamante per sé e meno disonorevole per la famiglia; - che se lo aveva fatto, si era adoperato allorquando aveva avuto la piena certezza che nulla avrebbe più potuto fare per salvare il figlio per la mancanza di mezzi economici ed anche perchè ormai tutte le tappe giudiziarie erano state già toccate senza alcuna speranza; - che la comunicazione riguardante la definitiva conferma della sentenza di morte da parte della Cassazione, era arrivata al figlio Vito Rocco quando in effetti era già morto; - che la spada della giustizia, che aveva implacabilmente già deciso, lo avrebbe lo stesso irrimediabilmente privato della vita, mentre nella mente del padre non vi era stata mai né la volontà delittuosa e delinquenziale, né alcun dolo e nemmeno l’intenzione o l’ animo di arrecare offesa alla Società, sottraendo il condannato allo spettacolo pubblico; - che da parte del genitore non v’ era mai stata l’intenzione di prendersi beffa della Giustizia non facendo eseguire l’esecuzione; - che il padre aveva difeso il diritto alla vita del figlio ricorrendo sino all’ultimo grado dell’Autorità Giudiziaria Superiore privandosi altresì di tutti i mezzi finanziari a disposizione; - ed infine che aveva tutelato anche il diritto del figlio di morire nel modo più dignitoso, facendolo anche pentire, col suo gesto, di tutte le malefatte commesse, oltre che salvaguardato la famiglia dalla reazione popolare nel momento in cui vi sarebbe stata la pubblica impiccagione. La Corte, quindi, non dando luogo all’esecuzione del mandato di arresto, dichiarò Giuseppe Antonio Sileo, alla data del 5 luglio 1811, non colpevole di parricidio. Sicuramente i giudici che avevano emesso la sentenza, soprattutto perché si erano trovati innanzi ad un caso nuovo, impensabile ed unico nella storia degli uomini, si erano compenetrati talmente nella sofferenza e nel dolore del padre, che erano riusciti a trovare tutte le motivazioni possibili per poterlo assolvere. Però, con una tale sentenza, come era uso all’epoca, si voleva anche far credere che nell’ atto di clemenza verso il padre vi era pure la volontà del regnante, volontà che si faceva rientrare in quel quotidiano processo 44 la Ciminiera

celebrativo per magnificare le numerose ed onorevoli imprese del Re Gioacchino Murat. Innanzi alla sentenza di incolpevolezza, per dovere d’ufficio e come atto dovuto, il Regio Procuratore Generale della Corte Criminale della Basilicata G. Paladini, il 17 luglio 1811, chiese l’annullamento del provvedimento del 5 luglio, sostenendo che non v’era il diritto del padre di uccidere il figlio condannato a morte perché doveva sottrarsi la famiglia dall’infamia; - che nel diritto romano era più condannabile chi uccideva col veleno che con il ferro; - che non poteva essere concepita la logica che il padre poteva uccidere il figlio visto che fra poche ore sarebbe stato ugualmente giustiziato, perchè un genitore avrebbe dovuto sperare sino all’ultimo, probabilmente confidando in una grazia o in un indulto da parte del Principe; - che, contrariamente a quanto sostenuto, l’infamia restava sempre in testa al colpevole e mai in testa alla famiglia. - con l’occasione citava, infine, il caso di quattro militari che erano stati condannati a morte e che proprio all’ultimo il Sovrano aveva fatto sospendere l’esecuzione salvandoli. Certamente in quest’ultimo richiamato episodio il reato commesso, le circostanze, le singole personalità degli imputati ed altri elementi concomitanti avranno senza dubbio giustificato l’atto di clemenza da parte del Sovrano, interprete anche della volontà popolare, mentre invece nel caso di Sileo, proprio per il suo particolare passato di persona violenta, vendicativa e di assassino feroce e spietato, questi non poteva godere né della pietà del popolo e né di quella del Re. Il Sileo non era amato dalla gente per tutto quello che aveva commesso, per cui il popolo, innanzi ai quotidiani gravi rischi, senza dubbio avrebbe preferito, voluto e desiderato l’eliminazione del colpevole, come liberazione di un tremendo flagello pericoloso e non avrebbe favorevolmente accolto l’eventuale atto di clemenza del Re. Nonostante tutto, in data 26 settembre 1811, l’adìta Gran Corte di Cassazione confermò la sentenza di assoluzione ponendo il dubbio se fosse stato realmente il padre a procurare al figlio il ferale veleno. Infatti, Giuseppe Antonio Sileo, durante l’interrogatorio, fu


sempre colui che insistette sull’estraneità dei fatti e su una versione di non colpevolezza, tanto da convincere i giudici ad avere il sospetto che fosse stato personalmente Vito Rocco a procurarsi il veleno e non altri. In poche parole la Giustizia volle forse assolvere l’incolpevole parricida sulla base del dubbio insinuato, ma pensò anche alla non comune forza ed al coraggio che dovette avere e che solo l’amore di un padre verso un figlio delinquente che ormai aveva visto, senza alcuna speranza, morto sulla forca, aveva potuto spingerlo sino al punto di rischiare in prima persona. Probabilmente vi furono anche altri personaggi di secondo piano, che forse collaborarono col padre, perchè l’azione delittuosa raggiungesse il suo immediato risultato. Infatti nel 1810 a Ruoti vi erano due speziali e farmacisti : Pasquale Isidoro Contaldi, che sicuramente era un parente della moglie del parricida, perchè si chiamava Anna MariaContaldi e Francesco Gabriele, che doveva essere invece parente della moglie del suicida-assassinato. Forse furono proprio essi stessi a procurare il veleno a Giuseppe Antonio Sileo e a preparare le due lettere, in quanto il parricida era analfabeta. Ed inoltre, forse furono essi stessi, pienamente consapevoli del grave rischio che tutti avrebbero corso per il reato di veneficio, che dovettero sconsigliare al vecchio padre ed alla madre di partire alla volta del carcere di Matera per vedere per l’ultima volta il figlio ed avvelenarlo. Ma probabilmente all’ultimo istante mancò al padre anche il coraggio di consegnare personalmente al figlio il veleno perchè si suicidasse, oppure fu una calcolata precauzione, perché affidare la consegna delle lettere ad un estraneo avrebbe dato meno nell’occhio, anche perché l’ignaro nipote si sarebbe comportato naturalmente senza far generare sospetti ed esternare uno stato di agitazioni e di emozioni che avrebbero potuto in qualche modo tradirlo. Certamente nella storia dei Sileo si ha notizia che solo Vito Rocco era un malvagio, un vendicativo ed un donnaiolo spietato, mentre non si sa se anche la famiglia fosse stata poco raccomandabile, prepotente, nefanda, oppure se i genitori, con gli altri figli,

furono invece soltanto dei poveri contadini dediti al lavoro, alla fatica ed alla famiglia, i quali dovettero sopportare il caratteriale comportamento di un figlio o di un fratello nato male. Questa triste storia la gente la volle cancellare quasi subito dalla memoria e dal territorio, per cui il velo dell’oblio cadde improvvisamente sull’intera vicenda, perché tutti preferirono dimenticare un suicida criminale ed un padre infelice che era divenuto parricida per amore. Oggi, chi legge queste pagine, anche se pienamente consapevole che i fatti appartengono ad un lontano passato e che riguardavano persone ormai scomparse da lungo tempo, resta emotivamente disarmato, titubante e col cuore. A conclusione di questa triste storia, resta però l’ amara considerazione che nell’attuale Società, in assoluto, dovrebbe essere bandita la pena capitale come giusta misura dello Stato nei confronti dello spietato assassino o nei confronti di chi, per motivi ideologici, viene considerato un rivoluzionario ed un pericoloso attentatore dello stato pubblico. L’eliminazione di una persona per condanna da parte di giudici, spesso timorosi ossequienti di un potere politico corrotto e falso, è segno di grave disumanità e manifesta nello stesso tempo la debolezza ed il terrore di uno Stato, che all’alternativa del recupero dell’individuo, sceglie la facile e risolutiva via dell’annientamento dei valori e della vita umana, tutela invece che in altri Paesi è stata raggiunta con sacrificio dopo anni di civile progressione mentale e sociale e dopo aver avuto piena ed inconfutabile contezza di gravi errori giudiziari commessi in nome di una Giustizia ingiusta. Nella circostanza, anche se sotto altre origini, ed in questi casi v’è sempre alla base la pietà e forse anche un pizzico di egoismo, è bene citare quei casi, che ogni tanto vengono fuori in campo mondiale e che vengono definiti della “buona morte”. L’eutanasia non può essere accolta favorevolmente dalla Società se essa è semplicemente fondata sulla scelta personale di chi è convinto di eseguirla per un atto di amore. Invece, se regolamentata, può essere messa in atto solo se vi è la volontà espressa dell’ammalato e vi sia soprattutto un la Ciminiera 45


inconfutabile parere scientifico di un equipe di medici che pienamente confermino un quadro clinico di assoluta irreversibilità della malattia e che constatino nel contempo l’atroce ed inumana sofferenza della persona che chiede di morire dignitosamente e non in piena disperazione ed atroci sofferenze. In ultimo è pure documentato in Lucania il caso di un condannato a morte che preferì suicidarsi in carcere piuttosto che farsi impiccare sulla piazza. Ma questa volta il Sovrintendente fece eseguire lo stesso la

sentenza e impiccò da morto il condannato, pur di dare ugualmente esecuzione al dispositivo, secondo la volontà giudiziaria espressa dallo Stato. Bibliografia - Paolo De Grazia, “Un Processo di presunto parricidio in Basilicata - 1810”. - Pietro Colletta, “Storia del Reame di Napoli”- Milano- Pagnoni -1861 -VII, 40. - Sentenza della Cassazione - anno 1811 settembre/dicembre n°258.

CRONACA DELL’OGGI IN ... CALABRIA

CALABRIA EASYJET

“Vile, tu uccidi un uomo morto”.

di Elia Carmine Maria Nato il 27/07/1992 a Catanzaro. Maturità scientifica presso Liceo Scientifico “L. Siciliani” Laurea in Giurisprudenza presso Università Magna Grecia di Catanzaro, con tesi in Diritto Penale dal titolo “Significato e percezione del c.d. metodo mafioso”. Stage formativo di 18 mesi presso la I Sezione Penale del Tribunale di Catanzaro. Collaboratore presso “Il Quotidiano del Sud” dall’1/01/2020. Presidente in carica dell’Associazione Culturale “Luce a San Pietro”. email: eliacarminemaria@gmail.com 46 la Ciminiera

Maramaldo uccide Ferrucci (francobollo commemorativo 1930)

Sarebbe stata questa la frase pronunciata dall’agonizzante Francesco Ferrucci, capitano della Repubblica fiorentina, poco prima di essere ucciso da Fabrizio Maramaldo, capitano della po-tente famiglia dei Medici. Un episodio che ha dato vita ad un aggettivo e ad un verbo. “Maramaldeggiare” è l’atto di chi si accanisce con i deboli. Negli ultimi dieci anni l’elenco dei “maramaldi” che se la sono presa con la Calabria è denso. L’ultimo di questi è la sventurata e improvvida persona che ha avuto l’ingrato compito di rilanciare le vendite della compagnia aerea britannica, Easyjet. E allora ecco che, secondo la buffa persona, visitare la Calabria è conveniente. Ma non perché sia bella.


No, è conveniente perché i recenti e bruschi assestamenti terreni di Madre Natura e la sfortunata coincidenza di dover convivere con l’associazione mafiosa più potente al mondo hanno provocato, negli anni, “un’evidente assenza di turisti”. A questo punto, dopo aver esposto i fatti, dovrei sfogarmi, come hanno fatto molti, con questa povera persona, che doveva solo fare marketing. Scusatemi se vi deluderò. Perché io me la immagino questa persona, lì, davanti il suo computer, a dover trovare una o più ragioni valide per convincere le persone a visitare la Calabria. E la immagino intenta a spulciare sui motori di ricerca. Subito dopo la gaffe di Easyjet bastava scrivere la parola “Calabria” sul web per essere inondati di news sulla polemica che ne è insorta. E se lo avessimo scritto nei giorni antecedenti alla polemica? Avrei potuto leggere della bufera sui vitalizi approvati e poi ritirati in Regione. Avrei potuto leggere che la Procura di Catanzaro ha chiuso le indagini della celebre “Rinascita-Scott” che ha visto salire il numero degli indagati a 479 persone. E allora mi viene da pensare che questa persona addetta al marketing di Easyjet avrà visto queste notizie e avrà pensato di scrivere lo slogan pubblicitario del secolo.

Non è solo una spicciola questione di attualità. Non è solo perché le ultime notizie vengono messe in evidenza rispetto a quelle di qualche millennio fa. Negli ultimi anni ho visitato centinaia di incantevoli borghi della nostra terra. E allora mi chiedo perché io abbia trovato in piena estate chiuso l’accesso ad alcuni siti naturalistici. Perché siamo sempre fieri (e guai se non lo fossimo) di sventolare la presenza di Greci, Normanni, Svevi, Aragonesi e chi più ne ha più ne metta salvo poi visitare e vedere alcuni dei loro castelli o siti archeologici cosparsi di erbacce o carta sporca (segno che i turisti non sono del tutto assenti). Mi chiedo come mai i mafiosi siano da molti (e fortunatamente non da tutti) definiti “brave persone”. Mi chiedo perché gli ultimi due consigli regionali siano stati eletti solo dal 44% dei calabresi. E allora, prima di pretendere le doverose scuse da Easyjet per la buffonata pubblicata sul suo sito, chiediamoci scusa da soli e riappropriamoci del nostro presente, per darci un futuro. Perché se è vero che i terremoti non si possono comandare, è anche vero che la coscienza civica è la cosa più manovrabile che esista. Azioniamola. E sarà tutto bellissimo.

Poi ha purtroppo capito di aver toppato. E via alle prime iniziative di boicottaggio. Voglio vederli questi intrepidi sabotatori salire a Milano o girare per l’Europa pagando 3 o 4 volte in più il biglietto con una compagnia di bandiera solo perché i britannici ci hanno leso l’orgoglio. È vero, noi calabresi siamo orgogliosi e siamo teste dure. Ma dobbiamo anche chiederci perché sul web il “presente” stia progressivamente corrodendo il nostro “passato” e la nostra Storia.

EasyJet la Ciminiera 47


48 la Ciminiera


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.