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Tutto passa ma nulla cambia...
Stiamo chiudendo un anno da ricordare non per cose buone e gioiose ma per aver sperimentato la paura dell’ignoto e la perdita della piena libertà. Il 2020 è stato anche l’anno delle casse felici del Comune di Simeri che, grazie ad un dispositivo sulla 106, sta cercando di risanare e/o aumentare il bilancio comunale con i soldi di chi, per lo più lavoratori mattinieri, ha la sfortuna di percorrere il tratto comunale. Catanzaro e dintorni è stata invasa di contestazioni per eccesso di velocità con richieste, quando si è fortunati, di una cifra inferiore a 50 euro, altri che i 70 km orari li superano di 11 km orari avranno il piacere di versare alle casse comunali di SIMERI metà del loro stipendio. Se poi lo sfortunato passante del tratto stradale di SIMERI, preso dallo sconforto, non legge per intero la comunicazione e sorvola sull’invito di segnalare il conducente, si ritrova, dopo pochi mesi, a ricevere una nuova richiesta di sussidio per il comune di SIMERI, di circa 400 o di 250 euro, per mancata segnalazione. Risultato? Hai contribuito con un mese di stipendio a pagare i debiti del comune di SIMERI che, non solo non ti ringrazia, ma spera tu ci ricada altre volte. Lo sfortunato lavoratore che, da Catanzaro, va ogni mattina a Crotone per lavoro, nell’illustrarmi quanto sopra, ha concluso – “Se hai soldi da buttare paga, altrimenti fai finta di niente, tanto, più che prendersi un televisore che ti possono fare?” In un paese che ormai è allo sbando sociale e politico e in cui, come evidenziato dai notiziari 24 ore su 24, ad essere un po’ menefreghisti e un po’ delinquenti si vive meglio e conviene, se poi fai notizia ti invitano anche come ospite d’onore in qualche trasmissione televisiva serale. Ma, come si dice, bando alle ciance, nel cercare di essere più consapevoli e certi che il passato/presente ci predispone per il futuro, leggiamo insieme l’ultima nostra fatica: La Ciminiera di ottobre. Le letture proposte sono tutte stimolanti e degne di ampliamento e ricerca personale. Il primo intervento, ad ampio respiro porta la firma del prof. Raoul Elia. Vi riporti l’incipt “Fake news, disinformazione, propaganda, sotterranea e non, sono sulla rete da tempo. Ma davvero sono caratteristica della generazione dei social e di Internet? Davvero il discrimine fra età dell’informazione e della disinformazione sono Adobe Photoshop e il fotoritocco?” Quando sono nate 2 la Ciminiera
le Fake news fotografiche? E chi fu la loro vittima? Scopriamolo insieme. Successivamente ci fa conoscere il più piccolo Regno del mondo (?) che, anche se sembra incredibile, è calabrese. Ogni periodo della nostra e altrui storia è segnato da comportamenti e convinzioni che, valutati con le odierne conoscenze, possono sembrare frutto di fantasia o di razze aliene, dimenticando però che oggi siamo quelli di ieri e ancora non sappiamo applicare una verità assoluta (finanche il papa ormai è provato che l’ha persa, l’infallibilità, per altro solo “ex cathedra”, se l’aveva). La domanda “Gli indios sono uomini o animali?” che serpeggiava per tutto il mondo civilizzato del XVI secolo, se oggi ci fa rabbrividire, a suo tempo era più che legittima. Vi invito a leggere con attenzione il contributo dello storico Gabriele Campagnano e cercare di vedere la storia nei termini più onesti possibili, prendendo come riferimento il suo suggerimento finale “La storia, quella vera, dovrebbe essere studiata in modo più approfondito”. La prof.ssa Greta Fogliani ci anticipa invece il suo contributo in questi termini “nelle mitologie di tanti popoli che si sono posti il problema della ricerca delle proprie origini, l’inizio della narrazione è sempre il mito della creazione; per la sua particolarità, per passione personale, e anche, diciamolo, per la serie tv Vikings ho scelto di iniziare, queste mie disertazioni, dalla narrazione norrena di come tutto è cominciato”. Sono sicuro la lettura sarà piacevole e piena di spunti da approfondire. Non poteva mancare il grande saggista dr. Angelo Di Lieto che collabora alla rivista con ben due suoi interventi: il primo ci presenta il mondo brigantesco e, come dice lo scrittore, “spesso la cattiveria non ha confini e va sempre aborrita, però la punizione del malvagio, da parte di chi è più spietato, può far sorgere alcune volte nell’animo umano, per il risultato punitivo raggiunto, un intimo compiacimento, che in ogni modo è ugualmente riprovevole ed affatto scusabile”; il secondo è uno spaccato del mondo risorgimentale calabrese del 1821, momento che si risolse nelle sentenze di morte di numerosi carbonari. La lettura di questi due momenti ci farà rivivere sentimenti e azioni mai sopiti nell’animo di chi ha un ideale per vivere il presente. Un bel racconto dell’archeologo Daniele Mancini, frutto della sua fervida fantasia e amore per la sua città, ci presenta il re Leonida di Sparta in un immaginario viaggio e del suo passaggio per Teate. Buona lettura e alla prossima. L.N.
OTTOBRE ROMANO, NEL SEGNO DI MARTE di Daniele Mancini
Ottobre, l’ottavo mese del calendario istituito da Romolo, si compie nel segno di MARS/MARTE e segna il passaggio dalle campagne di guerra alle operazioni agricole: il Dio, che ha aperto il ciclo del Sole in Marzo, lo chiude in Ottobre, prima che il Sole affronti il viaggio nelle tenebre del non manifesto. Mars/Marte chiude il ciclo terminando il Bellvm, l’agire per eccellenza, per tornare alla difesa del campo/Arvvm. Il ciclo del Sole e il ciclo dell’Anima sono compiuti e tale compimento è sancito dal rito dell’Eqvvs October, in cui il sacrificio del cavallo, epifania di Mars, sostituisce il sacrificio della Persona Originale Universale. Il cavallo sacro vincente è anche il sacrificio della Vittoria eroica nel nome della Giustizia Gioviale, per gli estremi purgazione e favore. In Ottobre si chiudono anche le porte del Tempio di Giano, il che segna definitivamente il passaggio al non manifestato; il digiuno con cui si apre il mese, IEIVNIVM CERERIS, indica la condizione di non manifestazione, appunto, così come il rito della miscelazione del vino
nuovo col vino vecchio, durante i Medritinalia, si rifà al tema della ricongiunzione finale che purga tutti i morbi. Le festività del Genio Pubblico Romano, degli Ambarvalia, dei Fontinalia, sacre a Fons, divinità connessa a Ianvs, segnano sempre l’ingresso progressivo nella fase non manifesta, radice prima e suprema di tutte le cose. Le celebrazioni del periodo manifestano l’appropriazione finale del frutto del ciclo per purgare definitivamente tutte le dimensioni esterne, nella pacificazione compiuta. Il ciclo si apre con le solennità in onore di FIDES PVBLICA, istituita da Nvma. Essa è il fondamento del mvndvs e della societas. In questo giorno riappare Giano annesso a Giunone, ricorre l’inizio del ciclo lustratorio che culmina nelle Idi. Il ciclo si chiude definitivamente con la lustrazione delle armi che, riposte, terminano così l’azione nel mondo.
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I giorni di Marzo più importanti per i Romani: 1 Ottobre: Kalendae – Si propizia la FIDES PVBLICA nel giorno dell’anniversario della dedica del suo Tempio. Anniversario dell’evento del Tigillvm Sororivm, si propiziano IANVS CVRIATVLS e IVNO SORORIA 2 O., VI Nonas – DIES RELIGIOSVS 4 Ottobre, IV Nonas – IEIVNIVM CERERIS. In segno di espiazione e purgazione, ci si astiene dall’alimento per l’intera giornata 5 O., III Nonas – MVNDVS PATET – DIES RELIGIOSVS 7 Ottobre, Nonae F – IOVI FVLGVRI IVNONI CVRITI IN CAMPO 8 O., VIII Idvs – DIES RELIGIOSVS 9 Ottobre, VII Idvs – GENIVS PVBLICVS POPVLI ROMANI – Si propiziA il Nume. Si propiziA Venere Vincitrice, Fausta Felicità, Apollo Palatino nel giorno dell’anniversario della dedica dei loro Templi 10 Ottobre, VI Idvs – IVNONI MONETAE 11 O., V Idvs, Meditrinalia – FERIAE IOVI – “NOVVM VETVS VIVUM BIBO, NOVO VETERI MORBO MEDEOR“: mescolando vino nuovo e vino vecchio si recita la fOrmula e si propizia la purgazione dei morbi 12 Ottobre, IV Idvs, Avgvstalia – Si propizia il Genivs Avgvsti. Festa in onore di Ottaviano Augusto, in ricordo del suo trionfale ritorno dalle province d’oltremare 13 O., III Idvs, Fontinalia – Sacro a FONS-FONTVS come potere di origine, ORIGO e di IANVS. Si gettano fiori nelle fontane a ornare le sorgenti, invocando il Nume tutelare 14 Ottobre, Pridiae Idvs – Propiziazione pubblica e privata dei Penati e di Giove Liberatore 15 O., Idvs, Eqvvs October – Si svolge il rituale purgativo centrale, sacrificando il cavallo vincente nella corsa delle bighe in Campo Marzio. Si propizia Marte come Salvatore 16 Ottobre, XVII Kalendas – – DIES RELIGIOSVS 14 O., Pridiae Idvs, Eqvirria o Mamvralia – Sia espulso dalla città Mamvrio Vetvrio 15 Ottobre, Idvs – Festa Geniale di Anna Perenna. ANNARE PERENNARE. Nel giorno si propizi la vita perpetua, libando cento alici di vino all’unione di Mars e Anna Perenna 16 Ottobre, XVII Kalendas– DIES RELIGIOSVS 18 O., XV Kalendas – IANO AD THEATRVM MARCELLI AVGVSTVS TOGAM VIRILEM SVMPSIT 19 Ottobre, XIV Kalendas, Amilvstrivm – I Salii portano in processione gli Ancili all’Aventino, al suono delle trombe, per la lustrazione 23 O., X Kalendas – IMPERATOR CAESAR AVGVSTVS VICIT PHILIPPIS 24 Ottobre, IX Kalendas – Anniversario del tempio al Dio FAVOR e VENERI ERICINA EXTRA PORTAM COLLINAM Bibliografia consultata: R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992 G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 2001 J. Champeaux, La religione dei Romani, Bologna 2002 J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari 2003 A. Brelich, Calendari festivi, Roma 2015
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La Calunnia è un dipinto a tempera su tavola (62x91 cm) di Sandro Botticelli, databile tra il 1491 e il 1495 e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze
Fake news borboniche di Raoul Elia
Fake news, disinformazione, propaganda, sotterranea e non, sono sulla rete da tempo. Ma davvero sono caratteristica della generazione dei social e di Internet? Davvero il discrimine fra età dell’informazione e della disinformazione sono Adobe Photoshop e il fotoritocco? Non credo proprio. La verità è che la disinformazione è sempre stata connessa al potere e la manipolazione dell’informazione e degli strumenti relativi è elemento molto caro al potere, tanto da poterlo considerare “intimamente connesso” all’attività politica stessa. A parte il fatto che la propaganda, così come la conosciamo, è stata un’invenzione degli antichi Romani, che bene sapevano come
convincere, sia le popolazioni amiche che quelle nemiche, della bontà e dell’eticità delle loro, peraltro spesso discutibili, decisioni, la politica ha sempre usato queste poco etiche strategie per contrastare od attaccare avversari politici, nemici in campo militare o anche solo rivali in campo economico o amoroso. Naturalmente, le soluzioni da adottare per le operazioni di disinformazione tengono conto delle innovazioni in campo tecnologico e comunicativo e, anzi, gli spin doctors di tutte le età sono fra i “consiglieri” più aggiornati e innovativi. Così, se i guelfi del Basso Medioevo ebbero buon gioco ad utilizzare poeti e cronisti per diffondere la falsa notizia del parto “demoniaco” di Costanza d’Hauteville e della nascita “sovrannaturale” dello “stupor mundi” Federico II, altrettanto facile fu, nell’età delle conquiste e delle esplorazioni, manipolare le carte geografiche per “influenzare” la spartizione dell’America latina fra Portogallo la Ciminiera 5
e Spagna o rielaborare leggende e tradizioni fantastiche del Medioevo sugli Antipodi per giustificare lo sfruttamento degli abitanti del Nuovo Continente.
L’Italia unita e il caso Meridione
Anche l’Italia non è stata da meno, e fin dai suoi esordi. E’ infatti il 1868, sono passati solo 7 anni dopo l’Unità e già cominciano ad affiorare le prime crepe unitarie: numerosi politici, fra cui Federico Menabrea o l’abruzzese Giuseppe Pica, vedevano il Sud Italia come un problema da risolvere, rapidamente e con metodi drastici. Proprio Menabrea, Presidente del Consiglio dei Ministri del neonato Regno d’Italia negli anni dal 1867 al 1869, si adoperò molto per realizzare una vera e propria “soluzione finale” nei confronti dei meridionali ribelli: i carteggi, divenuti di recente pubblici, intrattenuti fra il Capo del Governo e gli ambasciatori di Argentina, Brasile, Olanda ed Inghilterra mostrano la richiesta di concessione di lande desolate nelle quali deportare i cittadini meridionali. Il pericolo venne scongiurato dalle risposte negative degli stati contattati e, soprattutto, dalla meritata fine della carriera di siffatto uomo politico. Nel frattempo, però, erano nate tante, se non tutte le leggende che ancora oggi si raccontano sui Borboni e sul tramonto del loro regno. Una di queste leggende urbane, però, ebbe conseguenze davvero gravi, tanto, forse, da determinare il definitivo declino dei Borboni. Uno scandalo che fece il giro dell’Europa bene giusto poco dopo l’annessione dell’Italia meridionale al Regno sabaudo.
I Borboni dopo l’annessione
Dopo l’occupazione garibaldina e la conseguente annessione allo Stato italiano, la famiglia reale di Napoli si era trasferita a Roma in esilio, nella speranza di poter riconquistare il regno perduto grazie ad aiuti internazionali, oltre a rendersi segreti finanziatori dell’attività rivoltosa dei briganti. 6 la Ciminiera
Si diceva che gli ex monarchi siano stati partecipi nella cospirazione che portò alla morte di Umberto I e al tentativo di assassinio del re a Napoli, ma si tratta di voci non provate. Quel che è certo è il carattere combattivo della ex-regina che non trovò mai pace, tanto da giurare odio eterno ai Savoia. Il che, probabilmente, terrorizzava i politici del Regno d’Italia molto più che briganti, nostalgici e sbandati dell’ex regno borbonico. I piemontesi utilizzarono una strategia che avrebbero riproposto anche con lo Stato pontificio. Pare, infatti, che, come denunciò Giacinto de’ Sivo già nel 1867, il neonato governo italiano avesse imbastito una fittissima rete di agitatori sociali a Roma fin dagli anni ’50 dell’ ‘800, al fine di creare un ambiente favorevole all’ingresso dei bersaglieri in quella che sarà poi la Capitale d’Italia. Anche a Napoli l’attività propagandistica filo piemontese o anti borbonica dovette diffondersi sia immediatamente prima che nei mesi successivi, quando, fra il 1860 ed il 1861, erano sorti numerosi giornali volti a sostenere la causa piemontese. E si presume che i due gruppi fossero strettamente connessi, dato che lo scandalo che travolse le ultime speranze dei re Borboni scoppiò proprio fra Napoli e Roma.
La foto dello scandalo
Nel 1862 circolarono, dapprima a Napoli e poi in tutta la penisola italica, presunte foto private in cui la ormai ex sovrana del defunto Regno di Napoli era ritratta senza veli e in pose oscene.
Lo scandalo fu grandissimo e si estese a tutta l’Europa: in tutte le corti d’Europa fu fatta girare la notizia della fotografia che ritraeva la Regina Maria Sofia Wittelsbach di Baviera, sorella dell’imperatrice Sissi e moglie di Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli, completamente nuda. Si raccontava, all’epoca, che la foto in questione, insieme con un set di altre altrettanto osé, provenisse da un non meglio identificato archivio privato. Della dubbia provenienza delle foto, però, non se ne preoccupò nessuno e anzi la cosa passò ben presto sotto silenzio. Le foto, invece, fecero molto clamore, anzi fu un vero terremoto sociale che colpì la donna nella sua sessualità in un momento in cui l’argomento sesso era più che proibito: una fake news che portò ad uno scandalo senza precedenti e allontanò (forse definitivamente) le simpatie dei sovrani europei dai Borboni e dalle loro rivendicazioni. All’epoca dei fatti, l’ex sovrano di Napoli aveva appena 25 anni, mentre Maria Sofia solo 20. Troppo giovani e troppo inesperti per la realtà internazionale nella quale furono catapultati. Fu facile quindi raggiungere l’obiettivo di chi tramava contro i precedenti re, preoccupato per possibili alleanze o aiuti internazionali nei confronti dei due re spodestati. In Italia, intanto, il gossip impazzava, fomentato da altre fotografie erotiche con protagonista la giovanissima ex regina, e dalle storie di sostegno, inventate appositamente, che “ricostruivano” la vita della vivace exsovrana tedesca, prima prostituta, poi brigantessa, poi ancora fedifraga, foto e storie, oltremodo popolari, erano di grande imbarazzo non solo per i due coniugi, ma anche per la sorella Sissi, imperatrice di Austria.
in cui, verosimilmente, erano state scattate le foto, e questo in barba all’”Editto” del cardinale vicario Costantino Patrizi, pubblicato il 28 novembre 1861, che proibiva l’uso e anche il possesso di una macchina fotografica. Fu così che il papa Pio IX, ormai anche lui molto precario sul Soglio pontificio, decise di nominare una squadra d’investigazione per scoprire gli autori della fotografia incriminata: fu presto intercettata una prostituta romana, tale Costanza Vaccari Diotallevi, la quale ammise e ripeté in tribunale di essere stata pagata 100 scudi per essere fotografata dal marito, Antonio Diotallevi, ex sottotenente dell’esercito pontificio, “seconda compagnia del primo reggimento Linea Pontificia”, destituito e “ridotto a vita del tutto miserabile” a causa del suo matrimonio “senza la debita licenza” con la sopra citata Costanza, marito che, pare almeno, perché dalle carte del processo non risulta chiaro, si fosse reinventato fotografo per pagare i suoi (o della moglie?) numerosi debiti. A pagare la coppia sarebbero stati i “piemontesi”, con i quali il Diotallevi era entrato in contatto a seguito del suo esilio dallo Stato pontificio. I fotomontaggi, realizzati utilizzando forbici e colla, sono, per l’epoca, dei veri e propri gioielli di tecnica, anche perché sembrano visibili alcuni ritocchi all’immagine portati a termine in “post produzione”. Costanza era ritratta in pose oscene: in una viene mimato un rapporto sessuale con uno
L’indagine
La vicenda, arrivata perfino a Vienna, cominciava ad infastidire troppi personaggi potenti e rischiava di sollevare ipocriti dubbi anche sulla condotta morale della corte di Roma, la città che ospitava gli ex regnanti e
Fotomontaggio che mostra la Regina Maria Sofia di Borbone, attribuito a Costanza Diotallevi Vaccari 1862. (Fonte Storia in rete, 2007) la Ciminiera 7
zuavo pontificio, in un’altra la giovane appare, secondo un verbale dell’epoca, “totalmente ignuda, seduta semisdraiata in una poltrona, con la mano alla natura in atto di far ditali, avente in prospettiva di essa i ritratti di Sua Santità, del signor Generale De Goyon (comandante della guarnigione francese, NdA), dell’eminentissimo Antonelli”. In seguito sul corpo della modella (secondo le dichiarazioni di Costanza una cuffiara, ovvero una sarta, non meglio individuata di cui lei stessa aveva perso le tracce, secondo i suoi detrattori, lei stessa) fu montato il capo della regina. La donna fece i nomi dei responsabili, coinvolgendo numerosi individui del mondo artigiano e non dell’Urbe. I fotomontaggi, secondo Costanza, sarebbero opera di un certo Belisario Gioia, “ritoccatore nello studio D’Alessandri in via Condotti, che è quello che ha fatto tutti i ritratti della regina e ne ha privativa”, che avrebbe prelevato alcune copie delle immagini di Sofia e da esse tagliato “la testa a quella che sta in volgimento a destra a mezzo profilo e a grandezza normale”, provvedendo a “copiarla ed attaccarla poi al corpo pur copiato e decapitato della modella”. La fotografia della modella nuda, sempre secondo Costanza, sarebbe invece stata sottratta allo studio del fotografo “Marianecci al Babuino”. Domenico Catuffi invece sarebbe stato colui che avrebbe incollato nei cartoni le foto e avrebbe ritoccato le negative del ritratto. Il fotografo Gioia finì naturalmente in carcere assieme a molti altri, tra cui lo stesso Domenico Catuffi (“pittore di quadri” in vicolo del Vantaggio 8, a cui la donna aveva “prestato” la macchina fotografica utilizzata per le foto in studio), Antonio Marianecci (dello studio omonimo sopra citato) e Achille Ansiglioni, fratello di Giuliano, fotografo attivo in Via del Corso 150, anch’esso coinvolto nello scandalo come del resto monsignor Filippo Bottoni, che venne arrestato per aver eseguito fotografie pornografiche, a suo dire realizzate come innocenti studi di nudo. La ventenne Costanza sostenne anche, nella sua deposizione, che lo scopo dei “piemontesi” era colpire la coppia reale, anche con altri mezzi; pare che questi “agenti 8 la Ciminiera
provocatori” avessero in mente di portare a termine un’aggressione all’ex re borbonico, non si sa se non riuscita o non tentata, lungo i viali del Pincio, ed una “impertinenza” a
Maria Sofia durante una delle sue quotidiane uscite da Palazzo. Risultato: la bella regina, disgustata lasciò poco dopo l’Urbe per tornarvi solo nel 1869. I coniugi Diotallevi, “dopo pochi mesi, con grande meraviglia di tutti e sdegno della corte di Napoli”, vennero messi in libertà e ottennero anche un assegno mensile di quindici scudi da parte di Monsignor de Meroe, che acquistò nel contempo i compromettenti biglietti amorosi indirizzati dal generale De Goyon alla bella e pentita “fotografa” Costanza. Il caso Diotallevi è, secondo Piero Becchetti, autore di “Fotografi e fotografia in Italia, 1839-1880”, “il fatto più clamoroso di tutta la storia della fotografia italiana”; di certo è il caso più antico di manipolazione ad uso politico della fotografia, allora poco diffusa, addirittura proibita, nello Stato pontificio. E’ infatti evidente che, sia per la scarsa
diffusione del mezzo, sia per l’inconsistenza di un mercato del prodotto pornografico, non si possa parlare di professionisti che avrebbero tentato di sondare nuovi rami di mercato; è infatti più credibile la tesi della Diotallevi di una commissione di natura politica, tesi che venne fortemente avversata, ma con scarsi risultati, anche in dibattimento.
Cosa dire?
L’azione, ancorché subdola e vergognosa da un punto di vista etico, fu molto efficace, stroncando sul nascere la revanche borbonica e mettendo sotto scacco la pericolosa ex regina, costringendola ad un esilio forzato nella terra natale che fu fatale, e scusate il gioco di parole, alla causa dei Borboni di Napoli. Su quali basi etiche sia nato il Regno d’Italia dei Savoia, è bene glissare, ad ognuno dei miei lettori lascio la possibilità di farsi un’idea
dei regnanti e della corte annessa, antenati neanche tanto lontani di quel re che, pur di salvare la pelle, abbandonò Roma e lasciò l’esercito e il popolo italiani in mano ai Nazisti in cambio di un salvacondotto per sé e la sua famiglia, l’8 settembre del 1943. Ma pensiamo al fatto che le fake news non sono appannaggio esclusivo del nostro presente, soggiogato dai social media e da una oppressiva interconnettività, dell’era della post-verità, ma anche periodi meno “superconnessi” ma non per questo meno propensi ad utilizzare qualsiasi strumento, anche i più squallidi ed eticamente scorretti, come appunto le fake news e le campagne di diffamazione, pronti a sfruttare gli strumenti più tecnologicamente avanzati, ieri come oggi: al tempo, la fotografia, allora appena inventata ma già utilissima per manipolare la politica e le masse, oggi i social media e photoshop. Nihil sub sole novi.
Sul prossimo numero:
Un computer per le predizioni?
I modi per divinare il futuro sono molteplici e si ricollegano un po’ a tutto lo scibile umano. Fra essi, interessantissima è la cosiddetta geomanzia, o astrologia terrestre, che, già conosciuta (almeno) a partire dai primi secoli del Medioevo (Isidoro di Siviglia, un erudito del VI secolo d. C., la cita come disciplina nelle sue Etymologiae) si diffuse, a partire dal Duecento, sia nel mondo cristiano che in quello islamico. la Ciminiera 9
Gli Indios Uomini o Animali di Gabriele Campagnano
Nel XVI secolo, gli Indios furono al centro di un dibattito relativo alla loro “umanità”. Perché e come si svolse questo dibattito? Se per gli Indios il contatto con i navigatori europei fu una vera e propria deflagrazione atomica, questi ultimi non poterono fare a meno di chiedersi se quei selvaggi fossero fatti a immagine e somiglianza del Creatore oppure si trattasse di animali, non compresi quindi nel concetto di “uomo”. Se oggi porsi una domanda del genere sarebbe tremendamente stupido, all’inizio del XVI secolo Carlo V arrivò a costituire una commissione di esperti per indagare e dare un parere sulla natura di quegli “strani selvaggi”. Non si trattava di mera curiosità, né di interesse scientifico, ma di volgarissima 10 la Ciminiera
necessità materiale. Un essere senz’anima non ha diritti, mentre con un figlio di Dio bisogna utilizzare qualche cautela. Naturalmente, i Conquistadores avevano immediatamente optato per l’opzione “animali”, e si era subito diffusa la pratica delle Encomendados. In pratica, ogni soldato, nel momento in cui riceveva una terra, diveniva proprietario anche degli indigeni che vi abitavano, i quali erano ridotti a una condizione di sostanziale schiavitù. L’Encomienda era lo strumento principe per regolare i rapporti fra spagnoli e Indios
e venne mantenuta anche dalle Leggi di Burgos, promulgate da Ferdinando II d’Aragona nel 1512. È necessario sottolineare come i veri fautori di questi provvedimenti furono i domenicani, che da quasi due decadi
si battevano per la concessione di quelli che noi chiameremmo “diritti umani” agli Indios. In particolare, il Re di Spagna fu toccato dal duro e coraggioso sermone di padre Antonio de Montesino, che ebbe il coraggio di dire:
tutti gli spagnoli che abitano sull’isola vivono e muoiono in peccato mortale, a causa della crudeltà e della tirannia che usano con queste persone innocenti (gli Indios) I Conquistadores, primo fra tutti Diego Colombo, figlio di Cristoforo, chiesero al Re il permesso di buttare Antonio su una nave e rispedirlo in patria, ma il sovrano, dopo un iniziale favore nei confronti degli spagnoli, decise di dare ascolto al religioso. Il più strenuo difensore degli Indios fu però Bartolomeo de las Casas. Conoscitore dell’opera di Montesino, nel 1512 si recò a Cuba come cappellano del conquistador
Panfilo de Narvaez (e ottenne un’encomienda per il lavoro svolto), mentre tre anni dopo si trasferì a Santo Domingo. Lì entrò nell’ordine domenicano e conobbe Pietro di Cordova, che lo inviò presso il Re di Spagna assieme a Montesino al fine di perorare (ancora una volta) la causa degli Indios. I suoi resoconti sulle atrocità commesse dai Conquistadores sono terrificanti:
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I cristiani, con i loro cavalli, spade e lance, cominciarono a fare crudeli stragi tra quelli. Entravano nelle terre, e non lasciavano né fanciulli né vecchi né donne gravide né di parto, che non le sventrassero e lacerassero come se assaltassero tanti agnelletti nelle loro mandrie. Di solito uccidevano i signori e la nobiltà in questo modo: facevano alcune graticole di legni sopra forchette e ve li legavano sopra, e sotto vi mettevano fuoco lento, onde, a poco a poco, dando strida disperate in quei tormenti, mandavano fuori l’anima. Io vidi una volta che, essendo sopra le graticole quattro o cinque signori ad abbruciarsi (e penso che vi fossero due o tre paia di graticole dove abbruciavano altri), e, perché gridavano fortemente e davano fastidio o impedivano il sonno al capitano, questi comandò che li strangolassero, ma il bargello che li abbruciava, il quale era peggiore che un boia (e so come si chiamava, e conobbi anco i suoi parenti in Siviglia), non volle soffocarli; anzi, con le sue mani pose loro alcuni legni nella bocca perché non si facessero sentire, e attizzò il fuoco finché si arrostirono pian piano com’egli voleva. Io vidi tutte le cose sopradette e altre infinite. Le leggi di Burgos infatti non avevano sortito gli effetti desiderati, e i massacri di Indios erano all’ordine del giorno. I Domenicani chiedevano una cosa molto semplice: l’evangelizzazione pacifica dei nativi. Questa
volte il Re non li ascoltò. Ormai gli interessi in gioco erano troppo alti. La Spagna stava guadagnando fiumi di denaro dallo sfruttamento delle risorse, umane e naturali, del Nuovo Mondo.
La cura e il pensiero che ne ebbero fu il mandar gli uomini alle miniere a cavar oro, che è una fatica intollerabile; e mettevan le donne nelle stanze, che sono capanne, per cavare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti. Non davan da mangiare agli uni né alle altre, se non erbe e cose che non avevano sostanza. Si seccava il latte nelle tette alle donne di parto, e cosí morirono in poco tempo tutte le creature. È impossibile riferire le some che vi ponevan sopra, facendoli camminare cento o duecento leghe (!!!). E i medesimi cristiani si facevano portare dagli Indiani in hamacas, che sono come reti, perché sempre si servivano di loro come di bestie da soma. Avevano piaghe nelle spalle e nella schiena, come bestie piene di guidaleschi. Il riferire le staffilate, le bastonate, i pugni, le maledizioni e mille altre sorte di tormenti che davano a quelli mentre s’affaticavano, non si potrebbe nemmeno in molto tempo, né con molta carta, e sarebbe cosa da far istupidire gli uomini. 12 la Ciminiera
Bartolomeo riuscì a riportare un incredibile successo politico quando fu autorizzato, dal Consiglio di Castiglia, a costituire una colonia pacifica presso Cumanà (odierno venezuela), dove avrebbe potuto”anunciar el evangelio, sin estrépito de armas”. Inizialmente l’esperimento sembrò riuscire, ma non appena Bartolomeo ebbe lasciato la colonia ci fu una ribellione dei nativi. Alcuni storici dicono che la rivolta fu fomentata da emissari dei conquistadores, che vedevano nel tentativo pacifico di Bartolomeo un gravissimo attentato al sistema delle Encomendados.
Come altri domenicani, Bartolomeo de las Casas passò tutta la vita a difendere i diritti degli Indios Il fallimento di Cumanà non fiaccò l’animo di Bartolomeo, che continuò a fare la spola fra Americhe e Spagna per supportare le sue tesi presso il nuovo Re (Carlo V) e continuare la politica delle colonie pacifiche. L’Imperatore convocò il Reale e Supremo Consiglio delle Indie per studiare la situazione e promulgare delle leggi che potessero risolvere la questione in materia definitiva. Il 20 novembre 1542, il Consiglio promulgò le Leyes Nuevas, che wikipedia riassume piuttosto bene in questo specchietto: Le Leggi Nuove si possono riassumere in questi principi: • Garantire la conservazione del governo e il buon trattamento degli indigeni; • Divieto di schiavizzare gli indigeni per qualsiasi ragione; • Liberazione degli schiavi, se non si dimostravano delle ragioni giuridiche in senso contrario; • Gli indigeni non dovevano essere costretti a fare da caricatori contro la loro volontà o senza un salario adeguato; • Non potevano essere portati in regioni remote con la scusa della raccolta delle
perle; • Gli ufficiali reali, ordini religiosi, ospedali e confraternite non avevano diritto all’encomienda; • Il possesso delle terre dato ai primi conquistadores doveva cessare totalmente alla loro morte senza che nessuno potesse ereditarne la detenzione e il dominio. A Valladolid, nel 1550, Bartolomeo ebbe un incontro decisivo con Carlo V, che aveva sempre mostrato un profondo interesse per le questioni giuridiche e religiose sorte con la scoperta del Nuovo Mondo. In quellla sede, Bartolomeo si confrontò con Juan Gines de Sepulveda, sostenitore della tesi che gli indios fossero servi per natura. La commissione preposta a giudicare le due posizioni non si pronunciò, mentre Carlo V rimase (ancora un volta) più convinto dagli argomenti di Bartolomeo. Oltre ai continui rapporti dei Domenicani, fu importantissima la posizione presa dalla Chiesa Cattolica cinque anni prima delle Leyes. Nella sua Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo, il Prof. Mario Ascheri cita i primi atti papali in materia: la Ciminiera 13
Tra gli interventi a favore degli Indios, vi furono poi tre bolle papali del 1537, in cui oltre a prendersi atto della quasi schiavitù in cui essi versavano, si dichiarò eretica l’idea che fossero privi di ragione (e quindi incapaci di convertirsi al Cristianesimo) e si condannò chiunque li rendesse propri schiavi. Inoltre si tentò di trasferire ai Vescovi la giurisdizione degli Indios, che fino ad allora spettava all’Inquisizione Spagnola. In realtà, temo che il prof. Ascheri abbia commesso un piccolo errore, visto che non si trattò di tre bolle papali, ma di una bolla di Paolo III, la “Sublimis Deus”, e di due brani che ne spiegavano il contenuto, “Altitudo divini
Consilii” e “Pastorale Officium”. Comunque, la Sublimis Deus era piuttosto chiara: Ravocus et; nos etil hore, novilintis efecutem atus des! Satatam actorumus.
“…consideriamo tuttavia che gli stessi indios, in quanto uomini veri quali sono, non solo sono capaci di ricevere la fede cristiana, ma, come ci hanno informato, anelano sommamente la stessa; e, desiderando di rimediare a questi mali con metodi opportuni, facendo ricorso all’autorità apostolica determiniamo e dichiariamo con la presente lettera che detti indios e tutte le genti che in futuro giungeranno alla conoscenza dei cristiani, anche se vivono al di fuori della fede cristiana, possono usare in modo libero e lecito della propria libertà e del dominio delle proprie proprietà; che non devono essere ridotti in servitù e che tutto quello che si è fatto e detto in senso contrario è senza valore.” Non che tutti all’interno della Chiesa Cattolica fossero interessati solo alle condizioni di salute dei poveri indios, anzi, bisogna immaginare che ci fosse una divisione fra chi era effettivamente interessato al destino dei popoli sudamericani e chi era solo preoccupato dal fatto di poter perdere milioni di potenziali nuovi cattolici. Infatti, se avesse prevalso il partito “Indios=animali” non si sarebbe potuto operare nessun tipo di conversione. Una cosa da evitare, specie ora che la Riforma Luterana stava disintegrando l’ecumene cattolica. Come è facile immaginare, i Conquistadores non furono particolarmente contenti delle nuove leggi, ma sembra che ci fu un piccolo 14 la Ciminiera
miglioramento nelle condizioni degli Indios (almeno in confronto a quello che accadeva ai loro cugini conquistati dai portoghesi). Il dibattito sugli indios continuò a lungo, tanto che, nel 1550, Carlo V convocò a Valladolid i principali esponenti delle due posizioni contrapposte sul problema giuridico della guerra agli Indios. All’angolo sinistro, Bartolomeo de las Casas, a quello destro, l’umanista Juan Gines de Sepulveda. Quest’ultimo aveva delle convinzioni davvero raffinate, e in particolare sosteneva che gli Indios ribelli (alla conversione o al potere spagnolo), potevano essere
…presi et fatti schiavi, abbruciati et ammazzati, facendo ogni stratio delle lor carni e della vita. Il caritatevole Juan riteneva che gli indios fossero una razza inferiore, degli “homuncoli”, schiavi per natura e autori di inaccettabili barbarie quali sacrifici umani e idolatria. Ironia della storia, a sostenere la posizione giuridica più vicina a quella attuale era un prete, Bartolomeo, mentre quella dell’umanista avrebbe avuto grande successo nelle birrerie di Monaco degli anni Venti. Il dibattito volse a favore di Bartolomeo, che aveva dalla sua gli insegnamenti del giurista domenicano Francisco de Vitoria, il padre del diritto internazionale, trapassato nel 1546. Sappiamo che, nel corso del XVI secolo, si mantenne comunque un grande divario fra la teoria (ormai favorevole agli indios) e la pratica (le azioni effettivamente svolte dai proprietari spagnoli), ma si aprirono anche altri dibattiti, questa volta riguardo alla nuova
forza lavoro rimediata dai colonizzatori, ovvero gli africani portati nel Nuovo Mondo attraverso la tratta atlantica. Riassumendo, non è sbagliato rilevare che il dibattito cinquecentesco sugli Indios abbia portato buona parte dei giuristi e dei teologi cattolici ad assumere un atteggiamento davvero straordinario verso le c.d. culture inferiori. Le argomentazioni dei Domenicani furono in anticipo di tre secoli sui dibattiti sullo schiavismo più conosciuti (in USA, Inghilterra, ecc.) e molti illuministi, pur conoscendole, le eliminarono dalle loro considerazioni storiche per alimentare la Leggenda Nera. In questo senso, fa sempre bene ricordare il contributo di Voltaire, tenendo conto che entrò nel dibattito più di due secoli dopo il Las Casas:
Esamino un piccolo di nero di sei mesi, un piccolo di elefante, un macachetto, un leonetto, un canetto. Veggo, senza dubbio, che questi giovanni animali hanno incomparabilmente più forza e destrezza, più idee, più passioni, più memoria che il negretto e che esprimono molto più sensibilmente tutti i suoi desideri che quell”altro… Scendendo su questo cumulo di fango e non avendo maggiori nozioni a rispetto dell”uomo, come questo non l”ha quanto ai residenti di Marte o di Giuppiter, sbarco ai cigli dell”oceano, nel paese della Cafraria, e comincio a ricercare un”uomo. Veggo macachi, elefanti e negri… … così come le perere, i cipressi, le querce e le albicocche non vengono da uno stesso albero, così anche i bianchi e barbati, i neri di lana, i gialli con criniera e gli uomini senza barba non vengono dallo stesso uomo.
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Grazie alla collaborazione di diversi utenti, che mi hanno fornito studi specialistici sulle frasi di cui sotto, posso dire che Karl Marx non sembra avere alcun interesse
allo sfruttamento dei neri e della schiavitù. Il passo da me citato è infatti da inserire in una più ampia analisi dello stato di fatto dei sistemi produttivi dell’epoca:
Mi lascia darvi unesempio della dialetica del Signor Proudhon. La libertà e la schiavitù costituiscono un antagonismo. Non c’è nessuna necessità di parlare sugli aspetti buoni o mali della libertà. Quanto alla schiavitù, non cè nessun bisogn di parlare sugli aspetti mali. L’unica cosa che bisogna spiegazione è la parte buona della sciavitù. Non mi riferisco alla servitù indiretta, la schiavitù del proletario; mi riferisco alleschiavitù diretta, alla schiavitù dei neri in Suriname, in Brasile, nelle regione del Sud dellAmeria del Nord. La schiavitù diretta è il pivot sopra il quale nostro industrialismo quotidiano fa girare il machinaio, il credito, ecc. Senza la schiavitù non ci sarebbe nessuno cotone, senza cotone non ci sarebbe nessuna industria moderna. È la schiavitù che da valore alle colonie, furono le colonie che hanno creato il comercio mondiale, e il comercio mondiale è la condizione necessaria per lindustria di macchina in grande scala… Ad ogni modo, confrontate le parole di un illuminista con quelle dei domenicani, le preoccupazioni di Carlo V e le convinzioni di alcuni grandi pensatori del XVI secolo. La storia, quella vera, dovrebbe essere studiata in modo più approfondito. http://zweilawyer.com/
Sul prossimo numero: Gli Indios sono Uomini: la Sublimis Deus di Paolo III (1537) La Sublimis Deus è una bolla papale del 1537 relativa alla questione degli Indios. Di solito, nel novero delle malefatte cristiane si inserisce (tanto per non farsi mancare nulla) la questione degli Indios. 16 la Ciminiera
IL MANDRIANO ED IL BRIGANTE di Angelo Di Lieto
Spesso la cattiveria non ha confini e va sempre aborrita, però la punizione del malvagio, da parte di chi è più spietato, può far sorgere alcune volte nell’animo umano, per il risultato punitivo raggiunto, un intimo compiacimento, che in ogni modo è ugualmente riprovevole ed affatto scusabile. Una volta, in Castelsilano, oggi in provincia di Crotone, viveva un ricco proprietario terriero, il quale si avvaleva, come tutti i Signorotti dell’epoca, di un caporale. Questi gestiva, secondo precise disposizioni ed anche a suo libero arbitrio, tutti i beni del padrone, dei contadini e dei vaccari compresi. I monti della Sila, d’inverno, sono molto freddi, per questo le mandrie, da sempre, in autunno, vengono portate verso il mare, per poi ritornare a pascolare in montagna in primavera. La vita dei mandriani è stata sempre tristissima e misera. Nella bisaccia portavano sempre un pezzo di pane duro con un po’ di formaggio guasto ed ogni giorno, all’alba, con qualsiasi tempo, conducevano fuori al pascolo il bestiame. Al rientro, la sera, accendevano il fuoco nella loro capanna di frasche e, se intirizziti dal freddo o fradici d’acqua, si stendevano con i piedi rivolti verso il fuoco, svegliandosi di tanto in tanto durante la notte per ravvivare la fiamma.
Un tempo, essi potevano andare a casa brevemente due o tre volte l’anno, ed in quelle occasioni, ricevevano dal caporale, come retribuzione per il lavoro prestato nell’anno, un po’ di pane di segale, del formaggio o ricotta, un po’ di lana e qualche spicciolo. La famiglia del vaccaro, di solito, viveva in promiscuità in un solo misero sporco tugurio, perciò, quando egli arrivava a casa, la donna che lo aveva atteso, tirava per la circostanza, a mo’ di sipario, una pudìca tenda, che serviva a nascondere dagli sguardi dei piccoli i loro intensi incontri amorosi. Questa tenda in dialetto calabrese veniva chiamata “u spruvieri”, probabilmente col significato di non farsi “sprovare”, cioè di avere la prova sotto gli occhi. In alcuni matrimoni si portava anche come completamento del corredo dotale, perché si riteneva un panno essenziale per separare il talamo nuziale dalla culla dei piccoli, all’epoca, invero, sempre numerosi. Quando il mandriano ritornava al suo lavoro di miseria e di stenti, riceveva per altri mesi solo acqua, freddo e tozzi di pane. Una sera, Giuseppe, un anziano e buon mandriano, tornò nella sua capanna fradicio e congelato. Si buttò immediatamente sul pagliericcio e si coprì col suo vecchio mantello. la Ciminiera 17
Durante la notte la febbre lo bruciava, la testa gli scoppiava ed era tutto bagnato. All’alba, all’ora di partire nuovamente con le bestie, chiese al suo caporale se poteva esentarlo dall’uscire a causa del suo particolare stato di salute. Ebbe in risposta solo minacce, pertanto, con indicibile sforzo, fu costretto ad alzarsi e a portare, come sempre, le vacche nei boschi. Giuseppe trascorse una giornata d’inferno, non mangiò nulla, la febbre era alta e si sentiva privo di forze. Durante la giornata fece sforzi indicibili per restare il più a lungo possibile, finchè decise, al limite delle sue condizioni, di rientrare anticipatamente. Il caporale, appena lo vide non ebbe pietà alcuna, anzi lo percosse con la cinghia, spaccandogli un orecchio con la fibbia e non si fermò nemmeno quando il povero Giuseppe pianse di rabbia e di dolore, accucciandosi sul pagliericcio. La notte non gli offrì alcun conforto o calore, era disperato, umiliato e pensava ai suoi poveri cinque bambini. Quando, al mattino, il caporale lo vide senza forza ed incapace di alzarsi, intimandogli di raccogliersi i suoi stracci, lo trascinò fuori e lo cacciò imprecando contro la sua incapacità e la sua inettitudine. Giuseppe, barcollando, tremante e sofferente, venne trovato la sera per strada casualmente dalla banda del brigante “Bonucore” per i poveri, “Malucore” per i ricchi, il quale lo condusse in una grotta per rifocillarlo, curarlo ed asciugarlo vicino al fuoco. Infelicemente, Giuseppe, dopo due giorni di assistenza, morì di polmonite, però, prima di spirare, raccontò al brigante l’episodio delle sue ultime tristi giornate. Bonucore, non si scompose, fece arrivare il corpo dell’anziano mandriano a casa e, verso mezzogiorno, con la sua banda, andò a trovare, a Trepidò, in località Torre del Ponte, il caporale, il quale, era intento a fare provole, ricotte e mozzarelle, mentre il siero bolliva nel pentolone o “caccavo”, di derivazione greca, “caccabos”, che è poi la caldaia dove i pastori fanno cagliare e cuocere il latte. Bonucore, senza darsi conto che gli erano stati offerti dei bocconcini appena fatti, disse: «Non sono venuto per mangiare, ma solo per venire a trovare l’anziano mandriano, che ho saputo che è molto malato. Ha cinque figli…». «Ma dov’è? Non lo vedo sul suo pagliericcio…». Ed il caporale: « No, non c’è più, se n’è andato via due giorni fa ». Ed il brigante: «Si, effettivamente è andato via quando lo hai scacciato tu come un cane dal pagliaio». Poi, rivolgendosi agli uomini della sua 18 la Ciminiera
banda, comandò loro di ravvivare il fuoco sotto il calderone, perché il «siero del latte…doveva cantare…», cioè bollire con gran rumore. Rivolgendosi poi nuovamente al caporale, aggiunse: «Quel povero mandriano non aveva un centesimo in tasca, bisogna dargli la “giusta annata”, perché possano quelle cinque bocche sfamarsi…». Il caporale, che aveva capito le intenzioni di Malucore, cercò di rappresentare che anche lui aveva due figli piccoli e che la colpa non era sua ma del padrone… Ma il brigante riprese con più decisione il suo dire: «Non credi che questo sia successo perché il mandriano Giuseppe non ha voluto mandare la figlia Rosinella dal padrone…al suo personale servizio…?». «Porci tutti e due!». «Al padrone comunque penserò dopo…». Poi aggiunse: «Oltre a questo, hai fatto anche la spia, perché hai indicato il nostro covo alla gendarmeria di S. Giovanni in Fiore; per fortuna, subito avvertiti, siamo riusciti in tempo a scappare e a trovare un altro ricovero… ». La storia finì, com’era prevedibile, tragicamente, perché il caporale fu trovato stracotto nel suo pentolone di siero di latte bollente, mentre il padrone, Don Luigi, fu notato con un braccio rotto e gli occhi gonfi. Diceva di essere caduto da cavallo… Ma la “punizione” a Don Luigi doveva ancora completarsi. Infatti, un giorno, il parroco del paese andò dal padrone e gli rappresentò: «Mi è stato dato incarico di riferirti che Rosinella, la figlia del mandriano, tra breve dovrà sposarsi con Peppino, il figlio di Filomena “‘a linussa” ( probabilmente così soprannominata, perché forse raccoglitrice di semi di lino), e la famiglia è povera… ». Dopo una breve pausa, disse ancora: «Dovresti assumere Peppino come caporale, al posto di quello tuo defunto…e darmi cinquemila ducati per la dote di Rosinella…Che debbo dire al “Re di Colle di Giumenta” ». E così Don Luigi, ricordandosi della “caduta da cavallo”, rispose: «Va bene, va bene, eccoti venti ducati per la Chiesa e per i cinquemila vieni domani sera». Bibliografia - Teodoro Torchia = “ Storia di Castelsilano- già Casino” - Service Paolo Ruggio - Catanzaro - Anno 1988. - Giov. Battista Maone = “ Cronache di Briganti, contadini e baroni”- Ediz. Effeemme Chiaravalle Centrale - 1978. - Giov. Battista Maone= “Tradizioni Popolari della Sila”- Ediz. Rubbettino - Soveria Mannelli - 1979.
AMORE E PIETÁ AI TRE MARTIRI DI CATANZARO di Angelo Di Lieto
Quando i Borboni entrarono in Napoli, dopo aver represso i moti del marzo 1821, Raffaele Poerio di Catanzaro rientrò in Calabria con l’intento di sollevare il Popolo contro il tiranno che minacciava forche, esìli e galere. L’Intendente di Cosenza Francesco Nicola de Mattheis, crudele e sanguinario, informò il Governo Napoletano che alcuni Carbonari, appartenenti alla Setta dei “Cavalieri Europei Riformati”, tramavano contro la regnante Monarchia e le rispettive Famiglie Europee. La Setta, fondata dai Fratelli Cesare ed Odoardo Marincola, già ufficiali di Gioacchino Murat, portò inizialmente il nome di “Cavalieri Tebani”. Per Gran Maestro v’era lo stesso Raffaele Poerio. Gli adepti si riunivano tra gli ulivi di Madonna dei Cieli o a S. Leonardo, oppure nell’abbandonato Convento della Stella, siti del comprensorio di Catanzaro, sino a quando, una mattina d’inverno del 1818, non furono scoperti, prima da parte di alcuni operai e successivamente da parte delle suore della Maddalena, - queste ultime
positivamente invitate dagli stessi scopritori -, simboli e quadri massonici che furono subito ritenuti oggetti infernali e malefici. Gli iscritti alla Rivendita Carbonara di Catanzaro erano: Raffaele Poerio, Gran Maestro, Luigi Pascali, Giacinto de Jesse, Giuseppe Caporale, Domenico Aracri, Giuseppe Veraldi, Giovanni Scalfaro, i Fratelli Raffaele e Nazzareno Sinopoli con il padre da Monteleone, oggi Vibo Valentia, Francesco Rossi di Pasquale, i Fratelli Domenico, Giovanni, Odoardo e Cesare Politi, Luigi Varano, Antonio Catrambone, Raffaele Renda detto Rafelino, di professione sarto, Antonio Pupa, Vitaliano Critelli, Vincenzo Cimino, Raffaele Elia, Gennaro Scarfone, Gregorio Calogero, Daniele e Michele Manfreducci, Salvatore Scorza, Tomaso Masciari, Giacinto Vitale, Giuseppe Martino, Giorgio Caloiero, Gaetano Mancaruso, Giuseppe Maltese ed altri. Tra il 1818 ed il 1821, le Logge o le Rivendite si erano enormemente diffuse in tutta la la Ciminiera 19
Calabria. Infatti, Logge erano state edificate in Cosenza, Paola, Altilia (1811), Aprigliano, Nicastro, Reggio Calabria, Cotrone, Cortale, Nocera, Curinga, Stalettì, Maida, Mesuraca, Sammango. A Sammango Domenico Bonaiuto era il Gran Maestro della Rivendita sotto il titolo della “Sebea Fenice”, come si rileva da un attestato di iniziazione nel grado di apprendente del 4 dicembre 1821. In ogni modo, nonostante le numerose logge, tutti gli iscritti, come avviene ancora oggi, furono sempre sorvegliati da parte dell’attenta polizia e al momento opportuno anche malmenati ed arrestati. La mattina del 13 luglio 1821, la gendarmeria, per il verificarsi di alcuni turbolenti tumulti, temendo un tentativo di insurrezione, represse subito, con perquisizioni e persecuzioni, ogni incipiente disordine. Molti dei Capi della Carboneria, intuendo di essere gli obbiettivi primari, si nascosero nei loro Casini, in pratica case padronali che i nobili tenevano in campagna. Alcuni furono anche arrestati, mentre il Poerio si rifugiò a Malta. Il Governo Borbonico avviò un’inchiesta per mezzo del generale Pastore, il quale, con editto del 16 marzo 1823, pensò di convocare per il giorno 17, una Commissione Militare che doveva giudicare subito i responsabili, accusati di cospirazione contro il Regno. Gli accusati erano: Cesare Marincola di Catanzaro, di anni 24, proprietario, Giovanni Marincola di Catanzaro, di anni 20, legale, Odoardo Marincola di Catanzaro, di anni 28, proprietario, Giacinto de Jesse di Catanzaro, di anni 30, patrocinatore, Raffaele Renda di Catanzaro, di anni 27, sartore, Luigi de Pascale di Catanzaro, di anni 22, proprietario, Francesco Monaco di Dipignano, di anni 54, proprietario, Alessio Berardelli di Sammango, di anni 28, proprietario, Antonio Berardelli di Sammango, di anni 53, falegname, Gaspare Sposato di Sammango, di anni 53, sacerdote, Antonio Angotti di Sammango, di anni 28, sacerdote, Francesco Saverio Muraca di anni 61, di Sammango, medico, Francesco Berardinelli, di anni 60, di Sammango, falegname, Carmine Muraca, di anni 50, di Sammango, Rosario Berardinelli, di anni 48, di Sammango, massaro, Domenico 20 la Ciminiera
Berardinelli, di Sammango di anni 40, bracciante, Giuseppe Antonio Ferrara, di Sammango, di anni 56, parroco. La causa fu una mostruosa farsa. I testimoni erano in stato di detenzione e sorvegliati a vista. I legali dei 17 imputati ebbero soltanto poche ore da dedicare alla difesa e non tutti i testimoni furono interrogati, perché il reato era stato chiaramente configurato e molte furono le dichiarazioni vendute. Nella notte del Lunedì Santo del 23 marzo, la Commissione Militare convocata, condannò a morte Francesco Monaco alla ghigliottina, mentre Giacinto de Jesse e Luigi Pascali furono condannati all’impiccagione. Gli stessi, all’ascolto del loro verdetto, restarono impassibili e sereni. Alcuni cospiratori si salvarono perché latitanti, oppure perché condannati a più miti pene detentive. Lo stesso generale Pastore volle che la sentenza di morte, che era stata pronunziata all’una e mezza di notte del 24 marzo 1823, fosse immediatamente eseguita. Infatti, alle 10 del giorno successivo, i condannati, usciti dal carcere di S. Giovanni di Catanzaro, furono condotti al patibolo, incatenati tra due file di gendarmi. Così de Jesse e Pascali furono avviati alle forche di Porta Marina, mentre Francesco Monaco di Dipignano fu portato innanzi alla Torre del Castello, in prossimità del Palazzo Varano. Il primo, invece, a salire sul patibolo, fu il giovane avvocato Giacinto de Jesse che prima di morire, rivolse lo sguardo verso il Cristo che il prete conduceva con sé, come per dire che anche lui aveva subìto un’ingiusta condanna a morte. Poi toccò al ventenne Luigi Pascali che più simile ad un eroe greco, prima che la corda lo strangolasse, gridò: “Viva l’Italia”. Nello stesso tempo, il padre, che assisteva all’esecuzione, fece scivolare nelle mani del boia una moneta di sei carlini, perché “non facesse soffrire il figlio sulla forca”. Di Francesco Monaco di Dipignano, di anni 54 si sa che era stato gettato nelle carceri cosentine sotto l’accusa di aver consegnato a Sammango la corrispondenza dei “Fratelli” Carbonari di Cosenza e di Catanzaro. I ceppi ed il collare di ferro si erano “immedesimati” nella carne e, quando la moglie, Donna
Mariantonia Barberio, si rivolse all’Intendente De Mattheis implorando un più umano trattamento, questi le riferì che la supplica la voleva dalla figlia sedicenne. Alla sventurata moglie, quindi, non le restò che assistere inerme all’esecuzione e contemplare che il boia alzasse tra le mani la testa mozza dello sfortunato marito. Fu l’ultimo ad essere ucciso. Era mezzogiorno. Fu un triste spettacolo di amore e di pietà, ma fu anche l’azione eroica di Uomini Eletti che subirono una morte ingiusta, perché l’effimero strapotere del De Mattheis e del generale Pastore, finalizzato sicuramente ad un’illusoria carriera che, in un tempo più o meno breve, sarebbe tramontata, si doveva estrinsecare, in quel momento di esaltazione, in una punizione, che doveva essere severa ed esemplare. Forse un atto di clemenza, in un momento di più umana riflessione, come insegnano rari uomini di grande levatura morale e spirituale, sarebbe stato più significativo ed efficace, e
senza dubbio non sarebbero certamente mancate le motivazioni per salvare delle vite, -misere vittime sacrificali-, da conseguenze tragiche, ingiuste e sproporzionate. L’immediatezza dell’esecuzione della condanna a morte, infine, rientrava nel solito burocratico pronunciamento: “Giustizia è fatta!”, perché non interessava tanto ponderare il peso delle responsabilità o verificare più approfonditamente l’innocenza o la colpevolezza della persona da condannare, in questi casi, al servile Collegio giudicante interessava trovare il capro espiatorio e sacrificarlo in nome di un’opinabile e corrotta giustizia. La Storia degli uomini, nel tempo, condanna sempre..., perché questi eletti, nella loro idealità, tracciarono da lontano il cammino della Libertà e dell’Indipendenza Nazionale Italiana, cercando, in quell’epoca, di scuotere un popolo che da secoli, senza trovare la propria identità e la propria dignità, era rimasto indifferente ad ogni ingiustizia e ad ogni tentata azione rivoluzionaria.
Bibliografia - Cesare Sinopoli = “Pei martiri catanzaresi del 1823” - Estratto dalla Rivista “La Giovine Italia” - n° 10 dell’omonima Tipografia di Catanzaro.
Sul prossimo numero:
L ‘ IRA DI SANTA ANASTASIA Da alcune fonti storiche del 1650 si è rilevato che la Diocesi di S. Severina, che ebbe il rito greco sino al 1089, era molto ricca. Infatti, nei giorni di Pasqua, dal territorio di Mesoraca, (vicino S. Severina), alla Sede Vescovile, arrivavano come decime circa milleduecento agnelli, ed inoltre in quel giorno il Sacerdote diceva la messa su di un altare fatto di pezze di formaggio, che alla fine gli venivano offerte in dono. la Ciminiera 21
Una leggenda molto conosciuta nella zona di Santa Severina va sotto il nome di leggenda della Madonna e di Filomena e presenta diversi spunti di analisi.
FILOMENA E LA MADONNA
lo cerca in ogni parte del paese, piangendo ed urlando ovunque il suo nome. La segue una turba di persone che tenta inutilmente di confortarla. Filomena, lacerata dal di Raoul Elia dolore, scarmigliata e fuori di sé, rientra in casa solamente nel tardo La leggenda pomeriggio, dopo una ricerca infruttuosa e disperata. Filomena era una donna, dice la leggenda, In casa, non riuscendo a darsi pace, prende molto laboriosa e di una religiosità che a martoriarsi il corpo un po’ per il dolore, un rasentava la follia. po’ per punirsi della grave distrazione, ma Ogni mattina, infatti, si recava a messa inutilmente. Il dolore non passa la donna all’alba, lasciando solo nel letto il figlio non sa dove cercare ancora il figlio disperso. di cinque anni. Un brutto giorno, però, il Poi, all’improvviso, quando la pia donna ha bambino, si sveglia improvvisamente e, quasi perduto ogni speranza, Filomena sente vistosi solo, dopo aver fatto alcuni passi una vocina che le dice: “Mamma, vieni a piangendo a dirotto, cade nel pozzo che prendermi, sono qui nel pozzo e una signora stava nel piccolo cortiletto antistante la casa. mi tiene tra le braccia”. Al suo ritorno, ovviamente, la donna Uscita di corsa, chiama i vicini per avere non trova più il figlio. Disperata, Filomena 22 la Ciminiera
aiuto. Un uomo, accorso dalla campagna, scende con una scala a pioli giù per lo stretto e buio cunicolo che costituisce l’arcaico pozzo e trova il bambino seduto su un quadro della Madonna. Il contadino prende il bimbo così come si trova, e lo porta in giro per tutto il paese per mostrare alla gente quanto accaduto. Filomena non solo ringrazia la Madonna di quello che aveva fatto per suo figlio, ma vive in odore di santità per tutto il resto della vita, tanto che, alla sua morte, dice la voce pubblica, viene fatta santa e nel luogo dove era avvenuto il miracolo viene eretta una chiesetta, la Chiesa di Santa Filomena e la Madonna, che ancora oggi gratifica i suoi fedeli.
L’analisi La maternità è il tema centrale della leggenda di Filomena. Quello proposto nella leggenda è un modello matriarcale, in cui gli uomini non compaiono se non marginalmente mentre centrale diviene invece il rapporto fra le due madri, quella celeste e meta storica, la Madonna, e quella fisica, Filomena. Il contrasto fra i doveri materni e i pii auspici produce due vuoti simmetrici, due assenze, quella della madre per il figlio prima, quella del figlio per la madre dopo. L’intervento della Madonna ricuce lo strappo madre/ figlio, chiudendo i due vuoti con un’azione simmetrica, in quanto madre di tutti: operando per il ritrovamento del fanciullo attraverso lo strumento mitico della voce disincarnata (ricordiamo, di passaggio, le leggende romane di Vertumno, Fauno e Giove Statore, narrate da Ovidio e Properzio) e fornendo l’oggetto materiale, la prova dell’evento soprannaturale, come nelle migliori storie di fantasmi, in questo caso il quadro/icona. La leggenda si integra quindi anche con lo schema narrativo del ritrovamento miracoloso dell’icona, molto diffuso nelle aree greche della Calabria (pensiamo, ad esempio, alla leggenda della Madonna di Capocolonna e delle tante Madonne nere
della tradizione calabrese) con conseguente fondazione di un luogo di culto associato. La presenza dell’uomo è legata ad una usanza tipicamente agricola, con la figura maschile considerata come protezione contro i mali soprannaturali, tradizione che, ad esempio, vuole che il figlio possa uscire di notte solo se portato dal padre. A scendere nel pozzo deve essere una figura maschile, e questo per la natura ambigua del pozzo che, penetrando nel terreno, mette in connessione, apre una porta con il mondo infero, connessione che, però, è bidirezionale, quindi potenzialmente portatrice di contagio. In questo senso, la costruzione della chiesetta assume una funzione di argine/controllo/chiusura per lo spazio “contaminato” del pozzo. In più, questa connessione pericolosa è amplificata dal mezzo utilizzato: essa infatti è veicolata dall’acqua, elemento fluido e infido, portatore di vita ma anche di morte (pensiamo alle numerose alluvioni), elemento che caratterizza spazi sempre interstiziali, liminari (fontane, che sono spesso messe alla fine del paese e sono luoghi di contatto con il soprannaturale, come indìcano i numerosi racconti folklorici sul tema, fiumi e corsi d’acqua, aree che segnano i confini fra paesi e terreni) “pericolosi” per il contagio con il soprannaturale. L’attuale chiesa di Santa Filomena è formata da due cappelle sovrapposte una all’altra; quella inferiore ha una volta a botte e somiglia molto ad una cisterna.
Chiesa di Santa Filomena (sec XI-XII) Santa Severina (Crotone) la Ciminiera 23
INIZIO DELLA GENESI NORRENA di Greta Fogliani Nelle mitologie di tanti popoli che si sono posti il problema della ricerca delle proprie origini, l’inizio della narrazione è sempre il mito della creazione; per la sua particolarità, per passione personale, e anche, diciamolo, per la serie tv Vikings ho scelto di iniziare, queste mie disertazioni, dalla narrazione norrena di come tutto è cominciato.
vǫlva, la veggente che narra a Odino l’origine del mondo.
[Völuspá, in Il canzoniere eddico, str. 3, p. 5]
Da quanto leggiamo apprendiamo che all’inizio dei tempi non c’era nulla, a parte un enorme baratro chiamato Ginnungagap. Tuttavia, in questo abisso si potevano distinguere due zone: il nord e il sud. A settentrione vi era Niflheimr, la regione dominata dal freddo, dall’umidità e dall’oscurità. In essa vi era Hvergelmir, una fonte gelida da cui avevano origine gli Elivágar, i fiumi cosmici dalla corrente impetuosa. A sud si trovava invece Muspell, una regione ardente, tanto torrida che solo chi ci era nato poteva resistere al suo calore. Il gigante Surtr era ed è il guardiano di questo regno e con la sua spada fiammeggiante brucerà tutto il mondo alla fine dei tempi.
Questo è l’inizio del mondo norreno secondo quanto recita la Völuspá, il primo dei poemi eddici che raccoglie le profezie della
Ed ecco che gli Elivágar, nel loro corso giunsero così lontano che la loro schiuma velenosa si indurì e divenne ghiaccio. Dalle
Il baratro e i due regni Era al principio dei tempi: Ymir vi dimorava; non c’era né mare né spiaggia né onde gelide; terra non si distingueva né cielo, in alto: un baratro informe c’era ed erba in nessun luogo.
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esalazioni velenose di questo ghiaccio si formò una pioggerella che cadde sull’abisso di Ginnungagap e si trasformò in brina. Un giorno la brina del nord e il calore del sud si incontrarono: il vento caldo di Muspell raggiunse la brina di Niflheimr che si sciolse e originò i primi esseri viventi dalle gocce che stillavano dal ghiaccio.
Ymir, il progenitore Il primo essere generato fu Ymir, il progenitore di tutta la sua stirpe, i giganti della brina. Mentre dormiva, dal sudore di Ymir nacquero altre creature: sotto il braccio sinistro (o la mano, secondo Chiesa Isnardi) si formarono un uomo e una donna, mentre dall’unione dei suoi piedi crebbe un essere dotato di sei teste. Oltre a Ymir, le gocce di brina avevano dato origine anche a una mucca, Auðhumla, che alimentava il gigante con i quattro fiumi di latte che sgorgavano dalle sue mammelle. Auðhumla invece si nutriva leccando le pietre ghiacciate, che avevano un sapore salato. Il primo giorno che la mucca leccò le pietre spuntarono da esse dei capelli d’uomo, il secondo la testa e infine, il terzo giorno, ne uscì un uomo intero, il primo essere umano nato sulla terra; il suo nome fu Buri. Egli generò Borr, che a sua volta, unendosi con la gigantessa Bestla, ebbe tre figli: Odino, Vili e Vé, i primi tra gli dèi.
Il sacrificio di Ymir Odino, Vili e Vé uccisero il gigante Ymir e il suo sangue sommerse quasi tutti i thursi (i giganti NdA) della brina, tranne uno: Bergelmir, infatti, riuscì a fuggire con la sua famiglia su una barca, e da lui discendono tutte le stirpi dei giganti della brina. I figli di Borr trascinarono il corpo senza vita di Ymir in mezzo al baratro e da ogni sua parte trassero gli elementi che compongono il mondo: la carne di Ymir diede origine alla terra, il sangue al mare e a tutte le acque, le ossa formarono le montagne, i denti i macigni e i sassi, e dal cranio trassero la volta celeste. Si dice, inoltre, che dai vermi formatisi dalle
carni del gigante gli dèi crearono degli esseri simili agli uomini che divennero i nani, che hanno dimora tra le pietre. Quattro di loro vennero posti a sorreggere il cielo nei quattro angoli della terra; i loro nomi sono Austri, Vestri, Norðri e Suðri (che altro non sono che i nomi dei quattro punti cardinali: est, ovest, nord e sud NdA). In seguito, gli dèi avvolsero l’Oceano attorno alla Terra, quasi fosse un anello, che divenne un limite invalicabile per l’uomo. Presero anche le scintille provenienti da Muspell e assegnarono ad alcune una posizione fissa nella volta celeste, mentre ad altre una posizione variabile, ed esse costituirono così le stelle fisse e mobili. Sulla terra ferma, rotonda e circondata dalle acque, gli dèi stabilirono vari domini: nella parte più esterna, sulle spiagge, dimorarono i giganti, nel luogo freddo e oscuro di nome Útgarðr o Jötunheimr; al centro del mondo, invece, con una ciglia del gigante Ymir delimitarono Miðgarðr, il mondo degli uomini, che doveva essere protetto dai giganti dalla recinzione. Infine, Odino, Vili e Vé gettarono al cielo il cervello di Ymir, che andò a comporre le nuvole, come riporta il Grímnismál, un altro poema eddico: Dalla carne di Ymir venne foggiata la terra e il mare dal sangue. Monti dalle ossa, alberi dai capelli e la volta celeste dal cranio. E dalle sopracciglia fecero gli dèi benevoli Terra di Mezzo ai figli degli uomini; e dal suo cervello vennero le gagliarde nubi tutte foggiate.
[Grímnismál, in Il canzoniere eddico, str. 40, 41, p. 67]
La nascita degli uomini Una volta creato il mondo, gli dèi si recarono sulla spiaggia e lì trovarono due tronchi d’albero. Allora li raccolsero e decisero di farne due esseri umani: Odino diede loro la Ciminiera 25
spirito e vita, Vili saggezza e movimento e Vé forma, parola, udito e vista. L’uomo si chiamò Askr, la donna Embla, e da loro ebbe origine l’intera umanità che dimorò a Miðgarðr.
mitologia nordica, dove ogni conquista viene ottenuta a caro prezzo: Odino ottiene la conoscenza solo dopo aver lasciato un occhio come pegno, mentre il pericoloso lupo Fenrir viene imprigionato solo dopo che il dio Tyr ci ha rimesso una mano Insomma, gli antichi norreni sembrano ricordarci che dobbiamo guadagnarci ogni cambiamento positivo che vogliamo apportare alla nostra vita; ma questo non ci deve spaventare, se quello che vogliamo ottenere vale ogni nostra goccia di sudore. Ricordiamoci che le gocce e addirittura le lacrime per gli uomini del Nord sono una manifestazione di fecondità e un simbolo di rigenerazione. Impariamo anche noi, allora, a considerare positivamente la fatica come qualcosa che ci permettere di compiere le nostre piccole imprese nel quotidiano. Perché se raggiungere un traguardo è bello, arrivarci dopo mille peripezie non ha prezzo.
Sicuramente questo racconto delle origini non è quello che ci aspetteremmo; la creazione di per sé è un momento carico di positività, mentre nella tradizione norrena non si può scindere dal cruento sacrificio di Ymir. Eppure, se ci pensiamo bene, ogni nuovo inizio, ogni cambiamento presuppone la “morte” di alcuni aspetti di noi stessi. Questo è particolarmente vero nel caso della
Fonti: - CHIESA ISNARDI, Gianna, I miti nordici, Longanesi, Milano, 2014, pp. 49-52; - SNORRI STURLUSON, Edda (a cura di Giorgio Dolfini), Adelphi Edizione, Milano, 2014, pp. 52-59; - SCARDIGLI, Piergiuseppe (a cura di), Il canzoniere eddico, Garzanti, Milano, 2017. pp. 5, 67.
Sul prossimo numero:
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Sole e Luna nella mitologia norrena Gli astri del cielo sono da sempre legati a una forte simbologia, molte volte condivisa da popolazioni differenti. Non ci sarà da stupirsi quindi se alcune caratteristiche che riporteremo qui relative alla tradizione norrena sono ravvisabili anche in altre aree culturali. 26 la Ciminiera
LEONIDA A TEATE di Daniele Mancini
Leonida di Sparta e Teate? Questi due nomi nella medesima vicenda storica? Amo la mia città, la sua storia, i suoi monumenti, su di lei ho scritto anche la mia tesi magistrale! Amo Leonida, Sparta e gli Spartani e su di loro ho scritto, su questo blog, la storia che li ha caratterizzati nell’antichità. Ho impiegato del tempo ma ho voluto partorire questo racconto su una vicenda storica frutto della mi fervida fantasia, un altro racconto che arricchisce la collana “Teate si racconta” del mio modesto blog di archeologia. Attorno alla figura di Leonida di Sparta, il leggendario re di una delle più importanti póleis greche, narro di quando, in un immaginato viaggio di ritorno dalla Taras (l’odierna Taranto), sorella di sangue e di stirpe fondata da Sparta alla fine dell’VIII secolo a.C., ha deciso di visitare un piccolo centro abitato da fieri guerrieri, che avrebbe desiderato suoi alleati, per bloccare l’avanzata del perfido Serse I, re dei Persiani. Erodoto, nelle sue Historiai, narra delle Guerre persiane, del ventennio di conflitti tra fine VI e inizi V secolo a.C. che hanno visto le póleis greche difendere il proprio territorio dalla brama di potere dei perfidi regnanti persiani, ritraendo un conflitto come quello tra le forze della schiavitù (i Persiani), da una parte, e quelle della libertà (gli Ateniesi e la confederazione delle póleis greche che si unirono contro gli invasori), dall’altra. Sulla penisola italica, invece, una popolazione sabellica di lingua osco-umbra, i Marrucini, aveva occupato una parte dell’odierno Abruzzo, suddividendola in numerosi insediamenti sparsi organizzati in pagi (unità territoriali) comprensivi di più vici (villaggi). Fino alle soglie del IV secolo a.C., da quando sono diventati grandi alleati di Roma e da quando questa ha esteso i suoi domini anche sulle terre abruzzesi, i Marrucini sono sempre stati una popolazione di guerrieri e hanno sempre difeso con la forza il proprio territorio dalle popolazioni vicine. La capitale politica e religiosa dei Marrucini (nei pressi di Rapino) è stata considerata ben presto troppo lontano dalle vie di comunicazione e ben presto si decise di stabilire la nuova Touta Marouca proprio su quel crinale sicuro e difendibile che da oltre 5000 anni ospita l’insediamento di Teate. Buona lettura. la Ciminiera 27
E’ trascorso un anno dalla Battaglia di Sepeia contro Argo (494 a.C., che concede agli Spartani il pieno controllo del Peloponneso, ndr) e ne manca uno alla Novantaseiesima Olimpiade (492 a.C.), quando Leonida, l’erede al trono agiade e pienamente cittadino spartano, è salito al trono (correva l’anno 493 a.C., ndr). L’affronto subito dagli emissari persiani, che hanno cercato di ottenere la sottomissione di Sparta alla Persia incontrando il netto rifiuto di Leonida (491 a.C., ndr), non ha acceso quella fiamma che avrebbe contribuito a innalzare Sparta agli onori della storia, rifiutandosi di aiutare gli Ateniesi per contrastare i Persiani prima dell’epica Battaglia di Maratona (490 a.C., ndr). Secondo Leonida, la minaccia persiana sarebbe tornata, nonostante la sconfitta e, la prossima volta non avrebbe rinunciato solo per mero orgoglio anti-ateniese. Nell’anno successivo, ha intensificato i suoi addestramenti nell’agoghé, il rigoroso regime di educazione e allenamento basato su disciplina e obbedienza cui era sottoposto ogni cittadino spartano, comprese le dinastie reali, fin dall’età di 7 anni. Un giorno, durante uno di questi allenamenti, Alexandros, il fido capitano dei suoi uomini, dice a Leonida: “Tranne che per essere re, tu non sei per nulla superiore a noi”; ma lui, flemmatico, risponde: “Ma se non fossi migliore di te, non sarei re” (cit. da Apoftegmi spartani di Plutarco), confermando che il suo sangue reale non era importante quanto le sue superiori capacità nella competitiva società spartana, rendendolo adatto al governo e a trascinare gli opliti Spartiati nelle future battaglie. Durante i frenetici anni successivi, altri emissari, provenienti dalle terre al di là del mare, dove vivevano fratelli spartani di Taras, gli portano sparute notizie di un fiero popolo di guerrieri che difendeva un piccolo territorio arroccato su una piccola città: ma in un sogno, durante un tormentato sonno di una calda notte estiva, Apollo stesso lo invitava a recarsi presso le basse coste di quel mare dell’intimità (l’Adriatico, ndr) dove, sulle colline di una lussureggiante valle, vivevano i figli del pelide Achille, coraggiosi, soldati, leali, Marrucini… 28 la Ciminiera
Senza consultare l’oracolo, Leonida organizza, in pochi giorni, una nave e, con un drappello di fidati uomini, parte alla volta di Taras: è appena trascorso l’anno della Novantottesima Olmpiade (484 a.C., ndr) e il nuovo re persiano, Serse I, inizia ad allestire la sua spedizione di conquista definitiva della penisola greca. Ordina che sia scavato un canale attraverso l’istmo della penisola del Monte Athos, nella penisola calcidica, da Strimonikos al Golfo toronaico; lungo circa due chilometri e mezzo, abbastanza ampio e profondo, avrebbe permesso il passaggio di due triremi contemporaneamente, evitando lunghe e onerose spedizioni via mare. Il viaggio di Leonida verso Taras è benvoluto dagli dei: il vento sostenuto e il mare mai pericoloso, permettono al drappello di Spartiati di giungere sulla costa opposta in pochi giorni. Le notizie provenienti dalla Persia preoccupano anche le città della Magna Grecia ma solo Taras si mostra disposta ad aiutare i fratelli spartani per bloccare la perfida avanzata persiana. I giorni trascorsi a Taras sono piacevoli, pieni di festeggiamenti e cerimonie religiose di buon auspicio: ma Leonida non ne è particolarmente attratto e il pensiero per la sposa Gorgo di Sparta lo allontana anche dai piaceri più carnali ai quali, invece, i suoi uomini non si sottraggono. Il suo scopo è ripartire il più presto possibile per risalire l’intimo mare per approdare sulla costa del popolo marrucino. Apollo lo ha invitato a raggiungere Teate dei Marrucini dove troverà i compagni del suo “ultimo viaggio”… Trascorsa una settimana a Taras, Leonida decide di ripartire. Presi gli accordi con il Re Argos di Taras per la fornitura di un drappello di uomini per rimpinguare l’esercito da contrapporre ai Persiani, rifornita la nave e riforgiati gli uomini, si imbarca in direzione settentrione. Un caldo e poco consueto scirocco sospinge velocemente la nave e, dopo un giorno di navigazione sotto costa, una frenetica attività in un piccolo approdo desta l’attenzione dell’equipaggio: sono arrivati, è il porto dei Marrucini e Leonida sente che Apollo lo ha condotto sulla rotta giusta, resta solo da attraversare un tratto di fiume per giungere alla meta. Le autorità preposte al controllo
dell’approdo non hanno mai visto una nave con quelle insegne, non conoscono Sparta, non conoscono Leonida; dopo gli opportuni controlli lasciano passare l’imbarcazione ma, per precauzione, inviano un emissario a cavallo verso Teate per avvertire Re Petrvis dell’imminente arrivo di sconosciuti visitatori desiderosi di offrire le proprie mercanzie e richiedere servigi. Il fiume è gonfio ma tranquillo e attraversa la medesima lussureggiante valle del suo sogno: di fronte si stagliano imponenti monti gonfi di neve che stringono il territorio circostante in un affettuoso abbraccio di protezione. Dopo una breve e tranquilla navigazione, scorgono una collina su cui si stagliano le abitazioni di un centro abitato tra le quali svetta un’imponente costruzione fortificata: è la cittadella di Teate, la città dei figli di Achille, l’eroe che è giunto su queste colline molto prima della ormai lontana Prima Olimpiade (776 a.C., ndr). Al piccolo porto li attende un uomo, austero, immobile, lunghi capelli bianchi, viso scavato dagli anni e dal lavoro sotto il sole, indossa un’ampia tunica consumata dal tempo e a sorreggersi, nella mano destra, un lungo bastone ricurvo in cima. Sistema la barca,
Leonida si dirige verso di lui, che si presenta: è Rvsna, il sacerdote àugure di Teate e senza che Re Petruis glielo chiedesse, lui è venuto ad accogliere Leonida e i suoi compagni guerrieri. Leonida, con il suo elmo e il suo mantello, si presenta ma Rvsna lo blocca: sa chi è e gli parla con la sua stessa lingua. Leonida, spaesato e sorpreso, ascolta in silenzio il racconto del sacerdote che lo ha sognato da diverse lune e solo il volo dei sui uccelli gli ha indicato il giorno dell’arrivo degli Spartiati. Rvsna, Leonida e gli altri uomini, salgono su alcuni carri e si dirigono verso la città alta. Quando il sole saluta da dietro la montagna gigante il sorgere della nuova luna, arrivano in città: la popolazione, curiosa, li scruta ma non li acclama; non ha paura, la presenza di Rvsna la tranquillizza, nemmeno Leonida immaginava i festeggiamenti e le acclamazioni vissuti a Taras. I lenti carri li conducono verso l’Acropoli: li attende, fiero e maestoso, Re Petruis circondato da una ventina di guerrieri che, da lontano, sembrano possenti giganti! Nessuno è armato e anche Leonida ordina ai suoi uomini di lasciare le armi sui carri. Rvsna sarà l’interprete tra i due re che, dopo uno sguardo di sfida, si abbracciano sorridenti, proferendo frasi nelle rispettive lingue. Come d’incanto compaiono servitori e ancelle che in men che non si dica, imbastiscono dieci tavolate ricche di ogni prelibatezza. Musici e danzatrici allietano l’evento. Leonida e i suoi uomini, stupefatti e affamati, non si lasciano pregare e si tuffano nel convivio. Sono particolarmente attratti da piccoli bastoncini a cui sono infilati piccoli pezzi di carne di pecora, cotti sulla brace. Tutto è innaffiato da un rosso vino locale, fruttato e gustoso. Gli ospiti approfittano dell’ospitalità ma Leonida, osservato da lontano da Rvsna, resta sempre vigile e guardingo. La notte trascorre tranquilla e all’alba del giorno dopo Leonida, accompagnato da Rvsna, è condotto presso il tempio locale per le suo orazioni religiose mattutine. E’ orgoglioso quando vede che il tempio è per metà dedicato all’eroe Herakles e per metà alla dea Herentas, simile alla sua Afrodite. Il tempio, essenziale nella sua architettura, è eretto sopra un pozzo sacro con la cui acqua, la Ciminiera 29
Rvsna, officia tutti i riti religiosi. Dopo aver curato l’anima, Leonida chiede di poter allenare il corpo. I giorni in mare, teme, lo abbiano arrugginito e si fa condurre presso il luogo di addestramento delle truppe marrucine: è posto fuori le mure, su un colle che un tempo ospitò i primi coloni provenienti da Troia. Il campo è piccolo ma ben attrezzato e i guerrieri che si allenano sono sorpresi dal vedere che un re abbia volgia di allenarsi con loro: tutti desiderano incrociare spade e scudi di legno con Leonida e questi li accontenta. Uno dopo l’altro sono sopraffatti dal re che, alla fine, li abbraccia soddisfatti. Quando il sole è ormai alto, Leonida vuole incontrare Re Petrvis: è arrivato il momento di chiedere la sua alleanza e i suoi uomini. Durante l’incontro, moderato sempre da Rvsna, Leonida racconta della spietatezza di Serse e dei Persiani e di quello che potrebbe fare anche a quei territori se i greci non riuscissero a fermarlo. Petrvis, orgoglioso di essere stato scelto da Leonida, offre la sua alleanza, offre il suo oro ma gli uomini non saranno molti. Leonida potrà scegliere tra 50 guerrieri che torneranno con lui con una loro nave. Purtroppo non può concedere altri uomini: le intemperanze con le popolazioni vicine per questioni di confini e territori, sono sempre più frequenti e non può permettersi di indebolire il suo esercito. Leonida è soddisfatto, non pensando minimamente di ottenere oro e uomini da una re di una popolazione sconosciuta! Il giorno dopo Leonida decide di ripartire e Rvsna officia dei riti propiziatori: un dettaglio non sfugge al suo occhio attento e saggio. Dalle viscere di capra ha letto che Leonida andrà incontro a morte e glorie eterna! Lo riferisce al re che, in un moto di ira, lancia un urlo disumano di rabbia e fiera vendetta. Petrvis e 20 barche marrucine
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accompagnano Leonida fino al porto sul mare, navigando con lui lungo il fiume. Le due barche di guerrieri, dunque, ben presto lasciano il porto dirette verso il Peloponneso e verso la guerra contro i Persiani. L’arrivo a Sparta è trionfale: è trascorso un mese dalla sua partenza e, immediatamente, invia veloci emissari ad ogni angolo della Grecia per formare un esercito comune contro Serse. Tutto il resto è storia… L’anno prima della Novantanovesima Olimpiade (481 a.C., ndr), Leonida viene scelto per guidare le forze greche alleate nella resistenza durante la Seconda Guerra persiana, un omaggio alla superiorità militare di Sparta e alla fervida intraprendenza di Leonida stesso. L’anno olimpico (480 a.C., ndr) è l’anno durante il quale la legge spartana vieta l’attività militare e l’anno in cui era imposta la tregua olimpica, quindi marciare in guerra sarebbe stato doppiamente sacrilego per l’esercito spartano, però, gli Efori (un’importante magistratura spartana, ndr) decidono che il pericolo è sufficientemente grande da giustificare una spedizione immediata per fermare l’avanzata persiana. Il passo delle Termopili è lo snodo cruciale e Leonida, con il suo manipoli di Spartiati (e Marrucini…) e poche migliaia di guerrieri greci, rallenta l’avanzata persiana. Nonostante Serse abbia invaso la Beozia e occupato Atene, qualche mese dopo a Salamina e l’anno dopo nella Battaglia di Platea, l’avanzata persiana è definitivamente bloccata. Ecco la profezia dell’oracolo di Delfi prima della Battaglia delle Termopili: “O voi, o abitatori di Sparta dalle larghe piazze: o la vostra grande gloriosissima città viene distrutta sotto i colpi dei discendenti di Perseo, oppure questo non avverrà; ma il paese di Sparta piangerà la morte d’un re della stirpe di Eracle“. (Erodoto, Historiai, VII, 220.)
Il Regno della Bumeliana di Raoul Elia
Correva l’anno 1928, quando veniva fondato uno degli Stati più piccoli e meno duraturi della Storia (ma sarà il caso di usare la maiuscola?): il “Regno della Bumeliana”. Il regno, incredibile dictu, aveva sede in quel di Calabria ed era nato a seguito di una controversia legale per un pozzo costruito abusivamente da un contadino su un terreno demaniale a pochi metri dalla Villa Cupi, lungo la strada che ancora oggi collega Pizzo a Vibo Marina. È stato fondato dall’eccentrico avvocato Nicola Cupi che s’incoronò re col nome di Nicola I.
Le singolari origini del regno
L’inizio del regno, la sua origine segreta, è legata ad un pozzo. Si, proprio un pozzo. Il pozzo della discordia è ancora visibile fra una villetta a due piani e la strada nazionale, al centro di un lembo di terra di circa tremila
metri quadrati. Un contadino, tale Giuseppe Galastro, aveva eretto un pozzo per innaffiare la sua piantagione di banane, in una zona di fronte alla villa a due piani di proprietà dell’estroso avvocato Cupi. Questi, però, servendosi delle sue indiscusse capacità oratoria e preparazione giuridica, aveva ottenuto dal demanio il terreno sul quale quel contadino aveva creato il suo pozzo. I tempi non sono chiari e non si sa bene chi abbia fatto prima cosa. Tuttavia, la comunicazione del demanio sorprese non poco il Galastro che si ribellò dando corso a una campagna legale che comunque finì, come si dice a Pizzo, “a tarallùcci e vìnu”, tanto che i due divennero amici e complici della nascita del regno. Il nome pare sia stato coniato partendo da un fatto storico, risalente alla guerra da poco terminata, con riferimento al pozzo della Bumeliana, a Tunisi, citato anche dal fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso la Ciminiera 31
Marinetti, il che dice molto sull’avvocato e sul suo retroterra culturale, per lo meno. In particolare, questo nome sarebbe da porre in analogia con la battaglia libica per la conquista dei pozzi petroliferi che divampò a Bumel nel 1912.
Il regno
La villetta davanti al terreno conteso diventò il Palazzo Reale, il motto della vecchia casa di campagna “Entra povero, mangeremo insieme il mio pane” divenne il motto del Reame. Dal 1930, ogni volta che Nicola I era presente a Palazzo Reale, sul pennone (un
ex parafulmine) veniva issata la bandiera del regno: un vessillo azzurro con un pozzo in oro. Re Nicola I si circondò anche di uno Consiglio di Ministri, tra cui le cronache ricordano Sebastiano Riga, orafo, che fu nominato Ministro delle Finanze; Giorgio Marincola Mauro, cui, essendo dirigente del Ministero del Tesoro a Roma, fu dato l’incarico di Ministro del tesoro; al contadino Giuseppe Galastro, che diede inizio alla lunga contesa giuridica per la costruzione del pozzo, fu assegnato il Ministero dell’Agricoltura; il sig. 32 la Ciminiera
Molè, proprietario di una tonnara, fu invece nominato Ministro dell’Agricoltura. Fra i cittadini del regno risultano anche numerosi nobili, generosamente nominati dal monarca. Il Regno della Bumeliana fece coniare anche una propria moneta. Per l’esattezza due carte monete, una del valore di Cinque Ducati e l’altra del valore di Mille Ducati, messe effettivamente in circolazione e ritenute valide per tutto il territorio pizzitano, a seguito di apposita convenzione stipulata fra Re Nicola I e La Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania operante a Pizzo. Nicola I, per la verità, aveva tentato di imporla/proporla anche nel paese confinante, ma invano. In ossequio al modello anarcoide del Vate, fonte di ispirazione dell’avvocato monarca, il regno, per quanto monarchia, era molto liberale, anti partitico si direbbe oggi (“Sono banditi i Partiti perché considerati peste delle libertà civili.”), per molti versi precursore di temi attuali (“La ricchezza della Stato è di tutti e di nessuno”) e problemi profondi della democrazia (l’esame psicologico obbligatorio per ottenere il diritto di voto). Questo comunque è lo “Statuto del Regno della Bumeliana”. 1) Il Regno ha un suo territorio geografico ancora sotto la sovranità italiana. 2) Suoi sudditi i cittadini di ogni nazionalità spiritualmente obbedienti al Re assoluto Nicola I. 3) Sono banditi i Partiti perché considerati peste delle libertà civili. 4) Nel Parlamento non sono ammessi gli “organizzatari”, ma i cittadini onesti che nella vita civile esercitino un mestiere o una professione ben determinati e utili alla collettività, purché non abbiano precedenti penali. 5) Sono aboliti le tasse, i pedaggi, le concessioni, gli stipendi non meritati, i viaggi gratuiti, i privilegi di qualsiasi natura e gli intrallazzi. 6) Sono aboliti i Tribunali, le Corti, in uno Stato di gente per bene. 7) Hanno diritto al voto uomini e donne dai 20 ai 60 anni previo un esame psichico che
accerti la capacità di intendere e di volere e non appartengano a Partiti organizzati che il Re ha posto fuori legge. 8) Sull’uscio di ciascun suddito sia inciso il motto “Entra povero e mangerai insieme il mio pane”. 9) Le parole “destra” “sinistra” e “centro” “centrodestra” e “centrosinistra” devono essere adoperate soltanto nella toponomastica e negli incontri di calcio pena l’ergastolo. 10) Quelli che si proclamano “leaders” non devono possedere beni terreni, non pecunia, non donne, e devono vivere in dignitosa miseria coperti di sacco e in sandali di corda. Ai contravventori si taglierà la testa, del resto inutile. 11) La ricchezza della Stato è di tutti e di nessuno. Destinato a durare per oltre 30 anni, almeno fino alla morte del suo “legittimo“ sovrano, questo “regno” coinvolse un po’ tutti i residenti, semplici cittadini, politici locali e persino funzionari pubblici, fino ad attirare l’attenzione del giornalista Antonio Lubrano, che in occasione del trentennale ebbe modo addirittura di intervistare il monarca Nicola I.
Un episodio di conflitto istituzionale La nipote dell’avvocato, Valentina Cupi, come riporta Orlando Accetta in un suo articolo, ricorda che il defunto sovrano, da sempre in aperta opposizione allo Stato italiano, pensò bene di organizzare e cercare di portare a compimento il rapimento, con flotta ben nutrita, del ministro Molè a Vibo Marina. Un Maresciallo dei carabinieri avrebbe però preso un po’ troppo sul serio il fatto, “generando quasi una vera e propria battaglia navale”. L’azione, comunque, di chiara ispirazione dannunziana, aveva anche una funzione istituzionale: nominare nuovi ministri “sottraendoli” alla Repubblica Italiana. In realtà, il re all’inizio voleva conquistare il porto di Vibo Marina, posto ingiustamente nel territorio montano di Vibo Valentia. Conquistato il porto, si sa che l’appetito vien mangiando, il Re aveva disposto anche
la cattura del sen. Enrico Molè (in vacanza in una sua villa nei paraggi), per nominarlo Presidente del Senato del Regno, sottraendolo alla Repubblica italiana di cui era “soltanto” vice presidente. Alla testa della Marina da Guerra e Pesca del Regno, la nave ammiraglia “Volontà di Dio”, un brigantino dignitoso che inalberava la bandiera di combattimento dello Stato, era seguita dalle barche della tonnara locale, nere come la bandiera pirata. Lo scontro, se di scontro si può parlare, agitò le acque (è il caso di dirlo) e la contesa storica fra Vibo e Pizzo si rianimò, anche per la reazione dei Carabinieri, che “risposero al fuoco”, probabilmente spinti dalla presenza del senatore in fuga. Gli Annali della Bumeliana descrivono così la “battaglia” che seguì: “Razzi, cannonate, segnalazioni. Il ‘Volontà di Dio’ solca sicuro il mare, seguito dalle fuste nere sulle quali la ciurma scalmanata grida: ‘A chi Vibo Marina? A noi!’ Ma all’imboccatura del porto, in vista già della vittoria, al Re, che seguiva intrepido la sua armata, viene imposto di ritirarsi e ordinare il rientro delle truppe pronte alla battaglia da una barchetta a remi, con a bordo il maresciallo dei carabinieri. Molè, intanto, temendo la cattura, era fuggito da Vibo Marina. Ritirata ordinatissima”. Giusto per la cronaca, il monarca pizzitano, non pago dell’impresa, ritentò il gesto qualche anno dopo. In occasione del trentennale del Regno, infatti, nel 1958 Nicola I ritenta la conquista del porto di Vibo Marina a 5 anni di distanza. E questa volta vuole catturare, oltre al senatore Molè, il senatore Spasari, sottosegretario ai lavori pubblici e l’on. Antoniazzi sottosegretario alle Poste e Telegrafi. Ovviamente, tutto si risolse in un nulla di fatto, ma senza i toni drammatici di tre anni prima. Fonti https://www.facebook.com/media/ set/?set=a.1665607913669859&type=3 PALMIRO LO GIACCO – L’incredibile Regno della Bumeliana, ed. propria la Ciminiera 33
La ricostruzione del Maus ospitata dal museo dei mezzi corazzati di Kubinka.jpg
Il topo più grande della storia delle guerre Di questa tendenza al gigantismo esiste anche un esempio nella tipologia dei carri armati: il Panzer VIII “Maus” (“Topo”, nomignolo spiritoso secondo gli ingegneri dell’epoca, immagino). Presentato come progetto preliminare da Ferdinand Porsche, austriaco naturalizzato tedesco fondatore della casa automobilistica omonima, ad Adolf Hitler nel giugno 1942, questo mastodonte venne facilmente e rapidamente approvato da parte del Führer e del ministro degli armamenti Albert Speer, dei quali si è capita la passione per i giganti. Ne venne rapidamente costruito nel 1943 un prototipo, a cui se ne aggiunse successivamente un secondo. Il 34 la Ciminiera
Al Fuhrer piacevano i giocattoli grandi di Raoul Elia Questo è evidente, se si fa caso al numero di versioni gigante delle principali armi in uso durante la Seconda Guerra mondiale (ad esempio, il gigantesco bombardiere mono ala e il cannone gigantesco di cui abbiamo già parlato. E non importava a nessuno se poi i costi di produzione, manutenzione e riparazione, oltre che di messa in utilizzo erano improponibili. L’importante era che facessero sfoggio e rumore. E questo in spregio della presunta
superiorità nazista.
tecnologica
panzer, a dir la verità , aveva ricevuto inizialmente il nome più adatto di Mammut. Venne poi ridenominato Mäuschen (topolino) nel dicembre del 1942, per assumere la denominazione definitiva di Maus (topo) nel febbraio 1943. Il prototipo fu completato nel novembre 1943 e venne provato utilizzando una torretta simulata e opportunamente zavorrata. Il secondo esemplare venne provato a partire dal giugno 1944 nell’area di prove della Krupp. Questo mega panzer era un mostro da ben 188 tonnellate armato con un cannone secondario da 75 millimetri e uno primario da 128 millimetri. Per fare qualche paragone, un carro moderno pesa meno di 70, uno Sherman americano coevo aveva un cannone da 76 millimetri
Il Panzer VIII “Maus”
mentre un T-34 sovietico era armato con un cannone da 76,2 o 85 millimetri, a seconda della versione. La corazza inoltre era immane. Per renderlo assolutamente il top di gamma, gli ingegneri nazisti avevano pensato bene di realizzare una corazza con spessori diversificati ma comunque sempre al di sopra (e di gran lunga) degli standard dell’epoca e non solo: 240 millimetri frontalmente, 93 millimetri in torretta, 200 millimetri sui fianchi, 60 millimetri sul retro e sul fondo. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, questo Gargantua dei carri armati era impenetrabile a qualunque altro cannone controcarro coevo e a buona parte delle armi in uso durante la guerra. Ma tutto questo sfoggio di potenza aveva parecchie “controindicazioni” di cui i progettisti non seppero (o non tener conto.
I difetti del topo
Come si è detto, il Maus era indistruttibile e con una gittata incomparabile. Ma i suoi pregi finivano qui. Il primo grosso problema che ne rendeva l’uso improponibile era il peso immenso, che lo rendeva lentissimo: nelle prove effettuate, il mostruoso panzer non raggiungeva neanche i 20 chilometri orari su strada, velocità (si fa per dire) che rendeva problematico il suo utilizzo sul campo. Del resto, anche il trasporto passivo era problematico: con un peso del genere, anche trasportarlo con il treno era difficoltoso e farlo salire e scendere dal carro per il trasporto (che comunque doveva essere realizzato appositamente) necessitava di soluzioni ad hoc non di facile realizzazione. Per non parlare delle difficoltà legate al
suo peso e alla capacità di attraversare strade e ponti chiaramente non adatti al peso del Maus. A questo si aggiungevano l’eccessivo consumo di carburante (3 000/4 000 litri ogni 100 km) e la sua scarsa maneggevolezza in terreno aperto. Ma non basta. Infatti, il Maus era di fatto impossibile da riparare e questo proprio per la sua natura: la stessa corazzatura che rendeva inespugnabile il panzer lo rendeva irreparabile perché era talmente pesante e protettiva che qualunque tentativo di ripararlo sarebbe stato difficoltoso per la strumentazione necessaria e sarebbe costato di più che produrre altri carri più piccoli.
Il fato del topo
Eppure, incredibile dictu, il progetto del mastodontico carro armato andò avanti. Alla fine della guerra, del Maus furono infatti prodotti 2 soli esemplari che, ovviamente, non spararono neanche un colpo e furono catturati senza difficoltà dagli Alleati. Altri prototipi vennero ritrovati, gravemente danneggiati, nel poligono di Kummersdorf, ma non si può sapere se questi fossero stati distrutti dai sovietici o dai tedeschi stessi. C’è la possibilità che possano essere stati usati a difesa del poligono. Un esemplare di questi mezzi tedeschi, ricostruito recuperando pezzi di almeno un paio di prototipi, è visibile al museo di mezzi corazzati di Kubinka, in Russia.
Una foto sul campo del Maus la Ciminiera 35
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Anno XXIV Numero 10 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente C.S.B. Raoul Elia Redazione Angelo Di Lieto Rita Boccalone Bruno Salvatore Lucisano Patrizia Spaccaferro Raoul Elia Interventi di: Daniele Mancini, Gabriele Campagnano Greta Fogliani
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Durante la Prima Guerra Mondiale, dopo ogni assalto sui campi di battaglia o durante i bombardamenti e gli attacchi dei nemici nelle trincee, i soldati Italiani morenti, preoccupandosi del futuro dei loro numerosi figli, affidavano i loro piccoli a due cappellani: a Padre Giovanni Semeria, giovane barnabita ligure (1867-1931) e al sacerdote abruzzese Padre Giovanni Minozzi (1884 - 1959). Quando la Guerra terminò, questi due eroi, dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte del Papa, girando prima per l’Italia e poi all’estero in cerca di fondi, con l’aiuto di caritatevoli benefattori e di sensibili autorità politiche locali, fondarono nel 1921 l’Opera Nazionale del Mezzogiorno d’Italia, la quale, riunificando i numerosi istituti che con sacrificio avevano fondato nel Centro e Sud Italia, mirava ad accogliere in prevalenza tutti i figli dei caduti della Grande Guerra. E così, la Certosa di Padula, o di S. Lorenzo, costruita a forma di graticola, (la graticola era lo strumento su cui era stato arrostito il Santo), dal 1923 al 1960, ospitò con altri istituti disseminati in tutta Italia migliaia di orfani di guerra del Primo e del Secondo Conflitto Mondiale, del Lavoro o per altre cause. 36 la Ciminiera
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