Abiti Abruzzo Citeriore

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COLLANA IL FILO CHE C’è

Sommario Presentazione

Tradizione e tradizionalità Il Filo che c’è

metodologia di ricerca sul campo

l’analisi delle fonti e dell’iconografia

Indossare l’abito tradizionale oggi Usi e costumi legati all’abito tradizionale Filati, coloranti e tessuti Gli abiti tradizionali femminili Gli abiti tradizionali maschili I Gioielli Lessico Le Schede degliabiti

EDIZIONI

NOUBS


Francesco Stoppa

Maria Paola Lupo

Gli abiti Tradizionali in Abruzzo Citeriore Caposarta: Anna Iezzi Curatrice mostra: Mariangela Schiazza Foto: Massimo Avenali, Emilio Maggi, Mario Corsari, Giuseppe Casmiri.

Centro di Antropologia Territoriale degli Abruzzi per il Turismo Università G.d’Annunzio

Collana realizzata con il sostegno

Noubs Edizioni


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Francesco Stoppa / Maria Paola Lupo

Presentazione a cura di Stefania Massari Direttore Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari –Roma


Gli abiti Tradizionali in Abruzzo Citeriore

Tradizione e tradizionalità Il tema dell’identità tradizionale offre un tavolo di confronto sia con la cultura globale sia con forme vicine o lontane nel tempo e nello spazio. La cultura tradizionale colloca in maniera funzionale l’individuo nel contesto naturale. Questo è considerato un bisogno, almeno estemporaneo, della nostra società che guarda sempre di più al “tipico”, alle vacanze in campagna, e all’etnico, come forme gratificanti ed alternative. Consente un disinvolto passaggio alla filosofia naturale, al misticismo contrapposti alle esigenze meccaniche e spersonalizzanti della società attuale. Tuttavia, la ricerca della propria identità ed appartenenza avviene spesso tramite una simbolizzazione superficiale e in maniera retorica che sposta la tradizione altrove rispetto alla storia. Il fiorire di tante manifestazioni “etniche” non tiene conto che la cultura tradizionale aveva regole tanto ferree quanto poco era possibile sfuggire dalle esigenze materiali di una società abituata a fare a meno di qualsiasi aiuto esterno e completamente dipendente dal ciclo naturale. Molto difficile sarebbe oggi aderire alla ritualizzazione,

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un patrimonio enorme e sostanzialmente vitale fino alla seconda guerra mondiale. In Abruzzo esse vanno dalle collettività basate sulla transumanza della zona interna a quelle agro-silvicole e a quelle legate all’economia mista argicolo-marinara tipica della costa Frentana e fino alle colonie Arbëreshë. Tali sistemi socio-economico-territoriali, nel senso del loro legame al ciclo naturale locale, alla fisiografia e alle risorse locali, hanno più o meno sempre dialogato tra loro grazie alle loro peculiarità produttive (quelli che oggi noi chiamiamo prodotti di nicchia) e alla possibilità di scambio. La stabilità interna era garantita da vari regolatori comportamentali, che oggi tanto colpiscono la nostra fantasia, come il comparatico: che consentiva di stendere un tabu sulla protezione dei legami e patti scelti tra individui; l’elaborazione rituale del lutto, come “aiutare a morire” e il lamento funebre; il passaggio da una famiglia all’altra con il matrimonio e la soma dotale; il passaggio da adolescenza a maturità con una serie di prove preparatorie fisiche e morali ancora reminiscenti in molte feste regionali1. Le forme che tali eventi prendevano sono il corpus della tradizione da cui siamo al momento totalmente separati. Per noi un modo per capirne il significato e sperimentarle, equivale a ripetere dei gesti, a cucinare un cibo in un determinato modo e in un determinato periodo, oppure imparare un canto o un ballo antico, è solo un fatto di tradizionalità. Ciò chiarito possiamo avvicinarci con un po’ più di confidenza al restauro, al reimpianto e al rifunzionalizzazione in chiave socio economico moderna delle tradizioni mediante la qualifica di tradizionalità. Che ciò sia corretto è necessario verificarlo basandosi sulla logica perché per noi moderni è questo l’approccio consentito: non in-

In figura. Foto di abiti di Poggio Fiorito circa 1930

rappresentazione e elaborazione dei fatti del ciclo naturale e della vita con quella continuità che è alla base del perpetuarsi delle tradizioni stesse. Il sistema tradizionale ha funzionato finché la Società si basava sulla sostenibilità e sulla conservazione piuttosto che sul consumo. Questo sistema è rimasto stabile forse per millenni fino alla rivoluzione industriale che ne ha scardinato l’originale legame con la Terra che ne spiega la matrice comune e anche l’universalità. È quindi ovvio che un recupero debba passare da altrove, senza retorica ma anche senza mistificazione, impresa non facile. Il territorio abruzzese extra-urbano conserva discreti frammenti del mondo tradizionale ma constatiamo lo smarrimento della funzione originale di tali frammenti che vengono perpetuati in forma sempre più flebile. Tali sopravvivenze derivano da

In figura. Foto di abiti di Bucchianico anni trenta

trodurremo materiali estranei né fisicamente né metafisicamente, non contamineremo con esotismi o manierismi derivati dalla cultura egemone (es dall’arte, dalla musica colta, dalla letteratura), agiremo in forma sostenibile e secondo i principi del teatro ecologico. Questo metodo dell’antropologia territoriale investe fattori geologici e geografici (risorse materiali, accessibilità e disponibilità, frequenza e qualità dei fenomeni endogeni ed esogeni, clima, etc) che condizionavano il sistema economico e il ciclo ca1

Cfr. Stoppa, F., La Dragomachia di Pacentro, Atti del Convegno di Geomitologia, Chieti.


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lendariale, mentre ora condizionano il turismo culturale e naturalistico, la definizione di “tipico”, la “tradizionalità” dell’offerta culturale e ricreativa. A chi si occupa di investimenti, questo approccio apre nuove strategie e la possibilità di innescare flussi turistici e assetti socioeconomici in equilibrio con il territorio e il regime fisico dei luoghi. Ma attenzione, deontologicamente tale disciplina si oppone alla commercializzazione e allo svilimento della cultura tradizionale e alla banalizzazione del settore “etnico”2. Oltre alla perdita culturale, lo svuotamento di contenuti determina perdita di profitto e di ricchezza locale generata da investimenti sbagliati nel settore della “tradizionalità”. Il Filo che c’è I presupposti illustrati nel capitolo precedente si riflettono negli intenti della collana Il Filo che c’è che non solo è dedicata all’abbigliamento tradizionale ma anche al desiderio del suo recupero, restauro e rivitalizzazione, con i conseguenti perché e percome. Il nome Il filo che c’è allude sono solo alla ricerca del bandolo della matassa ma anche al riallacciare il rapporto tra noi e la storia, tra noi e il nostro territorio, tra noi e gli altri, e ovviamente al metodo filologico. Questo volume presenta uno spaccato a “volo d’uccello” di un paio di secoli tra gli abiti tradizionali di una parte della provincia di Chieti e della sua zona montana, ora provincia de L’Aquila, e fa da corollario all’omonima mostra. Seppure sia una raccolta non esaustiva di fogge e tantomeno di olotipi, si prefigge di illustrare e analizzare criticamente e concretamente l’evoluzione degli abiti tradizionali in Abruzzo e presentare un esempio metodologico per quanti vogliano riavvicinarsi materialmente agli abiti stessi. Ne viene generalizzata la funzione sociale, la genesi ed uso, i condizionamenti e l’importanza nella vita quotidiana desiderando sollevarci dal peso orpelloso dei folclorismi che gradualmente

In Figura. Foto di abiti folkloristici fine anni sessanta a Bucchianico. Notare la differenza con quelli fotografati nel 1930.

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I così temuti quanto ineffabili “folclorismi”.

In Figura. Abiti tradizionali a Chieti, 2009.

hanno sostituito la realtà storica. È una piccola testimonianza della filiera familiare e delle principali tecniche di tintura delle fibre, tessitura e sartoria. Accessori, gioielli ed amuleti, indispensabile corredo dell’abito, vengono spiegati nella loro essenza simbolica. Viene fornita una discussione del lavoro che i singoli e le collettività devono mettersi in grado di affrontare prima di arrivare alla riconquista, almeno per qualche giorno all’anno, dell’abito stesso. Precisiamo che una volta l’insegnamento avveniva per imitazione, non c’erano scuole e le giovani imparavano poco a poco a confezionare i vari capi dell’abito fino a raggiungere l’ortodossia con la pratica ma senza grosse illustrazioni tecniche da parte delle anziane. In realtà seguire questo metodo è oggi impossibile e dobbiamo affidarci a professionisti e ricostruire la sapienza antica “tecnicamente”. Ai fini della ricerca vengono evidenziate le problematicità legate alle sorgenti documentarie ed illustrati reperti originali e copie filologiche da essi derivate, compreso il lessico dialettale. I singoli abiti sono descritti in “schede”, tra cui i “costumi” delle rappresentazioni del Sant’Antonio, o dei rituali primaverili del Carnevale e del Majo. Abbiamo già detto che gli oggetti materiali si conservano solo per breve tempo dopo che lo stile e la funzione e le regole sociali di cui erano espressione sono svaniti, è necessario porre un limite o chiarire il significato dell’adozione di “tenute e uniformi di maniera”. Il concetto che molti di noi hanno del cosiddetto abito abruzzese3 é un’astrazione, o spesso un’idea generalmente sbagliata, confondendolo con i costumi che indossano i cori folcloristici. Prendiamo subito le distanze dai costumi folcloristici 3 Abbiamo visto che non esiste un abito tradizionale abruzzese ma una grandissima gamma di diverse fogge a volte apparentemente molto dissimili tra loro.


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che niente hanno a che vedere con la storia e la tradizione abruzzese e che anzi la mortificano e la trasformano in sottocultura. Tuttavia tale processo è parallelo alla naturale evoluzione e decadenza dei pochi abiti tradizionali sopravvissuti in alcune località tra cui Scanno, Pettorano, Pescocostanzo, Civitella Alfedena, Castel del Monte, Palmoli etc. che sono andati via via impoverendosi e finiti per diventare spoglie folcloristiche di poco interesse. In alcuni altri luoghi è stato l’abito popolare post-unitario che ha conservato alcune caratteristiche tradizionali che lo differenziano nettamente da quello aristocratico e dell’alta borghesia. Questo abbigliamento segna il passaggio a una produzione che utilizzava sia materiali extra domestici che domestici, ma aveva perso ormai il connotato geografico conservando solo alcuni caratteri distintivi del luogo di confezionamento. Questa foggia è l’unica che ancora sopravvive nella memoria dei più anziani avendola vista indossare a genitori e nonni. E’ cosi che se nelle zone montane si conserva l’uso delle lane in quelle costiere e collinari si afferma il cotone e la seta, in dipendenza dell’organizzazione economica locale. A questo punto ci avviciniamo all’epilogo, il cessare dell’evoluzione secolare degli abiti tradizionali e il loro tramonto. La prima guerra mondiale è anche il primo evento globale di scambio e cambio culturale. I primi 5 decenni del secolo passato sanciscono il concludersi della storia degli abiti abruzzesi che il popolo smette per indossare qualcosa di “leggero e chiaro” emigrare e integrarsi con la nuova realtà dei paesi di destinazione. Bisognerebbe anche capire perché altre regioni, tanto diverse tra loro come la Sardegna e il Trentino, non hanno subito cosi gravemente questo scippo. Forse perché lì covano delle aspirazioni di autonomia e quindi di identità maggiori che in Abruzzo? Forse è cosi. Allora, nell’attuale clima di federalismo è probabile che la diversità culturale verrà apprezzata come una risorsa mentre durante il populismo fascista si cercò di omogeneizzare la cultura nazionale a scapito di quelle locali. É necessario provvedere con estrema urgenza ed efficacia al riconsolidamento del patrimonio sia virtuale che materiale dell’abbigliamento tradizionale e di ciò che lo accompagna (gioielli, amuleti e accessori) non affidandosi ad attività estemporanee, ma fondate sulla continuità e su centri di ricerca e di diffusione culturale e coordinati sul territorio. Estremamente importante è la condivisione democratica e trasparente degli scopi e l’applicazione sperimentale alla rivitalizzazione delle tradizioni attraverso un lavoro gomito a gomito con le collettività che sono proprietarie, destinatarie e, infine, i gestori finali e di diritto di tale patrimonio. In Abruzzo ciò è ancora fattibile in molti luoghi per essere già stato fatto con successo a Pettorano. Per questo è importante che gli enti nazionali si confrontino con gli enti locali in quest’azione. Al momento sia alcuni comuni che alcune associazioni stanno avvicinandosi all’idea di recuperare il loro abbigliamento in un contesto più ampio dell’uso spettacolare, ma necessitano di metodologie e strategie culturali e tecnici di riferimento e di supporto. Gli scriventi hanno chiaro in mente che siamo molto vicini a un punto di non ritorno e che un imponente sforzo collettivo è necessario se vogliamo salvare almeno una parte del patrimonio e rimetterlo a disposizione degli Abruzzesi. Infine un appello ai comitati, ai sindaci e ai cittadini di non introdurre abiti “storici” medievali e rinascimentali di gusto teatrale e del tutto alieni alla cultura popolare abruzzese nelle feste che ancora sopravvivono e inoltre la speranza che i vari gruppi folk smettano le ridicole parodie in fodera e pon-pon rossi che spesso indossano, rinuncino agli stereotipi dei costumi da “pacchianella” e invece curino la propria immagine non solo con la ricerca del canto, del ballo e della musica tradizionale ma anche dell’abbigliamento e dei gioielli.

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In figura. Testimoni facitori ritorcono la lana usando il fuso, Chieti 2010.

Metodologia di ricerca sul campo La ricerca si è svolta attraverso alcune fasi sperimentali che hanno riguardato il reperimento di capi interi o frammenti di essi, soprattutto presso privati ma anche enti sia in Abruzzo che a livello nazionale. Il lavoro sul territorio sta portando alla riscoperta graduale di molti aspetti poco noti dell’abbigliamento e ha spostato su un piano pratico gli studi teorici consentendo la ricostruzione di alcune copie filologiche. I saggi sull’argomento sono numerosi, dotti e puntuali (cfr. bibliografia), anche se raramente accettano la sfida dell’inserimento dell’abbigliamento tradizionale in un contesto sperimentale. Invece il fine ultimo di questa ricerca non è produrre abiti da manichino ma di consentire alle comunità di copiare prototipi di buona qualità, senza danneggiare gli originali dei musei o disperdere i pochi originali rimasti,con il neces-


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sario supporto scientifico e tecnico. Nelle case degli abruzzesi sono ancora reperibili con una certa facilità pezzi di corredo di varia fattura, numerosi esemplari di camicie e grembiuli meno di gonne e busti, spesso pesantemente rimaneggiati. Il lavoro di documentazione ai fini della ricostruzione delle copie filologiche, oltre che sui reperti originali, si basa sia su un filtraggio incrociato tra copie più o meno antiche, sia sulle testimonianze orali e, in modo più marginale, sul patrimonio figurativo e sugli scritti. Oltre agli esemplari reperiti presso i privati, ci sono i reperti conservati al Museo delle Genti d’Abruzzo4, in numerosi altri musei etnografici (Picciano, Cerreto, Bomba, Palmoli, Scanno, Guardiagrele etc) e al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma5. La deperibilità intrinseca degli abiti abruzzesi, quasi tutti realizzati in lana, e il fatto che costituendo un patrimonio strettamente legato alla persona venivano inumati con il proprietario, ha fatto si che anche le collezioni più antiche e sostanziose contengano numerose integrazioni e rifacimenti. La datazione si avvale di alcuni parametri di riferimento, per esempio la constatazione dell’uso di unità di misura borboniche, es. pollici e palmi, uso di tinture naturali locali come la robbia e il guado o importate come la cocciniglia e l’indaco, produzione nell’ambito familiare come filatura e tessitura manuale, presenza di accessori o materiali d’importazione (pizzi, merletti, tessuti jacquard); finissaggi come la gualcatura e la zimbatura, introduzione di tessuti “industriali” o semi-industriali, presenza di colori all’anilina, uso di materiali locali, ricami, stratificazioni e accomodature attestanti l’uso funzionale (es. funzioni fisiologiche, gravidanza, allattamento oppure censuali) o personale nel tempo (rattoppi, allargature). Lo studio strutturale e l’interpretazione dei reperti garantiscono che si tratta di capi usati quando l’abito non aveva ancora perso le sue prerogative sociali e l’uso continuativo, garanzia di autenticità del reperto. Questa selezione è importante 4 Numerosi pezzi di biancheria, alcuni abiti della fine dell’ottocento e un abito scannese del 1700. 5 Almeno una trentina di abiti abruzzesi completi della seconda metà del 1800.

In Figura. Testimone mostra il crollo di accia da lei tessuto da ragazza.

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perché spesso vengono a galla reperti “vecchi” che magari sono costumi teatrali o dei primi gruppi folkloristici o ancora rifacimenti per determinate circostanze come ad esempio la visita di un’autorità e quindi si tratta di “costumi” e non di abiti veri e propri. La realizzazione delle copie filologiche degli abiti viene condotta per gradi, capo dopo capo, a partire dalla tintura fino alla tessitura e alla cucitura, tutto fatto manualmente. Il lavoro della ricostruzione di copie filologiche mobilita esperti in tutta la filiera che va dalla transumanza, agli usi magico-religiosi, alla filatura delle fibre alla tintura naturale, ai tipi di tessiture ed infine alla complessa tecnica sartoriale che contiene una serie di simbolismi profondi e non solo contenuti pratici. Una ricostruzione filologica non può prescindere da questi fattori né d’altra parte non c’è dubbio che il gusto moderno possa pericolosamente influenzare la ricostruzione favorendo contaminazioni. Ogni dettaglio delle copie, ricostruite in base alla ricerca, è quindi realizzato da sarte “naturali” che sono partite dai prototipi e poi sono arrivate agli indumenti definitivi lavorando con le stesse tecniche e modalità casalinghe della tradizione e interamente a mano. La capo sarta, si circonda e confronta continuamente con testimoni che hanno ancora viva la memoria di molti dettagli e modi di fare e sono ad esempio in grado di riprodurre maglieria, guarnizioni, punti e tagli antichi. E’ importante che questa sapienza venga direttamente tramandata da chi fa a chi sa. Altri elementi di conoscenza e manualità vengono messi a disposizione da specializzati nel campo del ricamo antico. La manifattura viene configurata come un lavoro di gruppo famigliare in cui le anziane interpellate consigliano e revisionavano il lavoro delle giovani cucendo sotto il pergolato d’estate e accanto al fuoco d’inverno. Alla realizzazione delle copie filologiche hanno lavorato tre generazioni ripercorrendo la via antica della tramandazione, senza fretta e facendo e disfacendo più volte i prototipi finché non buttavano bene. I bauli dei corredi antichi sono stati aperti e innumerevoli frammenti di tessuti manuali di vario genere sono stati reperiti e confrontati, studiando i tagli, le attaccature, le asole, gli smerli, le impunture, i sottopunti, i modi di steccare, le imbottiture, le fodere, il gusto negli accostamenti di tessuti e colori diversi, i bottoni e la disposizione dei ganci. I capi realizzati su cartamodello e manichino sono stati conformati al fisico umano, la loro sovrapposizione e vestibilità è stata controllata numerose volte mediante le prove con le modelle. Sono stati particolarmente curati anche gli aspetti pratici, come la presenza di tasche interne, allacciature “segrete” e la biancheria. Ognuno di questi segreti ha resistito fino all’ultimo per poi essere svelato solo con le prove pratiche. Insomma, è stato necessario ricoagulare conoscenze disperse tra decine di persone per poter rimettere insieme anche un solo abbigliamento. Questo procedimento garantisce che la copia filologica abbia molte, se non tutte, le caratteristiche dell’abbigliamento originale e inoltre ha trasformato questo vulume un po’ anche in “racconto” di tutto quello che ci è stato riferito. In vari anni di lavoro abbiamo accumulate molte informazioni sugli abiti e pian piano il quadro si va completando almeno al punto da poter procedere alla ricostruzione di originali ormai perduti come è per l’abbigliamento di Bucchianico che in queste pagine risorge dopo cento anni di oblio. Sono stati utilizzati appunti, documenti e i reperti rintracciati in paese in altri luoghi, nonché nei ricordi personali di molti bucchianichesi. Tuttavia le informazioni e le testimonianze sono state vagliate, confrontarle con la realtà oggettiva dei reperti e con i dati riscontrati nella letteratura; si è ovviamente considerato e confrontato quanto è noto di abiti coevi e geograficamente vicini, come per esempio quelli di Rapino e Chieti. Numerosi dettagli e accessori ormai scomparsi nelle versioni recenti sono stati ricostruiti in


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base agli originali antichi studiati. Un esempio speciale è costituito dagli abiti cerimoniali, in cui anche il confezionamento è essenzialmente un rito magico-religioso che spesso lascia poche tracce del suo compiersi. Inoltre senza la ricostruzione dei modi e dei significati magico-religiosi di confezionamento non saremmo neanche in grado di vederne uno perché trattandosi di abiti utilizzati ai fini di feste propiziatorie erano distrutti e rifatti ogni anno. Ciò vale per gli abiti delle “sacre” rappresentazioni come il Sant’Antonio, e le feste schiettamente pagane del Carnevale e del Majo. I “costumi” visibili in questo volume sono quindi quelli ancora in uso come documenta anche il materiale fotografico ripreso durante le feste suddette in vari luoghi d’Abruzzo. L’analisi delle fonti documentarie ed iconografiche Se è ineluttabile la defunzionalizzazione e infine la dimenticanza dell’abbigliamento tradizionale abruzzese, più complesso è prendere coscienza della fase di deviazione che ha portato a un’immagine mistificata e anche paradossale di esso che invece sopravvive. Questo fenomeno inizia alla fine del 1700 quando alcuni artisti della corte borbonica viaggiarono per le provincie citra ed ultra d’Abruzzi, terra allora sterminata, remota e selvaggia, per disegnare quegli abiti. Non per documentare ma per ricavarne prosaicamente decorazioni per i manufatti della Reale Fabbrica di Capodimonte. L’ampia raccolta di questi bozzetti è stata poi per quasi due secoli riutilizzata e rimaneggiata da artisti successivi, che alterarono in tutti i modi gli originali. Si creò un genere caro ai mercanti d’arte ed ai collezionisti e che ci propone una visione fantasiosa al punto da costituire un esempio di falso ideologico (Tavola 1). Come già scritto in altra occasione, quando si tratta l’abito tradizionale, si ha come prima necessità quella di riuscire a focalizzare un’immagine di esso. Ciò solitamente avviene tramite l’ausilio delle fonti iconografiche, cartoline, foto antiche ma anche opere di pittura e scultura provenienti della produzioni cosiddette minori ed artigianali. Tutte queste fonti, pur essendo una base per un primo approccio di studio, non possono essere prese come aventi un valore realmente documentale, poiché spesso sono il frutto di rivisitazioni non filologiche del costume tradizionale. Accade, pertanto, che dedicandosi all’analisi delle varie rappresentazioni dei costumi abruzzesi, si resta a volte interdetti, in quanto l’iconografia del soggetto rappresentato varia nel susseguirsi delle molteplici raffigurazioni, a volte quasi totalmente. La motivazione principale di tali modificazioni illustrative risiede nel fatto che, come fa notare Elisabetta Silvestrini nel saggio “Repertori Iconografici dell’abbigliamento popolare e del costume in area abruzzese”, in Costumi Diversi di alcune popolazioni de’ Reali Domini di qua del Faro, la destinazione commerciale di molte di queste opere ha frequentemente alterato, se non ignorato, il rapporto diretto con i soggetti raffigurati. Le serie iconografiche venivano riprese e rielaborate da diversi autori senza più alcun contatto diretto con la realtà rappresentata; accadeva, infatti, che le immagini dei costumi si allontanassero a ogni nuova versione dall’immagine originale. Non si vuole, dicendo ciò, sminuire il valore documentario di queste raffigurazioni, ma piuttosto segnalare una necessità di contestualizzazione di questi repertori, così come è stato fatto da più studiosi. In quest’ottica risultano di particolare importanza i documenti di archivio e nello specifico gli atti notarili che riportano le note dotali ovvero la descrizione del corredo che ogni donna, proveniente, da qualsiasi ceto sociale, doveva portare con se a casa del coniuge all’atto del matrimonio. Questo passaggio doveva essere sempre registrato da un notaio poiché, in caso di decesso della moglie e qualora non vi fossero figli, i

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beni sarebbero stati restituiti alla famiglia di origine. Testo fondamentale per la metodologia dello studio del costume, partendo proprio dalle fonti iconografiche ed archivistiche, è il capitolo, curato da Giuseppe Šebesta all’interno dell’opera L’abbigliamento popolare italiano, a cura di Glauco Sanga. Šebesta annota come le “notule dotali” venivano scritte il più delle volte da un sarto affiancato da un collaboratore ed allegate all’atto notorio, in esse, oltre la cassa dotale, il letto, il piumino, il materasso, il cuscino, le lenzuola, le coperte, venivano segnate, indicandone i quantitativi, le camice, le vesti, le sottovesti, le gonne, i corpetti, le maniche staccate, i fazzoletti da testa e da spalle, le scarpe, le pianelle, le calze. In questi elenchi dotali si possono ritrovare i colori dei capi di vestiario, la qualità dei tessuti, ma non presentano mai descrizioni puntuali degli stessi. Le tesi dello studioso si possono ritrovare anche analizzando gli atti notarili conservati negli archivi abruzzesi e, per quanto riguarda il territorio di nostra competenza, nell’Archivio di Stato di Chieti. Come campione di studio si sono esamine le note dotali del territorio di Bucchianico, Guardiagrele e Roccamontepiano; lo studio dei documenti ha coperto un lasso di tempo che va dalla seconda metà del seicento ai primi anni dell’ottocento, infatti si stava perdendo l’uso di lasciare in dote capi di abbigliamento già dalla seconda metà dell’ottocento. Le note dotali divengono uno strumento fondamentale anche per lo studio del gioiello tradizionale d’Abruzzo, infatti in esse si possono leggere le descrizioni dei gioielli e soprattutto le pietre preziose che erano in uso. I documenti del 1600 sono meno minuziosi nelle descrizioni e presentano un elenco di oggetti senza soffermarsi sui particolari6; molto più interessanti per il nostro fine risultano i documenti risalenti al XVIII secolo dove il notaio annota, spesso oltre la stoffa di cui sono fatti i capi di vestiario anche gli ornamenti e i colori: Ad esempio nella dote di Regina Pitetti andata in sposa a Giuseppe Ranieri, di Guardiagrele, si leggono, tra gli altri oggetti: Una veste con busto di serico turchino usata7, una sottana di accia e lana turchina, un’altra sottana e busto turchino di tarantola, altra sottana col busto color rosso usata, sei fila di coralli rossi con granatelle e un rosario di corallo con croce d’argento, Altre informazioni si posso leggere nella lunga nota riguardante le nozze di Eleonora D’Alessandro con Pasquale Francione di Roccamontepiano8: Una collana di compassi grandi e piccoli d’oro, un rosario di granatelle con senacoli d’oro, una collana con granate e campanelli d’oro, una crocetta d’oro con pietre turchine e bianche, un anello d’oro con quattro pietre rosse e una bianca in mezzo, una vesta di seta un’altra veste a sartò camilloto color rosso altra veste a sartò camellotto color muschio altra veste bianca fiorato a tedeschino altra veste a todeschina di panno di casa turchino un bustino di crivello turchino con ricami d’argento 6 7 8

Archivio di Stato di Chieti, Notaio Giuseppe Pantalone, 1604 Archivio di Stato di Chieti, Notaio Crisante Ranalli, 1775 Archivio di Stato di Chieti, Notaio Ilario Farina, 1753


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altro bustino rigato altra veste consistente in busto, sottana e todeschina di color corallino uno spadino d’argento da capo un velo nero un paio di scarpe di vitello il documento riporta inoltre una lunga serie di camicie di lino con scollo rifinito a merletto e di oggetti di rame. Sempre in un documento settecentesco9 si legge: un sartò o santò color verde camellotto con mostre di acridio color rosso ed altro di camellotto rigati, una sottana color verde due vesti, una di drappo col fondo rosso e fiori d’oro e l’altra di vellutino color rosso, un busto osso di balena trafurato, o sia trapuntato coperto di armisino color celeste una crocetta d’oro con rubini sciacquaglie d’oro con perle orientali un anello di diamanti numero quindici. Già dalla lettura di questi passi ci si può rendere conto di come l’abito sia stato reinterpretato in base soprattutto alle possibilità economiche della proprietaria. Si può, comunque, riscontrare un nucleo comune dell’abito formato dalla camicia, il guarnello, la gonna e il bustino che vengono, di volta in volta, abbelliti tramite l’utilizzo di merletti, ricami, tessuti pregiati e bottoni particolari e ornamenti di oreficeria. Per il nostro inquadramento dell’abito tradizionale abruzzese divengono poi oltremodo importanti le raffigurazioni di realtà contadine dei paesi dell’allora Regno di Napoli e soprattutto dell’Abruzzo, che divengono una vera e propria pittura di genere, a volte su committenza, come nel caso della produzione dei pittori Alessandro D’Anna e Antonio Berotti che, su richiesta di Ferdinando IV di Borbone, a partire dal 1783 documentarono i costumi del Regno, in altri casi, per interesse personale, i disegni che si trovano nei diari di viaggio del Grand Tour. Queste opere divengono uno strumento prezioso per poter studiare visivamente gli abiti, anche se, come si è detto più volte, non possono essere ritenute visioni originali ma molto riviste dagli artisti. Di questo discorso ne sono un esempio anche le opere che fanno parte della collezione conservata al Museo D’Arte Costantino Barbella di Chieti e pubblicate nel catalogo Il Costume popolare Abruzzese tra ‘700 e ‘800 (Acquarelli e Tempere). I dipinti in questione, di semplice fattura, mostrano delle figurine che indossano gli abiti tradizionali, raffigurati, però, con una qualche approssimazione. Altro strumento importante sono le fotografie storiche e le cartoline storiche delle donne in costume. Queste produzioni attestano per lo più il consolidarsi degli aspetti folcloristici dell’abito che ormai è diventato un “costume” da indossare solo per le pose fotografiche o durante le sagre paesane. Questo materiale è eterogeneo e la sua interpretazione deve essere legata strettamente al contesto che lo ha prodotto e alla qualità dell’autore. Infatti, l’iconografia novecentesca si conserva per sopravvivenza piuttosto che per selezione, come invece è avvenuto in precedenza e quindi i soggetti non possono essere trattati per categorie storiche. Un discorso molto diverso va fatto per le “cartoline” di Basilio Cascella e per le 9

Archivio di Stato di Chieti, Notaio Crisante Ranalli, 1780

Donne teatine indossano l’abito tradizionale in campagna, 2010-07-17

In Figura. Foto di pellegrini teatini in visita alla Santa Casa di Loreto indossano l’abito tradizionale e recano gli oggetti devozionali.

opere di Francesco Paolo Michetti che rimangono tutt’ora una delle testimonianze più importanti della tradizione abruzzese. Entrambi risultano oggi come i più importanti narratori della terra d’Abruzzo, nelle loro opere la nostra terra rivive in modo splendido ed ancestrale. Sicuramente però la loro raffigurazione del mondo contadino e


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pastorale abruzzese è una visione idealizzata delle donne e degli uomini abruzzesi che divengono simboli stessi di una terra che conserva una bellezza intatta nei secoli. Le raffigurazioni di Pasquale Celommi risultano essere, per la sua pittura fortemente fedele al reale, dei veri e propri ritratti che ci regalano una rara testimonianza della bellezza delle nostre genti che ci vengono mostrate in tutta la loro semplicità resa elegante dai gioielli e dagli abiti della nostra tradizione. Indossare l’abito tradizionale oggi L’abbigliamento tradizionale abruzzese si configura come uno dei più grandi tesori della cultura immateriale regionale. Perché immateriale? Perche lungi da essere dei semplici oggetti, gli abiti tradizionali rappresentano una summa della memoria e della cultura di una società che affonda le sue radici nella storia millenaria dell’Abruzzo. Ma la domanda più importante è ha senso riappropriarsi di tale complicata, ma forse anche pesante eredità? Il punto di vista di chi scrive è ovviamente positivo ma siamo anche consci dello sforzo che deve essere compiuto e degli ostacoli da affrontare. Il modo più giusto per avvicinarsi alla cultura dell’abbigliamento tradizionale è di partire dei racconti degli anziani. Anche se nessuno può ricordarsi di abiti ormai scomparsi da più di un secolo le testimonianze che sono particolarmente utili per ricostruire la psicologia legata all’abbigliamento tradizionale e chiarire alcuni usi scomparsi con il tempo e con il cambio economico/culturale. Gli anziani si ricordano molti dettagli che fino agli anni ’50 del secolo scorso riflettevano ancora l’uso tradizionale dell’abbigliamento e rispecchiavano la sua funzione. Oggi per esempio quasi più nessuno rispetta il lutto ma nella nostra memoria le “nonne” vestite di nero sono una costante. Non è infrequente nell’entroterra abruzzese incontrare qualche donna anziana ancora vesta con fogge fuori della “moda” corrente e più simili nei principi morali, e anche formali, agli abiti tradizionali (Tavola 2). Senza il racconto degli anziani sarebbe difficile capire i segni e i simboli trasmessi dall’abbigliamento che (oggi si direbbe dresscode10). La ri10

Il dresscode è un codice di regole che definisce l’abbigliamento appropriato per eventi o luoghi

In Figura. Pellegrini in abito tradizionale aspettano il treno a Cocullo in occasione del pellegrinaggio a San Domenico.

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costruzione di questi aspetti umani aiuta comprendere le varianti maschili e femminili legate alle occasioni del ciclo calendariale e vitale; aiutano a ricostruire il modo in cui l’abito si indossava, si portava, si disponeva durante il lavoro o la quotidianità, come ci si sedeva, i cambi stagionali, la pioggia e il freddo e il caldo; il modo in cui si aveva cura dell’abbigliamento, la sua pulizia, l’uso degli accessori. Chi decide di indossare e aderire pienamente alla funzione di un abbigliamento tradizionale ha già dato la sua risposta al famoso quesito; essere o avere? Per indossare un abbigliamento tradizionale bisogna essere. Significa compiere un rito che la società moderna non può negarci. Come non lo nega ai militari, al clero, agli sportivi e ai boy-scout, tutti gruppi che indossano una tenuta che li distingue, che ha funzioni pratiche e simboliche assieme. Non dobbiamo pensare all’abbigliamento tradizionale come un bene fine a se stesso perché invece nel suo mutare ha registrato cambi geografici delle rotte commerciali, dei canali di scambio culturale e del cambio socio economico e delle stratificazioni culturali. Però solo capendo il nostro rapporto con il presente è possibile valutare la tradizione. Questo è il presupposto per il recupero individuale e comunitario, perché le due cose non possono prescindere l’una dall’altra. Nel mondo moderno molte funzioni dell’abbigliamento tradizionale cozzano con usi e costumi nuovi e anche con una morale e un ruolo dei generi ormai profondamente diversi. Cozza anche con un bisogno della moda, che relega la vestitura a uno status symbol legato al consumo e non alla durevolezza, che esprime la personalità di altri e non di chi lo indossa, o al limite solo la possibilità di acquisto di un ceto sociale. Quindi l’abbigliamento tradizionale non può e non deve essere piegato alla logica moderna anche se per un lungo e svilente periodo si è cercato di farlo e ancora tale tentativo produce fenomeni di gusto deteriore. Abbiamo visto abiti di Scanno, notoriamente severi, storpiati da minigonne a qualche congresso o mostra-mercato internazionale per assecondare il gusto godereccio di qualche assessore o imprenditore. L’esperienza insegna il modo più naturale di indossare un abbigliamento tradizionale è con orgoglio a un matrimonio, alla festa del Santo del paese, a una passeggiata con gli amici o anche solo per una festa privata. Non è un costume di carnevale e deve essere bello e pregiato oltre che vero sennò offenderete i vostri antenati. L’abbigliamento tradizionale non tollera anacronismi, acconciature azzardate, orologi, scarpe da ginnastica ma neanche sandali col tacco a spillo o gioielli fantasia. Molti obiettano che il significato, le funzioni, i simboli degli abiti tradizionali abruzzesi di epoca borbonica e del loro successore, il popolare tardo ottocentesco, si sono trasferiti altrove nel quadro del cambio culturale e della scomparsa della società tradizionale. In realtà qualsiasi attività tradizionale dovrebbe vedere indossato l’abbigliamento tradizionale, nessuna parte della tradizione può sopravvivere realisticamente senza un contesto a sua volta tradizionale. Eliminare, sezionare e isolare “pezzi” di tradizione è solo dare una spinta al processo di decadenza. L’unico modo per una collettività di riappropriarsi del patrimonio legato all’abbigliamento è di produrre copie filologiche realizzate il più possibile con i materiali e i dettagli originali anche nelle parti non visibili. Ciò consente poi di rifare in loco altre copie da ridistribuire per usi sia privati che pubblici contribuendo a dare concretezza a un’idea che altrimenti non corrisponderebbe più di socializzazione e incontro. Il dresscode deve essere rispettato in maniera molto attenta, e impone in modo piuttosto rigido quali abbigliamenti siano consentiti, e quali invece non siano permessi. Spesso la sanzione per l’inosservanza del dresscode consiste nell’esclusione dalla festa o dalla situazione di incontro; il dresscode funge in questo senso come una sorta di parola chiave, che individua i soggetti appartenenti alla comunità distinguendoli da tutti gli altri.


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alla realtà. Molto importante è che i giovani si accostino con orgoglio e ammirazione all’abbigliamento e che si ricominci a indossarlo almeno ad eventi pubblici o privati importanti piuttosto che a sagre e parate. È in corso un serio tentativo di reinserimento e riutilizzo funzionale, ma per passare da un semplice tentativo a un’operazione almeno in qualche modo riuscita occorre stabilizzarla e diffonderla in tutta la regione. Ci si è subito scontrati con gli abiti folkloristici che costano poco e si possono inventare e cucire in una notte, ma sono brutti e volgari e sfigurano tremendamente di fronte alla maestosità di un originale o anche di una copia di buona qualità. Si spera che questo impatto generi nei gruppi che fanno spettacoli folkloristici una maggiore cautela e cura nel confezionare gli abiti. Infatti, l’abbigliamento tradizionale ha un riferimento strettamente diretto con la società e l’economia che lo ha prodotto ed è una pagina di storia e di cultura non scritta cui si deve rendere giusto merito. Usi e costumi legati all’abito tradizionale Chi è il Santo protettore degli abiti tradizionali abruzzesi? Sicuramente San Biagio perché Sande Biašə è il protettore dei lanari e dei cardatori dato che con i loro pettini di ferro Egli fu scarnificato durante il martirio, e di lana è quasi interamente fatto l’abbigliamento tradizionale abruzzese se si esclude, ma parzialmente, la biancheria. Una certa omogeneità regionale, o meglio nazionale, nella foggia dell’abbigliamento popolare si è gradualmente raggiunta solo dopo l’unità d’Italia, infatti prima di questa data, ogni paese aveva un suo abito femminile che si differenziavano tra loro a tal punto che, vedendolo, chiunque avrebbe potuto dire con certezza “quello é l’abito di…” e pronunciare il nome di uno dei tanti paesini dell’Abruzzo. L’abbigliamento femminile corrisponde alla posizione nella società ancestrale della donna, più saldamente legata alla famiglia, alla casa, al territorio e a cui era quasi sempre preclusa, pena l’isolamento dall’ambito sociale cui apparteneva, la possibilità di un contatto diretto con consessi sociali più allagati. Gli abiti femminili in epoca borbonica cambiavano asseconda dello stato maritale, se si era sposate o zitelle, oppure se si era vedova o se, per esempio, si era la moglie di un lanaiolo o di un fabbro…piccoli dettagli o cambi di colore che però erano chiari a tutti meno che a noi che non sappiamo più interpretare quei simboli. Insomma gli abiti delle donne erano come quegli uccelli rari che si trovano solo in un’isola e che non somigliano per niente a quelli dell’isola vicina. Sebbene gli abiti borbonici con colori vivaci, fogge stravaganti e incrostate di argenti a noi possano sembrare trasgressivi in realtà nessuna trasgressione era ammessa all’interno del codice che ne regolava l’uso, le varianti e la confezione almeno fino alla metà del 1800. Gli abiti abruzzesi, sebbene presentino delle affinità con quelli di altre regioni italiane, con la pesante gonnellona a pieghe baciate in panno tenuta su dal busto, sono riconoscibili da alcune caratteristiche generali come ad esempio maniche semplici e l’ampio busto svasato, la generale scarsità di ricami e un uso contenuto di pizzi e merletti anche a causa delle leggi suntuarie reiterate dopo i catastrofici terremoti del 1703 e 1706. Comunque, nei giorni di festa comparivano ampi grembiuli (le mantére) che erano sostituiti da zenali più umili durante il lavoro in casa e in campagna durante il quale si rinunciava anche alle acconciature complicate che venivano appese ai rami degli alberi fino al ritorno a casa. Le donne di ceto sociale basso possedevano un solo abito buono col quale si sposavano e andavano nella tomba, per tutta la vita n’avevano cura, e non era facile perché le stoffe di una volta, specie quelle plissate, non ammettevano lavaggi e stirature. Al massimo nella cassapanca c’era un taglio di stoffa

In Figura. Pellegrine da Chieti indossano il velo e recano le ventole devozionali dedicate a San Domenico alla festa dei Serpari a Cocullo, 2010.

già pronto per essere cucito nel caso d’incidenti estremi come una bruciatura fatta col camino o la stufa11. Ogni altro danno si rimediava rattoppando ad arte e ritingendo nella tintura casalinga (schiappə). Comunque il giorno di festa si cambiava il grande grembiale (mantérə) con uno più bello e prezioso e magari il colore dell’acconciatura per devozione a qualche Santo. Un indumento imprescindibile tutto legato al ruolo morale e materiale della donna era il busto. Non confondiamoci con il corsetto levafiato della moda ottocentesca, il busto tradizionale è steccato con la canna o la saggina ma flessibile e sostiene più che stringere, non è solo un complemento estetico ma serve per sostenere il peso delle varie gonne, guarnelli e sottane in lana e canapa o lino e che pesavano anche sette od otto chili. Fermato da un laccio dietro, davanti arrivava sotto il seno per consentire l’allattamento senza toglierlo. Il busto era guarnito di merletti e fiocchi e poteva avere delle bretelle, sganciabili o fisse con fibbie decorate d’argento, su cui si annodavano le maniche mobili sempre con fiochi vistosi di solito in seta o rasatello di cotone. Le maniche sono in genere sempre staccate o legate in modo da consentire una naturale dispersione del calore e dell’umidità dell’ascella. Non esisteva il cappotto e si usavano scialli (strapizzə) e fazzolettoni, fazzoletti (fazzolə) e specie di piccole coperte sia per le spalle sia per i reni sia per la testa (fasciaturə, mantollə). Si arrivava ad indossare fino a sette sottane12 ma in genere quelle indispensabili erano due. La gonna più esterna si portava rimboccata sui fianchi per poter lavorare, la grande mantera ripiegata e ficcata nella cintura conteneva gli oggetti più disparati, solo il guarnello, quello di solito più ricco e colorato si vedeva arrivare fino alle caviglie. La sottana in lino o canapa imbiancata, che poi era la camicia da notte, arrivava poco sotto il ginocchio. Tutte le pieghe baciate della gonna e del guarnello stavano sulla parte di dietro perché davanti avrebbero impicciato e quindi muovendosi oscil11

Spesso rimediata con una toppa come si vede nella Tavola 7 C.

12 ne”

Un canto tradizionale chietino recita “la moje d’americani va la messe cu sette sutta-


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lavano attraendo l’attenzione dei maschi. Ma le donne sculettavano pochissimo, anzi per niente, perché non stava bene. E le tasche? Non c’erano tasche. C’era una borsetta in stoffa legata alla vita sotto la mantera (catana), era profonda in modo da custodire tutto quello che poteva fare comodo, forbicine, coltellino, altri amuleti, profumino (i sali), la custodia con ago e filo. La donna aveva tutta una serie di gioielli in oro basso, corallo, smalto e pietre non preziose, orecchini tanto enormi che per tenerli su si usava una catenella che passava sopra l’orecchio, collane con grani e sfere enormi, grandi pendenti e i pettorali fatti di catene in lamina che sostenevano le famose presentose, di solito agganciate al busto. Dato che la donna indossava alti zoccoli di legno nelle strade fangose, in casa portava delle calze con la pianta trapunta col filo di refe al punto da diventare una vera e propria suola che somigliano alle espadrillas spagnole. Le cioce (chiochə) si usavano per i lavori più duri e umili come per andare al bosco a fare legna, andare al pascolo. Il giorno di festa maschi e femmine calzavano invece scarpe di cuoio con suola con chiodi (chiantelle), raramente scarpini per le nozze. L’abbigliamento femminile con le sue varianti, lavorativo-quotidiano, mezza festa e festa, oltre che nuziale e vedovile, è caratterizzato da numerosi indumenti, il tessuto di ognuno dei quali diventava più fine e prezioso a seconda dell’importanza della circostanza. L’abbigliamento tradizionale femminile, a differenza di quello maschile, è stato evoluto attraverso un affinamento di codici simbolici, attribuibili al ruolo sociale e al sito geografico, e di funzionalità per le attività femminili che dovevano durare tutta una vita. L’angolo verticale e orizzontale cui è possibile muovere le braccia, l’altezza che raggiunge la gonna durante una rotazione al ballo, l’inclinazione del busto, il portamento del capo sono limiti fisici, oltre che morali ed estetici, imposti dall’architettura sartoriale e dal peso dell’abbigliamento. D’altra parte veli, grembiuli, sopraggonne, fazzoletti diventano elementi attivi sia con valenza estetica che simbolica. Indossare un abbigliamento tradizionale implica l’assunzione di una postura che definisce non solo una condotta “morale” ma anche uno stile dinamico e posturale accettato dalla comunità detentrice dell’abbigliamento stesso. Non si dice “sfacciata” a una che mostra impunemente il viso? O sguarnellata, epiteto riferito a chi indossava solo il guarnello e la camicia. Ma come gestire una tale stratificazione di panni e vesti? Intanto se non c’era la sedia con un colpo di fianco e un’abile presa con la mano destra si ripiegava il tutto formando una specie di cuscino e ci si sedeva sopra a gambe incrociate! Se invece c’era la sedia bisognava con grazia alzare il malloppo e sedersi in punta sennò si cadeva, le mani se non lavoravano dovevano stare pudicamente nascoste sotto la mantera e il capo inclinato in modo che la tovaglia o il fazzolo sopra di esso coprisse un po’ la faccia. Se poi bisognava portare l’ammasciatə allora cosa di meglio che nascondere il tutto sotto il fasciatoio, sapete com’è l’invidia…. L’uomo sposava la donna con tutti i panni, ma a volte la dote scarseggiava e le nozze erano in pericolo magari perché le famiglie contrarie? Altro che Montecchi e Capuleti, nessuna tragedia…la donna andava alla fonte e si piegava verso di essa, il fidanzato d’accordo, le ribaltava all’improvviso tutte le gonne sul capo e come avrebbe potuto la poveretta ribellarsi lì dentro intrappolata e oppressa da tanto peso….e senza mutande…doveva subire e, voilà, il gioco era fatto: matrimonio riparatore e senza pagare la dote! Però se la donna non era d’accordo e la violenza era vera, allora coltellate da padri, fratelli e cugini! e se la donna non ne aveva? Allora sicuramente arrivava il compare di fiori, Lu Sande Giuvannə, e si sà “Dio perdona San Giovanni no!” Invece i maschi che andavano molto più in giro, di paese in paese per motivi commerciali, di richiesta di lavoro manuale stagionale in aree esterne e, ovviamente, per

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la transumanza, a fare i loro affari, hanno sempre avuto livree più modeste e simili tra loro, forse per non fare nascere rivalità e attriti. Un abbigliamento dalle caratteristiche troppo marcate avrebbe stimolato rivalità territoriali e l’aggressività etnica oltre a ledere il senso di fiducia e di “simile” necessari a rinsaldare i patti e gli scambi commerciali. Insomma avrebbe stimolato la xenofobia. Esistono anche abiti di corporazione o funzionali a determinati mestieri o situazioni come quello dei pastori, dei lanaioli, dei briganti i quali in realtà erano un modo per farsi pubblicità e dichiarare l’appartenenza non a una etnia ma bensì a una categoria utile. Dice de Stephanis “Il vestimento dell’uomo è simile a quello degli altri contadini abruzzesi” e ancora “i contadini vestono calze bianche o di altro colore, calzoni, corpetto e giubbone. Il cappello è a cono tronco, alto men di un palmo, con falde piuttosto larghe“ (probabilmente intende gli uomini del popolo): quest’opinione è riportata da diversi autori e che cioè l’abbigliamento maschile è sempre stato uguale in tutti i paesi. Dice Dorotea (1853) “l’abbigliamento degli uomini non merita alcuna riflessione, essendo lo stesso nella maggior parte degli Abruzzi”. Questo però non deve indurre a credere che fosse sciatto o mancasse di abbellimenti e dettagli, anche se questi erano spesso molto pratici e legati a usi maschili. L’abbigliamento maschile in Abruzzo in epoca borbonica poteva avere delle ricercatezze o delle singolarità interessanti come per esempio lunghezze e ampiezze diverse dei vari capi, rifiniture come mostre di passamaneria, piccoli merletti alla camicia, abbottonature semplici o doppie, camice con colli ridotti o ampi, e variamente tagliate. Esistono numerose descrizioni sia scritte che iconografiche dell’abbigliamento maschile, da cui si desume che in genere esso consisteva di diversi capi e numerosi accessori. L’abbigliamento maschile comprende numerosi capi come il grippetto, una sorta di giacchetta corta in lana, pantaloni al ginocchio con patta alla marinara (alzatora), panciotto, camicia in lino, una grossa fascia in lana a strisce verticali per la vita e cappa guarnita da una spilla in argento e pelliccia al bavero e un cappello in feltro. Portavano pochi gioielli (orecchini e anelli) ma molti amuleti ed armi più o meno nascoste. Filati, coloranti e tessuti Tutto si faceva in casa, si filava la lana e il lino e si ritorceIn Figura. Telaio abruzzese con dettaglio della spola, vano per preparare il filo a più pettine e licci in canna e lino. capi che veniva tinto. Chi avesse solo una volta visto come le filatrici abruzzesi usavano la bocca per sorreggere conocchie, fili, spesso in rotazione, e quant’altro non si stupirebbe più di apprendere che gli eschimesi si consumavano i denti fino alla gengiva per conciare ed ammorbidire le pelli di foca. Si tesseva al telaio abruzzese formando lunghi panni di 2 palmi borbonici (circa 53 cm) che poi erano, tinti, passati alla gualchiera (vellechə) in modo da essere compatti, antimacchia e idrorepellenti (Tavola 3). Si bollivano in infusi alcalini (di solito urina) di Robbia (rosso e arancio), di Guado (color indaco), d’Ornello (verde), di scotano (violaceo) ma anche


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mescolando insieme queste tinte naturali non si otteneva mai il desiderato nero nemmeno con l’aggiunta del vetriolo verde (solfato di ferro). La capacità di tingere omogeneamente le grandi quantità di filato necessarie alla confezione dell’abbigliamento pone oggi anche numerosi problemi sebbene esistano molti laboratori, per lo più amatoriali o artigianali, che sono in grado di tingerne quantità minori. Il suggerimento è di rivolgersi a paesi dove la tintura è ancora praticata in maniera tradizionale come nell’africa mediterranea e nel vicino oriente. L’abilità manuale della filatura non è solo un fatto tecnico ma anche in gran parte pratico. I materiali primi come la lana greggia o anche filati di pura lana sono quasi impossibili da trovare. Anche i filati semi artigianali contengono ormai una percentuale di fibre sintetiche, spesso non dichiarata, che rendono possibile la filatura a macchina a una velocità prima impensabile. Questo altera irrimediabilmente la presa del colore naturale consentendo solo di avvicinarsi ma non di raggiungere appieno l’effetto originale usando tinture naturali. L’uso dei coloranti artificiali consente invece un notevole avvicinamento sebbene i toni siano leggermente diversi ed occorrano numerosi bagni di tintura e sbiancanti con conseguente pericolo di rovinare le fibre. Anche la tessitura pone dei problemi: un tempo, l’utilizzo di capi di filato ritorti a mano, la mancanza di additivi e i processi di finissaggio producevano tessuti piuttosto duri e compatti13, una caratteristica ora generalmente indesiderata nell’industria tessile. Invece in passato l’uso di tessuti gualcati o trattati con grasso ed olio o resine e lattici vegetali per renderli più compatti e idrorepellenti era comune. Oggigiorno, la larga dominanza dei telai da maglieria invece di quelli a spola limita moltissimo la possibilità di utilizzo di tessuti industriali e quindi ciò rende molto difficile reperirne di adatti sul mercato anche quando si tratta di tessuti non operati. Il dover ricorrere a processi artigianali di tessitura e tintura aumenta il costo delle stoffe usate anche oltre dieci volte il costo di un buon tessuto industriale. Per questo motivo, tessitura e tintura e cucito a mano sono riservati alle copie filologiche mentre si può tranquillamente chiudere un occhio per le copie private purché siano il più fedele possibile agli originali filologici almeno come somiglianza e fattura sebbene realizzati a “macchina” e con tessuti industriali. La lavorazione delle fibre tessili, la tintura, e la cucitura degli abiti erano essenziali per la soddisfazione delle necessità familiari primarie e fino a quando è prevalsa un’economia di autosufficienza il lavoro femminile era determinante per tutte le necessità materiali della famiglia. Lavorare le fibre tessili per la produzione di tessuti da corredo e per capi di vestiario era un’attività praticata diffusamente sia nelle case contadine che in quelle artigiane. La conduzione di queste attività contribuiva al bilancio familiare e, inoltre, determinava il grado di considerazione in seno al “vicinato”. “Mani di fata” si diceva per le donne in grado di tessere rapidamente e con perfezione e veramente si credeva che ci fosse lo zampino della magia in questo. Tutti i filati tradizionali sia di origine vegetale, come stoppa, canapa e lino che animale, come lana e seta, erano prodotti, trattati e tinti nell’ambito famigliare o in ambiti di riferimento socioeconomico ristretti. I processi di tessitura e di finitura, specie questi ultimi, richiedevano invece anche l’intervento di competenze e mezzi esterni. Le donne abruzzesi erano abili filatrici e tessitrici dei caratteristici teli di accia. L’accia veniva sbiancata utilizzando liscivia caustica di cenere di legna, il rànno (Abr. culate, luscìjə), per 7-8 giorni. La notte si immergeva nella liscivia mentre il giorno si lavava e si lasciava asciugare al sole. Fino ai primi del Novecento ancora si mettevano a macerare nell’acqua gli steli di canapa poi si sfilacciavano per battitura con la scòtola, si mettevano alla conocchia e si filavano avvolgendoli sul fuso; si passava quindi al 13

Questo impediva anche che essi scaricassero il colore durante qualche raro lavaggio.

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telaio per la tessitura. Con la canapa (a volte mista a lino) si tessevano lunghi teli che venivano poi assemblati per ricavarne le lenzuola che entravano nella dote delle spose. I capi in fibra vegetale antichi in genere sono deformati per estensione e misurano più che da nuovi; viceversa le lane. I sacchi per farina, grano e frumenti vari erano realizzati in robusta tela a trama molto stretta (tərlicə), con ripetizioni di strisce colorate (marchiòlə) di diverso spessore che in opportuna combinazione caratterizzavano i proprietari come una specie di codice a barre. Sempre con la canapa si realizzavano i teli per i “sacconi” riempiti con le brattee del granoturco, realizzati a strisce colorate in bianco e azzurro, e quelli per stendere al sole i fagioli da seccare o il frumento da asciugare dopo il lavaggio. Venivano chiamati “coperte di lenze” e realizzati con strisce e ritagli di tessuti vari (specie cimose) tenuti insieme da una trama di canapa lavorata al telaio. Per completare il quadro relativo alle attività tessili comunque, bisogna anche evidenziare che sin dai primi decenni del 1800 si era diffusa l’industria della seta, che era divenuta un settore importante dell’economia locale, ma l’attività serica restava arretrata come procedimenti tecnici e ferma ai semilavorati. Più della seta merita una particolare attenzione la lana che, come già detto, ha occupato una posizione di rilievo in un’economia agro-silvo-pastorale. Le operazioni lavorative seguivano le fasi tradizionali che, partendo dalla cardatura, anche impiegando il Dipsacus fullonum o cardo dei lanaioli, allo scopo di purgare la lana dalle impurità (i catielli non facili da eliminare completamente e che tanto tormentavano poi chi avrebbe indossato i capi), di districare ed allineare le fibre14; la filatura, eseguita con il fuso o con il filatoio a pedale, la tintura in matassa, la tessitura. I neri osservati negli abiti recenti sono tutti legati a produzioni di tessuti industriali e non danno nessuna garanzia di veridicità; nei busti antichi e nelle numerose toppe ritrovate nei musei si osservano vari toni di colore che venivano raggiunti attraverso bagni multipli di coloranti organici naturali che comprendono: il legno di campeggio (Haematoxylum campechianum), la robbia (Rubia tinctorum), la noce comune (Juglans regia), la ginestra dei tintori (Genista tinctoria), la camomilla per tintori (Anthemis tinctoria), l’ornello (Fraxinus ornus). Si usavano, poi, le foglie di peperoni (per il verde), la pianta di pomodoro (per il giallo scuro), i frutti maturi di Melograno (per l’arancione), il legno di gelso (seccato e triturato, forniva un giallo stabile) o le sue bacche nere (per un viola- lilla meno stabile), la pellicina di cipolla (per un colore rosato), il ginepro (per colori dal bruno-oliva al rosso-viola), il papavero (per il rosso) oppure il the, il nerofumo o il mallo di noce, per impartire colorazioni scure, ma non si riusciva ad ottenere il nero intenso richiesto da prevalenti esigenze di lutto. Infatti, il nero assoluto non era un colore facilmente disponibile e molto costoso fino all’avvento dei colori chimici all’anilina, tant’è vero che era considerato di gran lusso e proibito dalle leggi suntuarie (che fanno riferimento al colore negro). Altre indicazioni segnalano, infine, anche l’impiego di ortica, rosa canina, verbasco, corteccia di Mandorlo, di ciliegio, di pino, di abete per preparare tinture casalinghe (Abr. šchiappə). Si metteva tutto nei grossi calderoni di rame o creta riempiti di acqua e si faceva bollire per ore, rimestando frequentemente per evitare eterogeneità di colorazione dei tessuti. Certo, i risultati erano modesti e la gamma di colorazioni molto limitata o imprevedibile, ma anche i costi erano limitati e sopportabili per le scarse disponibilità economiche della gente comune. Così si riusciva ad operare, tra le mura domestiche, almeno sui vestiti da lavoro e sui capi che dovevano essere pratici e non eleganti. L’indaco orientale (Indigofera tinctoria) era sicuramente importato in Abruzzo in pani di forma conica, mentre veniva abbondantemente 14 Con un termine allusivo ma efficace, una fibra bel curata, serica e lunga veniva detta “pile e madamme”.


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coltivato il suo succedaneo locale: il guado (Isatis tinctoria) ancora oggi diffusissimo nella fascia alto collinare come pianta spontanea. La pianta del campeggio è una leguminosa del Messico. Si utilizzava la corteccia tritata da cui si ricava un pigmento colorante che va dal nero-viola al nero-blu che viene stabilizzato con solfato di ferro (vetriolo verde). è stato utilizzato fino a dopo la prima guerra mondiale per tingere di nero le lane già scure di natura (lana “carfagna”). Il legno di campeggio può essere utilizzato in combinazione con l’indaco o il guado. Quest’ultimo è il colore più antico conosciuto; l’estrazione del pigmento colorante avveniva per fermentazione, e per poter tingere le stoffe occorreva un lungo processo chiamato “colorare al tino”. Sono emerse anche indicazioni circa l’impiego mordenzante del solfato di rame (vetriolo blu), dell’aceto e del cremor tartaro. La cognizione delle modalità d’uso del cremor tartaro era legata anche alle informazioni fornite dai venditori (Pet. rasciarə). Fino al Novecento, i venditori ambulanti di cremore (Pet. rascə) erano una figura familiare in abruzzo, un po’ come l’arrotino. Nel Novecento si introdussero colori commerciali in bustine delle ditte Super Iride e Aquila, prodotte a Prato, già sede della più fiorente industria tessile e laniera italiana. Gli abiti tradizionali femminili L’abbigliamento base in Abruzzo consiste, in epoca borbonica, di una camicia in lino o canapa, pochi altri accessori intimi, un busto su cui si agganciano le sottane e la gonna sia in fibre vegetali e/o animali, plissate e molto ampie, maniche staccate con ampi risvolti al polso e allacciate con nastri, giacchina, ampi grembiuli, scialli, panni per il capo di solito consistenti in una tovaglia ripiegata, vari pezzi di oreficeria ed acessori (cinture, spille da capo, borsette, retine). L’abbigliamento femminile in genere aveva colori indaco, rosso, verdone, giallo nei toni caldi dei coloranti vegetali e minerali naturali e arricchiti da numerosi bottoni e ganci in argento oltre a nastri e coccarde (Tavola 4). L’abbigliamento maschile comprende camicia o casacca, mutandoni, pantaloni ampi al ginocchio, ghette, giarrettiere, fascia, panciotto, giacchetta corta o lunga con faldine e abbottonatura semplice o doppia, fazzoletto da collo e da capo, cappa, cappello. Esistono varianti festive e quotidiane. Le calzature erano alti zoccoli in legno e cuoio per le donne e scarpe chiodate con fibbia per i maschi (a volte anche per le donne e arricchite da fiocchi) che in antico non avevano la destra e la sinistra. Babbucce, cioè un tipo di scarpa a pantofola chiusa e un po’ alta dietro, più elegante. Cioce e calze con suola imbottita con stracci e trapunta con refe erano riservate a usi e circostanze specifiche come lavori campestri o domestici o al legnatico. Uomini e donne avevano bastoni, amuleti, borse e bisacce, canestri, borracce, coperte etc etc Biancheria La biancheria intima (Tavola 5) come la conosciamo noi non esisteva15. L’uso delle mutande poteva venir addirittura considerato da donne “poco serie”16 oppure era riservato a stati fisici particolari. In questo ultimo caso la camicia, con spacchi laterali, rimboccata tra le cosce poteva fungere anche da mutanda17. Le mutande sono state introdotte obbligatoriamente dopo la grande guerra ed erano fatte in doboletto o circasso, ovvero ordito in lino o cotone e trama in lana, a spina di pesce oppure operato a “noce di pesco” o “grano di pepe”, di foggia a calzoncini, arrivavano fino al ginocchio ed erano aperte lateralmente, per cui venivano allacciate in vita avanti e 15 Questo consentiva alle donne di espletare alcuni bisogni minori senza nascondersi o accoccolarsi ma solo con un po’ di grazia e discrezione, allargando appena le gambe sotto le gonne. Cura si metteva nello scegliere substrati non in pendenza e che dissimulassero “rivoli” rivelatori. 16 Come del resto il “lavarsi troppo”. 17 Una sorta di antenato del “body”.

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dietro con laccetti. Il cavallo non era cucito e quindi rimaneva aperto. Non esisteva il reggiseno che era eventualmente sostituito da una “fascetta”. Un indumento di lusso era una specie di bolerino di tela fine ricamato e sfilato che veniva usato come copribusto in determinate circostanze. Le calze femminili erano realizzate ai ferri, a maglia rasata o operata, anche a punto “pavone”, corte sotto il ginocchio e legate con una fettuccia sempre in lana, erano decorate con motivi a scacchi o righe, blu o bianche su un fondo di color ciclamino. Esistono tuttavia anche esemplari molto decorati anche con elementi in tubolare o cordoncino formanti decorazioni a rilievo decorrenti verticalmente e con colori contrastanti. La preparazione della biancheria occupava molto del tempo dedicato dalla donna al ricamo e alla sartoria dato che tovagliati e coperte venivano realizzate a telaio. La camicia era il capo più importante e ragguardevole visto che veniva indossato giorno e notte. Era anche un elemento di richiamo sessuale per i maschi quando le donne nell’intimità dell’alcova restavano solo con questo capo indosso. La camicia era presente nel corredo con capi di diversa qualità sia quotidiano, eventualmente con spacchi sul petto e sulle cosce, e festivo in genere con scollo quadro o tondo e senza spacchi ed aperture. Si confezionava piegando in due un panno di due o tre palmi (1 palmo borbonico = cm 26,45) e inserendo all’altezza dei fianchi un tassello triangolare (Abr. duvanèllə, cógnə) per lato. Le cuciture sono spesso ribattute. La lunghezza è variabile ma ben sotto il ginocchio. Una serie di piegoline in genere decorre sulla spalla, sia anteriormente sia posteriormente restringendo l’ampiezza alle spalle. La manica è tagliata diritta e composta da un rettangolo oppure a trapezio e ha anch’essa un tassello triangolare sotto l’ascella. La manica veniva cucita alla spalla mediante gruppi di pieghette fitte o lavorazioni a nido d’ape, si restringe mediante piegoline nel caso si attacchi a un piccolo polsino con bottone, oppure è scampanata ma non troppo lunga (3/4). La camicia quotidiana era realizzata in accia di canapa, imbiancata oppure ghinea (cotone di poca qualità) o anche di doboletto, di taglio semplice, scollo tondo e facile da riparare. La camicia festiva era in cotone fino o di lino e portava sempre le iniziali, ma un contrassegno era comunque necessario su tutta la biancheria per non scambiarla al lavaggio. Lo scollo può essere tondo e guarito di pizzo e abbastanza ampio o quadrato con un carré anche molto elaborato, con vari intarsi e nastri. Il pizzo ha motivi fitomorfi e geometrici e veniva attaccato intorno allo scollo con punto a giorno in un giro singolo: Le donne sposate che allattavano avevano la camicia tagliata avanti e chiusa da una spilla al collo. Il sottanello veniva indossato subito dopo la camicia sia che fosse leggero in canapa (più tardi in cotone) oppure in circasso o pelosetto (mezzalana con armatura tipo cotone “dentro” e lana “fuori”, tipo flanella), a seconda del periodo dell’anno. Più lunga della camicia ma più corta di almeno 5 cm rispetto alla gonna, era in genere fatto da 4 panni spesso ripiegati e arricciati su tutta la circonferenza della vita per dare “spessore” al bacino. E’ chiuso alla cintura con una fettuccia che può anche essere passante per poter distribuire come si vuole l’arricciatura. Il colore variabile dal bianco al blu, ed è arricchita da un ricamo a telaio oppure da balze poste all’estremità inferiore o da un ricamo all’uncinetto. Il busto Si tratta di un capo indossato quotidianamente e che si eliminava solo durante stati particolari o grande fatica o grande divertimento, ovviamente solo in ambito famigliare o lavorativo. Il busto è in 5 pezzi cuciti tra loro, 1 anteriore, due laterali e due posteriori e modellato in modo da dare garbo alla parte anteriore sotto al seno grazie a rinforzi triangolari. In genere è a tinta unita ma può essere anche bicolore (Tavola 5). Il busto si allacciava dietro tirando verso l’alto un unico cordoncino


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(Abr. zòlla) passato tra 8-10 ganci femmina in metallo sfalsati o occhielli, e rimaneva aperto di 3-4 dita. I busti possono poi essere dotati di un’apertura anteriore che specie nelle fogge popolari costiere diviene costante18. Si tratta di un’abbottonatura metallica in acciaio con occhielli e pernetti. La palizzata interna è formata da fascetti di saggina o da stecche di canna impunturati con refe tra due pezzi di accia di stoppa, la palizzata è disposta obliquamente nei pezzotti che decorrono sui fianchi del busto per migliorarne l’aderenza. Abbiamo già detto che il busto non serviva tanto a modellare la vita quanto a sostenere e proteggere la schiena19. La parte inferiore del busto è una baschina o falda non steccata (Abr. tambanèllə) lunga circa 13-14 cm, formata da numerosi elementi di forma triangolare e trapezoidale, in modo che possano ripiegarsi e fare spessore. La falda serviva per sostenere le numerose gonne, affinché non stringessero sulla vita, e per migliorare anche l’effetto delle pieghe della gonna stessa. A volte la punta centrale anteriore restava fuori20 come motivo decorativo secondo l’uso rinascimentale. In alternativa i busti hanno i cuscinetti a forma di salsicciotto (Abr. mmaštiellə) cuciti poco sotto la vita. Il rivestimento esterno del busto, in raso o panno castorino (Abr. vecognə), in origine quasi sempre in lana, eccezionalmente in seta, e poi sostituito da rasatello di cotone, è fermato con sottopunti in modo da aderire alla palizzata e poi ripiegato verso l’interno delle cuciture durante l’assemblaggio dei vari pezzi del busto. Il busto veniva poi foderato all’interno con una fodera in genere a colori vivaci che veniva risvoltata verso l’esterno per 0,5 cm alla base del busto. Un pezzotto rettangolare veniva a volte posto internamente all’altezza del seno in modo da poterlo cambiare, visto che questa parte si usurava e si sporcava molto. Il bordo superiore è quasi sempre rivestito di pizzo valencienne. Il busto poteva essere impunturato nei punti in cui era maggiormente sottoposto a tensione, per esempio ai lati dell’allacciatura Le maniche in tutti i busti abruzzesi antichi, sono staccate e legate con nastri e fiocchi, e quando si toglievano per lavorare o per il caldo si legavano dietro la schiena. Le maniche presentano asole (Abr. nàsələ, pertósə) e bottoncini decorativi (Abr. ciappùottə, ‘nemmèllə) vicino al polso che chiudono uno spacchetto di 7-8 cm di lunghezza. Tutti i busti abruzzesi sono molto rigidi ma non costrittivi, la presenza di pezzotti laterali, cuciti inclinati, consente una presa anatomica e una flessibilità notevole, cosa certamente gradita a chi doveva lavorare indossandolo. Il busto serviva ad aiutare nel lavoro, reggeva la gonna, aiutava a sostenere la schiena delle donne che portavano pesi e figli. I busti tradizionali non vanno confusi con la corsetteria ottocentesca a stecca di balena che aveva funzione completamente diversa e rimaneva nascosta sotto altri indumenti. Guarnello e gonna La quantità di sottane, guarnelli e gonne dipendeva dalla disponibilità economica oltre che dai rigori del clima (Tavola 6 e 7). Il guarnello è una sottana di 4-6 panni, con numerose pieghe e con balza decorata che in genere si lasciava vedere quando la gonna sopra di essa era rimboccata per motivi di praticità. In genere è realizzato in accia di canapa e cotone o canapa e lino o mezzalana. La gonna è quella a pieghe baciate in numero proporzionale ai panni usati (da 8 a 10), plissata, con allacciatura a sinistra chiusa da ganci metallici e nascosta tra le prime due pieghe. Realizzata in tela o saja di lana piuttosto rigida a causa della gualcatura che contribu18 In pratica consentiva, una volta regolata l’ampiezza tramite il laccio posteriore, di allacciare e slacciare con più comodità il busto, finche poi non c’era bisogno di aumentarne o diminuirne la circonferenza. 19 Oltre ad essere uno di quei capi erotici sapientemente sfruttati nel corteggiamento con proprietà difensive. Dice la ballata “a si tenisse nu curtellucce le taglesse li lacce a stu buste” e anche “maledette lu bustare troppo bene lo sa fare”. 20 Specie nelle fogge “borboniche”.

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iva anche a serrare ulteriormente la trama e ad accentuare la naturale idrorepellenza e le proprietà antimacchia della lana naturale. La gonna è liscia avanti perché un affastellamento di pieghe sarebbe risultato ingombrante nel lavoro e inoltre esteticamente ininfluente per la presenza dell’ampia mantéra. La parte posteriore invece ha un’architettura sartoriale sapiente dove si concentrano le pieghe, e di solito presenta uno strascichetto. Le pieghe convergono sopra a un cannello interno posteriore che può essere ampio o addirittura non evidente. L’orlo interno della gonna è protetto dal salvatacco, alto circa 26 cm (un palmo), per proteggerla sia dai tacchi sia dallo strofinio col suolo. Diventa però un elemento decorativo quando la gonna viene rivoltata sul capo se piove. Una guarnizione di fettuccia di sbieco colorato è spesso cucita tra la fodera e l’orlo inferiore della gonna. La gonna anteriormente era lunga fino al malleolo o anche poco più corta. La cintura è foderata internamente e spesso impunturata esternamente. Nelle gonne più recenti la plissatura è stata sostituita da un tipo di piega morbida, certamente tarda e subentrata alle tecniche sartoriali tradizionali insieme ai tessuti industriali e ai coloranti artificiali. La perdita della plissatura21 è un altro aspetto del trasferimento della tessitura a livello extrafamigliare. Era, infatti, un processo integrato con la tessitura, la tintura e la confezione famigliare degli abiti. La mantéra Completa l’abbigliamento un ampio grembiule (mandérə) a fitte piegoline o a pieghe in numero variabile baciate verso il centro dove è posizionato un cannello più grande. Essa copre metà della circonferenza della vita ed è lunga un po’ meno della gonna. Le più modeste sono in lana e formate da due panni da 65-75 cm (due o tre palmi) e sono allacciate mediante due lunghe stringhe che passano intorno alla vita e ricadono davanti tra le pieghe. Tutte le altre sono quanto mai varie e ricche, a quadrijè, a motivi floreali e di vari tessuti. Le mantére in taffetà operato di seta, damasco o cotone stampato, all’epoca una fibra costosa, erano per la festa; quelle in satin nero erano da lutto. La parte inferiore è spesso decorata da una balza di sbieco o a pieghine. Le mantere della provincia di Chieti non sono mai rigide e di dimensioni ridotte a un panno come quelle teramane o molisane. Panni da capo L’acconciatura maritale varia da tovaglie ripiegate fatta d’accia di canapa e lino imbiancata con frange libere o anche a acconciature fisse simili a piccoli turbanti o tocche. I copricapi sono spesso formati da tue o tre tipi di teli anche di mezzalana in inverno. In questo ultimo caso predominano tessuti stampati e damascati. Non si usava appretto e ci si basava sulla piegatura, imbastitura e imbottitura ad umido dei copricapi per mantenerli “sparati” e rigidi se richiesto. Le nubili portavano in testa sempre una acconciatura più semplice delle maritate. Il fazzoletto in mezzalana, cotone stampato o anche seta poteva essere fermamente legato sotto la gola, o dietro la nuca o avere i pizzi risvoltati sopra la testa o ancora cadenti sciolti sulle spalle durante la festa. Il fazzoletto poteva essere fermato piuttosto alto e indietro da fermagli in modo da scoprire la sommità della fronte, su cui poteva pendere il famoso tirabaci22. La sposa al momento del matrimonio indossava uno scialle di mussola bianca ricamato o anche un velo di tulle ricamato. Durante il lutto un velo rettangolare di chiffon nero ricopriva e raccoglieva la tovaglia o si indossava un fazzoletto piegato a triangolo di satin nero strettamente fasciante il viso e ricadente sulla fronte oltre al grande scialle di bouclè con frange. Giacchini e bolerini Si tratta di un indumento non indossato quotidianamente ma per motivi di estre21 Veniva eseguita a freddo bagnando e lasciando asciugare lentamente le pieghe strettamente serrate col filo di refe. 22 Visto comunque anche alle “vecchie”


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ma eleganza, almeno a giudicare dalla note dotali, fino alla fine del 1850 dopo invece diventa molto diffuso in tutte le occasioni (Tavola 8). Tuttavia la presenza di bolerini o giacchini con baschina o senza, aperti avanti e con maniche cucite, è stata più volte notata nell’iconografia borbonica come capo “elegante”. In genere i modelli più antichi sono in panno di lana gualcata, corti alle costole completamente aperti avanti e senza collo. La manica è tubolare e molto semplice di taglio maschile. Non ci sono che uno o due originali di questo capo e difficilmente consultabili e quindi per ora non si possono fornire altri dettagli. L’unico abito post unitario che eredita stabilmente tale capo è quello di Scanno dove diventa elemento imprescindibile (ju cummudinə) e viene nobilitato da una fastosa bottoniera sul seno e da una guarnizione al collo in tombolo (la scollə). Nell’abbigliamento popolare diffuso in Abruzzo nella seconda metà dell’Ottocento invece la “polacca” è sempre presente ma non si indossa d’estate, tranne che per i matrimoni e le feste religiose, quando uno scialle (Abr. štrapizzə) la sostituisce. Il taglio è sempre simile, in 5 pezzi simmetrici (spesso duplicati in 10) di cui il centrale posteriore dalle spalle fino alla vita è triangolare, mentre i pezzotti laterali sono obliqui e gli sparati anteriori mostrano molte riprese per adattarsi alla vita. Sotto il punto vita è presente una baschina anche con pieghe a soffietto o vari tagli e spicchi per allargarsi sulla circonferenza dei fianchi e delle numerose gonne23. La spalla è un po’ stretta per dare modo alla manica di rigonfiarsi ed alzarsi ad “ala”. La scollatura è a giro collo con apertura anteriore centrale sormontata con alamari o bottoncini. Molto spesso la mostrina è in velluto o tessuti operati o guarnita. Dopo il 1915 i modelli diventano sempre meno avvitati e sempre più morbidi e sblusanti. Colori, tessuti, guarnizioni tipi di abbottonatura variano grandemente, su almeno 50 giacchini esaminati non ne abbiamo trovati due uguali. (Tavola 4 e 8).

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cuoio, chiuse alla punta che si vedono ancora nelle foto fino agli Anni ‘60. Nei giorni di festa si usavano pure scarpe di cuoio con la linguetta o orecchiozzo, ripiegato per nascondere i lacci. Sotto la gonna si usava una sorta di tascapane (Pet. catana), che si allacciava in vita con una fettuccia e che conteneva oggetti utili o voluttuari di uso quotidiano. Il paliotto (dal Lat. Pallium) utilizzato nei costumi abruzzesi come coperta per le reni o il capo o anche come mantera rigida e tesa. Di questo ultimo indumento vi è traccia della descrizione in De Stephanis (1853), che accenna a una piegatura a “coda di rondine” e a un panno di color rosso e ci sono alcune copie nel Teramano specie a Pietracamela. In genere era di forma rettangolare, realizzato in lana o mezzalana e con strisce colorate. Più difficile da documentare è il giacchetto femminile. Tale indumento raramente è rappresentato nell’iconografia settecentesca perché gli autori dei ritratti viaggiavano nel periodo estivo quando evidentemente non era utilizzato.

In figura. Stratificazione dell’abito maschile borbonico

Accessori Con il tramonto dell’abbigliamento tradizionale, alcuni degli indumenti meno indispensabili sono andati totalmente persi. Tuttavia la loro diffusione è documentata in un’area molto vasta e omogenea, oltre che dalla logica dell’abbigliamento e del suo uso, e quindi dovevano essere presenti. Le calzature da strada quotidiane erano zoccoli in legno con tomaia di cuoio (Abr. cótə). Più comode erano le pianelle, di 23 I fianchi larghi erano enormemente apprezzati, spesso il tessuto dei guarnelli é messo “doppio” all’arricciatura sulla cintura per aumentare la circonferenza,

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Gli abiti tradizionali maschili L’abito maschile in una cosa si differenzia da quello femminile e cioè il maggiore adattamento al lavoro e al viaggio. Anche le stoffe sono in genere più pesanti e la biancheria, sempre pesante, diventa importante, anche perché l’uomo non si svergognava, a differenza della donna, mostrandola24 (Tavola 9). A differenza dell’abbigliamento femminile non ci sono vere e proprie “sopravvivenze borboniche” dell’abbigliamento maschile. Questo è un fenomeno che in Abruzzo ha riguardato quasi esclusivamente l’abbigliamento femminile che da sempre è stato, come abbiamo detto, più specifico e resistente ai cambiamenti rispetto al maschile. Se già in epoca borbonica il maschile aveva fogge relativamente poco peculiari di un determinato luogo, ma più del tipo d’uso o censo, in epoca post unitaria il cosiddetto “abbigliamento spagnolo” tende a diluirsi e l’uso di braghe corte, dopo un breve periodo di transizione che comunque non va confuso con il periodo dei pantaloni alla zuava, scompare abbastanza rapidamente da far posto all’abbigliamento “civile” con pantaloni lunghi, panciotto e giacca e mantello. Nelle foto di fine Ottocento si vedono ancora uomini che indossano braghe alla cavallerizza, ghiacchette corte (Abr. giacchettə) camicia con tipico colletto con collarino (Pet. pestagne), cui nei giorni di festa si applicava il colletto, panciotto (Abr. sciambrecchinə, còrpabbòttə, péndřə) aperto, ampia fascia, calzettoni in lana cannolè oppure operati e decorati con nappine, scarponi con lacci e cappello a falda tonda e cupola alta con tre ammaccature. A questa vestitura, d’inverno, si aggiungevano una giubba e l’ampio tabarro (Abr. càppə) che li avvolgeva fin oltre le ginocchia. Questo abbigliamento si ritrova anche in alcune cartoline d’epoca successiva della zona di Chieti e nei quadri di Celommi e Michetti ed è la foggia che ha influenzato la tenuta maschile dei gruppi folcloristici. I capi dell’abbigliamento maschile consistono nel giaccotto (Abr. giacchéttə, grippettə, giambergə), lungo a meta coscia o corto poco sotto la vita; pantaloni (càvəzə, pantalunə), corti poco sotto il ginocchio, chiusi in basso da bottoni o fibbie o lacci, con lacci fibbie e cinturini per adattarli in vita. Entrambi questi capi erano di panno castorino25 o anche di saja. Un panciotto (Abr. sciambrecchinə, còrpabbòttə) di varia foggia, anche in panno o in tela rigata. Tra i colori più frequenti dei panni era l’indaco, il verde marcio, il carminio della cocciniglia o la robbia, il giallo, ma per i panciotti potevano essere usati anche tessuti multicolori od operati. Le camicie erano in genere di doboletto, di varia foggia e allacciatura a metà torace, di solito di colore bianco, ampie con vari cugni e rinforzi (Abr. cógnə, duvanèllə) e abbastanza lunghe, indossate sopra i mutandoni in circasso anche colorati che spesso sbordavano oltre il bordo inferiore delle braghe con un merlettino (Abr. balzə) o erano stretti da laccetti. A differenza che nelle donne la camicia da notte era un lusso borghese, il popolano dormiva in mutande e camicia, o anche solo in camicia26. Al collo un fazzolo impediva alla camicia di sporcarsi troppo ed assorbiva il sudore ed ovviamente era indossato tra maglia e camicia e non sulle spalle. Però in caso di freddo se non avevano la giacca e la cappa i maschi non esitavano a indossare fazzolettoni e scialli in lana. Completava l’abbigliamento maschile un’ampia fascia di lana (Abr. céntə) in vita, sotto o sopra il panciotto e in questo secondo caso indice di guapparia, a righe verticali sempre in genere con colori sul verde, indaco, robbia, lana naturale scura ecc e un cappello tondo a cono basso e falde piuttosto ripiegate, o viceversa conico con falde diritte piccole, rezzole e 24 La donna è svergognata se mostra le “vergogna” per l’uomo la cosa è del tutto differente, può fare il bagno nudo senza offesa per nessuno tanto meno per se stesso. 25 Tipo di fustagno. 26 Che era comunque relativamente lunga.

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bandane per i capelli, calze di lana chiara o rossiccia o indaco, tenute su da giarrettiere colorate o nastri, scarpe con fibbia d’argento o orecchioli (Abr. papusce), a tacco basso, stivali e ghette, una giberna. In caso di pioggia o freddo indossavano una semplice coperta o un mantello di lana (Abr. càppə) in genere di tessuto gualcato in modo da renderlo compatto e idrorepellente. Il bavero della cappa è impunturato e guarnito di pelliccia spesso di lupo e chiuso da una fibbia suntuosa in argento (Abr. ciappə). Carrettieri e contadini spesso indossavano solo un sacco di juta piegato in modo da formare un lungo cappuccio. In realtà alcuni elementi sono tipicamente maschili come l’uso d’orecchini di foggia specifica che si riferiva o a un Santo di cui si era devoti o a proprietà magico-curative e infine corporativistiche, numerosi altri elementi in argento come bottoni, fibbie e ganci. Oppure anche i tatuaggi sulle braccia (Abr. mblémə), in genere a motivo religioso o amoroso o iniziatico. Il cappello veniva personalizzato attraverso i segni della fede o della superstizione ovvero decorato con: piume, fiori secchi, medagliette, immaginette, nastri etc. Non si deve dimenticare che un complemento indispensabile erano coltelli “genovesi” (mullettonə) e a volte pistole a pietra focaia con relativi contenitori di polvere, pallottole, stoppa etc. L’acciarino era anche indispensabile insieme alla pipa in coccio e canna I Gioielli Tutti sanno quanto vale un diamante di un carato o un grammo l’oro; ma quanto vale l’amore, il desiderio di protezione divina, stare in serena armonia con il mondo? quanto valgono le cose belle che non muoiono con noi e raccontano per sempre una storia? Quanto è grave la perdita dell’antica sapienza degli orafi abruzzesi capaci di costruire e riempire di calore e di vita oggetti altrimenti freddi ed inanimati? Chi è oggi in grado di “inventare” gioielli che sfidano il tempo e il cambiare dei gusti e delle mode? Una lunga serie di domande sorge di fronte all’impressionante opulenza e varietà di forme e di simboli della gioielleria abruzzese tradizionale (Tavola 10). Quello che è sicuro è che se oggi i gioielli si pesano sulla bilancia una volta si valutavano soprattutto col cuore. Tanto lavoro, tanto ingegno artigianale ma sempre con ossequio ad idee e modelli collaudati dai secoli. Le stesse parole per formare una nuova frase poetica. Tanto più il ceto sociale era popolare e legato alla terra, tanto più era abbondante il corredo e l’ostentazione degli ori. La donna li indossava per fare festa allo sposo ma anche e soprattutto alla divinità, badando a non suscitare invidia: temuta più di ogni altra cosa. Quante presentose sono andate ad arricchire il corredo di spose sarde impalmate da pastori abruzzesi chiamati a fare il “pecorino romano” col latte delle pecore del Logudoro! Oppure transumate verso la Puglia e risalite sulle pendici del Gargano e dell’Appennino Dauno o disseminate per la strada fino all’alta Irpinia. Gli sposi suggellavano il matrimonio e l’intesa perfetta racchiudendo due mani intrecciate sopra un cuore: sono le celeberrime manucce, la fede abruzzese fatta da tre anelli snodati che nessuna sposa avrebbe mai più aperti, se non per stregoneria, dopo che il marito li aveva chiusi prima di porli al dito. Ogni paese abruzzese aveva il suo orefice che era anche un abile artigiano ma i centri di produzione in grado anche di esportare e vendere alle fiere a Sulmona a Lanciano e in altri centri del Regno di Napoli erano Guardiagrele e Agnone. Il Gioiello tradizionale è un oggetto durevole fatto per essere trasmesso di generazione in generazione perpetuando la culture, le credenze e gli usi di un popolo. Le forme e significati delle decorazioni sono quelli del bacino del Mediterraneo: dai simboli solari e geometrici dei graffiti neolitici fino all’immaginario composito e “barocco” uomo-animale-pianta dell’arte alessandrina. Semi, frutta e fiori oppure,


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In Figura. Abito tradizionale nelle campagna di Chieti. 2008.

il serpente di Esculapio, o un uccellino, organi e parti del corpo, gli astri e immagini mitologiche o religiose. I simboli più semplici ed antichi sono presi dalla Natura come forse lo erano veramente i materiali usati nella preistoria pre-metallurgica e poi forgiati a simbolizzare e propiziare l’abbondanza, la fecondità, la ciclicità e la trasformazione. Oppure ispirati dall’immaginario metafisico fatto di Dei e Dee, Sirene e Santi, puttini e guerrieri o i simboli del Martirio tutto armonizzato in un Panteon “cantastorie” che confonde ed abbellisce la verità con la legenda dandogli forma, colore e volume. Pendenti a forma solare (la presentosa, il regalo per eccellenza), la spirale infinita e le linee sinuose simbolizzate dalla “greca” rappresentano il fiume Meandro che si credeva scorresse in questo e nell’altro mondo incarnando con continuità millenaria il desiderio di vita eterna. I simboli per scacciare il male, il cuore sede dell’anima, la luna preposta alla sfera femminile, la chiave che libera o lega, e la colombina dello Spirito Santo ma anche i simboli del desiderio del passaggio spirituale: la nave. Più volte i simboli diversi si ripetono a rinforzare l’auspicio di benessere, di lunga vita, di felicità e di amore. Nelle complesse convoluzioni appare il nodo che lega gli amanti oppure più modestamente il simbolo di un’aspirazione alla virtù domestica: le forbici, l’ago e il filo. Eppoi i codici del colore: il rosso e il turchese i preferiti. Sugli anelli maschili il simbolo della potenza virile, Ares o comunque un dio guerriero ma in un’epoca di poche misure igieniche e poche medicine anche una pietra dal colore sanguigno che se applicata sulla ferita la guarisce miracolosamente. L’uomo indossa due orecchini a mezzaluna rovesciata con palline d’oro o cerchi o gocce. Sono segni di devozione o di dedica a un Santo oppure un simbolo di corporazione e anche perché proteggono la vista. I gioielli crescevano di dimensioni ed importanza fino all’età adulta ed accompagnavano la donna che li portava al collo, appuntati sul busto e sulla camicia, sul copricapo fino al talamo nuziale senza privarsene mai totalmente anche durante il lavoro, il parto, la vecchiaia perché aiutavano e proteggevano e guarivano dalle malattie oltre a renderle belle e fiere. Alle orecchie pendenti pompeiani, sciaquajiə e cercegliə cosi grandi da dover essere

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sorrette da una catenella che passava sopra l’orecchio, grandi collane a grani sferici o sfaccettati o sbalzati. Spesso anche i ganci e i bottoni degli abiti maschili e femminili, e molti oggetti di uso comune come i “passafilo”, ditali, anforette per gli odori, erano veri gioielli come lavorazione ma perlopiù in argento o leghe varie. I gioielli erano indossati sempre insieme agli amuleti di cui sono i parenti esteriori ed “esterni” dato che gli amuleti non venivano ostentati per non diluirne il potere. I gioielli tradizionali hanno anelli concentrici, pendagli, frange e catenelle, che si muovono oscillando, mandano mobili bagliori: la strega e la malasorte si confondono e si disperdono davanti al movimento incantatore dalla configurazione sempre mutevole. Alcuni gioielli erano cerimoniali, il ramajettə d’argento che lo sposo regalava alla sposa come pegno dicendo “Ricevi questo fiore in pegno del mio amore”, la presentosa regalata dalla suocera alla nuora come augurio di virtù familiare ma anche dalla madre al figlio con lo stesso spirito, la corona d’argento per sposarsi spesso data in pegno alla madonna preferita. Erano fatti di oro “basso” con rame, argento e altri metalli meno nobili27…si trattava di una lega dura, cosi da poterli indossare sempre senza che si rovinassero o consumassero troppo. L’oro, quando esiste una punzonatura, è al massimo 500, ma si usavano lamine di leghe diverse e finanche l’electrum assemblate insieme per dare maggiore risalto alle figure a sbalzo. Erano leggeri e illuminati da smalti e pietre solo semi-preziose: ambra, corallo, turchese, citrina, corniola… più spesso solo vetri di murano colorati. La maggior parte dei gioielli borbonici sono stati costruiti montando lamine stampate, piegate e saldate tra di loro su più livelli per dare il senso del volume mediante pernetti fermati con stagno o piombo-stagno. I vari elementi sono spesso raccordati con torciglioni variamente intrecciati o lastrine. Le catene spesso avevano maglie a lamina realizzate a seghetto o piegando e incastrando ingegnosamente gli elementi uno dopo l’altro. Spesso maglie di forme diverse si alternano tra di loro con l’interposizione di una medaglia o un altro raccordo decorato. Un’altra tecnica di lavorazione è quella a canna vuota che consentiva di realizzare gioielli voluminosi ma leggerissimi, d’altra parte la lega usata era meno duttile dell’attuale e garantiva resistenza alle ammaccature. La svendita sistematica avvenuta negli anni sessanta del patrimonio tradizionale non ha risparmiato i gioielli, spesso rottamati dato che non contenevano abbastanza oro per essere rifusi. Ora sono rari e di valore e quindi cominciano ad essere imitati e ricommercializzati oltre i fini turistici. Ma attenzione! un gioiello originale si presenta spesso con un’aria usata, con saldature e accomodature di varia natura, pietre erose e riusi. Attenzione alcuni gioielli imponenti possono essere delle “montature” fatte utilizzando rottami di più gioielli. L’artigianato attuale usa quasi sempre oro fino, saldature ad oro, filigrane e pezzi prestampati o realizzati magari si a mano ma in paesi orientali. E’ molto importante quando si compra un gioiello antico avere fiducia e poter contare su un orafo o un antiquario “amico” che garantisca la provenienza dell’oggetto. Importante è pure notare delle “stranezze” per esempio ganci e attacchi inutilizzati, asimmetrie, elementi che non si armonizzano e in generale tutto ciò che non appare funzionale al gioiello. Probabilmente l’oggetto che abbiamo in mano vale meno del prezzo richiesto. Diffidate poi da gioielli troppo sofisticati e tecnicamente perfetti o carichi di perle, grosse pietre o chili di sottilissima filigrana, saranno anche opere di “alta” oreficeria ma probabilmente non somigliano per niente a quelli “tradizionali”28. 27

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La titolatura delle leghe è un’invenzione moderna: La gioielleria tradizionale innovativa è una contraddizione in termini, statene lontani.


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Lessico

É molto interessante che Giammarco (1985) attribuisca alla donna una funzione di continuità culturale, di memoria e sottolinei che le donne conservino la fonetica delle generazioni precedenti29; tuttavia i termini di stretta pertinenza e uso femminile sono subordinati nelle raccolte lessicali forse perché appunto composte da maschi che poco condividevano o comprendevano questa cultura femminile. Le viaggiatrici inglesi si soffermarono sempre di più, grazie anche alla loro naturale inclinazione allo scambio col mondo femminile, sul linguaggio e le sfumature psicologiche delle donne abruzzesi, sulle vestiture e sui gioielli e a loro siamo debitori di una visione meno misogina e sessista dell’abbigliamento tradizionale femminile. La maggior parte dei termini si riferisce agli usi e agli oggetti agricoli e alle altre attività produttive, alla toponomastica, alla fitonomia e zoonomia, ma anche agli aspetti meteorologici, infine al cibo e al mondo immaginario. Ancora consistente è la terminologia relativa agli usi domestici, alla tessitura e tintura, molto più scarsi sono i rimandi a termini propri dell’abbigliamento femminile e alla gioielleria. Tuttavia, la raccolta lessicale dei testimoni indica che in realtà esiste un’ampia terminologia specifica per le parti dell’abbigliamento femminile. All’opposto quello maschile gode di minor attenzione e peculiarità. Qui di seguito viene riportata una raccolta dei termini più usati e frequenti in Abruzzo, circa trecentotrenta lemmi, che riguardano più o meno direttamente l’abbigliamento. L’approfondimento dell’uso di questi termini ci consente anche un controllo incrociato con quanto si osserva nell’iconografia e negli originali. Per esempio il termine cerritə indica un panno verde scuro (guado più ornello) per mantelli (come quello della gonna dell’abito scannese) mentre non abbiamo nessun originale di mantello con questo colore, dato che attualmente si osserva solo il marrone e il nero. Ancora interessante è tutta la terminologia degli indumenti da pastore: pellecìonə, grašatarə, štrangunéřə, zàinə, etc. oppure i termini riferibili all’acconciatura dei capelli: pedecaràunə, mallònə, pettinessa.

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Abbiamo già notato la differente evoluzione dell’abito tra maschi e femmine.


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Termini ed accessori sartoriali: • abbottonare con ganci: acciappà, attacciá, ciappïà’, ciappettïà’ • accollata: accullatə • ago/ghi: aca, àcura, • asola: nàsələ, pertósə • azzimarsi: arescicchirse • balza all’estremita della gonna: pedanə • bottone di metallo: ciappùottə • bottone di osso: ‘nemmèllə • bottone di panno o filo per polsini o collo: zóllə • bottone: bettónə • cambiarsi: arecagnà’ • cappietta: ċċhiólə • cavallo dei calzoni:’ngacchiaturə, scoscio • coccarda: cəlocchə • ditale: detalə • estremita inferiore dei calzoni: balzə • falda della giubba: zannèllə • fermaglio: cciàppə fettuccia: rettófio • fodera per tasca: səlèsïe • gancetti angenejə • fondo dei calzoni o mutande: funnèllə • gallone: frisə • gancio: gánghenə, ‘nginə, cciappétta fémmenə o másculə • garbo:garbə • gherone (inserto triangolare) della camicia ecc: duvanèllə, cógnə • imbastire ‘nghjmá’, appunda’, ammaštì’ incavo nel dietro della giacca: caròta incoccardare: nghəcqardà’, ngiuffəlà’, arempuppà’ • matassina: cròcchielə • mostra (di rifinitura di tasche etci): • pattə mostrina da sartoria: muštrinə • nappa: fiòcche e fiucchétte • nastrino: bavuléttə • nastro di filo grossolano: scatàrcia • nastro dozzinale: capesciólə, camurciòlə • nastro per avvolgere le trecce: pedecaràunə • nastro: fettuccə, zàcarə, zacarèllə, zòlla (per il busto), caməscióla • occhiello: asə (del gancio), aććhiolə, bertosə • orlare: rəzunnà’ • orlo della gonna arricciata: grìccio • orlo: lappe, zénnə • passamaneria: bassamanə • patta di pantaloni: alżatóra, barəcazzèra, vrachettə • pettorina: pəttinə • pieghe della veste: canalòtte • pieghe posteriori della veste: cùtelə rammendare, • rammendo: aresarcì’, resarceture, assarcì’, rənaccià’, rettraccià’, arcuncià’, aremmentecà’ rappezzare: arrepezzá’

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• • • • • • • • • • vïà’ • • • • • • • • • • mani) • • • •

restringere: areštrégne ricamare: recamá’, arracamá’ ricamo: frəsaturə rimboccare (es. la mantera o la gonna): azzená saggina per il busto: scupìjjə salsicciotti del busto per sostenere la gonna: mmaštiellə salvatacco: pədagnə, pederə, pèdelə sarto: sartórə sbiego in seta: trenéttə sgualcire un panno o un abbigliamento: azzevellijá, ammutenì, accingì, azzu-

• • • • • • • • • • bino) • • • • • • • • • • •

Capi d’abbiglimento abbottonare: abbuttunà abbigliamento abbondante: cambutə abbigliamento che stringe: sijillà’ abbigliamento civile: cuštumə abbigliamento elegante bianco: sciamanto abbigliamento fastoso: scialosə babbuccia scollata con dietro un po’ alto e linguetta: papusce berretta da notte: bérrettə berretto di lana: bərtollə (con codino), pərulì, scuppulìcchiə, scùoffəla (da bam-

smerlare: spezzelá’ soletta della calza: pedalinə, petalinə sparato di camicia: pettelïatə stringa per scarpe in pelle: crijóle, crïùolə, arléjə stringa: laccə, zagarellə stringere il busto: azzullá’ tagliare di sbiego: sgadïá’ tasca dei pantaloni: scarscèllə, scarzèllə tasca interna: marïólə, catanə, catapanə, baliscə, baróscia tasca: saccòccə, cařafòccia (apertura laterale nella matéra per ficcarvi le taschini del pantalone: fondi togliere l’imbastitura: šchimà’ toppa interna: furzajje bavero: bàverə

berretto: còppələ, scuzzéttə biancheria: biangarìjə, bìəghə (in canestro per dote) busto: vùstə, buštə calza: cavezétte, la costura delle (lu péndə) calzerotti: cuturnə (scarpette da notte), scarfùolə camicia: cáməcə, camiçə, cammişə camiciola (da bambino): vesteccìolə camiciotto di lino da lavoro: sàrica cappello: cappèllə, zimbrillə cappuccio da saccone: scarparuccə casacca da lavoro in rigatino: camiċiotte, sciucchə


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cercine: merlàcchie, sparə chiodo da scarpa: céndrellə, cimbrónə, sularə cintura in nastro tessuto: azzaccheřatořə, toterə cintura: céndə, štraccalə, cégnə cinturino posteriore dei calzoni: serra cinturino: céndrinə cioce: chióchiə cocche: pizzə coda pendente di indumento: péttelə collo della scarpa: accròllə, accòllə copricapo a turbante: ngappatuřə, tócchə coprirsi col mantello avvolgendone il lembo: accappà, accapputtarse corpetto: baschimə, tambanèllə (con baschina) cravatta: scòllə, strapizzə cuffia: scùffə, cupécchiə donna ben vestita (di): ndətarata donna di aspetto volgare: pacchianə donna in sottana bianca: sguarnellatə fascia da infante: fasciatórə, fasciatùrə, sparnə fascia per la vita: céntə fazzoletto a capo: fazzólə, fazzuléttə,, fazzoletto da collo: štruzzinə, scialléttə fiocco: nnòcchə, ciòffə, zòllə giacchetta: giacchéttə ( a nu pettə, a ddu pettə) giubba: sàrechə, sciassə giubbone di pecora dei pastori: pellecìonə giubbotto: jupponə gonna di accia e cotone: guarnellə gonnella: vónnə, baschètta grembiule (più festivo): mandérə, nandasinə grembiule da casa: parnanżə, zinalə, grembiule da lavorante: mandégnələ, manderetónnə grembiule da pastore: grašatarə gualdrappa: mandə, valətrappə guanto: vandə imbacuccarsi: abburretà’, abburuhuà’ lembo di camicia che pende: pannèllə manica: mánechə mantellina da donna: capparéllə, pellegrinə, bàverə, cardinalə (se lunga) mantello: cappə, cappòtte, tabbarrə, sciassə mantile: mandilə panciotto: sciambrecchinə, còrpabbòttə, péndřə pantaloni (-ini): càvəzə, pantalunə, cavisuccə parte superiore calzoni (cintura): fianchettə scialle grande invernale: fazzulettónə scialle: mandrichhiə scialle inamidato: štrapizzə sciatto nel vestire: cialónə soggolo: mòrgə, abbrəhedatorə soprabito: mandəmandò

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stringere di scarpe: apprettà’ tabarro con mantellina: punchə tabarro: tabbarre tonaca: suttanə uniforme: mundurə velo: vélə zucchetto da prete: suledée

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accessori bisaccia: vesaccə borsa: bórzə, bulgə, scarcéllə, vərzilə branca delle scarpe: tésə cercine: merlàcchie, sparə chiodo da scarpa: céndrellə, cimbrónə, sularə nastro reggicalze: żàgajjə fasciapiede:cutrellə fiosso: fámecə gambali da pastore: štrangunéřə ghette da lavoro, gambali: scarafaròzzə, štrangulanìəllə ghette da pastore: zàinə lacci del busti: laccə, zòlla scarpe a pantofola: papòšcə, papéttə, papórə, šcafarózzi, sciarpèllə pettine da capo: pettenéssə sacca da viaggio: bùlghə sacca per le provviste: giarnòlə sacco da mietitore: mucìjjə sacco rinforzato: saccutə sandali: calandrə, calandrèllə, sandalo da donna: pachiòcchiərə scarpa: scarpə scarpe di pezza: sciànghəle, sciarpéllə soletta: chiandèlle, piandèllə stivale: fələbozzə stivaletto: burdacchì suola di diversi strati: ciarlùottə suola: sólə tacco: tacche tascapane: catanə zaino:bəscòccə, ziéne (dei pecorari) zoccoli: paciòcchə, petitə, patitə gioielli collana a grandi sfere: cannacca, collana a grani: vrénnə, canjjə, accannatòra, collana con ciondolo: bròšcə collana: cullanə collanina d’oro: scannàccia fermaglio: fermajjə gioiello a ciondolo: pendantiffə gioiello: brəllòcchə incastonare: mbədiccià

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medaglietta: medajólə oro: órə corallo: cràjjə avorio: avòlïə medaglione: ‘ppennácchie, pəndantiffə, brəlòcchə orecchini: reċċhinə orecchino a cerchio con oscilla: sciacquajjə orecchino a cerchio: circənə, ciuccaijə orecchino a pendenti: circèllə orecchino pendente (alla pompeiana): pumbəliana orecchino tondo con gemma centrale: bettunə presentosa: prəsendènżə, prəsəndósə spilla/o: spingùla spillone da capo: rəspinə Filati e tessuti: goraio: acàrolə accia: àccə aggomitolare: aggammattà’ aggrovigliarsi del filo troppo torto: agreppelarsə arrotolare il panno: arrullá, arruddù, arrucelà’ arrotolare sul subbio: arencantà’ avvolgere sul cannello: ‘ndruvá’ bandolo: capefilə batuffolo: tòppə canapa raffinata: pìccio cardare: scardá cencio: céngə, petaccə, cirmu cilindretto di lana che poi si fila: péttelə cimosa: cəmossə, lènżə conocchia: cunòcchiə, rócco contrassegno tessuto: marchiòlə coperta battesimale in broccato: ndrappa coperta nuziale: prəsəndósə coperta: cóldrə, šchiavinə, cròïlə copertina: mandarèllə corredo: parulə cotonina: télettə filare male: attalluzzà’ filatoio: filarèllə filo di canapa: fəlatillə filo di lana sottile: pémbïə filo di scozia: scòttə filo per legare la matassa: calamištrə filo sottilissimo: pile di madamme fiocco di lana da filare: péttelə frangia(o riccioli): cìerrə, cirrajə (della coperta), frənżélla, fimbriə fusaiolo: vertécchiə, vurtécchiə gomitolo: jòmmerə, cammattə, jammatta, jammòttə gruppo di cilindri di lana legati tra loro: pésə gualcare: valcà, valecà, zombà’ gualchiera: vàlechə

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• guarnizione: garnizïónə • gugliata: caparéllə • indurirsi del filato:‘ndumendirse • infeltrire: ‘ndavelá’, ‘ngurejì • lana naturale scura: izzə lana per materassi: lazzese • lembo di ordito non tessuto: pénerə, pèdenə, pétenə • licci: liccə • matassina: cròcchilə • mezzalana: lanéttə • ordito: štamə paiola, • fili di ordito legati assieme: marpïóle • panno circasso: gargassə • panno da capo: fasciatréllə, accappatórə, mandrécchiə • panno da spolvero: mappine • panno di lana o lino: pannə • panno di lana per abiti: paccottə • panno di lana per sacchi, conciato con olio: cjelmə, céləmə • panno grossolano melange: réscia, rascia • panno in lana o seta con pelo, velluto: félbə • panno leggero o “molle”, o scadente: cialandrə, celégnə, scatarchiə, scatarcə, šcəcavòlə • panno liso: sfenarsə • panno per passare la colata: scenneraturo • panno verdescuro per mantelli: cerritə • pezzo di panno: mócciolu • raso: rasə • robbia: rùbbïe, roja • rocca: cunócchie, • roccata: ngunucchiunə • rossastro: mbò’róscə • rotolo di panno: ròcələ, tùocchiə ruvido (di panno): grùvia • scotano: scòtənə • seta: sétə • spola o navetta: gruva • stoffa aggiunta: sfəlżéttə • stoffa damascata: damasche • stoppa: tuppə, tumintə • stoppa raffinata: jivojo • straccio: petaccə, štraccə • striscia di panno: zaccařatóřa, zərlénghə • strofinaccio: mandricchiə • subbio: sùbbïe • svolgere un panno: ammucciolà’ • taffetà: taffatà • tela cerata:’ngeratə • tela in canapa: accə • tela di canapa per sacchi: schjettə • tela di juta: casəratórə, zàləchə • tela fine di cotone: cambricchə, cambricchiə


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tela grossolana: filependdènde, terzone tela rada: tele racchə t ela spigata: ndərliccə tela tagliata per lungo: zerlénghe tela: télə telo di traliccio largo e lungo: tannə telo di traliccio: tərlicə telo grossolano per grano: tènnə telo ingiallito: accarrito tessuto che si arrotola man mano sul subbio: rəngandə tessuto di lana leggera per coperte: lundrine tingere: tégne’ tintura casalinga (di scotano): šchiappə trama: tramə trina: merlétte altri argento: argènte, arïèntə breve: brhevə, gréchə, abbetinə coda di capelli o cricchia: mallònə coltello a scatto: mullettonə coltello da tasca con punta mozza: muzzéttə cuoio roso: bulgrə fagotto: mappatə fasciare il neonato: arembascià’ lucido da scarpe: ammuštéra parrucca: pelùcchə ranno: culate, luscìjə, lašcïé sbiancare: ‘bianghì, nghəfanà’ scarmigliato: accifregnatə scriminatura: šcrimə tappeto fatto con strisce di stoffa: cəlógə tarma: grégnə tatuaggio: mblémə uncinetto: ċċhiapparèlle, cruçé

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Le schede degli abiti Trattandosi di un volume con scopi divulgativi non si è seguito alla lettera lo schema proposta dalle schede BDM, ma una versione semplificata che dia per immagine molti dettagli che non possono essere riportati nella descrizione. Tali schede vengono aumentate di numero fintanto ché nuovi abiti vengono rintracciati, restaurati e divulgati mediante copie filologiche. Vengono descritti solo i capi presenti originali o copiati da originali completi o frammentati. Le schede rispecchiano gli abiti esposti nella mostra “il filo che c’è”, tuttavia alcune vestiture possono subire piccoli cambi per esigenze di allestimento o al fine di dare un’immagine completa della spettro di variabilità originale dell’abito stesso. In genere si è cercato di inserire una descrizione del contesto in cui l’abito veniva usato.


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Scheda 1 Tipo di abito: Honna accutuliate Vestitura: quotidiana Provenienza: Rapino Inquadramento storico: intorno al 1920-30 Commenti: copia filologica da originale completo Camicia: in cotone con colletto e piccoli ricami Sottana: Lino a righe con balza Gonna: in lana gualcata, h: l: numero di panni: Fazzoletto: fazzólə in mezza lana con disegni cachemire Scialle: Mantera: in mezzalana a righe verticali Panciotto: Giacca: Polacca morbida con ricamo in cordoncino di seta punto croce

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Tavola 2. - Abiti tradizionali in uso quotidiano in Abruzzo: A Cocullo 2007, B Lanciano 2008, C San Vito Chietino 2010. Testimoni: D Anna Gioni Villa Badessa, E Giovina detta Ginetta Candoloro Chieti. Abiti indossati in eventi folkloristici o tradizionali: H e F associazioni Camminando Insieme e Lu Ramajette di Chieti.

Tavola 3 - tessuti reperiti in provincia di Chieti: A saja in lana; B tela in lana e quadrigliè con colore in trama e ordito; C rigato in lino; D saja in tre colori, ordito violetto; E-F tele e tele quadrigliè in mezzalana (ordito in lino o cotone); G broccatello in seta; H Taffetà damascato; I cotone stampato ramage.

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Tavola 4 - guarnizioni abiti della provincia di Chieti. A Pedana di gonna in lana con nastrini di velluto nero e “bacchetta�; B Applicazione di rasatello di cotone su balza messa di sbieco; C motivo zig-zag di fettuccia sopra la balza di un guarnello; D applicazione di pizzo su guarnello; E pizzo, cordoncino, asole e bottoni rivestiti su polacca in damasco di seta motivi cachemire; F bottoni gioiello in vetro azzurro su polacca; G modo di fermare le stecche nelle polacche; H modo di cucire il pizzo all’uncinetto alla tela di una camicia.

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Tavola 5 - biancheria e bustini provenienza Bucchianico, Guardiagrele, Chieti. A mutande femminili in cotone; B camicia semplice in accia; C camicia fine in bisso con inserti e nastri; D altra in accia camicia con ricami; E bustino e camicia con ricami ed iniziali; F bustino; G copri busto e sottanello con decorazione in pizzo; H-I sottanello in cotone.

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Tavola 6 - guarnelli provenienza, Guardiagrele, Bucchianico, Rapino, Pretoro, Chieti. A-B fronte e retro di guarnello rigato in saja di lino tricolore, alta balza messa di sbieco, e decorazioni in fettuccia di cotone; C-D fronte e retrao di guarnello in lino a quadrigliè, balza di sbieco e applicazioni in pizzo; E-F fronte e retro di guarnello in lino a quadrigliè, balza diritta e applicazioni in fettuccia; G retro guarnello rigato a doppia balza; H retro di guarnello in lino senza balza e con applicazione di sbieco a contrasto.

tavola 7 - gonne da Guardiagrele, Bucchianico, Rapino, Pretoro, Chieti: AB fronte e retro di gonna in rigatino di mezzalana con decorazioni a zig-zag di fettuccia di cotone; C-D fronte e retro di gonna in lana con pedana e applicazioni in rasatello; E-F fronte e retro di gonna in mezza lana rigata con taglio fantasia bordato di nastrino di velluto; G-H fronte e retro di gonna da lutto in lana con decorazioni in nastrino di velluto.

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Tavola 8 - polacche Guardiagrele, Francavilla, Rapino, Pretoro, Chieti: A-B fronte e retro di polacca in tela di lana con applicazioni in vellutino nero di cotone; C-D fronte e retro di polacca in panno di lana con sparato e colletto di velluto; E-F fronte e retro di polacca a taglio “morbido� con intarsi di lapen e bottoni fantasia in vetro; G fronte di polacca in cotone operato tagliata in vita, steccata con lavorazione finemente pieghettata; H fronte di polacca di damasco di seta, steccata, guarnizioni in ciniglia.

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Tavola 9 - capi maschili provenienza Guradigrele, Chieti: A mutande in saja rossa; B mutande in cotone con merletto; C-D panciotto in tela jeans e rigatino di cotone.

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Tavola 10 - gioielli A verginella di Rapino; B Orecchini a pompejana (con pendente) e sciac quaglie (con oscilla); C saliscendi; D nodo d’amore; E broscia; F cuore di San Gabriele; G amuleti, H laccio con medaglia; (collezione F. Stoppa).

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Bibliografia AA.VV. (1942), Costumi di vari paesi tra cui Pettorano. L’Aquila, L’Aquila e provincia. Ente Provinciale per il Turismo, L’Aquila. Accardo V., Cercone F. (1982), Costumi popolari d’Abruzzo, Gallo Cedrone (ed.), L’Aquila. Accardo V., Cercone F., Marcovecchio A., Mattiocco E., Petrucci Cottini V., Silvestrini E., Spedicato E. (1994), Costumi diversi di alcune popolazioni de’ reali domini di qua del Faro, Tipografia La Moderna, Sulmona. Bielli D. (1930), Vocabolario abruzzese, N. de Arcangelis (ed.), Casalbordino, 420 pp. Briccola G. (2005), Viaggio nella civiltà contadina. L’abbigliamento, Annulli, Latera. Canziani E. (1928), Through the Appennines and the lands of the Abruzzi: landscape and peasant life described and drawn, Cambridge (ed.), London. Ciccarelli A. (1920), Vita d’Abruzzo, G. Carabba (ed.), Lanciano. Cilano R. e AA.VV (2008), Per erbe e per tinture nel Parco del Gran Sasso e Monti della Laga. Collana Quaderni di Tintura Naturale, Associazione Tintura Naturale Maria Elda Salice, quaderno n. 4, Milano. Colaiacovo M., (1959), “Il vestiario nella Valle Peligna”. In Atti del VII Congresso Nazionale delle Tradizioni Popolari, Chieti, 4-8 Settembre, Olschki, Firenze. De Panfilis E. (1992), Pettorano: immagine e memoria storica di un paese, Edigrafital, Sulmona. De Rosa P.A., Spedicato Iengo E., Trastulli P.E. (1985), Il costume popolare abruzzese tra’700 e ‘800: acquerelli e tempere. Catalogo della Mostra, Pinacoteca C. Barbella, M. Solfanelli (ed.), Chieti. De Stephanis P. (1833), Sulmona, Pettorano, Roccavalleoscura, Campo di Giove, Cansano. In Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato, Napoli. Dorotea L. (1853), Castel di Sangro. In Cirelli F. (a cura di), Il regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, tipi G. Nobile., VI, 2, Napoli. Fabrizi A. (1891), Le cento città d’Italia. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Chieti, sabato 25 aprile. Fagiolo M., Marini M. (1983), Bartolomeo Pinelli (1781-1835) e il suo tempo. Catalogo della mostra tenuta a Roma nel 1983. Roma, Rondanini. Finamore G. (1893), Vocabolario dell’uso abruzzese, A. Forni (ed.), Città di Castello. Gandolfi A. (2005), Amuleti, Ornamenti Magici d’Abruzzo, Tracce, Pescara. Gandolfi A., Mattiocco E. (1996), Ori e argenti d’Abruzzo dal Medioevo al XX secolo, Carsa (ed.), Pescara. Gandolfi, Adriana Mattiocco Ezio. Ori e argenti d’Abruzzodal Medioevo al XX secolo, Edizioni Carsa, Pescara, 1996. Giammarco E. (1985), LEA Lessico etimologico abruzzese, DAM dizionario abruzzese e molisano. Ateneo (ed.),V, Roma. Howe M., Frederick N. (2002), Cronaca di viaggio tra i monti d’Abruzzo nell’autunno del 1898, Cerchio. Polla, Tascabili d’Abruzzo, 136, 120. Mariani V. (1948), Bartolomeo Pinelli. Roma, Olympus. Masdea M.C, Perrotti A. C. (1991), Napoli, Firenze e ritorno. Costumi popolari del Regno di Napoli nelle collezioni Borboniche e Lorenesi. Guida (ed.), Napoli, 229 pp. Monaco P. (1980), Pettorano sul Gizio nella corona radiosa dei Cantelmo: tradi-

Gli abiti Tradizionali in Abruzzo Citeriore

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zioni, usanze, costumi, poesia popolare, turismo, attività, professioni, Tip. La Moderna, Sulmona. Natali A., Sàndron R. (1926), Dai monti, al mare d’Abruzzo: Almanacco approvato dal Ministero della pubblica istruzione, Palermo. Pacini R. (1935), Bartolomeo Pinelli e la Roma del tempo suo, Milano, fratelli Treves (ed.). Raggi O. (1835), Cenni intorno alla vita e alle opere di Bartolomeo Pinelli, Roma, Tipografia Salvucci. Rossetti B. (1981), La Roma di Bartolomeo Pinelli: una città e il suo popolo attraverso feste, misteri, ambienti e personaggi caratteristici nelle più belle incisioni del pittor de Trastevere. Roma, Newton Compton. Sebesta G.. Il costume di Scanno, Roma 1993. Silvestri S. (2007), Fibre, tessuti, tintura, abbigliamento: ricerca scientifico-etnografica con riferimenti particolari al paese di Pacentro. Universita degli Studi G.d’Annunzio, C.d.L. Operatore dei Beni Culturali. Simeoni G. (1956), “Costumi d’Abruzzo (Pacentro, Alfedena, Cansano, Pettorano)”, in L’Ora d’Abruzzo e Molise. Stoppa F. (2009), “L’abbigliamento tradizionale abruzzese e il suo uso nel repertorio etnocoreutico”. In Atti del Congresso Corpi Danzanti (Di Tondo O., ed.) AIRDanza, Associazione G. di Lecce. Stoppa, F. Lupo M.P.. (2009),L’abbigliamento tradizionale di Pettorano sul Gizio. Collana il filo che c’è, Edizioni Nobus. Stoppa, F. (2008). L’abbigliamento tradizionale abruzzese e il suo uso nel repertorio etnocoreutico. In Ornella Di Tondo, Immacolata Giannuzzi, e Sergio Torsello, (a cura di), Corpi danzanti. Culture, tradizioni, identità, Atti delle Giornate di studio. Ed. Besa, Nardò, 48, 96-107 Stoppa, F., (2010). Rievocazione e tradizione nella festa dei banderesi di Bucchainico. Rivista Abruzzese, LXIII, 1, 51-57. Tanturri T. (1959), “Le raccolte abruzzesi del Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni popolari”. In Atti del VII Congresso nazionale delle tradizioni popolari, Chieti, 4-8 settembre 1957, Olschki, Firenze. Toschi P. (1963), Invito al folklore italiano: le regioni e le feste, Studium (ed.), Roma, pp 94 e 107. Sanga G., L’abbigliamento popolare italiano. In La ricerca folk lorica, Grifo Ed. Milano, 14, 160pp Ringraziamenti Si ringraziano la Fondazione Carichieti che ha generosamente finanziato la stampa di questo volume. Questo lavoro non avrebbe potuto essere senza la capo sarta Anna Iezzi per la passione e la cura dei dettagli, la curatrice Mariangela Schiazza per la sua efficienza nel risolvere mille problemi, la mia coautrice Maria Paola Lupo per tutto il tempo passato negli archivi, Maria Antonietta Capotosto per la consulenza sui ricami, mia mogli Giusy Lavecchia per la pazienza e mio figlio Fiorenzo per rallegrarci con la Duu Botte. Tanti, impossibile citarli tutti ma a tutti va la nostra riconoscenza, i testimoni che ci hanno donato un frammento piccolo o grande di prezioso sapere: Dora Berarducci, Donatina Berarducci, Margherita Bonitatibus, Rosa Cavallo, Ginetta Candeloro, Oreste Federico, Maria Grazia Ciccolella, Giorgio Ciccolella, Michele Ciccolella,


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Francesco Stoppa / Maria Paola Lupo

Enzo di Meo, Maria D’Alesio, Fiorina d’onofrio, Esmeralda De Nardis, Anna Gioni, Adorino Graziani, Rita Lave, Filomena Monaco (Zia Memena), Marco Notarmizi, Maria Orsini, Simona Ruano, Loreta Silano, Margherita Schiappa, Donata Suffoletta e Mariella Vitto Massei, gli amici di Touta Marouca di Rapino e quelli di Camminando Insieme e Lu Ramejette di Chieti, i colori del Territorio di Spoltore e tanti tanti altri. Si ringraziano per la consultazione del materiale in loro possesso il Museo delle Genti d’Abruzzo, nella persona del Dr. Ermanno de Pompeiis, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, nelle persone dei Dr. Stefania Massari, il Museo del Costume di Sulmona, nelle persone del Dr. Colaprete e Signor La Porta, e Patrizia del B&B Casa Milà di Pretoro Non posso dimenticare le mie amiche Giulia Mafai e Marina Sciarelli che hanno tanto contribuito alla mia formazione nel campo del settore specifico dell’abbigliamento storico, e Adriana Gandolfi che mi ha avviato e fatto comprendere l’importanza dello studio filologico finalizzato al reimpianto della tradizione. Francesco Stoppa


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