Schede Abiti

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Schede Abiti Tradizionali



Abito di Rapino e Abito da lutto da Gessopalena Provenienza ed uso: Rapino, abito quotidiano. La gonna è in lana gualcata tinta con coloranti naturali e tessuta in casa abbinata a un giacchino con semplice ricamo a punto erba, entrambi hanno guarnizioni in velluto. Fazzolo in mezza lana. L’abito vedovile ha la gonna guarnita con nastrini in velluto e giacchino in lana bouclé con guarnizioni di velluto nero. Mantera e fazzolo sono in satin nero. Entrambe intorno al 1920. Fogge con bluse morbide hanno soppiantato i bustini e le polacche steccate a partire dalla prima guerra mondiale, epoca in cui ancora la popolazione abruzzese indossava l’abito tradizionale spesso di origine borbonica e di derivazione rinascimentale. Nel XX secolo, sebbene la lana, il lino e la canapa continuino ad essere largamente impiegati cominciano ad essere frequenti capi e interi abiti in seta. Il cotone importato tende a sostituire tutte le altre fibre vegetali che prima erano prodotte localmente. La tessitura e la cucitura avviene ancora in casa cosi come i pochi ricami presenti. Il velluto viene acquistato al mercato insieme ai pizzi e alle stoffe operate per gli abiti festivi e l’uncinetto tende a soppiantare le precedenti tecniche del macramè e del tombolo. La foggia delle gonne tende a ridurre il numero dei panni usati (da 10 a 6-8) e cosi anche il sottostante guarnello (da 6 panni a 4) viene semplificato e ridotto. La mantera tende a diminuire di grandezza e introduce tasche esterne, le fogge festive si arricchiscono di intarsi e merletti. Sul capo il solito fazzolo in mezzalana (quotidiano) o damasco di seta (festivo) ed ai piedi ciabatte in pelle con zeppa. L’abito vedovile, camicia a parte, è completamente nero, compreso il guarnello. Ma dopo alcuni anni le vedove potevano indossare una gonna grigio scura con decorazioni nere. In passato, su-

bito dopo la morte del marito, la vedova immergeva i panni nella schiappa nera per tingerli e cosi tutti i parenti prossimi. Nel XX secolo la tintura è ormai quella all’anilina in grado di produrre neri assoluti e stabili. Una giacchina in bouclé con scollo chiuso da un pannello di velluto e il fazzoletto, smerlato a barchette, strettamente annodato intorno al collo impartiscono severità ed eleganza. Una spilla di granato e gli orecchini da lutto sono l’unico lusso consentito. Gli orecchini da lutto sono in onice nero o anche d’impasto (foto). D’inverno un grande scialle in bouclé scuro con lunghe frange completa quest’abito dato che per una vedova era disdicevole sollevare la gonna in testa per ripararsi dalla pioggia e dal freddo mostrando cosi il sottostante guarnello.



Abito da pellegrino, da pastore e da brigante Provenienza e uso: provincia di Chieti; tenute da strada e da lavoro diffuse fino alla fine del 1800. I capi peculiari sono quelli che derivano dalla funzione pratica o devozionale: bisaccia o catana per contenere provviste, cappa, coperte per la notte, in genere tutto in lana gualcata. Capi atti a tenere lontano spine e parassiti (copri abiti: pellecìonə; fasce e ghette: štrangunéřə; grembiuli: grašatarə), bastoni di varia foggia spesso intagliati, fischietti da richiamo, fasce da piede, scarponi, chiochie e ombrello o mantella. Il pellegrino indossa una cappa devozionale (in questo caso a San Rocco), fiocchi con i colori del Santo, orecchini e ventola devozionali, e la conchiglia del pecten, spesso realizzata in metallo. Il cappello può essere guarnito di piume, bacche e fiori secchi e portare santini, medagliette protettive etc. La tenuta da brigante in epoca borbonica si di-

stingue per alcuni segni di “guapperia” ovvero abilità nel compiere azioni positive o anche negative, la fascia in evidenza sopra il panciotto, colori più squillanti, nastro al cappello e molte armi in vista. Spesso la durezza delle condizioni di vita, l’impossibilità di ottenere giustizia e un esagerato senso dell’onore o anche solo la renitenza alla leva, sentita come un obbligo insopportabile, portavano gli individui ad unirsi ai “briganti”. Dice il proverbio “meglio dormire con la testa nel cespuglio che con il piede nel ceppo”, questo spiega perché anche alcune donne diventassero briganti. Nel complesso l’abbigliamento da “lavoro” non solo riflette la funzione che i maschi avevano nella società ma anche esprime i simboli del loro codice morale: la devozione, la capacità di bastare a se stessi, il coraggio.

Michelina Di Cesare - Brigantessa, anno 1860-1870 - in una illustrazione e foto d’epoca.



Abito da sposa e abito della riuscita Provenienza ed uso: Chieti, Guardiagrele, Celano. Abito nuziale in taffettà damascato verdino e riuscita nero e marrone. Formati da gonna con ampio strascico e giacchino mordido o steccato, con pizzi e veli in tulle ricamato, 1890-1910. La scelta del partner avveniva secondo consuetudini da cui difficilmente si prescindeva, continuava con la richiesta ufficiale fatta dai genitori dello sposo ai consuoceri, con il fidanzamento, durante il quale il fidanzato “piantava il ceppo”. Il canto della partenza in realtà non era una serenata ma una forma consolatoria o istruttiva fornita dalla collettività alla sposa in procinto di affrontare una famiglia ignota. Il distacco della sposa dalla casa paterna avveniva con il canto lamentoso della madre della sposa (la piagnareccia) cui seguiva il trasporto della dote nella casa dello sposo. Al complimento (rinfresco) dello sposo si offrivano mostaccioli e rosoli abbinati, e bianco alla menta con i confetti. Lo sposo regalava una spilla floreale, o nodo d’amore di argento o d’oro alla sposa. “Ti offro questo fiore in pegno del mio amore”. La suocera regalava alla sposa “le forbicine” e/o la presentosa. Il corteo nuziale detto il catenaccio, veniva aperto dal padre con la sposa, lo sposo con la suocera, poi tutti gli altri. Il rito nuziale culminava con lo svelamento, l’incoronazione e il rito della coperta. La ciambella o catenaccio era il giro del paese in corteo con i tamburi tradizionali. Durante questo avveniva “il contrasto” da parte dei parenti della sposa col nastro azzurro, in cui avveniva il

pagamento simbolico della sposa. La sciarra era una pioggia di confetti, fiori e soldini durante la quale si potevano fare gli scoppi. Arrivata finalmente nella nuova casa avveniva la benedizione della sposa col pane e l’offerta di rosolio che sancivano il passaggio definitivo allo status di coniugati. Seguiva il pranzo, con la penessella e i versi di lode, la declamazione delle virtù della sposa e brindisi cantati. Le danze matrimoniali propiziatorie erano quelle della zinna coperta e del laccio d’amore. Dopo il pranzo si ballava la quadriglia, la saltarelle e si facevano canti apotropaici (spesso osceni). Per quello che riguarda l’abito, in genere ci si accontentava di aggiungere un velo in tulle ricamato sull’abito festivo, completo di tutto l’oro possibile, e non ci si sposava in bianco. Le spose che potevano permetterselo alla fine dell’ottocento provvedevano sia a un abito da cerimonia e ad un altro, spesso nero, da indossare in occasione della “riuscita” otto giorni dopo il matrimonio, per andare alla prima messa con la suocera.



Abito femminile di Bucchianico Provenienza ed uso: Bucchianico, festivo. Camicia con maniche a ¾ svasata con collo tondo e piccoli ricami, busto in tela allacciato dietro e agganciato avanti con guarnizione di pizzo e fiocchi. Guarnello in tela di cotone a righe con ampia balza a piegoline e motivo decorativo a rombi. Gonna in lana melange con strascichetto, mantera in lino pintellato (stampato a mano), pigmenti vegetali e minerali. Scialle in lanetta nera con rose e frange. Velo in pizzo. Dal 1880 al 1915 circa. L’abito di bucchianico appartiene alla foggia dell’area teatina mentre differisce notevolmente dall’abito frentano. Sono state effettuate diverse interviste e reperiti numerosi capi di abbigliamento di proprietà di persone nate tra il 1870 e il 1900. Molti indumenti sono stati rimaneggiati per essere usati nella festa dei banderesi per fare l’abito da “pacchianella”. Non c’è nessuna giustificazione perché gli abitanti di Bucchianico debbano considerare l’abito di pacchianella come il loro “abito tradizionale” o metterlo in relazione con la festa dei banderesi. L’abito indossato fino alla prima guerra mondiale aveva già sostituito il precedente abito borbonico. Esso è formato da un busto rigido, ampio e abbastanza alto con intarsi triangolati sotto la coppa del seno caratterizzato da un accenno di punta anteriore e ampie scavature sui fianchi e sotto le ascelle. Sono ricorrenti gli abbinamenti di colore celeste-rosaruggine-salmone-beige in genere con gli inserti più scuri. Nei guarnelli e nelle gonne domina il rigato a fondo blu violaceo o giallo-arancione, con righe blu-giallo-rosso sottili e raggruppate. Tipica la presenza di motivi a losanghe in nastro o passamaneria, sopra la balza a pieghette dei guarnelli che sono in cotone o lino. Le gonne sono di colore scuro in genere a tinta unita o melangiata, in lana o mezza lana, con ampio

“cutulo”, strascico e più corte avanti, in genere con piccoli giri di nastro o bacchette a riporto. Le mantere sono ampie con pedane decorate simili ai guarnelli, sono state trovate però parecchie mantere in cotone o lino stampate a ramage o piccoli motivi floreali. Fazzoli e strapizzi a motivi floreali o damascati completano l’abito che era guarnito, specie sul busto da fiocchi in seta che servivano a legare anche le maniche staccate. Ci sono numerosi esempi di calze realizzate in cotone o lana a vivaci colori. Le calzature erano i soliti zoccoli, le chiochie e scarpe in cuoio. E’ a questa foggia che fanno riferimento alcuni degli abiti femminili ritrovati attraverso la ricerca e grazie alla collaborazione di Filomena e Anna di Nardo, Aurora d’Angelo in Cocco, Donato Antonio e Simona Ruano, Grazia Bascelli.



Abito femminile di Villa Badessa Veshja femërore tradicionale e Badhisësë Provenienza e uso: Villa Badessa, Rosciano; abito arbëreshë/epirico femminile circa 1750. Composizione: camicia in accia (ljnja), bordi decorati a punto turco con motivi fitomorfi e croci greche; bolerino a mezza manica (xhùbë) e cappotto smanicato in lana gualcata blu notte o marrone, con rifiniture in canottiglia argento e profili rosso e gialli; grembiule (fyta) anteriore e postriore ricamato a punto turco; fusciacca e fazzoletto in seta, bottoni acniformi in argento. L’abito femminile di Villa Badessa è un’abito epirico della metà del settecento diffuso tra Durazzo e Santi Quaranta. Compare nella collezione della Galerie Royale de Costumes pubblicato tra il 1842 e il 1848 di Eugène Ginain e Benjamin Roubaud. Al momento non abbiamo alcuna notizia di originali maschili in Abruzzo, mentre si conoscono alcuni originali femminili di fine 1800 ma non tutti completi ed integrati nel corso del tempo. La camicia (ljnja) è di canapa o lino, lunga fino ai piedi e svasata in fondo con ampie maniche e scollo a V. Il bordo delle maniche della camicia ha un disegno eseguito intermente a punto sbieco, fitomorfico, albero della vita, e caratteri latini mentre quello del collo interamente a punto croce con croci greche; un grembiale anteriore (fyta), in accia, e uno posteriore in ginestra e lana ricamati a punto turco, eseguito per metà a punto croce e per metà a punto sbieco slavo. Tinture naturali (indaco, cocciniglia, robbia, ginestra). Il giacchino (xhùbë) é tagliato in vita in panno di lana color testa di moro; busto in un pezzo con maniche a riporto con cugno triangolare e manica risvoltata con fodera in seta gialla guarnita da tre cappiole e tre nappette. Tutta la giacca è profilata con nastrino rosso o gallone argentato; sono presenti tutto intorno all’apertura un gallone in seta oro e crema guarnito da 5 cappiole rivolte verso l’apertura con nappine rosse in filo di seta e 5 bottoni in argento per lato. Sono presenti altre nappine in numero di due sulla spalle e cap-

pioli. Pistagnina in castorino colore cremisi; con gallone in tela in argento e rifiniture in cordoncino di cotone rosso. Il cappotto smanicato in lana gualcata blu notte; realizzato in tre pannelli uno sul retro e due sul fronte guarnito con gallone in argento; collo a pistagnina tessuto cremisi lana gualcata. Le cuciture sono rifinite inserendo cordoncino in cotone rosso, sui due fianchi motivo fitomorfo in cordoncino, canottiglia e ricamo. La spallina è triangolare per allaccio manica sempre in lana rossa gualcata e cordoncino rosso; decorata con gallone in argento, nappine e cappiole; riproposta anche sulla spalla. I bottoni acniformi in numero di 6 per lato. Completavano calzettoni in lana colorati, fusciacca in seta ricamata a righe, fazzoletto con nappine in seta cremisi lavorato a penere (lacune di trama). Orecchini in argento corniola e corallo, croce greca in argento al collo.



I costumi del Sant’Antonio Provenienza e uso: provincia di Chieti; “sacra” rappresentazione e canto di questua effettuato il 16 gennaio. Composizione: Sant’ Antonio e 2 rumitё (eremiti), tonache ricavata da vecchie coperte, bastoni e cordoni, bisacce, zucche e attrezzi da viandanti. Per i ciucə (diavoli) materiali di recupero, calzamaglie, pelli animali e fibre vegetali, forche in legno, abiti smessi, campanacci, catene, fischietti, frusta, peperoncini, cinturoni in cuoio, scarponi o stivali. Angelo, capello conico con motivo a spirale, ali, tunica a foggia di peplo in cotone o raso, spada e mantello. La settimana di Sant’Antonio è una delle più importanti e complesse del ciclo calendariale e oltre ai vari riti magico-religiosi comprende anche una sacra rappresentazione. Il programma ideale completo comprende corteo processionale dei pani, messa con benedizione dei pani, benedizione degli animali, pasto collettivo al callaro, fuochi, sacra rappresentazione e questua. È eseguito da cumbagniё che si riuniscono ogni anno. I personaggi sono: Sant’Antonio, 2 “romiti”, 4 diavoli (due rossi e due neri, uno vestito da “donzella”, più piccoli diavoletti) e l’Arcangelo; possono aggiungersi pastori e pecore; è presente in genere un suonatore di du bbotte (organetto diatonico) e qualche percussionista. Nelle forme semplici sono gli stessi personaggi a cantare, in altre un coro. Si esegue in forma itinerante presso contrade o famiglie che si occupano di richiamare parenti dal circondario e offrono il tradizionale cumplimentə. Sant’Antonio protegge i tosatori, i guantai, i fabbricanti di spazzole e pennelli, i macellai e i salumieri, ma anche i campanari. La campana, simbolo di rigenerazione e fecondazione animale, sta alla base del significato simbolico della festa come si deduce anche dal detto: “Sand’Antonjə, pijatə lu vécchjə e damme lu nnove“. Il detto “Aver rubato il porco di Sant’Antonio”, si riferisce a qualcuno colpito da improvvisa sciagura (violazione del tabù), per un intrigante o scroccone si dice “va di porta

in porta come il porco di Sant’Antonio”. Il maiale di Sant’Antonio, riconoscibile dalla campanella, veniva allevato libero con massimo rispetto e cura della collettività, tanto che poteva entrare liberamente nelle case, veniva quindi macellato per sostenere la Festa del Santo. Il fuoco è associato indissolubilmente al Santo in forma figurata, l’herpes zooster viene comunemente chiamato il fuoco di Sant’Antonio. Le pire hanno forma varia in genere piramidale o a torcia (farchie), in entrambe i casi si allude al contatto con il divino a fini rigenerativi e di propiziazione. Il cibo collettivo ha la funzione di stimolare e rinforzare lo spirito di gruppo tramite la condivisione di un piatto rituale (sagne, fagioli e cotiche). I pani benedetti, semplici o con sigillo, consentono di disseminare il potere emanato dal Santo, sono consacrati il giorno 17 insieme alla benedizione degli animali variamente adornati da nastri e fiocchi per aumentare e catturare la protezione.



Femminile e Maschile di Chieti Provenienza e uso: zona di Chieti, quotidiano e festivo. Femminile della seconda metà del 1800, composta da camicia in lino con intarsi e piccoli ricami, busto in tela steccato e impunturato e bordato da pizzo, guarnello in mezza lana a righe, gonna in lana, scialletto e telo da capo. Il maschile sempre della zona di Chieti è la foggia festiva di prima metà del 1800, è composto da giacca aperta in lana, panciotto doppia abbottonatura metallica, braghe al ginocchio in velluto, fascia in mezzalana, camicia a pistagnina con merlettino, cappello in feltro, calzettoni. Ai piedi scarpine con fibbia o fiocco. L’abito di Chieti dopo l’unità d’Italia non si discosta molto da quello delle vicine località ora in parte comprese nella provincia di Pescara. Tuttavia è quasi indistinguibile da quello di Bucchianico, Roccamontepiano, Casalincontrada se non per piccole differenze nel taglio del busto e nelle decorazioni. Non abbiamo molte testimonianze della foggia borbonica che probabilmente era abbastanza differente e aveva una tovaglia da capo rigida, almeno a giudicare dalle stampe d’epoca. Attualmente l’abito è costituito oltre che dalla solita camicia, busto e guarnello da una gonna a pieghe baciate che tendono ad affastellarsi sul dietro formando una fisarmonica detta “cutulo” da qui anche il nome di “honna accutuliatə”. Questo cutulo ondeggia, per il suo peso durante l’incedere, anche se la donna non ancheggia, forse proprio questa graziosa caratteristica ha suggerito i vistosi “sculettamenti” che si osservano nel comportamento dell’elemento femminile dei gruppi folcloristici. L’abito è completato da una ricca mantera a pieghe o arricciata, in genere con balza messa di sbieco e altre decorazioni a riporto, ottenute cioè giustapponedo il disegno della stoffa con angoli diversi. Sulle spalle è sempre presente uno scialletto con frange a fiorami, in

seta o mezzalana, i cui pizzi sono infilati nel busto al lato dei seni. In testa un altro fazzolo con le stesse caratteristiche ma senza frange che si portava rimboccato sul capo durante il lavoro o per praticità. Questo indumento è ancora indossato da molte anziane a Chieti anche per riparsi dal sole o dalla pioggia.



Femminile di Pettorano sul Gizio e Maschile borbonico Provenienza e uso: Pettorano sul Gizio, quotidiano e festivo. Il maschile conserva la foggia “spagnola” con camicia dall’ampio colletto, panciotto, braghe con alzatora, fascia, calzettoni, ghette e cappello tronco conico. L’abito femminile ha un’ampia camicia in canapa o lino, scollo tondo, busto ampio ed alto con bretelle mobili, maniche staccate e lagate con nastri, guarnello in lana rossa e giri di velluto nero, ampia gonna in lana gualcata blu notte, mantera in lana bianca, grande tovaglia da capo in canapa e fasciatrella piegata in tre e doppiata in lana cremisi con marche in seta colorata. Calze violacee e alti zoccoli in legno. La camicia (cammiscia) è larga a piegholine sulla spalla, con un tassello triangolare per fianco. Lo scollo è tondo con merlettino. La manica è un rettangolo con un tassello triangolare sotto l’ascella. Il sottanello (suttana) è in canapa bianca con pizzo o semplice. Il busto (ju vostë) è in 5 pezzi cuciti tra loro in modo da far sporgere la parte anteriore, molto alta. Si allaccia solo dietro con un cordone che passa tra 8-9 ganci femmina (angeneje) in metallo sfalsati. Rimane aperto di 3-4 dita. Le maniche erano staccate e legate con nastri e fiocchi alle bretelle del busto, si toglievano per lavorare o per il caldo. Il guarnello è in lana gualcata rossa con un doppio giro di nastrino alla base. La gonna (vonnë) è in lana gualcata, fatta da 8 panni di 65-75 cm di altezza. E’ liscia avanti e prosegue con pieghe baciate, in numero di 14-16 per lato. La plissettatura è stata sostituita da un tipo di piega morbida. La mantéra è a fitte piegoline o a pieghe baciate dove decorre un cannello più grande. La mantéra copre metà della circonferenza della vita ed è lungha circa un palmo meno della gonna. Le mantére sono quanto mai varie e di vari tessuti. L’acconciatura maritale consiste in una grande tovaglia (tuvaijë) fatta

d’accia di canapa con frange (cierrë). La tovaglia veniva ripiegata in modo che i cierre arrivassero a combaciare la fine dell’uno all’inizio dell’altro. La fasciatrella è un telo di mezzalana, ripiegato lasciando la parte sottostante più sporgente, che viene posto sopra la tovaglia. Le calzature da strada quotidiane erano zoccoli in legno (petite) con tomaia di cuoio, aperta avanti, fermata da 5 chiodi a testa quadrangolare. I capi dell’abbigliamento maschile consistono nel giaccotto (grippetto o giamberga), lungo poco sotto la vita; pantaloni, sotto il ginocchio, chiusi da bottoni. Un panciotto in panno o in tela rigata. La camicia ampia e abbastanza lunga indossata sopra i mutandoni anche colorati che sbordavano oltre le braghe con un merlettino. Un’ampia fascia di lana in vita a righe verticali e un cappello in feltro, bandana per i capelli, calze di lana, scarpe con fibbia d’argento o orecchioli, a tacco basso e chiodate, stivali e ghette, una giberna. In caso di pioggia o freddo indossavano una semplice coperta o un mantello di lana (tapetum cioè tabarro) in genere di tessuto gualcato in modo da renderlo compatto ed idrorepellente.



Femminili di Scanno, maschile 1860 Provenienza ed uso: Scanno, festivo (matrimoniale?) prima del 1850. Composizione, busto leggermente steccato con gonna plissettata cucita. Maniche staccate chiuse con fitti fiocchi in seta, polsini risvoltati ricamati a punto veneziano. Decorazioni sul busto e sulla pedana della gonna in velluto contro tagliato, piccola mantera ad “asciugamano” con cintura ricamata. Numerosi ganci in argento con sirene, santi e vari altri simboli. Telo da capo ricamato avvolto sulla fronte da una fascia ricamata a telaio con fili d’oro, d’argento e trecce in cordoncino di seta. Ai piedi pantofole in stoffa. Abito festivo o matrimoniale (dopo il 1850). Gonna plissettata sormontata da “comodino” e mantera in seta ricamata in oro. Il copricapo d’oro (tocca) e trecce. Abito maschile con cappa intorno al 1850. Il gancio in argento rappresenta un dragone. La foggia post 1850 dell’abito di Scanno nasce da un’esigenza borghese d’integrazione tra morale e moda, tra status symbol e identità collettiva. Si tratta di una doppia rottura perché, pur essendo un costume da parata, non si integra con la consolidata ornamentazione tradizionale. La tecnica costruttiva e ornamentale del corsetto-blusa (ju cummudine) impedisce, di fatto, l’uso della maggior parte dei gioielli tradizionali. Questo aspetto ha contribuito all’eleganza, ed allo stesso tempo alla praticità dell’abito facendo si che il costume scannese si sia guadagnato una reputazione nazionale. Il copricapo (cappellitte a tocca, quotidiano, o d’uore, cerimoniale) è un tamburo in stoffa rigida (tocca) coperto da una fascia annodata operata a strisce verticali (viulitte) con elementi della trama in oro e argento ricamati a gigliuccio oppure di panno nero fermato da spilli nella versione quotidiana. La calotta è in seta semplice a tinta unita e fuoriesce dal retro con andamento a sciarpa (fasciature). Le “trecce” hanno colori vari di significato rituale. Il coprigonna (mantera) è in genere di broccato di seta

chiaro a motivi floreali stilizzati in tinte tenui o operato, oppure è in lana semplice, anche melangiata o a righe, per usi quotidiani. La gonna è in tela di lana gualcata plissettata a freddo di colore verde-scuro ottenuta con una tinta vegetale di ”indaco” e poi un secondo bagno di “orniolo”. La stoffa usata per il tamburello è invece di tessitura manuale, simile al violitto, ma poteva essere importata, e lo stesso dicasi per il broccato della mantera. Il comodino, nero o blu scuro si posiziona sopra la vita, non ha riprese laterali, è rigido e sale sopra il seno, sul retro mostra una bellissima cucitura di forma lobata e un “codino”. Le rifiniture sono a ruittə, nastrino di seta ripiegato e cucito tra stoffa e fodera sui bordi del comodino. Il comodino è allacciato da ganci invisibili e decorato da 12 bottoni in argento (bəttigle) con soggetti religiosi o magico apotropaici. Una decorazione a forma di foglia di quercia realizzata a ruitte si erge tra i due seni. Il corsetto è accollato e finito da un colletto in pizzo a tombolo o sangallo (scolla). Le ampie maniche sono inserite sulle spalle mediante lu “traine” lavorazione simile a quella delle toghe dei magistrati. Il polsino è rivestito internamente in broccato. La gonna veniva accorciata rimboccandola con una cinta.


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