Blister... Notizie mediche in pillole - GENETICA

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NUMERO 4

GENETICA l’informazione a Vostra disposizione...


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RUBRICHE

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HORTO DEI SEMPLICI La nausea in gravidanza 26

WELFARE

Le malattie genetiche 27

AVVOCATO

Accertamento della paternità mediante test genetici 28

LA MEDICINA AL CINEMA

I gemelli nella storia del cinema 29

MEDICINA VETERINARIA IL CENACOLO

Pubblicazione bimestrale Anno 2 nº 4 - 2012 Distribuzione gratuita Reg. al tribunale: n. 4 del 30/12/2011 Tiratura: 20.000 copie Editore: “Domus Medica” Direttore Responsabile: dr. A. Cavalli Direttore Scientifico: dr. Sergio Cerrato Direttore Amministrativo: dr. Alessandro Cerrato Condirettori: Gaetano Ramundo, Augusto Vittorio Ramundo Capo redattore: dr. A. Calvo Redazione: dr. Michele Ciasullo, dr. Edgardo Dilullo, dr. Anna Gagliardi, dr. Fabiola Guarino, dr. Stefano Minichino, dr. Roberta Polisiero, dr. Silvio Sacchi

Chi ha mangiato la pecora Dolly? 30 Il gene non è tutto 31

CIBUS MEDICI NELLA STORIA

OGM: cosa mettiamo in tavola 32 Gregor Mendel 33

ULTIMISSIME

Convegni, corsi e congressi 34

ARTICOLI

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La diagnosi presintomatica delle malattie genetiche

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Encefalopatia da asfissia o asfissia in encefalopatico?

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Un modello di malattia da poliglutammine 11

Area Web: Antonio Macchione

Il melanoma 15

Contatti: sito: www. blisteronline.it mail: info@blisteronline.it

Lo studio dei cromosomi 18 La malattia del sito fragile 21

Stampa: Grafiche Lucarelli

Obesità 22

Image: FreeDigitalPhotos.net

Le malattie genetiche in un’enciclopedia 24

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NUMERO QUATTRO dr. Sergio Cerrato scerrato@blisteronline.it

EDITORIALE

In questo numero, grazie all’aiuto del prof. Ventruto, parleremo di genetica. Le malattie genetiche sono originate da mutazioni che interessano il patrimonio ereditario, le quali possono determinare alterazioni sia a carico del corredo cromosomico che a livello dei singoli geni. Le malattie cromosomiche possono dipendere da alterazioni degli autosomi o dei cromosomi sessuali e si dividono in numeriche, strutturali e a mosaico. Il loro impatto determina il 2% delle anomalie cromosomiche o difetti di un singolo gene nel neonato. Ben il 50% delle sordità, cecità e ritardi mentali infantili riconoscono, infatti, fattori genetici; da qui il 30% dei ricoveri ospedalieri in età pediatrica e il 50% dei decessi è da ascrivere a malattie genetiche o malformazioni congenite. Anche i tumori più comuni nel 10% presentano una forte componente genetica, mentre il 5% degli adulti manifesterà una malattia nella quale i fattori genetici sono importanti. L’identificazione esatta e la diagnosi di queste malattie è un’acquisizione abbastanza recente, legata ai progressi tecno - scientifici, che hanno consentito di analizzare il corredo cromosomico individuale, definendone così le caratteristiche normali

L’Aforisma

e patologiche.

La ricerca della verità è più preziosa del suo possesso Albert Einstein

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LA DIAGNOSI PRESINTOMATICA DELLE MALATTIE GENETICHE AD INSORGENZA TARDIVA E IL DIRITTO ALLA LORO CONOSCENZA

Prof. Claudio Buccelli Istituto di Medicina Legale Università “Federico II” Napoli cbuccelli@blisteronline.it Prof. Valerio Ventruto Istituto di Genetica e Biofisica “Adriano Buzzati Traverso” CNR Napoli vventruto@blisteronline.it

Il compito del medico è sempre stato, per definizione, di curare gli infermi. Vi è stato cioè sempre un rapporto diretto medico - persona malata. Una rivoluzionaria e al tempo stesso inquietante possibilità, offerta oggi dalla genetica molecolare, è la diagnosi presintomatica di numerose malattie genetiche. Accanto al tradizionale rapporto medico - persona malata se ne è perciò instaurato uno nuovo, che possiamo definire medico - persona predestinata ad ammalare. Facciamo l’esempio di una madre che al momento ha un bambino del tutto sano ed è figlia di un non - vedente per retinoschisi, malattia oculare insorta in giovane età. La malattia è genetica ed ereditaria e gli affetti non sono ciechi dalla nascita perché i primi sintomi della malattia, come in molte patologie genetiche neuro - oculari, iniziano in età infantile o giovanile. La retinoschisi è definita X-linked perché dovuta alla mutazione di un gene del cromosoma X, oggi conosciuto (XLRS1, Xp22.3-p22.1). Per il particolare modello di trasmissione, comune alle centinaia di malattie X-linked recessive, spesso gravi e quasi sempre inguaribili, tutte le figlie dei maschi affetti sono sane ma portatrici della mutazione genica. Esse non si ammalano ma hanno il rischio di generare la metà dei figli maschi con la malattia. Una donna, come il caso preso ad esempio, che sa di essere portatrice della mutazione vive nell’angoscia, consapevole che il suo bambino, al momento sano, ha il 50% di probabilità di manifestare la malattia di lì a qualche anno. Se il gene della malattia è conosciuto, come nel caso della retinoschisi, è possibile oggi la diagnosi prima della sua insorgenza, si può cioè avere il riconoscimento preclinico. Un genitore ha diritto di chiedere che venga fatta questa ricerca sul figlio ancora sano? Tale analisi è consentita, pur con il dichiarato consenso del richiedente?

Il caso risale a più di 40 anni fa quando, al Consultorio di genetica medica dell’Ospedale A. Cardarelli di Napoli, venne una coppia con un bambino di 12 anni al quale posi la diagnosi di displasia spondiloepifisaria tarda. La malformazione scheletrica era familiare, in quanto anche uno zio materno del ragazzo ne era affetto. In entrambi l’arresto della crescita (lo zio misurava 1,20 m) si era rilevato solo poco prima della pubertà. La malattia è ereditaria e causata dalla mutazione di un gene del cromosoma X. Poiché il ragazzo aveva anche due sorelline, nella consulenza rilasciata scrissi che essendo la madre portatrice obbligata del gene, le bambine avevano il 50% di probabilità di essere portatrici sane e quindi di avere il rischio di generare la metà dei figli maschi con la malattia del loro fratello. Non potetti, in quella occasione, aggiungere altro perché il gene della malattia non era ancora conosciuto. Trascorsi circa 30 anni (verso la fine degli anni ’90) le due sorelle, entrambe sposate, sono ritornate al Consultorio di genetica: una di loro aveva un bel bambino di 3 anni, l’altra era madre di due figlie femmine. Portarono la consulenza a suo tempo rilasciata e mi hanno chiesto se era possibile conoscere la loro condizione. Avendo saputo che quanto da loro richiesto era possibile, perché il gene era stato da qualche anno scoperto, hanno richiesto l’esame diagnostico molecolare. Mi sono quindi rivolto ad un Centro di Parigi specializzato per questa malattia e dall’analisi è risultata non portatrice la sorella madre delle due femmine, mentre portatrice della mutazione la sorella con il figlio maschio. “Dottore, voglio sapere se mio figlio ammalerà o no”, mi disse. Risposi che avendo fatto loro eseguire le analisi, da parte dello stesso Centro di Parigi non si sarebbe incontrata alcuna difficoltà.

Riferisco a questo proposito una personale esperienza. www.blisteronline.it

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Trascrivo la risposta alla richiesta ivi da me inoltrata:

In risposta ai suddetti quesiti va considerato quanto segue. I

In Francia dunque, per legge, non è consentita la diagnosi presintomatica, specie per le malattie genetiche per le quali non esistono trattamenti preventivi o curativi (e devo aggiungere che sono ancora la maggioranza).

test presintomatici o preclinici riguardano soggetti sani al momento della loro esecuzione e sono finalizzati ad individuare il rischio di sviluppare in futuro una specifica malattia sulla base di una determinata mutazione.

“Dottore, stando così le cose, perché al mio bambino non fate fare l’analisi in Italia?” Chiesi il parere in varie sedi, compresi alcuni Comitati Bioetici, ottenendo risposte discordanti, e l’analisi non venne eseguita.

Dette indagini possono essere importanti per consentire interventi diagnostico - terapeutici preventivi e pianificare le scelte future del paziente.

Ho rivisto il bambino solo pochi anni fa. Interrogativi: •

Quale comportamento, in casi analoghi, si può tenere in Italia?

Come comportarsi, ad esempio, nella corea di Huntington o nella malattia di Martin – Bell?

Quali normative esistono in Italia al riguardo?

Sulla liceità del loro impiego da un punto di vista etico si è espresso nel 1999 il Comitato Nazionale per la Bioetica in un documento intitolato “Orientamenti bioetici per i test genetici” che, di fatto, li ammette solo in presenza di adeguata terapia o possibilità di modificare l’evoluzione della malattia, riducendone le complicanze, mediante un trattamento medico precoce. Negli altri casi, una conoscenza preventiva della malattia porterebbe soltanto a un’anticipazione delle sofferenze, senza concreti vantaggi in termini terapeutici. Il nostro Codice di Deontologia Medica del 2006 all’art. 46 consente l’impiego dei test genetici (anche questa volta predittivi, non presintomatici) solo su richiesta, per iscritto, dalla gestante o dalla persona interessata, previe informazioni sul significato e sul valore predittivo dei test, sui rischi per la gravidanza, sulle conseguenze delle malattie genetiche sulla salute e sulla qualità della vita, nonché sui possibili interventi di prevenzione e di terapia. Mentre sul piano legislativo nel 2003, con l’emanazione del D.Lgs 196/03, si è avuto un primo pronunciamento sul tema, circoscrivendo il trattamento dei dati genetici ai soli casi previsti da apposita autorizzazione rilasciata dal Garante per la protezione dei dati personali. In relazione a ciò sono stati nel tempo emanati alcuni documenti del Garante fino al più recente testo dell’Autorizzazione generale al trattamento dei dati genetici (G.U. n. 159 dell’11 luglio 2011)

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che trae spunto da una serie di documenti etico deontologici e linee guida anche sovranazionali. In sostanza, il trattamento dei dati genetici è consentito previo consenso scritto dell’interessato dopo aver informato puntualmente quest’ultimo sugli specifici scopi perseguiti, sul suo diritto di opporsi al trattamento, sui risultati che si intendono conseguire e sul periodo di conservazione dei dati e dei campioni biologici. Inoltre, il soggetto ha diritto di non essere informato sui risultati dell’esame (comprese le eventuali “notizie inattese” che lo riguardano) e di revocare il consenso in qualsiasi momento. Gli elementi fondamentali sui quali strutturare l’informativa preliminare al consenso sono così riassumibili: 1. utilizzo del campione (scopo e utilizzo diagnostico e/o sperimentale per il quale il campione è richiesto); 2. tutela della riservatezza (procedure utilizzate nella gestione dei dati per assicurare l’anonimato e la protezione della riservatezza); 3. ritiro del consenso (esplicitazione che il consenso potrà essere ritirato in qualsiasi momento, assicurando che il campione e le relative informazioni verranno eliminati); 4. gestione del materiale biologico (misure strutturali e gestionali attuate al fine di garantire il mantenimento dell’idoneità del campione e procedure impiegate per la distruzione dello stesso); 5. durata della conservazione del campione (intervallo di tempo previsto dalla raccolta alla distruzione dei campioni). Si badi che il processo decisionale che porta all’esecuzione di un test genetico richiede particolari cautele che derivano dalle importanti scelte che i pazienti possono compiere (pianificazione familiare; prosecuzione o meno di una gravidanza; scelte di vita; etc.).

re rivelati solo al legittimo interessato, mentre chiunque riceverà le suddette informazioni deve adeguatamente proteggerle (per approfondire: Istituto Superiore di Sanità. Linee guida per test genetici, 19 maggio 1998). Va, infine, ricordato che i risultati finiscono per riguardare anche i familiari dell’interessato, il che pone delicati problemi di estensione dell’informazione a terzi anche indipendentemente dalla sua volontà. Particolari cautele sono necessarie se la richiesta di test genetici riguarda i minori. In questi casi, in linea generale, i test dovrebbero essere differiti a un’età in cui il soggetto sia capace di comprenderne appieno la portata ed esprimere così un consenso informato, a meno che gli stessi non risultino effettivamente necessari per la salute del minore oppure che detta informazione sia indispensabile (e non sostituibile) per rilevare un disordine genetico in altri membri della famiglia. In alternativa si verrebbe a configurare una lesione del diritto del minore di decidere, una volta maggiorenne, sull’esecuzione dell’esame oltre ad una violazione del suo diritto alla riservatezza del risultato, sia pur da parte del genitore. Potrebbero esservi anche significative ripercussioni di natura familiare (ad es. per corredo genetico non compatibile con quello paterno) come pure forme di discriminazione (iperprotezione; discriminazione nei confronti dei germani a livello scolastico o di investimento educativo.). In ogni caso la decisione di procedere al test deve tener conto, per quanto reso possibile dall’età e dalla correlata capacità di comprensione, del parere del minore e non potrà mai astrarre dal considerare il più vantaggioso interesse del minore, secondo una criteriologia di accertamento ben definita.

La prescrizione del test deve essere, ovviamente, preceduta da esaustive informazioni soprattutto sulle possibili implicazioni dei risultati e sulla sensibilità e specificità della diagnosi, ciò al fine di un consenso libero e consapevole. Corollario del diritto di informazione del paziente è il “diritto di non sapere”, ossia di non conoscere le informazioni genetiche che lo riguardino, soprattutto in mancanza di rimedi terapeutici per la futura malattia. Il counselling genetico è imprescindibile per l’acquisizione del consenso e va effettuato sia nella fase di preparazione del test sia nella fase di discussione e interpretazione dei risultati. La comunicazione dei risultati è particolarmente delicata poiché può far prefigurare al paziente la natura della sua malattia, l’epoca della comparsa dei sintomi, la sua evoluzione e persino l’epoca della morte nei casi di patologie prognosticamente sfavorevoli e non curabili. Il paziente potrebbe anche sperimentare sentimenti di autosvalutazione, imperfezione o dannosità per la prole. È ovviamente indispensabile il più stretto riserbo sui dati ottenuti dal test che potranno essewww.blisteronline.it

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ENCEFALOPATIA DA ASFISSIA O ASFISSIA IN ENCEFALOPATICO?

Dott. Fabio Gaeta Istituto di Studi Giuridici Internazionali CNR Napoli fgaeta@blisteronline.it Prof. Valerio Ventruto Istituto di Genetica e Biofisica “Adriano Buzzati Traverso” CNR Napoli vventruto@blisteronline.it

L’interrogativo è di non poca rilevanza e va al di là della necessità di una semplice ricerca patogenetica di questa frequente patologia neonatale e perinatale, né vale al riguardo la sbrigativa considerazione che, alla fine, sia il trattamento terapeutico che la prognosi non sono dissimili. La distinzione è invece importante perché nel primo caso il danno conseguirebbe ad un evento accidentale e quindi senza rilevanza di rischio nel caso di altri concepiti dai genitori. Nel secondo caso la patologia sarebbe preesistente alla nascita e il rischio di ricorrenza sarebbe possibile, non potendo essere esclusa una causa determinante genetica. Va aggiunto che la prima condizione è spesso motivo di controversie giudiziarie quando, a ragione o a torto, si ipotizza nel comportamento del medico, quasi sempre ostetrico, imperizia o negligenza. In quali circostanze si può porre il sospetto che una encefalopatia congenita sia la conseguenza e non la causa dell’encefalopatia? Una causa preesistente alla nascita è di facile riconoscimento nel caso di dimostrati difetti cerebrali, di cromosomopatie o di quelle malattie genetiche note per i danni cerebrali che possono spesso comportare. Interrogativi, non sempre di facile soluzione, possono invece sorgere nei casi in cui non vi è evidenza di difetti congeniti cerebrali, il cariotipo è normale ma sono presenti segni clinici cosiddetti minori. Soffermiamoci brevemente sulle caratteristiche e sul significato di queste evenienze.

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Microdelezioni e microduplicazioni Già da alcuni anni l’attenzione dei citogenetisti è rivolta ad alcune sindromi congenite dovute a cromosomopatie che non sono però riconoscibili neppure con l’utilizzo di bandeggi ad alta risoluzione, perché dovute a microdelezioni o microduplicazioni subtelomeriche dei cromosomi, cioè sottostanti ai telomeri che sono i tratti terminali di un cromosoma. Sono piccoli frammenti riconoscibili con le analisi molecolari, con conseguente perdita o duplicazione di un gene o anche di più geni contigui. Le procedure per riconoscere questi difetti molecolari richiedono analisi delicate e costose, come la microarray analysis. Disomie uniparentali Altre patologie cromosomiche ma con cromosomi numericamente e strutturalmente del tutto normali sono le cosiddette disomie uniparentali. Si è sempre ritenuto che se una coppia di cromosomi omologhi non presenta anomalie numeriche o strutturali, è senza rilevanza la loro derivazione anche da uno solo dei due genitori. Si è scoperto invece che, almeno per alcuni geni, è necessaria l’informazione preveniente dai cromosomi di entrambi i genitori. I casi in cui la derivazione è uniparentale inducono differenti patologie, a seconda che viene a mancare l’espressione (imprinting) del cromosoma paterno o di quello materno. La sindrome di Angelman e quella di Prader - Willi sono malattie genetiche conosciute da tempo e sono state sempre attribuite a una microdelezione del cromosoma n.15. Nel 20% dei casi, però, si è scoperto che le due malattie possono


essere causate da disomie uniparentali, paterne o materne. Se gli omologhi di questa coppia cromosomica sono di derivazione materna, si ha la sindrome di Prader - Willi, mancando l’imprinting paterno; se invece la coppia degli omologhi è solo paterna, si ha la sindrome di Angelman, venendo a mancare l’imprinting materno. Come può accadere una disomia uniparentale? Nella maggioranza dei casi è dovuta a una trisomia del cromosoma 15 del pre - embrione, che diventa mosaico per la perdita successiva di uno dei tre cromosomi nell’embrione ma non nei tessuti extraembrionari. Questa evenienza è confermata dal ritrovamento della trisomia nella placenta.

Collo corto, lungo; pterigio (plica cutanea), fistole branchiali, ecc. Segni minori della mano: Dita unite (sindattilia), soprannumero (polidattilia); dita flesse, curve (camptodattilia); quinto dito leggermente curvo e deviato all’interno (clinodattilia), abnorme spazio tra alluce e secondo dito (segno del sandalo, gap). Anomalie dei dermatoglifi: insolite configurazioni ai polpastrelli (elevato numero di archi), linea trasversa palmare unica (simian line), triradio assiale spostato, ecc. Segni minori di organi interni:

Oltre ai cromosomi 15, anche regioni delle coppie degli omologhi 7, 11 e 14 sono sottoposte al fenomeno dell’imprinting genomico e quindi le condizioni di disomie uniparentali inducono patologie sindromiche.

Rientrano tra i segni minori anche piccole anomalie di organi interni: piccoli difetti cardiaci o dei grossi vasi che non comportano disordini funzionali, alcune malformazioni dei reni (come il rene cosiddetto a ferro di cavallo), le cisti dei plessi coroidei, ecc.

Il significato diagnostico di segni cosiddetti minori

Quale significato clinico dare ai segni minori?

L’osservazione di segni cosiddetti minori deve far sospettare una patologia genetica. Si definiscono minori quei segni che, a differenza di quelli detti maggiori, sono di scarsa rilevanza clinica. Per fare un esempio, la fusione di due o più dita dei piedi (sindattilia) è un segno minore, mentre la mancanza (ectrodattilia) è un segno maggiore. Si conoscono più di cento anomalie congenite che vanno considerate segni minori. Riportiamo alcuni esempi della faccia e delle mani. Segni minori della faccia: Faccia lievemente asimmetrica, appuntita, schiacciata, larga o piccola (elfin), cadente (gaunt, droopy), triangolare, ecc. Mandibola piccola (micrognazia). Bocca larga o piccola, angoli della bocca rivolti in basso. Denti alla nascita. Lingua larga, retroposta; frenuli orali multipli. Rima palpebrale rivolta in alto (rima mongola) o in basso (rima antimongola); occhi distanziati (ipertelorismo) o ravvicinati (ipotelorismo); ptosi palpebrale; epicanto (piega cutanea palpebrale all’interno dell’occhio, rivolta verso l’alto); blefarofimosi o epicanto inverso (piega cutanea palpebrale all’interno dell’occhio, rivolta verso il basso).

Per una loro corretta valutazione va tenuto presente che ogni segno minore, singolarmente preso, non ha alcun significato, ancor più se mostra familiarità. Ad esempio, la linea trasversa palmare unica (simian line), mono o bilaterale, si riscontra con elevata frequenza nella sindrome di Down (circa 90%) e in molte altre patologie cromosomiche, ma si trova anche nel 5% della popolazione; la sindattilia è un segno comune a quasi 300 sindromi genetiche, ma si ritrova, non raramente, in soggetti del tutto sani; le sopracciglia confluenti (sinofrio) sono un segno comune ad una cinquantina di malattie genetiche inclusa la sindrome di Cornelia de Lange, ma non è di rara osservazione in individui sani. Lo stesso vale per i molti altri segni minori, molti dei quali sono di riscontro familiare, come l’eritema nucale (nevo flammeo della nuca, port - wine stain) che ha eredità autosomica dominante. La condizione che deve fa considerare rilevanti i segni minori è che devono essere multipli. Vale a conferma di questo principio una semplice considerazione: supponiamo che un segno considerato minore dell’occhio (epicanto) abbia nella popolazione la frequenza di 1: 50 ed altrettanto è

Sopracciglia confluenti (sinofrio), rade (anche parzialmente), folte. Ciglia assenti, accessorie (distichiasi), rivolte all’interno dell’occhio. Anomalie dell’orecchio esterno: dei lobi e dei suoi componenti (elice, antelice, trago, antitrago); orecchio ad impianto basso e retroposto, fossette e fistole preauricolari, appendici preauricolari, ecc. Anomalie del naso: naso bulboso, prominente, (a pera, a becco, ecc.); anomalie del setto nasale, del filtro, della radice, delle ali nasali (sottili, anteverse), ecc. Capelli radi, lanosi, fragili, secchi, arrotolati (curly), ad impianto basso al collo. www.blisteronline.it

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per un segno minore della mano (sindattilia): la probabilità che i due segni siano associati casualmente è di 1/50 x 1/50 cioè 1 su 2.500. Se troviamo associati tre segni minori, ciascuno nella popolazione con la frequenza di 1: 50 (ad esempio un segno minore della cute, dell’orecchio e di un organo interno), la casualità di questa associazione nella popolazione generale sarebbe di 1/50 x 1/50 x 1/50, cioè di otto persone su un milione. Si deve quindi avere ragione di ritenere che l’associazione dei tre segni congeniti osservati non sia casuale ma dovuta ad una causa (quasi sempre genetica). L’osservazione di più segni minori in caso di encefalopatia neonatale o perinatale non va quindi trascurata né sottovalutata; deve fare sospettare una malattia genetica e richiedere ulteriori indagini diagnostiche, con mezzi strumentali o di laboratorio, miranti al riconoscimento di altri difetti congeniti, utili ad avvalorarne il sospetto. Non autorizza però a far ritenere che sia la causa del difetto cerebrale. È noto che non tutte le sindromi genetiche inducono danni cerebrali, congeniti o tardivi, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle cromosomopatie. Si stima che delle 6.000 malattie genetiche mendeliane meno del 25% possono causare sofferenze cerebrali neonatali o perinatali (1). Conclusioni Sul controverso argomento ci sembra di poter concludere che: 1. L’osservazione di segni minori in associazione sindromica giustifica il sospetto di una patologia genetica, anche se non rientrante tra quelle oggi conosciute;

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2. L’associazione con il danno neurologico non può far dedurre che ne sia la causa; 3. Potrebbe essere comunque considerata una concausa che abbia concorso ad aggravare danni cerebrali, quali anche quelli indotti da una asfissia riconducibile ad altra causa.


UN MODELLO DI MALATTIA DA POLIGLUTAMMINE: CLINICA E DIAGNOSI DELLA COREA DI HUNTINGTON

Martina Iannaccone, Alessandro Stefanile e Vittorio Gentile Dipartimento di Biochimica e Biofisica Facoltà di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli miannaccone@blisteronline.it, astefanile@blisteronline.it, vgentile@blisteronline.it

SOMMARIO La corea di Huntington (Corea major) è una grave patologia degenerativa su base genetica del Sistema Nervoso, descritta nel 1872 da George Huntington, che porta inevitabilmente alla perdita delle funzioni motorie, a ritardo mentale e a morte precoce. Tale malattia insorge in età adulta, generalmente intorno ai 35 anni. Sono stati tuttavia descritti casi ad insorgenza precoce, intorno ai 15 - 16 anni. Solo all’inizio del XX secolo si riconobbe l’esistenza di un processo atrofico - degenerativo interessante il neo - striato e la corteccia cerebrale, quale responsabile del quadro sintomatologico. Di seguito descriviamo sia alcuni aspetti clinici che molecolari di questa malattia, quale modello di malattia neurodegenerativa su base genetica. CLINICA Nel mondo, l’incidenza media annuale è calcolabile in 0,4 casi/100.000 e la prevalenza in 4 - 10 casi/100.000 abitanti. Riscontrata in tutti i più importanti gruppi etnici, anche se con diversa frequenza, la malattia pare abbia avuto origine in Europa. La diffusione nell’intero continente americano, a partire dalla regione del Lago Maracaibo (Venezuela) viene spiegata, in parte, con l’emigrazione, in quelle terre, di un unico individuo affetto, un navigatore di origine nord - europea. Ed è in questa zona che si riscontra la più alta incidenza di casi di Huntington, con sette individui malati su 1.000. Nel continente asiatico, invece, la malattia ha frequenza molto bassa e ciò viene giustificato dal basso tasso di immigrazione dall’Europa verso questi paesi. In Europa, la diffusione è piuttosto elevata (1 caso su 10.000 persone) e recenti evidenze parlano di una spiccata predisposizione genetica nella popolazione europea occidentale. In Italia, l’incidenza è di circa 6.000 casi, con almeno altri 12.000 soggetti a rischio di sviluppare la malattia. La prevalenza è circa la stessa, al Nord come al Sud. La malattia è trasmessa con ereditarietà di tipo autosomico dominante: interessa ogni successiva generazione, colpendo in media il 50% dei

discendenti. L’età media di insorgenza è fra i 30 ed i 45 anni; rari sono i casi giovanili e quelli in età avanzata. Nel 1983 a Boston, Jim Gusella identifica il tratto di DNA in cui è localizzato il gene responsabile della corea di Huntington, dimostrando la potenza dell’analisi di associazione dei RFLP (Polimorfismi di lunghezza dei frammenti di restrizione). Il lavoro di Gusella si basa sugli studi condotti simultaneamente da Nancy Wexler, della Columbia University e dalla Hereditary Disease Foundation, sull’ereditarietà della malattia di Huntington all’interno di una popolazione strettamente imparentata che vive sul lago Maracaibo in Venezuela. Nel 1993 si individua il gene - malattia, inizialmente battezzato IT 15, e situato sul braccio corto del cromosoma 4 (Fig. 1), che codifica per una proteina denominata huntingtina. La funzione dell’huntingtina è ancora ignota, anche se è dimostrato che si tratta di una proteina indispensabile per la vita. Si scopre che la mutazione consiste in una espansione di triplette CAG nel Locus del gene dell’Huntingtina

Fig. 1. Ideogramma del cromosoma 4 umano.

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gene. Ad esempio, per intenderci, nella sequenza CAGCAGCAGCAGCAGCAG… sono presenti 6 ripetizioni della tripletta, e così via. I pazienti affetti da malattia di Huntington presentano ripetizioni di triplette CAG sempre superiori alle 36 unità fino al limite massimo, finora osservato, di 250. È interessante ricordare che un simile meccanismo di mutazione genica (espansione della tripletta CAG in esoni) è stato individuato in almeno dieci malattie neuropsichiatriche, che vengono anche definite malattie da poliglutammine (Tab. 1). È stato evidenziato che, pur con una certa approssimazione, il numero di ripetizioni di CAG, nel gene dell’huntingtina, risulta essere inversamente proporzionale all’età di insorgenza della patologia. È stato inoltre dimostrato che la proteina mutata è tagliata da enzimi proteolitici, le capsasi. I frammenti ottenuti si aggregano, causando la disfunzione cellulare. L’huntingtina, nella sua forma normale, controlla la produzione di BDNF, un fattore di sopravvivenza per i neuroni dello striato. Nella malattia questa funzione è interrotta e i neuroni dello striato degenerano. Questi neuroni hanno fisiologicamente il compito di inibire, attraverso la via talamica, l’eccitazione corticale. La loro degenerazione porta ad una ipereccitabilità corticale che provoca i disturbi motori di questa malattia. Nella corea di Huntington è presente un esteso processo atrofico - degenerativo interessante la corteccia e i gangli della base: nel mantello corticale sono più colpite le aree frontali e gli strati medi e profondi; nei gangli della base la rarefazione neuronale è maggiore nel caudato e nel putamen, dove le piccole cellule sono più interessate delle grandi. Un tipico marcatore istopatologico delle cellule interessate dal processo degenerativo è rappresentato dalla presenza a livello intracellulare di aggregati proteici insolubili. Si osserva anche la reazione gliale di modico grado; le circumvoluzioni cerebrali sono atrofiche. Completano il quadro frequenti lesioni atrofico - degenerative a carico dell’ipotalamo, dei nuclei e della corteccia del cervelletto. La sintomatologia è caratterizzata dalla contemporanea presenza di movimenti coreici e di disturbi psichici. La malattia incomincia insidiosamente, con segni piuttosto vaghi: il soggetto ha un comportamento un po’ strano, è irrequieto, goffo nelle sue azioni, poco efficiente nel suo lavoro. Spesso trascorrono mesi prima che si rivelino i tipici movimenti coreici. Questi inizialmente possono essere limitati ad un certo territorio ( testa, arto, emicorpo) tendendo successivamente ad estendersi e ad interessare più spiccatamente le grosse articolazioni. La stazione eretta e la deambulazione sono notevolmente alterate, il soggetto barcolla. Per questo la malattia di Huntington viene anche definita corea (dal greco chorea = danza) di Huntington. La faccia è interessata da smorfie continue; vi possono essere protrusione e retrazione della lingua, movimenti delle labbra e della mandibola, mentre disturbi motori dei muscoli faringei, laringei e respiratori provocano disartria, disfagia, alterazione della respirazione. Le ipercinesie sono accentuate dalle emozioni, dal freddo, dalla fatica, mentre scompaiono nel sonno. Sono presenti nel riposo e nel compimento di movimenti volontari. La forza e il tono muscolare sono ridotti. Con il progredire della malattia, compaiono stati depressivi e di aggressività e, nel peggiore dei casi, disturbi psichici che possono evolvere in demenza e psicosi. Inizialmente è presente soltanto un’alterazione

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del comportamento; gradualmente il paziente diventa sempre più apatico, con scadimento delle capacità di critica, di giudizio e della memoria. Non sono rari i tentativi di suicidio e i quadri di estrema agitazione psicomotoria. DIAGNOSI La diagnosi si basa innanzitutto sulla presenza dei sintomi neurologici, ed è rinforzata eventualmente dalla presenza di altri casi nella storia familiare. La diagnosi può essere molto difficile nelle prime fasi della malattia, e ancor di più in famiglie in cui si sono già verificati casi di malattia di Huntington. Talvolta i primi segni sono infatti così vaghi che è difficile valutare quanto siano specifici o quanto condizionati dall’ambiente familiare e dalla paura di avere la malattia. Per una corretta diagnosi il medico deve anche escludere altre malattie come la schizofrenia, l’alcoolismo, la depressione, il morbo di Parkinson, e altre patologie che causano disturbi del movimento o demenza. Un notevole aiuto nell’identificazione delle persone affette viene oggi dall’analisi genetica, con cui si può quantificare il numero di triplette presenti nel gene responsabile, permettendo così di diagnosticare con sicurezza la malattia. L’utilizzazione di un test diagnostico del DNA (possibilmente presintomatico, con cui si può quantificare la lunghezza delle ripetizioni di triplette) permette di fare previsioni sulla possibilità di sviluppare la malattia. A richiedere l’esame sono i figli o i fratelli sani o ancora asintomatici di persone affette che vogliono sapere se hanno ereditato o meno l’anomalia genetica. Il test si effettua a partire da un semplice prelievo di sangue. La diagnosi di laboratorio della Corea di Huntington può essere eseguita mediante tecniche di Biologia Molecolare Clinica, quali, ad es.: l’estrazione e purificazione di DNA da cellule o tessuti biologici, seguita da P.C.R. ( Reazione a catena della DNA Polimerasi), Southern blot (trasferimento del DNA su filtro di nitrocellulosa), e sequenziamento diretto. L’esatta determinazione del numero di triplette CAG presenti nei tratti mutati del gene per l’huntungtina, può essere eseguita mediante sequenziamento diretto (metodo di Sanger) dei prodotti di PCR, subclonati in vettori plasmidici. Il test prende in considerazione la lunghezza delle triplette, e dà un risultato affidabile in circa il 95 - 99% dei casi. In ogni caso, se un individuo è asintomatico, non è possibile prevedere se e quando manifesterà la malattia, essendo l’età di esordio molto variabile (anche in età avanzata). Lo stesso discorso vale per la diagnosi prenatale: è possibile determinare se il feto presenti un’espansione patologica della tripletta, ma non si possono fare previsioni sull’evoluzione della malattia. Solo per espansioni maggiori di 50 è possibile stabilire correlazioni: più elevato è il numero di ripetizioni più precoce e grave è la malattia. Per espansioni minori di 50 non è invece attendibile alcuna previsione. PREVENZIONE Anche se non ci sono tuttora trattamenti per ritardare la comparsa e la progressione della malattia di Huntington, esistono potenziali farmaci attualmente in prove precliniche e cliniche, che sono focalizzati sulla terapia della malattia di Huntington. Le vie dei segnali cellulari coinvolti nella malattia di Huntington non sono state ancora chiaramente definite. Tuttavia, l’espressione della proteina mutante huntingtin è considerato un fattore chiave per l’induzione e/o la progressione della malattia di Huntington. La dimostra-


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zione che l’esordio e la progressione della malattia di Huntington in modelli di topi transgenici, in particolare, sono ritardati o migliorati con l’applicazione di fattori neurotrofici, ha sottolineato la loro importanza nella neuroprotezione nella malattia di Huntington. Inoltre, altri composti capaci di bloccare il gene della malattia di Huntington o la proteina mutante huntingtin sono attualmente in prove precliniche e cliniche e possono mostrare effetti neuroprotettivi promettenti. TERAPIA Come appena riportato, attualmente nessuna terapia può arrestare la progressione della malattia. L’unica terapia farmacologica oggi proposta a questi pazienti è di tipo sintomatico, con il grave inconveniente che spesso l’intervento sui disturbi motori ha effetti collaterali negativi sui problemi psichici e viceversa. Il protocollo di intervento classico prevede che i disturbi di tipo motorio vengano tenuti sotto controllo con ansiolitici o sedativi, arrivando all’uso di farmaci che abbassano il livello di dopamina (neurolettici: fenotiazine e butirrofenoni), consci della depressione che

questi possono indurre. Per quanto riguarda i disturbi psichici, si cerca di intervenire sulla depressione con i comuni farmaci antidepressivi, con il risvolto negativo che l’attività anticolinergica di questi farmaci porta a peggioramento dei movimenti coreici. Sugli stati di allucinazione e sulle psicosi si interviene con i neurolettici, utilizzandoli a basse dosi, onde minimizzare gli effetti a livello cognitivo e motorio. Un aspetto molto importante è il supporto psicologico al malato e alla sua famiglia. Sono in corso sperimentazioni per la messa a punto di una terapia farmacologica più mirata, partendo dalle conoscenze dei meccanismi ezio-patogenetici. L’ipotesi che alla base della Corea di Huntington vi possa essere un problema di eccitotossicità, ha portato alla sperimentazione del riluzolo, farmaco in grado di antagonizzare la neurotrasmissione eccitatoria mediata dal glutammato. Le più innovative sperimentazioni sulla terapia di questa malattia sono basate sul trapianto intracerebrale di cellule staminali in sostituzione delle cellule degenerate, o sull’utilizzo di fattori neurotrofici.

Tabella 1. Elenco di malattie da espansione di poliglutammine (triplette CAG) ______________________________________________________________________________________________________________________________ Malattie Siti di Neuropatologie Numero di triplette CAG Prodotti genici Normale Patologico (Localizzazioni intracellulari di aggregati proteici) _______________________________________________________________________________________________________________________________ Malattia di Huntington Striato (neuroni medi (MH) spinosi) e corteccia cerebrale. 6-35 36-121 Huntingtina (n, c) Atassia Spinocerebellare Corteccia cerebellare (cellule Tipo 1 (SCA1) del Purkinje), nuclei dentati 6-39 40-81 Atassina-1 e asse dell’encefalo. (n, c) Atassia Spinocerebellare Cervelletto, nuclei pontini, 15-29 35-64 Atassina-2 Tipo 2 (SCA2) Substantia nigra. (c)

Atassia Spinocerebellare Substantia nigra, 13-42 61-84 Atassina-3 Tipo 3 (SCA3) o globo pallido, (c) malattia di nuclei pontini. Machado-Joseph (MJD) Atassia Spinocerebellare Atrofia cerebellare e 4-18 21-30 Canale del Tipo 6 (SCA6) dell’asse dell’ encefalo. Calcio subunità α1A (m) Atassia Spinocerebellare Fotorecettori e cellule bipolari 7-17 37-130 Atassina-7 Tipo 7 (SCA7) corteccia cerebellare. (n) Atassia Spinocerebellare Atrofia corticale e cerebellare. 7-32 41-78 Subunità regolatoria Tipo12 (SCA12) della proteina fosfatasi PP2A specifica del cervello Atassia Spinocerebellare Gliosi e perdita neuronale 29-42 46-63 Proteina TATA-binding Tipo17 (SCA 17) nello strato delle cellule (TBP) del Purkinje. (n) Atrofia Muscolare Neuroni motori 11-34 40-62 Recettore degli androgeni Spinobulbare (cellule del corno anteriore, (n, c) (SBMA) o neuroni bulbari) e gangli delle radici Malattia di Kennedy dorsali. Atrofia Dentatorubro- Globo pallido, nuclei 7-35 49-88 Atrofina pallidoluysiana rubrodentato e subtalamico. (n, c) (DRPLA) _______________________________________________________________________________________________________________________________ Localizzazione cellulare: c, citosol; m, membrana; n, nucleo.

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IL MELANOMA: PREVENZIONE E DIAGNOSI

Dott. Roberto Cozzi Div di Dermatologia Ospedale “A. Cardarelli” Napoli rcozzi@blisteronline.it

Il melanoma è fra le neoplasie più maligne nell’uomo e la più maligna in ambito cutaneo. Esso trae origine dai melanociti, le cellule che producono la melanina che conferisce il tipico colorito alla nostra pelle. In particolare il melanoma può svilupparsi dai melanociti presenti in sede basale epidermica o da cellule melanocitarie epidermiche (nevociti o cellule neviche di nei congeniti o acquisiti) o, secondo le più recenti acquisizioni, da cellule staminali melanomatose epidermiche, follicolari o dermiche. Il melanoma primitivo, oltre che dalla cute, nel 15% dei casi origina da melanociti o cellule neviche extracutanee presenti nella vagina, nel canale rettale, nell’esofago, nell’occhio (in particolare congiuntiva e coroide), nei linfonodi, nei bronchi, nella vescica e nelle meningi. Il tumore, se non asportato precocemente, metastatizza con rapidità per via linfatica ed ematica. È quindi fondamentale effettuare la diagnosi nella fase iniziale.

nel Nord Europa (14 casi ogni 100.000 persone) e minima in Africa (0,5 casi ogni 100.000 persone). In particolare è di gran lunga più frequente nei soggetti di ceppo europeo (caucasici) rispetto alle altre etnie. I tassi di incidenza più elevati si riscontrano, infatti, nelle aree molto soleggiate e abitate da popolazioni di ceppo nordeuropeo, con la pelle particolarmente chiara. Un dato confortante è la progressiva diminuzione della mortalità, dovuta al maggior numero di melanomi diagnosticati ed operati nelle fasi iniziali. Il melanoma è più frequente nella quarta e quinta decade di vita e raro prima della pubertà. Numerosi sono però i casi diagnosticati nei giovani tra i 20 e i 44 anni. L’incidenza nei due sessi è sovrapponibile: nelle donne la sede più colpita è quella degli arti inferiori, mentre nell’uomo il tronco. Il melanoma è asintomatico, spesso anche in fase avanzata. Talora i pazienti hanno solo la percezione della presenza di una lesione pigmentata che in precedenza era completamente silente.

Epidemiologia

Clinica

L’incidenza del melanoma è in continuo aumento. In Italia fino agli anni Novanta essa era valutata inferiore a 9 - 10 casi ogni 100.000 persone, mentre oggi è salita a 11 - 12 casi ogni 100.000 persone. Il melanoma rappresenta in Europa il 2 - 3% di tutti i tumori maligni ed è al nono posto tra i tumori maligni nel mondo. L’incidenza è maggiore

Dal punto di vista clinico sono sospetti, per una possibile diagnosi di melanoma, i nei intensamente ipercromici, con pigmento a disposizione molto irregolare, a contorni indentati e netta asimmetria, ad insorgenza improvvisa. Queste lesioni devono essere sottoposte ad esame dermatoscopico e, in caso di valutazione dubbia, asportate chirurgicamente con successivo esame

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istologico. Si distinguono quattro varianti clinico - evolutive del melanoma: il melanoma piano – superficiale, il melanoma cupoliforme o nodulare, la lentigo maligna – melanoma, il melanoma acrale lentigginoso. Varianti più rare sono il melanoma amelanotico (caratterizzato dalla totale assenza di melanina), e il melanoma ipomelanotico. Il melanoma piano superficiale insorge come una macchia di colore marrone o nero, che si estende, per mesi o anni, molto lentamente (fase di crescita orizzontale). Se non trattata, la lesione evolve verso una papula o nodulo, espressione della fase di crescita verticale (infiltrazione) del melanoma. Il melanoma nodulare si presenta come un nodulo di colore nero o bluastro, talora rosso o del colore della cute normale. La sua evoluzione è più rapida del melanoma a diffusione superficiale. La lentigo maligna si osserva con maggiore frequenza sul volto e nei soggetti anziani. Ha un quadro clinico sovrapponibile ma un’evoluzione più lenta del melanoma a diffusione superficiale. È considerato un melanoma in situ, ma se non diagnosticato, evolve anch’esso verso la fase di crescita verticale. Il melanoma lentigginoso acrale colpisce le palme, le piante e le unghie. Clinicamente presenta le caratteristiche di una lentigo maligna o di una formazione verrucosa. Se colpisce le unghie, si manifesta come una banda longitudinale di pigmentazione o come un nodulo ulcerato. Etiologia e patogenesi 1) Fattori genetici Tutti i tumori, anche quindi i melanomi, sono dovuti alla mutazione di geni, in gran parte oggi conosciuti. Va subito precisato che un tumore, pur essendo genetico, non significa necessariamente che sia anche ereditario. Nel caso dei melanomi cutanei maligni (cutaneous malignant melanoma, CMM) sono state riconosciute, finora, mutazioni di ben otto geni diversi, assegnati su altrettanti cromosomi e indicati con gli acronimi da CMM1 a CMM8 (1, 2). Queste mutazioni sono però circoscritte al tessuto tumorale, non sono cioè presenti nel sangue o in altri tessuti degli individui affetti, perché insorte nel corso della vita, non trasmesse quindi con le cellule germinali. Per questo motivo i melanomi devono considerarsi genetici ma (almeno nella maggioranza dei casi) non ereditari. Vi è, però, una predisposizione genetica all’insorgenza delle mutazioni, favorite o indotte da alcuni riconosciuti fattori ambientali, qui di seguito riportati. Sotto questo aspetto il melanoma ha caratteristiche che lo accostano alle malattie poligeniche multifattoriali. La predisposizione genetica è dimostrata dai casi di familiarità e anche dalla evenienza di melanomi multipli nello stesso soggetto. Va inoltre considerato che circa il 10% dei pazienti ha almeno un familiare di primo e/o secondo grado con melanoma. Con l’uso di recentissime tecniche di analisi del DNA, quale la Array-CGH (comparative genomic hybridization) è stato tra l’altro dimostrato nei portatori di mutazioni del gene BAP1 un maggior rischio di insorgenza di tumori melanocitici benigni, di melanoma cutaneo e di melanoma dell’uvea (3 - 6). Va infine ricordato che è stata riscontrata la ricorrenza familiare, con modello di eredità autosomica dominante, dell’associazione melanoma

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- astrocitoma (Familial recurrence of melanoma and/or astrocytoma) (7) di melanoma - cancro del pancreas (Melanoma - pancreatic cancer syndrome) (8) e di melanoma uveale (9). 2) Fattori ambientali Una delle principali cause è l’esposizione eccessiva, inadeguata e indiscriminata, nel corso della vita, ai raggi UV. In particolare la comparsa del melanoma a diffusione superficiale sarebbe associata a esposizione intermittente agli UV su cute non abituata, mentre l’esposizione continuativa sembrerebbe provocare la lentigo maligna. Studi condotti in Australia e Usa, hanno registrato aumenti di rischio di circa 2 - 3 volte associati a scottature solari in giovane età mentre, in età adulta, tale correlazione non è risultata significativa. Fattori di rischio importanti sono: il fototipo (capelli rossi - biondi, occhi chiari, carnagione chiara), una storia clinica di eccessiva esposizione al sole, di scottature e di alterata reattività cutanea ai raggi UV, i nei congeniti giganti, i nei cosiddetti displastici (sindrome del nevo displastico). Tra i fattori endogeni, particolare importanza riveste anche l’assetto immunologico del paziente. Terapia e prognosi La terapia standard del melanoma è rappresentata dall’exeresi chirurgica, con taglio effettuato da 0,5 - 1 cm a 2 - 3 cm dal margine del melanoma, in rapporto allo spessore della neoformazione. Si effettua l’asportazione del linfonodo sentinella, prima sede linfonodale del drenaggio linfatico dell’area di escissione del melanoma primitivo, nel caso di exeresi di melanomi con spessore maggiore di 0,75 - 1 mm secondo Breslow, IV livello di Clark, ulcerazione spontanea e regressione massiva. Il melanoma in situ, quello che non supera la membrana basale dermo - epidermica, ha una prognosi buona dopo exeresi chirurgica con quasi il 100% di sopravvivenza a 10 anni. Il melanoma sottile, quando lo spessore secondo Breslow (ossia lo spessore misurato con oculare micrometrico dallo strato granuloso alla profondità massima) è inferiore a 1 mm, ha una sopravvivenza del 93,5% a 5 anni e dell’87% a 10 anni. Il melanoma spesso, con spessore secondo Breslow superiore a 1 mm è quello con prognosi peggiore. I pazienti cui è stato asportato un melanoma devono essere attentamente monitorati con un rigido follow - up post chirurgico, attraverso esami seriati della cute, sia clinici sia con l’apporto del dermatoscopio, palpazione della zona circostante la lesione primitiva e dei linfonodi limitrofi. I risultati del follow - up possono essere migliorati se il paziente viene istruito a ispezionare mensilmente, in modo autonomo tutta la superficie cutanea. Altri accorgimenti raccomandabili riguardano l’astensione dall’eccessiva esposizione solare, l’uso di creme con efficaci schermi protettivi e di un abbigliamento protettivo. A seconda dello stadio del melanoma primitivo i pazienti eseguono ogni 6 e 12 mesi esami ematochimici, radiografia del torace, ecografia dell’addome superiore e inferiore e delle stazioni linfonodali satellite, oppure TC total body con mezzo di contrasto o PET total body. Il periodo di osservazione del paziente dovrebbe proseguire


oltre i 10 anni dall’asportazione del melanoma cutaneo, poiché in letteratura sono stati riportati casi di metastasi molto tardive. Prevenzione Per ridurre i tassi di morbilità e mortalità connessi alla malattia, è necessario intraprendere seri programmi sia sul fronte della prevenzione primaria (riduzione del rischio) che di quella secondaria (diagnosi precoce). Prevenzione primaria Per essere valida, deve essere focalizzata su due principali obiettivi: la documentazione dello stato di rischio e l’informazione della popolazione. Il primo obiettivo deve condurre all’individuazione dei soggetti che presentano uno o più fattori di rischio: alto numero di nevi, familiarità per melanomi, antecedente melanoma, storia di pregresse gravi scottature solari, suscettibilità alle scottature, refrattarietà all’abbronzatura. I soggetti che rispondono a questi requisiti devono ricevere tutte le informazioni necessarie a ridurre lo stato di rischio. In particolare, la raccomandazione di non esporsi al sole senza un’adeguata protezione e l’uso di creme solari con protezione totale. Il secondo obiettivo, l’informazione, verte su messaggi chiari, semplici e sintetici, rivolti, oltre che alla popolazione adulta, in particolare ai ragazzi, poiché i comportamenti scorretti acquisiti in età infantile tendono a conservarsi negli anni, diventando più difficili da eradicare. Può essere utile introdurre nei messaggi ulteriori incentivi nei confronti della protezione solare, come ad esempio quelli di natura estetica riguardanti la prevenzione delle rughe. Prevenzione secondaria Cardine della prevenzione è insegnare ai pazienti come condurre l’autoesame della cute, come riconoscere le lesioni potenzialmente pericolose e quando rivolgersi al medico. Autoesame della cute: bisogna controllare bene la cute davanti ad un grande specchio o ad un doppio specchio, facendosi aiutare da un familiare e, nel caso, realizzare un proprio album fotografico. Si inizia esaminando il torace, l’addome, il dorso e i fianchi sollevando anche le braccia. Successivamente bisogna controllare gli arti superiori nelle varie posizioni, compreso il palmo delle mani, poi le gambe soprattutto nella parte posteriore, non dimenticando i piedi, compresi la pianta e gli spazi fra le dita. Infine il volto, il collo e la nuca. Il sospetto di una lesione in fase evolutiva si fonda su alcune modificazioni che avvengono in tempi più o meno brevi. A scopo mnemonico questi segni clinici sono riassunti dalle prime cinque lettere dell’alfabeto A – B – C – D – E, che corrispondono alle iniziali dei caratteri che possono indicare la eventuale malignità della lesione pigmentata: A = asimmetria (se divisa in due parti da una linea perpendicolare, non c’è la loro precisa sovrapponibilità); B = bordi irregolari, frastagliati; C = colore disomogeneo (presenza di due o più tonalità cromatiche);

D = dimensioni rapidamente aumentate; E = evoluzione repentina, con improvvise mutazioni di diametro, forma e colore. Dermoscopia La demoscopia ha notevolmente migliorato l’accuratezza diagnostica preoperatoria delle lesioni melanocitarie e spesso consente di escludere lesioni non melanocitarie come le cheratosi seborroiche, gli epiteliomi basocellulari pigmentati e le lesioni vascolari, costituendo quindi un’innovativa metodica diagnostica in vivo e non invasiva. Tale tecnica consente di esaminare le strutture pigmentate dell’epidermide sino ed oltre la giunzione dermo - epidermica. L’osservazione viene fatta appoggiando sulla cute, precedentemente coperta con un sottile strato di olio, l’obiettivo di un microscopio. Questo accorgimento consente di rendere translucido lo strato corneo eliminando la luce riflessa dalla superficie cutanea. La demoscopia o epiluminescenza, può essere eseguita con un microscopio semplice, di piccole dimensioni, o con sistemi digitalizzati che consentono l’archiviazione delle immagini, “mappa nevica”, al fine di rivalutarle nel tempo per seguire le eventuali evoluzioni di lesioni sospette. Si definiscono caratteri (pattern) demoscopici quelle strutture specifiche che ogni singola lesione può presentare all’osservazione demoscopica. Sono predittivi per la diagnosi di sospetto melanoma cutaneo, il riscontro di un pattern polimorfo (combinazione di tre o più strutture demoscopiche atipiche) e la presenza di alcuni criteri demoscopici locali: - Strie e pseudopodi alla periferia della lesione; - Velo bianco - bluastro e aree di regressione; - Punti, globuli e reticolo irregolare, presenza di vasi lineari irregolari, puntiformi e a forcina o pattern vascolare polimorfo. Ovviamente ogni lesione che suscita un dubbio all’esame demoscopico, deve essere asportata chirurgicamente e sottoposta ad esame istologico, che rimane l’indagine fondamentale per la diagnosi di melanoma cutaneo. Conclusioni La diagnosi precoce rappresenta la principale arma disponibile attualmente nella lotta al melanoma cutaneo. Le campagne di sensibilizzazione effettuate negli ultimi anni, hanno contribuito ad elevare il livello di attenzione della popolazione verso le neoformazioni cutanee, così da incrementare la richiesta da parte sia dei pazienti che dei medici di famiglia di una diagnosi tempestiva e non invasiva di ogni lesione pigmentata sospetta. La dermoscopia è il più moderno e valido ausilio nello screening delle lesioni pigmentate cutanee, consentendo al dermatologo esperto un miglioramento della accuratezza diagnostica, in particolare nella diagnosi differenziale fra lesioni melanocitarie benigne e maligne. Tuttavia la dermoscopia da sola non consente sempre la diagnosi, per cui tale tecnica deve essere sempre affiancata da un’accurata valutazione morfologica ed evolutiva della lesione, e dai dati anamnestici e familiari del paziente. Ma, nel caso si abbia il più piccolo dubbio, non bisogna esitare nel ricorrere alla verifica istologica della lesione.

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Dr. Fortunato Lonardo Responsabile S.S. di Citogenetica Medica e Genetica Molecolare U.O.C. di Genetica Medica, A.O.R.N. “G. Rummo” - Benevento flonardo@blisteronline.it

I cromosomi sono strutture situate nel nucleo della cellula, costituiscono la sede del materiale genetico ed il veicolo attraverso il quale esso viene trasferito da una generazione all’altra. L’insieme di cromosomi della cellula, dell’individuo, o della specie alla quale il genoma appartiene viene definito cariotipo. La specie umana possiede tipicamente 46 cromosomi, suddivisi in 23 coppie. Una coppia contiene i cromosomi sessuali (XX nella femmina, XY nel maschio), mentre le altre 22 contengono i cromosomi non legati al sesso (autosomi), numerati appunto dall’1 al 22, e suddivisi in 7 gruppi, contrassegnati dalle lettere dell’alfabeto dalla A alla G. Normalmente i cromosomi non sono visibili al microscopio ottico, ma durante la divisione cellulare essi attraversano una fase (metafase) in cui il processo di progressiva condensazione a cui vanno incontro li rende visibili e studiabili se osservati ad un ingrandimento di circa 1000x. La scienza che studia la struttura, la funzione, l’evoluzione dei cromosomi e le alterazioni a cui possono andare incontro si chiama Citogenetica. In particolare, la citogenetica umana si occupa di come i normali processi di duplicazione e di distribuzione dei cromosomi durante le divisioni meiotiche e mitotiche possano andare incontro ad errori e determinare quindi anomalie cromosomiche numeriche o strutturali, che a loro volta possono causare ritardo mentale, malformazioni, cancro, infertilità ed aborti spontanei. Molte patologie riscontrabili nell’uomo derivano appunto da anomalie cromosomiche, che comportano una variazione nella quantità di materiale genetico (sbilanciamento). Le anomalie cromosomiche sono frequentissime al momento del concepimento e nelle prime fasi dello sviluppo di una nuova vita, poi subiscono una sorta di selezione naturale, che elimina quelle caratterizzate da un effetto più “devastante”. Basti pensare che un’anomalia cromosomica è presente nell’80% degli aborti che si verificano nelle prime due settimane di gestazione, nel 50 - 60% degli aborti del primo trimestre, nel 25% di tutti i casi di aborto e di nato morto (1). Nei nati

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LO STUDIO DEI CROMOSOMI: DAI PRIMI PASSI ALLE PIÙ MODERNE TECNICHE DI CITOGENETICA MOLECOLARE

vivi la percentuale si riduce invece a circa lo 0,6% (2). Tra le varie anomalie cromosomiche, le più frequenti sono le cosiddette aneuploidie, ossia le anomalie numeriche che interessano singoli cromosomi. Queste anomalie possono riguardare sia i cromosomi sessuali (in tal caso sono meglio tollerate), sia gli autosomi. La situazione più frequente che riguarda la presenza di un cromosoma in meno (monosomia) è la cosiddetta s. di Turner, caratterizzata dall’assenza di un cromosoma X in un soggetto di sesso femminile. Questa patologia comporta bassa statura, sterilità e piccole anomalie fisiche. La situazione più frequente che riguarda la presenza di un cromosoma in più è invece la cosiddetta s. di Down, caratterizzata dalla presenza di tre cromosomi 21 (trisomia). Questa patologia comporta un particolare aspetto fisico, ben noto a tutti, sempre accompagnato da un certo grado di ritardo mentale. In circa la metà dei casi sono presenti anche malformazioni degli organi interni (soprattutto cardiopatie congenite). Le anomalie cromosomiche strutturali sono meno frequenti, e possono comportare la perdita (delezione), l’aumento (duplicazione), lo spostamento (traslocazione), di tratti cromosomici, che possono anche rompersi e riaggiustarsi, ma con orientamento invertito rispetto a quello originale (inversione). Quando l’anomalia cromosomica strutturale non comporta perdita o aumento di materiale genetico, viene definita “bilanciata” e la persona che la presenta viene definito “portatore sano”. Anche in questo caso, però, l’anomalia cromosomica ha una notevole importanza, in quanto espone il portatore ad un rischio riproduttivo che può arrivare, in casi particolari, addirittura al 100%! Il rischio consiste nella possibilità di andare incontro ad aborti spontanei, ma anche alla nascita di bambini con difetti congeniti e ritardo mentale. Da non dimenticare, infine, che un’anomalia cromosomica è alla base anche di molte forme di neoplasia (leucemie, linfomi e tumori solidi). L’importanza dei cromosomi nella fisiologia e


nella patologia spiega il grande interesse che storicamente c’è stato per lo studio di queste microscopiche strutture. I primi passi risalgono alla fine del 1800, con gli studi di Arnold (1879) e Flemming (1882), che esaminarono per primi i cromosomi umani. In particolare Walther Flemming, un citologo e professore di anatomia austriaco, fu il primo a pubblicare un’immagine dei cromosomi umani, il primo a definire cromatina la porzione del nucleo più intensamente colorabile, ed il primo ad utilizzare il termine mitosi. Nel 1888 Waldeyer introdusse invece il termine cromosoma e numerosi studiosi iniziarono a pensare che i cromosomi fossero i determinanti dell’eredità. Fu infine Sutton (1903) che per primo si riferì allo studio dei cromosomi col termine di citogenetica, combinando i nomi di due diverse discipline, la citologia e la genetica. Negli anni seguenti apparvero numerose pubblicazioni che riportavano le prime stime del numero dei cromosomi umani. Von Winiwarter nel 1912 esaminò preparati istologici testicolari di quattro uomini, fissati e tagliati in sezioni; lo spessore di soli 7,5 µm impediva, però, di contare bene i cromosomi. Egli concluse che i maschi avevano 47 cromosomi e le femmine 48. Per le femmine il dato sperimentale che egli produsse era poco consistente, poiché riuscì a trovare solo tre mitosi ovogoniche chiare. Una pubblicazione che suscitò grande interesse da parte del mondo scientifico fu anche quella di Painter (1923). Egli esaminò preparati testicolari di tre persone sottoposte a castrazione. In un lavoro preliminare l’autore affermò che il numero di cromosomi era 46 o 48 (1921). Nella relazione finale (1923) decise in favore di 48 cromosomi. Questa conclusione influenzò gli scienziati per alcuni decenni, tanto che il dato fu “confermato” da diversi studi successivi. Hsu nel 1952 dimostrò che era possibile ottenere preparati cromosomici di qualità superiore utilizzando colture cellulari invece che sezioni istologiche. Nonostante la migliore qualità dei preparati, anche lui confermò il numero di 48 cromosomi. Un errore di laboratorio, del quale si accorse solo dopo aver inviato l’articolo per la pubblicazione, gli dette però la possibilità di mettere a punto la metodica dello “shock ipotonico”, che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per tutti gli studi successivi. Nel 1955 Ford e Hamerton introdussero l’uso della colchicina, una sostanza già nota per essere in grado di inibire la formazione del fuso mitotico e di far quindi arrestare in metafase tutte le cellule in divisione. Tjio e Levan, lavorando su colture di fibroblasti da polmone fetale umano, ottimizzarono il trattamento ipotonico ed il blocco con colchicina. Nel 1956 giunsero ad una conclusione “Non vogliamo generalizzare le nostre scoperte con l’affermazione che il numero cromosomico nell’uomo è 2n = 46, prima di aver effettuato un nuovo accurato controllo del numero cromosomico nelle mitosi spermatogoniche nell’uomo, ma è difficile non concludere che questa sembrerebbe la spiegazione più naturale delle nostre osservazioni” (3). Questo momento segna la nascita della Citogenetica moderna, che compie rapidamente nume-

rosi importanti progressi. Nel 1959 Lejeune scopre la trisomia 21 nella s. di Down, Ford et al. che la s. di Klinefelter ha un cariotipo 47, XXY, Jacobs e Strong che la s. di Turner ha un cariotipo 45, X. Nel 1960 Patau e Edwards descrivono rispettivamente due trisomie autosomiche, poi identificate come trisomia 13 e 18. Nel 1963 Lejeune osserva la prima sindrome da delezione, la s. del “Cri du chat” (5p-). Negli anni 1964-65 Schroeder e German scoprono un aumento dell’instabilità cromosomica rispettivamente nelle s. di Fanconi e di Bloom. Negli anni 1968-70 vengono introdotte le tecniche di bandeggio cromosomico, che facilitano il riconoscimento dei cromosomi e ne consentono uno studio molto più dettagliato, in particolare dal punto di vista strutturale. Ma la citogenetica standard ha dei limiti, dovuti al potere di risoluzione del microscopio ottico ed alla difficoltà nel distinguere tra di loro tratti cromosomici molto vicini o molto simili per colorazione. Per superare questi limiti si è cercato di utilizzare delle tecniche diagnostiche proprie della genetica molecolare, che si basano sulla capacità delle sequenze nucleotidiche di riconoscere le sequenze complementari e di legarsi ad esse, formando molecole ibride. Inizialmente sono state utilizzate sonde radioattive, rilevate mediante autoradiografia. Negli anni successivi si è passati ad utilizzare metodiche di ibridazione che si basano sulla fluorescenza o su metodi enzimatici (ibridazione non isotopica). Queste tecniche presentano numerosi vantaggi rispetto alle precedenti, in termini di sensibilità e specificità. L’obiettivo di queste tecniche è quello di individuare specifiche sequenze di DNA direttamente su preparati fissati su vetrino (ibridazione in situ). La sensibilità oggi raggiunta consente di localizzare tratti anche molto piccoli (0,5 – 1 kilobasi) ed in singola copia. L’ibridazione in situ non isotopica presenta il vantaggio di poter studiare le anomalie numeriche e strutturali dei cromosomi non solo nelle piastre metafasiche, ma anche direttamente nei nuclei interfasici (citogenetica interfasica). Questo consente di effettuare l’analisi anche nei casi in cui non si riescono ad ottenere metafasi in numero sufficiente e/o di qualità adeguata. A differenza delle tecniche di citogenetica tradizionale, è inoltre possibile esaminare anche cellule che non sono in divisione, preparati istologici, ecc. Nell’ambito della diagnosi prenatale utilizzando questo approccio non è necessario ricorrere alla coltura delle cellule, e quindi è possibile arrivare ad una diagnosi delle più comuni patologie in soli due giorni, invece delle due - tre settimane necessarie per un esame tradizionale. L’evoluzione tecnologica, però, non si è certamente arrestata a queste metodiche, per quanto già molto sofisticate, ed ha fornito, sta fornendo e fornirà sempre nuove risorse ai ricercatori ed ai medici che si occupano dei pazienti con problemi riconducibili ad anomalie cromosomiche. Un ulteriore notevolissimo passo avanti è stato compiuto con la messa a punto di sistemi in grado di aumentare in maniera sbalorditiva la risoluzione degli studi cromosomici. La realizzazione di piattaforme basate su cosiddetti microarray consente di valutare oggi con un unico esame la eventuale presenza di sbilanciamenti cromosomici anche molto piccoli. I microarray sono costiwww.blisteronline.it

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tuiti da una matrice ordinata di “punti”, ognuno dei quali corrisponde ad un piccolo tratto del nostro genoma. Per avere un’idea del livello di risoluzione a cui si può arrivare con questi esami basti pensare che su ogni array possono oggi essere “sistemati” fino a 4 milioni di punti, e per ogni singolo frammento genomico a cui quel punto corrisponde è possibile stabilire se la quantità presente nel soggetto da esaminare è normale (2 copie), ridotta (assente o in singola copia), oppure aumentata (3 o più copie)! La citogenetica standard riesce ad evidenziare solo quegli sbilanciamenti che raggiungono una dimensione di almeno 3 - 5 milioni di basi. La tecnica dei microarray, utilizzando le piattaforme a risoluzione più alta oggi disponibili, consente invece di rilevare sbilanciamenti molto più piccoli, anche di sole 1.400-1.500 basi. Considerando che mediamente le dimensioni di un gene umano sono comprese tra qualche migliaio e qualche milione di basi (le “letterine” che costituiscono l’alfabeto del nostro genoma), la citogenetica standard può facilmente “non vedere” alterazioni che coinvolgono numerosi o numerosissimi geni, mentre i microarray sono in grado di mettere in

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evidenza addirittura sbilanciamenti intragenici! Sempre con i microarray, utilizzando una tecnica simile a quella impiegata per rilevare gli sbilanciamenti genomici, è inoltre possibile valutare il profilo di espressione specifico di un tumore per conoscerlo meglio e magari impostare una terapia mirata. Per concludere, le anomalie cromosomiche rappresentano la causa più frequente di ritardo mentale e di anomalie dello sviluppo, e rappresentano un capitolo molto importante anche nell’ambito della medicina riproduttiva e dell’oncologia. La disponibilità di tecnologie ad altissima risoluzione ha consentito di individuare le basi patogenetiche di un numero impressionante di condizioni patologiche, offrendo un’utilissima risorsa per il loro inquadramento diagnostico. La migliore conoscenza di queste patologie, in parte già note da un punto di vista clinico, in parte di nuova individuazione, pone le basi anche per la loro prevenzione e, laddove possibile, per il loro trattamento.


LA MALATTIA DEL SITO FRAGILE: UNA TRA LE PIÙ FREQUENTI CAUSE DI RITARDO MENTALE MASCHILE Dott.ssa Patrizia Friso Servizio di Genetica Medica Ospedale “A. Cardarelli” Napoli pfriso@blistronline.it Prof. Valerio Ventruto Istituto di genetica e Biofisica “ A. Buzzati Traverso” CNR Napoli vventruto@blistronline.it

Premessa È stato dimostrato che nella popolazione umana il ritardo mentale è più diffuso tra i maschi che non tra le femmine. Su questo dato, statisticamente provato, si possono fare supposizioni ed avanzare ipotesi più disparate, ma si tratta in realtà di una causa genetica. Va ricordato che l’assetto cromosomico sessuale è XX nelle femmine e XY nei maschi. Si è scoperto che molti geni recessivi che causano il ritardo mentale si trovano sul cromosoma sessuale X (sono perciò detti geni X-linked). Questo fatto comporta che le femmine portatrici non ammalano perché, avendo due cromosomi X, il cromosoma corrispondente a quello recessivo con la mutazione è dominante, prevale cioè funzionalmente sull’altro. Poiché la femmina trasmette solo uno dei due cromosomi X, il 50% dei maschi può ricevere il cromosoma con la mutazione e, mancando del corrispondente cromosoma X sano, manifesterà la malattia. Si conoscono circa 300 malattie genetiche X-linked che inducono nei maschi il ritardo mentale. La maggioranza di questi geni è stata assegnata al braccio lungo del cromosoma X e solo un quinto al braccio corto (1). La più conosciuta e diffusa è la malattia di Martin-Bell, che per le sue caratteristiche è ancora oggi, a 50 anni dalla sua individuazione, oggetto di studio. La malattia prende il nome dagli Autori che per primi riconobbero, nel 1943, in un ampio parentado, molti maschi con ritardo mentale e l’eredità in accordo al modello di trasmissione X-linked recessiva. La frequenza della malattia Ciò che ha richiamato l’attenzione sulla malattia di Martin-Bell è anzitutto la sua frequenza. È oggi riconosciuta essere la forma più diffusa di ritardo mentale nei maschi, seconda solo alla sindrome di Down. Si stima che la sua frequenza sia di circa di 1 su 4.000 di nati maschi, cioè più del doppio della incidenza dei concepiti con l’anemia mediterranea (morbo di Cooley). Si deve aggiungere che essendo ad insorgenza clinica tardiva, resta spesso misconosciuta fino alla pubertà. In Italia la malattia è stata inclusa, con la fibrosi cistica, la beta-talassemia e la poliposi intestinale familiare, in Progetti Nazionali finalizzati alla diagnosi e alla prevenzione di queste patologie ritenute, per la loro incidenza e gravità, di notevole rilevanza sociale. Il quadro clinico La malattia non si manifesta alla nascita. Oltre al ritardo mentale, che è costante e di entità medio-grave, vi è una notevole variabilità dell’espressione fenotipica della malattia. I segni di più frequente osservazione sono: la tendenza all’alta statura, il disadattamento ambientale talvolta notevole, l’irrequietezza, il difetto di concentrazione, una “gaze avversion” l’evitare cioè i contatti visivi. Il dimorfismo facciale è variabile: il viso tende ad essere stretto ed allungato, la fronte e la mandibola sono prominenti, i padiglioni auricolari sono ampi e sporgenti, a volte vi è una lieve asimmetria facciale, gli occhi sono spesso ravvicinati (ipotelorismo). L’atteggiamento autistico si riscontra in un terzo degli affetti. Sono state anche osservate modifiche nella sfera emozionale, disturbi del sonno. È stata anche rilevata una significativa iperreattività neuronale che, come è noto, è alla base delle crisi epilettiche. Un approfondimento dello studio su questo dato sarebbe utile in quanto potrebbe fare luce sui meccanismi che inducono l’epilessia in numerose altre sindromi neurologiche associate al ritardo mentale. Un segno importante e caratteristico è, contrariamente a quanto avviene spesso nei ritardi mentali, il riscontro di una circonferenza cranica non ridotta ma aumentata (macrocrania). Altro segno che rende peculiare la sindrome è il macrogenitalismo, sia come macropenia che macroorchidia. Di questo segno, abbastanza frequente e che si evidenzia solo dopo la pubertà, non si conosce il non casuale rapporto con il ritardo mentale, anche perché le funzioni endocrine sono normali. La citogenetica e la genetica molecolare La cromosomopatia che caratterizza la malattia è il sito fragile. La Martin-Bell è infatti anche conosciuta come sindrome dell’X fragi-

le (Fragile X syndrome o Fragile Mental Retardation -1 o FRAXA) per un particolare marker cromosomico, detto sito fragile, scoperto nel 1969 e ritenuto il segno patognomonico della malattia. Il sito fragile è sul tratto q27.3 del cromosoma X e si rivela come una evidente costrizione su quel tratto cromosomico. La modalità di trasmissione della malattia di Martin-Bell è tuttora oggetto di studio differenziandosi dai modelli propri delle malattie mendeliane in cui le mutazioni sono stabili e immodificate nel passaggio attraverso le generazioni. In questa malattia infatti la mutazione è instabile. L’instabilità consiste nel fatto che la sequenza di tre basi (triplette) chiamate CGG (citosina-guanina-guanina) situate nella regione non codificante del gene della malattia (FM1) sono variabili nel numero e questo fatto è responsabile del difetto funzionale di FM1. Normalmente il numero di triplette non è superiore a 40. Valori che vanno da 41 a 60 triplette ripetitive indicano una zona definita grigia o intermedia. Le donne che hanno un numero di 61-200 triplette ripetitive non hanno il ritardo mentale, ma la loro condizione è definita di premutazione, in quanto possono concepire maschi con la piena mutazione, in cui il numero di triplette è superiore a 200, questi maschi avranno la malattia. Metafase parziale di una cellula che mostra un sito fragile su un cromosoma X (Figura in alto, freccia). Altre due diverse patologie causate dalla premutazione del gene Si comprende l’importanza per la prevenzione della malattia di riconoscere le donne portatrici di premutazione (con l’esame del DNA prelevato da un campione di pochi centimetri di sangue periferico). L’esame però è anche importante perché le portatrici di premutazione possono andare incontro a una menopausa precoce (Premature ovarian failure) e nei maschi può insorgere una grave malattia neurologica senza il ritardo mentale. a)Menopausa precoce Le donne portatrici di premutazione possono andare incontro a una menopausa precoce (Premature ovarian failure). Va ricordato che questa non rara disfunzione può essere causata da almeno una ventina di altre malattie genetiche. b) Sindrome da tremori e atassia cerebellare. Mentre nelle femmine lo stato di premutazione può essere causa di POF, la stessa condizione, se presente nei maschi, può indurre una sindrome neurologica caratterizzata da tremori e atassia cerebellare, indicata con l’acronimo FXTAS (Fragile X tremor/ataxia syndrome). La malattia si manifesta principalmente in età adulta con variabile espressività inter - e intrafamiliare ed è ritenuta una delle più frequenti cause di disordine neurodegenerativo maschile. Alla risonanza magnetica si rivela una caratteristica iperintensità T2 nel peduncolo medio del cervelletto. Come nell’associazione permutazione - prematura insufficienza ovarica, anche di questa sindrome la patogenesi è ancora incerta. La prevenzione della malattia Considerata l’elevata frequenza, il sospetto della malattia di Martin-Bell deve essere posto in tutti i casi di ritardo mentale di incerta eziologia. La diagnosi può rimanere misconosciuta anche fin dopo la pubertà. Essendo una malattia monogenica con elevato rischio di ricorrenza, e poiché non si dispone di efficaci terapie, si è avvertita in tutti i Paesi la necessità di attuare programmi di informazione ed interventi miranti soprattutto alla sua prevenzione attraverso anche screening di popolazione. Sono stati anche proposti screening prenatali - neonatali per i concepiti di sesso maschile. Una estesa indagine è stata condotta su 29.000 donne a cui veniva proposto l’esame molecolare prenatale o preconcezionale in occasione della consulenza genetica prenatale e preconcezionale: il 4% delle donne esaminate venne trovato con la premutazione e quasi altrettante con una mutazione definita intermedia. Nonostante la rilevanza clinico - sociale di questa diffusa malattia, si deve purtroppo constatare nel nostro Paese la scarsità di informazione e poche concrete iniziative volte alla sua prevenzione.

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OBESITÀ: È COLPA SOLO DELL’ALIMENTAZIONE?

Dott.ssa Patrizia Olivieri Laboratorio di Genetica Medica e Citogenetica P.O. “A. Tortora” Pagani (SA) polivieri@blisteronline.it Prof. Valerio Ventruto Istituto di Genetica e Biofisica “A. Buzzati Traverso” CNR Napoli vventruto@blisteronline.it

Definizione e classificazione

Obesità isolate

L’obesità è un disordine del bilancio energetico che induce un eccessivo accumulo di adipe, in prevalenza nel tessuto sottocutaneo addominale.

Le obesità isolate, quindi non sindromiche, sono sia poligeniche - multifattoriali che monogeniche.

Si considerano diversi gradi e tipi di obesità. Il grado di una obesità è valutato in base all’ indice della massa corporea (IMC), che si ottiene dividendo il peso per il quadrato dell’altezza del soggetto (1). I valori normali di IMC sono compresi tra 18,5 e 25. Dal confronto con i valori medi, l’indice consente di distinguere un semplice sovrappeso dall’obesità. Il valore preso come soglia per la diagnosi di obesità è il 95° percentile, che significa che su un campione di riferimento di 100 persone considerate sane, solo 5 raggiungono quella soglia senza doversi considerare obesi. I tipi di obesità possono essere classificati come segue: 1. Obesità parziali, localizzate solo ad alcune aree corporee (principalmente del tessuto sottocutaneo addominale); 2. Obesità totali; 3. Obesità isolate, non associate cioè a disordini di altri organi o apparati; 4. Obesità sindromiche, in associazione non casuale ad altri difetti congeniti. Obesità, parziali o totali, in sindromi genetiche Facciamo un breve cenno alle sindromi ereditarie genetiche in cui l’obesità è associata a difetti congeniti di organi o apparati, neurologici, cardiovascolari, scheletrici, ecc. Si conoscono quasi cento di queste malattie, in più della metà delle quali è possibile una diagnosi prenatale molecolare, poiché si conoscono i geni responsabili (2). Sono sindromi in prevalenza monogeniche con modelli di ereditarietà non univoci. Ricordiamo, tra le più note, la sindrome di Prader - Willi, caratterizzata da notevole obesità che inizia fin dai primi anni di età, polifagia, ipogenitalismo, grave ipotonia muscolare e disturbi comportamentali.

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Va preliminarmente chiarito il significato di questi termini. Le cause di tutte le patologie umane possono essere incluse in tre gruppi: 1. Cause ambientali, quali infezioni (batteriche, fungine, virali), agenti fisici, disordini comportamentali, e – per il tema che stiamo trattando – una non corretta alimentazione 2. Cause monogeniche, indotte dalla mutazione di singoli geni, regolatori o trascrizionali. Queste patologie sono responsabili di più di 6.000 malattie genetiche, in gran prevalenza ereditarie 3. Cause poligeniche - multifattoriali, dovute alla interazione di fattori ambientali e genetici. Sono circa 200, molte delle quali sono la causa di patologie frequenti e di rilevanza sociale, come il diabete, l’ipertensione, le sindromi depressive, la spina bifida, il labbro leporino, la sclerosi multipla, l’Alzheimer, l’artrite reumatoide, l’ipertensione primaria, diverse cardiopatie congenite, molti tumori Interazione genetica - ambiente Va chiarito che l’ interazione genetica - ambiente caratterizza tutte le tre categorie, anche se con diversa prevalenza di uno dei fattori sull’altro (vedi Figura).

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Viene raffigurato nella figura il diverso ruolo che hanno nelle patologie umane i fattori ambientali (colore arancione) e quelli genetici (colore verde). 1 Malattie infettive e altre cause ambientali; 2 Malattie poligeniche - multifattoriali; 3 Malattie genetiche monogeniche o monofattoriali. L’obesità infantile Il tipo più frequente di obesità isolata, non sindromica, è quella infantile e costituisce un’emergenza sanitaria di tutti i Paesi industrializzati. L’Italia, a questo proposito, detiene il primato europeo negativo per obesi compresi nella fascia di età tra i 9 e gli 11 anni, poiché è il 15% dei bambini che rientra in questa area di età. L’obesità infantile ha ereditarietà sia multifattoriale che monogenica. Perché si manifesti il fenotipo obeso, alla componente genetica poligenica devono quindi contribuire fattori di rischio definiti ambientali, in misura variamente significativa. Ovviamente il principale fattore che concorre all’insorgenza dell’obesità dei bambini con suscettibilità genetica al disordine è l’eccessivo apporto calorico dato dalla sovralimentazione. Altre riconosciute cause ambientali non vanno però sottovalutate, prima tra tutte la ridotta attività fisica (sono spesso bambini che trascorrono molte ore davanti al televisore o ai videogiochi!), ma anche le carenze affettive che possono indurre il bambino a cercare nel cibo compenso e conforto. Si conoscono più di 250 geni ritenuti fattori predisponenti all’obesità, individuati sulle diverse coppie di cromosomi (2). La conoscenza delle funzioni di questi geni predisponenti, oggi solo in parte nota, consentirà in futuro anche approcci di prevenzione primaria. Lo screening dell’intero genoma (cioè dei tremila milioni di lettere che formano il DNA di ogni cellula umana) ha consentito il riconoscimento di varianti polimorfiche geniche - conosciute con l’acronimo SNPs - ritenute fattori predisponenti all’aumento dell’indice di massa corporea. Le mutazioni dei geni, che vengono qui di seguito riportati, si ritiene siano tra le cause più frequenti di obesità monogenica severa. Un gene candidato è PPAR-delta (peroxisome proliferator - activated receptor δ) assegnato al locus 6p21.2-p21.1. Questo gene è un fattore di trascrizione che controlla a sua volta l’espressione di geni della differenziazione degli adipociti, dell’accumulo dei lipidi e della sensibilità all’insulina (3). Sul cromosoma 6q12.2, un locus quindi diverso dal precedente, vi è il gene FTO (fat mass and obesity associated), espresso a livello ipotalamico. Questo gene si ritiene associato all’obesità dell’età evolutiva e le sue mutazioni inducono iperfagia e una riduzione del senso della sazietà. Il deficit di pro - ormone convertasi I, causato da mutazioni del corrispondente gene sul cromosoma 5, induce una forma di grave obesità infantile.

Mutazioni nel gene del recettore MC4R (melanocortin 4 receptor), al locus cromosomico 18q, si ritrovano nel 6% delle obesità severe ad esordio infantile. Il gene della leptina localizzato sul cromosoma 7, se mutato, è alla base del deficit congenito dell’ormone medesimo, ed è la causa di forme congenite gravi di obesità. È interessante ricordare che sono stati segnalati miglioramenti della malattia con la somministrazione dell’ormone deficitario ricombinante. L’ormone leptina, secreto dagli epatociti in proporzione al loro contenuto di grasso, si lega ai recettori di neuroni presenti nel nucleo arcuato dell’ipotalamo, stimolandoli a secernere il neuropeptide α-MSH il cui legame al recettore MC4R porta alla riduzione dell’assunzione di cibo. In condizioni di riduzione del tessuto adiposo, i livelli dell’ormone leptina diminuiscono, ed entra in azione il neuropeptide oressizzante NPγ. Il gene della leptina localizzato sul cromosoma 7, se mutato, è alla base del deficit congenito dell’ormone, riscontrato in casi di obesità congenita grave, curabile con la somministrazione dell’ormone deficitario ricombinante. Un fenotipo molto simile a quello causato dal deficit di leptina si ritrova in presenza di alterazioni del gene del suo recettore, situato sul cromosoma 1. Si è obesi perché si mangia troppo o si mangia troppo perché si è obesi? Poiché alcuni dei geni sopra riportati sono preposti alla regolazione ipotalamica delle sensazioni di fame e sazietà, può sorgere il dubbio che l’eccesso di calorie di una sovralimentazione può essere ritenuta non la causa ma la conseguenza dell’obesità. La responsabilità di una sregolata alimentazione non va esclusa, ma si è ben lontani dal poterla ritenere la sola causa primaria dell’obesità. Per altro verso è evidente che si può essere magri a seguito di uno scarso apporto di calorie (spesso anche volontario, per la decisione di mantenere… la linea), ma si conoscono anche tante persone che restano magre a dispetto di una regolare o anche abbondante abituale alimentazione. Tenuto conto dei molteplici aspetti eziologici e patogenetici delle obesità, si comprende l’importanza che assume la ricerca scientifica volta a individuare e correggere il difetto funzionale dei molti geni che controllano le sensazioni di fame e di sazietà. Al tempo stesso va sottolineata l’importanza sia della prevenzione primaria dell’obesità - principalmente di quella infantile con la promozione di campagne di educazione alimentare - sia della prevenzione secondaria attraverso screening finalizzati ad individuare i bambini obesi da indirizzare ai necessari e utili trattamenti individualizzati anche di attività fisica.

Il gene mutato POMC (proopiomelanocortin), al locus cromosomico 2p, è la causa di iperfagia ed obesità ad insorgenza precoce, per la perdita del segnale della melonocortina sul recettore MC4R. www.blisteronline.it

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LE MALATTIE GENETICHE IN UN’ENCICLOPEDIA

Prof. Valerio Ventruto Istituto di Genetica e Biofisica “Adriano Buzzati Traverso” CNR Napoli vventruto@blisteronline.it

È stata di recente messa in rete un’enciclopedia di malattie genetiche, in 12 volumi, per gli specialisti delle diverse discipline mediche. Lo scopo è fare conoscere le malattie genetiche che nella loro quotidiana attività professionale possono avere occasione di osservare. È opinione diffusa, e non solo tra i medici, che il numero di patologie ereditarie sia limitato ad alcune decine e si ha talvolta la convinzione di non averne mai osservata alcuna. Le malattie genetiche vengono definite malattie rare se hanno una frequenza inferiore a 1 su 2000 nati. È, però, una spiegazione fuorviante in quanto la definizione vale solo se quella patologia viene singolarmente considerata. Poiché si conoscono circa 7.000 malattie genetiche, anche stimando per ciascuna di esse una incidenza di 1 su 70.000 concepiti (ma è una notevole sottostima), non meno del 10% dei nati è portatore di un disordine genetico, che può essere presente alla nascita, cioè congenito, o avere insorgenza tardiva, di mesi o anche di anni. Spesso, inoltre, accade che vengono poco o per nulla tenute in conto notizie riferite dalla persona assistita. Per fare un esempio, se una donna riferisce al suo ostetrico che un suo zio, dopo la nascita, è rimasto di bassa statura e con anomalie scheletriche, raramente egli ritiene che il dato anamnestico riferito possa rappresentare il rischio di ricorrenza di quella patologia per il bambino che dovrà nascere o che dovrà essere concepito. Ancora minore importanza viene attribuita al dato anamnestico quando si è di fronte ad affezioni ritenute, a torto o a ragione, casi isolati, cioè occorrenze uniche nel parentado. Molte malattie genetiche per gravità e frequenza hanno notevole rilevanza sociale: ad esempio la neurofibromatosi (sindrome di Recklinghausen) si riscontra ogni 2.000 nascite, la fibrosi cistica ogni 4.000 nati ed i portatori sani della mutazione del gene di questa

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malattia (a rischio, quindi, di concepire figli affetti) sono nella popolazione 1 su 25! Va inoltre considerato che per numerose malattie genetiche gravi molto rare, (anche con frequenza di 1 su 100.000 nascite) i familiari dell’affetto possono avere il rischio di incorrere nella malattia o di trasmetterla con altissima probabilità, pari anche al 25% o al 50%. Molte malattie genetiche sono sindromiche caratterizzate, cioè, dall’associazione di disordini di più organi o apparati. Si conoscono centinaia di sindromi neuro - oculari, cutaneo - scheletriche, gastrointestinali - urologiche, ecc. Per questa ragione una stessa sindrome rientra nel campo di più specialisti e per il medesimo motivo è stata spesso inserita in più volumi dell’enciclopedia. Ad esempio la sindrome ereditaria nota come Heart - hand (Atriodigital dysplasia) è presente in ben cinque volumi, poiché comporta difetti congeniti di interesse di altrettanti medici specialisti. Per questa ragione sono più di mille i disordini genetici riportati nel volume per i gastroenterologi, più di duemila per gli oculisti, più di quattromila per i neurologi e altrettanti per gli ostetrici e neonatologi. Di ogni malattia genetica sono riportati gli eponimi, i modelli di ereditarietà, i segni caratteristici, la diagnosi differenziale, la sintesi semiologica, la bibliografia e una eventuale documentazione fotografica. Viene inoltre riportata la possibilità o meno di diagnosi prenatale ecografica o di laboratorio (cromosomica, metabolica, DNA molecolare, ecc.). Nella preparazione dei dati clinici delle varie malattie, l’autore ha attinto dai 10.000 segni tra quelli clinici e di laboratorio del Clinical database Genesmed. La finalità principale dell’enciclopedia è favorire la prevenzione di tante gravi, frequenti e talvolta letali malattie.


Va considerato che la maggioranza delle malattie genetiche è ereditaria ed il presupposto per prevenirne la ricorrenza è anzitutto la loro conoscenza. L’esigenza della loro prevenzione è molto avvertita se si considera che al momento quasi nessuna di queste malattie è guaribile e molte di esse risultano poco curabili. Ad esempio, una sordità congenita può giovarsi di protesi acustiche ma non può essere definitivamente guarita; lo stesso vale per difetti congeniti che richiedono alimentazione particolare (come è il caso della fenilchetonuria) o delicate correzioni chirurgiche (la spina bifida, il labbro leporino, gravi malformazioni dello scheletro, ecc.). Scarsi sono poi i rimedi terapeutici per le tante sindromi genetiche neurologiche e muscolari. La possibilità di poter prevenire tante malattie significa non soltanto evitare le comprensibili gravi sofferenze familiari, ma anche ridurre il peso socio - economico che queste condizioni comportano. La necessità di una corretta diagnosi si impone per le molte malattie ereditarie (sono circa 500) che hanno eterogeneità genetica: la stessa patologia, cioè, può avere eredità autosomica dominante o autosomica recessiva o X-linked. Il rischio di trasmissione è del tutto differente, da quasi nullo a molto elevato, o potrebbe essere limitato solo ai concepiti

di sesso maschile. Di queste importanti conoscenze si riferisce in uno dei capitoli del primo volume dell’enciclopedia. Poiché le malattie genetiche riconoscono una quasi quotidiana evoluzione conoscitiva (scoperta di nuove sindromi genetiche, riconoscimento di nuove mutazioni, risultati di approcci terapeutici, ecc.) è previsto un periodico aggiornamento dell’enciclopedia. Si è infine considerato che, nonostante i notevoli successi finora raggiunti dalla ricerca scientifica (sono riportati nell’enciclopedia circa 6.000 geni con la rispettiva assegnazione cromosomica), di più di un terzo delle malattie ereditarie mendeliane (cioè di circa 2.500) non si conoscono ancora le mutazioni geniche, come illustrato nel grafico. Si è perciò ritenuto opportuno associare all’enciclopedia un Servizio di analisi molecolari per accertate o presunte malattie ereditarie segnalate dai medici specialisti. Queste analisi verranno eseguite con modalità e tempi che saranno specificati ai richiedenti, dopo la valutazione clinica e anamnestico - familiare di ciascun caso segnalato, presso un qualificato Istituto di ricerca universitario di Napoli.

L’enciclopedia è free online al sito www.genesmed.it www.blisteronline.it

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HORTO DEI SEMPLICI

LA NAUSEA IN GRAVIDANZA

Dott. Stefano Minichino Farmacista Esperto in Fitoterapia sminichino@blisteronline.it

Durante i primi 3 mesi di gravidanza l’80% delle donne soffre di nausea ed episodi di vomito frequenti nel corso della giornata che determinano disidratazione, calo di peso e, talvolta, tachicardia. Tra gli anni cinquanta e sessanta fu messo in vendita dalla ditta tedesca Chemie Grünenthal un farmaco, la talidomide, che aveva proprietà sedative, anti - nausea e ipnotiche, rivolto in particolar modo alle donne in gravidanza. Questo farmaco aveva un rapporto rischi/benefici estremamente favorevole rispetto ad altri farmaci della stessa classe e fu messo in commercio dopo 3 anni di sperimentazione clinica su animali, senza mai essere stato sperimentato su animali in stato di gravidanza prima che venisse approvato il suo impiego nelle donne incinte. Nel 1957 si ebbero i primi casi di tossicità della talidomide e nel 1961 il farmaco venne ritirato dal commercio, dopo essere stato diffuso in 50 paesi sotto quaranta nomi commerciali diversi, fra cui il contergan. Era un farmaco estremamente favorevole rispetto agli altri medicinali, in quanto il suo meccanismo di azione andava a inibire la proteina chinasi alfa (ikkα) della proteina iκb, un inibitore endogeno del fattore di trascrizione nf - κb. Questo fattore è attivamente coinvolto nella proliferazione delle cellule tumorali e nella sintesi di molte citochine, come l’interleuchina -1, l’interleuchina -6 e il fattore di necrosi tumorale (tnf-α). La talidomide, interferendo col fattore nfκb, semplicemente sopprime la loro produzione. La talidomide venne riconosciuta come sostanza teratogena ossia una sostanza che può provocare malformazioni, qualora la madre venga esposta ad essa durante la gravidanza o, in alcuni casi, anche prima che sappia di essere incinta. Tra queste malformazioni rientrano svariati difetti che in alcuni gravi casi possono rivelarsi anche mortali per il neonato: focomelia, labbro leporino, palatoschisi, o difetti alle pareti cardiache. Attualmente i medicamenti in uso sono gli antistaminici che riducono la nausea senza effetti teratogeni significativi. Anche la vitamina b6 riduce

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la nausea ma non il vomito. Alla luce dell’immane tragedia che sconvolse il mondo con questo farmaco che causò, con il suo impiego, ben ventimila vittime, siamo sempre più convinti che la natura ci venga incontro con i suoi prodotti, e per la gravida proponiamo lo zenzero che è originario dell’India ed è attualmente coltivato nel sud est asiatico. Questa pianta ha dimostrato, in studi condotti sia nell’animale sia nell’uomo, di avere un’interessante azione antinausea e antivomito. Alcuni studi clinici sono stati fatti anche su donne con nausea gravidica per valutare l’effetto dello zenzero che ha dato lusinghieri risultati come attesta un’ampia bibliografia scientifica a riguardo. L’intensità dei sintomi è stata valutata ricorrendo a una scala sintomatologica sulla quale le pazienti stesse indicavano la gravità dei loro sintomi prima e dopo la cura. La dose è di 2 capsule per os al giorno da 250 mg ciascuna di estratto secco titolato di zenzero per 4 giorni, seguiti da 2 giorni di intervallo e da altri 4 di terapia. Al termine della sperimentazione il 70% dei soggetti segnalava consistenti miglioramenti dei loro sintomi rispetto al placebo. Poiché può potenziare l’effetto dei farmaci antiaggreganti piastrinici e degli anticoagulanti orali, è bene tenerne conto ovemai se ne assumessero.


WELFARE

LE MALATTIE GENETICHE E LA TUTELA LEGALE DEI SOGGETTI CHE NE SONO AFFETTI

Avv. Fabiola Guarino fguarino@blisteronline.it

Per malattia genetica s’intende una malattia che trova la sua matrice nel bagaglio genetico di una persona e che pertanto si può manifestare subito dopo la nascita, molti anni dopo o addirittura prima della nascita stessa. In quest’ultimo caso, grazie ai progressi tecnici riguardanti gli apparecchi ecografici e le analisi a cui vengono sottoposte le donne in gravidanza, è oggi possibile individuare le malattie genetiche quando ancora il feto si trova nel grembo materno ed in molti casi intervenire per garantire una vita serena al futuro nascituro, oppure nei casi più gravi, decidere di ricorrere all’aborto terapeutico previsto dalla legge. Da un punto di vista legale viene in rilievo l’ipotesi in cui a causa di una negligenza medica non venga individuata precocemente una malattia genetica la cui diagnosi avrebbe condotto ad una delle due opzioni innanzi enunciate; in tal caso è possibile intentare una causa di risarcimento danni, ma la prova della colpa professionale è davvero molto difficile: si deve dimostrare che il medico con la migliore scienza ed esperienza proprie della sua preparazione avrebbe potuto individuare la malattia genetica. La causa che si inizia viene preceduta da una lettera di richiesta di risarcimento, a seguito della quale si propone un tentativo di conciliazione innanzi ad un organo di mediazione regolarmente costituito, il quale convoca le parti per tentare un accordo tra le stesse e, in caso di esito negativo della seduta, può iniziare il procedimento che si propone innanzi al Tribunale Civile. Qualora si sia affetti da una malattia genetica, che determina una vera e propria invalidità, si può richiedere l’intervento dell’Asl per ottenere il relativo decreto a fini pensionistici. Viene in tal senso effettuata una visita il cui verbale viene poi inviato ad una commissione di verifica che si occupa, però, solo di accertare la regolarità formale del verbale, la commissione inoltre ha 60 giorni per richiedere la sospensione della procedura,

dopo vale la regola del silenzio assenso. L’Asl trasmette poi il verbale all’interessato che contiene l’indicazione del tipo di handicap individuato e delle relative procedure da attivare per un eventuale ricorso qualora l’invalidità non sia stata riconosciuta oppure riconosciuta in una percentuale diversa da quella reale. Anche ai fini di trovare un’occupazione lavorativa la percentuale ed il tipo di disabilità individuata e causata da una malattia genetica è significativa in quanto la legge riconosce la tutela di alcune categorie di persone definite protette, protette appunto dalla legge, che hanno delle agevolazioni nel trovare un posto di lavoro in quanto, in alcuni concorsi pubblici, vi sono dei posti riservati ai disabili, cosa che accade anche nelle aziende private quali banche, grandi aziende come le Poste Italiane ed altre. Ovviamente esistono molti tipi di malattie genetiche, alcune delle quali non importano invalidità o disabilità alle persone ma solo una vita un po’ più complicata, pensiamo ad esempio alla celiachia, che è una malattia con predisposizione genetica che determina un’intolleranza al glutine e per la quale, data la sua diffusione, esistono oggi una molteplicità di modi per garantire un’alimentazione normale ai soggetti che ne sono affetti per i quali esistono cibi appositamente creati. Come abbiamo avuto modo di vedere il panorama legale che riguarda le malattie genetiche è veramente ampio, per cui questi cenni hanno avuto solo lo scopo di costituire uno spunto chiarificatore della situazione da affrontare da un punto di vista legale a seconda del tipo e di gravità di malattia genetica di fronte alla quale ci si trova.

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AVVOCATO

ACCERTAMENTO DELLA PATERNITÀ MEDIANTE TEST GENETICI

Dott. Edgardo di Lullo Medico Legale edilullo@blisteronline.it

La genetica forense è una scienza che sta concorrendo ad una sempre più precisa affermazione del concetto di “identità personale”. L’applicazione pratica delle metodiche scientifiche correlate a tale materia è di riscontro corrente sia in ambito giudiziario che nella vita quotidiana. Si pensi, ad esempio, all’attribuzione di paternità mediante analisi del DNA. Tale metodica si basa sul principio che ogni individuo eredita il proprio assetto genetico per il 50% dal padre e per il 50% dalla madre. Il test consiste, quindi, nel confrontare le caratteristiche genetiche del soggetto investigato con quelle del presunto figlio/a e della madre. La paternità biologica è esclusa con assoluta certezza (100%) quando confrontando il DNA del presunto padre e del figlio viene verificata l’assenza di tratti comuni tra i due individui. Per quanto concerne invece l’attribuzione della paternità, sebbene nessun test genetico possegga un indice di certezza pari al 100%, quando un “indice di probabilità” supera un certo limite, esso equivale praticamente ad una certezza. In altre parole, la probabilità contraria (cioè che il soggetto indicato dal test come padre biologico non lo sia veramente) è talmente bassa da non potersi ritenere realistica. Nell’accertamento di paternità il valore del 100% non è necessario: è infatti accettato dalla corrente giurisprudenza che la paternità è da considerarsi come “praticamente certa” quando la percentuale di probabilità è superiore al 99%. (Cass.6550/1995) Per i test genetici ad uso legale, la normativa italiana prevede una specifica procedura per la raccolta dei campioni che garantisca l’identità dei soggetti che si sottopongono al test. A tal fine è fondamentale che il prelievo dei campioni avvenga nel rispetto di precise regole. Innanzitutto i campioni devono essere raccolti in presenza di un medico o di un avvocato per garantire che i soggetti vengano correttamente identifi-

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cati. Per i minori è necessario esibire un certificato di stato di famiglia. Queste procedure si rendono necessarie al fine di verificare da un lato che il test venga effettuato veramente sui soggetti dichiarati, dall’altro la reale intenzione a sottoporsi ad un test che ha finalità del tutto particolari. In caso di figli minorenni non è possibile eseguire l’accertamento all’insaputa di uno dei due genitori e saranno i soggetti aventi la potestà genitoriale (madre e padre legale, genitore affidatario, terza persona cui sia stata legalmente affidata la patria potestà) ad autorizzare l’analisi. Quando il prelievo dei campioni non viene effettuato secondo le suddette modalità i risultati mantengono pienamente valore conoscitivo, ma non possono essere utilizzati direttamente in procedure legali poiché sarebbe impossibile verificare l’esatta provenienza dei campioni.


LA MEDICINA NEL CINEMA

I GEMELLI NELLA STORIA DEL CINEMA

Dr. Carlo Billa cbilla@blisteronline.it

Due gemelli più improbabili di così al cinema non si erano mai visti. L’uno, Julius Benedict (Arnold Shwarzenegger), è grande e grosso, intelligente e colto, ma molto ingenuo. L’altro, Vincent (Danny De Vito), è invece un ometto bassissimo e vivacissimo, un imbroglione che, allevato in orfanatrofio, vive di espedienti e, a causa dei suoi raggiri, è sempre in un mare di guai, inseguito da gangster pronti a fargli la pelle. I due Benedict sono i protagonisti de “I gemelli”, un film del 1988 diretto da Ivan Reitman, nel quale Shwarzenegger, con grande autoironia, debuttava in un ruolo comico. Il tema dei gemelli è stato spesso al centro di storie narrate sul grande schermo. Sempre nel 1988, David Cronenberg (il regista de “La mosca” e di “Crash”) dirige “Inseparabili”, con Jeremy Irons e Genevieve Bujold, tratto da un romanzo di Bari Wood e Jack Geasland. Il titolo americano doveva essere “Twins” (“Gemelli”), ma Cronenberg decise di cederlo proprio a Ivan Reitman, per il film che il collega doveva girare con Shwarzenegger e De Vito e optò per “Dead Ringers” che in italiano diventò: “Inseparabili”. Nella pellicola è lo stesso attore, Jeremy Irons, a interpretare il ruolo di due gemelli, Elliot e Beverly, famosi ginecologi che si dividono tutto, dalla casa alle amanti. A sconvolgere questa “tranquilla routine” arriva però Claire, un’attrice (Genevieve Bujold) della quale Beverly s’innamorerà perdutamente. La storia vira così sui toni della tragedia, anche se stavolta Cronenberg, contrariamente al solito, non calca troppo la mano sui toni granguignoleschi. Straordinario nella doppia parte, Jeremy Irons. Ai gemelli ha dedicato un film anche un regista del calibro di Peter Greenaway che, nel 1985, ha diretto “Lo zoo di Venere”. Protagonisti della storia, due gemelli le cui mogli sono morte nello stesso incidente d’auto. Entrambi s’innamorano della donna (Andrea Ferreol) che in quella tragedia ha perso una gamba. Da lei hanno due gemelli e poi, ossessionati dalle simmetrie, la convincono a farsi amputare anche l’altra gamba. Un film in puro “stile Greenaway”, nel quale il regista realizza una serie di quadri, accostati libera-

mente l’uno all’altro, in cui prendono corpo le sue ossessioni di sempre. Ancora due gemelli, uno buono e uno cattivo in “Il gemello scomodo”, film tutt’altro che indimenticabile, diretto da Andrew Davis nel 1995, mentre in “Jack e Jill”, regia di Dennis Dugan, altra pellicola certamente non memorabile, Alan Sandler si sdoppia ma interpretando un ruolo maschile e uno femminile. Suo complice sul grande schermo, Al Pacino, che fa la caricatura di se stesso, con la giusta dose di autoironia. Non si contano anche in Italia i film dedicati ai gemelli. Nel 1985, sulla scia di tanti suoi successi, Renato Pozzetto dà vita ad una singolare coppia di gemelli, Ovidio e Raff, in “È arrivato mio fratello”, di Castellano e Pipolo. Ovidio è un insegnante grasso e frustrato. A seminare scompiglio nella sua regolarissima (e noiosa) vita arriva Raff, pianista di night, trafficone e senza scrupoli. Equivoci, scambi di persona e gag a ripetizione fanno sorridere grazie ad una comicità più “blandamente surreale che volgare”, come scrive il critico cinematografico Paolo Mereghetti. Nel 1964 il regista Steno si cimenta col tema, con “I gemelli del Texas”, produzione italo - spagnola, una storia che prende il via da uno scambio di neonati, protagonisti Walter Chiari e Raimondo Vianello. E, all’inizio degli anni ‘80, anche il filone dei film sexy incontra il tema del “doppio”: Alberto Cavallone dirige (alla men peggio) “Gemella erotica”, improbabile storia del rapporto di odio che lega, o meglio divide, Mary e Nora.

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MEDICINA VETERINARIA

CHI HA MANGIATO LA PECORA DOLLY?

Dott.ssa Roberta Polisiero Medico Veterinario Specialista in Fisiopatologia della riproduzione animale rpolisiero@blisteronline.it

Utilizzando le stesse tecniche di manipolazione dei geni che vengono impiegate per i vegetali, si è scoperto che era possibile intervenire anche sul Dna di organismi più complessi, cominciando dai batteri fino ai mammiferi superiori. Le ricerche basate sulla manipolazione di esseri viventi si sono sviluppate in maniera esponenziale negli anni Novanta, fino a raggiungere traguardi fino a pochi anni prima impensabili, come la clonazione di un mammifero (la pecora Dolly nel febbraio 1997 e il vitello Jefferson nel febbraio 1998). Oggi è la stessa Accademia delle Scienze degli Usa che, pur elencando i molti e gravi problemi che l’immissione di animali modificati potrà recare per la salute e l’ambiente, dà il via libera alla loro diffusione, autorizzandone la clonazione. Inserendo nel genoma di una specie animale geni provenienti da altre specie, oppure inattivando un gene presente nel suo patrimonio genetico, gli scienziati cercano dunque di soddisfare le aziende che con la manipolazione desiderano generalmente ottenere: • animali privati di una caratteristica non gradita della loro specie: si produce ad esempio il topo nudo (senza pelo) per agevolare gli esperimenti in laboratorio, la notizia più recente è quella di una ricerca per produrre api senza pungiglione; • animali d’allevamento con maggiore rendimento: ad esempio, suini o bovini che, a pari investimento di alimentazione, raggiungono dimensioni maggiori nelle parti commestibili; • animali i cui prodotti vengono venduti come “migliori” rispetto a quelli tradizionali: carne con più proteine e meno grassi, uova con meno colesterolo, lana che non richiede la tosatura e via dicendo; • animali trasformati in “bireattori”, in altre parole produttori di sostanze biologiche nuove, ad esempio di sostanze farmaceutiche nel latte o nel sangue. Dal latte di alcuni conigli transgenici viene già estratta l’interleuchina 2, una proteina umana implicata nella regolazione del sistema immunitario che viene somministrata ai malati di cancro, mentre dal latte di capra si ricava l’attivatore tissutale del plasminogeno, una proteina che scioglie i coaguli del sangue e viene somministrato agli infartuati; • animali “più simili all’uomo”, per sperimentare su di essi determinate sostanze o cure. Un settore in fase di avanzata sperimentazione è quello degli xenotrapianti, come vengono definiti i trapianti fra specie diverse. Si tratta di produrre animali transgenici modificati per renderli donatori d’organi compatibili con gli esseri umani. In questi animali vengono inseriti alcuni frammenti di genoma umano per renderli biologicamente compatibili con gli esseri umani al fine di ridurre qualsiasi problema di rigetto. Per una certa affinità genetica i

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maiali sono considerati i candidati migliori: vanno bene come donatori di importanti organi, quali il fegato, e funzionano anche per il trasferimento di cellule specifiche, come quelle del pancreas. La tecnologia della manipolazione genetica, applicata agli organismi complessi, però, è ancora in fase sperimentale. Questo significa che non si è ancora trovato un modo per produrre animali geneticamente modificati su larga scala e a basso costo, come alternativa agli allevamenti industriali. Sono, però, già in vendita alcuni farmaci ricavati da bio - reattori, ovvero prodotti impiegando animali transgenici. Il motivo che ha ispirato la ricerca biotecnologica negli animali è sempre stato un interesse commerciale (con l’unica eccezione, forse, della clonazione per impedire l’estinzione di una specie). Tra i “prodotti” già messi a punto: i salmoni giganti, le mucche che producono anticorpi umani, la scimmia fluorescente (portatrice di geni di medusa), le zanzare che non diffondono la malaria (ma che rischiano di propagarsi in modo incontrollato), il “maiale pulito”, le cui feci, private dal fosforo con l’introduzione di un enzima, sono meno inquinanti, i “polli nudi” (senza piume) che fanno risparmiare tempo alle aziende avicole, i conigli dalle orecchie pendenti, i cani nudi (non soggetti alle pulci), le pecore - capre, ecc. ecc.. Sono state clonate le mucche che producono quantitativi eccezionali di latte e diverse agenzie private offrono, negli Stati Uniti, la possibilità di ottenere cloni dei propri animali domestici dopo la loro morte. A poco più di 15 anni dall’annuncio, pubblicato sulla rivista Nature del febbraio 1997, dell’avvenuta clonazione del primo mammifero, con la nascita della pecora Dolly, rimane elevata l’opposizione all’uso della clonazione a fini alimentari nonostante abbia ormai interessato praticamente ogni tipo di animale: maiali, cavalli, bovini, capre, cammelli e mufloni, fino ad arrivare addirittura alla salsiccia in provetta. Oggi, mentre i cittadini europei si dichiarano in larga maggioranza anti - OGM, le ricerche si sono spostate in Cina, dove nel 2011, è stata annunciata la creazione di mucche capaci di produrre latte umano (vacche transgeniche il cui latte contiene proteine umane come il lisozima che protegge i neonati dalle infezioni o la lattoferrina che rafforza il sistema immunitario). L’accelerazione che si è verificata in Cina pone l’esigenza di un rigido sistema di etichettatura sui prodotti importati dal quel Paese. La commercializzazione di carne, latte e formaggi proveniente da animali clonati è, secondo la Coldiretti, un rischio inaccettabile che, oltre ad un problema di scelta consapevole da parte dei consumatori e di rispetto della biodiversità, pone evidenti perplessità di natura etica che occorre affrontare prima che sia troppo tardi.


IL CENACOLO

IL GENE NON È TUTTO

Dr. Michele Ciasullo Presidente Univ. Popolare dell’Irpinia mciasullo@blisteronline.it

“La vita è come una partita a carte. Le carte che arrivano sono il destino, come te le giochi è il libero arbitrio.” (Jawaharlal Nehru) 1859: Darwin formula la sua teoria sull’evoluzione della specie. È la rottura fra fede e scienza, fra biologia e teologia che, dal quel momento in poi, diventa sempre più insanabile. La scienza non più in funzione di spiegare il disegno divino, ma che propone una teoria che può spiegare l’origine della vita e dell’uomo senza bisogno di un creatore e di una creazione. La selezione naturale veniva proposta, non come l’esecuzione di un progetto, ma come un processo completamente meccanicistico, che attraverso una combinazione di caso e necessità, portava all’evoluzione. Tuttavia la teoria di Darwin non spiegava come l’informazione si trasferisce da una generazione all’altra. Gregor Mendel, quasi contemporaneo di Darwin, nel 1865 formulò le sue “Leggi sull’ereditarietà”, ma i suoi fondamentali studi furono compresi solo 40 anni dopo, all’inizio del ‘900. Nel 1910 Thomas Hunt Morgan scopre che i cromosomi racchiudono i geni. Nel 1941 Beadle e Tatum scoprono che i geni sono le mappe di produzione delle proteine. A questo punto la domanda era: Di cosa sono fatti i geni? Nel 1944, in piena Guerra Mondiale, Avery, Mc - Leod e Mc - Carty scoprono che la “sostanza” dei geni è il DNA. Nasceva un nuovo interrogativo: “Qual è la forma della struttura del DNA?” A questa fondamentale domanda hanno risposto Watson e Crick nel 1953. Per la scoperta della “doppia elica” che rappresenta la struttura spaziale del DNA, Watson e Crick hanno meritato il premio Nobel per la medicina nel 1962. Le tappe successive riguardanti il flusso dell’informazione genica, il codice genetico, gli enzimi di restrizione, il DNA ricombinante ed infine la lettura (sequenziazione) del DNA, hanno creato le basi di conoscenza e di metodologia per affrontare la grande impresa del progetto “genoma umano” che si proponeva la lettura completa di tutto il genoma della nostra specie. Il progetto “genoma umano” pensato e proposto negli anni ‘90 dal nostro Dulbecco, si è concluso ufficialmente il 22 giugno del 2000 e i dati sono stati pubblicati nel febbraio 2001, non senza sorprese! Innanzitutto i geni umani sono “solo” 26.383, al posto delle centinaia di migliaia che ci si aspettava. Pochi di più dei geni di una patata! Questo significa che il gene non è tutto. All’interno della nostra specie, condividiamo il 99,9% dei geni. Le differenze che fanno di ognuno di noi un individuo unico e irripetibile, sono nel 0,01% del nostro genoma! Oggi si sta dando importanza all’epigenetica, cioè guardare “sopra” oppure si potrebbe dire “oltre” il gene.

L’epigenetica si occupa dello stato di attivazione del gene, cerca cioè di vedere se il gene è acceso o spento, questo può dipendere dallo stato di metilazione e/o di acetilazione. Cerca anche di comprendere l’interazione gene e ambiente. Molto interessanti sono le ricerche su come il cibo, per esempio, può influenzare l’espressione genica. È cambiato anche il modo di vedere l’istone, la proteina di supporto, che probabilmente ha un ruolo più attivo di quanto pensavamo. Settembre 2012: premio Nobel ai “registi” delle staminali Gurdon e Yamanaka per aver dimostrato che è possibile riprogrammare le cellule, da adulte farle ritornare bambine, con tutto ciò che ne consegue nel campo della medicina rigenerativa. Siamo dentro la più grande rivoluzione scientifica della storia dell’uomo, incominciata 150 anni fa e non ancora conclusa: una rivoluzione che sta cambiando la nostra visione del mondo e della vita e le nostre prospettive di curare i malati, con la possibilità di superare la medicina di popolazione e andare verso una medicina della persona. Oggi i protocolli e le linee guida, che seguiamo per curare i nostri pazienti, sono stati costruiti su pazienti medi statistici, non sul paziente reale. In futuro sarà possibile disporre di una specie di “carta di identità” genetica che consentirà di offrire trattamenti estremamente personalizzati. Più potere significa però più responsabilità. Gli scenari che si aprono sono davvero incredibili, alcuni entusiasmanti, altri inquietanti, altri semplicemente inimmaginabili. Giorgio Cosmacini nei suoi scritti si rifà al testo intitolato “La conquista della morte” di Alvin Silverstein che viene pubblicato in Italia nel 1982 un libro col sottotitolo:<<Perché potremmo essere l’ultima generazione che muore>>…<<adesso che stiamo arrivando alla possibilità di modificare i nostri geni attraverso l’ingegneria genetica che interviene ed opera sul genoma, invecchiare è diventato anacronistico>>. E, per documentare quella che giustamente definisce una ideologia medica emergente, riporta il biogerontologo Audrey Grey - direttore scientifico della Methuselah Foundation - questa dichiarazione: “L’invecchiamento è una cosa da barbari; non dovrebbe essere permesso”. Per il momento, mi sembra condivisibile questa affermazione: “Lo sguardo molecolare non semplifica, ma complica le cose e porta a controversie perché rende possibile intervenire sulla vita in modi e misure in precedenza impossibili (…). Oggi sempre di più capire la vita significa modificarla.”( da “Geni a Nudo”, libro di Helga Nowotny e Giuseppe Testa.) “Nessuno può esimersi dal comprendere qual è la posta in gioco: il potenziamento dell’essere umano (attraverso la manipolazione dei geni), così come la possibilità di produrre sinteticamente DNA o di conoscere in anticipo le malattie da cui rischiamo di essere affetti sono aspetti che trascendono la scienza per ‘invadere’ il nostro quotidiano.” www.blisteronline.it

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CIBUS

OGM: COSA METTIAMO IN TAVOLA

Dott.ssa Annalisa Nigro Biologa Nutrizionista anigro@blisteronline.it

Cosa sono gli OGM? L’ art. 3 del D.Lgs. n° 92 del 03/03/1993 definisce OGM un organismo geneticamente modificato, il cui materiale genetico è stato manipolato in modo innaturale. Gli organismi le cui caratteristiche possono essere manipolate in laboratorio, mediante tecniche di ingegneria genetica sono virus, batteri, funghi, piante e animali. I prodotti che dominano il mercato degli OGM sono la soia, il pomodoro, il tabacco e il cotone. Attualmente la normativa in vigore permette l’utilizzo di ingredienti provenienti da OGM fino all’1% del peso totale, senza l’obbligo di indicazioni in etichetta, quindi tali sostanze potrebbero arrivare sulle nostre tavole come prodotti apparentemente “normali”. Come già detto soia, mais e pomodori sono i cibi transgenici più coltivati e commercializzati in diversi paesi del mondo. Basti pensare che la soia GM rappresenta il 60% della produzione totale di questa leguminosa. In Italia, attualmente, non è autorizzata la coltivazione di nessuna varietà genetica, nonostante ciò è di fondamentale importanza garantire la purezza delle sementi. In passato, infatti, è stata più volte riscontrata la contaminazione di sementi di varietà tradizionali con OGM. I fautori degli OGM vorrebbero farci credere che è possibile far coesistere agricoltura tradizionale e OGM e che è possibile produrre OGM senza minacciare altre forme di agricoltura. Ma ciò è completamente falso. È impossibile mantenere le filiere separate. Come potrebbero stare fianco a fianco campi OGM e campi non OGM senza che il vento e le api trasferiscano il polline da piante GM a quelle normali? Pur non negando l’utilità e l’importanza della ricerca sugli OGM è opportuno mantenere un atteggiamento di grande prudenza nei confronti del loro utilizzo anche perché, attual-

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mente, non esistono prove scientifiche che ci informano sugli effetti a lungo termine degli OGM e dei rischi sanitari legati al loro consumo. La loro sicurezza per la salute umana non è stata ancora dimostrata. Le preoccupazioni sono incentrate sulla possibilità che i nuovi cibi causino allergie e/o intossicazione e che il loro consumo aumenti il numero di batteri patogeni resistenti agli antibiotici. A tal proposito l’Unione Europea ha emesso delle direttive che proibiscono l’utilizzo di OGM per gli alimenti destinati a lattanti e bambini fino a tre anni di età. L’ingestione di alimenti OGM potrebbe essere la causa di intolleranze alimentari e manifestazioni avverse dovute al contatto del nostro organismo con molecole verso cui non ha ancora sviluppato una tolleranza. È importante, quindi, prestare molta attenzione agli alimenti che ingeriscono i bambini nei primi anni di vita, soprattutto nel periodo dello svezzamento. Bisogna, pertanto, selezionare gli alimenti fonte di possibili allergeni con cui il lattante e/o il bambino viene in contatto poiché è in questo periodo che si svolge il delicato processo di maturazione del sistema immunitario. È importante ricordare di prestare molta attenzione nel delicato periodo della gravidanza e dell’allattamento, periodo in cui un’eventuale contaminazione con alimenti OGM, attraversando la barriera placentare, potrebbe scatenare gravi e rischiose manifestazioni allergiche. Come possiamo difenderci dalla diffusione sempre più costante di alimenti e prodotti OGM? Ognuno di noi ha pieno diritto di pretendere chiarezza ed informazioni. Per questa ragione dovrebbe essere approvata una legge che imponga la chiara etichettatura di cibi e farmaci che consente di sapere se contengono OGM.


MEDICI NELLA STORIA

GREGOR MENDEL

Dr. Anna Gagliardi agagliardi@blisteronline.it

Gregor Mendel, un monaco austriaco, scoprì i principi di base dell’ereditarietà attraverso esperimenti nel suo giardino. Le osservazioni che ha fatto, osservando la crescita di piante di piselli nel giardino del suo monastero, divennero la base della genetica moderna e lo studio dell’ereditarietà. Johann Gregor Mendel nacque il 22 luglio 1822, da Anton e Rosine Mendel, nella fattoria della sua famiglia, in quella che allora era Heinzendorf, Austria. Trascorse la sua prima giovinezza in questo ambiente rurale, fino a 11 anni, quando un maestro di scuola locale fu colpito per la sua attitudine all’apprendimento e si raccomandò che fosse mandato nella scuola secondaria di Troppau per continuare la sua formazione. La scelta era uno sforzo finanziario per la sua famiglia, ma Mendel eccelleva negli studi e nel 1840 si diplomò presso la scuola con il massimo dei voti. Successivamente si iscrisse ad un corso di due anni presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Olmütz dove, ancora una volta, si distinse per le sue capacità, in particolare nel campo della fisica e della matematica. Nonostante soffrisse di attacchi di depressione profonda che, più di una volta, gli fecero abbandonare temporaneamente gli studi, nel 1843 Mendel conseguì la laurea. Contro la volontà di suo padre, che sperava fosse lui a rilevare l’azienda di famiglia, Mendel entrò nell’ordine agostiniano a St. Thomas, monastero a Brünn, con il nome di Gregor. A quel tempo, il monastero era un centro culturale per la regione, e Mendel si dedicò immediatamente alla ricerca e all’insegnamento. Quando il suo lavoro nella comunità di Brünn terminò fu inviato a ricoprire una posizione temporanea di insegnamento in Znaim. Nel 1851 fu inviato all’Università di Vienna, a spese del monastero, per continuare gli studi nel campo delle scienze. Mentre era lì, studiò matematica e fisica con Christian Doppler e botanica con Franz Unger, che aveva cominciato ad utilizzare un microscopio per i propri studi e che era fautore di una versione pre - darwiniana della teoria dell’evoluzione. Nel 1853, dopo aver completato gli studi presso l’Università di Vienna, Mendel tornò al monastero di Brünn per insegnare in una scuola secondaria, dove sarebbe rimasto per più di un decennio. Fu durante questo periodo che ebbero inizio gli esperimenti per i quali è oggi maggiormente conosciuto. Intorno al 1854, Mendel iniziò a ricercare la trasmissione dei caratteri ereditari in ibridi vegetali. A quel tempo era un criterio generalmente accettato che i tratti ereditari della prole di qualsiasi specie non fossero che la fusione diluita di quelli presenti nei “genitori”. Si è anche comunemente accettato che, per generazioni, un ibrido sarebbe tornato alla sua forma originale, l’implicazione della quale ha suggerito che un ibrido

non potrebbe creare nuove forme. Tuttavia, i risultati degli studi sono stati spesso distorti per il periodo di tempo relativamente breve, durante il quale sono stati condotti gli esperimenti, considerando che la ricerca di Mendel si è protratta per ben otto anni, e ha coinvolto decine di migliaia di singole piante. Mendel, per i suoi esperimenti, scelse di utilizzare le piante dei piselli per le loro differenti varietà che potevano essere rapidamente e facilmente prodotte. Eglì cominciò i suoi esperimenti incrociando piante di pisello che avevano chiaramente caratteristiche opposte: alto con corto, liscio con rugoso, giallo con verde ecc… Tale sperimentazione portarono a due leggi, la legge della segregazione, la quale stabiliva che ci sono tratti dominanti e tratti recessivi trasmessi in modo casuale dai genitori ai figli, e la legge dell’assortimento indipendente, che evidenziava che i tratti sono trasmessi indipendentemente da altre caratteristiche dai genitori ai figli. Durante le proprie ricerche, inoltre, Mendel suggeriva che i vari studi sull’ereditarietà seguissero le leggi statistiche. Nel 1865 Mendel tenne due conferenze sulle proprie scoperte alla Società di Scienze Naturali di Brünn e, l’anno successivo, pubblicò i risultati delle ricerche in un saggio dal titolo “Esperimenti sugli ibridi vegetali”. Nel 1868, Mendel fu eletto abate della scuola dove aveva insegnato negli ultimi 14 anni, ma le sue incombenze amministrative e la sua vista molto ridotta gli impedirono di continuare qualsiasi lavoro scientifico. Negli ultimi anni della sua vita si allontanò dai luoghi mondani e dai suoi contemporanei che, inoltre, lo allontanarono anche per la sua pubblica opposizione ad una legge fiscale del 1874 che aumentava l’imposta sui monasteri per coprire le spese della Chiesa. Gregor Mendel morì il 6 gennaio 1884, all’età di 62 anni e fu sepolto nel cimitero del monastero. Il suo lavoro, però, restò a lungo sconosciuto. Fu solo alcuni decenni più tardi, quando gli studi di Mendel vennero a conoscenza di diversi noti genetisti, botanici e biologi che effettuavano ricerche sull’ereditarietà, che il suo lavoro venne pienamente apprezzato ed i suoi studi cominciarono ad essere indicati come “Leggi di Mendel”. Anche allora, però, il suo lavoro fu più volte criticato dai darwiniani, i quali sostenevano che i suoi risultati fossero irrilevanti per una teoria dell’evoluzione.

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