Blister... Notizie mediche in pollole - RIABILITAZIONE

Page 1

ta Gr at ui on e st ri b uz i Di Consultazione online • www.blisteronline.it

NUMERO 5

RIABILITAZIONE l’informazione a Vostra disposizione...


2


Domus Medica Formazione Clinical Advisors: Allergologia ed Immunologia: Mehemet Hoxha Tirana Albania Anestesiologia e Rianimazione: Tritan Shehu Tirana Albania Cardiologia Prenatale: Dario Paladini Napoli Italia Chirurgia Epatobiliare e Trapianti: Umberto Cillo Padova Italia Chirurgia: Giuseppe Petrella Roma Italia Ematologia: Giovanni Di Minno Napoli Italia Emergenza-Urgenza: Giuseppe Salvatore Satriano Endocrinologia: Gianfranco Fenzi Napoli Italia Epatologia: Ilario de Sio Napoli Italia Farmacologia: Elio Kahn Tel Aviv Israele Genetica Medica: Valerio Ventruto Napoli Italia Neurologia: Nicola Modugno Isernia Italia Oncologia: Giuseppe Tonini Roma Italia Oncologia Molecolare: Frank Romeo Philadelphia USA Psichiatria: Antonello Bellomo Foggia Italia Radiologia: Marco Salvatore Napoli Italia Urologia: Gerardo Flammia Roma Italia

RUBRICHE HORTO DEI SEMPLICI

Dalla Cina e dall’Africa i rimedi naturali al dolore 26

WELFARE

La figura dell’amministratore di sostegno a tutela dei diritti 27

MEDICO LEGALE

La riabilitazione post ictus cerebrale 28

LA MEDICINA AL CINEMA MEDICINA VETERINARIA IL CENACOLO

Pubblicazione bimestrale Anno 3 nº 5 - 2013 Distribuzione gratuita Reg. al tribunale: n. 4 del 30/12/2011 Editore: “Domus Medica” Direttore Responsabile: dr. A. Cavalli Direttore Scientifico: dr. Sergio Cerrato Direttore Amministrativo: dr. Alessandro Cerrato Condirettori: Gaetano Ramundo, Augusto Vittorio Ramundo Capo redattore: dr. A. Calvo Redazione: dr. Michele Ciasullo, dr. Edgardo Dilullo, dr. Anna Gagliardi, dr. Luigina Di Cosmo.

pag.

Attività e terapie assistite dagli animali 30 Cure domiciliari e riabilitazione 31

CIBUS

La corretta alimentazione nei percorsi riabilitativi 32

MEDICI NELLA STORIA OFFICINA GALENICA

Andrew Taylor Still 33 L’aloe vera 34

ARTICOLI

pag.

La famiglia con figlio disabile: le dure sfide della vita 5 L’esercizio fisico nella prevenzione dell’osteoporosi 7 Il trattamento della spasticità 10

Area Web: Antonio Macchione Contatti: sito: www. blisteronline.it mail: info@blisteronline.it

La riabilitazione al cinema 29

La mano bionica che risponde al cervello 12 La riabilitazione cardiologica 13

Stampa: Grafiche Lucarelli

La riabilitazione post intervento di protesi all’anca 15 Protesi di mano low-cost 18 Le tecniche per la riabilitazione del pavimento pelvico 20 La riabilitazione del paziente sottoposto a bypass coronarico 22 L’infermiere come educatore 25

SCRIVICI...

“BLISTER”

c/o “Domus Medica” Via Cardito, 52 - Ariano Irpino (Av) info@blisteronline.it www.blisteronline.it www.blisteronline.it

3


NUMERO CINQUE

EDITORIALE Le radici della fisioterapia e dei suoi metodi affondano nel mondo antico. Oggi la fisioterapia è una disciplina scientificamente riconosciuta, indipendente dalla medicina classica e dalla medicina complementare. Il suo principale campo di attività consiste nella terapia e nella riabilitazione. L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha sviluppato la definizione dei concetti di menomazione, disabilità ed handicap, che supera il concetto di invalidità ed integra gli aspetti del danno con quelli delle capacità individuali e di ruolo sociale. Svantaggio sociale o handicap vuol dire fare riferimento alle capacità (o incapacità) della persona o anche alle sue menomazioni, collocandole però nel contesto dove vive, facendo riferimento non tanto a una persona genericamente intesa, ma ad un essere umano inserito in un ambito, portatore di bisogni essenziali, ai quali la persona deve, in qualche modo, far fronte per poter vivere, partendo da esigenze minimali sino al raggiungimento di esigenze più importanti per il soddisfacimento dei suoi bisogni, appunto, di persona inserita in un contesto sociale determinato. La persona diversamente abile non viene considerata solo come soggetto che necessita di sostegno

dr. Sergio Cerrato

rispetto a primari bisogni di autonomia (classificabili secondo un ordine logico di priorità), ma come

scerrato@blisteronline.it

soggetto cui rivolgersi secondo un approccio globale, non tralasciando alcun aspetto esistenziale. L’espressione, quindi, di un bisogno che nella legge quadro corrisponde sempre all’affermazione di un diritto di libertà. Gli ultimi vent’anni hanno visto una profonda evoluzione culturale nei confronti delle persone con disabilità ed una conseguente modifica dell’intervento a loro rivolto. Si è passati da una concezione assistenziale ad una concezione di promozione umana, riconoscendo alla persona il diritto alla realizzazione del proprio Io. L’approccio globale della riabilitazione comporta delle risposte al profilo sanitario e socio assistenziale di prevenzione, che è rivolto ad incidere sui fattori di rischio, che possono essere causa di menomazioni (e/o malformazioni) o di situazioni di handicap. La prevenzione rispetto alla menomazione si sviluppa per lo più in ambito sanitario, rivolgendosi a tutta la popolazione attraverso l’informazione sui rischi della gravidanza e sui fattori di rischio in ambienti domestici e lavorativi; la prevenzione rispetto all’insorgere di condizioni che determinano l’handicap è propria dei servizi e degli operatori socio sanitari che operano affinché non si creino situazioni discriminanti. A nostro avviso gli interventi di prevenzione da attivare o da potenziare riguardano i seguenti ambiti:

L’Aforisma

- la consulenza genetica; - l’educazione alla prevenzione degli incidenti domestici e della strada; - l’incentivazione all’attività fisica.

Un ipocondriaco può soffrire in molti modi ma non in silenzio (Anonimo)

4


La famiglia con figlio disabile: le dure sfide della vita

dr. D. Laddaga Psicologa dladdaga@blisteronline.it dr. A. Calvo Ass. Soc. Dip. Salute Mentale Univ. Studi Foggia acalvo@blisteronline.it

1. Introduzione In una società a misura del sano, in cui si insegue senza tregua il mito dell’efficienza e della produttività, i minori disabili e le loro famiglie rischiano di rimanere inascoltati. Vivere l’esperienza della disabilità di un figlio può essere molto gravoso per i genitori che spesso si sentono soli e poco supportati in un percorso caratterizzato da una sfida così impegnativa. Accettare un figlio “imperfetto” è infatti diventato difficile e questa difficoltà è riconducibile, oltre che al mito della perfezione imperante nella società postmoderna, anche all’indebolimento della concezione della malattia come parte integrante della vita: da fatto sociale all’interno di un destino condiviso dagli esseri umani è diventato fatto privato che cambia il destino di una famiglia. La scoperta della disabilità del figlio (che può avvenire già in sala parto, nei giorni che seguono la nascita o più avanti durante una visita pediatrica) diviene veramente molto faticoso da affrontare e metabolizzare. Essa infatti determina uno sconvolgimento della routine quotidiana tale da richiedere una riorganizzazione di ruoli e compiti per farvi fronte: bisogna alterare le proprie abitudini, saltare le ferie, sospendere il lavoro. A queste difficoltà puramente organizzative si aggiungono quelle di natura psicologica legate all’aria di sofferenza che si respira in casa. I familiari di persone affette da patologie gravi e invalidanti devono affrontare repentini cambiamenti che incidono sull’organizzazione della vita, sviluppano la percezione di una grave insicurezza rispetto al futuro. La vita familiare è alterata da dinamiche caratterizzate da ansia, depressione, tensioni, mancanza di coesione, relazioni conflittuali con aggressività anche grave, senso di inadeguatezza o di colpa per aver generato un figlio “difettoso”. Altre possibili reazioni della famiglia possono essere le seguenti: • Cristallizzazione del tempo: la famiglia si ferma alla nostalgia per un tempo “ideale” precedente o alla fase iniziale di sofferenza e di emergenza e non accoglie la possibilità di andare avanti e riorganizzarsi in funzione della malattia disabilitante. • Negazione: consiste nel negare l’impatto reale della malattia e la sofferenza ad essa connessa comportandosi come se nulla sia cambiato. Rabbia, dolore e difficoltà ad accettare la realtà sono gli stati d’animo più comuni di chi viene a trovarsi in questa situazione. Ovviamente esiste una differenza significativa, che incide diversamente sul vissuto emotivo dei genitori, tra le patologie diagno-

sticate prima della nascita del bambino, quelle manifestatesi successivamente e il divenire disabile di un figlio dopo un periodo di vita, anche se breve, di normalità. Risulta molto importante, anche se non sempre facile, superare la prima comprensibile fase di smarrimento e frustrazione concentrandosi sui bisogni del bimbo e su ciò che si può fare fin da subito affinché la disabilità condizioni il meno possibile la sua crescita e la sua vita futura. Si tratta senza dubbio di un lavoro complesso e spesso faticoso, ma è importantissimo orientarsi sulle strategie da adottare per permettere al disabile e alla sua famiglia, di vivere una vita quanto più normale possibile. 2. Intervento familiare Nell’approccio centrato sulla persona, la famiglia è stata troppo a lungo ignorata come risorsa viva e fondamentale per affrontare in gruppo il senso e il valore della disabilità di un figlio. La presa in carico del disabile necessita del coinvolgimento attivo dell’intero sistema familiare poiché la patologia è un problema familiare e in quanto tale influenzato dal contesto relazionale di appartenenza. I familiari possono divenire un’importante risorsa nella gestione ed elaborazione del problema: se il figlio è l’obiettivo degli sforzi dell’equipe medica, la famiglia è il mezzo attraverso cui si concretizza l’assistenza. Essa è quindi portatrice di una molteplicità di difficoltà ma anche di importanti risorse e per tale motivo l’equipe non prende in carico solo il malato ma tutto il contesto familiare con i suoi bisogni e le sue ansie. L’intervento sulla famiglia nelle situazioni di disabilità infantile risulta di fondamentale importanza al fine di: • Informare la famiglia Prima di pensare a un possibile intervento riabilitativo, non va sottovalutata l’importanza di spiegare alla famiglia la natura della patologia invalidante, la sua manifestazione clinica e la sua progressione. La comunicazione della diagnosi e della prognosi deve assolutamente avvenire in modo umano e chiaro: l’ambiguità e l’incertezza diagnostica alimentano l’ansia. Solo una lucida consapevolezza di ciò che è avvenuto e avverrà in futuro può attivare nella famiglia il processo di elaborazione del dolore. Chiarire la gravità e l’irreversibilità della prognosi risulta quindi di vitale importanza per il passaggio alla fase successiva, quella in cui, dopo la presa in carico del paziente, si mette in moto l’accettazione della malattia e la famiglia, lavorando in modo sincronico con lo staff medico, comincia a pensare e ad organizzare insieme a questi un progetto riabilitativo. Considerando le difficoltà a cui i genitori di disabili sono quotidianamente esposti, risulta di www.blisteronline.it

5


primaria importanza attuare degli interventi di counselling familiare: l’obiettivo è quello di valutare l’impatto della nascita o del divenire disabile di un bambino all’interno di una specifica famiglia, individuando tutte le possibili risorse positive che possano favorire un’adeguata qualità della vita, sia per il paziente che per l’intero sistema familiare. Bisogna fornire informazioni, sostegno, accogliere le aspettative irrazionali e costruirne altre più realistiche in modo tale da consentire un’elaborazione del lutto del figlio sognato, quello “perfettamente funzionante” e un’accomodazione al figlio reale, quello affetto da minorazioni psico-fisiche. La famiglia deve essere perfettamente consapevole della patologia e di tutti quei traguardi che non sono e che difficilmente saranno, alla portata del figlio “reale”. • Assistere i caregivers L’intervento all’intero nucleo familiare va esteso anche ai caregivers familiari. Infatti questi entrano nello staff dei curanti e collaborando con il gruppo medico diventano dei punti di riferimento per tutte le figure professionali che interagiscono con il paziente. In quanto “soggetto assistenziale” a tutti gli effetti e come attivo protagonista del progetto terapeutico, anche il caregiver quindi, proprio per la sua indispensabile funzione, va aiutato e supportato. La presenza di un disabilità in famiglia, oltre a comportare tutta una serie di pesanti problemi di natura economica sociale ed emotiva, richiede competenze che difficilmente un genitore non adeguatamente sostenuto e formato è in grado di acquisire. L’enorme peso fisico e psicologico che si accumula rapidamente sul genitore assistente genera un livello di stress a volte molto superiore a quello dal malato stesso, proprio perché, oltre a ipercoinvolgere il caregiver, l’assistenza al disabile interferisce effettivamente con la qualità della vita, riducendo gli spazi dedicati a se stessi e alle relazioni sociali. L’assistenza dei curanti familiari avviene quindi sia per tutelare il disabile assicurandogli, attraverso la cura dello “staff familiare” una vita dignitosa, sia per aiutare la famiglia in questa fase difficile. I familiari, se non ben assistiti possono sviluppare sensi di colpa per non aver assistito a sufficienza il figlio, sensazione di impotenza e inadeguatezza. Bisogna contenere e sedare quell’angoscia che arriva al bambino riflessa dai genitori e preservare l’integrità psichica di tutta la famiglia. • Creare un contesto in cui poter esprimere ed elaborare il dolore Prendere in carico tutti gli attori della cura, permette di costruire uno spazio empatico e contenitivo in cui esprimere il dolore e le emozioni negative, farle circolare in un sistema malato-famigliaequipe più ampio e in tal modo condividerle. Bisogna dar voce al dolore, invece di negarlo o annegarlo nel silenzio poiché la sofferenza è una reazione psicologica che permette di “riempire” emozionalmente un vuoto interno derivante da una perdita e che se non riconosciuta e vissuta rischia conseguenze psicopatologiche. • “Aprire” il sistema familiare Assistendo la famiglia disabile, diviene possibile accedere alle risorse economiche ed assistenziali della famiglia allargata, dell’equipe e della comunità per poter gestire gli impegni onerosi. La malattia non è mai un fatto privato, coinvolge l’intera comunità sociale, la quale dovrebbe condividere con la famiglia le difficoltà quotidiane, promuovere le informazioni sulla disabilità e fornire gli strumenti per fronteggiare l’evento traumatico. I servizi a favore della famiglia e del malato, sia psicologici che organizzativi, possono essere erogati in regime di degenza in strutture riabilitative o a domicilio in integrazione con ADI (assistenza domiciliare integrata) e ciò avviene grazie alla collaborazione dei servizi territoriali o delle associazioni di volontariato. Elaborare strategie per ridurre danni psicologici e arginare reazioni disadattive attuali. Il nucleo familiare può reagire in modo costruttivo alla patologia

6

invalidante, mantenendosi unito e aprendosi al supporto di familiari e degli operatori, oppure in modo disadattivo con sensi di colpa, rabbia verso il figlio “imperfetto” che ha destabilizzato la famiglia, proiettando su di lui colpe e frustrazioni. In tal caso, la malattia genera configurazioni relazionali disadattive e potenzialmente psicopatologiche che alterano struttura e funzioni familiari. Ad esempio può avvenire un’iperfusione familiare, in cui, assaliti dall’angoscia, i familiari reagiscono chiudendosi intorno al disabile. In questo clima relazionale il sistema-famiglia collassa, portando all’esasperazione l’accudimento e invischiandosi intorno al figlio. Oltre alla perfusione familiare si possono spesso verificare confusione o inversione di ruoli generazionali. Nella cura del paziente, può accadere che un figlio sano venga troppo coinvolto nella assistenza del malato, diventando non più figlio ma il genitore del fratello, ossia un “figlio parentizzato” e quindi caricato di responsabilità onerose (Parental Child), oppure può avvenire che lo stesso figlio malato diventi il coniuge del genitore coinvolto nelle cure, il suo consolatore, una spalla su cui piangere. In altri casi i due genitori, ipercoinvolti nella assistenza, perdono le funzioni genitoriali verso gli altri figli, lasciandoli “orfani” con la loro assenza. Una coppia troppo coinvolta nella cura del figlio disabile, può anche perdere la sua coniugalità: non si è più marito e moglie ma solo madre e padre del soggetto malato. In tal modo la relazione di coppia, perdendo valore, giunge ad un “divorzio senza separazione”. 3. La sfida possibile Grazie al supporto di tutti i protagonisti del percorso di cura e riabilitazione, i genitori accettano più facilmente la condizione di disabilità perché riescono in breve tempo a concentrarsi su cosa fare e come comportarsi a livello pratico nella quotidianità. In questo modo, cercando di affrontare le piccole sfide che si presentano giorno per giorno, si riesce a superare più facilmente il senso di frustrazione e di disagio che può opprimere la famiglia soprattutto nel periodo che segue la diagnosi. Oltre all’aiuto concreto che può provenire dalle istituzioni, è molto importante che i genitori stabiliscano da subito contatti con altre famiglie che vivono o hanno vissuto la stessa esperienza o comunque situazioni molto simili. Per ricevere aiuti e consigli dagli specialisti, dalle istituzioni, dalle strutture e da altre famiglie è necessario resistere alla tentazione di chiudersi all’interno della propria famiglia e aprirsi a coloro che possono aiutarli in modo concreto ad affrontare le piccole difficoltà quotidiane. In questo senso il continuo scambio di informazioni e l’aiuto tra coloro che vivono le stesse situazioni contribuisce alla crescita di una vera e propria cultura della disabilità, come viene indicato anche nella Convenzione Onu 2007 sui diritti delle persone disabili. In diverse città italiane si svolgono in modo sempre più frequente degli incontri dedicati alle famiglie con bambini disabili che, oltre a fornire informazioni e consigli utili sui servizi, sulle leggi che tutelano i loro figli e le iniziative che riguardano questo tema così delicato, offrono un supporto molto importante ai genitori che, attraverso il confronto delle proprie esperienze e difficoltà con quelle di molte altre famiglie, riescono a liberarsi dal fardello di solitudine e isolamento che troppo spesso li opprime. Un altro aspetto da considerare nella presa in carico di tali famiglie è il fattore tempo. Nel lavoro clinico, la metabolizzazione del dolore richiede tempo poiché tutte le sue fasi devono essere vissute pienamente senza salti. Lo scopo del lavoro terapeutico diviene quella di superare la paralisi indotta dalla rabbia e dal dolore e mobilizzare il tempo, per restituire la famiglia alla società e al divenire della vita stimolando il reinvestimento in altre relazioni e compiti. La disabilità, qualora venga intesa come estrema crisi capace di contenere la massima potenzialità di cambiamento, non viene percepita nei suoi aspetti deficitanti ma come “opportunità di cambiamento”. La sfida possibile della famiglia disabile diviene perciò quella di ripianificare la vita, ricostruire “insieme” un nuovo progetto evolutivo riscrivendo in tal modo lo “script familiare”.


L’ESERCIZIO FISICO NELLA PREVENZIONE E TRATTAMENTO DELL’OSTEOPOROSI POST - MENOPAUSALE

Dr. Laura Frizzi, Dr. Francesca Gimigliano, Dr. Ilaria Riccio, Dr. Giovanni Iolascon, Dr. Raffaele Gimigliano Cattedra di Medicina Fisica e Riabilitativa, Dipartimento Multidisciplinare di Specialità Medico-Chirurgiche ed Odontoiatriche, Seconda Università di Napoli lfrizzi@blisteronline.it - fgimigliano @blisteronline.it - iriccio @blisteronline.it - giolascon @blisteronline.it - rgimigliano @blisteronline.it

L’osteoporosi è una patologia sistemica caratterizzata da una diminuzione quantitativa generalizzata della massa ossea e da alterazioni qualitative del tessuto osseo con diminuzione della componente minerale di calcio e fosforo, foriere di un incremento del rischio di frattura da fragilità. Le sedi più frequenti di frattura da fragilità sono il corpo vertebrale, l’estremo prossimale del femore, l’estremo distale del radio e l’estremo prossimale dell’omero. In Italia si stima che siano affetti da osteoporosi circa 3,5 milioni di donne e circa un milione di uomini, numeri destinati ad aumentare in quanto si prevede che nei prossimi 20 anni la percentuale della popolazione italiana al di sopra dei 65 anni d’età aumenterà del 25%. Secondo i dati del Ministero della Salute, il numero di fratture vertebrali in Italia supera i 100.000 casi all’anno. Tra il 2000 ed il 2005 ci sono stati 507.671 casi di fratture d’anca nella popolazione italiana ≥ 65 anni, con un incremento delle ospedalizzazioni del 28,5% in 6 anni. L’impatto economico di una patologia così diffusa è naturalmente imponente. Si calcola che in Italia il costo per il trattamento non farmacologico delle fratture da osteoporosi superi i 2 miliardi di euro all’anno. Le fratture dell’estremo prossimale del femore contribuiscono al 56% dei costi, quelle vertebrali al 5%, quelle del polso al 2%, mentre il restante 37% è rappresentato da un gruppo misto di fratture. Il razionale terapeutico dell’osteoporosi è articolato in molteplici aree di intervento: correzione dei fattori di rischio modificabili, mantenimento e/o miglioramento della massa e della qualità

dell’osso, analgesia, incremento del tono-trofismo muscolare e della funzionalità articolare, evitamento di posture e gestualità a rischio, prevenzione delle cadute, trattamento e riabilitazione dei postumi di frattura. La paziente con osteoporosi post - menopausale necessita di una presa in carico globale con un intervento multi ed interdisciplinare da svolgersi in team e con un progetto riabilitativo individuale costituito da programmi orientati ad aree specifiche di intervento medico con approccio anche bio - psicosociale. L’esercizio fisico regolare è comunque riconosciuto come cardine dei programmi d’intervento nella gestione della “salute ossea”. Esso aumenta la massa ossea nella popolazione femminile in pre/post-menopausa, sia in pazienti con densità ossea normale, che osteopeniche od osteoporotiche. Inoltre è efficace nel ridurre il consumo di analgesici, migliora la qualità della vita ed aumenta l’abilità funzionale nelle attività della vita quotidiana. Il presupposto su cui si fonda la teoria che l’attività fisica migliori il trofismo e quindi la densità ossea sta nell’osservazione che il carico meccanico sull’osso determina un aumento della massa ossea tramite un effetto piezoelettrico (modello meccanostatico). Altri fattori che regolano il rapporto tra esercizio fisico e massa ossea sono: contrazione muscolare, variazioni circolatorie, respiratorie, ormonali, psichiche, stimolazioni locali enzimatiche e di fattori di crescita. Il tessuto osseo si adatta alle variazioni delle sollecitazioni in modo diverso a seconda dell’età. L’esercizio fisico è più osteogenico durante la crescita rispetto all’età matura. Probabilmente durante l’accrescimento la superficie dell’osso è ricoperta in maggiore proporzione da osteoblasti attivi rispetto

www.blisteronline.it

7


all’osso maturo con una massima formazione di tessuto periostale. Affinché lo stimolo indotto dall’esercizio fisico sia osteogenico e rimodellante, il carico meccanico scheletrico deve essere: superiore ad una soglia minima efficace, applicato in maniera dinamica intermittente, applicato in compressione (forza di gravità) e in trazione (contrazione muscolare), eseguito ad alta velocità con numerose ripetizioni e con periodi frequenti di riposo tra le sessioni, per evitare la desensibilizzazione del sistema di trasduzione meccanica dell’osso al carico protratto. La pianificazione di un programma di esercizio fisico per la donna in post - menopausa deve tener conto dei diversi quadri fisiopatologici che è possibile incontrare. Donne sane in post - menopausa e donne osteopeniche Gli obiettivi del trattamento riabilitativo in questa popolazione comprendono il mantenimento o l’aumento della BMD, il rinforzo muscolare ed il miglioramento dell’equilibrio e della postura. Si è visto che l’esercizio fisico è ritenuto un valido strumento per limitare la rapida perdita di densità ossea delle donne in menopausa. In particolare, sembra che l’esercizio ad alto impatto (ad elevata energia cinetica) abbia un’azione migliore sulla BMD rispetto agli esercizi che realizzano uno stress meccanico di entità minore. Tuttavia, questo tipo di esercizio è da consigliare solo per coloro che svolgono regolarmente attività fisica e comunque va sempre alternato ad esercizi a basso - medio impatto (aerobica, jogging). Coloro che non sono abituati a svolgere alcuna attività fisica dovrebbero, invece, limitarsi ad esercizi a basso - medio impatto. Per essere efficaci, tutti i programmi di esercizio devono essere progressivi in termini di impatto e d’intensità. Infatti, solo gli stress meccanici non usuali hanno un effetto osteogenico. È importante, inoltre, che il protocollo di esercizi fisici sia individualizzato, in modo da porre l’attenzione su problematiche come disturbi articolari, difficoltà ad imparare o a ripetere l’esercizio o disturbi di incontinenza. Tra le attività sportive che rispettano questi obiettivi sono da preferire la ginnastica aerobica, il body motion, lo jogging, il nuoto e le danze ritmiche (vedi Tabella1).

Donne osteoporotiche senza fratture Gli obiettivi del trattamento riabilitativo in questa popolazione comprendono la riduzione della perdita della BMD, il rinforzo muscolare ed il miglioramento dell’equilibrio e della postura. Il protocollo riabilitativo comprende sia esercizi aerobici che di tonificazione muscolare. Per rallentare la perdita di massa ossea, nel primo periodo post - menopausale, è più importante il carico del numero delle ripetizioni effettuate. Pertanto sono da consigliare, in questa fase, tutti i pro-

8

grammi di rinforzo muscolare che prevedano un incremento progressivo della resistenza (tecnica di De Lorme), con 3 set di esercizi, ognuno di 10 ripetizioni, contro resistenza crescente dal 1° al 3° set. Tra un set e l’altro vi è un breve intervallo di riposo. La frequenza dell’esercizio di rinforzo deve essere bisettimanale o trisettimanale. È importante ricordare che il rinforzo muscolare è sito - specifico ed è quindi molto importante scegliere gli esercizi da eseguire in base alle ossa su cui si vuole agire (quelle più frequentemente colpite dalle complicanze dell’osteoporosi, ovvero anca, vertebre e polso). Un’attività fortemente consigliata, anche perché di facile esecuzione e gradita dalle pazienti, è il cammino veloce o la corsa leggera della durata di un’ora, tre volte a settimana. Anche altre attività di esercizio come l’aerobica leggera, la danza ritmica o il nuoto possono ottenere dei risultati soddisfacenti in questa tipologia di pazienti. Attenzione particolare va posta agli esercizi che prevedono movimenti di flessione e rotazione del tronco con pesi ed il sollevamento di carichi perché potrebbero favorire la comparsa di schiacciamenti vertebrali. Sono assolutamente indicati gli esercizi in estensione della colonna vertebrale (vedi Tabella 2).

Donne con osteoporosi, storia di fratture ed aumentato rischio di caduta Gli obiettivi del trattamento riabilitativo in questa popolazione comprendono la prevenzione di ulteriori fratture e di cadute attraverso il miglioramento dell’equilibrio, della coordinazione e della postura, l’aumento della forza e della flessibilità. In caso di frattura vertebrale recente è necessario un periodo di parziale immobilizzazione in corsetto fin tanto che il dolore persiste in maniera rilevante (di solito non oltre 1 mese). Dopo il periodo di immobilizzazione si può procedere ad esercizi di ripristino della flessibilità, della corretta postura e della forza muscolare. Il principale problema da affrontare in questa popolazione è che la tolleranza all’esercizio fisico può essere molto bassa per cui qualsiasi esercizio deve essere iniziato a bassa intensità (es. da seduti). In particolare, per il rinforzo muscolare è bene iniziare con bracci di leva corti ed esercizi contro gravità e senza resistenza. Sono consigliati gli esercizi in acqua calda perché, in questo ambiente, il movimento è agevolato e meno doloroso. Anche per queste pazienti gli esercizi devono essere progressivi in termini di intensità e impatto. Per quanto riguarda la prevenzione delle cadute è innanzitutto importante individuare, in modo da eliminarli o per lo meno ridurli, i fattori di rischio, intrinseci ed estrinseci, di cadute. Tra le varie forme di esercizio fisico, il Tai Chi è risultato molto efficace nella prevenzione del rischio di caduta. Questa pratica sportiva comprende, infatti, programmi che migliorano l’equilibrio, la forza muscolare e la coordinazione motoria e dovrebbe essere raccomandata per tutte le donne con pro-


blemi di equilibrio e che non possono affrontare esercizi a maggiore impatto. Tra gli esiti di frattura vertebrale da fragilità vi può essere una rachialgia cronica. La patogenesi di questo sintomo risiede, presumibilmente, nelle alterazioni biomeccaniche del rachide secondarie alla frattura, in particolare se cuneiforme. Un’ipercifosi dorsale è spesso presente nell’osteoporosi ed è secondaria a cedimenti vertebrali multipli. Gli esercizi di rieducazione posturale sono molto importanti, perché possono ridurre il dolore ed eventuali disturbi respiratori. Devono essere incoraggiati anche esercizi per incrementare l’espansione toracica. Gli esercizi di rinforzo dei muscoli estensori del tronco sono molto importanti per prevenire il peggioramento delle deformità e l’ulteriore diminuzione di massa ossea. Devono essere eseguiti in posizione prona, con un cuscino sotto l’addome sollevando il tronco dal piano del letto e successivamente utilizzando anche un piccolo peso sulle spalle. La tonificazione degli addominali va eseguita sempre con delordosizzazione lombare ottenuta mediante flessione di anche e ginocchia in posizione supina. Verranno eseguiti, in questa posizione, caute contrazioni dei muscoli addominali laterali (obliquo interno ed esterno e traverso dell’addome) mediante tentativi di avvicinamento di una spalla al ginocchio controlaterale. Sono da proscrivere, invece, esercizi di rinforzo per il retto dell’addome. Tra le attività ginniche più gradite da questo gruppo di pazienti rimane lo jogging da eseguire per un’ora al giorno, almeno 3 volte alla settimana (vedi Tabella 3).

L’esercizio fisico è dunque una delle componenti di maggiore impatto nell’approccio non farmacologico all’osteoporosi e alle conseguenti fratture da fragilità. Esso è indicato in tutte le fasi del processo patologico ed in tutte le epoche della vita dell’individuo. I principi ispiratori ed i meccanismi di azione dell’esercizio fisico rimangono gli stessi ma vi è la possibilità di una notevole diversificazione della tipologia di attività fisica in base al tipo di paziente e al grado di severità della malattia. È bene ricordare che il programma di esercizio fisico deve essere sempre personalizzato e deve essere inserito in una più generale pianificazione della presa in carico della paziente osteoporotica.

www.blisteronline.it

9


Il trattamento della spasticità con Tossina Botulinica nelle Paralisi Cerebrali Infantili

Dr. Assunta Tirelli Medicina Fisica e Riabilitativa Seconda Università degli Studi di Napoli atirelli@blisteronline.it

Le paralisi cerebrali infantili (PCI) sono riconosciute come un disordine neuromotorio che inizia precocemente e che persiste durante tutta la vita. Nel 1964 Bax definì tale disordine come “un disordine del movimento e della postura dovuto ad un difetto o ad una lesione a carico di un sistema nervoso centrale ancora immaturo”. Nell’aprile 2005 è stata identificata una più completa definizione di paralisi cerebrale come “gruppo di disordini del movimento e della postura, che causano una limitazione nelle attività, attribuibili a disturbi non progressivi che si manifestano a carico di un encefalo fetale o neonatale ancora in via di sviluppo. I disordini motori sono spesso accompagnati a disturbi della sensibilità, disturbi cognitivi e del comportamento e disturbi della comunicazione”.

• Modifica le proprietà contrattili e strutturali del muscolo;

I fattori di rischio più importanti per lo sviluppo di una PCI sono il basso peso alla nascita, le infezioni intrauterine e il parto gemellare.

I primi studi sulla tossina in ambito scientifico risalgono al 1949 quando fu dimostrato che essa provoca un blocco della trasmissione neuromuscolare, venti anni dopo fu testato il suo utilizzo nelle scimmie come possibile cura per lo strabismo. Nel 1989 la tossina ha ottenuto, negli USA, l’approvazione per il trattamento dello strabismo, del blefarospasmo e degli spasmi emifacciali. La prima applicazione della tossina nella spasticità si deve a Davis e Park nel 1989.

La spasticità è da sempre considerata uno tra i problemi principali delle PCI. Ai fini riabilitativi, rieducativi ed assistenziali, è necessario cogliere il significato e l’interferenza di questo elemento sul profilo funzionale del bambino. Per programmare un idoneo intervento terapeutico è importante analizzare l’architettura della funzione motoria considerata riflettendo sul ruolo svolto in essa dalla spasticità. Nello sviluppo del bambino, la spasticità si presenta con caratteristiche differenti che dipendono da più variabili: aspetti clinici della forma; fase di organizzazione della funzione considerata; postura assunta dal bambino. Osservando il comportamento spontaneo del bambino possiamo, infatti, riconoscere come la spasticità a volte rappresenti un difetto da correggere ed altre un compenso da rispettare. Una sua lettura scorretta può condurre ad errori riabilitativi che interferiscono pesantemente sulla possibilità di recupero del bambino con PCI. Inoltre bisogna considerare che la spasticità è in grado di produrre modifiche secondarie delle caratteristiche anatomo - funzionali di muscoli, articolazioni ed ossa:

10

• Influenza la crescita dei segmenti scheletrici e l’assetto articolare. La tossina botulinica Nell’ambito del trattamento focale della spasticità si inserisce la terapia con tossina botulinica. Il batterio che causa l’intossicazione alimentare definita botulismo, bacillus botulinus (botulus = salsiccia) fu isolato per la prima volta dal cibo e dalle vittime di una intossicazione alimentare in Belgio nel 1895. Fu in seguito ribattezzato Clostridium botulinum.

Il meccanismo di azione è legato alla inibizione del rilascio di acetilcolina a livello delle placche neuromuscolari con conseguente paralisi temporanea del muscolo infiltrato. La tossina A è quella più studiata ed utilizzata in ambito clinico. L’intervallo di tempo necessario per la comparsa dei primi segni clinici di efficacia è di 24 - 72 ore dal momento dell’inoculazione; la valutazione clinica dell’efficacia può iniziare dopo 3 - 5 giorni, con un picco tra le 4 - 6 settimane e una durata complessiva dell’azione della tossina di 3 - 4 mesi. In alcune settimane viene ripristinato il contatto tra motoneurone e fibre muscolari con ripresa della neurotrasmissione e ripristino completo della funzione muscolare dopo circa tre mesi.


Tossina botulinica e spasticità I principali obiettivi della tossina botulinica di tipo A nel trattamento della spasticità nelle Paralisi Cerebrali Infantili sono: • Migliorare l’assistenza con effetti benefici per il paziente ed i caregivers in soggetti ad elevato grado di dipendenza nelle attività di vita quotidiana; • Facilitare la cura dell’igiene, i trasferimenti ed i posizionamenti; • Ridurre il dolore locale secondario a spasticità;

to di nuove strategie motorie, prima inaccessibili per i vincoli imposti dalla spasticità. Si può affermare che il trattamento fisioterapico, pur guardando sempre all’evoluzione delle abilità e delle competenze adattive del bambino, può concentrarsi sulla correzione dello schema adottato in virtù della maggior libertà articolare presente nell’apparato locomotore dopo la riduzione della spasticità. Esso, inoltre, pur prevedendo indicazioni individualizzate caso per caso, sia in rapporto all’organizzazione della forma, sia in rapporto ai distretti muscolari trattati, segue un protocollo predefinito.

• Migliorare le performance funzionali (deambulazione in particolare) attraverso un approccio, in genere, multi - livello (inoculazione anche in più sedi muscolari);

Sono previste due fasi di trattamento:

• Ritardare la chirurgia ortopedica, prevenendo lo strutturarsi delle deformità;

Nella fase definita “muscolare” il trattamento è concentrato sul favorire le modifiche segmentarie conseguenti all’azione chimica del farmaco: aumento dell’ampiezza articolare e allungamento muscolare.

• Migliorare la tolleranza delle ortesi; • Migliorare il riallineamento posturale sia con una modificazione della statica eretta sia con il miglioramento della posizione seduta. Quello che va ricercato non è solo l’inibizione focale del riflesso di stiramento nel/i muscolo/i inoculato/i, e quindi la riduzione della spasticità focale, ma l’induzione di una facilitazione periferica che può funzionare come cambiamento “catastrofico” su cui il SNC debba programmare nuove soluzioni adattative. La modificazione della “architettura della funzione” può quindi indurre cambiamenti su cui il SNC, attraverso il movimento intenzionale e l’esperienza guidata dal riabilitatore, può costruire nuove soluzioni funzionali economicamente più vantaggiose per il bambino. La sua efficacia d’uso quindi dipende da vari fattori: • Richiede un approccio non solo di pura valutazione segmentaria della spasticità, ma anche funzionale globale che tenga conto degli eventuali disturbi associati (problemi percettivi, ecc.) e della forma clinica di PCI; • Richiede un approccio interdisciplinare e obiettivi pre - dichiarati e condivisi tra tutti gli operatori (fisiatra, neuropsichiatra infantile, ortopedico, fisioterapista, tecnico ortopedico, genitori o altri caregivers); • Va inserito all’interno di protocolli rigorosi di controllo degli effetti a breve - medio e lungo termine, comprensivi di valutazione dell’effetto a livello segmentario e funzionale, che ne giustifichino l’utilizzo a lungo termine;

• fase muscolare; • fase funzionale.

II trattamento ha anche lo scopo di favorire la diffusione del farmaco per ottimizzarne l’effetto. La rieducazione funzionale, sfruttando la modifica distrettuale ottenuta con l’inibizione farmacologica, ricerca una riorganizzazione della funzione attraverso la ricalibrazione dei pattern motori disponibili. Sarà compito del terapista offrire al bambino occasioni diverse in cui utilizzare (in contesti motivazionali e cognitivi significativi) in modo finalizzato il movimento appreso, offrendo le istruzioni adeguate affinché le condotte motorie si stabilizzino oltre il tempo determinato dall’effetto chimico della tossina. L’uso di ortesi associato al trattamento fisioterapico può semplificare il controllo motorio richiesto ed accrescere l’efficacia della prestazione intrapresa. Le ortesi vengono prescritte in base al difetto motorio affrontato ed al distretto trattato. In conclusione il trattamento integrato farmacologico – fisioterapico - ortesico della spasticità deve mirare non alla “normalizzazione” della funzione, ma alla sua “ottimizzazione” (raggiungimento del risultato più vantaggioso possibile), rispetto alle esigenze per le quali quella funzione viene spesa.

• Va strettamente integrata con l’esercizio terapeutico, con l’uso delle ortesi e/o di gessi inibitori e con l’eventuale chirurgia ortopedica funzionale. Il trattamento fisioterapico successivo all’inoculo di tossina botulinica Per ottimizzare l’effetto terapeutico indotto dal trattamento farmacologico focale della spasticità con tossina botulinica è necessario intervenire con un adeguato trattamento fisioterapico post - inoculazione. L’effetto prodotto localmente sull’apparato locomotore apre, infatti, nel paziente uno spazio di modificabilità nell’apprendimenwww.blisteronline.it

11


LIFE - HAND: LA MANO BIONICA CHE RISPONDE AL CERVELLO

Ing. Gaetano Ramundo Univ. Campus Biomedico Roma Politecnico Milano gramundo@blisteronline.it

Per la prima volta è stata messa a punto una protesi bionica le cui cinque dita di alluminio, in modo completamente indipendente, dialogano direttamente con il proprio cervello. Il tutto con semplici elettrodi impiantati a livello dell’avambraccio del paziente il quale riesce a controllare e coordinare il movimento delle dita con azioni anche prensili. Inoltre, la persona riceve anche veri e propri stimoli sensoriali grazie ad alcuni micro - sensori impiantati sui “neo - polpastrelli” delle estremità delle dita. I meccanismi fondamentali sono strutturati in acciaio, mentre la struttura delle dita è in alluminio e la copertura, il palmo ed il dorso della mano sono in fibre di carbonio, resistente e leggera. Il peso è di circa due chilogrammi e le dimensioni sono pari a quelle di una mano umana di un soggetto di corporatura media. La realizzazione di questa fantascientifica novità non è frutto della solita ricerca statunitense o di quella giapponese, come solitamente avviene, ma è frutto di un complesso lavoro esclusivamente italiano: è infatti il risultato di uno studio medico - ingegneristico portato avanti e messo a punto dall’Università Sant’Anna di Pisa e dall’Università Campus Bio - Medico di Roma, un lavoro di concerto tra ingegneri biomedici, neurologi, neurochirurghi ed ortopedici. Una delle difficoltà principali è stata quella di individuare ed isolare i vari nervi del braccio e dell’avambraccio responsabili dei movimenti della mano e della trasmissione sensoriale. Il passo successivo è stato quello di impiantare dei nano - elettrodi al tungsteno che hanno consentito di inviare gli impulsi del cervello e di trasformarli in movimento della mano e delle dita. Un arto amputato viene così per la prima volta comandato direttamente dal cervello. L’esperimento è stato effettuato su un giovane italo - brasiliano di 26 anni che era rimasto infortunato a causa di un incidente stradale. Il giovane è riuscito a controllare i movimenti della sua mano con tre tipi diversi di presa: è riuscito a stringere le dita, a muovere il mignolo e a chiudere il pugno. Ha eseguito questi movimenti quasi naturalmente con pochissimi millisecondi di tempo dal comando del proprio cervello. In effetti l’arto biomeccatronico è stato sperimentato soltanto per un mese ma il giovane italo - brasiliano non vede l’ora che la nuova protesi possa finalmente diventare propria. Devono però ancora passare almeno 3 anni affinché il paziente possa avere definitivamente la mano robotica,

12

anche per motivi di autorizzazioni varie e di etica generale. Infatti il progetto è iniziato nel 2004 ma, data la complessità della sperimentazione, solo nel 2008 sono finalmente arrivate le autorizzazioni dei Comitati Etici e del Ministero, con un finanziamento di circa due milioni di euro fornito dalla Comunità Europea. Sono poi stati necessari svariati mesi di vero e proprio allenamento dopo il quale i quatto elettrodi, necessari al controllo dell’arto, sono stati inseriti all’interno delle fibre nervose. Questi filamenti biocompatibili, posti all’altezza dei nervi mediano e ulnare, hanno consentito all’uomo di effettuare quei movimenti della protesi che abbiamo già detto, ottenendo così una sorta di mano sensorizzata, comandabile dal soggetto per vie neurali e non meccaniche e muscolari, e capace al contempo di restituire al soggetto informazioni sensoriali. Questo passo può essere considerato una vera e propria pietra miliare nell’Ingegneria Biomedica volta a migliorare la qualità di vita delle vittime di incidenti stradali e sul lavoro, avvenimenti che generalmente sconvolgono l’esistenza della persona e che hanno inevitabilmente una ricaduta sulla società in termini di costi e prestazioni. Adesso che la scienza ha provato che è possibile connettere uomo e parte di macchina, si apre una nuova sfida futura: installare protesi artificiali neuro-controllate che siano stabili e che sostituiscano a tutti gli effetti gli arti mancanti. Si deve ancora lavorare sull’affidabilità degli elettrodi e sulla loro durata all’interno del braccio. I risultati sono sicuramente incoraggianti visto che la rimozione degli elettrodi dopo un mese ha dimostrato una sostanziale integrità degli stessi ed una assenza di fenomeni infiammatori ai tessuti sui quali erano stati impiantati. Ma sarà sicuramente necessario perfezionare ulteriormente le modalità di impianto per evitare fenomeni di rigetto prolungati e per migliorare l’impianto di alimentazione dell’arto robotico, attualmente funzionante grazie ad alimentatori - anche se si prevede in futuro l’utilizzo di batterie ricaricabili. Un dato è ormai certo e consolidato: la prima mano bionica mossa dal sistema nervoso del paziente funziona davvero! Per ulteriori approfondimenti: Web: WWW.UNICAMPUS.IT comunicazione@unicampus.it Scuola Superiore S. Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento


LA RIABILITAZIONE CARDIOLOGICA

Dr. Gianfranco Ricciardi Specialista in Cardiologia e Medicina dello Sport Ospedale San Gennaro, Napoli gricciardi@blisteronline.it

“Se ci fosse una megapillola, economica, capace di: ridurre la mortalità cardiovascolare, migliorare la qualità della vita, attenuare o abolire gli effetti psicologici negativi della cardiopatia ischemica, ci si aspetterebbe che tutti i cardiopatici ischemici l’assumessero. Questa miracolosa pillola non è attualmente disponibile ma un programma di Riabilitazione Cardiologica può fornire tutti questi benefici.” Dott. Bor Lewin Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte in tutti i paesi del mondo occidentale, sono causa frequente di disabilità e perdita di produttività e contribuiscono significativamente all’aumento progressivo dei costi sanitari in rapporto all’invecchiamento della popolazione.

RC mira a ridurre i sintomi legati alla malattia, a migliorare la capacità funzionale, a favorire il reinserimento lavorativo, in una parola: a migliorare la qualità di vita.

Pertanto, nei pazienti con documentata cardiopatia, la prevenzione di nuovi eventi cardiovascolari (prevenzione secondaria), il mantenimento di un’ adeguata capacità fisica ed autonomia funzionale ed una buona qualità di vita sono tra i principali obiettivi di salute pubblica.

A tal proposito l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha fornito le seguenti raccomandazioni:

Malgrado tali evidenze, è ben documentato che troppi pazienti a tutt’oggi non ricevono appropriati interventi terapeutici né indicazioni sullo stile di vita per cui non raggiungono gli obiettivi raccomandati di prevenzione secondaria. La Riabilitazione Cardiologica (RC) si propone, attraverso programmi strutturati di prevenzione secondaria, di fornire un approccio moderno per la gestione dei pazienti cardiopatici, tanto da entrare a far parte integrante dei programmi di assistenza a lungo termine per tutti i pazienti con patologie cardiovascolari. DEFINIZIONE E OBIETTIVI La Società Europea di Cardiologia ha definito la RC come “la somma degli interventi richiesti per garantire le migliori condizioni fisiche, psicologiche e sociali in modo che i pazienti con cardiopatia cronica o post - acuta possano conservare e/o riprendere il proprio ruolo nella società”. Attraverso la combinazione di attività fisica e modificazione del profilo di rischio dei pazienti, la

Naturalmente l’approccio riabilitativo andrà differenziato per assistere pazienti con profilo di rischio e gravità clinica diversi.

1) la RC deve costituire parte integrante del trattamento a lungo termine di tutti i pazienti cardiopatici; 2) il programma riabilitativo deve essere elaborato e condotto da personale competente e dedicato, capace non solo di prescrivere esercizi fisici appropriati, ma anche di promuovere educazione sanitaria e garantire supporti sociali ed attitudinali; 3) va sollecitato il coinvolgimento dell’ambiente familiare del paziente; 4) i programmi riabilitativi vanno svolti in dipartimenti ospedalieri o in centri di riabilitazione specifici sotto la responsabilità di personale medico dedicato. Un aspetto nuovo da mettere in evidenza è che i tempi di degenza ospedaliera per un evento coronarico si sono progressivamente ridotti con la conseguenza che la gestione della fase acuta risulta incapace di istruire i pazienti sulle cause e sulla progressione della loro malattia nonché di fornire loro informazioni sulla possibilità di ridurre il rischio cardiovascolare attraverso un sano stiwww.blisteronline.it

13


le di vita. Né va tralasciato il disagio psicologico di chi in ospedale è chiamato a confrontarsi con l’esperienza traumatica della malattia. Si rischia di creare una discontinuità clinico - assistenziale tale per cui il paziente, dimesso dall’ospedale, rischia di sentirsi disorientato. Compito della RC è dunque quello di colmare il gap tra la fase acuta della patologia cardiovascolare, gestita in modo breve, aggressivo e costoso, e la fase cronica, troppo poco considerata. INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI La RC trova indicazione nei seguenti pazienti: • affetti da cardiopatia ischemica (post infarto miocardico; post by - pass aortocoronarico; post angioplastica coronarica; angina stabile); • sottoposti a chirurgia valvolare; • affetti da scompenso cardiaco cronico; • sottoposti a trapianto di cuore o cuore - polmone; • operati per cardiopatie congenite; • portatori di pacemaker o defibrillatori;

I programmi di RC si sviluppano su cinque fondamentali aree d’intervento: 1. assistenza clinica, stratificazione del rischio e corretta impostazione terapeutica; 2. training fisico e prescrizione di programmi di attività fisica; 3. educazione sanitaria volta alla correzione dei fattori di rischio; 4. valutazione psicosociale; 5. follow-up clinico - strumentale individualizzato. La riabilitazione può svolgersi secondo due modalità: quale degenziale, rivolta a pazienti ad alto rischio e non autosufficienti, e quella ambulatoriale, diretta a pazienti a medio o basso rischio.ì BENEFICI La RC può essere vista in buona sostanza come l’applicazione sul campo dei principi della prevenzione cardiovascolare.

• aritmie ventricolari severe;

I benefici e gli effetti preventivi che da essa derivano sono: la riduzione e il controllo dei sintomi, il miglioramento della tolleranza allo sforzo, il miglioramento dell’assetto metabolico e del profilo di rischio cardiovascolare globale, la riduzione del fumo, una maggiore capacità di gestione dello stress e in generale una maggiore sensazione di benessere. Tutto questo si associa al rallentamento della progressione del processo aterosclerotico con significativa riduzione dell’incidenza di successivi eventi cardiovascolari, delle ospedalizzazioni e, in ultima analisi, della morbilità e della mortalità totale.

• grave ipertensione polmonare;

PROBLEMI ATTUALI

• ipertensione arteriosa non controllata dai farmaci;

A dispetto di questi evidenti e documentati benefici, solo un terzo di tutti i pazienti eleggibili di fatto accede ai reparti di RC.

• affetti da arteriopatia cronica obliterante periferica. Di fatto non vi sono controindicazioni all’intervento riabilitativo nella sua globalità. Le limitazioni si riferiscono al solo training fisico e non alle altre componenti del programma riabilitativo e riguardano le seguenti patologie: • angina instabile; • scompenso cardiaco cronico in fase di instabilità clinica;

• versamento pericardio o pleurico di media grande entità; • cardiomiopatia ostruttiva severa; • stenosi aortica serrata o sintomatica; • recenti episodi di tromboflebite; • affezioni infiammatorie o infettive in atto; • comorbidità limitanti l’esercizio fisico.

14

COMPONENTI DELLA RIABILITAZIONE CARDIOLOGICA

Le motivazioni vanno ricercate nelle scarse risorse economiche, nella maldistribuzione geografica dei servizi disponibili, nelle eccessive distanze, nella carenza di strutture adeguate ma anche, e ciò va affermato senza ipocrisie, in problematiche culturali e non che coinvolgono la classe medica, spesso restia ad avviare i pazienti ai programmi di RC anche se disponibili.


La riabilitazione post intervento di protesi all’anca

Dr. Giuseppe Di Napoli Dr. Luigi Buono U.O. Ortopedia e Traumatologia Centro Medico Athena Ariano Irpino (AV) gdinapoli@blistronline.it lbuono@blisteronline.it

L’artrosi dell’anca è, da un punto di vista anatomico, un processo degenerativo ed evolutivo che si localizza all’articolazione coxo - femorale. Le manifestazioni cliniche che il paziente rileva sono principalmente il dolore e la limitazione funzionale. La limitazione funzionale, in particolare, è progressiva e nella generalità dei casi riguarda dapprima i movimenti di rotazione, successivamente quelli di estensione della coscia e in ultimo quelli di flessione. Tali limitazioni si riflettono sul cammino che, con il trascorrere del tempo, diventa sempre più difficoltoso. Tutti questi fenomeni rendono la malattia altamente invalidante. La frequenza, unita all’invalidità che tale infermità comporta, fa dell’artrosi dell’anca una malattia sociale di primo piano. L’intervento chirurgico di atroprotesi d’anca è attualmente largamente praticato con ottimi risultati sia per la riduzione del dolore sia per il recupero funzionale dell’anca artrosica. Inoltre il numero di impianti è notevolmente cresciuto di anno in anno parallelamente con l’incremento dell’età media, che vede aumentare vertiginosamente il numero di persone anziane affette da grave coxatrosi. Negli ultimi anni è di pari passo aumentata la disponibilità di tecniche chirurgiche e materiali affidabili che, nel contesto di una medicina volta alla mini-invasisvità, consentono il recupero rapido dell’anca operata, riducendo le complicanze e la degenza ospedaliera. Ciò fa fronte alla richiesta e alle aspettative dei pazienti candidati ad intervento di artroprotesi, che vogliono ritornare rapidamente alla normale vita di relazione e riconquistare anche una attività sportiva. Si vuole enfatizzare l’importanza di un “progetto” e di un relativo “piano” di trattamento riabilitativo individualizzato e “vestito” sul paziente, stilato dallo Specialista in Medicina Fisica e Riabilitazione, supportato dal Fisioterapista/Terapista della Riabilitazione, nel rispetto e in accordo con le procedure e le tecniche chirurgiche utilizzate dal Chirurgo Ortopedico. Il successo dell’intervento,

tuttavia, dipenderà strettamente anche da una serie di fattori chirurgici e legati al paziente. FATTORI CHIRURGICI L’intervento chirurgico di artroprotesi all’anca viene eseguito in sicurezza e molteplici sono le tecniche chirurgiche impiegate per l’impianto. Negli ultimi anni si è diffusa nella chirurgia ortopedica la cultura di “chirurgia mini-invasiva”, che vuole accentuare i principi nobili dell’arte chirurgica, ovvero rispettare i tessuti molli ed evitare le strutture vascolo-nervose, con buon controllo del sanguinamento. L’incisione è più piccola e l’intervento è tempestivo, pertanto si possono assicurare tempi di riabilitazione rapidi. La prontezza nel percorso riabilitativo dipende anche dalla stabilità dell’impianto. La recente tecnologia fornisce al chirurgo ortopedico nuovi biomateriali e nuove tribologie nell’accoppiamento fra testa femorale e acetabolo protesico. Oggi c’è la propensione all’impianto di teste femorali di grandi dimensioni, in materiale ceramico, che offrono grande stabilità e ampio raggio di movimento. Le protesi quasi mai sono cementate e gli steli femorali vengono montati con tecnica press-fit per il riempimento completo del canale femorale (Fig.1). Sono inoltre rivestiti di materiali che facilmente promuovono l’osteo-integrazione, pertanto il carico sull’arto operato può avvenire immediatamente dopo l’intervento chirurgico (normalmente in terza giornata). Le moderne protesi, inoltre, liberano il paziente da rigide restrizioni a cui era costretto nel post - operatorio con i vecchi design protesici. Negli ultimi anni si è diffusa la tecnica autotrasfusionale, nelle sue forme di pre - deposito (quando possibile) e di recupero ematico intra e post - operatorio. In tal modo il paziente non avrà bisogno di trasfusioni, ricevendo il proprio sangue dopo l’intervento. Si elimina così ogni rischio connesso alle comuni emotrasfusioni. In particolare tale metodica si è dimostrata sicura, esente da com-

(Foto A)

(Foto B) Fig.1 Esempi di artroprotesi dell’anca. A) Impianto tradizionale con stelo NON cementato. B) Impianto con mini-stelo NON cementato eseguito su paziente giovane. L’impiego dei mini-steli consente il risparmio d’osso. Le testine in ceramica di grande diametro assicurano maggiore stabilità e permettono ampi range di movimento. www.blisteronline.it

15


plicanze e ben accetta dal paziente che partecipa attivamente alla terapia e al recupero funzionale post-chirurgico. I pazienti sottoposti all’autotrasfusione, rispondono in modo eccellente alla riabilitazione, ottenendo brillanti risultati in particolare per la diminuzione dell’allettamento, precoce mobilizzazione e deambulazione. FATTORI DEL PAZIENTE Diversi studi hanno dimostrato che i pazienti adeguatamente informati prima dell’intervento ed educati sul progetto riabilitativo raggiungono risultati migliori in tempi rapidi e con alto tasso di soddisfazione. L’informazione al paziente deve avvenire attraverso il colloquio approfondito con l’ortopedico e il fisioterapista e si perfeziona con l’impiego di manuali di istruzioni appositamente redatti per il paziente e consegnati prima del ricovero ospedaliero. Bisogna intervenire sul livello nutrizionale del paziente correggendo gli stati carenziali proteici (ipoalbuminemia) e le riserve di ferro. Allo stesso modo i pazienti obesi sono esposti a maggior rischio di infezioni e trombosi venosa profonda, causate da una maggiore complessità della tecnica chirurgica e dalle co - morbidità presenti (diabete, ipertensione, cardiopatie ecc.). Inoltre l’usura della protesi in tali pazienti può avvenire più precocemente. Numerosi studi hanno dimostrato come il fumo di sigaretta sia correlato con lo sviluppo di complicanze cardiopolmonari e complicanze sulla guarigione della ferita. Pertanto si consiglia ai pazienti di smettere di fumare prima dell’intervento chirurgico. CONTROLLO ADEGUATO DEL DOLORE POST OPERATORIO Un adeguato controllo del dolore è di fondamentale importanza per seguire un protocollo di riabilitazione accelerato dopo intervento di artroprotesi dell’anca. Tuttavia l’impiego dei farmaci deve servire solo a minimizzare il dolore senza causare eccessiva sedazione o blocco motorio. Il dolore è meglio controllato se si inizia un’adeguata terapia farmacologica in fase pre - operatoria. Numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia dei farmaci inibitori della ciclossigenasi-II (COX-2). L’assunzione di COX-2, che inizia una settimana prima dell’intervento e continua per altri 10 giorni dopo l’intervento, riduce il consumo di farmaci analgesici e oppiacei nel post - operatorio. Inoltre recenti studi hanno stabilito il ruolo d’inibizione della formazione ossea svolto dagli inibitori della COX-2 e per tale motivo questi farmaci possono risultare utili anche per limitare il fenomeno delle calcificazioni peri-protesiche dell’anca, temibile complicanza causa di rigidità. L’infiltrazione della ferita chirurgica con anestetico locale è un altro rimedio efficace per il controllo del dolore post - operatorio. Un programma di controllo del dolore post - operatorio adeguato, che combini farmaci anti - infiammatori prima e dopo l’intervento e l’anestesia regionale e locale insieme, offre l’opportunità di eseguire una riabilitazione accelerata, tanto da consentire al paziente operato di iniziare la

16

deambulazione già dopo il secondo giorno con l’impiego di opportuni ausili. RIABILITAZIONE Per quanto riguarda la rieducazione funzionale vera e propria, essa deve aver inizio nel periodo pre - operatorio. Sarebbe consigliabile, se le condizioni fisiche lo permettono, raggiungere un’adeguata preparazione muscolo - articolare all’intervento, con esercizi che perseguono il fine di mantenere e/o potenziare il trofismo muscolare e l’articolarità. Utilizziamo esercizi che rafforzano e allungano i muscoli e la capsula dell’anca affetta, che implicano la mobilità e la forza necessarie al paziente per le funzioni quotidiane. Il paziente compie rotazioni dell’arto, ruota l’anca internamente ed esternamente in posizione supina. Esegue elevazioni dell’arto, sia anteriori sia laterali e accavallamenti delle ginocchia. Gli esercizi di articolarità sono seguiti da esercizi di rinforzo muscolare in cui il paziente fa uso di elastici tubulari o fasce elastiche con cui compie sforbiciate degli arti contro resistenza. Completa gli esercizi di rinforzo con elevazioni dell’arto a ginocchio esteso, porta le ginocchia al petto e disteso sul fianco abduce la gamba con calci laterali per rinforzare i glutei. Utile in questa serie è l’esercizio di mini - squats con ginocchio flesso a 30°. Questa serie di esercizi sarà utili anche dopo l’intervento, ma solo quando sono passati almeno 60 giorni da questo. Nell’immediato post - operatorio viene applicata all’arto interessato una ferula, contenitore in schiuma di gomma, che ha il compito di evitare eventuali anomalie di posizione, in quanto l’arto tende naturalmente ad extraruotare. Il giorno stesso dell’intervento il soggetto inizia a muovere attivamente le dita e la caviglia dell’arto operato. La mobilizzazione precoce e l’impiego di eparine calciche a basso peso molecolare riducono il rischio di complicanze trombo - emboliche. Il paziente compie delle contrazioni isometriche del quadricipite e dei glutei (Fig.2). Il chirurgo e il terapista cercano di tranquillizzare il paziente in modo che si senta confortato dalla presenza delle persone che lo accompagneranno nel graduale recupero funzionale. La tranquillità psicologica del paziente è importante quanto gli esercizi che gli verranno via via insegnati.

Fig 2. Il giorno successivo all’intervento si inizia la mobilizzazione passiva dell’arto operato. Il paziente inoltre muove attivamente la caviglia ed esegue contrazioni isometriche del quadricipite e dei glutei. Se le condizioni cliniche generali lo consentono, il paziente ritorna in piedi e inizia la deambulazione già il secondo giorno dopo l’intervento. La


deambulazione inizia con l’aiuto del terapista e l’impiego di girello deambulatore (Fig. 3). Successivamente si passa alla deambulazione assistita con coppia di stampelle. Una volta raggiunta una certa sicurezza, equilibrio, resistenza e il peso sarà equilibrato sui due arti, si passerà ad una deambulazione con una sola stampella. La stampella sarà impugnata con la mano opposta al lato operato. Nello stesso periodo il terapista rieduca il paziente a coordinare correttamente il passo e aiuta il paziente a salire e scendere le scale. Il paziente inoltre esegue esercizi base per il recupero della forza muscolare dei glutei e del quadricipite femorale.

devono flettere eccessivamente l’anca, pertanto si consiglia l’uso di alza-water. Una volta acquisita sicurezza nella deambulazione e facilità nell’esecuzione degli esercizi precedenti, si potrà passare ad esercizi più impegnativi che incrementino la forza dei muscoli dell’anca. Suggeriamo a questo scopo degli esercizi con resistenza elastica. Un’estremità dell’elastico sarà fissato ad un punto fisso (ad esempio un mobile pesante), l’altra alla caviglia del vostro arto operato. Consigliamo di eseguire le ripetizioni più volte al giorno. CONCLUSIONI Il recupero funzionale completo e rapido dopo intervento di artroprotesi all’anca dipende dalla sinergia di vari fattori. L’intervento chirurgico deve essere mini - invasivo, nel rispetto dell’anatomia delle strutture muscolo - tendinee, deve essere tempestivo e ridurre al minimo il sanguinamento. Inoltre la stabilità dell’impianto ottimale ci consente la riabilitazione rapida in sicurezza. Il paziente deve ricevere un’adeguata informazione e si devono controllare i fattori modificabili legati allo stesso (obesità, malnutrizione, fumo di sigaretta). Il controllo del dolore post - operatorio è importantissimo al fine di iniziare rapidamente il percorso riabilitativo e per il raggiungimento rapido degli obiettivi funzionali. Il miglior risultato si ottiene solo quando le molteplici figure professionali coinvolte (chirurgo, anestesista, fisioterapista e infermiere) collaborano attivamente in squadra per mettere a punto la strategia terapeutica più adatta.

Fig. 3 Se le condizioni cliniche generali lo consentono, il paziente ritorna in piedi e inizia la deambulazione già il secondo giorno dopo l’intervento. La deambulazione inizia con l’aiuto del terapista e l’impiego di girello deambulatore. Nel corso dei primi due mesi il paziente è obbligato ad alcune restrizioni per ridurre il rischio di lussazione dell’impianto. Rispetto al passato questa evenienza è fortunatamente più rara grazie al perfezionamento della tecnica chirurgica e del design protesico, come già illustrato in precedenza. Tuttavia per i pazienti sottoposti ad intervento per via laterale si consiglia di NON accavallare le gambe e di dormire con un cuscino in mezzo alle gambe. I pazienti operati per via posteriore NON

www.blisteronline.it

17


PROTESI DI MANO LOW-COST DESTINATA AI PAESI IN VIA DI SVILUPPO

Ing. Massimo Polisiero Dipartimento di Ingegneria Biomedica, Università degli Studi di Napoli Federico II mpolisiero@blisteronline.it

La necessità di progettare e realizzare protesi a basso costo nasce dal crescente numero di vittime di mine antiuomo e mutilazioni, per lo più bambini ed agricoltori, che si registra tra le popolazioni dei paesi in via di sviluppo . Della riabilitazione delle vittime di amputazione si interessano i centri “Kwetu” di Bukavu (Repubblica Democratica del Congo) e “Kituo-cha” nella città di Mlali (Tanzania), entrambi gestiti dall’Associazione Onlus “Time for peace” di Genova. Considerato che, ad oggi, gli elevati costi delle protesi disponibili sul mercato rappresentano un notevole ostacolo all’attività dei centri di riabilitazione, “Time for Peace”, in collaborazione con “Ingegneria senza Frontiere – Napoli”, si è impegnata a realizzare protesi caratterizzate da un grado di semplicità e affidabilità tali da consentirne il montaggio, la manutenzione e, ove possibile, la costruzione direttamente in loco, di modo da abbatterne i costi e consentire un maggiore intervento sul territorio. Il lavoro di progettazione e sviluppo illustrato in questo articolo è focalizzato sulla realizzazione di una protesi di mano elettroattuata e, più in particolare, su un sistema di controllo che renda facile e intuitivo l’uso della stessa senza ricorrere a lunghi trattamenti fisiokinesiterapici. Affinché il nuovo prototipo possa considerarsi un valido sostituto delle già esistenti protesi low cost, dovrà essere molto economico sia in fase di realizzazione che di manutenzione, inoltre dovrà presentare caratteristiche tali da risultare leggero e abbastanza maneggevole, tanto da poter essere azionato senza ricorrere ad una eccessiva forza muscolare.

camente e che rispetti i seguenti parametri: • basso costo; • semplicità realizzativa e di utilizzo; • leggerezza; • affidabilità; • bassa manutenzione eseguibile anche in loco. Protesi di mano attualmente utilizzata nei paesi in via di sviluppo Le protesi di mano attualmente utilizzate nei paesi in via di sviluppo sono di tipo cinematico ad energia corporea (Fig.1). Con esse i movimenti dell’arto avvengono attraverso l’utilizzo di cavi e bretellaggi disposti dorsalmente alle spalle e posti in trazione attraverso definiti e combinati movimenti del moncone. Nonostante l’elevata affidabilità di tali protesi, esse risultano pesanti, poco maneggevoli e richiedono un’ elevata forza muscolare per l’apertura e la chiusura delle falangi; sono necessari, inoltre, un lungo trattamento fisiokinesiterapico di preparazione al trattamento protesico e la successiva riabilitazione che ne insegni il corretto utilizzo. Il costo di una protesi cinematica prodotta direttamente in Tanzania o in Congo, utilizzando sia componenti disponibili in loco che componenti importati, è di 60 - 100$. Tale cifra varia in funzione del grado di amputazione, dell’età del paziente e del tipo di materiale utilizzato.

Tale ultima caratteristica risulta particolarmente importante, in quanto consentirebbe l’uso di questo prodotto anche da parte di soggetti muscolarmente deboli come i bambini. L’obiettivo che ci si è posto è pertanto quello di realizzare una protesi di mano a pinza, attuata tramite motorino elettrico, controllata mioelettri-

18

Fig.1: Protesi cinematica di arto superiore con attivazione tramite bretellaggio


Alternativa proposta: protesi ad energia extracorporea La maggior parte dei pazienti ricoverati nei centri di Bukavu e Mlali risultano essere bambini con età inferiore ai 12 anni e persone gravemente debilitate. Per questi soggetti l’uso di una protesi cinematica ad energia corporea risulta spesso impossibile a causa del peso e dell’elevata forza richiesta in fase di apertura/chiusura delle falangi. La soluzione a questo problema, implementata in questo progetto, è l’utilizzo di una protesi ad energia extracorporea elettroattuata: la forza necessaria per i movimenti dell’arto è fornita non più direttamente dal paziente attraverso uno sforzo muscolare ma da un piccolo e leggero motorino elettrico. La parte elettromeccanica della protesi (Fig.2) consiste in una pinza in alluminio attuata linearmente mediante vite infinita a cui è collegato un motorino elettrico da 12V Minilat che si distingue per le ridotte dimensioni ed il basso costo.

Il sistema è stato realizzato in maniera tale da risultare molto semplice da un punto di vista architetturale. Questa caratteristica permette non solo la facile ingegnerizzazione del progetto ma si riflette anche sull’economicità dello stesso. Si è perciò implementata una configurazione circuitale con il minor numero di componenti elettronici possibile e si è rivolta particolare attenzione alla scelta di quest’ultimi privilegiando economicità e facile reperibilità sul mercato: si è cercato in questo modo di ottenere il miglior compromesso tra prestazioni, convenienza e robustezza. Per prelevare i segnali miolettrici necessari al controllo del movimento della protesi, si è pensato di ricorrere a due coppie di elettrodi: una per l’acquisizione del segnale di apertura, l’altra per quella di chiusura. Le coppie sono applicate a due muscoli differenti così da realizzare un miglior controllo. Costi di produzione La semplice architettura alla base dell’intero circuito elettronico permette di contenere il più possibile i costi di produzione. Un’accurata ricerca di mercato ha portato alla selezione di componenti di facile reperibilità e di grande economicità. L’architettura circuitale modulare non integrata permette anche ad un tecnico non specializzato di intervenire facilmente in loco sul circuito.

Fig.2: Parte elettromeccanica della protesi Il sistema di controllo Il sistema di controllo realizzato sfrutta il fenomeno del biopotenziale mioelettrico: quando un muscolo viene a trovarsi in contrazione, si genera sulla superficie cutanea un segnale elettrico (EMG superficiale) dato dalla somma degli impulsi provenienti dalla scarica delle fibre muscolari localizzate nell’area di prelievo degli elettrodi. Il segnale elettromiografico superficiale presenta una banda di frequenza tra i 40Hz e i 400Hz e un’ampiezza proporzionale alla contrazione della fascia muscolare sulla quale si applicano gli elettrodi. Tale proprietà è sfruttata dal blocco di controllo della protesi per modificare l’intensità del segnale destinato al motore. Ciò permette al paziente il controllo della velocità di apertura - chiusura della mano, e di conseguenza quello della forza della presa, attraverso una semplice contrazione muscolare isometrica. L’utilizzo di un sistema mioelettrico di controllo, pur risultando più complesso di un apparato di tipo cinematico, richiede uno sforzo minimo per essere attivato. Questa caratteristica permette di utilizzare la protesi in soggetti di età molto bassa o debilitati. Inoltre, il comando mioelettrico permette il controllo proporzionale della velocità di apertura/ chiusura rispetto alla contrazione muscolare come nelle protesi più avanzate.

La spesa totale per la produzione dell’intera protesi si dovrebbe aggirare intorno ai 35€ compreso montaggio. Tale cifra risulta nettamente inferiore rispetto al prezzo delle protesi mioelettriche di mano prodotte dalle multinazionali del settore (€ 1000 - 10.000) e risulta anche più economica delle protesi cinematiche fin’ora realizzate nei centri di riabilitazione dell’associazione “Time for Peace”. In caso di delocalizzazione della produzione in Asia o direttamente nei paesi che usufruiranno della protesi, ci si aspetta un ulteriore abbattimento dei costi. Da notare che lo sviluppo dell’intero sistema è stato realizzato con software totalmente gratuiti (Eagle, LTSpice ed MPLab) quindi non sono presenti costi di progettazione relativi alle licenze. Futuri sviluppi Affinché tale protesi possa essere effettivamente utilizzata nei paesi in via di sviluppo, saranno necessari studi sull’incremento delle performance dinamiche e strutturali della pinza e la realizzazione di un guanto polimerico di copertura atto a salvaguardare gli organi meccanici ed elettronici del sistema. Una dimostrazione della protesi di mano realizzata può essere visionata al seguente indirizzo internet: http://www.youtube.com/watch?v=rwoaZttyYQ0. www.blisteronline.it

19


LE TECNICHE PER LA RIABILITAZIONE DEL PAVIMENTO PELVICO

Dr. Domenico Stanco Medico Ginecologo - Specialista di DaySurgery, uro-dinamica ed uro-ginecologia Ospedale Fatebenefratelli Benevento dstanco@blisteronline.it

La parte più bassa della cavità addominale, chiamata pelvi, presenta nella parte più caudale della sua rigida struttura ossea, un’ampia apertura con l’esterno, cosiddetto egresso pelvico, che rappresenta un locus minoris resistentiae da cui potrebbero dislocarsi i visceri contenuti nella cavità addominale. Il pavimento pelvico è la struttura muscolo fasciale che è deputata a chiudere questa ampia apertura garantendo dal basso l’allocazione intraddominale dei visceri che dall’avanti all’indietro, sono il condotto uretrovescicale, quello utero vaginale e l’anorettale. Per gli stretti rapporti di contiguità e connessione anatomica che ha con essi, condiziona non solo la loro disposizione morfologica e la loro allocazione nella pelvi ma anche i loro aspetti funzionali. Dal punto di vista morfologico il pavimento pelvico è costituito da una componente muscolare, il muscolo elevatore dell’ano e da una componente fasciale, la fascia endopelvica, che avvolge la struttura muscolare ed invia sue espansioni agli organi viciniori sopra e sottostanti. Le alterazioni anatomofunzionali del pavimento pelvico possono manifestarsi determinando vari tipi e gradi di prolasso degli organi pelvici, incontinenza urinaria e fecale. La riabilitazione del pavimento pelvico rappresenta, ormai, un importante approccio alle molteplici disfunzioni uro ginecologiche di cui sopra; essa è sempre raccomandata nel post - partum, nelle fasi precoci della disfunzione perineale, nelle pazienti in attesa di chirurgia pelvica e nel periodo immediatamente successivo ad essa. Può essere, infine, utilizzata in caso di neuropatie, algie perineali e nella gestione della ritenzione urinaria. Le tecniche riabilitative perineali, opportunamente selezionate a seconda del problema specifico, hanno tutte come obiettivo primario il miglioramento delle performances perineali al fine di consentire al perineo di poter esplicare al

20

meglio le sue funzioni di supporto dei visceri pelvici, di rinforzo sfinterouretrale e di contrasto alle iperpressioni addominali. Il piano di trattamento deve tenere conto di una accurata valutazione preliminare che caratterizzi la paziente sia dal punto di vista organico che funzionale. All’obiettività uro ginecologica deve necessariamente affiancarsi la valutazione fisiatrica pelvi perineale che ha l’obiettivo di riconoscere le eventuali disfunzioni neuromotorie del complesso muscolare striato della regione perineale. Le basi di questo tipo di riabilitazione sono rappresentate essenzialmente da: • Biofeedback (BFB) • Stimolazione elettrica funzionale (SEF) • Chinesiterapia pelvi-perineale (CPP) • Coni endovaginali. BIOFEEDBACK Il significato del termine biofeedback deriva da una combinazione delle parole anglosassoni “biological” e “feedback” (retroazione biologica o retro controllo sensoriale), esso si rende necessario nella fase iniziale del programma rieducativo per facilitare la presa di coscienza del piano perineale e l’apprendimento del corretto pattern motorio della muscolatura perineale ed in particolare dell’elevatore dell’ano. STIMOLAZIONE ELETTRICA FUNZIONALE La stimolazione elettrica funzionale si avvale di apparecchiature specifiche che emettono uno stimolo elettrico con parametri specifici di intensità, durata e frequenza dell’impulso. Gli elettrodi più comunemente usati sono quelli ad anello e sono posizionati in sede endovaginale, il più vicino possibile all’elevatore dell’ano. Durante la stimolazione, ad un periodo in cui passa la corrente (tempo di lavoro) segue un periodo che


non prevede il passaggio di corrente (tempo di riposo) che definisce il periodo di recupero della muscolatura sottoposta al trattamento. Le finalità della SEF sono essenzialmente: incremento del tono trofismo muscolare sfinteroperineale, inibizione dell’iperattività detrusoriale, rinforzo del riflesso di chiusura perineale allo sforzo; pertanto essa trova indicazione nella ipovalidità muscolare perineale, nell’incontinenza urinaria da sforzo, da urgenza, mista, nel prolasso genitale di grado lieve, nel post - partum, nel dolore pelvico cronico, nella preparazione alla chirurgia o in pazienti che rifiutano o non possono operarsi.

ma di peso diverso che varia da 20 a 70 gr, la lunghezza del cono è di 5 cm ed il diametro di 2 cm. Essi vengono inseriti in vagina con la punta verso il basso in modo che il filo attaccato alla punta esca all’esterno così da facilitarne l’estrazione. In questo modo il cono tende a fuoriuscire per gravità, tale sensazione di scivolamento attiva le afferenze sensitive dirette al nervo pudendo determinando una reazione di trattenimento riflessa (contrazione dell’elevatore dell’ano) al fine di mantenere il cono all’interno della vagina. I coni offrono una soluzione semplice e pratica per:

CHINESI TERAPIA PELVIPERINEALE (CPP)

• testare la forza dei muscoli del pavimento pelvico;

La chinesi terapia pelviperineale occupa un ruolo molto importante nella terapia conservativa in ambito uro - ginecologico e colon - proctologico. Le tecniche sono finalizzate ad una migliore utilizzazione dell’elevatore dell’ano che svolge il duplice compito di rinforzo della funzione sfinterica e di sostegno dei visceri pelvici. Possiamo distinguere indicazione preventive della CPP: post - partum, prima e dopo chirurgia pelvica, ipovalidità dell’elevatore dell’ano e terapeutiche: incontinenza urinaria da sforzo, prolasso genitale di grado lieve, incontinenza fecale/stipsi, vescica iperattiva, turbe sessuali organiche, chronic pelvic pain.

• imparare a contrarre i muscoli del pavimento pelvico;

• esercitare i muscoli del pavimento pelvico: la paziente inizia ad esercitarsi con il cono meno pesante che riesce a trattenere in vagina per 1 minuto con lo scopo di aumentare il tempo di utilizzo fino a 15 minuti prima di esercitarsi con il cono successivo più pesante. È utile, prima di passare al cono di peso maggiore, assicurarsi della possibilità di trattenere il cono durante i colpi di tosse, salendo le scale, correndo sul posto. Viene di solito consigliato un regime di trattamento con sessioni giornaliere di 15 minuti per un minimo di tre mesi.

La CPP si articola in una fase preliminare di informazione e sedute propedeutiche di apprendimento chinesiologico generale e fasi successive di presa di coscienza della regione perineale, eliminazione delle sinergie agoniste ed infine di training muscolare specifico per l’elevatore dell’ano.

Un cenno a parte merita la riabilitazione nel postpartum. Essa va iniziata non prima di otto settimane dal parto ed ha come obiettivo la continenza urinaria ed anale, la preservazione della statica pelvica, la ripresa ed il mantenimento di una vita sessuale soddisfacente, un effetto antalgico per le pazienti che presentano sequele dolorose dovute all’episiotomia.

Tutti gli autori sono concordi sulla necessità di esercitarsi quotidianamente a domicilio per il mantenimento dei risultati dopo la conclusione delle sedute ambulatoriali.

Concludendo possiamo dire che la riabilitazione del pavimento pelvico si avvale di svariate tecniche con ampia possibilità di personalizzazione, senza effetti collaterali negativi.

CONI ENDOVAGINALI

Fondamentale per la buona riuscita della riabilitazione e per il mantenimento del tempo dei risultati raggiunti è la convinta adesione della paziente al programma riabilitativo.

Il metodo si avvale di 3 - 5 coni di plastica con l’interno in metallo, identici per forma e volume

www.blisteronline.it

21


LA RIABILITAZIONE DEL PAZIENTE SOTTOPOSTO A BYPASS CORONARICO

Dr. Felice Piancone Div. Di Cardiochirurgia e Riabilitazione post - operatoria Casa di Cura Villa Torri Hospital Bologna fpiancone@blisteronline.it

La riabilitazione respiratoria è considerata un fondamentale intervento terapeutico non farmacologico nella profilassi delle complicanze respiratorie dei pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici di bypass aortocoronarico. Infatti le complicanze respiratorie giocano un ruolo molto importante nella morbilità e mortalità post - operatoria. L’individualizzazione del corretto programma riabilitativo rappresenta un momento fondamentale per la sua riuscita, così come la valutazione e la scelta di indicatori sensibili a documentare i cambiamenti nell’evoluzione del quadro patologico. Gli obiettivi della riabilitazione respiratoria sono finalizzati a diminuire il rischio di sviluppo delle complicanze post - chirurgiche e quindi a ridurre i tempi di ospedalizzazione del paziente. Nel corso degli anni sono state modificate (supportate ed avvalorate da studi scientifici) molte delle metodiche che erano sempre state utilizzate e che hanno portato ad un conseguente cambiamento nell’approccio riabilitativo. Infatti è stato dimostrato che l’utilizzo di movimenti coordinati degli arti superiori ed inferiori con gli atti respiratori, visto come vero e proprio esercizio respiratorio, non solo non migliora la dinamica respiratoria ma, al contrario, la riduce (es. l’elevazione delle braccia durante l’inspirazione sottrae al pattern ventilatorio il contributo dei muscoli inspiratori cervicali). L’utilizzo della forza di gravità nel drenaggio posturale per favorire la clearance muco-ciliare è stato a lungo un concetto portante della fisioterapia respiratoria, ma le caratteristiche fisiologiche sia del muco che delle vie aeree ha indotto nel tempo al cambiamento di questa ipotesi, evidenziando come la forza di gravità da sola non sia in grado di influenzare il distacco e la rimozione delle secrezioni. Inoltre negli studi in cui la componente antigravitazionale viene isolata, il drenaggio posturale non mostra di fatto di in-

22

fluenzare la clearance muco-ciliare. Insieme al drenaggio posturale, anche le percussioni e le vibrazioni sono metodiche nate con l’obiettivo di aumentare il trasporto di muco, ma non è stato evidenziato nessun effetto sia sull’aumento dell’espettorazione sia sulla prevenzione delle atelettasie. Per una buona riuscita del protocollo riabilitativo, vanno sempre considerati i fattori di rischio operatorio, che generalmente sono l’età avanzata, il fumo di sigaretta, la scarsa nutrizione, l’obesità (BMI > 25), la compromissione della funzione respiratoria e la durata dell’intervento cardio - chirurgico. È importante evidenziare che vi sono delle alterazioni, soprattutto respiratorie, che non dipendono dalla storia clinica personale del paziente, ma che vengono ad instaurarsi non solo nel periodo post - operatorio, ma durante l’intervento stesso e quindi strettamente legate a ciò che l’intervento di cardiochirurgia comporta. Pertanto si manifestano sempre, anche se ovviamente in percentuale e intensità variabile, e sono dovute alla ventilazione meccanica, all’anestesia generale, alla durata dell’intervento, alla postura obbligata, all’utilizzo di ossigeno ad alti flussi, al trauma da incisione della parete toracica (sternotomia), alla manipolazione chirurgica, all’utilizzo della circolazione extracorporea. Per tale motivo gli obiettivi generali della riabilitazione post - operatoria sono principalmente finalizzati a contrastare gli effetti provocati sull’apparato respiratorio dall’intervento cardiochirurgico, prevenire gli effetti provocati dall’allettamento e facilitare il recupero dell’autonomia. Più nello specifico il trattamento di fisioterapia respiratoria post - operatoria è finalizzato a facilitare la clearance muco-ciliare (cioè prevenire l’accumulo e facilitare la rimozione delle secrezioni bronchiali in eccesso), prevenire la formazione di atelettasie, migliorare gli scambi gassosi.


Le tecniche di riabilitazione cardio-respiratoria prevedono le seguenti modalità: • Breathing Control (Respiro Controllato). è un respiro calmo, fatto a volume corrente, usando la parte inferiore del torace, mantenendo rilassate le spalle e la parte alta del torace. Il Respiro Controllato è molto importante in quanto previene il broncospasmo e l’aumento delle resistenze delle vie aeree, permettendo pause di riposo e favorisce il rilassamento del paziente. Queste ultime variano (come durata) da caso a caso. • Thoracic Expansion Exercise (Esercizi di espansione toracica). Sono respiri profondi con accentuazione della fase inspiratoria ed espiratoria non forzata. Dopo una espirazione totale passiva, si richiede al paziente una inspirazione lenta dal naso fino a massima espansione, con apnea teleinspiratoria di circa 3 secondi, seguita da una espirazione non - forzata a labbra socchiuse. Ne consegue che l’atto inspiratorio lento, a basso flusso, facilita l’espansione anche di quelle zone del parenchima che richiedono più tempo perché l’aria le possa raggiungere, l’apnea teleinspiratoria fa si che l’aria si ridistribuisca dagli alveoli più pieni a quelli meno pieni e l’espirazione a labbra socchiuse fa si che il paziente si applichi spontaneamente una leggera pressione positiva espiratoria. • Forced Expiration Tecnique (Tecniche di espirazione forzata). Consiste in 1 o 2 Huff, ovvero espirazioni forzate ma non violente, eseguite contraendo la muscolatura addominale e mantenendo sia la bocca che la glottide aperta. Si parte da medi o bassi volumi polmonari, se si vogliono mobilizzare le secrezioni più distali, o da alti volumi, se si desidera avere un effetto a livello prossimale: l’huff è sempre combinato con una serie di Breathing Control. • E.L.T.G.O.L. (espirazione lenta totale a glottide aperta in decubito laterale). Il paziente giace in decubito laterale con la regione polmonare che si intende disostruire a contatto con il piano di appoggio ed esegue delle espirazioni lente, tenendo bocca e glottide aperte. Nel caso in cui il paziente non sia in grado di mantenere la glottide aperta, può essere utilizzato, come facilitazione, un boccaglio di cartone. Questo ha una duplice funzione:

garantire l’apertura della glottide ed amplificare i rumori respiratori. L’espirazione deve essere lenta per evitare l’aumento delle resistenze delle vie aeree, causato da una prematura chiusura delle stesse. Il fisioterapista può aiutare l’utente ponendosi dal lato dorsale di questo e, utilizzando la mano e l’avambraccio caudale, esercita, a partire dai quadranti addominali inferiori, una spinta diagonale sui visceri, mentre la mano craniale stabilizza l’emitorace sopralaterale. Questa manovra può essere eseguita per 10/15 minuti per lato. Il paziente può essere addestrato all’esecuzione in autonomia di questa tecnica. • ACBT (Active Cycle of Breathing Techniques). è composto da periodi di respiro controllato (BC), esercizi di espansione toracica (TEE) ed espirazioni forzate (FET). La procedura deve essere adattata al tipo di utente per numero di ripetizioni per singolo esercizio e una volta appresa, può essere utilizzata dall’utente anche in maniera autonoma. • Assistenza alla tosse. nei pazienti postoperati di bypass coronarico viene eseguita l’assistenza alla tosse, che consta di manovre messe in atto per produrre una tosse efficace in presenza di dolore dovuto all’atto chirurgico. L’assistenza alla tosse viene effettuata tramite il contenimento della parete toracica e della ferita chirurgica, manualmente e/o con fasce toraciche, accentuando la flessione delle anche, per aumentare la pressione intraaddominale, garantendo così una migliore efficacia nella fase espulsiva. Il paziente, una volta appresa la manovra, sarà addestrato alla sua autogestione. Questi esercizi e tecniche di fisioterapia respiratoria vengono completati con l’ausilio di presidi respiratori meccanici, il cui utilizzo sul paziente viene valutato da caso a caso: • Incentivatori di volume. Sono presidi che aiutano il paziente negli esercizi di espansione polmonare e facilitano così la risoluzione sia delle atelettasie da compressione che di quelle da ostruzione. Infatti l’allungamento dei tempi di permanenza dell’aria all’interno dei polmoni, consentito dall’effettuazione di respiri lunghi e a basso flusso, fa si che durante www.blisteronline.it

23


la fase espiratoria l’aria possa defluire lungo le vie collaterali degli alveoli ostruiti, trascinando verso le vie aeree più alte le secrezioni presenti. Inoltre, il sollevamento dello stantuffo in inspirazione a glottide aperta consente un abbassamento del diaframma molto lento e non a scatti (come si verifica con gli incentivatori di flusso). L’utilità di tali presidi consiste, dopo il corretto addestramento da parte del fisioterapista, nell’autosomministrazione, poiché hanno il vantaggio per l’utente di avere un buon feed-back visivo. • Incentivatori di flusso (Triflo). Gli incentivatori di flusso, a differenza dei volumetrici, non presentano uno stantuffo da alzare ma delle palline variamente colorate. L’utilizzo primario di tali presidi richiede una inspirazione rapida che non facilita la distribuzione dell’aria in quelle zone di parenchima che, a motivo di un’ostruzione o di un collassamento alveolare, richiedono un tempo maggiore per essere ventilate. Questo meccanismo non giova alle alterazioni del paziente post-chirurgico. Pertanto per tali pazienti gli incentivatori di flusso possono essere utilizzati con modalità simili a quelle dei volumetrici, per tempo ed intensità, nel periodo post-operatorio. Triflo: è composto da tre compartimenti contenenti ciascuno una pallina di colore diverso, a cui corrispondono tre livelli di flusso inspiratorio. Al paziente viene richiesta, un’inspirazione lenta, in modo da staccare la prima pallina, mantenerla sollevata, almeno fino alla metà del suo percorso (flusso di circa 300cc/secondi), per 3-5 secondi e quindi espirare lentamente. Inizialmente il paziente si troverà a dover lavorare con scarso feed-back positivo, in quanto vedrà che la pallina si alza di poco nella prima colonna, determinando così una scarsa incentivazione a proseguire il lavoro. Quindi il suo utilizzo appare più appropriato dopo i primi giorni postoperatori, quando i flussi cominciano ad essere superiori a 600cc/ secondi, con maggior soddisfazione e feedback positivo per il paziente. Di fondamentale importanza è l’approccio preoperatorio ai presidi di fisioterapia e all’addestramento del paziente al loro corretto utilizzo. Il fisioterapista effettuerà un trattamento preope-

24

ratorio, che ha prevalentemente uno scopo educazionale e informativo e che prevede l’approccio empatico col paziente, al quale viene spiegato il ruolo del fisioterapista e l’importanza del trattamento respiratorio nell’immediato post-operatorio, l’insegnamento delle tecniche respiratorie che verranno utilizzate e della tosse assistita, la spiegazione e l’addestramento al corretto utilizzo dei presidi respiratori. Il trattamento riabilitativo post-operatorio del paziente operato di bypass coronarico inizia già dalla Terapia Intensiva Postoperatoria. La permanenza del paziente in questo reparto è limitata all’immediato post-operatorio (1 o 2 giorni), se non vi sono complicanze tali da prevedere un ulteriore periodo di osservazione e monitoraggio. Per tale motivo il trattamento riabilitativo in questa breve fase prevede tecniche di riabilitazione respiratoria, l’utilizzo dei presidi respiratori, il controllo della postura a letto, la mobilizzazione degli arti superiori ed inferiori. Qualora il periodo di permanenza in Terapia Intensiva dovesse prolungarsi, il piano di trattamento verrà modificato ed ampliato in base alla graduale progressione delle performance del paziente (acquisizione della posizione seduta, stazione eretta, passaggio dal letto alla poltrona). Quando il paziente viene considerato stabile, l’anestesista provvede al suo trasferimento nel Reparto di Degenza Cardiochirurgica, dove viene proseguito il trattamento riabilitativo iniziato in Terapia Intensiva, aumentando gradualmente il carico di lavoro ed eseguendo il passaggio dalla posizione seduta a gambe fuori dal letto alla poltrona, poi alla deambulazione (con o senza ausili) ed eventualmente effettuazione delle scale, al raggiungimento del maggior grado di autonomia possibile ed all’addestramento all’autotrattamento dell’utente. Tale successione sarà ovviamente rapportata alle condizioni del paziente, ma sempre rivolta al precoce recupero della sua autonomia, in quanto un rapido recupero della stazione eretta e della deambulazione migliorano sia il quadro respiratorio che motorio ed accelerano il ritorno a casa ed il ripristino di una normale vita quotidiana


L’infermiere come educatore nella Riabilitazione Cardiologica

Dr. Roberto Memoli U.O.C. Cardiologia e riabilitazione Cardiologia P.O. San Gennaro Napoli rmemoli@blisteronline.it

Sono infermiere dal 1997, ho sempre lavorato in reparti di Cardiologia/Utic dapprima nel nord Italia e poi nella mia città natale. Dal 2001 lavoro all’ Asl Na 1 di Napoli nel reparto di degenza Cardiologica dell’Ospedale San Gennaro; nel 2010 il reparto in oggetto ha subito una trasformazione convertendo l’attività degenziale da cardiologica a cardiologica/riabilitativa; io, insieme ai i miei colleghi, ho inizialmente sottovalutato il cambiamento pensando che non ci fossero grandi diversità assistenziali poi, con il passare del tempo, ci siamo scontrati con questa nuova tipologia di ammalati e nuovi bisogni assistenziali diversi dalla semplice applicazione di terapie mediche mirate alla risoluzione della patologia in fase acuta. Abbiamo notato che dopo un periodo di degenza piuttosto lungo, (per quelle che erano le nostre abitudini lavorative ma normale per un ciclo riabilitativo completo) cioè di circa tre settimane, i pazienti stabilivano una dipendenza assistenziale terapeutica piuttosto marcata. Al fine di dare maggior conoscenza possibile ai pazienti riguardo il proprio nuovo stato di malattia “cronica” e consapevolezza riguardo all’importanza della corretta assunzione della terapia domiciliare, si è pensato di mettere in atto piani educativi individualizzati. I concetti di promozione della salute e di self-care fanno ormai parte della nostra vita; insito in essi è il concetto di educazione sanitaria, tra i tanti compiti svolti dall’infermiere in ambito riabilitativo assume particolare rilievo quello di contribuire all’educazione sanitaria dei pazienti. Quest’ultima è considerata una funzione indipendente e una responsabilità fondamentale della professione infermieristica. Il compito di istruire, come funzione infermieristica è contemplato da numerose norme: • Profilo Professionale legge 739/94 art. 1 comma 2 recita: “L’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria”. • Codice Deontologico del 2009 articolo 19 “l’ infermiere promuove stili di vita sani, la diffusione del valore della cultura della salute e della tutela ambientale, anche attraverso l’ informazione e l’educazione sulla donazione di sangue”.

• OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) “L’educazione terapeutica consiste nell’aiutare il paziente e la sua famiglia a comprendere la malattia ed il trattamento, a collaborare alle cure, a farsi carico del proprio stato di salute e conservare e migliorare la propria qualità di vita”. Per curare efficacemente un malato cronico, oggi non è più sufficiente limitarsi alla corretta interpretazione dei segni e sintomi clinici della sua malattia e/o alla prescrizione di farmaci o di altri rimedi. Un approccio terapeutico completo implica che tra curante e paziente si stabilisca una vera e propria alleanza terapeutica. Di fondamentale importanza è stabilire una comunicazione aperta e chiara, che oltre ad essere un tramite di informazioni cliniche, diviene anche un prezioso strumento di collaborazione tra curanti e malati. Collaborare significa spartire speranza, impegno, difficoltà, problemi, preoccupazioni, obiettivi e progetti. Dai risultati di uno studio effettuato in cinque ospedali del nord - est dell’ Inghilterra su di un campione di 202 pazienti ricoverati per IMA (Infarto Miocardico Acuto) non complicato, finalizzato alla valutazione dell’efficacia dell’informazione ed educazione sanitaria, è emerso che il 78% dei pazienti intervistati, sosteneva di aver ottenuto benefici dall’educazione sanitaria perché le informazioni erano state fornite dal personale infermieristico in modo individualizzato. Altri studi randomizzati-controllati condotti negli Stati Uniti, dove veniva valutata l’efficacia della presa in carico individuale del paziente cardiopatico da parte degli infermieri, hanno fatto emergere una netta riduzione dei fattori di rischio coronarico, un’aumentata aderenza alla terapia farmacologica e un netto miglioramento nello stile di vita adottato dai pazienti al momento della dimissione. I farmaci da assumere per la cura della patologia cardiovascolare sono in genere prescritti per lunghi periodi o in alcuni casi a vita; la loro efficacia dipende dal grado di adesione dei pazienti. Spesso l’equipe infermieristica è la prima ad essere consultata dai pazienti circa le terapie da assumere, ed è la prima ad essere informata riguardo eventuali effetti collaterali da essi provocati. È evidente che un’informazione inadeguata sugli scopi della terapia, sulle sue modalità di assunzione, sugli effetti collaterali da essa determinati porta frequentemente alla sospensione della terapia, con conseguenze immaginabili. www.blisteronline.it

25


HORTO DEI SEMPLICI

Dalla Cina e dall’Africa i rimedi naturali al dolore

Dr. Stefano Minichino Farmacista esperto in Fitoterapia sminichino@blisteronline.it

Il dolore rappresenta il mezzo con cui l’organismo segnala un danno tessutale. È suddiviso in due tipi principali in base alla sua manifestazione temporale, che può essere il dolore lento, compare entro un secondo o più dallo stimolo dolorifico e perdura a lungo oppure, il dolore rapido, compare entro un decimo di secondo dallo stimolo dolorifico e generalmente non viene percepito dai tessuti profondi. Il dolore può manifestarsi in vari modi, come, dolore somatico veicolato dalle fibre afferenti somatiche che trasportano le sensazioni dolorose dalla testa, dal tronco e dalle estremità. Rispondono a stimoli quali pressione, trazione, taglio, sfregamento, variazioni termiche, variazioni del ph, azioni enzimatiche. Dolore viscerale viene veicolato dalle fibre che decorrono nei nervi simpatici (di provenienza generalmente toracica) e parasimpatici (provenienti dalle restanti strutture). Gli impulsi nocivi vengono evocati da stimoli quali distensione brusca dei visceri, contrazioni, irritanti chimici, infiammazione. Dolore misto interessa sia strutture somatiche che viscerali: ad esempio l’estensione di un processo infiammatorio da un organo addominale al peritoneo parietale. A questi problemi i rimedi naturali possono essere il Polygonum multiflorum (Poligono cinese) o l’uso dell’Artiglio del Diavolo.

indicato sia come antifiammatorio sia come vero e proprio antidolorifico naturale. L’arpagoside è non solo un analgesico, ma anche uno spasmolitico.

Il Poligono cinese fa parte della famiglia delle poliganacee della quale si utilizza prevalentemente la radice per la produzione di infusi, tinture e capsule. Il Poligono cinese svolge un’azione ringiovanente sull’intero organismo. Esso agisce come ricostituente del sangue e dello sperma, rafforza muscoli, tendini, articolazioni ed ossa, tonifica reni, fegato e sistema nervoso ed è un ottimo rimedio contro la stitichezza poiché depura l’intestino. Questa pianta ha particolari proprietà rivitalizzanti del cuoio capelluto e ritarda l’imbiancamento dei capelli. In Cina viene usato nei casi di menopausa e invecchiamento precoce. Il Poligono cinese combatte le forme maligne e benigne di cancro.

L’Artiglio del Diavolo è originario dell’Africa del Sud, pianta erbacea dai fiori rosa-violetto, che contiene alcune sostanze di rilievo clinico come iridoidi, fitotusteroli, acidi triterpenici flavanoidi. L’Harpagophytum procumbens (nome latino) apporta sia il beta-sitosterolo che inibisce la prostaglandinosintesi, che partecipa alla genesi del processo infiammatorio, sia un 2% di iridoidi, che espletano un’azione inibitoria sulla sintesi prostaglandinica, interferendo anche sulla permeabilità agli ioni delle membrane cellulari. L’Harpagophytum procumbens agendo sul sistema prostaglandinico, espleta una diretta azione analgesica e spasmolitica, rendendo il CytoDol

26


WELFARE

La figura dell’amministratore di sostegno a tutela dei diritti e della dignità del malato

Avv. Fabiola Guarino fguarino@blisteronline.it

La legge n. 6 del 9 gennaio 2004 ha introdotto nel nostro ordinamento l’Istituto dell’ amministrazione di sostegno a tutela delle persone prive in tutto o in parte dell’autonomia di agire. La legge risponde alle esigenze delle persone offrendo un sostegno temporaneo o permanente nell’agire quotidiano. La personalizzazione degli interventi a misura delle esigenze dei singoli e delle famiglie rappresenta un modo nuovo di tutelare i soggetti deboli sostenendoli nelle loro incapacità senza privarli dei loro diritti. Molte, infatti, sono le persone con problemi di salute tali da impedire loro di provvedere a se stesse e alla cura dei propri beni anche solo temporaneamente o comunque con patologie solo fisiche tali da non impedire l’esercizio dei propri diritti personali. L’art. 3 della legge che disciplina l’amministrazione di sostegno definisce la persona in stato di bisogno come colei che, per effetto di una infermità o di una menomazione psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, o comunque di una persona priva in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. All’istituto si può accedere ogni qual volta la persona abbia un’infermità o una menomazione fisica o psichica tale da impedirle di provvedere autonomamente ai propri interessi, per cui a differenza dell’interdizione, prevista solo per abituale infermità di mente, la protezione giuridica viene estesa potenzialmente anche a coloro che hanno una menomazione fisica, inoltre l’impossibilità può essere anche solo temporanea, grande novità questa introdotta con l’Istituto in questione, circoscritta quindi ad un periodo particolare in cui la persona ha bisogno di essere affiancata per alcuni atti e può trattarsi anche di un’impossibilità parziale, ossia circoscritta anche ad un solo atto della vita quotidiana. In svariati casi l’Istituto dell’amministrazione di sostegno viene infatti oggi utilizzato a favore di persone che versano in condizioni di salute precarie per le quali appare necessario attribuire responsabilità di cura ai parenti, per esempio ad uno dei figli, in tali casi il beneficiario a norma della 409 c.c. conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. I soggetti legittimati a proporre il ricorso per ottenere la nomina di un amministratore di sostegno sono: lo stesso soggetto beneficiario anche se minore, interdetto o inabilitato, il pubblico ministero, i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente coinvolti nella cura e assistenza della persona, i parenti entro il quarto grado, ascendenti, zii, cugini, il coniuge dell’incapace, i conviventi stabili dell’incapace, i cognati, i generi, le nuore, il tutore o il curatore insieme alla richiesta di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione. Il ricorso viene presentato al giudice tutelare del luogo in cui la persona ha la residenza o il domicilio e deve contenere le generalità di chi fa il ricorso ed il suo rapporto con colui che ha bisogno dell’amministratore di sostegno, le generalità del soggetto beneficiario con indicazione della residenza, il nome ed il recapito dei parenti stretti, coniuge, figli, fratelli, genitori, le ragioni della richiesta, i bisogni della persona beneficiaria, le sue patologie con eventuale documentazione sanitaria, la situazione patrimoniale

della persona beneficiaria e il nominativo e il recapito del soggetto che si indica come amministratore di sostegno. La richiesta va depositata nella cancelleria del giudice tutelare e quest’ultimo fissa con decreto l’udienza in cui verrà esaminata la situazione del soggetto per il quale si chiede l’amministratore di sostegno. All’udienza dovranno essere presenti la persona interessata, il ricorrente e tutti coloro le cui informazioni siano ritenute rilevanti; visto che l’audizione della persona beneficiaria è obbligatoria il giudice è tenuto, ove necessario, ad effettuare l’esame della medesima anche presso la sua abitazione o la struttura sanitaria ove la stessa si trova se impossibilitata a comparire in tribunale. Il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza devono essere comunicati al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, alle persone indicate nel decreto dal pubblico ministero, ovviamente se il ricorso è proposto a mezzo di un avvocato sarà il legale a provvedere alla notifica. La normativa in ordine alla notifica nasce dall’esigenza di garantire la regolarità del contraddittorio in quanto ci troviamo di fronte ad un procedimento con il quale si discute in ordine alle limitazioni alla capacità di agire di una persona. All’udienza il giudice tutelare esamina la persona e tutta la documentazione medica prodotta in giudizio, e solo successivamente decide di disporre o meno l’amministrazione di sostegno nominando in tal caso o la persona indicata dallo stesso beneficiario, pensiamo ad esempio all’ipotesi di una persona colpita da una malattia progressiva che si è quindi premunita in epoca antecedente scegliendo già una persona, oppure un parente stretto. In tale prospettiva si inserisce la normativa che vieta che la funzione di amministratore di sostegno sia ricoperta dagli operatori dei servizi sociali che hanno in cura o carico il beneficiario al fine di evitare abusi da parte di costoro. La nomina dell’amministratore di sostegno avviene con decreto con il quale il giudice dispone la durata dell’istituto e gli atti che devono necessariamente essere compiuti con la tutela dell’amministratore di sostegno, inoltre per garantire la tutela dei terzi in buona fede che possano eventualmente entrare in rapporti economici con il beneficiario dell’amministrazione l’applicazione dell’istituto viene annotato a margine dell’atto di nascita dello stesso. Le ipotesi di cessazione dell’amministrazione di sostegno sono: che siano venuti meno i motivi per cui la persona era bisognosa di protezione giuridica, che l’amministrazione di sostegno si sia rivelata inidonea a garantire la giusta protezione alla persona. In questo caso, se il giudice lo ritiene necessario, si provvede a promuovere il giudizio di interdizione o di inabilitazione, per cui l’amministrazione di sostegno cessa automaticamente con la nomina del tutore o del curatore. Può anche verificarsi il caso contrario, ossia il passaggio dall’interdizione o dall’inabilitazione all’amministrazione di sostegno quando le condizioni fisiche e psichiche della persona da tutelare siano migliorate a tal punto da far ritenere che la stessa possa riacquistare una parte della propria autonomia in quanto il ricorso all’amministratore di sostegno, come innanzi detto, è certamente meno limitativo della capacità di agire del soggetto potendo il decreto di nomina stabilire con precisione gli atti che devono essere compiuti necessariamente con l’ausilio dell’amministratore di sostegno. www.blisteronline.it

27


MEDICO LEGALE

La Riabilitazione post-ictus cerebrale

Dr. Edgardo di Lullo Medico Legale ASL 1 Caserta edilullo@blisteronline.it

L’ictus cerebrale è la causa più frequente di disabilità in persone adulte. I suoi postumi, che possono essere più o meno invalidanti, talora raggiungono un grado di gravità tale da far perdere ai soggetti colpiti un bene prezioso: la propria autonomia. Il tipo di patologia si configura come un evento drammatico che richiede un’assistenza riabilitativa di elevata qualità, in grado di offrire – attraverso un’adeguata formazione specialistica - una governabilità clinica del paziente e una risposta concreta ai suoi bisogni. La riabilitazione dopo un ictus cerebrale deve iniziare già in ospedale. Tutto quanto si intraprende in questa sede mira ad una buona ripresa del paziente, che dopo l’evento acuto deve reinserirsi in famiglia e nella società e poter condurre una vita il più possibile attiva. È stato ampiamente dimostrato che l’assistenza erogata in aree di degenza dedicate ai pazienti con ictus (Stroke Unit) migliora la prognosi dei pazienti, in termini di sopravvivenza e disabilità, rispetto ai ricoveri gestiti in reparti di medicina, neurologia e geriatria e sprovvisti di modalità assistenziali “ad hoc” (Stroke Unit Trialists’ Collaboration. Organised inpatient - stroke unit - care for stroke. Cochrane Database Syst Rev. 2007). Recenti studi inoltre stanno valutando se i percorsi di cura post-ictus caratterizzati da una dimissione ospedaliera precoce e protetta (Early Supported Discharge - ESD), riescano a favorire un miglior recupero delle abilità funzionali e relazionali nel paziente. I sistemi ESD coinvolti nell’analisi possono essere ricondotti a tre modelli, in base al livello di responsabilità affidato al team multidisciplinare. Il più frequente è quello dove il team coordina l’intero percorso di cura: dalla dimissione protetta, all’assistenza post - dimissione, fino all’eventuale terapia riabilitativa domiciliare. Un secondo modello prevede che il team limiti il suo ruolo di coordinamento alla dimissione e alle

28

fasi immediatamente successive. Un terzo modello, meno strutturato, prevede un coordinamento della sola dimissione, demandando la successiva assistenza ai servizi territoriali non dedicati o alle organizzazioni di volontariato. Rispetto ai sistemi di cura convenzionali, l’ESD riduce il numero di giorni di degenza ospedaliera, favorisce il recupero e il mantenimento dell’autonomia nelle attività di base della vita quotidiana, riducendo così il ricorso all’inserimento in RSA. Contestualmente si segnalano impatti positivi sullo stato d’animo del paziente e sulla percezione del proprio stato di salute. Gli effetti più evidenti riguardano i pazienti colpiti da ictus di lieve o moderata gravità. La modalità organizzativa più efficace per assistere tali soggetti è quella caratterizzata da un team multidisciplinare che coordina tutto il percorso, dalla dimissione all’eventuale terapia riabilitativa domiciliare. Non vi sono invece differenze significative sugli indici di mortalità nel tempo, a conferma che la prognosi dei pazienti con ictus è determinata dal tipo di trattamento ricevuto durante le fasi precoci della “stroke care”.


LA MEDICINA NEL CINEMA

RIABILITAZIONE E DINTORNI

Dr. Carlo Billa cbilla@blisteronline.it

Carl Brashear fu il primo afroamericano che riuscì a diventare sommozzatore della Marina Militare degli Stati Uniti, per giunta dopo aver subito l’amputazione di una gamba, in barba alle alte sfere, ai pregiudizi e all’ostilità iniziale del suo istruttore. Carl Brashear negli Anni ‘50 fu una figura di primo piano della Marina americana: alla sua storia è dedicato “Men of honor”, il film diretto nel 2000 da Roger Tillman. jr. Nel ruolo del protagonista, Cuba Gooding jr. accanto a lui, Robert De Niro (Billy Sunday, l’istruttore razzista e alcolizzato) e Charlize Theron. Nel passaggio dalla realtà al cinema, purtroppo, la vicenda di Brashear si trasforma in un polpettone melenso e poco credibile, tanto che i veri protagonisti della storia si sono dissociati. Il neo arruolato si trasforma in breve da cuoco della Marina in aspirante sommozzatore, vessato da un Robert De Niro che gigioneggia al massimo nei panni del suo istruttore, prima suo nemico e poi suo grande sostenitore. Malgrado la mancanza di ritmo della pellicola, sufficientemente maltrattata dalla critica, ricordando che il film è ispirato alla realtà, ci si incuriosisce a seguire gli sforzi del palombaro invalido, impegnato allo stremo a raggiungere il suo obiettivo, con una grande forza di volontà. Una storia vera è alla base anche di “Il mio piede sinistro”, il film che nel 1989 il regista Jim Sheridan ha tratto dall’autobiografia di Christy Brown, cerebroleso, nato a Dublino nel 1932 e sopravvissuto al suo handicap, malgrado le previsioni pessimistiche dei medici. Christy, nono di tredici figli di una famiglia operaia irlandese, col passare degli anni riuscirà ad esprimersi, utilizzando il piede sinistro per scrivere e dipingere. La straordinaria interpretazione di Daniel Day Lewis gli fruttò l’Oscar, premio assegnato anche a Brenda Fricker, che nel film riveste il ruolo di sua madre. Bandito ogni patetismo, anche grazie all’umorismo e alla vitalità che Day Lewis inserisce fra le pieghe del suo personaggio, “Il mio piede sinistro” è una spanna al di sopra di tanti analoghi film-verità. Una donna alle prese con una grave malattia è la protagonista di “Dawn Anna”, film che nel 2005 il regista Arliss Howard ha girato per la tv, affidando il ruolo della protagonista alla moglie, Debra Winger, attrice sulla cresta dell’onda negli Anni ‘80. Al centro della storia c’è Dawn (Anna, infatti è il suo cognome, come viene ripetuto spesso durante tutto il film),

un’insegnante precaria, vedova e con quattro figli a carico. Quando ottiene un incarico stabile e pensa che il destino le sia finalmente favorevole, una malformazione di natura vascolare la obbliga a subire un delicato intervento. Con l’aiuto della famiglia, del nuovo compagno e dei colleghi di lavoro, dopo una lunga riabilitazione riuscirà a ritornare, quasi miracolosamente, alla vita quotidiana. Ma il finale non sarà in rosa perché la vita riserba a Dawn Anna altre amarezze. Un tv movie abbastanza superficiale, che per rimpolpare la storia e renderla ancora più lacrimevole tira in ballo anche la vicenda della strage nella “Columbine High School” di Denver. La guerra molto spesso ha trasformato l’esistenza di uomini e donne in un lungo calvario dal quale qualcuno con grande forza d’animo riesce a venir fuori. Il cinema ha dedicato molto spazio a questo tema, con toni spesso diversissimi. In “Nato il quattro luglio”, tratto dall’autobiografia di Ron Kovic (siamo ancora una volta di fronte ad una storia vera), Oliver Stone, nel 1989, racconta la vita di un soldato (Tom Cruise) che torna dal Vietnam paralizzato e impotente. Figlio della provincia americana fanatica e nazionalista, il giovane, con una profonda presa di coscienza, diventerà un leader pacifista e sarà invitato a parlare alla Convenzione democratica del 1976. Il film spinge sul pedale della retorica antimilitarista, alternando momenti commoventi ad altri pesantemente didascalici. In compenso Oliver Stone gira delle belle scene di guerra e Tom Cruise è bravo nel calarsi in un ruolo che cancella la sua immagine di sex symbol. Otto nomination e due Oscar, per la regia e il montaggio. Una curiosità: il vero Ron Kovic appare, in carrozzella, nella parata che apre il film. Cinque anni dopo, nel 1994, Robert Zemeckis, con “Forrest Gump”, presentandosi come l’anti - Oliver Stone, narra una storia che presenta alcune analogie con “Nato il quattro luglio”. Ma Zemeckis sceglie la via del sorriso: Forrest Gump (Tom Hanks) è un ex paraplegico con un bassissimo coefficiente di intelligenza. Sopravvissuto alla guerra del Vietnam, farà fortuna con la pesca dei gamberi, coinvolgendo nell’impresa l’ufficiale al quale ha eroicamente salvato la vita (Gary Sinise). Grazie agli effetti speciali realizzati con le nuove tecniche digitali, il regista fa scomparire le gambe di Sinise (che nella vicenda narrata sul grande schermo gli sono state amputate per le ferite riportate in guerra) e fa apparire Tom Hanks nei filmati dell’epoca, mentre dialoga con Kennedy, Nixon e Johnson. www.blisteronline.it

29


MEDICINA VETERINARIA

Attività e terapie assistite dagli animali

Dott.ssa Roberta Polisiero Medico Veterinario Specialista in Fisiopatologia della riproduzione animale rpolisiero@blisteronline.it

La pet - therapy è una pratica terapeutica che prevede l’impiego di animali come supporto per migliorare lo stato di salute di pazienti con problemi psicofisici. L’utilizzo di animali per tali scopi risale a molti anni fa. Il primo ad occuparsi scientificamente degli effetti benefici dell’impiego di animali in campo medico fu Boris Levinson, neuropsichiatra infantile americano nel 1953. Su quali persone si utilizza la pet-therapy? Nei bambini con particolari problemi, negli anziani, in alcune categorie di malati e di disabili fisici e psichici, il contatto con un animale può aiutare a soddisfare certi bisogni (affetto, sicurezza, relazioni interpersonali) e recuperare alcune abilità che queste persone possono avere perduto. È stato infatti rilevato da studi condotti negli scorsi decenni e oggi comprovati da sempre più numerose esperienze che il contatto con un animale, oltre a garantire la sostituzione di affetti mancanti o carenti, è particolarmente adatto a favorire i contatti inter - personali offrendo spunti di conversazione, di ilarità e di gioco. Può svolgere la funzione di ammortizzatore in particolari condizioni di stress e di conflittualità e può rappresentare un valido aiuto per pazienti con problemi di comportamento sociale e di comunicazione, specie se bambini o anziani, ma anche per chi soffre di alcune forme di disabilità e di ritardo mentale. Ipertesi e cardiopatici possono trarre vantaggio dalla vicinanza di un animale: è stato infatti dimostrato che accarezzare un animale, oltre ad aumentare la coscienza della propria corporalità, essenziale nello sviluppo della personalità, interviene anche nella riduzione della pressione arteriosa e contribuisce a regolare la frequenza cardiaca. Che si tratti di un coniglio, di un cane, di un gatto o di un altro animale scelto dai responsabili di programmi di pet therapy, la sua presenza solitamente risveglia l’interesse di chi ne viene a contatto, catalizza l’ attenzione, grazie all’instaurarsi di relazioni affettive e canali di comunicazione privilegiati con il paziente, stimola energie positive distogliendo o rendendo più accettabile il disagio. La pet - therapy propone co - terapie dolci da affiancare alle terapie mediche tradizionali e, attraverso un preciso protocollo terapeutico, è diretta a pazienti colpiti da disturbi dell’apprendimento, dell’attenzione, disturbi psicomotori, nevrosi ansiose e depressive, sindrome di Down, sindrome di West, autismo, demenze senili di vario genere e grado, patologie psicotiche, ma anche a quanti necessitano di ria-

30

bilitazione motoria come chi è affetto da sclerosi multipla o reduce da lunghi periodi di coma. L’intervento degli animali, scelti tra quelli con requisiti adatti a sostenere un compito così importante, è mirato a stimolare l’attenzione, a stabilire un contatto visivo e tattile, un’interazione sia dal punto di vista comunicativo che emozionale, a favorire il rilassamento e a controllare ansia ed eccitazione, ad esercitare la manualità anche per chi ha limitate capacità di movimento, a favorire la mobilitazione degli arti superiori, ad esempio accarezzando l’animale, o di quelli inferiori attraverso la deambulazione con conduzione dell’animale la cui presenza rende gli esercizi riabilitativi meno noiosi e più stimolanti.

Su quali è sconsigliato La pet - therapy non è consigliata: • nel caso di persone che non sono in grado di prendersi cura di altri esseri viventi, a causa delle loro condizioni psicofisiche; • quando la presenza di un animale induce la competizione all’interno di un gruppo; • quando gli utenti tendono a comportarsi in modo molto possessivo nei confronti dell’animale; • per persone con ferite aperte o con deficit del sistema immunitario; • per persone con disturbi psichiatrici, che li portano ad essere violenti; • nel caso di fobie specifiche nei confronti degli animali; • in caso di ipocondria; • in caso di allergie. Ad ogni modo, tuttavia, è necessario valutare la personalità sia dell’animale, sia del potenziale utente, e la patologia di quest’ultimo, in modo da favorire un adattamento reciproco.


Se vogliamo affrontare in modo concreto e realistico il problema della riabilitazione, dobbiamo considerarla all’interno della prospettiva epidemiologica e demografica e dell’emergenza economica. Ormai le patologie cronico - degenerative detengono un netto primato epidemiologico. Questo determina un cambiamento degli obiettivi e delle strategie della medicina moderna. Innanzitutto bisogna rassegnarsi a rinunciare alla guarigione e porsi l’obiettivo, più realistico di mantenere e incrementare la propria autonomia puntando sull’incremento delle capacità residue. Il concetto di salute non può, allo stato attuale dell’evidenza epidemiologica, corrispondere all’assenza di malattia e neanche al benessere complessivo nella sfera bio – psico - sociale, bensì alla possibilità e alla capacità di convivere con i propri limiti e con i propri deficit. Ridurre la sofferenza e il dolore attraverso un impiego appropriato di tutti i mezzi a disposizione. La parola d’ordine è deospedalizzare e cioè trasferire i percorsi cura, dall’ospedale al territorio, ma in realtà, mancando soluzioni intermedie fra l’ospedale e il domicilio, la casa del paziente diviene la camera di compensazione dell’insufficienza e inadeguatezza dell’ospedale e della politica delle dimissioni precoci. Il paziente va a casa troppo presto, spesso in condizioni di perdita di autonomia e non trova risposte adeguate e un intervento riabilitativo appropriato. Il problema ha già dimensioni drammatiche: si calcola che le persone non autosufficienti e/o a rischio di perdita sono circa tre milioni. Le persone, ultra 65enni, istituzionalizzate sono circa il 3,5%. Nel nostro paese sono attive un milione di badanti e questo in uno scenario di crisi e di perdita di posti di lavoro. Ora, se vogliamo parlare seriamente di cure e riabilitazione domiciliare dobbiamo affrontare il problema della casa degli anziani, e di chi assiste realmente l’anziano a domicilio. Spesso, per una serie di motivi, il domicilio non è idoneo per consentire un intervento riabilitativo appropriato. Questo non significa assolutamente istituzionalizzare tutti, anzi l’obiettivo è proprio quello di evitare l’istituzionalizzazione. Si devono creare le condizioni per mantenere le persone a casa loro. “L’obiettivo è quello di mettere assieme il massimo di tecnologiafondata sui progressi dell’informatica e della comunicazione, con modalità materne (“motherly”) di prendersi cura dei bisogni dellepersone più fragili. Per esprimere questa sintesi è stato recentemente coniato, da parte di uno studioso israeliano, il neologismo “motech” (da motherly e technology); è interessante notare che in lingua ebraica il termine “motek” significa “dolcezza”. Non potrebbe esservi sintesi più adatta al bisogno dell’anziano fragile di essere accudito - come si diceva una volta - con “high tech and high touch”. Non è banale osservare come una casa attenta alla specificità dei bisogni, possa diventare allea-

ta importante di una medicina che sente sempre più l’esigenza di una personalizzazione dei propri interventi.” Trabucchi 2012. In altri termini una “casa intelligente” e che di per sé ha un potenziale riabilitativo intrinseco. “Cit: M. E’ stato valutato che più del 75% degli anziani dispone di un’abitazione propria, mentre il 25% è sottoposto a varie forme di affitto. Per quanto riguarda quest’ultima condizione, non si può trascurare il livello di preoccupazione che spesso caratterizza la vita degli inquilini, sempre timorosi di non disporre del denaro sufficiente per l’affitto; in alcune città sono in atto politiche di protezione dagli sfratti, fondate su supporti economici o sul trasferimento in alloggi a basso costo, sia comunali sia di proprietà di associazioni benefiche. Dove però questi interventi non sono adeguati, gli anziani vivono in una condizione di inquietudine continua, che toglie serenità alla loro giornata; si deve tener conto, tra l’altro, che se una famiglia di vecchi non è riuscita nel corso della vita ad acquistare una casa, molto probabilmente le condizioni socioeconomiche erano compromesse da lungo tempo: di fatto hanno vissuto una vita difficile ed ora vivono una vecchiaia di preoccupazione.”

IL CENACOLO

CURE DOMICILIARI E RIABILITAZIONE

Dr. Michele Ciasullo Medico di famiglia Presidente Università Popolare dell’Irpinia mciasullo@blisteronline.it

MARCO TRABUCCHI - Università di Roma Tor Vergata e Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia. Forse sarebbe il caso, che i politici ascoltassero di più persone illuminate come Trabucchi, esponente del patrimonio culturale del nostro paese! L’emergenza economica è diventata l’alibi per l’inerzia e l’assenza di progetto e di programmazione su questo versante. Di fatto di queste problematiche non si sente parlare neanche in campagna elettorale, segno di disinteresse della classe politica, a tutti i livelli rispetto al problema. Per la frattura di femore, l’Italia e specie il Sud, è molto lontano dagli standard europei; in pratica si dovrebbe intervenire entro la prima ora e invece, spesso s’interviene dopo giorni (per mancanze organizzative e non certo per colpa dei medici!) e per questo ritardo le conseguenze sono disastrose. La terapia occupazionale, nelle sue varie versioni, è una cultura d’elite ed è praticata in poche isole felici. Pensate al caso dei pazienti con Alzheimer. Questi pazienti, in una fase precoce della loro malattia, hanno bisogno di un movimento afinalistico e intenso (Wandering) ove questo comportamento sia ostacolato, l’anziano diventa agitato ed aggressivo, e generalmente viene sedato farmacologicamente con le conseguenze dannose prevedibili. Alcuni anni fa ho invitato la Dottoressa Alessandra Chermaz, una persona straordinaria, che pratica l’ortoterapia a Trieste con grande professionalità ed eccellenti risultati. Mi ha confessato che Trieste è proprio il posto meno adatto per quel tipo di terapia per ovvi problemi climatici. “Questo è il posto giusto per fare un’ortoterapia di grande livello, avete tutto quello che serve!” Ho tentato di spiegarle che non è solo un problema logistico, è soprattutto un problema culturale e politico. www.blisteronline.it

31


CIBUS

La corretta alimentazione nei percorsi riabilitativi

Dr. Annalisa Nigro Biologo Nutrizionista Centro Medico Athena Ariano Irpino anigro@blisteronline.it

Nell’immediato post – operatorio la riabilitazione ricopre un ruolo di primo ordine nel recupero funzionale. L’atto chirurgico, generalmente, ripristina l’integrità delle strutture (attraverso la rimozione della patologia), ma la riabilitazione protende al ritorno di un livello funzionale di attività che era presente precedentemente. La riabilitazione inizia precocemente dopo l’ intervento e solitamente procede per obiettivi a complessità crescente, sempre subordinati al tempo biologico di guarigione dei tessuti interessati dall’atto chirurgico. In genere si inizia con una tecnica passiva e poi si passa a quella cosiddetta attiva: tutto ciò risulta fondamentale dopo interventi chirurgici a carattere ortopedico ma è anche determinante nel trattamento di patologie a carattere neuro – cognitivo come ad esempio nei postumi di ischemie o emorragie cerebrali. Le cause di danno cerebrale possono essere, come abbiamo detto, ischemiche od emorragiche. L’età incide sensibilmente sul rischio di subire un’ischemia cerebrale: per esempio oltre i 65 anni il rischio aumenta in maniera esponenziale. Tuttavia un corretto stile di vita, una corretta alimentazione e un costante esercizio fisico possono avere un effetto positivo sulla prevenzione. Un elemento da tenere sotto controllo è per esempio il colesterolo, soprattutto quello ‘‘cattivo’’ (LDL) che depositandosi sulle pareti interne delle arterie crea delle placche che riducendone il calibro fanno diminuire la portata sanguigna creando restringimenti critici o addirittura veri e propri “tappi” di colesterolo. Il tessuto a valle risulterebbe privo di apporto vascolare e quindi subirebbe la cosiddetta ischemia. Nella fase di riabilitazione è necessario incrementare l’apporto di vitamine appartenenti al gruppo B, in particolare l’ Acido Folico (vitamina B9). Anche l’aumento di frutta e verdura a ogni pasto, la scelta di carni magre e la riduzione dell’ assun-

32

zione di alimenti salati e dolci possono aiutare il paziente nella fase riabilitativa post - ischemica. Diverso l’approccio in caso di riabilitazione per postumi di frattura. Nelle donne in menopausa la causa principale delle fratture è data dall’osteoporosi che determina una sostanziale fragilità dell’apparato scheletrico e colpisce il 40% di tutte le donne in età ormai non fertile. Ma anche gli uomini non sono immuni da questa patologia: infatti il 15% dopo i 65 anni ne può essere colpito. Le principali cause di osteoporosi sono: la menopausa precoce, ridotto apporto di calcio nell’alimentazione, l’ipertiroidismo, l’abuso di alcuni farmaci (cortisonici-anticoagulanti) e la sedentarietà. Nelle persone anziane a maggior rischio frattura sono i polsi e gli arti inferiori, in particolare il collo del femore. L’immobilità che ne consegue può avere effetti deleteri anche sul piano cognitivo del paziente il quale può andare incontro a dissociazioni e distonie molto rilevanti per sé e per i familiari. La riabilitazione in questo caso può giovare a far riacquistare un equilibrio psico - fisico al paziente anziano, provato da questi danni. E anche in questo caso l’alimentazione gioca un ruolo fondamentale: aumentare l’assunzione di alimenti ricchi in calcio e vitamina D potrebbe essere un modo efficace per prevenire le osteopenie e i rischi conseguenti di frattura. Bisogna quindi incrementare l’assunzione di latte, yogurt e formaggi, cercando di avere cura nella scelta tra quelli più magri e senza dimenticare anche che alcune verdure possono dare un discreto apporto di calcio senza andare a gravare sul bilancio calorico complessivo. Attenzione però agli alimenti che ostacolano l’assorbimento del calcio (ossalati, fitati e sodio): basti pensare che con ogni grammo di sodio consumato si perdono 26 mg di calcio.


MEDICI NELLA STORIA

Andrew Taylor Still

Dr. Anna Gagliardi agagliardi@blisteronline.it

Nell’antichità le prime tracce si trovano nella medicina cinese (Manuale del Kong – Fu 2000 a. C.) in Egitto (1500 a. C.) e poi in Ippocrate e Galeno. Tissot allievo di J.J. Rousseau nel 1781 pubblica il libro “Ginnastica medica e chirurgica” ove riprende le manovre di Ippocrate. H. Ling, l’inventore della “Ginnastica Svedese” e maestro d’armi, ha per primo codificato alcune tecniche manipolative, che pare abbia desunto dal libro di Tissot e dalla traduzione del Kong Fu fatta alla fine del 700 da padre Amiot. I suoi allievi hanno poi diffuso le tecniche kinesiterapiche in Europa, in Australia e negli Stati Uniti. Il vero iniziatore della moderna terapia manipolativa è però un medico di Kirksville (USA), Andrew Taylor Still (1830 - 1917) che inventa e sperimenta un gran numero di tecniche manipolative della colonna. Still, attorno al 1874, si convince che la medicina del suo tempo non sia in grado di far fronte alla maggior parte delle malattie e sulla base dei successi da lui ottenuti, con le sue manipolazioni, elabora una dottrina medico-filosofica, che individua in una “lesione osteopatica” della colonna vertebrale la causa di una perdita delle difese o di immunità naturali da parte degli organi che vengono così attaccati dalla malattia. Andrew Taylor Still nacque il 6 agosto 1828, in una casetta di legno in Lee County, Virginia, terzo di nove figli, condusse la tipica vita di frontiera, con tanto duro lavoro e una scolarizzazione intermittente. Suo padre, predicatore metodista e medico, costrinse, per lavoro, la famiglia a spostarsi più volte tra il 1834 e il 1841, in Tennessee e Missouri. Andrew Still, ormai sposato con due figli piccoli, seguì i suoi genitori nel Kansas nel 1853 e, forse, fu in quel periodo che decise di diventare un medico. Era pratica comune in quegli anni, per un aspirante medico, che la formazione avvenisse sia con la teoria, studiando libri di medicina, sia con la pratica, seguendo il lavoro di un medico praticante, in questo caso, il padre. Forse continuò la formazione in una scuola di Kansas City, ma non ci sono notizie che consentono di stabilire dove e quando questa formazione ebbe luogo. Nel 1864 fu costretto ad affrontare differenti lutti familiari dovuti a un’epidemia da meningite.

La propria incapacità di salvare la sua famiglia lo portò a ripudiare la maggior parte di ciò che aveva imparato e cominciò a rivedere quanto aveva studiato iniziando la ricerca di metodi innovativi. Fin dall’inizio, fu fortemente osteggiato per le sue nuove teorie. La Chiesa locale denunciò la sua pretesa di guarigione con le mani, come sacrilega. I suoi fratelli erano imbarazzati dalla sua critica feroce ai metodi della tradizione medica, inoltre, criticavano la sua disponibilità a rischiare la sua vita per dedicarsi ai pazienti e trascurare la sua famiglia e la fattoria per dimostrare le sue “pazze” idee. Quando chiese di presentare le sue teorie e le sue ricerche alla Baker University, che la sua famiglia aveva contribuito a fondare nel 1850, i docenti gli rifiutarono il permesso. Decise allora di lasciare Kansas e tornare a Macon, Missouri, dove sperava che le sue idee sarebbero state accolte meglio. Non fu così, e dopo pochi mesi di tentativi, ancora una volta fu costretto a spostarsi e questa volta a Kirksville. Lì cominciò finalmente a trovare un’accoglienza diversa, sufficiente per aprire un ufficio nella piazza principale della cittadina. Si diffuse rapidamente la notizia che il medico fosse stato in grado di curare molti casi apparentemente senza speranza. In poco tempo aveva più pazienti di quanti potesse gestire, per cui fu costretto ad addestrare i suoi figli e pochi altri per aiutarlo nella sua pratica. La sua fama crebbe moltissimo e un gran numero di persone chiese di imparare i suoi metodi per cui nel 1892 fondò l’American School of Osteopathy (ASO) nella Kirksville. La scuola ebbe presto un enorme successo per cui, nell’agosto 1894, furono iniziati i lavori per una nuova infermeria, che fu aperta nel gennaio 1895 e in quello stesso anno furono erogati più di 30.000 trattamenti. Il numero di persone che desiderava giungere a Kirksvill era così ampio che la Ferrovia Wabasch ebbe necessità di portare a quattro il numero di treni passeggeri che ogni giorno raggiungevano la città. Andrew Still continuò a lavorare nell’ASO quasi fino alla sua morte, avvenuta il 12 dicembre 1917, all’età di 89 anni. www.blisteronline.it

33


OFFICINA GALENICA

L’ALOE VERA

Dr. Elisa Capoluongo Farmacista. Esperta in tecniche e preparazioni galeniche ecapoluongo@blisteronline.it

Cristoforo Colombo, durante uno dei suoi viaggi, annotò in un diario di bordo: «quattro sono i vegetali indispensabili per il benessere dell’uomo: grano, uva, oliva ed aloe. Il primo lo nutre, il secondo solleva il suo spirito, il terzo gli porta armonia, il quarto lo cura».

34

I migliori rimedi per la cura di sé arrivano spesso direttamente dalla natura, si è sentito molto parlare dell’aloe vera poiché è presente in molti cosmetici, creme e farmaci, ma pochi sanno che è una pianta molto comune e facilmente coltivabile. Negli ambienti domestici è caratterizzata da foglie carnose con margine seghettato, richiede molta luce, temperature non rigide e terreni ricchi di potassio.

Se volete aggiungere un conservante, pesate il liquido e mettete il cosgard in proporzione al peso. Dopo aver aggiunto il conservante, potete rendere il composto un po’ più denso con una punta di gomma xantana e una punta di glicerina, mescolate prima la glicerina e la gomma xantana e poi incorporate l’aloe. Avrete un bel gel che potrete conservare in un contenitore ermetico rigorosamente al buio.

È notevole il fatto che usi antichi di questa pianta siano gli stessi di oggi: tutti gli studi e le ricerche moderne non hanno fatto altro che confermare la validità di quello che più di mille anni fa già si metteva in pratica. Sotto il nome Aloe sono elencate numerose specie di questo genere di piante (circa 250) che appartengono alla famiglia delle Liliaceae perché legate, come lo sono i gigli, le cipolle, l’aglio e gli asparagi, ad un originario bulbo. Molteplici sono gli usi e le formulazioni, ma ci soffermiamo sulle proprietà riepitelizzanti, antinfiammatorie e rinfrescanti dell’aloe in gel, che assicurano una sensazione di sollievo immediato, è caratterizzato da eteropolisaccaridi, quindi carboidrati, acidi organici, vitamine e acqua. Per uso esterno gode di proprietà cicatrizzanti; è utilizzato nella terapia di ferite torpide, piaghe da decubito, ma soprattutto ustioni e lesioni cutanee o irritazioni in genere. Per estrarre il gel di Aloe dalla pianta è necessario tagliare una foglia abbastanza grande alla base, lavare e asciugare con cura e, con l’aiuto di un coltello affilato, togliere tutta la parte esterna e prendere solo l’interno gelatinoso trasparente-biancastro. Tritare la polpa con un frullatore fino ad ottenere un composto abbastanza liquido da utilizzare al momento o per un massimo di 5/7 gg.

Dosi: x 100 gr. di gel di aloe 1 gr. gomma xantana, che altro non è che un estratto vegetale gelificante (chimicamente un polissaccaride ottenuto dalla fermentazione di uno zucchero). 3 gr. Glicerina, o glicerolo in virtù delle sue capacità idratanti, lubrificanti ed emollienti nei confronti della cute, la glicerina viene utilizzata in numerose formulazioni ad uso dermo - cosmetico. 0,6 gr. Cosgard, o Benzyl alcool DHA, è un conservante. *Questi prodotti potete facilmente trovarli in farmacia, in erboristeria oppure nei grandi supermercati, negli appositi reparti. Per maggiori informazioni contattatemi all’indirizzo e-mail: ecapoluongo@blisteronline.it


CASE DI CURA RIUNITE VILLA SERENA E NUOVA SAN FRANCESCO PRESIDIO VILLA SERENA viale Europa, 12 - 71122 Foggia tel. 0881.309911 - fax 0881.309957

PRESIDIO NUOVA SAN FRANCESCO Viale degli Aviatori, 128 - 71122 Foggia tel. 0881.659211 - fax 0881.659206 CENTRO MEDICO DIAGNOSTICO TELESFORO via G. Rosati, 137 - 71121 Foggia tel. 0881.687231 0881.687964 - 0881.635042

www.gruppotelesforo.it www.blisteronline.it

35



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.