Alias de il manifesto 21 gennaio 2012

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MUSICA » ARTI » OZIO

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

LA RIVOLUZIONE IN EDICOLA 2 MENSILI INIMITABILI satira, politica, arte, fumetti, reportage, avventure, idee

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CINEMA

Ritorno al futuro. Scorsese in «Hugo» festeggia Méliès, pioniere perduto

SABATO 21 GENNAIO 2012 ANNO 15 N. 3

di MARIUCCIA CIOTTA

●●●Macchina desiderante, il cinema come un corpo nuovo che dà la vertigine, doppio soprannaturale, «seconda nascita dell'umanità» come disse Jack London che insieme ai suoi contemporanei, divi della parola scritta, vide sorgere sullo schermo le prime immagini in movimento. Ed è sempre la «prima volta» dalla fine dell'Ottocento in poi, dal film di un solo rullo alla nascita del lungometraggio, cento anni fa, quando la testa gigantesca di Mary Pickford seminò il panico in una sala di Hollywood e una spettatrice disgustata affermò di aver visto «le persone fatte a pezzi», mani, piedi, volto, «niente era al suo posto». Un Automa assemblato per penetrare nell'inconscio ed estrarre materia volatile, creatura ibrida nata dalla

fusione tra l'essere vivente e la sua ombra, già cyborg prima di Metropolis. Ed è al cinema che Martin Scorsese ha dedicato il suo ultimo film meraviglioso Hugo Cabret (in Italia dal 3 febbraio), Golden Globe per la migliore regia, festa in onore di Georges Méliès, il pioniere dimenticato (le sue pellicole al nitrato d'argento saranno liquefatte per costruire tacchi di scarpe) e tornato protagonista con il suo Viaggio sulla luna in un final cut ideale. Maestro di ogni trucco mirabolante, il regista francese aveva colorato la pellicola fotogramma per fotogramma, catapultato un razzo nell'occhio del satellite, provocato apparizioni e scomparse fino all'ultimo effetto speciale possibile in quel 1902. Ora Scorsese lo ha «restaurato», in linea con la sua World Cinema Foundation, regalandogli la magia

suprema. Méliès in 3D. Con il suo robot-cinema, bambola meccanica che apre la scatola del mai visto, Hugo Cabret è un film per bambini, per tutti gli spettatori della «prima volta» che urleranno sorpresi come all'arrivo del treno nella stazione di La Ciotat, anno 1896. E se il cinema traccia la nostra storia, l'opera di Scorsese indica il fascio di pulviscolo che ci accompagna e intima al presente di ricordare, di inventare nuovi desideri, mentre all'opposto, superpremiato (dai Golden Globe diritto all'Oscar) un altro titolo pretende il tributo all'epoca del muto, parodia in bianco e nero, collezione di gag tanto per rimescolare «vecchi film» dagli anni Dieci ai Quaranta. The Artist, specchio deformante non solo di ieri, Hugo Cabret, prisma luminoso per ritrovare la capacità di vedere.


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ALIAS 21 GENNAIO 2012

ANNIVERSARI

CONSERVATRICE E DEMOCRATICA

RIGORE MATEMATICO La Settimana cataloga, attraverso numeri progressivi, tutti i suoi quesiti e tutte le sue voci. La cifra che compare sulle parole crociate della prima pagina, in alto a sinistra, indica il numero complessivo dei giochi pubblicati. Fino al 1995, la numerazione continuava nelle pagine interne. A partire dal 1995, i giochi interni vengono contrassegnati da un numero composto come segue: le prime due cifre corrispondono alle ultime due del numero della rivista, le altre dal numero d’ordine che quel gioco ha nella rivista, con uno zero riempitivo per i primi nove.

80 ANNI

Buon compleanno, vecchia signora Il 23 gennaio 1932 nasceva «La Settimana enigmistica», inventata a Milano da Giorgio Sisini di Sorso, già Conte di Sant’Andrea...

I SEGRETI DELLA SETTIMANA UN GIOCO DI ENNIO PERES

di LUCIANO DEL SETTE

●●●Ottant’anni fa, 23 gennaio 1932, primo decennio dell’Italia fascista. Lo stipendio di un operaio ammonta a 300 lire, quello di un impiegato tra le 300 e le 600, un dirigente riscuote l’ambito salario di lire mille, che Gilberto Mazzi, nel 1939, metterà in musica con Se potessi avere mille lire al mese, sogno economico piccolo borghese. Il conto della spesa è di una lira e 73 centesimi per il pane, 80 centesimi per il latte, un paio di lire per un chilo di pasta. Un pollo, autentico lusso, costa dieci lire. Piccoli vizi come il caffè al tavolino di un bar si pagano 2 lire e cinquanta; un posto al cinema, una lira in meno. Le trasgressioni amorose comportano multe severe comminate dal moralismo di regime: 10 lire se baci in pubblico la fidanzata e persino la moglie. Così va la vita anche quel 23 gennaio 1932, ottant’anni fa, quando, chi abitualmente fa sosta all’edicola per acquistare un quotidiano, si sente apostrofare dal giornalaio, «Guardi cosa è uscito!», oppure nota, tra le altre messe in fila sulle rastrelliere, una nuova rivista che ha in copertina un cruciverba con il ritratto di Lupe Vélez, star messicana di Hollywood. Sedici pagine, cinquanta centesimi, giorno di uscita il sabato, si chiama La settimana enigmistica, sottotitolo «periodico di giochi, enigmi, parole crociate, scacchi, dama, bridge, sciarade, ecc.». L’ha inventata, a Milano, nella redazione di piazza Cinque Giornate, il nobiluomo Giorgio Sisini di Sorso, già Conte di Sant’Andrea, che la dirigerà fino alla sua morte, il 21 giugno 1972. Gli succederanno alla direzione Raoul de Giusti, e poi un discendente della famiglia, Francesco Baggi Sisini. Il successo è immediato, la Settimana diventa appuntamento fisso per decine di migliaia di enigmisti in erba o navigati. Ogni tentativo di scimmiottarla si rivelerà vano, e sulla prima pagina, in alto, anni dopo, compariranno a turno due orgogliose dichiarazioni: «La rivista che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione», «La rivista di enigmistica prima per fondazione e per diffusione». Le pagine aumenteranno, fino a divenire le quarantotto che ancora oggi continuano a scandire la sequenza

PREPARAZIONE Procuratevi alcuni fascicoli de La Settimana Enigmistica, accertandovi che possiedano copertine di diversa impostazione. MODALITÀ DI ESECUZIONE 1. Invitate uno spettatore a scegliere uno di questi fascicoli, senza farvelo vedere. 2. Fatevi comunicare il numero di edizione di tale fascicolo. 3. Entro pochissimi secondi, sarete in grado di individuare quattro elementi fondamentali della relativa copertina: - il colore; - la posizione della foto inserita nel cruciverba; - il sesso del personaggio raffigurato in tale foto; - la dicitura posta sopra la testata.

di parole crociate, giochi enigmistici variamente complicati (alcuni a premi), quesiti basati sulla logica matematica, rebus, quiz polizieschi (Proteus, Il signor Brando in Suspense!) e legali (Se voi foste il giudice), le domande di cultura dell’edipeo enciclopedico, aneddoti e barzellette, rubriche per i piccoli lettori. Ligia fin dalla nascita alla regola di non accettare alcuna pubblicità, la Settimana si limita tuttora a riprodurre le immagini dei premi in palio per giochi quali «Il quesito con la Susi» e «Il corvo parlante». Bisognerà aspettare il 1995 perché il colore faccia la sua comparsa, interrompendo l’egemonia del bianco e nero, comunque con misura. Cambia, poi, anche il giorno di uscita. Dal sabato si passa al venerdì, e infine al giovedì. Gli

inevitabili compromessi richiesti dai Tempi Moderni impongono un sito internet. Ed ecco, allora, Aenigmatica. Il Sudoku impazza. Va bene, ma a patto di essere i migliori con Mondo Sudoku. Arrivano anche gli spot radiofonici e televisivi. Il 31 luglio 2010, numero 4088, si infrange un mito, quello dell’infallibilità. Ai redattori, più maniaci che puntigliosi nel leggere e rileggere le pagine, scappa un refuso, il primo da settantotto anni. Nella barzelletta dell’ultima pagina, la didascalia recita «possono testimoniano», anziché «possono testimoniare». Inutile dire che la svista fa il giro di tutti i blog, finisce nei notiziari tv, trova ampia eco sui giornali. E questo non fa altro che confermare la celebrità della Settimana, un gigante in termini di vendite, tra le ottocentomila e il milione di copie

ogni numero, cui soltanto Famiglia Cristiana tiene testa. Ma per il periodico fondato dal Cavalier (e altri titoli a seguire) Giorgio, le parrocchie sono le edicole: nelle città, nei paesi, nell’unica rivendita di giornali di un borgo, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti. Il giovedì, la pila della Settimana è in bella vista, a farsi beffe persino dei giornali di pettegolezzi più diffusi. E se arrivi il pomeriggio, dovrai aspettare il giorno dopo per farla tua. Conservatrice, e involontariamente democratica, la Settimana. Basta mettersi su un treno per averne prova. Durante un giro lungo i vagoni, la si vede sul tavolino che sta di fronte a un’anziana signora armata di matita e gomma per cancellare, a un giovane con l’ipod nelle orecchie, a un uomo di affari che provvisoriamente si astiene dagli

ACCORGIMENTI DA SEGUIRE ●●●Per individuare il colore della copertina, dovete dividere per 3 il numero di edizione (o, più rapidamente, la somma delle sue cifre) e, in base al resto ottenuto, tener conto delle seguenti associazioni: 0=rosso; 1=blu; 2=verde. — Ad esempio, se il numero di edizione è: 4033, potete desumere che il colore della copertina è blu, dato che: 4+0+3+3 = 10 e: 10/3 = 3 col resto di 1. ●●●Per individuare la posizione della foto, dovete dividere il numero di edizione per 4 (o, più rapidamente, le sue ultime due cifre) e, in base al resto ottenuto, tener conto delle seguenti associazioni: 0=in alto a sinistra; 1=in alto a destra; 2=in basso a destra; 3=in basso a sinistra. — Ad esempio, se il numero di edizione è ancora: 4033, potete desumere che la foto è posizionata in alto a destra, dato che le ultime due cifre di 4033 sono: 33 e che 33/4 = 8 col resto di 1. ●●●Per individuare il sesso del personaggio raffigurato in copertina, dovete osservare il numero di edizione: se è pari, si tratta di un uomo; se è dispari, di una donna. — Ad esempio, se il numero di edizione è ancora: 4033, potete desumere che il personaggio raffigurato nella foto è una donna, dato che il numero in questione è dispari. ●●●Anche per individuare la dicitura posta sopra la testata, dovete osservare il numero di edizione: se è pari, si tratta di: «La rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione»; se è dispari, si tratta di: «La rivista di enigmistica prima per fondazione e diffusione». — Ad esempio, se il numero di edizione è ancora: 4033, potete desumere che la dicitura posta sopra la testata è: «La rivista di enigmistica prima per fondazione e diffusione», dato che il numero in questione è dispari. Come si può notare, osservando la riproduzione della copertina del fascicolo numero 4033 (foto sopra, il colore è il blu), i particolari precedentemente individuati sono assolutamente esatti. (La spegazione del trucco sarà pubblicata su Alias del 28 gennaio)

impegni di lavoro, a un capotreno che ci si tuffa dentro fra una stazione e l’altra. Buon compleanno, vecchia signora nata con una faccia un po’ triste, che ci hai fatto combattere con le diaboliche definizioni delle parole crociate a schema libero di Piero Bartezzaghi e Giancarlo Brighenti, che ci fai dannare per colpire il centro enigmistico del Bersaglio, che ci sorprendi a balbettare a mezza voce la soluzione di un rebus, che ci spremi gli occhi

con «Aguzzate la vista», che hai fatto della Susi con il suo quesito una Dorian Gray in pantaloni neri e maglietta a righe, che non sei mai riuscita a farci ridere davvero con le tue barzellette, che ci mandi in paesi mediamente orribili con «Una gita a…», che ci hai interrogato ben prima di Lascia o Raddoppia con domande astruse da vecchio professore di liceo. Buon compleanno, vecchia signora. E continua così.


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NOVE SETTIMANE, QUASI E MEZZO

ELEMENTARE, WATSON

Una sola volta, il periodico fondato da Giorgio Sisini ha dovuto interrompere la sua cadenza settimanale. L’increscioso fatto avvenne con il numero 694, del 14 luglio 1945, che uscì due mesi e mezzo in ritardo. Chi, infatti, avrebbe trovato il tempo per fare le parole crociate in un’Italia appena liberata dal nazifascismo, e in un’Europa che soltanto il 9 maggio aveva decretato la fine del secondo conflitto mondiale. Data al 15 luglio, la dichiarazione italiana di guerra al Giappone, con un atto del Consiglio dei Ministri presieduto da Ferruccio Parri. L’ambasciatore giapponese lo rifiutò, poiché era puramente formale e di dubbia validità secondo i termini dell’Armistizio con gli Alleati.

La proposta di quesiti a sfondo poliziesco è da sempre una caratteristica della Settimana nelle pagine che esulano dall’enigmistica pura. Molti sono stati e sono gli investigatori, ispettori, commissari, che si sono ritrovati, nel corso del tempo, alle prese con casi di vario genere: Rufus, Leo, Raf, Martin, Volponi, Pilade, il Commodoro, l’ispettore Bracco e oggi l’ispettrice Bananas (nella foto). Particolarmente difficili da svelare i misteri proposti in Suspense! dal Poliedrico signor Brando. Partendo da un avvenimento a tinte gialle, occorre scoprirne la soluzione grazie agli indizi elencati alla voce «Sappiate che». C’è di che lambiccarsi il cervello. Totalmente incapace di risolvere anche i casi più palesi, era invece l’ispettore Malcivede. Ne ha preso il posto, con altrettanta goffaggine, l’agente Zero.

INTERVISTA ■ NELLA REDAZIONE DELLA RIVISTA

GERENZA

«La Settimana è fatta così: non vuole occhi indiscreti» Questo articolo è già uscito sul manifesto il 22 ottobre 1989. Lo riproponiamo per ricordare Piero Bartezzaghi e il suo cruciverba a schema libero di L.D.S.

Qui in alto due opere di Michele Perfetti, collezione Carlo Palli, Prato. In basso a destra ritratto di Piero Bartezzaghi

ARTE

Tra i rebus surrealisti di Magritte e in tutte le piazze di De Chirico

di ARIANNA DI GENOVA

●●●Alighiero Boetti si era divertito a sdoppiare se stesso inventando un gemello solo nominale e applicava la medesima pratica nel suo fare arte: «mettere ordine in certi disordini», diceva elargendo rebus, enigmi e giochi di parole, compresi i cruciverba in stoffa, quei «mosaici» quadrati che divenivano quasi delle pagine di diario, una volta decifrate correttamente. In realtà, il suo era un divertissement: lungi, infatti, da lui l'idea che l'ars combinatoria cui faceva ricorso con maestria potesse mettere fine al caos creativo. Il mondo era e rimaneva per Boetti un fluido specchio di geografie e identità varie, un contenitore di germinazioni semiotiche e iconografiche. Gli indovinelli figurati poi vantano una lunga storia popular che va dalle «ventarole» morali seicentesche ai motti dei volantini politici dell'’Ottocento, una storia che taglia il traguardo del Novecento, accendendosi di umori d'avanguardia con i futuristi

fratelli Cangiullo ma attraversando anche i mitici Sixties, con artisti quali Mambor e Tano Festa che non disdegnarono di prelevare direttamente dalla Settimana Enigmistica alcune vignette disegnate per poi riprodurle in serie. Enigmi in senso lato sono tutte le piazze dechirichiane e altrettanto misteriose strade seguono gli «slogan» surrealisti dei quadri di René Magritte. A volte, i suoi quadri sono dei veri e propri rebus visivi che necessitano – per essere interpretati correttamente – di una conoscenza approfondita della biografia dell'autore. Un gioco sopraffino dell'intelletto che richiede la complicità dell'osservatore (come avviene nei giochi enigmistici, dove la liaison è strettissima fra chi promuove e chi risolve) è rappresentato dal dipinto Les amants (1928). Qui, la persona che guarda inquieta quell'opera così cupa deve sapere che la madre di Magritte venne trovata annegata, nel fiume Sambre, con la testa avvolta da una camicia da notte bianca. Solo così risolverà l'enigma proposto, rimanendo in bilico fra inconscio e consapevolezza. Allargando ancora un po' la lente per inquadrare i rapporti fra arte e rebus ci si può spingere fino al lettering dei graffitisti spruzzato sui muri, le saracinesche e i vagoni delle metropolitane. Non sono un invito alla lettura senza confini tipografici né griglie grafiche da rispettare? E richiedono la concentrazione del passante, sono parole-attrazione, esattamente come i ludici sentieri e labirinti di significati inseriti negli albi dei giochi enigmistici.

●●●Finalmente il «sì». Dall'altra parte del filo telefonico, 130 chilometri fra Torino e Milano, la voce di Piero Bartezzaghi usa toni pacati e gentili per dirmi che potrò varcare la soglia della Settimana Enigmistica. Ci sono volute molte telefonate e un po’ di insistenza per arrivare al traguardo. Ma, forse, ciò che più ha contato è quel nome, Il manifesto, che aveva subito suscitato curiosità in Bartezzaghi. «Come mai il nostro giornale vi interessa?». E io a spiegargli di un popolo italiano fatto di viaggiatori ferroviari, sedentari in poltrona, mamme in attesa, insospettabili professionisti: tutti ostinatamente fedeli al rito del venerdì, giorno di uscita della Settimana*. «Va bene, l'aspetto», acconsente Bartezzaghi, affrettandosi ad aggiungere che tante difficoltà da superare non vanno addebitate a una sua personale forma di snobismo, a un atteggiamento divistico. Rientrano nel costume «storico» della Settimana: signora schiva, sdegnosa di ogni forma di pubblicità a cominciare da quella tabellare. Sono passati due anni dai colloqui, alla redazione. L’idea era nata per una pagina del Domenicale, confesso che ho difficoltà a ricordare perché non si concretizzò. Ma poi, eccola riaffacciarsi poche settimane fa: la Settimana compie tremila numeri. Ma a imporsi è la notizia che Piero Bartezzaghi, a qualche giorno di distanza da quel traguardo, era arrivato al suo traguardo finale. I piccoli enigmisti si sono trovati privi di un amico-nemico che nelle sue «Parole crociate a schema libero» induceva a tirar tardi cercando di risolvere le definizioni dotte, oppure nascoste nel sorriso di un calambour sottinteso da tre puntini. Palazzo Vittoria: ascensori, un portiere compito, dietro una porta d’ingresso la reception e una signorina che, prescindendo dall’età anagrafica, è in perfetta sintonia con lo spirito del «Periodico fondato e diretto per 41 anni dal Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini Conte di Sant'Andrea» (cosi si scrive a pagina 48 e ultima). Il busto del suddetto Sisini, scultoreo nella sua pietra e nell’ufficialità dei suoi titoli, vigila sull’attesa in sala-ospiti. Bartezzaghi arriva (da dove?), agile

come i suoi cruciverba, nascosto come i tanti pseudonimi che usa per esercitare la sua scienza in ogni pagina. Si sottrae all’intervista e presenta quello che sarà l’interlocutore: Alessandro, giovane biondo chiomato, al terzo posto per difficoltà di schemi liberi crociati. «Ma con Lei non posso parlare?», chiedo un po’deluso. Piero sorride e conferma di nuovo, davvero, la sua estraneità al ruolo di divo: «Alessandro fa parte delle nuove leve, eppure ci conosce bene. Saprà spiegarle la Settimana assai meglio di me che ci vivo da sempre». Scompare, lasciando il ricordo di un signore in giacca e cravatta fuor di appariscenza. Alessandro, il nome negli schemi liberi è fra parentesi e non si sa se corrisponda a quello vero, ha voglia di parlare. Domando: sempre la stessa e sempre diversa? Risponde: «È difficile da credere, ma ogni volta che abbiamo apportato cambiamenti a qualche sezione della Settimana ci sono arrivate le proteste dei lettori. C’è un rapporto di affezione che impedisce, e parlo di giovani e di anziani, modifiche o ripensamenti in forma esteriore e di contenuti. Prenda i rebus. Lei diceva che i disegni sono tristi, ha ragione, ma l’enigmista è abituato ad arrivare alla soluzione attraverso codici grafici precisi. Se glieli toglie lo disorienta, lo offende in qualche modo. E lo stesso vale per i quesiti polizieschi illustrati, ‘Se non lo trovate... ve lo diciamo noi’, ‘Il bersaglio", il ‘Quesito con la Susy’. Le nostre piccole novità contano ormai molti anni: ‘Una gita a ...’, ‘Strano ma vero’, ‘Perché’, che premia secondo indici

modestamente rivalutati (15mila lire, ndr) chi suggerisce una domanda insolita, ‘Forse che sì, forse che no’, ‘Parole crociate a righe concatenate’, ‘L’aneddoto cifrato’...». Alessandro, un’occhiata dietro quelle porte chiuse, per conoscere gli inventori di tutto questo e altro ancora? Un sorriso dice tutto sull’impossibilità di veder realizzato il desiderio. Ma chi e cosa si nasconde di tanto misterioso? Altro sorriso e poi la risposta: «Nessuno e niente di speciale. La Settimana è fatta cosi: non vuole occhi indiscreti». Perché? Altro sorriso, altro mistero che si aggiunge a quelli proposti ogni sette giorni: diaboliche ‘Parole senza schema’, ‘Rebus stereoscopici’, ‘Quesiti per i piccoli’, cioè infanti dotati di un Io oggettivamente superiore. Bartezzaghi com'è, come lavora, è immerso in un mare di enciclopedie? Alessandro muta il sorriso in un'espressione di rispetto. «È lui la sua enciclopedia. Distribuisce consonanti e vocali nello schema, poi le trasforma nelle definizioni usando cultura e fantasia. È un maestro, un grande maestro». Mi piacerebbe sapere qualcosa a proposito delle barzellette: ‘Risate a denti stretti’, ‘Spigolature’, ‘Antologia del Buonumore’, ‘Le vicende di Carlo e Alice’, versione italica dell'americano Andy Capp, la doppia pagina ‘Per rinfrancar lo spirito tra un enigma e l’altro’ con ‘Le ultime parole famose’. Anche in questo caso, il tempo sembra essersi fermato: litigi coniugali, ritrattini lifestyle in odore made in Usa, suocere, pugili, uffici reclami ai Grandi Magazzini, il Tenero Giacomo che vi rimanda all'ultima pagina. Tutte vignette che solo di rado strappano alle labbra un aperto sorriso. Alessandro, magari sul filo di un equilibrismo tra la sua giovane età e quella agiata della Signora che rappresenta, parla di nuovo di una filosofia votata alla tradizione: niente satira politica, solo qualche accenno (per carità, benevolo e sporadico!) ai frikkettoni (quanto tempo e passato!), all’inflazione vista in senso piccolo borghese. Vorrei azzardare con lui l’ipotesi di un acquirente conservatore. La contraddice l’immagine di quel pubblico così eterogeneo. Lui, Alessandro, sembra intuire. «Prenda il concorso ‘Questo l'ho fatto io’ (disegni su uno spunto grafico esilissimo, ndr). Ci arrivano vignette da gente di tutte le età e su ogni tema possibile: riferimenti alla Settimana, fantasie di un’ingenuità disarmante, barzellette, rebus. C'è l'Italia, di ogni regione e di ogni classe». Settimana Enigmistica come El Dorado. Stasera, due anni dopo, cercherò di risolvere uno degli ultimi rompicapi lasciati in eredità da Piero. Mancheranno moltissimo a chi, ogni venerdì, chiedeva se era uscita La Settimana Enigmistica. E in realtà avrebbe voluto chiedere se era già uscito Bartezzaghi. * Nel 1989, la Settimana Enigmistica usciva il venerdì. In seguito, venne deciso di anticipare al giovedì il giorno di uscita

Il Manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri vicedirettore: Angelo Mastrandrea Alias a cura di Roberto Silvestri Francesco Adinolfi (Ultrasuoni), Matteo Patrono (Ultrasport) con Massimo De Feo, Roberto Peciola, Silvana Silvestri redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719549 e 0668719545 email: redazione@ilmanifesto.it web: http://www.ilmanifesto.it impaginazione: ab&c - Roma tel. 0668308613 ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel. 0668896911 fax 0658179764 e-mail: poster@poster-pr.it sede Milano viale Gran Sasso 2 20131 Milano tel. 02 4953339.2.3.4 fax 02 49533395 tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina 30.450,00 (320 x 455) Mezza pagina 16.800,00 (319 x 198) Colonna 11.085,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina 46.437,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro 4 20060 Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 0639745482 Fax. 0639762130 abbonamento ad Alias: euro 70,00 annuale versamenti sul c/cn.708016 intestato a Il Manifesto via A. Bargoni, 8 00153 Roma specificando la causale

In copertina: Figurine Liebig serie «La storia dell’enigmistica», n. 1793, Il rebus. Italia, anno 1963


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ALIAS 21 GENNAIO 2012

ANNIVERSARIO

ENIGMISTICA

UNA GINNASTICA PER LA MENTE

LETTERATURA

L’enigma infinito delle parole

LADRI DI POLLI E GENTE STRAVAGANTE Sul fronte di una malavita pasticciona e fallimentare, la Settimana ha schierato G. Dubol con le sua Malefatte; e poi il ladro Proteus, che pur dotato del potere di cambiare sembianze come il mitologico Proteo, non riesce mai a cavare un ragno dal buco. Gianni Telodice mette sul piatto problemi impossibili, il Professor De Nuvolis lancia la sua sfida con i Viaggi nel tempo, Policarpo Chilossà invita a scoprire un personaggio celebre, Astolfo e Prestigino si cimentano con l’illusionismo, il regista Burberoni trova sempre qualcosa che non va osservando il set dei suoi film, il Cavalier Busillis ne sa una più del diavolo, i pittori Pen e Nello si sfidano in campo aperto a proposito di arte.

CRUCI - S.E. (di Ennio Peres) ●●●Una buona parte delle definizioni di questo cruciverba riguardano La Settimana Enigmistica (abbreviata in: S.E.) o il mondo dell’enigmistica, in generale. Le rimanenti definizioni ricalcano il caratteristico stile dei cruciverba della S.E.

di STEFANO GALLERANI

●●●Jonglerie, trick, portmanteau-word, anagrammi, calembour e sciarade. Ma anche incastri, scatole cinesi, combinazioni architettoniche esasperate e semplici sovvertimenti di senso. O, di nuovo, lapsus, motti di spirito, figure retoriche e neologismi. Non è forzando la mano, insomma, che alla letteratura si potrebbe applicare la stessa accezione ampia che ci dice essere, l’enigmistica, null’altro che una ars combinatoria del linguaggio; che il fine dell’una possa essere ben diverso da quello dell’altra, poi, è tutto da vedere e non sono certo quei testi letterari in cui l’iscrizione di rebus linguistici in un disegno poetico o romanzesco è fortemente esasperata, quando non parossistica, a distinguere due modi affini di distorcere le parole e, con esse, il loro significato. Al contrario, alcuni capisaldi della letteratura universale, da Rabelais a Queneau, da Sterne a Carroll, da Chlébnikov a Nabokov, attingono a man bassa dalle risorse dell’enigmistica proprio per accedere alle innumerevoli possibilità espressive del maggiore strumento della loro arte: non è infatti grazie alle parole che Alice visita il Paese delle meraviglie o passa Attraverso lo specchio? E non è la necessità di aggirare un limite autoimposto (ovvero scrivere un lipogramma senza la lettera e) a consentire a Georges Perec, tra i più celebri esponenti dell’ «Officina di Letteratura Potenziale» (alias OuLiPo), il dispiegarsi di una fantasia romanzesca (La scomparsa) che non si esaurisce nel gioco ma diventa fonte di ulteriori creazioni (Le ripetizioni, in cui lo scrittore francese usa solo la vocale e)? Allo stesso autore de Le cose si deve inoltre il più lungo testo palindromo che si conosca, un racconto (9691) di ben cinquemila caratteri (sono invece quattrocento i versi che possono essere letti anche al contrario del poema Razin di Chlebnikov), mentre nelle sue poesie abbondano eterogrammi, acrostici e altre diavolerie enigmistiche. Un arsenale non meno fornito si può «visitare» in Tre Tristi Tigri, il romanzo che Guillermo Cabrera Infante, come posseduto da un demone caraibico non dissimile a quello celtico di Joyce, licenziò nel 1965. Pagine a specchio, pastiche e una lingua inventata si aggrumano intorno a una sezione non a caso intitolata Rompicapo, a definitivamente certificare il rapporto ormai sinonimico tra creazione letteraria di un mondo e elaborazione linguistica di un enigma.

ORIZZONTALI 1. È di 80 anni, quella della S.E. – 3. La tradizionale collocazione, nella S.E., del cruciverba a schema libero più impegnativo – 18. In due e in dieci – 19. Uno pseudonimo di Guido Iazzetta, ideatore del gioco dei Colibrì, della S.E. – 20. Un classico gioco enigmistico, pubblicato dalla S.E. – 22. Uno pseudonimo di Alfredo Baroni, ideatore del gioco dell'Imago, della S.E. – 23. Un agente, protagonista degli enigmi polizieschi della S.E. – 25. Film della Walt Disney, ambientato in un computer – 26. Principio di uguaglianza – 27. Sono pari nello scafo – 29. La classica religiosa, raffigurata nei rebus – 30. Mi segue sulla scala – 31. Non lo è certo, il prezzo di una copia della S.E. – 35. Un tempo era di rame – 37. Trascorrono liete, in compagnia della S.E. – 39. Centro di osservazione – 41. Il verso del corvo – 43. Proprio così – 45. La S.E., per esteso – 54. Classica rubrica umoristica della S.E. – 55. Un classico gioco enigmistico, pubblicato dalla S.E. – 57. Un investigatore, protagonista degli enigmi polizieschi della S.E. – 58. Otorinolaringoiatria, in breve – 59. Tipica montagna messicana – 60. Società a responsabilità limitata – 61. Bocca latina – 62. Dario, premio Nobel per la letteratura – 64. Un'emittente televisiva che si avvale della collaborazione della S.E. – 66. Medio Oriente – 67. Una coppia nel Bridge – 69. Divinità babilonese – 70. Un classico gioco enigmistico, pubblicato dalla

S.E. – 74. Indizi di turbamento – 76. Uno pseudonimo di Piero Bartezzaghi, mitico autore di cruciverba della S.E. – 79. Sono concentriche quelle di un tradizionale gioco della S.E. – 80. Uno pseudonimo di Ignazio Fiocchi, storico autore di rebus, della S.E. – 81. Copre li versi strani, in una classica rubrica della S.E. VERTICALI 1. Il luogo dove viene venduta la S.E. – 2. In genere è di Ceylon quello raffigurato nei rebus – 3. Così vengono definiti i rebus privi di lettere o di altri grafemi – 4. Opera di Giuseppe Verdi – 5. Piccolo dispositivo, utilizzato nell'universo fantascientifico di Stargate – 6. Mitica giovenca – 7. La classica donna anziana, raffigurata nei rebus – 8. Dominio degli Stati Uniti – 9. Cinghiale arcaico – 10. La diciassettesima lettera dell'alfabeto greco – 11. Come in Inghilterra – 12. Compagna nazionale di telecomunicazioni giapponese – 13. Le classiche cassette da frutta, raffigurate nei rebus – 14. Una componente sempre presente, nelle pagine della S.E. – 15. Uno pseudonimo dell'enigmista Stefano Bartezzaghi, figlio di Piero – 16. In funzione – 17. Un’attitudine necessaria, per risolvere i giochi della S.E. – 19. Divario da colmare – 21. Si dà, in confidenza – 23. Congiunzione avversativa – 24. Simbolo dello xenon – 28. Baggi Sisini, direttore della S.E. – 30. La Belbelli, protagonista di una serie umoristica della S.E. – 32. Uno pseudonimo del

celebre enigmista, Giovanni Chiocca – 33. Celebre canzone napoletana, del 1952 – 34. Energia cosmica – 36. La Banda che ha inciso la canzone Aguzzate la vista, dedicata alla S.E. – 38. Ne possiedono molto, gli autori dei giochi della S.E. – 39. La forza vitale dei latini – 40. Vengono svolte, negli enigmi polizieschi della S.E. – 42. Impedisce di rispondere alla definizione di un cruciverba – 44. Gelato inglese – 46. Orientali, in poesia – 47. Territorio Libero di Trieste – 48. La scimmietta che appare nelle Imprese del Commodoro, pubblicate dalla S.E. – 49. Il fiume che bagna Berna – 50. Africa Equatoriale Francese – 51. L'associazione nazionale di basket statunitense – 52. Tradizionale festa peruviana – 53. Unità di misura anglosassone – 56. Un classico arnese da caminetto, raffigurato nei rebus – 57. Sigla della squadra di calcio francese, Lille Olympique Sporting Club – 62. Uno pseudonimo del celebre enigmista, Gianfranco Riva – 63. I classici oggetti preziosi, raffigurati nei rebus – 65. Né mio, né tuo – 66. Uno pseudonimo del celebre enigmista, Michele Gazzarri – 67. È comune nelle Alpi Marittime francesi – 68. Petrolio inglese – 71. In fondo al fumoir – 72. Acetile senza etile – 73. Preposizione semplice – 75. Il prefisso che raddoppia – 76. Un pizzico di zafferano – 77. Nave senza pari – 78. Fine del cruciverba. (La soluzione del cruciverba «Cruci-S.E.» sarà pubblicata su Alias del 28 gennaio)

Come si costruisce un cruciverba di ENNIO PERES

●●●Se si vuole comporre un cruciverba, il primo passo da compiere consiste nel riuscire a incasellare, all’interno dello schema prescelto, tutte le parole che andranno a costituire la soluzione da trovare. Solo al termine di una tale operazione, sarà possibile cominciare ad attribuire un’adeguata definizione a ogni parola selezionata. Le modalità di svolgimento di questa fase sono condizionate dalla disposizione che si intende dare alle caselle nere. Se si adotta una struttura prefissata, la lunghezza di ogni parola da incasellare deve tener conto delle posizioni assegnate alle caselle nere; se, invece, si opta per una struttura libera, è possibile inserire le parole in maniera meno vincolata, collocando le caselle nere, di volta in volta, nei punti ritenuti più opportuni. In ciascuno di questi due casi, ovviamente, ogni aggregato di lettere, leggibile in orizzontale o in verticale all’interno dello schema, deve corrispondere a un termine di senso compiuto o, comunque, definibile. Per agevolare il raggiungimento di un tale obiettivo, è consigliabile seguire gli accorgimenti elementari riportati qui di seguito. 1. Nei limiti del possibile, è preferibile cercare di intrecciare parole composte da un’alternanza di consonanti e vocali (come, ad esempio: SOL, DAMA, BASIC, LIMONE, e così via; oppure: UVA, IRIS, ONORE, ELISIR, e così via.). Un’indicazione del genere, però, non deve essere presa come un obbligo assoluto, ma solo come una linea di tendenza da tener presente. 2. Se esistono più parole che consentono di rispettare gli stessi incroci, è opportuno sceglierne una che permetta una buona quantità di cambi di lettere; in questo modo, è possibile mantenere una discreta libertà di azione, nel prosieguo dell’elaborazione. Ad esempio, dovendo completare una sequenza del genere: CAPI – –, è preferibile optare per: CAPITO (che all’occorrenza potrà flettersi in CAPITA, CAPITE o CAPITI), piuttosto che per: CAPIRE, le cui ultima lettera non è più modificabile. 3. Anche se può apparire contraddittorio, è più agevole lavorare su uno schema prefissato, possibilmente costruito intorno a un nucleo di due (o più) file parallele di caselle nere, non troppo distanziate tra loro. In questo modo, man mano che, in un verso, si inseriscono delle parole dotate di una determinata struttura ortografica, nell’altro verso vengono a formarsi, quasi automaticamente, ulteriori parole dotate di un’analoga struttura.

LA MUSA

Inaugurò la serie di divi in prima la bomba messicana Lupe Vélez Lupe Vélez, pseudonimo di María Guadalupe Villalobos Vélez (San Luis Potosí, 18 luglio 1908 – Beverly Hills, 13 dicembre 1944), è stata un'attrice e ballerina messicana. Figlia di una cantante d'opera, nel 1921 viene mandata dalla madre a studiare in un collegio di monache a San Antonio (Usa), da dove esce qualche anno più tardi per aiutare economicamente la madre lavorando come commessa in un negozio. Grazie a Hal Roach (scopritore di Oliver Hardy e Stan Laurel), la Vélez comincerà la sua carriera di attrice a Hollywood negli anni venti, partecipando ad alcuni corti del duo comico. Nel 1927 raggiunge il successo e la popolarità e grazie alla sua bellezza e alla sua personalità viene soprannominata «la messicana esplosiva». Nel 1928 vinse l'edizione di quell'anno del premio Wampas Baby Stars, un'iniziativa pubblicitaria promossa negli Stati Uniti dalla Western Association of Motion Picture Advertisers, che premiava ogni anno tredici ragazze giudicate pronte ad iniziare una brillante carriera nel cinema. La fama della Vélez arriva sino in Italia e un suo ritratto appare sul primo cruciverba del primo numero de La Settimana Enigmistica (23 gennaio 1932). La sua vita sentimentale è tormentata e dopo diverse storie con altri attori, tra cui Gary Cooper, nel 1933 si sposa con Johnny Weissmuller, dal quale si separerà cinque anni dopo. Nel 1944 si scopre incinta di Harald Raymond e rifiutando di abortire, perché Raymond non è intenzionato a riconoscere la paternità del bambino, sceglie il suicidio. Dopo un party con diverse amiche a base di piatti messicani, da lei stessa organizzato, assume una considerevole dose di sonniferi. Viene ritrovata morta l'indomani, con la testa incastrata nel water, dove aveva battuto la testa nel tentativo di liberare lo stomaco. Tra i suoi film più famosi quelli della serie «The Mexican Spitfire», il lanciafiamme messicano.

In alto a sinistra lo scrittore Vladimir Nabokov qui accanto l’attrice Lupe Vélez Nella pagina 5: a sinistra in alto due immagini dai film «Marathon» di Amir Naderi (2002) e «All about Steve» di Phil Traill (2009) a sinistra in basso: il Professor Layton a destra in basso: Alan Turing con due colleghi e il computer Ferranti nel gennaio 1951


ALIAS 21 GENNAIO 2012

SETTIMANA A STRISCE

UNA VIGNETTA MEMORABILE

Anche le strip sono un appuntamento costante negli spazi di alleggerimento. La striscia più famosa, interrotta nel 2008, era quella de «Le vicende di Carlo e Alice», versione italiana di Andy Capp, con moglie rassegnata e ironica, e marito nullafacente e bevitore. Dallo humor targato Usa arrivarono «Drabble», trasformato nella «Famiglia Belbelli»; Renato perdente nato, da «The Born Loser»; Lillo, Fred Basset; «Willy’n Ethel», per noi «Diego e Norma, rapporto di coppia». Il «Tenero Giacomo», doppia strip con rimando in ultima pagina, era il tedesco «Der kleine Herr Jakob», disegnato dalla penna di Hans Jürgen Press, scomparso nel 2002. Tutti italiani, «Il dispettoso Osvaldo», «La bisbetica Martina», le «Schegge di Follia». (Nella foto: Carlo e Alice)

Un uomo è in piedi davanti al tavolino del soggiorno di casa. Davanti a sé, ha un elenco telefonico aperto e la cornetta del telefono appoggiata a un orecchio. Il suo aspetto è scarmigliato, la camicia aperta. La didascalia recita «Pronto, signor Zuzzuzzi? Lei è la mia ultima speranza per ottenere un prestito!». C’è chi ritaglia e conserva vignette come questa, per consolarsi di un repertorio umoristico inossidabile nel proporre suocere da strozzare, amici inopportuni, mariti e mogli esausti dal matrimonio, vicini di casa che si odiano, camerieri impassibili di fronte alla mosca nel piatto del cliente, contribuenti in lacrime negli uffici delle tasse, sposini sull’altare o in viaggio di nozze. E via ridendo, sempre poco. (La battuta della vignetta a sinistra dice: «Con il bambino non ci sono problemi! Mangerà quello che mangiamo noi!», da «Le ultime parole famose» di Bort)

CRITTOGRAFIA ■ L’ALBERO GENEALOGICO

MUSICA

Puzzle, anagrammi, sciarade e rebus a ritmo di jazz e rock

di FLAVIANO DE LUCA

●●●Lo scrittore Dave Eggers sostiene che ogni buona canzone è accompagnata da un mistero, da una curiosa magìa che ce la fa ascoltare decine di volte di seguito quasi come se fosse un’operazione da risolvere. E solo ogni volta che l’ascoltiamo - sebbene sia un motivetto pop lungo solo tre o quattro minuti - ci avviciniamo di più alla comprensione completa, alla dinamica del piacere, alla soluzione dell’enigma. Non arriveremo a indagare tutti quei dischi che suonati all’incontrario (il noto reverse speech, da Helter Skelter dei Beatles a Stairway to heaven dei Led Zeppelin) manderebbero messaggi satanici o altre amenità. Tra arcani, segreti, sciarade e rebus, insomma tutto l’armamentario classico del mondo enigmistico, si sono avventurati protagonisti del rock e del jazz. Dall’Enigmatic Ocean del violinista francese Jean Luc Ponty, fortemente influenzato dalle follie sonore di Frank Zappa, al Jigsaw Puzzle dei Rolling Stones da barricata, rock blues aggressivo dei tempi di

Beggars Banquet, 1968 o giù di lì. Gli inglesi Jethro Tull decisero di mettere delle parole crociate autentiche sulla copertina di Thick as a Brick, più che altro si trattava dei giochi di parole e dei cruciverba che si trovavano abitualmente sui quotidiani del Regno Unito, come il loro immaginario St.Cleve Chronicle del 7 gennaio 1972. Qualcosa di simile fecero i Nomadi con Corpo Estraneo, mentre la Banda Osiris ha fatto un tributo «al settimanale che vanta centinaia di tentativi d’imitazione» nel brano Aguzzate la vista, una delle rubriche tipiche di quel giornale, dove bisognava individuare le minime differenze tra una vignetta e un’altra simile quasi in toto. Nel pezzo il gruppo di comici musicisti ambulanti cita naturalmente alcune rubriche indimenticabili: il quesito con la Susi, Risate a denti stretti, Unendo i puntini qualcosa apparirà, ecc. E altre rock band hanno descritto la loro passione per i giochi di composizione, dei puzzle con pezzi di varia grandezza, ad esempio i Fleetwood Mac di Jigsaw Puzzle Blues, o i più elettrici e visionari Faith no More col loro nebuloso Falling into pieces. Né si può dimenticare la grande dedizione per gli anagrammi che percorre trasversalmente la cultura giovanile, da Jim Morrison che si fa chiamare Mr.Mojo Risin’ nel brano L-A. Woman dei Doors al brano King’s Lead Hat di Brian Eno, risalente al periodo di Before and After Science, quando lavorava coi Talking Heads. E ovviamente il più criptico di tutti, Bob Dylan alias Robert Zimmermann, coi versi delle canzoni pieni di riferimenti letterari, curiose citazioni e cultura hassidica.

VIDEOGAMES

Gli enigmi videoludici hanno un re assoluto

di FEDERICO ERCOLE

●●●Dobbiamo camminare piano, in alto, sulle travi sospese sul soffitto di un lungo corridoio, alcuni corvi appestati da un virus mutante potrebbero strapparci gli occhi dal viso, se li eccitiamo con una corsa o con dei movimenti convulsi. Potremmo uscire, ma oltre l’uscio c’è di peggio: morti viventi e altri orrori. Inoltre non è il momento di sparare ne’ di fuggire, dobbiamo risolvere un contorto enigma e accendere nella giusta sequenza i lumi posizionati sotto una serie di quadri. L’esercizio della logica interrompe l’azione ma amplifica la suspense. Dalla corretta interpretazione dell’indovinello dipende la nostra sopravvivenza virtuale. Si tratta di Resident Evil, 1997, un gioco che dimostra l’importanza dell’enigmistica nei videogame, un elemento determinante per creare atmosfera e trasformare l’esperienza ludica in qualcosa di più sottile e sofisticato del solo esercizio di dita e occhi. Gli enigmi di Resident Evil non

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sono mai stati un «mostro» di difficoltà, neanche lontanamente paragonabili a quelli di avventure grafiche come Myst o a quelli geniali di Legend of Zelda, basati sull’interpretazione dell’ambiente circostante e sulle risorse a nostra disposizione in quel momento. Ma sono notevoli proprio per la loro caratteristica intrusiva, per la variazione di intrattenimento a cui sottopongono il giocatore e per come ribadiscono, in un luogo che può sembrare improprio, una parentela tra l’enigmistica in generale e i videogiochi. Nei videogiochi capita di comporre puzzle, di rispondere ad indovinelli o di risolvere anagrammi attraverso le meccaniche proprie del medium elettronico che si scoprono essere, assai simili a quelle utilizzate su un periodico cartaceo dedicato all’enigmistica: osservazione, memoria, fantasia e logica. Con l’avvento del Ds, la console portatile a due schermi Nintendo, l’enigmistica digitale ha trovato il suo re: il Professor Layton, protagonista di diverse avventure, l’ultima è appena uscita e si intitola Il Richiamo dello Spettro, che fa leva sull’affascinante contrappunto tra narrazione in stile «anime» e risoluzione di enigmi. Ce ne sono decine, di ogni tipo e difficoltà, e quasi tutti intriganti. Sviluppato dai giapponesi di Level 5, ma di ambientazione inglese alla Sherlock Holmes, Il Professor Layton ha inaugurato un nuovo genere, una splendida chimera tra un cartone animato e un volume de la Settimana enigmistica.

CINEMA

Codici e segreti, da Erodoto e Plutarco fino ad Alan Turing

Cruciverba, la merce marcia

Un ricordo di Alan M. Turing (1912–1954), grande matematico, logico e crittanalista britannico, morto in circostanze misteriose dopo essere stato a lungo perseguitato per la sua omosessualità di SILVIA VEROLI

●●●Quando è nata La Settimana Enigmistica, Alan Turing, tra i padri dell’informatica e primo studioso dell’intelligenza artificiale, aveva vent’anni e già era a Cambridge a studiare meccanica quantistica, logica e teoria della probabilità, attrezzando la sua mente colorata per quello che sarebbe stato il suo lavoro di crittografo. Sempre nel 1932, contemporaneamente alla rivista che a giorni alterni si vanta degli innumerevoli tentativi di imitazione che la riguardano, nasceva anche la prima idea embrionale di «cryptological bombe», meglio nota come Bomba, la macchina usata dal controspionaggio prima inglese e poi polacco per decifrare i messaggi segreti dei tedeschi durante la seconda Guerra mondiale: l’antagonista di Enigma, insomma, la macchina dei bad guys, di tecnologia tedesca, l’autore era Arthurs Scherbius di Francoforte, e lontana ascendenza italica; l’ingegnere tedesco pare infatti aver preso ispirazione dai dischi cifranti polialfabetici di Leon Battista Alberti, gli stessi a cui pensò il Presidente Usa e autore della Dichiarazione di Indipendenza americana Jefferson quando ideò il suo Cilindro, metodo di cifratura meccanico . Turing girava in pigiama per il College, come Mark Zuckerberg ciabattava per Harvard (anche se, al contrario del nerd americano, Turing era anche un atleta di successo), andava male a scuola, come si è soliti raccontare anche di Einstein (la cui Teoria della Relatività venne riassunta in un saggio da un Turing quindicenne a beneficio della propria madre); purtroppo non è leggenda la persecuzione omofoba ai danni del matematico ateo, la cui storia ebbe un epilogo assai più doloroso di quello toccato ad altri illustri, prima di lui: se Wilde finì due anni in carcere a Turing, reo confesso di omosessualità, venne inflitta la castrazione chimica, con effetti devastanti su fisico e psiche. La morte fu da romanzo gotico, per ingestione di mela avvelenata (con cianuro di potassio), e dichiarata dagli inquirenti suicidio; di contro la madre, Ethel Sara Turing, destinataria oltre che di trattati scientifici giovanili anche di molta corrispondenza del figlio, sostenne sempre la versione di una morte accidentale durante un esperimento di preparazione di sali di potassio destinati alla doratura di un cucchiaino. Rimane la perplessità, anche sui reali motivi del terribile accanimento per l’omosessualità (in fondo non così sempre mal tollerata nel contesto storico e sociale in cui Turing viveva e operava) oltre che sulla scomparsa del matematico; aleggia inevitabile odore di mistero, insieme a quello di

mandorle amare, nel laboratorio di Turing e nelle vicende umane e professionali, ridotte a silenzio e ombra, dei crittoanalisti e crittoanaliste, moltissime erano le donne, al servizio del Governo inglese (che li assoldava sottoponendogli, come test, i cruciverba del Dayly Telegraph) riuniti dal 1939 a Bletchley Park, residenza a nord-ovest di Londra, dal nome(ovviamente) in codice di Stazione x, dove oggi sono esposti esemplari delle macchine Enigma, Bomba e Colossus, oltre ad una mostra permanente di attrezzature cinematografiche d’epoca. Bletchery Park ospita anche un minuscolo cinema anni 40 (il nome? Enigma. Elementary my dear Watson), dove sono ancora proiettate pellicole d’epoca (nel book shop, coerentemente, si vendono foulard con segni cifrati in luogo del monogramma da stilista e mug che svelano messaggi nascosti a contatto con l’acqua bollente). Ce ne è abbastanza per saghe di spy-story e film,e infatti molto si è prodotto attorno alla figura di Alan Turing (opere teatrali, sceneggiature, romanzi, saggi) ufficialmente riabilitata tre anni fa da Gordon Brown e incorniciata in un francobollo in un questo 2012 dei cento anni dalla nascita. Tutto molto lontano eppure imparentato alla crittografia domestica che La Settimana Enigmistica offre a condizioni popolari da ottant’anni, in un albero genealogico che affonda le radici in Erodoto e Plutarco, interessa i geroglifici egiziani, conosce un rigoglioso Rinascimento con Giovan Battista Della Porta e Leonardo, invade la letteratura di Doyle, Poe e Verne. Il più recente saggio tematico sulle scritture segrete è quello di Caterina Marrone, studiosa del testo letterario e figurativo e docente di Filosofia del Linguaggio, con I segni dell'inganno– semiotica della crittografia edito da Stampa Alternativa – Graffiti, vincitore

dell’ultimo premio Castigliocello per la comunicazione. Vi si legge, tra le molte cose, una riflessione di particolare interesse, a partire da un'analisi compiuta da Wittgenstein, sul «leggere» e su come la scrittura in codice possa essere classificata proprio come uno degli innumerevoli modi di usare la lettura e di giocare con essa. I messaggi cifrati che allignano impudenti dentro i testi scompigliati nelle sequenze grafemiche del piano espressivo, spesso con esiti di sorprendente bellezza iconografica (un anno fa la mostra «Ah, che rebus», curata da Antonella Sbrilli e Ada De Pirro, ha portato a Roma meravigliose opere d'arte enigmatica ancora apprezzabili nel catalogo di Mazzotta) sottostanno a regole e caratteri tipologici di alcune casistiche che si mostrano, scompaiono e magari ricompaiono altrove «come fenomeni carsici». Compito di Sherlock Holmes, Alfred Dupin, Alan Turing e del lettore della Settimana Enigmistica è di leggere tra i sorrisi da cruciverba evocati anche da De Andrè (Parlando del naufragio della London Valor) e derivare, leggere e svelare. Leggere e amare (da intendersi anche come: leggère-come piume e amare-come il cianuro), come da imperativo del plurisignificante titolo di una raccolta di racconti della pubblicitaria e creativa Annamaria Testa, professionista delle parole, che fa dell'equivoco tra infiniti e aggettivi la chiave della curiosa storia di una suicida per avvelenamento da gas solutrice di cruciverba. Il computer governa oggi anche i procedimenti di composizione e arrangiamento della musica. Da qui l’omaggio del musicista Fabrizio Dirotti e del direttore del Teatro Bonci di Cesena, Franco Pollini: l’esecuzione in concerto dell’opera Suite in cinque movimenti per Alan Turing. Prima assoluta il 25 febbraio, alle 21, al Bonci (vj Luca Ravaioli, scene di Gabriele Marchesini).

di ROBERTO SILVESTRI

●●●In Marathon di Amir Naderi (2002) Gretchen (Sara Paul), genio delle parole crociate, attraversa Manhattan convulsamente per rubare al chiassoso ritmo della subway il controtempo in più e vincere un ricco torneo. Risolvere crosswords puzzle è aprirsi alla vita, buttarsi nel fuoco del sociale: non dovere, non lavoro, non compito in classe. E produce - anche se l’agonismo spinge alla militarizzazione, al lavoro di linea, alla catena di montaggio - suggerirebbe Gramsci un maggior grado di concentrazione: incrociando le parole organizzazione e rivoluzione scaturiranno prima… In All about Steve (A proposito di Steve) di Phil Traill (2009), Sandra Bullock, alias Mary Horowitz, fabbrica parole crociate in provincia e travolge il mondo con una logorrea troppo colta e inganna-tempo per chi, Cnn e simili, frettolosi trafficanti di organi informativi e che ha la disavventura di incrociare…Finirà al New York Times. Da Lupe Velez a Quentin Tarantino, in copertina nell’ultima Settimana Enigmistica, il rapporto con il cinema - la festa, l’ozio, lo sberleffo politico e il mistero fertile che il volto di un divo nasconde - è da sempre privilegiato. L’enigmistica è l’arte del tempo libero che scioglie enigmi, sciarade (indovinelli a più strati), rebus, rompicapo e simili. Risolvere un cruciverba dà lo stesso piacere di comprendere e anticipare snodi e perché di un thriller. E spesso l’assassino seriale dissemina i suoi sentieri di quiz da sfinge e scioglilingua. Siamo nel dadà e nel postmoderno, si rimette in libertà ogni parola umiliata e addomesticata. E dunque nei dialoghi eccentrici di una commedia hollywoodiana classica che incastra parole avulse, incrocia concetti non omogenei e mescola emozioni lecite o illecite come fa la Settimana enigmistica. Addomesticare il perturbante in un ordine superiore (o viceversa, se il cinema è sovversivo) è il gioco a due in progress tra produzione e ricezione, merce e cliente, possibile solo quando parole e concetti, comportamenti e gestualità, sono bene comune. Il cinema e l’enigmistica hanno così l’interesse reciproco a svilupparsi in una società aperta e estroversa che strappi i segreti feudali della casta e delle classi dominanti. Certo i segreti del mestiere vanno protetti e sarà impossibile introdursi nei laboratori Mgm per rubare la formula chimica di quei lussureggianti musical, così come curiosare nelle stanze di chi scodella rebus, l’«indovinello con figure» che nacque come un carnascialesco piacere da chierici. Quando satireggiavano «dalle cose che accadevano», de rebus quae geruntur, con malcelata malizia.


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ALIAS 21 GENNAIO 2012

DOCUMENTARI CONTRO

UTOPIA INDUSTRIALE ●●●Colpita da un ingiustificato eccesso sloganistico nel pezzo della scorsa settimana auspicavo ad una «industria bene comune» sull'onda della «cultura bene comune» coniata dagli occupanti del teatro Valle, ma l'industrializzazione selvaggia ha sconvolto il nostro paese negli ultimi cinquant'anni ed è difficile considerarla genericamente un possibile bene comune, penso a quello che potrebbe essere oggi un viaggio attraverso il «bel paese» di stendhaliana memoria tra le rovine della scellerata politica industriale da porto Marghera a Seveso a Bagnoli, Sant'Anastasia, Gioia Tauro, Taranto, Gela, Termini Imerese fino alle discariche tossiche nel fertile parco del Vesuvio in una fantascienza avverata che non ha il romanticismo di Asimov ma la contemporaneità rovinosa, malata e mutante di Ballard. Rovine industriali che hanno enormi difficoltà ad essere bonificate , territori avvelenati fino alle falde acquifere profonde, disastri annunciati ed ignorati che tuttora provocano tumori e morti. Eppure c'è stato proprio nel nostro paese un rarissimo, se non unico, esempio di utopia industriale applicata, un caso così atipico da restare inimitato, così peculiare da spaventare destra e sinistra, quello del grande Adriano Olivetti , socialista di educazione valdese, che perseguì tutta la vita un progetto pilota di laboratorio sociale, di umanesimo laico, rendendo realtà il suo sogno di un'industria socialista in cui gli operai potevano lavorare in un ambiente costruito a propria misura. Olivetti riunì attorno a sé architetti, intellettuali, filosofi, musicisti e poeti trasformando la sua Ivrea in una nuova Atene per realizzare la sua fabbrica modello luminosa e gradevole perché la bellezza, l'arte, la luce, servono al benessere di chi in fabbrica è sottoposto comunque al gesto ripetitivo, ai tempi scanditi dalle macchine, alla fatica. I suoi stabilimenti erano progetti d'avanguardia ingegneristica, grandi vetrate che davano agli operai la possibilità di sentirsi immersi dentro un paesaggio loro familiare, con pause flessibili e biblioteca interna e corsi di aggiornamento, abitazioni confortevoli e vicine alla fabbrica costruite per i lavoratori e date in affitto a costi minimi con possibilità di essere riscattate, asili gratuiti e dotati di ambulatori medici per i bambini, retribuzione totale (senza restrizioni) alle donne in gravidanza per la durata di nove mesi al posto dei cinque che ci spettano adesso, stipendi che raggiungevano il 20% in più della media del tempo perché la cosiddetta utopia applicata dava i suoi frutti e la crescita dell'azienda Olivetti raggiungeva livelli mai visti altrove sfiorando il 500% in un decennio e quando si trattò di ampliarla il grande Adriano si spinse a sud e costruì un altro stabilimento nella Pozzuoli ancora devastata dalla guerra; l'intera popolazione del paese si affannò per farsi assumere, ci furono scontri e scoppiò perfino una bomba senza far danni. Purtroppo Olivetti morì per infarto nel febbraio del '60 e nessuno fu in grado di raccoglierne l'eredità anzi quando nel '63 l'azienda ebbe qualche problema e fu costretta a ricorrere all' aiuto, tra gli altri, della Fiat guidata da Valletta perse il suo fiore all'occhiello: la ricerca nel settore elettronico che aveva messo a punto il primo elaboratore completamente transistorizzato del mondo, l'Elea, rilevato dall'americana General Electric. Dopo la morte di Olivetti nessun industriale si è mai più avventurato in progetti utopici di ideologia comunitaria né in esperimenti di laboratori sociali. Siamo fermi al rapporto di forza con i padroni, sempre più ricattati, vessati e senza diritti.

Cinema cinese sorpreso entro margini visuali Il motto del festival indipendente di Chongqing è «Dianyng er yi» («solo Cinema») a indicare, tra le altre cose, la critica verso le pratiche sia del cinema ufficiale sia di mercato di DIEGO GULLOTTA PECHINO

●●●Avviato nel 2007, il Chongqing Independent Film&Festival (Cifvf) ha chiuso, dal 20 al 26 Novembre, i due mesi che in Cina vedono susseguirsi il Beijing Independent Film Festival (Biff arrivato alla sesta edizione) e il China Independent Film Festival di Nanchino (Ciff all’ottava). Il cinema indipendente in Cina è una realtà sempre più viva, le tematiche che ne emergono sono tanto più centrali e vitali quanto più marginali e marginalizzati i registi e i luoghi di proiezione e dibattito. Marginalizzazione data dalle politiche dello Stato e dalle regole del Mercato, due attori percepiti come sempre più falsi in uno scenario che diviene sempre più complesso da interpretare e, orribile dictu, da trasformare. Il cinema indipendente costruisce i linguaggi migliori per addentrarsi in questa complessità. Il dibattito critico sul cinema indipendente si è concentrato sulla questione dello sguardo e la posizione dell’autore, sulla subalternità di chi è guardato e sulla cultura urbana da cui provengono i registi, mettendo in questione la presunta oggettività della maggior parte dei documentari; recentemente il taglio soggettivo è emerso più marcatamente, in particolare tramite la memoria. Memoria individuale e collettiva insieme, basta fare i nomi ormai affermati di Hu Jie e Wu Wenguang, ma anche, in piccolo, il primo doc di apertura del Cifvf, My Mother’s Raphsody di Qiu Jiongjiong. Documentario leggero e ironico nell’affrontare, da una dimensione privata, temi collettivi. La nonna e famiglia del regista non sono la tipica famiglia cinese, vengono da una compagnia teatrale sichuanese fin dalla fondazione della Nuova Cina, nel racconto della nonna le vicissitudini storiche prendono corpo in tutta la loro contraddittorietà. Il Cifvf, animato come sempre da Ying Liang (Taking Father Home, 2005, The Other Half, 2006) ha presentato anche in questa edizione quasi 90 doc. Inaugurato dalle parole Li Yifan, regista locale autore del magistrale Before the Flood (Yan Mo, 2005) che ha sottolineato l’importanza del digitale nella nascita di una nuova sensibilità nel campo degli indipendenti, ha visto diverse sezioni affollare le tre sale sparse attorno alla apocalittica Piazza delle Tre Gole. Cominciamo con la

sezione Being Thai, 15 tra film e corti dalla Thailandia. Nessun esotismo, ma sguardo fra Asie differenti e comunicanti. Agrarian Utopia di U. Raksasad, a Chongqing si fa allegoria generatrice di dibattito fra il pubblico. Girato dopo la cacciata di T. Shinawatra e prima dell’arrivo della sorella, mentre le magliette rosse e quelle gialle si confrontano in città, il film,

volutamente indefinibile tra finzione e documentario, segue due famiglie di contadini impossibilitate a ripagare i debiti, tanto facili da ottenere quanto impossibili da estinguere nel contesto della globalizzazione, che obtorto collo vanno a lavorare per un proprietario. Fotografia bellissima, toni non tragici ma domande puntuali sul mondo agricolo, sull’impossibilità per esso di godere di qualsivoglia frutto dell’ideologia della felicità. Una famiglia emigrerà in città, maglietta rossa in cerca di lavoro ma consapevolezza che i «partiti giocano a fare gli eroi sulla nostra pelle». L’allegoria in Cina è forte, a Chongqing è ovvia. Da qualche anno dibattuta sulla privatizzazione della terra, la Cina sperimenta, come sempre, modelli. Quello di Chongqing vede «città e campagna una sola cosa», in pratica un ribaltamento della politica che negli anni ’50 divise nettamente in due sistemi contesto urbano e contesto agricolo. Finita la materia prima dell’autocolonizzazione cinese (i migranti contadini), la metropoli espande i suoi confini all’infinito e fagocita la campagna limitrofa concedendo il diritto di cittadinanza in cambio della terra. Insieme a condizioni di favore per le multinazionali che decidono di investire lontano dalla costa, il segreto del Modello Chongqing è tutto qui. Municipalità autonoma dal ’97, aspira a sostitutire simbolicamente, economicamente e politicamente la provincia di Guangdong e Shanghai. La sezione che certamente ha differenziato il Cifvf dagli altri festival è After Life, 5 documentari che, oltrepassata a forza la morte, mettono la fragilità e la resistenza umana di fronte all’inumana presenza delle istituzioni. 12 Maggio 2008, un terremoto devasta il Sichuan, epicentro a Wenchuan, vicino Chengdu. I morti si aggirano intorno ai 70.000. E il problema sono i vivi, come sempre. Il 2008 è un anno particolare, iniziato con le nevicate al sud che hanno bloccato il capodanno cinese quando tutti ritornano nel proprio paese per stare con la famiglia, poi con le sommosse in Tibet, prosegue con il terremoto, poi le Olimpiadi e infine lo scandalo del latte. Il 2009, anno pieno di simboli ufficiali da commemorare, ne risulterà svuotato. Le sommosse di Lhasa e i tentativi di bloccare la torcia olimpica stringono la popolazione cinese in

forme di appartenenza nazionalistica, tramite media vecchi e nuovi, il terremoto stimola l’impegno e la partecipazione, un paese intero si mobilita anche fuori dalle organizzazioni ufficiali, e poi, veloce come la comunicazione stessa, tutto ciò svanisce da giugno. Basta lacrime, invisibili le proteste, ci si prepara alle olimpiadi e dunque ci vuole ottimismo. Si prova a ribaltare la tragedia e a capitalizzare la coesione nazionale. Partita persa, Liu Xiang, l’atleta idolo delle olimpiadi, fa due passi e deve ritirarsi dalle gare per problemi ai tendini. Metafora della relazione StatoPartito e popolo. La notizia del latte alla melamina, posticipata per due mesi, farà il resto. Il Partito può solo comprarsela la fiducia. Jia Yuchuan, oltre ad essere giornalista e fotoreporter del Jing Bao di Shenzhen, è anche documentarista. Il suo Yin si er sheng, nascere dalla morte, a una prima visione è eccessivo, strappalacrime. La prima visione è quella del pregiudizio che ci siamo formati a forza di troppe soap opera cinesi dove il gusto della lacrima è l’ingrediente più riconoscibile per il pubblico. È la conversazione e il dibattito che abbiamo con Jia dopo la proiezione che fissa quelle lacrime in atti d’accusa indelebili. Il primo capodanno cinese dopo il terremoto andò per fare un documentario sulle famiglie terremotate, spinto dalla voglia di indagare la famiglia cinese visto quello che era accaduto il capodanno precedente. Ma la situazione qui è più complicata, non è paragonabile a disservizi e nemmeno a un disastro. Qui è in gioco il senso stesso dell’esistenza: individuale, familiare, sociale. Fece scalpore il crollo delle scuole con i bambini dentro laddove


ALIAS 21 GENNAIO 2012 TUTTO IL MONDO RIDE

Accanto: manifesto del festival al centro Ying Liang presenta sotto: il regista Ja Yuchuan e scene del suo film «Tears in the Ashes»» con locandina a destra scena dal film «One Day in May» sotto scena di «The Opaque God» e la regista di «One Day in May» a sinistra locandine di film in programma

●●●Alessandro Faccioli, che insegna cinema all’Università di Padova, pubblica per Kaplan «Leggeri come in una gabbia-L’idea comica nel cinema italiano 1930-1944» (20 euro) occupandosi di un genere che, nostante i tanti protagonisti «eccentrici» (scrittori, attori, registi, da Musco a Macario a Totò, da Achille Campanile a Cesare Zavattini) fu marginale (rispetto alla commedia brillante e sentimentale) e piuttosto «embedded». Ridere a crepapelle nelle dittature è permesso solo nel fuori campo... Il libro è diviso in capitoli, e il più interessante è quello che si occupa del confronto con la macchina comica hollywoodiana di Lloyd, Keaton e i Marx. Il tiranno-merce istiga perfino alla forma sovversiva, purché lo spettacolo dia profitti.

invece palazzi adiacenti e soprattutto quelli governativi erano rimasti in piedi. Ordinarie storie di mazzette e costruzioni di tofu. I più deboli ci lasciano la pelle. Le proteste dei genitori vengono azzittite, come quella di Tang Zuoren imprigionato per sovversione contro lo Stato solo per aver fatto una inchiesta indipendente e, come noto, aiutato da Ai Weiwei che sarà bloccato mentre andava a testimoniare a favore di Tan, picchiato tanto da essere operato in Germania nel settembre 2009. Le famiglie che Jia Yuchuan intervista piangono a dirotto, piangono il proprio bambino morto mentre hanno in braccio o nel pancione il replacement son (da qui il titolo del doc) piangono perché non possono avere ragione dallo Stato. Non è il morto che rivogliono dallo Stato, ma giustizia, provare a dare un po’ di senso alla morte. Le interviste sono quasi tutte a filo di luce, di notte, la polizia ha minacciato i residenti dicendo di non parlare con estranei e giornalisti. Alcuni degli intervistati sono dibattuti, chiedere giustizia ma anche stare zitti per avere i risarcimenti. Ecco come il Partito compra la fiducia. Altre famiglie telefonano quando vedono giornalisti parlare con un’altra famiglia. Jia ne intervista 35, ogni notte cambia albergo e anche paese. «Nessuno dimentica, certo, ma come ricordiamo?». «Non è la catastrofe ad essere orribile, ma il fatto che non la affrontiamo». Il video non vuole strapparci lacrime, precisa Jia, ma creare coscienza e mobilitazione. Il video stesso vuole essere anche una forma di conforto, quello negato dallo Stato contro la Famiglia, un modo per esprimere la rabbia, per esempio di un padre che è stato imprigionato perché molti anni prima era stato multato per aver sottratto alla propria fabbrica una sbarra di ferro. Imprigionato dopo il terremoto in realtà perché voleva andare a fare una petizione a Pechino. Nella stessa sezione One Day in May, The next Life, Red White, tre bellissime narrazioni sempre nel dopo terremoto, tre bellissimi esempi di costruzione di senso contro la sragione dello Stato. Buried di Wang Libo (Yan Mai, 2009) conclude la sezione, documentario sul terremoto di Tangshan del ’76, fa vedere come molte vittime si sarebbero potute evitare ma a causa dei conflitti dentro il Partito, delle gerarchie che reggono il mondo accademico

Tra il festival di Pechino e di Nanchino, è Chongqing il punto di vista privilegiato per l’analisi dei conti in sospeso del paese e della ricerca si aspettò il terremoto senza poter avvisare nessuno, per non mettere in crisi l’idea che la Verità raramente trova posto con l’Autorità. Non nella stessa sezione, troviamo due film che aprono uno squarcio sulla relazione fra lo

Stato e ciò che esso considera come minoranza. Il primo film è Old Dog del tibetano Pema Tseden. Non è il Tibet del nostro immaginario, ma strade che vengono battute e quindi bloccate più che dalla polizia o da militari, da camion che portano progresso

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e ricchezza di grandi e piccole opere pubbliche e private, cinesi. Le strade, le vie di comunicazione, come ci dice il tibetologo Fabrizio Torricelli, sono un modo per capire quanto il controllo precedente sul Tibet sia stato differente da quello che si sta imponendo negli ultimi decenni. In Old Dog i percorsi che i protagonisti fanno sono, a dispetto degli spazi infiniti, pochi e segnati. Il protagonista tenta di vendere il mastino del padre ai cinesi, c’è la moda di questo tipo di cane. Il padre va a riprenderselo. Quel cane rappresenta la cultura tibetana, nel senso del modo di vivere. Modo di vivere che il figlio non riesce o non sa avere a sua volta. La moglie del protagonista non ha figli. La «colpa» è però del marito. Anche sul campo del dominio della donna, il Tibet è chiuso, bloccato. La versione cinese censurata del film, lascia che il mastino venga liberato fra le montagne. Quella di Tseden, lo fa uccidere dal suo stesso padrone. Non è dunque esaltazione etnica, ma critica dello sviluppo, di questo sviluppo che in Tibet devasta e mortifica. È seguito un insperato dibattito al film, siamo in Cina da parecchi anni e per la prima volta sentiamo un dibattito che esula dalle solite posizioni. Certo, oltre il nazionalismo, ciò che è più duro a morire è l’esotismo, di cui la cultura e religione tibetana sono un elemento della classe media cinese: a sinistra come a destra l’Altro non può essere riconosciuto nella propria differenza. Stesso processo in The Opaque God, (Shen Yi,2011) dove il regista Gu Tao segue l’ultima sciamana degli Oroqen, etnia della Mongolia Interna. Gli elementi per la solita antropologia museale&digitale d’accatto ci sarebbero tutti. Lo sguardo dei registi è invece impietoso nel rintracciare le cause della fine non tanto dello sciamanesimo, quanto di una cultura non egemonica schiacciata dallo Stato che tramite il turismo si fa mercato. Esotizzare l’ultima sciamana per attrarre turismo, il Partito aiuta la sciamana a organizzare il rito che da molti decenni non veniva fatto, e sarà un flop dovuto alle telecamere, al controllo politico di mercato, se così si può dire. La sciamana non fa in tempo a passare il proprio sapere alla figlia, perché quest’ultima muore. Fine probabile di una cultura, agli occhi del regista che da lì proviene e che evita di confondersi con le telecamere dello StatoMercato ed evita di rendere la sciamana uno dei tanti oggetti delle Indie di quaggiù. (Versione completa dell’articolo su www.disorientamenti.wordpress.com)

moderati arabi

SUNDANCE E «GRANDE CRACK» ●●●L’immaginario del cinema «made in Sundance», quasi sempre realizzato con tecnologie leggere che permettono una lavorazione più veloce dei film, risponde spesso tempestivamente alle suggestioni del presente economico/politico e sociale che circonda ogni anno i rituali dieci giorni di festival, qui a Park City. Non è stata una sorpresa, quindi, che uno dei quattro film che ha aperto giovedì sera l’edizione 2012 della manifestazione di Robert Redford fosse dedicato a un soggetto del giorno come quello dei mutui subprime. Meno prevedibile era la scoperta che la famiglia protagonista del documentario (in concorso) fosse quella di un plurimiliardario e che la casa che rischiava di essere confiscata un «mostro» di 90.000 piedi quadrati battezzata Versailles. Filmare la grande recessione come è vissuta dall’1% dei nordamericani non era l’idea di partenza della regista Lauren Greenfield, quando, nel 2007, fotografando Donatella Versace per la rivista Elle aveva conosciuto una sua cliente, Jackie Siegel, bionda, solare, rinforzata al silicone, moglie del padrone della più grossa compagnia di multiproprietà del mondo, la Westgate. Jackie e suo marito David (trentaquattro anni più vecchio di lei), insieme al loro sette figli avevano accetatto di essere oggetto, prima di un servizio fotografico, e poi di un film di Greenfield sulla loro famiglia e la costruzione della fantasmagorica Versailles, la residenza privata più grande d’America. Nessuno avrebbe potuto prevedere che, entro pochi mesi, il crollo a Wall Street avrebbe trasformato il documentario da una versione estrema di Life-style of the Rich and Famous a un racconto morale sulla dissoluzione del sogno americano vissuto dal punto di vista dei superricchi. Affabili, ospitali, piacevolmente disordinati e immortalati come reali in una serie infinita di enormi, orribili, quadri incorniciati d’oro, i Siegel sono più Beverly Hillbillies (la famiglia di cafoni del Sud che eredita una mansion a Beverly Hills, nella famosa serie TV anni sessanta) che classici miliardari alla Rockefeller o Mitt Romney. Sia David che Jackie, si sono fatti da sè. Lui deducendo dalle spedizioni regolari che i suoi genitori middle class facevano a Las Vegas ogni anno, l’idea di un impero di lussuosi appartamenti da

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affittare a rotazione. Lei studiando per un po’ ingegneria informatica, poi facendo la modella, la cameriera, la commessa e, per un breve periodo, lavando cadaveri in un ritiro per anziani. La casa pseudoneoclassica in cui abitano, sulla riva di un lago di Orlando, sembra già sterminata ed eccessivamente lussuosa. Quella «dei sogni», a pochi chilometri di distanza, sarà un mix tra Versailles (come disegnata su un tovagliolo, durante un viaggio in Francia) e l’hotel-casino di Las Vegas «Paris», con vista dalla camera da letto sui fuochi artificiali di Disney World. Persino i bambini sembrano perplessi quando ne visitano il cavernoso, immenso, cantiere. Ma Jackie ha già ammucchiato un intero deposito di mobile in stile Luigi IV per riempirla. Il crollo delle banche newyorkesi, nell’autunno 2008, sembra lontano da quel paradiso tropicale di kitch. Ma erano quelle stessse banche che alimentavano regolarmente il business di David Siegel, giocato anche quello – come il ménage famigliare di milioni di americani «qualunque» - su prestiti a catena che non avrebbero mai dovuto essere fatti. E, una volta chiusi i rubinetti su a Wall Street, il cartello «in liquidazione» davanti a Versailles non è molto diverso da quello di una casetta monofamigliare di Queens. I Siegel – che da diciannove domestici passano a quattro e lasciano morire per inetittudine i rettili preziosi che hanno collezionato - la versione de luxe degli americani nullatenenti e disoccupati nello spot anti-Mitt Romney, King of Bain. Il «gotico» docu-kolossal di Greenfield riflette bene il paradosso. «Stiamo attraversando tempi duri e cupi» aveva detto Robert Redford giovedì mattina in conferenza stampa rispondendo a una domanda sull’abbondanza di titoli a sfondo «grande crisi americana» che, effettivamente, appaiono in programmadocumentari che raccontano dei problemi del sistema sanitario, della crisi della manifattura a stelle e strisce, di violenza sessuale nell’esercito, del fallimento della guerra contro la droga e persino della fame sampre più diffusa tra i poveri d’America. «È chiaro che il paese sta attraversando una sorta di crisi di mezza età» aveva detto al New York Times di mercoledì il direttore della programmazione Trevor Groth. «Se c’è un momento cruciale per guardare con onestà quello che sta succedendo nel nostro paese è proprio questo. Non c’e dubbio che abbiamo toccato il fondo di un barile molto buio. La velocità con cui, grazie alle nuove tecnologie, i filmmakers sono in grado di lavorare oggi permette a molti artisti fare proprio quello», ha detto il fondatore di Sundance ai giornalisti contrapponendo la vivacità e la fertilità della contemporanea scena del cinema indipendente alla paralisi dell’economia e del Congresso, a Washington. Redford ha anche ricordato che, aldilà dei dieci giorni del festival qui a Park City, il cuore della attività della sua creatura rimangono i «laboratori» (di regia, scrittura, teatro, documentario…), che si tengono tutto l’anno presso il Sundance Institute, dall’altra parte della montagna. Sono ventisette quest’anno i film in programma al festival realizzati con l’assistenta del Sundance Lab. «In ventotto anni di festival è stato difficile e frustrante, a volte, dover ricordare la vera ragione del perché ci troviamo qui ogni anno, il motivo della nostra missione», ha detto ancora Redford durante le conferenza stampa, tornando a uno dei suoi leit motiv preferiti, e cioè la necessità di separare Sundance dall’hype legato alla calata di sponsor, operatori di settore e star che ogni anno invadono Park City. E poi, in un’inaspettata parentesi autobiografica, ha rivelato che la concezione iniziale del Festival e dell’Istituto si deve in parti uguali alla sua voglia di preservare «l’eredità rustica e antica di questa parte del West americano» e all’amore per l’arte imparato grazie ai suoi studi in Francia e in Italia quando aveva diciotto anni.


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ALIAS 21 GENNAIO 2012

GRAPHIC NOVEL

TEHRAN di LINDA CHIARAMONTE

●●●È diventata un libro, la coraggiosa avventura editoriale a fumetti di Zahra’s Paradise. I figli perduti dell’Iran, pubblicata in rete a cadenza bisettimanale e tradotta in molte lingue. Un racconto a strisce della ricerca disperata della famiglia del giovane Mehdi, scomparso nelle carceri della Repubblica islamica dopo la manifestazione del 15 giugno 2009 che portò in piazza milioni di iraniani. La protesta era per rivendicare il voto dopo le elezioni truffa, per chiederne di nuove e contestare il presidente sfidando i severi divieti governativi. Una storia di finzione che trae spunto da storie vere, scritta e disegnata da due autori, Amir e Khalil, attivista per i diritti umani, giornalista e documentarista il primo, disegnatore e artista il secondo, entrambi di origini iraniane che vivono in California, e che per sfuggire alla repressione del regime hanno dovuto nascondere le loro vere identità. Il libro, edito in Italia da Rizzoli Lizard, è un racconto forte, duro, in cui si tratteggiano in bianco e nero le torture, i morti, le sevizie nelle carceri del regime. Zahra’s Paradise, dal nome di un grande cimitero alla periferia di Tehran, è un importante strumento per un paese costretto a vivere in un clima di forte repressione che dimostra il ruolo decisivo giocato dalla rete, capace di sfuggire alla censura della dittatura facendo circolare notizie, denunce e immagini. Com’è accaduto per Neda, la ragazza morta per strada a Tehran colpita da un proiettile durante una manifestazione contro i brogli e che ha fatto il giro del mondo, diventando suo malgrado il simbolo della rivolta dei giovani iraniani disposti a tutto pur di urlare il loro dissenso al presidente Ahmadinejad. Un graphic novel che sembra una discesa agli inferi come in un girone dantesco. Il volume si chiude con un glossario, un’appendice, e alcune pagine con l’elenco di 16.901 nomi, le persone uccise nel corso di dimostrazioni o dopo l’istituzione della repubblica islamica dell’Iran, fra gli anni ’79 e ’89 e dal 2005 al 2009. Le tavole del libro sono state in mostra in anteprima nei mesi scorsi a Ravenna durante il festival Komikazen. Abbiamo contattato gli autori, che per ragioni di sicurezza non hanno potuto essere presenti alla manifestazione. ●Dove eravate durante le dimostrazioni del 2009? Amir: Non ero lì, ma ho parenti e amici che c’erano. Ho lasciato l’Iran a 12 anni, poco dopo la rivoluzione del 1979. La mia scuola era vicina alla prigione di Evin, l’Abu Ghraib iraniana, un buco nero in cui sparivano i prigionieri politici. Circolavano molte storie sugli orrori che si consumavano nella prigione. Dall’esilio in Francia l’ayatollah Khomeini ha ripetutamente condannato lo scià per i crimini della sua polizia segreta. Ha fatto appelli per la liberazione dei prigionieri politici e la fine delle torture. Fu salutato come un liberatore, leader spirituale, paragonato a Gandhi. Dopo poche settimane al potere, Khomeini ha rivelato la sua vera natura. Ha istituito tribunali rivoluzionari con a capo l’ayatollah Khalkhali. È seguito un regime di terrore e arresti arbitrari, esecuzioni sommarie e la sistematica epurazione di dissidenti politici e religiosi. La rivoluzione ha tradito il popolo iraniano e ha iniziato a distruggere i suoi figli. Il fantasma di Khomeini continua a occupare l’Iran a Evin, Kahrizak e altre prigioni. Zahra’s Paradise è uno strumento per esorcizzare il fantasma di Khomeini, abbattendo i cancelli di Evin nella speranza che nessun altro sparisca in quelle celle della disperazione. Il cambiamento comincia immaginando alternative alla realtà. L’inizio della protesta è

Alcune strisce di «Zahra’s Paradise. I figli perduti dell’Iran», adesso un volume edito in Italia da Rizzoli Lizard

INTERVISTA ■ AMIR E KHALIL PRESENTANO IL LORO «ZAHRA’S PARADISE»

Dal cimitero al sogno. Viaggio «verde» nell’Iran che urla

la promessa di libertà che il supremo leader dell’Iran cerca di distruggere. Proteggere questi Mehdi è un dovere. Dove sarebbe il mondo se avesse dimenticato e abbandonato un altro Mehdi, Nelson Mandela? ●Cosa vi ha dato il coraggio di scrivere «Zahra’s Paradise» nonostante i rischi che avreste potuto correre a causa di questo regime? A: Da studente, poi da attivista dei diritti umani, ho provato in tutti i modi a demolire la prigione di Evin, facendo luce sui crimini che si commettevano lì dentro. Lettere all’Onu, petizioni al presidente Khatami, articoli sui giornali, conferenze. È stato tutto inutile, come un urlo muto. È come se un lupo, travestito da religioso, avesse fatto irruzione a casa mia, l’Iran, senza che nessuno sembrasse accorgersene o interessarsi della tragedia che si stava consumando nel paese. Zahra’s Paradise è uno specchio. Attraverso il libro lettori ed editori hanno mandato un messaggio forte. Dall’Italia alla Corea, dalla Germania alla Turchia stanno mettendo allo scoperto i lupi. Il mondo si occupa della sorte e del futuro dell’Iran. C’è un vero senso di unità. Presto o tardi i cancelli della prigione di Evin crolleranno come il muro di Berlino. ●A quali pericoli potevate andare incontro? K: Da quando è iniziata la serie di strisce sul web, nel febbraio 2010, abbiamo ricevuto molti messaggi minatori, pensiamo che il mittente sia il governo, come le tante dichiarazioni per screditare il nostro lavoro in Iran. Per noi questi sono complimenti, indicano che la nostra graphic novel non sta lasciando indifferenti le autorità. Siamo spaventati per la nostra sicurezza personale e dei nostri cari, per questo abbiamo nascosto le nostre identità. Il governo iraniano è molto spietato con chi osa denunciarlo. Grazie all’anonimato siamo stati liberi di dire la verità senza autocensurarci. ●Cos’è cambiato dopo l’onda verde? Che segni ha lasciato nella società iraniana? A: La vita in Iran è imprevedibile e paradossale come sempre. Gli iraniani sanno che il cambiamento è in cammino. Il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, ha distrutto la sua legittimità religiosa e politica.

stato un momento importantissimo, volevamo descrivere la gioia, c’era una grande energia, la volontà di connettersi con il resto del mondo attraverso Skype, Facebook, Twitter, la censura in Iran è tale che controlla tutti i canali di comunicazione. Per questo la gente comune prova a fare da sola giornalismo. ●Com’è nato il soggetto della storia? Khalil: Abbiamo visto un video su Youtube in cui una madre piangeva il figlio durante la sepoltura al cimitero di Zahra, ma abbiamo raccontato una storia di finzione per non far rischiare la donna. In quella fase la censura è stata molto repressiva, era straziante non sapere cosa fosse successo ai propri cari, cercati fra ospedali e obitori. Molti parenti manifestavano fuori dalle

prigioni mettendo in pericolo la propria vita. La loro resistenza è stata una lotta. Il paese ha la volontà e la forza di reagire. L’Iran migliore ora è in prigione, ma ha sentito il sostegno e il calore del mondo e questo può trasformare in luce il buio delle prigioni. Zahra’s Paradise serve a ricordare i caduti, per non dimenticare. C’è chi vuole rimuovere la memoria e nascondere tutto. La scelta del bianco e nero rende il realismo del dramma e documenta il senso di realtà. ●Come avete seguito l’onda verde dall’estero? A: Attraverso i resoconti della gente e la magia di internet. A tutti i giornalisti è stato proibito di seguire le manifestazioni, ma molti dimostranti coraggiosi hanno scattato foto e realizzato video, come

quello che ha mostrato l’uccisione di Neda. Sono stati diffusi su Facebook e altri social media. Anche i leader dell’opposizione si sono fatti sentire su ciò che stava accadendo dopo il voto farsa. Karroubi, che ha avuto il coraggio di denunciare lo stupro e l’omicidio di alcuni prigionieri politici, ha avuto gravi ripercussioni. Se un primo ministro, una figura pubblica che rappresenta milioni di elettori, può essere spogliato delle elementari protezioni legali, religiose e politiche, figuriamoci quale può essere il trattamento riservato a figure più oscure come Majid Tavakoli, leader studentesco, Bahareh Hedayat, attivista per i diritti delle donne, e centinaia di altri detenuti a Evin, Vakilabad e in altre prigioni. Difenderli non è questione di amicizia. Loro custodiscono le chiavi delle porte del futuro dell’Iran,

Le strisce sul web, poi il libro. Ora gli autori temono per la loro incolumità. «È solo questione di tempo, il marchingegno del potere crollerà»

Come altri califfi prima di lui, è diventato schiavo del suo esercito piuttosto che servitore del suo popolo. Corrompe le guardie rivoluzionarie in cambio di protezione. L’ayatollah governa il paese in virtù dei voti di un branco di amici, i cosiddetti esperti religiosi. Ha anche un’altra dozzina di amici nel consiglio dei guardiani, un politbureau religioso specializzato nel manipolare le elezioni screditando i candidati alla presidenza e al parlamento. Questo intero edificio è sostenuto dalla frode e dalla forza. È solo questione di tempo prima che l’intero marchingegno cominci a crollare. L’ayatollah ha usato Ahmadinejad come cane da guardia contro i suoi nemici riformisti, il precedente establishment rivoluzionario, e ora sta cercando di sbarazzarsene prima che gli si rivolti contro. ●Come sono arrivati i giovani iraniani alla «green wave»? K: I brogli elettorali sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo gli insulti e le umiliazioni subiti per oltre trent’anni, è arrivato il momento in cui la paura e l’intimidazione non sono stati abbastanza per tenere sottomesso un intero popolo. Lo testimonia ciò che sta accadendo in Medio Oriente e in Nord Africa. La tirannia e la corruzione del governo non possono durare ancora per molto dopo le rivolte della gente. ●Ci sarà un seguito a «Zahra’s Paradise»? K: Abbiamo in progetto di seguire il protagonista, Hassan, il blogger che scappa in Turchia, come tanti blogger e attivisti reali costretti a farlo per sopravvivere. Vorremmo vedere attraverso i suoi occhi cosa fanno gli iraniani in esilio a Istanbul, esplorare le possibili ripercussioni della Rivoluzione dei gelsomini e l’evoluzione della Primavera araba sul destino dei nostri personaggi in Iran. Un modo per raccontare la diaspora degli iraniani, una nuova etnia mischiata agli europei.


ALIAS 21 GENNAIO 2012

I FILM THE HELP DI TATE TAYLOR, CON EMMA STONE, VIOLA DAVIS. USA INDIA EMIRATI ARABI 2011

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Dopo il college una ragazza della buona società torna a casa determinata a fare la scrittrice. Siamo a Jackson, nel Mississippi anni ’60 e lo sconcerto da parte del suo giro di amicizie è grande quando si scopre che l’oggetto del libro ha come protagoniste le domestiche delle più importanti famiglie. Da ricordare che La calda estate dell’ispettore Tibbs è del ’67. L'ORA NERA 3D DI CHRIS GORAK, CON EMILE HIRSCH, DATO BAKHTADZE. USA RUSSIA 2011

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Due informatici americani si recano a Mosca per offrire una buona idea, ma scoprono di essere stati anticipati da colleghi svedesi e in più il pianeta diventa l’obiettivo di un devastante attacco extraterrestre. Terribili entità aliene, inizialmente invisibili agli esseri umani, vogliono impadronirsi della Terra, assorbirne tutta l’energia e distruggere così ogni forma di vita esistente. Oltre alle ambientazioni, alla partecipazione di interpreti russi, ucraini come il famoso attore di teatro Yuri Kutsenko, georgiani come Dato Bakhtadze. E c’è anche l’occasione di ascoltare hip hop moscovita. Il regista è stato art director tra gli altri di film come Paura e delirio a Las Vegas, Minority Report. SETTE OPERE DI MISERICORDIA DI GIANLUCA DE SERIO, MASSIMILIANO DE SERIO; CON ROBERTO HERLITZKA, OLIMPIA MELINTE. ITALIA 2010

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Presentato al festival di Locarno. Una clandestina che vive ai margini di una baraccopoli si barcamena per uscire dalla sua situazione con un piano ben preciso in cui vorrebbe coinvolgere anche Antonio, anziano malato e misterioso. SLEEPING AROUND DI MARCO CARNITI, CON ANNA GALIENA, DARIO GRANDINETTI. ITALIA 2008

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In un mondo dove si è persa la capacità di amare, dieci personaggi tra i venti e i quarantacinque anni intrecciano i loro destini tra sesso, droga, solitudine. Commedia amara e avveniristica. Dario Grandinetti è un famoso attore argentino che lavora abitualmente anche in Spagna (interprete di Parla con lei di Almodovar). SUCCHIAMI DI CRAIG MOSS, CON DANNY TREJO, NIC NOVICKI. USA 2011

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Parodia di Twilight dal regista di 40 anni vergine. Stella (Alissa Kramer) è costretta a scegliere fra l’egocentrico vampiro Edward e il licantropo Jacob. UNDERWORLD: IL RISVEGLIO (3D) DI BJÖRN STEIN, MÅNS MÅRLIND; CON KATE BECKINSALE, STEPHEN REA. USA 2011

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Quarto capitolo diretto da due registi svedesi specializzati in thriller. Dodici anni dopo l'eccidio che il genere umano ha operato contro vampiri e lycan, Selene si risveglia dalla lunga ibernazione con la quale era tenuta prigioniera dall'azienda biotecnologica Antigen e scopre di aver dato alla luce una figlia e condurrà una battaglia contro l'umanità. AGUASALTAS.COM DI LUÍS GALVÃO TELES, CON JOÃO TEMPERA E MARÍA ADÁNEZ. PORTOGALLO 2011.

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Pedro, un ingegnere inviato da Lisbona al villaggio Aguas Altas per costruire una strada, decide di creare un sito web dedicato al paese. Però a Madrid una multinazionale ha registrato lo stesso dominio per commercializzare un’acqua minerale e

SINTONIE richiede il pagamento di 500 mila euro come risarcimento. Inizia una battaglia: gli abitanti del borgo difendono il sito nonostante non sappiano neanche cosa sia internet e cominciano a cambiare modo di pensare, con un meccanismo da commedia che coinvolge sentimenti, stampa, televisione e governo. Come in altre commedie rurali (da «Svegliati Ned» di Kirk Jones a «Holy Water» di Tom Reeve) anche le zone più isolate cambiano grazie alla tecnologia o a eventi imprevisti. (s.s.) ALMANYA - LA MIA FAMIGLIA VA IN GERMANIA DI YASEMIN SAMDERELI, CON VEDAT ERINCIN, FAHRI OGÜN YARDIM. GERMANIA 2011

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Lontano dal «dramma dell'emigrazione» e dalla temibile commedia etnica è una sophisticated comedy di una regista trentenne, Yasemin Samdareli, tedesca di origine turca, fan di Lubitsch e di Guney, dai quali distilla humour dissacrante e memoria storica per il suo film d'esordio. Successo all'ultima Berlinale, Almanya ha registrato in Germania un record d'incassi (11 milioni di dollari). (m.c.) E ORA DOVE ANDIAMO? DI NADINE LABAKI, CON CLAUDE MSAWBAA, LEYLA FOUAD. FRANCIA LIBANO 2011

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La regista di Caramel si sposta in un villaggio arroccato tra i monti che anni di guerra hanno devastato riempiendo di morti il cimitero. Siamo in Libano ma potremmo essere in un luogo qualunque in cui religioni ed «etnie» diventano alibi per una guerra. Ma grazie anche a un prete e un imam sembra che ora si viva in pace, ma in paese arriva la televisione e con essa la notizia di nuovi scontri tanto da accendere gli animi. Labaki usa la leggerezza di battute, canzoni e colori accesi per affrontare un tema complesso e doloroso. Le donne, quando la guerra sembra inevitabile, decidono di fermare gli uomini chiamando bionde «signorine» e in loro troveranno splendide alleate. E se il sesso non basterà ci penserà l’hascisc a stordire gli uomini. Il senso dell’umorismo che è la dote più bella della regista le rende capaci di prendere in mano il destino del loro paese mettendo in ridicolo la voglia di combattere dei loro uomini. (c.pi.) L'ERA LEGALE DI ENRICO CARIA; CON PATRIZIO RISPO, CRISTINA DONADIO. ITALIA 2011

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Da parcheggiatore abusivo, Nicolino Amore (interpretato da Patrizio Rispo attore ma anche militante a tempo pieno) diventa il sindaco di Napoli e rende (nel 2020) la città ricca e famosa nel mondo: con la legalizzazione della droga si interrompono i guadagni di mafia e camorra, ridotti ormai in miseria. Mockumentary (finto documentario) satirico, con la partecipazione di illustri personaggi: Giancarlo De Cataldo, Pietro Grasso e Vincenzo Macrì magistrati dell’antimafia, Tano Grasso dell’antiracket, i giornalisti Bill Emmott dell’Economist e Marcelle Padovani, Carlo Lucarelli, Francesco Ferrante di Legambiente, Fabio Granata. Collegati anche Renzo Arbore e Isabella Rossellini. (s.s.) LE IDI DI MARZO DI GEORGE CLOONEY, CON RYAN GOSLING, PAUL GIAMATTI. USA 2011

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Incursione di profondità nell'immaginario americano di un cineasta che ha stile, George Clooney (qui scrive, dirige e interpreta): è Mike Morris, governatore democratico candidato alle presidenziali, l’«uomo nuovo», pacifista, fautore dello stato sociale, spudoratamente ateo. Ma nello staff covano corruzione e brama di potere. Thriller bipartisan dedicato al

più appassionante dei giochi, la politica, Ma finisce per ridurre tutta la storia Usa (Kennedy, Nixon, Clinton/Levinsky...) ai suoi moventi più «bassi», oscuri, patologici e casuali, rompendo con la sensibilità «liberal» se non proprio radical, che rese indimenticabile il filone «elettorale» new Hollywood anni '60 e '70 (r.s.) IMMATURI. IL VIAGGIO DI PAOLO GENOVESE, CON RAOUL BOVA, AMBRA ANGIOLINI. ITALIA 2011

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Se il primo Immaturi poggiava su una ideuzza debole, ma efficace, quella dei quarantenni obbligati a ripetere la maturità, arrivati al (troppo) rapido sequel, la trovata si dimostra fragile e non trova nella sceneggiatura, che prevede un viaggio tutti insieme in Grecia, il modo per sviluppare ulteriormente caratteri e situazioni. La partenza è particolarmente buona, ritmo serrato, battute giuste, gli attori funzionanti. Appena si parte per Paros gli immaturi si scontrano con la tragica realtà della commedia italiana e delle sue macchine di scrittura non così perfette. Quando scivola nel film di viaggio e si affaccia l'effetto cinepanettone o l'effetto dei viaggi in Grecia dell'epoca Muccino, la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti e la regia, pur attenta e veloce, non riesce a rimettere le cose a posto. Tutto affoga nella noia. (m.g.) L'INDUSTRIALE DI GIULIANO MONTALDO, CON PIERFRANCESCO FAVINO, CAROLINA CRESCENTINI. ITALIA 2011

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Il proprietario quarantenne di una fabbrica nella Torino colpita dalla crisi economica cerca di evitare la chiusura. Il lucido intervento di Montaldo porta a scoprire il vero volto del capitalista legato a interessi personali messi in scena sotto forma di crisi coniugale, più che ad autentica preoccupazione verso la sua forza lavoro. Ritratto che smaschera con precisione una classe padronale gretta e in ogni caso ben attenta al suo interesse personale, sia di piccolo cabotaggio che di antiche tradizioni. Film politico nel cuore (Torino) del vecchio capitalismo in bancarotta. (s.s.) KABOUM DI GREGG ARAKI; CON THOMAS DEKKER, HALEY BENNETT. USA 2010

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Tra il college movie e la fantascienza lisergica, omaggio dichiarato al cinema di John Waters che il regista califoriano, icona del cinema indie più irriverente adora fin da ragazzo, Kaboom ritrova le passioni dei primissimi film di Araki però dentro una visione nuova, scatenatissima e di totale libertà espressiva. Immagini e storia mischiano allegramente umorismo, commedia, complotti mistici, beach movie, stravolgimenti in rete, premonizioni da social network. Un film da non perdere. (c.pi.) MIRACOLO A LE HAVRE DI AKI KAURISMÄKI con ANDRÉ WILMS, KATI OUTINEN, FRANCIA - 2001

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Marx, scrittore bohémien in esilio volontario al suo banchetto di lustrascarpe, in una Francia perfetta per il poemetto dedicato a Idrissa (Blondin Miguel) un ragazzino africano sbarcato da un container. Kaurismaki disegna le coordinate dell'avventura «extracomunitaria», Idrissa nascosto nell'armadio, dentro un carretto, dietro una porta mentre il lustrascarpe, malvisto fino a quel momento dal vicinato, diventa la primula rossa di Le Havre e come in un musical orchestra l'opera di soccorso corale. Il film lievita nel suo esilarante tocco. Con i tratti leggeri di matita, Kaurismaki disegna il suo presepe laico - il miracolo è tutto umano - e dà il via a un thriller

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A CURA DI FILIPPO BRUNAMONTI, ANTONELLO CATACCHIO, MARIA CIOTTA, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, CRISTINA PICCINO, ROBERTO SILVESTRI, SILVANA SILVESTRI

IL FILM emozionante, gioco di equivoci e tranelli, «realismo poetico» con humour. (m.c.) NON AVERE PAURA DEL BUIO DI TROY NIXEY, CON KATIE HOLMES, BAILEE MADISON. USA 2011

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Alcuni anni orsono, 1973, la teleplay con protagonista Kim Darby (Don’t Be Afraid of the Dark) incantava (o traumatizzava) un bambino di appena dieci anni, Guillermo Del Toro che ha continuato a sognare il progetto di un remake espanso fino all’incontro con Troy Nixey dal backround fumettistico. Con la sua regia e la sceneggiatura di Del Toro e Matthew Robbins fanno di quest’oggetto filmico una piccola imbarcazione sperimentale. In un maniero vittoriano il padrone nutre diaboliche creature. Un secolo dopo arriva una coppia con la piccola Sally. Il suo essere «molto piccola» strega le creature che infestano ancora la residenza. Ma Nixey non è Del Toro: gli occhi sono per intero fanciulleschi ma la fantasia di Sally è sostanzialmente impotente. (fi.bru.) SHAME

DI STEVE MCQUEEN; CON MICHAEL FASSBENDER, CAREY MULLIGAN. USA 2011

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Secondo approfondito studio dark dell’artista nero britannico McQueen (dopo Hunger) sulle prigioni, questa volta un carcere autoimposto, duetto tra imprigionati consanguinei, fratello e sorella sul disagio di vivere che non si incontrano mai. Brandon è prigioniero della sessuomania, Sissy ha passato la vita a tagliuzzarsi le braccia. Alle loro spalle si immagina un terrificante passato di molestie in famiglia. Fino a un tuffo gay anni ’70 nei vicoli della metropoli, rendendo comsumistica la visione omosessuale del mondo. Fassbender è all’altezza di questo personaggio e aggiunge tonalità inedite allo yuppy in crisi. Il film in fondo ci rassicura: il male si vince sempre. (r.s.)

BENVENUTI AL NORD DI LUCA MINIERO, CON CLAUDIO BISIO, ALESSANDRO SIANI. ITALIA 2012

I sequel, si sa, hanno raramente la stessa forza dell'originale, Certo, Benvenuti al Nord non è quel piccolo capolavoro di freschezza e di commedia che era Benvenuti al Sud, sempre diretto da Miniero. Era difficile mettere in piedi il sequel di un remake con lo stesso tipo di meccanismo. Fabio Bonifacci, che ha scritto questo sequel assieme a Miniero indirizza il film verso i modelli della commedia Cattleya (Amore, bugie e calcetto, C'è chi dice no) piuttosto che verso qualcosa che mescoli commedia e sguardo sulla realtà italiana. Detto questo per tutta la prima ora si ride parecchio. Miniero ha dalla sua attori meravigliosi. Dai protagonisti Bisio e Siani, ormai del tutto a proprio agio, alle mogli, una Finocchiaro che fa ridere con uno sguardo e una Valentina Lodovini bellissima e credibile come napoletana, ai caratteristi che rinforzano ogni scena del film e ne formano la grande risorsa comica. Nando Paone, Giacomo Rizzo, la mamma Nunzia Schiano oltre ai nuovi venuti milanesi che ben si amalgamano alla situazione. Alla fine Miniero porta a casa un sequel che non era affatto una riuscita scontata e gioca in trasferta (Milano). Con alcune notevoli trovate: Bisio che si liscia davanti allo specchio il ciuffo che non ha, Paone che gioca con lo stecchino assieme a Giacomo Rizzo come la grande coppia che hanno formato (sembrano Beniamino Maggio e Alberto Sorrentino o Pietro De Vico e Franco Sportelli che erano dei grandi negli anni '50), Siani che si prende sempre qualche secondo prima di rispondere ai milanesi, come a far capire che sta decifrando. E non c’è neanche un comico romano. (m.gi.)

IL FESTIVAL INTERNATIONAL FILM FESTIVAL ROTTERDAM 25 GENNAIO - 5 FEBBRAIO

Al festival di Rotterdam, a cui daremo maggiore spazio nel prossimo numero di Alias, è stato selezionato per il concorso il film di Stefano Manuli La leggenda di Kaspar Hauser. Altri film italiani in programma: Il silenzio di Pelesjan di Pietro Marcello, L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, L’ultimo terrestre di Gianni Pacinotti, presentato a Venezia e si vedranno gli storici film Anna di Grifi e Sarchielli, Pasolini un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, Franco e Ciccio, come inguaiammo il cinema italiano di Ciprì e Maresco. In programma 250 film da tutti i continenti, film d’apertura 38 témoins di Lucas Belvaux, tra gli altri autori Michel Gondry, Wang Xiaoshuai, , Miike Takashi, Rasoulof, Tsukamoto, Kaurismäki, Andrea Arnold, Steve McQueen, Bressane, Kobayashi, Peter Kubelka. Un omaggio a Raul Ruiz è Copia imperfecta del regista cileno José Luis Torres Leiva che rimase folgorato da La ville de pirate. Del regista scomparso quest’estate si vedrà Ballet acquatique, uno dei suoi ultimi lavori (2011) e un ritratto del pittore francese Miotte (2001). In programma anche una personale del regista e storico finlandese Peter von Bagh. (s.s.)

LA RIVISTA

SHERLOCK HOLMES: GIOCO DI OMBRE

FILMCRITICA

DI GUY RITCHIE, CON ROBERT DOWNEY JR., JUDE LAW. USA 2011.

Nel numero appena uscito di Filmcritica grande spazio teorico è dedicato dalla rivista (e da Andrea Inzerillo che ne cura i tagli e il montaggio), all’intervista di Serge Daney, tratta dal video a cura di Régis Debray, una sorta di testamento a pochi mesi dalla morte, oltre a vari estratti dalla trasmissione che lo stesso Daney, per il quale l’intervista era un laboratorio non meno importante della critica, curò per France Culture dal titolo Microfilms, da cui si trarranno vari estratti da interviste a Rohmer, Van Der Keuken, Assayas, Duras. Da questo numero la rivista inizia la pubblicazione dei vari testi. Tra gli interventi critici grande spazio è dedicato a Spielberg (Le avventure di Tintin - Il segreto dell’Unicorno), al Faust di Aleksandr Sokurov, a Un Héritier di Jean Marie Straub, a Pina 3D di Wim Wenders. Il regista Oliver Hermanus, autore di Skoonheid (Bellezza, presentato a Cannes) svela a Valeria Caravella le chiavi per interpretare il vecchio e il nuovo Sud Africa, attraverso la storia di un’omosessualità celata. E poi ancora Cronenberg (A Dangerous Method) e Gus Van Sant di Restless a cui era dedicato in gran parte il numero precedente. (s.s.)

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Ispirato al fumetto di Lionel Wigra, ecco il sequel semi-gay delle neoavventure di Holmes e Watson, questa volta contro l'arcinemico, il prof. Moriarty. Siamo nel 1891. La misoginia di Doyle, incolpevole, ma sempre ispiratore, ha travolto la nuova coppia di sceneggiatori (Kieran Mulroney e sua moglie Michele) che si sbarazzano di donne, zingare o meno, con nonchalance. Ritmo e sviluppo visuale sono da videogame. L'aspetto più divertente è nei travestimenti di Sherlock Holmes magnifici quando si mimetizza nell'ambiente circostante. Bisogna abbandonarsi al flusso Guy Ritchie e al duetto giocoso Downey jr-Law, più Stephen Fry l' imperturbabile fratello di Holmes. (a.ca.) LA TALPA

DI TOMAS ALFREDSON; CON GARY OLDMAN, COLIN FIRTH. USA 2011

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John Le Carré, borghese inglese che ha passato la vita a proteggersi dai germi del comunismo dittatoriale (e non più proletario) diventa tra le mani di Tomas Alfredson il più estenuante, ripetitivo e complicato, opaco nei colori e indigesto film di spionaggio. Ambientato nel ’73, la cupola dei servizi segreti di sua maestà ha una pericolosa talpa al suo interno. A Smiley (Oldman) il compito di trovarlo e sarà molto difficile perché tra doppi e tripli giochi la Cia sta organizzando la mossa Allende per non parlare del Vietnam. I cultori di spy story apprezzeranno lo stile recitativo, tutto a togliere di Hurt, Oldman e Firth. (r.s.)

MAGICO

DICEMBRE 2011, N.620

LO STORYTELLER JOHN BERGER A CURA DI MARIA NADOTTI. MARCOS Y MARCOS EURO 25

Di John Berger, nato a Londra nel 1926, da tanti anni trasferitosi in Svizzera, ormai viene tradotto tutto, saggi, romanzi, interviste, pamphlet e diari fotografici, dopo qualche anno di eclissi (gli 80 e i primi anni 90). Critico d’arte, poeta, giornalista, romanziere, sceneggiatore («Jonas che avrà 20 nel 2000», per esempio), viaggiatore, «cantastorie» come piace definirsi, perfetta sintesi di talento, mestiere, umanità, sensibilità e sguardo rivoluzionario, Berger viene adesso festeggiato da quaranta scrittori e amici, scrittori, filmaker, fotografi, uomini e donne di teatro di tutto il mondo che, coinvolti volentieri da Maria Nadotti, ne spiegano la grandezza pubblica e la magia privata in pagine preziose e impreziosite da un corredo fotografico «intimo» e inedito che dobbiamo alla figlia Katya, scrittrice e acuta critica d’arte anche lei. Come scrive Geoff Dyer, e come può sottoscrivere Alias che lo ebbe tra i suoi collaboratori, «chiunque lo abbia visto in azione avrà osservato la sua inesauribile capacità di dare». E tra quelli che lo frequentarono ricordiamo Togliatti («Il Contemporaneo»), il subcomandante Marcos, i palestinesi, Rusdhie, Arundhati Roy, i cineasti Robert Kramer, Davide Ferrario e Isabel Coixet, Elena Poniatowska, gli emigranti italiani in Svizzera...(r.s.)


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ALIAS 21 GENNAIO 2012

INCONTRI ■ L’AUTORE DE «IL POPOLO DEL BLUES»

Amiri, la rivolta è un’arte Baraka è tra gli scrittori, poeti, critici afroamericani più influenti della storia. «I miei testi aiutano a difendersi dai guai del mondo» di LUIGI CINQUE

Amiri è un piccolo marziano. Non dà l’idea d’essere ancora sceso dall’astronave. Continua a viaggiare. Sorride. «Il passato e il futuro - mi dice - sono solo una speculazione del presente». Viene da lontano. Nel 1961 con il nome di LeRoi Jones scrive Preface to a Twenty-Volume Suicide Note (Prefazione a una nota suicida in venti volumi). È la sua prima collezione di poesie. Da poco ha fondato insieme alla moglie la Totem Press, casa editrice che pubblica, tra gli altri, opere di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Siamo in uno dei periodi più complicati della storia sociale Usa. LeRoi è un nero di Newark. E i neri sono in gioco per i diritti civili, quelli veri. Si agitano. Bruciano. Aderiscono in massa, nei ghetti, alla religione islamica. Un’Islam blues, si capisce, metropolitano, con spazi per il solista, ma quel che conta è avere un dio diverso dai bianchi, dai padroni, un dio affidabile che li riconosca come fratelli neri, separati e uguali, anzi più belli, dal resto del mondo. Siamo nell’America di Malcolm X. «Se ti trovassi mai in un posto/perduto e circondato dai nemici/che non vogliono/che tu parli la tua lingua/che màcerano le tue statue e gli attrezzi/che proibiscono il tuo um bum ba bum (…. )/be’! Probabilmente ti ci vorranno diverse centinaia d’anni per venirne fuori!» (Amiri Baraka. Saggio 1). C’è da correre per venirne fuori. È vero. Ma gli afroamericani vanno veloci. Soprattutto in quella che è la loro storia, la loro possibilità: la musica. Sono gli anni in cui Ornette Coleman con sette angeli musicanti - come qualcuno disse - incide Free Jazz: A Collective Improvisation. Siamo alla rottura del tonalismo, al flusso di coscienza in musica, alla creazione istantanea, al martirio edipico del compositore. E il bello è che, per altre vie, i neri si ritrovano nelle stesse acque dell’avanguardia bianca dell’emisfero settentrionale. Non a caso la copertina di Free Jazz è un’opera (White Light) di Jackson Pollock vate dell’action painting, morto solo quattro anni prima. Intanto Miles Davis, con altri angeli che osavano avere nomi tipo John Coltrane e Cannonball Adderley o Bill Evans, incide (nel ’59) il leggendario Kind of Blue che nella breve e intensa storia del jazz possiamo già definire una questione neoclassica, ovvero, il recupero di

antiche scale modali applicate alla tecnica e all’alchimia del jazz. LeRoi in quegli anni partecipa all’avventura della «beat generation». È il movimento artistico che esalta, tra l’altro, il rapporto tra letteratura e jazz; che indipendentemente da colore, razza, sesso e simili, interpreta - on the road - il disadattamento vero; che svela alla poesia quell’America patinata, razzista, mafiosa, puritana - ancora maccartista - capace di combattere i movimenti bombardando i ghetti (e i giovani) di «roba pesante», eroina; un’America pronta (come spesso Amiri scriverà) ad assassinare, tra gli altri, JFK e suo fratello, Malcolm e Luther, e così tantissimi altri fino a Lennon, fino alle Twin Towers, tra una guerra e l’altra. Verso il neoliberismo petrol/bancario, spietato, di oggi. Nel 1963 LeRoi scrive il saggio Il popolo del blues. È il racconto dell’intreccio che lega il blues e il jazz alla vicenda umana dei neri americani. In poco tempo Blues People: Negro Music in White America diventa un manifesto letterario-musicale. E pone (non è il solo) la questione dell’estetica nera. Scriverà Amiri in una recente introduzione alla ristampa del volume (Shake edizioni, in Italia): «Non vogliamo più nessun Nietzche a dirci che la sensazione ostacola il pensiero. Per noi neri ciò che non può sentire non può pensare. La massima intelligenza sta nel ballo, non nella pubblicità delle scuole di ballo. Il pensiero massimo è concreto, vivo, non astratto». Mi dice durante il nostro incontro: «Attraverso la musica si può dire moltissimo, forse tutto, di un popolo». Fa un piccolo salto logico e aggiunge: «Io vedo l’arte come un’arma… forse, oggi, l’unica vera arma di cambiamento e di rivoluzione. Anche per una rivoluzione in senso marxista». Dopo l’assassinio di Malcolm X (’65), LeRoi prende il nome di Amiri Baraka e abbraccia la causa estrema del Nazionalismo nero. Ma il suo sguardo sarà sempre sostenuto da profonda intelligenza critica. Al punto che il radicalismo diventa metodo filosofico, cambia la prospettiva, inverte la logica, guarda dalla parte degli esclusi, di tutti i «nigger» del mondo. Del resto, senza la «negritudine» e il meticciato dell’«emisfero settentrionale», senza quella capacità di trasfusione, senza quella energia e istinto con la quale hanno


ALIAS 21 GENNAIO 2012 L’UOMO CHE RESE CIECHI BACH E HÄNDEL di FRANCESCO ADINOLFI

La storia di John Taylor è incredibile. Vissuto dal 1703 al 1772 è stato uno dei primi chirurghi oculari britannici (e della storia). O meglio fingeva di esserlo; così come si era autoproclamato Cavaliere, chirurgo personale di re Giorgio II, del papa e di altre famiglie reali europee. In realtà era solo un imbonitore, un gran donnaiolo, un pubblicitario ante-litteram; annunciava la sua visita nelle principali città europee facendo affiggere manifesti e distribuendo volantini. Viaggiava in una carrozza decorata da enormi bulbi oculari e sopra l'iscrizione:

Due immagini di Amiri Baraka, accanto John Taylor

rinnovato la tecnica e la chimica del ritmo, dell’armonia, del racconto, dell’astrazione, senza tutto ciò, il Novecento - in arte, soprattutto – sarebbe stato molto più povero e triste. Amiri è arrivato a Roma da tre ore. Siamo in una stanzetta della Casa del Jazz. È in tournée Europea. Fra poco assisteremo a una straordinaria lettura. Lo accompagna Dave Burrel al piano. Nel reading, la sua voce dall’intonazione perfetta (l’intonazione è tutto per un oral poet) correrà per lo spazio siderale tra il canto di Congo Square (lo slargo dove si riunivano la sera e i giorni di festa gli schiavi della piantagione, ndr) e il blues, il bebop, il rap, l’atonale. Beve un caffè. Silenzio. Ho in mano alcune sue poesie. La traduzione italiana è di Raffaella Marzano. Leggo un frammento: «Supponete, di esservi svegliati una mattina/E c’era il vampiro alla televisione/Intervistato da un negretto scemo/Un bel sorcio, per il quale l’idea di cervello era solo un’idea,/che non pensava, se ce la faceva a pensare, fosse cattiva./E lo scemo era un assassino che ancora non si era laureato/alla scuola degli assassini /così adorava il dente del vampiro/le due succose zanne che pendevano ai lati delle labbra/il negro pensava fosse figo e sognava di avere denti come quelli/così avrebbe potuto essere un sorcio,/era stanco di essere un semplice stronzo» (da Fashion this.) ●Oggi sei autore di più di 40 libri di saggi, poesia, teatro, storia della musica e critica, e sei un’icona e un attivista politico e sei anche, a tuo modo, un rapper. Come ti descriveresti? Se hai una visione, diciamo, africana, del mondo puoi anche considerare di essere molte cose contemporaneamente. Molti sguardi diversi. Ogni cosa sulla terra è viva e ogni cosa esistente è parte della stessa realtà. Anche lo sguardo, dunque, può mutare forma a seconda che guarda una rana o il presidente degli Stati Uniti che beninteso sono simili

perché parte di un tutto. ●Visione africana? Quelli del rock and roll (così Amiri definisce la cultura borghese dell’emisfero settentrionale, nda), hanno chiamato «selvaggio» chi credeva che «ogni cosa è tutte le altre». Invece sia la ciambella sia il buco sono la stessa cosa, sono semplicemente spazio. Ed io sono lo spazio che occupo. «Chi ha ammazzato Malcolm, Kennedy e suo fratello/Chi ha inventato l’Aids/... (…) Chi campa su Wall Street (…) Chi sapeva che la bomba stava per esplodere (…) Chi sa perché i terroristi impararono a

volare a San Diego in Florida (…) Chi sapeva che il World Trade Center sarebbe stato bombardato, Chi fa soldi con la guerra, Chi fa grana su paura e menzogne, Chi vuole il mondo così com’è (…)(da Somebody Blew up America, Qualcuno ha fatto saltare l’America, Amiri Baraka 2001). Somebody Blew è un testo caldo. Tra l’altro, quel chi, ripetuto, ci ricorda qualcosa di familiare. Ha la stessa misura dell’Io so di Pasolini (lettera al Corriere della Sera, 14 novembre 1974): «Io so i nomi dei responsabili (…) Io so il nome del vertice che ha manovrato(…). Ma bisogna ascoltare Somebody Blew, cantata da

BIOGRAFIA DI UN MARZIANO DEL JAZZ

IL SUONO INVINCIBILE DELLE PAROLE. FUORI I DISCHI DELL’ETERNO SCIAMANO Ha bisogno di agganci con l’attualità Amiri Baraka? Sì e no. Come intellettuale, performer, poeta, scrittore, saggista, critico jazz, editore, uomo politico, agitatore la sua figura si è sempre stagliata all’interno di un determinato (e cogente) tempo storico, fin dagli ultimi anni ’50 in un arco che va dalla Beat Generation a Barak Obama. Eppure Baraka - soprattutto nei suoi reading con musicisti - mette in circolazione un potere sciamanico palpabile, un potere della parola e della musica che scuote e travolge l’ascoltatore. In lui la parola si fa suono e viceversa, il tempo assume una dimensione circolare e la lotta contro lo strapotere della finanza si salda con la drammatica vicenda della schiavitù. Allora andiamo a risentirlo, Amiri Baraka, negli album con il percussionista Sunny Murray (Black Art, 1965), il New York Art Quartet (Black Dada Nihilismus, 1970), il tenorista David Murray ed il batterista Steve McCall (New Music New Poetry, 1980), nel sestetto con Archie Shepp, Roswell Rudd, Grachan Moncur III, Reggie Workman ed Andrew Cyrille (nel cd We Are the Blues), nel progetto di William Parker «The Inside Songs of Curtis Mayfield» (in Live in Rome, 2007), con il settetto Dinamitri Jazz Folklore (Akendengue Suite, 2008). Una goccia nell’oceano delle performance di Baraka che si possono vedere in www.amirimusic.com (The Amiri Baraka Discography Project). (luigi onori)

Amiri, come un blues, per ritrovare l’analogia con il poeta friulano. La pagina non basta. Glielo dico. Amiri sorride. Sorride, finisce il caffè e aggiunge: «L’idea di fondo della poesia civile è di aiutare la gente a comprendere davvero il mondo in cui viviamo, di promuovere una rivoluzione che cambi la società. Quanta gente oggi si trova nei guai a causa dei mercati borsistici o paga per le logiche di una società imperialista?». ●Com’è il rapporto tra musica e parola… per un poeta? La musica rende le parole più accessibili, più efficaci. I cantanti conoscono bene la questione. E poi… è la nostra storia di afroamericani. Bisogna valorizzarla. Oggi le parole della poesia hanno bisogno di essere pronunciate ad alta voce, di essere declamate, cantate, amplificate, hanno bisogno di riprendersi tutta la loro sacralità. E anche nello scrivere dobbiamo essere coscienti che quando si scrive poesia, si scrive musica. Ci sono i registri, le scale, le tonalità possibili, le sillabe che richiamano certe intonazioni, parole che di per sé hanno socialmente un loro suono. ●Tornando al blues c’è una affermazione di Alan Lomax, uno dei più importanti ricercatori e studiosi del mondo afroamericano e soprattutto delle radici del blues, che dice: «L’hanno chiamata l’età dell’ansia ma forse sarebbe meglio definire il Novecento, il secolo del blues. Il blues è diventato il genere musicale più familiare alla modernità perché oggi tutto il genere umano comincia a sperimentare la stessa malinconia dei neri della terra del blues, quel

«Il blu è il colore dei vestiti che si usavano nelle feste dell’Africa occidentale; negli Usa diventa il colore della perdita e della memoria. Blues viene da lì, e si adatta al disagio sociale della modernità»

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«Qui dat videre dat vider», colui che dà la vista, dà la vita. Era «specializzato» in interventi - anticipati da lunghi sermoni autoincensatori - per l'eliminazione delle cataratte, il processo di opacizzazione del cristallino, la lente naturale dell'occhio che con il tempo perde trasparenza, si oscura e toglie la vista. Sotto i ferri di Taylor - che si allontanava dalle città prima che i pazienti togliessero le bende - caddero anche Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel, resi ciechi dal chirurgo che confesserà di aver contribuito alla perdita della vista di centinaia di persone. Inoltre, sanguinamenti e lassativi - le cure del tempo e dello stesso Taylor, per far fronte alle infezioni post-operatorie - debilitavano in maniera terminale i pazienti. (fonte Richard H. C. Zegers, «The Eyes of Johann Sebastian Bach», http://archopht.ama-assn.org/cgi/content/full/123/10/1427)

senso di anonimia e alienazione, l’assenza o la precarietà delle radici, la sensazione di essere merci più che persone…». Il blu è il colore dei vestiti che si usavano nelle feste dell’Africa occidentale, in Guinea; negli Usa diventa il colore della perdita, il colore della memoria, capisci cosa voglio dire? Blues viene dal (colore) blu, cioè dalla bellezza perduta della vita africana. Come non poteva questo adattarsi al disagio sociale della modernità… del neocapitalismo selvaggio di oggi… del furto di identità e del futuro dei giovani? ●Come lo dobbiamo definire il legame tra blues e jazz? C'è una canzone cantata da Julie Wilson che dice, ’Se non era per il blues non esisteva il jazz’. Questo è il legame più chiaro e semplice. ●Due figure simbolo del jazz: Louis Armstrong e Miles Davis. Louis Armstrong… penso che tanta gente ha sbagliato a considerarlo una persona sottomessa. Non è così. E se hai mai ascoltato le sue interviste, puoi capire che era molto consapevole di essere in una posizione sottomessa, capisci? Ma lui, non era stupido, pensava che era meglio sottomettersi perché questo gli permetteva di fare quello che voleva fare: suonare. E non c'è dubbio che Louis Armstrong era il più grande musicista del suo tempo, senza dubbio. Quando era giovane, lui era il migliore. ●Quando il Movimento nero diventa più antagonista, cosa pensa di Armstrong? Un intrattenitore di bianchi, un cattivo esempio, uno zio Tom? I più giovani si risentivano del fatto che Armstrong era ritenuto troppo sottomesso agli Stati Uniti. Ma non era vero. Lui era nato in un'epoca così, era nato nel 1900, capisci? Mentre negli anni ’50 e ’60 c'era una estetica diversa e un atteggiamento politico più consapevole. Certo loro non capivano Louis, perché Louis sorrideva sempre, era sempre gradevole. Ma penso che due cose

hanno risvegliato la gente sul vero Louis Armstrong. La prima fu quando i bambini neri provavano a entrare - contro la segregazione che di fatto ancora esisteva - a Little Rock High School e il presidente Eisenhower faceva delle dichiarazioni, allora Louis gli rispose pubblicamente, dicendo, ’Lei si dovrebbe alzare in piedi da uomo e dovrebbe andare a portare quei bambini a scuola’. In questa reazione fu molto diverso da quello che si pensava di lui. Questo ha aperto gli occhi a tanti. Anche ai Panthers. Durante un'intervista che lui fece con Willis Conover (produttore jazz e conduttore radiofonico) a Washington alla presenza del suo manager, Joe Glazer, seduto accanto, Conover gli diceva, ’Louis, sei nel mondo della musica da più di 60 anni, dimmi come sei diventato così importante?’. E Louis rispose senza freni, ’Beh, quello che devi fare è trovare un uomo bianco e diventare il negro di quell’uomo bianco, non è vero Joe? Ha, ha, ha’. E lo disse direttamente al suo manager. Erano probabilmente 50 anni che voleva dire questa cosa! (ride, nda) Alla fine la gente ha capito chi era Louis Armstrong. Era tuo nonno che non poteva dire quello che puoi dire tu. ●E Miles Davis? Miles aveva una sua personalità particolare. Quando ero giovane ho provato a fargli un'intervista e non me l'ha concessa. Avevo circa vent’anni. Quarant’ anni dopo, l'ho intervistato per il New York Times. Lo aspettavo nel ristorante dell'hotel delle Nazioni unite e bevevo Courvoisier. Finalmente entrò Miles con quegli occhiali da sole da 500 dollari e mi disse, ’Ehi… l'uomo del mistero’. E io gli risposi, ’Tu sei l'uomo del mistero’. Ho sempre amato Miles, era il mio eroe culturale anche quando ero bambino. Quando provavo a imparare la tromba imitavo lui. Per molti di noi, della mia generazione, Miles era il simbolo della musica. Abbiamo perduto un po' di tempo ad apprezzare Louis Armstrong ma tutti apprezzavamo Miles.


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RITMI

INTERVISTA ■ LA BAND DI «MOLLY’S LIPS» PER LA PRIMA VOLTA LIVE IN ITALIA

The Vaselines, quei timidi scozzesi alla corte di re Cobain di CHIARA COLLI

Nel caso non vi fosse arrivata voce nel 1990, è certo che l’informazione, nell’ultimo anno, non può esservi sfuggita: i Vaselines erano la band preferita di Kurt Cobain. Il fan celebre, che ha reso l’allora semi-sconosciuto duo una band di culto grazie alle cover dei Nirvana di Molly’s Lips e Jesus Don’t Want Me for a Sunbeam, è come un tormentone in ogni trafiletto dedicato al ritorno della coppia di Glasgow. Un come-back segnato nel 2010 dall’album Sex with an X, uscito per Sub Pop (al 1989 risaliva il loro unico ellepì, Dum Dum) e in questi giorni con il primo passaggio dal vivo in Italia - a Roma, Torino, Pisa e Ravenna, dal 25 al 28 gennaio. Eppure, è con il candore di sempre che Eugene Kelly e Frances McKee ammettono di aver avuto pochi legami «dietro le quinte» con i Nirvana, seppur accogliendo con un sorriso la puntuale allusione alla band di Aberdeen. «Non sappiamo cosa abbia colpito Kurt Cobain, forse il modo di scrivere melodie, con un’energia positiva, o forse il miscuglio di voce maschile e femminile - racconta con tono pacato e un velo di timidezza Eugene -. C’era qualcosa di fanciullesco in noi, un’immediatezza, un’onestà, che credo apprezzasse». Ma diciamolo: quello di Cobain è solo un escamotage dei media per attirare l’attenzione (dei più). Perché, che il modo di fare musica indie - con metodi fai-da-te, leggerezza, ironia e un gusto pop irresistibile - di quella seconda metà degli Eighties britannici e, in particolare, con il piglio malizioso e a due voci dei Vaselines, abbia fatto scuola, è sotto gli occhi di tutti. I Vaselines sono, sì, una band un po’ più famosa di molte di quelle contenute nella gloriosa C-86 compilation (di cui non fanno parte), ma se ne distaccano per ambizioni profondamente più rumorose. «Non eravamo tanto influenzati da quella che divenne la C-86 compilation, a cui eravamo sostanzialmente affini per questioni temporali e geografiche. Piuttosto, guardavamo a band come Pussy Galore, Dinosaur Jr., Sonic Youth e Velvet Underground. Non sapevamo suonare come loro, ma volevamo quell’energia primitiva». Un percorso, quello dei Vaselines, da sempre guidato dalla spontaneità. Ai tempi della rottura - nel 1989, poco prima di diventare celebri grazie al discepolo grunge - come oggi. «Alla fine degli anni Ottanta era difficile, per una band indipendente come noi, andare avanti. La nostra etichetta 53rd & 3rd era fallita, la scena scozzese pop era come implosa, stava prendendo sempre più forma la rave culture e noi eravamo un po’ scoraggiati sul nostro futuro musicale. Sembrava non ci fosse via d’uscita, non riuscivamo a tirare avanti con la band. Ci siamo riuniti solo per un live nel 1991, in apertura ai Nirvana, ma il fatto che abbiamo avuto successo dopo esserci sciolti non ci ha mai dato rimpianti. Allora ci sembrava davvero impossibile tornare insieme, volevamo fare dell’altro. Ci è andata bene così». Senza forzature, e sicuramente grazie alla forte affinità tra Eugene e Frances, la storia riprende le fila a metà degli anni Zero,

La formazione britannica ha pubblicato da poco un nuovo album, «Sex with an X». L’influenza sul leader dei Nirvana e sulla scena indie

proprio quando l’indie lo-fi comincia a fare capolino nei blog di mezzo mondo. «Tutto è ricominciato per caso, nel 2006, mentre Frances ed io promuovevamo i nostri album solisti e, in un tour fatto insieme, ci trovammo a suonare qualche pezzo dei Vaselines, per puro divertimento. Poi, in una serie di live come The Vaselines nel 2008 (per beneficenza, o in occasione del ventennale della Sub Pop a Seattle, ndr), ci siamo accorti di avere poche canzoni da suonare dal vivo. Abbiamo provato a scriverne di nuove, cercando di capire se fossero ancora brani nel nostro stile. Ed è venuto tutto naturalmente. Del resto siamo sempre rimasti in contatto, e quella sensibilità ironica nel fare musica, è riaffiorata con facilità». Un’attitudine fanciullesca, che non può non fare i conti con i venti anni passati. «Ai tempi di Son of Gun e

Qui sopra Frances McKee e Eugene Kelly, in arte The Vaselines. In alto a destra The Clash

LENNON, GATTO DA LEGARE di ROBERTO PECIOLA

Meglio a casa con un animaletto da accudire che una vita con un capoufficio da odiare. E allora i Beatles ci danno la linea. Se Paul McCartney amava i cani tanto da dedicare «Martha My Dear» alla sua cagnolina, John Lennon stravedeva per i gatti. Ne ebbe molti. Dum Dum, c’era più leggerezza, anche perché non avevamo un pubblico, facevamo tutto solo per noi stessi. Con Sex with an X c’è stata più pressione, ma eravamo anche più consapevoli di cosa volevamo e coinvolti in tutto il processo di registrazione - rigorosamente analogico - e di produzione». Venti anni in cui l’influenza dei Vaselines si è fatta sentire dai Nirvana alle Dum Dum Girls, sebbene la band ne abbia (vagamente) preso coscienza solo negli ultimi tempi: «Quando abbiamo suonato in alcuni festival è stato incredibile, perché non eravamo più i ragazzini inesperti. Ma la band adulta!». E un’eredità, quella di certa Glasgow degli anni Ottanta - «c’era un discreto numero di band in quegli anni, noi ci sentivamo vicini ai Pastels, ma è stato solo nei primi anni Novanta che il concetto di scena, intesa come condivisione degli stessi spazi, è affiorato nella nostra città» raccolto dalle generazioni successive. Un nome a caso? Gli amici Belle & Sebastian, legati a doppio filo con Eugene e Frances. Già musicisti in Sex with an X, infatti, Steve Jackson e Bobby Kildea dei B&S saranno sui palchi italiani insieme ai Vaselines, rinforzandone la versione live. «Ci divertiamo molto con loro e, in verità, tutta l’esperienza di questo ritorno, dall’essere headliner dei festival all’avere un pubblico molto variegato fino al concetto di band e non più di progetto solista, è stata estremamente positiva». Nel tono di Eugene, ci sono calma e stupore allo stesso tempo. Chissà se si è già reso conto che il loro primo passaggio in Italia, qui, è percepito come un evento.

A partire da Elvis il cui nome era un omaggio al mito del giovane John e di sua madre Julia. I due capirono di aver sbagliato nome solo quando Elvis si rivelò essere una gattina, partorendo una nidiata di micetti. Ma per i Lennon rimase per sempre Elvis... Tra i favoriti ci fu un randagio trovato nella neve. Ogni giorno John andava con la sua bicicletta da un pescivendolo per rimediare un po’ di pesce per il suo persiano, ma anche una volta

famoso non mancò mai di chiamare, da ogni parte del mondo, per informarsi sullo stato del suo amato gatto. Tim, questo il suo nome, ha vissuto una vita felice e lunga più di vent’anni. Anche la vita assieme a Yoko Ono fu caratterizzato da alcuni felini. Tra questi ce ne furono due, uno bianco e uno nero, che Lennon battezzò, ironicamente, Salt (Sale, nella foto) il nero, e Pepper (Pepe) il bianco. E che dire di Jesus? Nel ’66 Lennon scandalizzò

10 PEZZI ANTI-UFFICIO

di un intero popolo. Idonea per quando non è solo un mestiere a stare stretto, ma tutto un paese. Meno riottoso e più amareggiato è invece il Rush-pensiero, espresso nella b-side datata 1974, Working Man. «Mi sveglio alle sette, vado a lavorare alle nove. Non ho tempo per vivere, sì lavoro tutto il tempo»: lenta e straziante, la consapevolezza cantata da Geddy Lee sarebbe perfetta come mantra di fine giornata del working class hero, il cui unico svago risiede in un bicchiere di vino, una sigaretta e un assolo di chitarra lungo oltre tre minuti. L’attitudine di Working Man ricorda quella dello Strummer del «it is what it is» e in effetti, gli anni a cavallo tra Settanta e Ottanta, non possono che essere il periodo di massima disillusione verso il lavoro. Ci sono i Clash di Career Opportunities, senza speranza, senza prospettive e con una comprensibile avversione verso tutte le mansioni (di guerra) che la regina, in quel grigio 1977, promette di offrirgli. E poi, dall’altra parte dell’oceano, c’è la (futura) poetessa rock del Cbgb. Nell’indimenticabile esordio su 7” di Piss Factory, una giovanissima Patti Smith mette a tacere tutti, cantando la meschinità del lavoro in una fabbrica di provincia e della voglia di scappare. Un brano indimenticabile. Un pezzo di storia, a metà tra realtà e poesia. Ancora a New York, molti anni dopo (il 1992), ma con lo stesso spirito di quell’ultimo scorcio dei Settanta, i Ramones non nascondono la propria inadeguatezza verso il concetto di lavoro comunemente inteso. «Non posso tenere questi ritmi, sto diventando un caso mentale. Sì, è il lavoro che odia il mio cervello», cantano sui soliti tre accordi e la faccia da schiaffi in Job That Ate My Brain. Tutt’altro piglio, quello del songwriter più introspettivo e snob degli Eighties britannici. I suoi sogni sono ben più grandi, Mr. Shankly, e l’ispiratissimo Morrissey di The Queen Is Dead non resterà qui a farsi corrodere l’anima dal suo misero lavoro. Un’ambizione mai negata, quella del Moz, che insieme all’arguzia e alla nostalgia di sempre, trasformano Frankly, Mr. Shankly nell’ennesima filastrocca dalla validità universale. Coerentemente con l’indole onirica della band, la soluzione al problema che propongono i Flaming Lips è quella di spaccare la faccia del proprio capo nei sogni. Gli stessi in cui si può avere una vita migliore, aspettando con fiducia giorni più lieti di questi Bad Days. Ma lo scettro per il brano più «straight to the point» della lista, va a Beck. Soul Sucking Jerk (verme succhia anima) è l’appellativo che dà al proprio boss. O meglio, ex boss, perché tra una rima e l’altra, il camaleonte del rap si è fatto dare tutti i soldi che gli spettano. E ha cambiato aria.

Mollo tutto! Il lavoro debilita il rocker La disoccupazione è sopra i livelli massimi. I licenziamenti facili avanzano. L’inflazione è alle stelle, lo stipendio finisce rapidamente. Eppure, non c’è nulla di peggio dell’odiare il proprio lavoro. Quando il capo diventa l’incubo peggiore e un impiego decente un sogno troppo lontano, talvolta licenziarsi non è un’eventualità strampalata. Ma una soluzione necessaria. L’argomento, ricco di implicazioni con la popular culture, non è nuovo in ambito rock. Di musicisti che hanno cantato la noia e l’effetto straniante di un lavoro mal retribuito o avvilente ce ne sono a bizzeffe. E qualcuno, nei tre minuti di una canzone, è anche riuscito a liberarsi di quel mestiere tanto insopportabile. Magari, diventando una rock star. Uno che appartiene a questa categoria, è Elvis Costello. In Welcome to the Working Week il tema non è esplicitamente quello del lasciare il lavoro. Piuttosto, c’è qualcosa di allusivo che riconduce al tema di un impiego che «può uccidere». Dal canto suo, l’occhialuto cantautore londinese si limita ad accogliere il malcapitato di turno nella routine della settimana lavorativa. Abbondando di sarcasmo. Non fosse altro perché il brano è proprio l’apertura dell’esordio che lo allontanerà per sempre dalla dimensione dell’impiegato d’ufficio. Ironia a parte, è la rabbia il comune denominatore di molti brani scritti su questo tema. In Take This Job and Shove It - cover di David Allen Coe del 1978 -, i Dead Kennedys trasformano in furia punk l’originale country già di per sé piuttosto acceso nel testo. «Riprenditi questo lavoro e ingoialo», suonerebbe in italiano. E poi giù con frasi secche e rabbiose. Di quelle che tutti hanno sognato, almeno una volta, di dire al proprio capo. In questa ipotetica classifica, We Gotta Get out This Place degli Animals rappresenta addirittura qualcosa in più del grido insofferente del singolo verso il proprio lavoro. Brano iconico per tutta la generazione che ha vissuto la guerra in Vietnam, il singolo datato 1965 è un inno che comincia con la storia della working class inglese e sfocia nel bisogno di cambiamento


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LEGENDA ❚❚❚❚❚ NAUSEANTE ❚❚❚❚❚ INSIPIDO ❚❚❚ ❚❚ SAPORITO ❚❚❚ ❚ ❚ INTENSO ❚❚❚❚❚ UNICO

l'America benpensante e si attirò l'ira dei fan d'Oltreoceano con la frase «i Beatles sono più famosi di Gesù», è molto probabile che il nome dell'animale fu proprio dovuto a quella controversia. Ad ogni modo si dice che quello a cui si affezionò maggiormente, fu una gatta chiamata Alice. Un giorno Alice si lanciò dalla finestra del suo appartamento del Dakota di New York e si schiantò al suolo. Secondo il figlio Sean fu l'unica volta che «papà pianse».

INDIE ITALIA

La scelta allusiva del silenzio Venticinque minuti di allusioni, in cui la voce tace e sono le dita che pizzicando le dodici corde di una chitarra acustica raccontano più di quanto Gionata Mirai scelga di dire con parole, lontano da Super Elastic Bubble Plastic e dal Teatro degli Orrori. Allusioni (La Tempesta Dischi/Venus) è il titolo di questo debutto solista, in cui Mirai condensa un'opera d'arte di fingerpicking ispirata alle immagini del recente disastro giapponese, che a parlare lascia solo qualche riga in copertina, tradotta in cinque lingue: «Anche l'immobilità sarà scegliere, come pure il silenzio». Il resto sta a chi ascolta. Il resto sta a chi vive. Stop. Eject. Un altro cd sulla piastra e l'atmosfera cambia radicalmente, già nei primi istanti che seguono il Play: un coro e un ukulele saltellano subito nelle orecchie dell'ascoltatore del debutto di Laurex Pallas. L'ultima Liegi-Bastogne- Wembley (Rodeo Dischi) è il titolo di questo disco di Carlo Pinzi e Fabio Alessandria, che si gode con lo stesso gusto di un pranzo della domenica in trattoria tra amici. È tutto un piacere e l'atmosfera è la stessa. (Serena Valietti)

ON THE ROAD

MARCO COLONNA THE MOON CATCHER (Short Fermata) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Il sax baritono e soprano, il clarinetto basso: ecco gli strumenti di questo musicista romano. Che è anche compositore. Noto fin qui per una certa propensione alla free improvisation preparata. In questo cd suona in solitudine tutti i suoi strumenti e col metodo della sovraincisione ottiene nove bozzetti polifonici, le cui basi scritte sono tutte originali. Molto lirici, molto cantabili, molto rapsodici. Gli echi di certi lavori di John Surman sono fin troppo evidenti. Ma manca la felicità inventiva delle melodie e delle variazioni, mentre è buona e gradevole la delicatezza timbrica. (m.ga.) FIELD MUSIC PLUMB (Memphis Industries/Self) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ I fratelli Brewis ci riprovano. La linea è sempre la stessa, alla ricerca della perfetta canzone pop. Dopo il doppio Measure (20 brani per oltre 70 minuti) eccoli con un disco che in 15 canzoni arriva appena a 35 minuti... la metà. Come già scritto con loro si trova tutto il pop britannico dai Beatles in poi, e oggi notiamo una new entry, un occhio a Brian Wilson e ai suoi Beach Boys... Forse il meglio l’hanno dato nei primi due lavori, ma un disco dei Field Music è sempre molto piacevole da ascoltare. (r.pe.) FREDDOCANE FREDDOCANE (Autoproduzione) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Buon esordio per questo trio bergamasco, che, onorando il proprio nome, esce nel pieno dell'inverno. 15 canzoni che comprendono diversi stili musicali, ma su una base grunge/stoner abbastanza marcata fin dalla prima traccia, Insane. L’album procede spedito e si prende una pausa melodica con Neve e Nebbia. Sorprende la cover di Such a Shame, (una delle due, insieme a Walk on the Wild Side), mentre è da segnalare la psichedelica Se non lo sai. (p.ro.) THE GRATEFUL DEAD EUROPE '72 VOL. 2 (Grateful Dead/Rhino) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Lo tsunami di pubblicazioni discografiche tratte dall'archivio sterminato dei Grateful Dead non conosce requie. Qualcuno potrebbe optare per un saggio minimalismo, tenendosi solo le registrazioni entrate nel «canone rock» della band di Jerry Garcia. Cotanta saggezza priverebbe però di perle aggiuntive colte in particolari momenti di grazia, com'è (notoriamente, ma a ragione) il tour europeo del '72. Questa raccolta, di nome e di fatto, è il «secondo capitolo» di un leggendario triplo ellepì, fatta salva l'esaustiva pubblicazione dei nastri inglesi coevi. Solida, pacifica, smagliante psichedelia da jam band. Imitata, mai raggiunta. (g.fe.)

POP

Un disco di gran classe, si intitola Thirteen Lost & Found (Chemikal Underground/ Audioglobe) e ne è autore RM Hubbert, chitarrrista di Glasgow. La produzione di Alex Kapranos dei Franz Ferdinand e collaborazioni illustri (Aidan Moffat, Emma Pollock, Alasdair Roberts tra i tanti) danno un ulteriore tocco di gusto a composizioni acustiche e delicate basate sulle doti tecniche di Hubbert, che qui sono rivolte all’essenza anziché volare verso uno sterile virtuosismo. Davvero un bell’album! Dopo il ritorno con i suoi Mission, Wayne Hussey si unisce alla vocalist degli All About Eve, Julianne Regan per un album, Curios (Cherry Red/Audioglobe), di cover. Si va dai Duran Duran di Ordinary World ai Depeche Mode di Enjoy the Silence, dal Bowie di Ashes to Ashes ai Pretenders di I Go to Sleep, da Cave/Minogue di Where the Wild Roses Grow a Björk di Unravel fino all’inno You’ll Never Walk Alone. Non tutto funziona, ma le voci sono splendide. Un ritorno, dopo 18 anni, quello dei Cardinal, paladini del chamber pop. Il nuovo lavoro si intitola Hymns (Fire/ Goodfellas) e dà il meglio di sè nei brani centrali, General Hospital e Kal, e nei finali, Surviving Paris e Radio Birdman. Per il resto, normale amministrazione... (Roberto Peciola)

Esiste una parte del giovane jazz che recupera la forma-canzone, guardando anche ai recenti songbook, dall’etichetta Cat Sound, ecco improvvisare su temi pop, rock, folk e via dicendo. Irene Frezzato in Jazzando viaggiando, con varie formazioni (totale 24 musicisti!), oltre Ellington o Gershwin, rifà Carole King, Sting, Elisa, Vasco, Concato, ’O sole mio e Fever, piegando la potente voce ad arrangiamenti eterogenei, mai scontati, anche quando insiste sull’electro-funk. Eloisa Atti con Love Signs s’avvale del solo Marco Bovi alla chitarra in un repertorio bluesy, spesso trattato con stile fingerpicking: undici classici tra swing, country e r’n’r, da Moon River a Skylark, da Corrine Corrina a Me and Bobby McGhee: l’intonazione è sottile per un ruolo al contempo vivace e melodizzante. Federica Baccaglini in Daydreams con piano jazz trio (Francesconi, Ghetti, Nanni), notturna cool vocalist (Alfie, Black Coffee), ha un tocco di solare brasilianità con Ivan Lins (Acalanto e Madalena) che aprono e chiudono, in mezzo a un mainstream (più title track di Marta Raviglia) dalla sensuale impronta balladistica. (Guido Michelone)

Il cantautorato italiano abbraccia il talento di Claudio Domestico, in arte Gnut, autore, chitarrista e cantante partenopeo che per il secondo disco della carriera solista (è anche membro del progetto Arm on Stage), ha incontrato sulla sua strada Piers Faccini, apprezzato omologo anglo-francese, che si è messo alla produzione artistica di questo Il rumore della luce (Metatron/Audioglobe). Folk e pop sulla scia di Ben Harper e un ricordo dei piemontesi Perturbazione. A Pescara sono nati e cresciuti i buenRetiro, che con In penombra (DeAmbula), prodotto da Amaury Cambuzat, giungono al quarto capitolo del loro rock cupo e oscuro. Post rock e indie italico à la Marlene Kuntz sono i segni distintivi del gruppo e di un album che ne mette in luce la faccia più matura. Picchio dal Pozzo è stato uno dei gruppi più importanti, sebbene poco conosciuti, del prog italiano degli anni Settanta. Oggi la GF Pop con Goodfellas ripubblicano il primo, omonimo, album del quartetto ligure, uscito per la Grog Records nel 1976. Il riferimento musicale era chiaramente alla scuola canterburyana dei Soft Machine e dei Gong, ma con quella italianità che, allora, faceva sì che i nostri gruppi fossero riconoscibili e apprezzati anche all’estero. (Brian Morden)

DIUNNA GREENLEAF TRYING TO HOLD ON (Blue Mercy Rec) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Ritorna la grandissima vocalist texana. Un disco bello, maturo e denso di contenuti sonori e sociali. Nei 14 brani c'è posto oltre che per la sua solida band, anche per ospiti come B. Branch, B. Margolin, A. Funderburgh ecc. Ci sono incisioni scanzonate e allegre (Beautiful Hat), Chicago Blues (I Can't Wait), tributi a Koko Taylor (I'm a Little Mixed Up) e alla nonna (He's Everything to Me 1 & 2). E poi la conclusiva 'Cause I'm a Soldier: brano fantastico che quasi azzera il resto. (g.di.)

CHRISTIAN MCBRIDE CONVERSATION WITH CHRISTIAN (Mack Avenue/Egea) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Quotatissimo in ambito jazz il giovane contrabbassista Usa porta il suo strumento a confrontarsi con ambienti musicali diversi. Ora si sottopone alla prova del duo. Si va da Bach riletto con la complicità del violino di Regina Carter (Fat Bach and Greens) a Sting che lo affianca in un'intima versione di Consider Me Gone. Alta scuola e grande qualità, un gradino sopra tutte le infinite Tango Improvisations con Chick Corea. (s.cr.)

LIVIO MINAFRA 4ET SURPRISE (Enja/Egea) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ 4 «Un jazz mediterraneo che mescola stili e sentimenti. Ecco lo spartito duro e dolcissimo di Livio Minafra»: rubiamo le parole al conterraneo Nichi Vendola per introdurre questo bel disco, che marca anche la nascita del nuovo Quartetto con chitarra elettrica, sax, batteria e piano: niente basso, dunque. Quasi a conservare uno spigolo in più a questa musica palpitante e viva, figlia dei tempi dispari balcanici come li rilessero i gloriosi Area di Demetrio Stratos. (g.fe.)

A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI ■ SEGNALAZIONI: rpeciola@ilmanifesto.it ■ EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ

Galapaghost

Il trio indie rock di Southampton, Inghilterra. Segrate (Mi) SABATO 21 GENNAIO

Un lungo tour nel nostro paese per la giovane promessa del cantautorato statunitense. Lecce SABATO 21 GENNAIO (I SOTTERRANEI) Taranto DOMENICA 22 GENNAIO (GABBA

GROTTO)

Torino MARTEDI' 24 GENNAIO (BLAH BLAH) Segrate (Mi) MERCOLEDI' 25 GENNAIO (MAGNOLIA)

The Vaselines Per la prima volta in Italia la cult band scozzese, molto amata da Kurt Cobain. Per l'occasione il duo si presenta in una formazione allargata e della quale fanno parte Bobby Kildea e Stevie Jackson dei Belle & Sebastian. Roma MERCOLEDI' 25 GENNAIO (ANGELO MAI) Torino GIOVEDI' 26 GENNAIO (SPAZIO 211) Pisa VENERDI' 27 GENNAIO (CARACOL) Madonna dell'Albero (Ra) SABATO 28 GENNAIO (BRONSON)

Chicks on Speed Il combo femminile, tra i più interessanti della scena electroclash, è di nuovo in Italia. Bolzano VENERDI' 27 GENNAIO (HALLE28) Foligno (Pg) SABATO 28 GENNAIO (SERENDIPITY)

ROCK ITALIA

Una maturità in bianco e nero

Band of Skulls

Sant'arcangelo di Romagna (Rn) LUNEDI' 23 GENNAIO (LIVE IN THE

JAZZ ITALIA

All’improvviso giorno e notte

Dai trascorsi elettronici con la sua ex band, Third Eye Foundation, l'artista inglese Matt Elliott è passato al folk contemporaneo. Valeggio sul Mincio (Vr) SABATO 21 GENNAIO (VILLA ZAMBONI) Forlì DOMENICA 22 GENNAIO (DIAGONAL)

ULTRASUONATI DA STEFANO CRIPPA GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE MARIO GAMBA ROBERTO PECIOLA PATRIZIO ROMAN

Se la tecnica è essenziale

Matt Elliott

(MAGNOLIA)

Ben Frost L'elettronica industriale e sperimentale del musicista australiano di stanza in Islanda. Parma VENERDI 27 GENNAIO (AUDITORIUM DEL CARMINE)

We Were Promised Jetpacks Arriva la band scozzese, promessa dell'indie rock britannico. Madonna dell'Albero (Ra) SABATO 21 GENNAIO (BRONSON)

GABBA)

Firenze MARTEDI' 24 GENNAIO (GLUE) Roma MERCOLEDI' 25 GENNAIO (BLACKMARKET)

Sarno (Sa) GIOVEDI' 26 GENNAIO (KEY DRUM)

Cassino (Fr) VENERDI' 27 GENNAIO

Liz Green Sulle orme di Edith Piaf... Faenza (Ra) LUNEDI' 23 GENNAIO (CLANDESTINO) Milano MARTEDI' 24 GENNAIO (ROCKET)

Roma SABATO 28 GENNAIO (CHIESA

(OFFICINE GENERALI)

EVANGELICA METODISTA)

Perugia SABATO 28 GENNAIO (LOOP CAFE')

Mastodon

Anthony Joseph & Spasm Band

Il duo tedesco propone un mix di latin, nu jazz, funk, soul, dub... Roma VENERDI' 27 GENNAIO (RISING LOVE)

«Afrodisia» presenta il poeta, romanziere, musicista e docente. Fra afrobeat, free funk e jazz africano. Roma SABATO 21 GENNAIO (ANGELO MAI)

David Rodigan

The Bevis Frond

BRANCALEONE)

Una sola data per la band metal prog americana. Milano GIOVEDI' 26 GENNAIO (ALCATRAZ)

The Musical Box Il nome della band prende spunto da un brano storico dei Genesis. La formazione canadese riporta sul palco costumi, luci e scaletta originali di quegli anni. Per quest’anno ripropongono il tour di The Lamb Lies Down on Broadway, l'ultimo con Peter Gabriel. Roma GIOVEDI' 26 GENNAIO (AUDITORIUM CONCILIAZIONE) Milano VENERDI' 27 GENNAIO (TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI) Padova SABATO 28 GENNAIO (GRAN TEATRO GEOX)

Torna, e fa tappa anche in Italia, la psichedelia del cinquantottenne Nick Saloman e della sua band. Brescia SABATO 21 GENNAIO (VINILE 45) Roma DOMENICA 22 GENNAIO (INIT)

Is Tropical Il trio electro inglese in Italia per presentare l'ultimo album, Nativ to. Torino GIOVEDI' 26 GENNAIO (ASTORIA)

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Mo’ Horizons

Probabilmente il sound system per eccellenza del reggae contemporaneo. Roma SABATO 28 GENNAIO (CS

Milano in jazz Prosegue la rassegna «Aperitivo in Concerto» che si affida al tentetto Kingdom of Champa, forte del sassofonista Michael Blake e della flautista Nicole Mitchell. Per «Atelier Musicale» di scena il pianista e compositore Enrico Intra (con J. Yuille, L. Terzano e T. Arco). Milano SABATO 21 E DOMENICA 22 GENNAIO (TEATRO MANZONI; AUDITORIUM G.DI VITTORIO)

Parco della Musica Si infittiscono gli appuntamenti all’Auditorium con Danilo Rea e Piero Angela, John Abercrombie e Marc Copland, i soli di Joey DeFrancesco, Baptiste Trotignon e Hiromi. Il 25 serata speciale della Parco della Musica Records con il progetto sulle musiche di Stanley Kubrik Ears Wide Shut, di Mauro Campobasso e Mauro Manzoni, e il pluripremiato Giovanni Falzone Quintet (F.B earzatti, B. Caruso, P. Dalla Porta, Z. De Rossi) nel repertorio Around Ornette. Roma DA LUNEDI' 23 A SABATO 28 GENNAIO (AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA)

The Wild Beat Massacre

Jazz Club Ferrara

A Milano il «Rap & Dubstep Bloody Show» con gli olandesi Dop D.O.D., in apertura il nostro Noyz Narcos e altri esponenti della scena hip hop e dubstep italiana. Milano SABATO 28 GENNAIO

Il ricco cartellone del Torrione vede Michael Blake Quintet, Maurizio Giammarco Quartet, Ligia Franca & Roda de Samba, Ellery Eskelin Trio nonché Hugo Aisemberg & Novi Tango. Ferrara SABATO 21, DOMENICA 22, VENERDI'

(CS LEONCAVALLO)

27 E SABATO 28 GENNAIO (IL TORRIONE)

L’ESTASI DI KING CHARLES Un progetto che pesca in più direzioni e che si alimenta soprattutto a funk & bossa. Kojato and The Afro Latin Cougaritas è un collettivo tedesco che ruota intorno agli arrangiamenti del tastierista André Neundorf e alla voce spettacolare del liberiano Kojo Ebenezer Samuels, noto per aver collaborato con Fela Kuti e Cecil Taylor. Kuti è ovunque in All about Jazz (Buyù rec. BUCD 010), disco appena uscito del gruppo che aveva già debuttato (con il pezzo Afro Shigida) in Bossa Nova Just Smells Funky, titolo dei Bahama Soul Club, altra perla del giro Buyù. Oliver Belz, produttore, leader dei Bahama, proprietario dell'etichetta, dispensa consigli e direziona anche i Kojato, quasi una filiazione dei Bahama ma con un piglio più black e afrobeat. Merito di Kojo che omaggia Fela ovunque nei pezzi e in particolare in Everywhere You Go now, che ne rimanda in circolo i vezzi improvvisativi, il coraggio, le istanze civili e democratiche. Scatenate e ultra bossa le tastiere di Neundorf. APPENA uscita l'ultima raccolta della Freestyle, tra le etichette inglesi soul/new funk più prolifiche in circolazione. Si intitola Sounds from the Soul Underground-A Fresh Mix from Contemporary Soul, Funk, Jazz, Latin & Afrobeat from around the World (Freestyle FSRCD 086). All'interno cose già edite e brani mai apparsi: da Dj Format che remixa gli Speedometer a Hey Girl!, pezzo irresistibile dei Jo Stance, nuovo progetto finlandese della cantante Johanna Försti e del batterista-produttore Teppo ’Teddy Rok’ Mäkynen. E ancora inediti di Nick Van Gelder, Jessica Lauren Four e The Andy Tolman Cartel. Occhio anche agli ungheresi Qualitons il cui album Panoramic Tymes (Tramp Records) è tra le produzioni più azzeccate e coinvolgenti in ambito beat & soul uscite di recente. IMPOSSIBILE resistere a King Charles, dandy di base a Londra, clone di Carlo II Stuart, anche noto come il monarca allegro, colui che a metà Seicento impose in Inghilterra un regime di edonismo diffuso (per chi poteva permetterselo, ovviamente, cioè molti pochi). King Charles, che guidava in origine una band che rieseguiva pezzi dei Kiss, con i suoi video ipercurati post-indie e il suo irresistibile folk pop psichedelico con aspersioni dance. Ascoltare in rete Bam Bam, Mississippi Isabel e Love Lust. In arrivo l'album. Occhio anche alla Williamsburg Salsa Orchestra, collettivo di 11 artisti di Brooklyn dedito a travolgenti versioni salsa-funk di pezzi di gruppi indie come TV On The Radio, Peter, Bjorn & John, Santigold, Arcade Fire ecc. Guidati da Gianni Mano, percussionista/arrangiatore già con i latin funkster Radio Mundial, hanno debuttato a giugno con un album omonimo; di recente sono tornati con due pezzi tratti da quel disco: Wolf Like Me (Tv On The Radio)/Young Folks ( Peter, Bjorn & John) (Nonames rec. 03). Esplosivi.


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ALIAS 21 GENNAIO 2012

CALCIO & WEB

Un documentario finanziato dal basso racconta la passione trasversale per il calcio da tavola in miniatura. Tra eterni bambini e piccoli artigiani di GIOVANNI FELICE

●●●Fu un inglese, manco a dirlo, a inventare il gioco del calcio da tavola in miniatura. Peter Adolph, di professione ornitologo, voleva chiamarlo «The Hobby», termine che in lingua anglosassone designa anche una specie di falco, il lodolaio. Per l’ufficio brevetti inglese, però, non era registrabile in quel modo e così Adolph decise di usare parte del nome scientifico dell’uccello: Falco Subbuteo, appunto. Era il 1947 e nessuno avrebbe mai immaginato il successo che il Subbuteo, o «calcio in punta di dita», avrebbe avuto a partire dagli anni settanta, quando si diffuse oltremanica diventando un fenomeno sportivo, sociale e cultural-popolare in grado di unire appassionati di ogni età e collezionisti in tutto il mondo, e in particolare in Italia, fino ai giorni nostri. Ora un documentario intitolato Subbuteopia, ripercorre le tappe di questa passione diffusa e trasversale, che attraverso i decenni è riuscita a resistere all’avvento delle nuove tecnologie e anzi a crescere ulteriormente, tenendo in vita un marchio che è rimasto impresso come un sogno di eterna fanciullezza nella mente delle generazioni di mezzo secolo. Selezionato per gli European Days 2011 e in fase di completamento, il film è diretto dal 45enne bergamasco Pierr Nosari, che nel 2008 ha diretto Offlaga DiscoPax, un «rockumentario» sull’omonima band di Enrico Fontanelli, grande appassionato di Subbuteo, assieme al quale è nata l’idea di realizzare un viaggio attraverso i diversi mondi racchiusi dal mitico panno verde e di raccontare le tante inaspettate storie, muovendosi in Italia e all'estero, che in questo «non luogo» sono nate e continuano ad intrecciarsi. «Il titolo è un gioco di parole con la parola utopia, intesa come un non luogo ma anche come un buon luogo – spiega il regista - il tratto che unisce i personaggi che abbiamo incontrato è la volontà di vivere in un mondo migliore, fatto di nostalgia di un’infanzia più felice del presente, ma anche di un sistema di valori solidi in cui ci si ritrovava di più». Prodotto dalla casa di produzione bolognese Popcult di Giusi Santoro, il progetto ha un budget molto ridotto, circa 170.000 euro, ma ha l’ambizione di rivolgersi al grande pubblico, visto che tratta un tema di tradizione popolare caro a più generazioni. «Il documentario è solitamente inteso come un genere di nicchia - spiega Santoro - la nostra sfida è aver scelto di trattare un argomento popolare attraverso uno strumento narrativo di grande qualità, con l’intento di coinvolgere il maggior numero di appassionati possibili». Un coinvolgimento anche pratico, dato che la post-produzione del film avverrà tramite crowdfunding, il sistema di finanziamento dal basso che permette di supportare progetti creativi come questo. Subbuteopia ha scelto il sito Verkami per

Subbuteo, l’utopia in punta di dita EVOLUZIONI

I gol dalla bandierina del mitico Palanca e la mano subbuteista de dios maradoniana ●●●I primi ad avere l’idea furono quelli di «Cocktail d’amore», il programma Rai dedicato agli anni ottanta (era condotto da Amanda Lear) che nel 2003 mise il mitico bomber del Catanzaro Massimo Palanca davanti a un tavolo di Subbuteo e gli disse: «ci faccia vedere come segnava dalla bandierina del calcio d’angolo» (e dopo di lui Nela, Galderisi, Vignola...). Quindi qualche anno fa è spuntato il sito www.super-subs.co.uk, messo in piedi da un papà che voleva iniziare il figlio di 8 anni alla magia del Subbuteo. Insoddisfatto dei nuovi calciatori in miniatura con tanto di figurina, il papà ha acquistato su ebay l’Inghilterra originale degli anni ’70, poi il Brasile dell’82, poi la Francia e per renderle un po’ più accattivanti agli occhi del bambino ha provato a ripitturarle. Troppa fatica e poi quel giocatore francese coi capelli nature sembrava pelato e ricordava tanto Zidane... Così padre e figlio hanno deciso di pitturare un Materazzi azzurro e inscenare la famosa testata del 2006. Ne è nata una serie subbuteista che comprende la mano de dios maradoniana, lo sputo di Rijkaard a Voeller, la danza di Roger Milla alla bandierina, la testa insanguinata di Butcher. Tutte acquistabili online sotto forma di maglietta.

raggiungere il goal dei 15.000 euro che permetterebbero al progetto di andare in porto. Sul sito www.verkami.com/projects/1168-s ubbuteopia sono indicate tutte le modalità per aderire (entro fine gennaio) acquistando magliette, Dvd in edizione limitata, con la possibilità di vedere il proprio nome inserito fra i titoli di coda all’anteprima ufficiale del film, prevista per il 5 maggio in contemporanea a Genova (a Villa Bombrini nella sede di Genova-Liguria Film Commission, che sostiene il progetto) e a Royal Tunbridge Wells, la città in cui il Subbuteo fu inventato. «Non abbiamo aspettative, ma fa piacere vedere che il pubblico è disposto a pagare il biglietto prima ancora che il film sia finito prosegue Giusi Santoro - c’è un grande entusiasmo che ci ha accompagnato da quando abbiamo iniziato a lavorare sul progetto nel 2010, che è cresciuto tantissimo strada facendo, man mano che siamo venuti a contatto con le diverse storie dei protagonisti del film che ci hanno trasmesso una passione vera e genuina per questo gioco». Una passione come quella che spinse i fratelli Parodi, titolari di una piccola ditta a Manesseno, un piccolo paese nell’entroterra di Genova, a intentare un’eroica causa contro la multinazionale dei giocattoli americana Hasbro, dopo che questa nel 2000 aveva deciso di interrompere la produzione, convinta che l’avvento dei videogiochi avrebbe relegato in soffitta il celebre panno verde. Per continuare l’attività del padre Edilio, mitico distributore del gioco in Europa sin dal 1971, i Parodi hanno ottenuto la concessione della licenza fino al 2003 vincendo la sfida di tenere in vita il Subbuteo (che hanno ribattezzato Zeugo, cioè gioco, in genovese) che tuttora


ALIAS 21 GENNAIO 2012 LA NUOVA FOTOGRAFIA SPORTIVA DI 2.8 ●●●E’ in edicola da dicembre ma anche online e in libreria «2.8», una nuova e bellissima pubblicazione trimestrale di fotografia sportiva. 100 pagine di immagini a colori e in bianco e nero, dal pugilato alla scherma, dal calcio al nuoto, dal triathlon allo snowboard, campioni e dilettanti, tifosi e appassionati. E’ un progetto coraggioso e ambizioso quello di dueeotto.com che nasce dal basso e guarda verso nuove frontiere. «Siamo una Manifattura Fotografica italiana - si legge nelle loro note di presentazione - che vuole fare entrare in camera oscura la tensione e l’agonismo degli atleti e la gioia dello sport di tutto il mondo. Per questo chiamiamo a raccolta i fotografi dell’intero globo che vogliano tradurre in immagini la concentrazionei dell’atleta, la sua capacità di superare il limite, i suoi sogni, la

Le foto del subbuteo di queste pagine sono state scattate da Andrea Dalpian durante le riprese di «Subbuteopia»

sua forza,le sue paure, il suo sudore... Noi li pubblichiamo! Abbracceremo le librerie che non fanno parte delle grandi catene perchè non snobbano sulla base dei numeri di vendita ma consigliano sulla base della qualità. Usciremo in edicola perchè crediamo che insieme a un buon quotidiano di notizie, il nostro spirito abbia bisogno di immagini di eroi. Di atleti che ricordino Ulisse oppure Robinson Crusoe o ancora i tre moschettieri. Senza presunzione ci permettiamo di presentarveli. Usciremo online perchè amiamo le lettere scritte con la migliore stilografica e le mail che raggiungono il mondo in un istante. Siamo una Manifattura Fotografica italiana orgogliosa di abbracciare i diversi colori del mondo attraverso lo sport, la fotografia, la vita. Non siamo presuntuosi, solo pazzi. Concedetecelo». Ogni numero contiene un racconto curato dalla Scuola Holden di Torino. Nel prossimo è annunciato un reportage sul velista Alex Bellini.

FIDENZA ■ L’UNIONE DEI SUBBUTEISTI SOCIALISTI RIVOLUZIONARI

Politica e panno verde, due pinghelle in nome del Patto di Varsavia Nata intorno a un forum, l’U.S.S.R. organizza tornei di «Subbuteov». Il regolamento è scritto in cirillico, l’iscrizione si paga in rubli. «Giochiamo con la storia per ricordare il calcio di una volta» di G.FE.

conta milioni di giocatori dilettanti e competizioni ufficiali in più di 30 differenti Paesi nel mondo (Europa, Usa, Singapore, Argentina, Canada, Sudafrica). La vicenda dei Parodi dà l’avvio al documentario ma la storia prosegue e si intreccia con quelle di altri protagonisti, che della dedizione al Subbuteo hanno fatto una vera e propria malattia, come l’inglese Stephen Moreton, che nel suo salotto di casa ha costruito «The stadium of fingers», un’arena di 100.000 persone in miniatura (costruite a mano) assiepate sugli spalti, comprese quelle di amici e conoscenti, con effetti sonori da stadio e illuminazione per le partite in notturna. Nel film spesso il concetto di competizione viene sostituito da quello di socialità e il Subbuteo diventa un pretesto per fare, perchè no, anche politica. L'Unione dei Subbuteisti Socialisti Rivoluzionari è un gruppo di militanti politici, con tanto di Manifesto per diffondere gli ideali del socialismo anche nel Subbuteo, che organizza tornei nei luoghi della Resistenza, come quello a Villa Cervi, nel reggiano, ogni 25 aprile per mantenere viva la memoria storica. L’U.S.S.R. oltre ad avere un proprio regolamento, considera il Subbuteov un ottimo strumento per superare «l'individualismo e la falsa morale» della società moderna. Ma c’è anche chi, pur con un presente di tutta rispettabilità, al Subbuteo ha legato i ricordi di un passato glorioso. Andrea Piccaluga, ora docente accademico a Pisa, in passato è stato una delle leggende degli appassionati di questa disciplina. Nel 1978 vinse il Campionato del Mondo Juniores e nel documentario racconta l’incredibile storia del suo dito di bambino assicurato per cifre esorbitanti.

Passando per la Maidenhead Subbuteo Fair, un evento nei pressi di Londra a cui partecipano migliaia di appassionati per scambiarsi squadre o altri gadgets, si arriva ai coniugi Mark e Mary Parker, artigiani che campano realizzando le pedine dipinte a mano e vendendole in tutto il mondo, anche via internet, e che hanno trasformato quella che era un passione in un lavoro e in una filosofia di vita. Tante pagine per raccontare di un interesse ancora vivissimo per il calcio in miniatura, con un tratto comune. «Quello che unisce tutti gli appassionati che abbiamo incontrato è la ricerca di una situazione esistenziale migliore spiega ancora il regista Nosari ciascuno di noi, in qualche modo, è alla ricerca delle proprie radici e col Subbuteo le può proiettare nel futuro in maniera un po’ più solida».

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●●●«Compagno, giocare a Subbuteov è molto più salutare che stare seduti a discutere di socialismo, specialmente quando la sedia si trova alla Lubjanka... ». La riflessione, inoppugnabile, proviene dal forum dell’U.S.S.R., l’Unione dei Subbuteisti Socialisti Rivoluzionari, un gruppo di militanti politici che ha deciso di costituirsi con un obbiettivo ardito: unire la politica al Subbuteo. Nata intorno ad un forum, nel quale si possono leggere il Manifesto e il regolamento ad hoc in cirillico del Subbuteov (che stigmatizza il ricorso «a termini poco sovietici come back, automatick flick, eccetera»), l’Unione è partita da alcuni amici del club «I Cento Passi» di Fidenza, e si è via via ingrandita, coinvolgendo appassionati e miltanti di altre zone d’Italia. Per capire di cosa si occupa esattamente abbiamo intervistato «Ferro», uno dei due Presidenti eletti dal Comitato dell’U.S.S.R., che è composto in tutto da altri due membri. ●Quando avete deciso di fondare l’Unione? Tutto è partito da questo forum, che era gestito da persone sulla stessa linea d’onda politica e che partecipavano alle iniziative sociali del circolo, oltre che giocare a Subbuteov. La nostra idea è di utilizzare il momento del gioco non solo per lo svago ma anche per trasmettere determinati valori legati alla storia della nostra terra, anche se con un taglio assolutamente ironico.

Rivoluzione»? Sono alcuni dei nostri tornei: partecipano squadre di provata fede socialista, l’iscrizione si paga in rubli e il ricavato viene devoluto ad Emergency. Il primo toneo è stato «Subbuteov e radici», quello che da qualche anno organizziamo alla vigilia della Festa della Liberazione: vi sono 16 squadre, intitolate alle città resistenti delle province di Parma e di Reggio che si liberarono prima dell’arrivo degli americani. Giochiamo a Subbuteov ma facciamo anche una retrospettiva storica per mantenere viva la memoria del nostro passato. ●Nei tornei di Subbuteov cambia qualcosa rispetto a quelli tradizionali? Non giochiamo mai con la stessa squadra, perchè ciascuno viene sorteggiato, così chi vince non è la persona ma è sempre la squadra. Non è un campionato selettivo, ma inclusivo: tutti possono giocare. Anche chi non lo hai mai fatto, può venire da noi e provare a dare due pinghelle, se vuole. ●Oltre ad avere un taglio politico, l’Unione organizza anche iniziative

di carattere sociale? Sì, ad esempio in giugno abbiamo collaborato con il Comune di Reggio Emilia per un’iniziativa intitolata «Tutti i colori del Subbuteov», in cui abbiamo organizzato un torneo per i bambini di un quartiere difficile a ridosso della stazione ferroviaria, la maggior parte dei quali immigrati cinesi e di altre etnie. E’ stato un’occasione di incontro e di integrazione e abbiamo dato loro la possibilità di confrontarsi con questo gioco e di passare una giornata diversa dalle altre. Sono piccole cose che per noi hanno un grande significato. ●Perchè pensate che il Subbuteo possa trasmettere alcuni ideali rispetto ad altri giochi? Perchè è un gioco un po’ particolare, con determinati valori che vanno dalla lealtà in campo al rispetto regole, al cercare di vincere senza fregare l’avversario. Sono cose legate a un’idea del calcio che ormai è passata, cancellata dalle pay tv, e che vanno in netto contrasto con la società contemporanea. Forse il Subbuteo può aiutarci a ricordarle più spesso.

●Cosa sono il «Torneo Patto di Varsavia» e la «Coppa della

COMMUNITY

«Old Subbuteo», il gioco vecchio stile che unisce appassionati, collezionisti e nostalgici in tutta Italia ●●●Nella riscoperta del Subbuteo, un ruolo importante l’ha giocato la Community Old Subbuteo che nasce nell’agosto 2006 in un momento in cui questo splendido gioco sembrava destinato all'oblio o alla sua trasformazione in attività prettamente agonistica . Attraverso una fitta rete di contatti e amicizie, il suo forum - oldsubbuteo.forumfree.it - è presto diventato il principale luogo di aggregazione degli appassionati del gioco «old style» in Italia. Il primo club, l’Osc Longobardo, si formò allora nella Torre Colombera di Gorla Maggiore (Varese), cinque anni e mezzo dopo ce se sono ovunque sparsi in tutto lo stivale, dagli Uforobot di Verona all’Osc Molfetta di Bari. La Community è rivolta ai giocatori, ai collezionisti, ai nostalgici e a tutti tutti gli appassionati che non hanno mai dimenticato il significato del gioco e del divertimento e che vogliono ritrovare lo stesso spirito riscoprendo il Subbuteo degli anni '70 e '80. Per chi vuole giocare o semplicemente curiosare, Old Subbuteo organizza eventi a livello locale e nazionale, vere e proprie feste dedicate al mondo del Subbuteo, ai suoi giocatori e ai collezionisti. L’attività Old Subbuteo, il forum, le serate nei vari club e gli eventi nazionali promuovono la passione per il Subbuteo, vivendola con spirito old, dove la serietà ed il rispetto per le regole del gioco si sposano a momenti di amicizia, aggregazione e divertimento. Trovate tutto su www.oldsubbuteo.it (carlo riccardi)

Un manifesto dell’Unione dei subbuteisti socialisti rivoluzionari. A sinistra, il poster del Trofeo Patto di Varsavia

FUGA PER LA TOILETTE ●●●In Sicilia c’è una squadra di promozione che viene da due campionati vinti di fila ed è ben piazzata anche in questo. Si chiama «Scommettendo», ognuno è legittimato a pensare ciò che vuole. Soprattutto di questi tempi. Il Comprensorio Valdianese (Campania) ha presentato ricorso dopo la gara, giocata e persa in casa dell’Ogliarese. Il tutto perché dal 39’ al 43’ del primo tempo, un guardalinee pressato dall’urgenza di andare alla toilette ha abbandonato il terreno di gioco ed è rientrato negli spogliatoi. Poi è tornato e la partita è continuata. Per il Comprensorio, quella «fuga» avrebbe alterato il senso della partita. L’arbitro ha ricordato però di aver sospeso per un paio di minuti la gara, l’assenza è stata tale solo per poco più di un minuto e l’azione di gioco era sempre nell’altra metà campo. Cinque anni di squalifica per Mauro Seddone, centrocampista del Bardia (Sardegna) che ha letteralmente messo a terra l’arbitro, con una testata al viso, due violentissimi pugni alla guancia sinistra e all’orecchio destro «che provocavano dolori fortissimi, senso di stordimento e nausea», per chiudere in bellezza con un tentativo di calcio allo sterno andato a vuoto per l’intervento di alcuni compagni di squadra. E’ finita invece con un doppio 0-3, cioè partita persa per entrambe le squadre, il match tra Belvdere e San Fili, per via di una maxi rissa che coinvolgeva tutti i presenti, al punto – scrive uno sconsolato giudice sportivo – «che non era più possibile distingue gli aggressori dagli aggrediti». Stefano Milazzo, del Sacro Cuore Milazzo (ovviamente Sicilia) ha minacciato così l’arbitro: «Figlio di buttana, vengo a Palermo e ti ammazzo se mi dai più di due giornate, tanto so come ti chiami». Gli hanno dato cinque turni di stop, si temono omicidi. Un anno invece resterà fermo Francesco Campora, attaccante del Fiera (Calabria). A fine partita, quando tutti si stavano salutando, si è avvicinato all’arbitro e da distanza minima ha tirato una pallonata terrificante «che colpiva al viso il direttore di gara, facendogli perdere conoscenza per dieci secondi e causando lacrimazione da un occhio per 25 minuti». Pasquale Aurelio, presidente dell’Albidona (sempre Calabria) ha minacciato l’arbitro nell’intervallo («vigliacco, qui ci giochiamo il campionato, guardami in faccia quando ti parlo»), poi a fine gara lo ha inseguito in macchina fino all’autostrada «inseguendolo a distanza ravvicinata, usando i fari abbaglianti e, più volte, tentando di tagliargli la strada con l’intento di farlo fermare». Un custode-massaggiatore del Ponte Ronca (Emilia Romagna) ha accolto l’arbitro – una ragazza – arrivata al campo in motorino e le ha indicato dove parcheggiarlo. Alla fine della partita, purtroppo, lo scooter aveva gli specchietti rotti e vistose rigature sulle scocche. Alla rimostranza dell’arbitro, il custode ha cercato di ridurre il danno proponendo di rimediare da uno sfasciacarrozze due specchietti seminuovi, ma invitandola poi a montarseli da sola. La squalifica per due mesi è per mancata cavalleria. Uno dice: ma quante tocca sentirne, meglio allora il calcio che si giocava un tempo, quello per intenderci degli oratori. Grave errore. Arriva dalla Lombardia la notizia dei nove mesi di squalifica e obbligo di risarcire le spese mediche per il terzino della Virtus Oratorio Cazzaniga (Lombardia) reo di aver, con un pugno, buttato giù tre denti all’allenatore dell’Oratorio Leffe.



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