Alias de il manifesto 14 gennaio 2012

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MUSICA » ARTI » OZIO

di Roberto Silvestri

●●●Il 25 gennaio prossimo al Cairo, nel primo anniversario della rivoluzione, un corteo guidato dai parenti delle vittime di Mubarak minaccia di penetrare nella cella dell’ex presidente per completare ciò la giustizia ordinaria non avrebbe il coraggio di fare. Un linciaggio annunciato. Secondo capitolo di quella «rappresentazione dell’arcaicità araba» che - regista la Francia, producer l’Occidente intero - segue alla barbara esecuzione di Gheddafi, messa in scena spettacolare che giova all’immagine di un occidente invece moderno, cioé specializzato sempre nel togliersi di mezzo come mandante? Intanto in Egitto il 25% della popolazione muore di epatite C e di degrado igienico. Ce lo racconta un film impressionante ma non impressionistico sulla rivoluzione araba, perché mette in densa prospettiva, e con saggia leggerezza, gli avvenimenti di questi ultimi 12 mesi in Egitto, nel

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

maghreb e nel mashreq. Lo ha girato e autoprodotto un giovane cineasta egiziano da anni in Italia, Maged el-Mahedi, artista «italieno», trattato finora con stolida indifferenza dalla ufficialità intellettuale e politica del nostro paese. Non parlo bene, danzo meglio è un pamphlet complesso e sorprendente sull’Egitto di oggi, attanagliato tra strapotenza militare (che da Nasser in poi ha in pugno il paese) e subalternità religiosa, coppia famigerata ed eterodiretta che vorrebbe schiacciare qualunque possibilità d’emancipazione collettiva, ma.... Abbiamo incontrato il regista a Roma. ●Partiamo dalla complessa forma ibrida di questo ««falso» documentario: reportage giornalistico (sulla rivoluzione); dramma privato (la morte di tuo fratello per epatite c); film di denuncia (tragedia sanitaria del paese) e thriller politico (pericolo islamista)... C'è però anche un quinto elemento strutturale,

che fa da collante a tutti gli altri, la danza. Ne parla il maestro Mahmoud Reda, è una forma di arte che presenta un'energia collettiva legata in modo dialettico alla storia egiziana degli ultimi 60 anni. Non a caso vengono mostrate immagini di un musical del 1965, era Nasser, fino alle riprese di uno spettacolo di Reda del 2010. L'idea è che questa forma di espressione artistica (la danza come energia positiva) sia presente in gran parte del film, dalla piazza (pensiamo ai movimenti del corpo durante la preghiera collettiva) fino ai momenti intimi dove la musica è sempre in sottofondo (sia nel palazzo di Roma, che nella casa di famiglia di Tanta). La stessa epatite C è una minaccia alla rivoluzione e all'energia espressa da quel milione di persone presenti in piazza Tahrir. La dialettica è quella dell'energia vitale/malattia, rivoluzione/conservazione, vita/morte. La rivoluzione è una forma di energia collettiva e spontanea. La riuscita della rivoluzione stessa è minacciata sia dall'epidemia

SABATO 14 GENNAIO 2012 ANNO 15 N. 2

sanitaria, sia dal potere. Sono stato profondamente impressionato dall'immagine sconvolgente del milione di persone che si muovevano in piazza come fossero una sola entità, una sola persona. Tale immagine è diventata ossessiva e ha condizionato l'intero processo di montaggio, rompendo la divisione tradizionale tra documentario e fiction, e condizionando la struttura stessa del montato finale. Com'era possibile documentare un'immagine del genere con il linguaggio del documentario? Com'era possibile costruire una narrazione attorno ad essa? Alla fine si è scelto di costruire una struttura assimilabile a quella di una lunga onda sonora sinusoidale che conosce ritmi e velocità diverse. La prima immagine (e l'ultima) mostrano qualcuno (o qualcosa) che è in volo, e quindi è libero. E poi scende sulla terra ferma e poi di nuovo risale nel volo. E così via. SEGUE A PAGINA 2

Sondos Asem Shalaby (24) con la madre Manal Abou Hassan (candidata alle elezioni politiche che, divise in varie fasi, si concluderanno l’11 marzo 2012) sul balcone della loro casa a Heliopolis. Foto di Carlo Gianferro


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IL RINASCIMENTO ARABO

IL CAIRO CINEMA / ISLAMISTI

Sotto, a sinistra: immagini dal film «Non parlo bene, danzo meglio» di Maged el Mahedy

ANNO UNO «La rivoluzione è una forma di energia collettiva e spontanea». Il cineasta egiziano Maged el Mahedy parla di «I don't speak well, I dance better», illuminante film su piazza Tahrir

Epatite e tumulti, danzando a Tahrir SEGUE DALLA COPERTINA ●Parlami di questa tragedia sanitaria, il 25-30% di egiziani malati quasi incurabili di epatite C. Gli organi di stampa tacciono e anche l’organismo mondiale della sanità... Facendo riferimento a quanto afferma il medico chirurgo Kamel (figlio di uno

storico primario egiziano che fu tra i primi a fare trapianti di fegato) negli ultimi 30 anni la presenza di un'epidemia sanitaria è stata negata da un potere corrotto che ha teso a presentare l'Egitto solo sotto una veste positiva, dove i problemi non esistevano. Inoltre le scarse condizioni igieniche hanno contribuito a diffondere le patologie correlate. Il film

non tende però a una ricostruzione precisa e ad un'indagine storica su questo fenomeno, ma vuole sottolineare, oltre al gravissimo problema in sé, il suo enorme portato simbolico. Sono partito dal mio dramma individuale (mio fratello morto, mia sorella malata e il tutto in soli 8 mesi) per arrivare all'intervista con il medico e a una visita al primo

ospedale pubblico egiziano (è importante sottolinearlo) che si è occupato in modo specifico del trapianto di fegato (Al Sahel Al Talimi Hospital) inaugurato sotto la presidenza di Sadat. ●Parlami della situazione oggi nel paese, a un anno dalla rivoluzione. Quali prospettive si aprono? In Egitto in questo anno, non è cambiata la situazione, anzi per certi versi si può dire che sia peggiorata. Per esempio, a livello economico e sociale, i continui scioperi nelle fabbriche e nell'amministrazione statale rivelano una condizione salariale non più sufficiente a coprire bisogni della popolazione che un tempo erano invece soddisfatti. Da citare anche la crisi della borsa e il completo crollo dell'afflusso turistico. Del resto, il cambiamento non può essere profondo, visto che questa giunta militare (che dovrebbe governare fino a giugno, quando sarà eletto il nuovo presidente) è stata scelta dallo stesso Mubarak molto tempo prima. ●Qui a fianco pubblichiamo un reportage sui fratelli musulmani. Parlaci del loro ruolo durante le elezioni (comprese le intimidazioni ai seggi, e i regali agli elettori più poveri, stile Dc) ma anche del successo della loro proposta... La vittoria di questo partito è stata influenzata dall'ignoranza radicata nella massa del sottoproletariato

egiziano. Il messaggio lanciato è riassumibile nel «se non voti per noi, sei un infedele, un nemico dell'Islam e non andrai in paradiso!». Se a questo si aggiungono i finanziamenti che i Fratelli Mussulmani avrebbero ricevuto dai paesi dell'area del Golfo (la stampa egiziana ha parlato di 100 milioni di dollari arrivati dal Qatar e da altri paesi limitrofi), bene si possono capire le ragioni di questa affermazione elettorale. Ho voluto mostrare la realtà, composita e complessa, della società egiziana, auspicando un'eterogeneità pullulante e danzante anziché un appiattimento su una singola identità politico-religiosa. ●Perchè hai voluto utilizzare un montatore italiano? Sono egiziano ma la mia formazione artistica è italiana. L'interazione con un montatore che parlava un linguaggio filmico comune è stata perciò una scelta naturale. Le visioni mie e del montatore (Lorenzo Pazzi) hanno come tratto comune il Mediterraneo, anche se proveniamo da due sponde diverse (africana e europea). Il montaggio è stato fatto su materiale non sottotitolato parlato in arabo, lingua completamente sconosciuta al montatore. Da questo punto di vista i tagli sono stati spesso fatti, oltre che sui contenuti, anche sulla musicalità delle parole. Come detto prima, l'idea forte è stata quella di costruire una storia per immagini che non parlasse né il linguaggio della mera documentazione, né quello narrativo classico. Ci sono diversi salti temporali (flashback, visioni quasi oniriche): più che la diacronicità si è cercato di rispettare un ritmo musicale fatto di suoni e movimenti secondo un'altalena ritmica che si concatenasse alle diverse vicende mostrate (mostrate, più che narrate). Il derviscio ruota su se stesso fino a uno stato di trance, come lo stesso film si muove all'interno di una circolarità che sfugge a una visone filmica classica occidentale, disorientando lo spettatore, facendolo perdere e poi ritrovare continuamente all'interno di un'armonia che ha un inizio e una fine che coincidono (il volo). Il montaggio

del suono (affidato a Andrea Basti) è in corso. Sarà presente anche la registrazione di una viola suonata da una musicista classica che ha improvvisato delle variazioni attorno a un motivo tradizionale egiziano presente a più riprese nel film. Il suono della viola, usato di solito per accompagnare, in questo caso esprime, nella sua solitudine, una nostalgia e un richiamo la tradizione sufi. ●Chi è il padrone di casa dal cui terrazzo i giornalisti esteri fotografano gli scontri in piazza? È Pierre Sioufi , artista anarchico (e attore teatrale e cinematografico) di famiglia aristocratica. Ha una casa (e un terrazzo) che domina Piazza Tahrir. In quei giorni diverse troupe televisive, e giornalisti provenienti da tutto il mondo (al jazeera, corriere della sera, rai, bbc, e altri) hanno usato i suoi spazi e la sua ospitalità per documentare gli eventi. Il film mostra una sorta di backstage di tale processo, facendo intendere un brusio informativo che caratterizza quello che avviene all'interno della casa, mentre all'esterno è in corso una rivoluzione. Viene mostrata una dialettica tra dentro e fuori. All'interno della casa si naviga su Internet e ci si aggiorna sugli eventi tramite Facebook. Al di fuori gli eventi, invece accadono realmente. Viene così denunciata una sorta di incapacità dei media di vivere realmente quello sta succedendo. A un certo punto il regista si reca con Pierre sul tetto e dopo che egli gli ha mostrato gli effetti distruttivi sui suoi ricordi di famiglia di una perquisizione dei militari, si scopre che il dentro e il fuori sono collegati (fino a quel momento non era stato ancora detto). C'è anche un richiamo al rapporto tra tradizione e modernità: le sculture di Pierre che si collocano tra passato e contemporaneità, gli oggetti che sono appartenuti alla sua famiglia, un'antica lastra fotografica in cui si riflette l’immagine mia e della telecamera digitale, come il trait d'union tra le due dimensioni, quella delle dinamiche della casa di Pierre, e quella della piazza e dei suoi fermenti.


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MAGED EL-MAHEDY Nella foto grande, al coffeshop, Mahmud Shabab (27) e Abdelrahman Aqila (22), giovani Fratelli Musulmani e giornalisti presso il partito Libertà e Giustizia del distretto di El Manial. Nelle 3 foto sotto: il vice-segretario generale Rashaad Al Bayumi (73); Abdel Moneim Abou El Fotouh (60), ex membro dei Fm, candidato indipendente alle presidenziali; Moaaz Abdel Karim (29), leader dei Giovani Fratelli Musulmani, candidato alle elezioni parlamentari, mentre viene intervistato dal canale TV Masr 25 di proprietà dei Fm. Queste fotografie fanno parte del reportage «Muslim Brothers» di Carlo Gianferro (2011)

●●●Regista e scrittore egiziano, da molti anni residente in Italia, a Roma, Maged el-Mahedy (nella foto) ha realizzato due cortometraggi, «Salam Viterbo» (38’ ) e «Ritratto di un giovane immigrato» (10’, 2009), montato da Alessandro Piva e premio «Gino Votano», prima di scrivere e filmare, nelle settimane cruciali della rivoluzione egiziana e della cacciata di Mubarak, il suo esordio nel lungometraggio, l’ancora inedito, forse al Forum di Berlino 2012, «I don't speak well, I dance better» (Non parlo bene, danzo meglio), montato da Lorenzo Pazzi, Andrea Basti al sound editing, viola solista Koram Jablonko, interpreti principali Mahmoud Reda, Faridah Fahmi, Prof. Refat Kamel, Pierre Sioufi, Maged El Mahedy, Nivin Ramez e Saad Ismail. Il film, che dura 77’, è costato 12 mila euro ed è interamente autofinanziato. Le riprese sono durate 6/7 mesi, di cui 5 in Egitto. Il girato è di 35 ore. Il formato utilizzato è stato un full hd (1920x1080), a cui si sono affiancate riprese fatte con un iphone, e con una fotocamera compatta (usata nei momenti di minima visibilità del mezzo di ripresa, all'interno della metropolitana per esempio).

EGITTO ■ I FRATELLI MUSULMANI

GERENZA

Al centro del paese. Noi, conservatori e compassionevoli Un reportage su «Libertà e Giustizia», oggi la principale forza politica di un paese ancora nelle mani dei militari. Due generazioni di leader a confronto

di VINCENZO MATTEI IL CAIRO

●●●Un terzo, questa era la quota che, a parere degli stessi Fratelli Musulmani (Fm) avrebbe preso il loro partito Libertà e Giustizia (L&G) in parlamento alle elezioni politiche. Il precedente di Al Nahda in Tunisia faceva supporre che la Fratellanza potesse andare oltre le più rosee previsioni e sfondare la soglia del 40% anche in Egitto. Alla prima tornata elettorale (durata circa un mese e mezzo), hanno ottenuto quasi il 45% dei suffraggi. I Fm si stanno preparando per prendere il potere, ma non lo vogliono fare da soli, vogliono dividere la responsabilità di ricostruire l'Egitto con altre forze politiche, si augurano con i liberali, forse per un mero calcolo politico. Infatti le condizioni in cui verte il Paese sono a dir poco disastrose: alta disoccupazione, corruzione dilagante, investimenti stranieri fermi al palo, turismo diminuito del 90%... Il problema non è vincere le elezioni, ma governare. I Fm sono coscienti che 5 anni non saranno sufficienti per rimettere a posto il Paese, ciò significa un alto prezzo da pagare in termini di voti alle elezioni che si terranno alla tornata successiva del 2016. È indubbio che la Primavera Araba ha risvegliato molti movimenti politici oppressi dai regimi dittatoriali. In Egitto, i Fm spesso venivano sbandierati da Mubarak agli occhi dell'Occidente come spauracchio di estremisti islamici barbuti pronti a mettere a fuoco e fiamme il Medio Oriente e la stabilità mondiale. Allo stesso tempo i Fm erano internamente tollerati dall'ex regime politico e anche se non potevano agire pienamente alla luce del sole, avevano creato con il tempo una rete sotterranea di attività politiche, sociali, economiche e culturali che agivano dentro la società. Qualcuno afferma che la Primavera Araba stia diventando un inverno, e insanguinata con la morte di quei giovani che l'avevano iniziata nel novembre 2011. «Credo ci sia un sabotaggio contro il Paese... da parte del Ministero degli Interni (Mi), del Csfa (Consiglio Superiore delle Forze Armate) e di una terza parte che getta benzina sul fuoco alimentando la rabbia e gli attacchi reciproci tra la

polizia e i giovani, perché ogni tentativo di calmare la situazione fallisce». Sono le parole di Sondos Al Shalaby, 24 anni, laureata in Media Communication all'Università Americana de Il Cairo, sua madre, Manal Abdel Al Hassan, è candidata all'elezione parlamentari per i Fm. Ma chi sono i Fm? Sono dottori, farmacisti, primari, sindacalisti, insegnanti, informatici, editori, scrittori, registi, liberi imprenditori, politici, blogger... Una particolarità che sembra distinguerli è la loro appartenenza alla classe media, una condizione che ricorda nel secolo scorso chi possedeva una tessera di partito e quindi otteneva un buon posto di lavoro. L'inquadramento dottrinale dell'organizzazione rasenta la rigida disciplina dei partiti comunisti del secondo dopoguerra, dove i vari membri erano inquadrati in una struttura rigida che annullava qualsiasi dissenso interno, pena l'espulsione, come è accaduto a molti ex membri della Fratellanza. «Siamo come quei conservatori in America che votano per il partito Repubblicano», dice ancora Sondos. Mentre Mohamed El Morsy, 59 anni, segretario generale del partito L&G precisa: «...non siamo esattamente come la Chiesa, abbiamo obiettivi e metodi differenti, siamo più come una Ong, un'organizzazione islamica, non uno stato o un governo». I Fm sono ramificati in tutti i continenti, per l'esattezza in 95 paesi del mondo. Ad oggi la Fratellanza possiede capitali in moltissime nazioni, ha banche nel Liechtenstein, a Bruxelles, New York... È strutturata finanziariamente come una holding con conti bancari in tutto il globo. I Fm svolgono attività di aiuto sociale per i più bisognosi secondo i principi della carità islamica. Possiedono una struttura di Caritas che non ha niente da invidiare a quelle presenti in Europa e in America. Vengono forniti aiuti economici a chi non può permettersi di andare avanti negli studi, vengono distribuiti vestiti e cibo nelle case dei più poveri, viene data assistenza sanitaria a chi non può permetterselo nelle strutture ospedaliere di cui sono soci. «Anche se la Fratellanza formalmente non appoggiava la piazza, c'erano molti dottori dei Fm durante gli scontri di novembre; la nostra è una missione umanitaria, non potevamo abbandonare i feriti che erano a Tahrir senza aiuto. Molti si rifiutavano di ricevere assistenza medica fuori dalla piazza, perché avevano paura di essere arrestati qualora venissero portati negli ospedali. Ci sono dei poliziotti appartenenti al vecchio regime che vogliono ritornare al potere, o vendicarsi delle persone che erano in piazza a gennaio, usando violenza gratuita e armi proibite come questi pericolosissimi lacrimogeni. Ciò rende chiara la determinazione che hanno questi ufficiali di polizia. Sono in atto cospirazioni per negare la libertà all'Egitto, con l'evidente intenzione di ritardare o cancellare le elezioni e protrarre l'autorità dell'esercito» dice Wahdi Iddin Zaid, direttore dell'ospedale El Markesi a Nasr City e membro dei Fm dal 1952. Quale è il ruolo della donna? «Le donne sono attive dentro la

Fratellanza, costituiscono il 50% dei membri. Hanno una buona rappresentanza e prendono parte a tutte le attività sociali e politiche dei Fm. Svolgono un ruolo fondamentale durante le campagne elettorali, monitorizzano e controllano l'andamento delle votazioni, lavorano negli scrutini elettorali, e molte di loro sono anche candidate politiche, come mia madre Manal Aboul Al Hassan. Il ruolo della donna è molto presente nei media, nei blog e nei website, ma dipende dal tipo di specializzazione che ognuna possiede. Sì, si può dire che facciamo più o meno le stesse attività degli uomini» spiega Sondos Al Shalaby. Il problema è che le donne sono piazzate in fondo alle liste elettorali, con poca possibilità di essere elette. Inoltre, secondo il giornale egiziano Masr Al Yom, le donne sono nominate dall'alto, e non elette democraticamente. A parte una maggiore emancipazione della donna in Egitto, un altro problema che dovrà essere affrontato in futuro sarà il ruolo delle Forze armate, per evitare che situazioni come quelle di fine novembre 2011 si ripetano: «Per risolvere l'attuale crisi ci sono difficili opzioni che i Fm propongono: la prima porta a maggiori scontri con i militari, muro contro muro; la seconda è nominare un direttorio ristretto, composto da quattro personalità di spicco nel panorama politico, che venga incaricato di governare il paese fino alla fine delle elezioni parlamentari. Le intenzioni dello Scaf a volte sono chiare e a volte no. Quindi chiediamo loro più trasparenza, perché dicono sempre che ci sono complotti politici contro il paese, ma la gente non li vede. Chiediamo di mostrarceli questi complotti, per avere una nostra opinione al riguardo» afferma Hussein Abdel Qadir El Bassiouni, 44 anni, coordinatore e responsabile delle relazioni esterne del partito L&G. «L'intervento delle Forze armate nella rivoluzione è stato massiccio e importante, ma l'esercito non è abituato a svolgere ruoli civili. Ci auguriamo che faccia un passo indietro una volta che avranno luogo libere elezioni» si augura Mohamed El Morsy. E Israele? Cosa pensano i Fm di Israele? Lo chiarisce El Mosry: «La soluzione ottimale è quella di avere un solo paese, sotto l'autorità palestinese, in cui musulmani, cristiani ed ebrei possano vivere insieme in pace. Perché ora c'è uno stato religioso ebraico, uno stato razzista, che espelle tutti coloro che non sono ebrei... ciò accresce i problemi. Siamo contro i sionisti, e rifiutiamo una teocrazia ebraica, come una cristiana o musulmana. Rifiutiamo l'occupazione del suolo palestinese, lo spargimento del sangue palestinese e tutte le decisioni internazionali prese fino ad oggi. Crediamo nel ritorno dei palestinesi alle loro terre». Riguardo agli ultimi scontri a Tahrir, Manal Abou Hassan aggiunge il suo punto di vista: «Le richieste della nostra dimostrazione del 18 novembre s'incentravano sul futuro SEGUE A PAGINA 5

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STORIE di MASSIMO RAFFAELI

●●●In una delle scene capitali del suo film più claustrofobico, L’ultimo metrò (1980), Francois Truffaut inserisce, letto a voce alta da un regista ebreo in clandestinità a Montmartre nell’autunno del ’42, un passo che proviene dal pamphlet antisemita e filonazista che fu anche il massimo successo letterario dell’Occupazione: «Non contenti di monopolizzare gli schermi e i palcoscenici, gli ebrei si prendono le nostre donne più belle». Destinataria della citazione è un’algida e sentimentalmente ambigua ma comunque stupenda Catherine Deneuve, qui attrice e moglie del regista, forse ignara del fatto che il libro si intitoli Les décombres (alla lettera «Le macerie») e che rechi la firma di Lucien Rebatet, notista politico e critico cinematografico del più famigerato foglio collaborazionista, Je suis partout, il cui redattore capo, passato per le armi dopo la Liberazione, nientemeno è Robert Brasillach, anche lui cinefilo ante litteram e già autore di una pionieristica Histoire du cinéma (1935) con suo cognato Maurice Bardèche che invece scamperà al plotone di esecuzione presto divenendo un capofila del revanscismo neofascista nonché un teorico, se così si può dire, del negazionismo con l’infame Nuremberg ou la Terre promise (1948). Per crudele paradosso, Rebatet ha ritirato le copie del corposo libello il 16 luglio dello stesso ’42 e, mentre lo sta autografando a dozzine di esemplari in una libreria dei Campi Elisi, ad appena un chilometro di distanza le Waffen SS, coadiuvate da un manipolo di zelanti suoi connazionali, deportano migliaia di ebrei parigini nell’operazione che passerà alla storia come la Grande Rafle del Velodromo d’Inverno. Senza essere ancora una celebrità, Rebatet è un esteta figlio del suo secolo, un dandy che la foto di quel giorno ritrae azzimato con tanto di papillon: nato il 15 novembre del 1903 a Moras-en-Valloire (nel Delfinato, un villaggio sulle Alpi non lontano da Grenoble, la città dell’amatissimo Stendhal), figlio di un notaio framassone ma cresciuto in un collegio dei padri gesuiti da cui trarrà un odio mortale per il cattolicesimo e per ogni cristianesimo, egli si è formato a Parigi nella redazione della Action Francaise di Charles Maurras, la couche destrorsa e antirepubblicana per eccellenza, per riconoscersi in via definitiva militante fascista dopo i tumulti golpisti in place de la Concorde del 6 febbraio ’34. Les décombres, libello politico in forma di autobiografia, testimonia del fatto che non è un reazionario ma, semmai, un nemico giurato della democrazia, sia nella versione borghese della Terza Repubblica sia in quella più avanzata e socialisteggiante del Fronte Popolare. Dirà di non avere mai avuto nel suo sangue neanche un globulo rosso democratico: lettore di Nietzsche e Spengler, accetta come una fatalità la diseguaglianza fra gli esseri umani, ammira Benito Mussolini e coglie nella fisionomia di Léon Blum tutti gli ibridi del complotto giudaico-massonico che ai suoi occhi porta ineluttabilmente alla decomposizione della società borghese e perciò all’avvento del comunismo. Il suo virulento antisemitismo, di segno diverso da quello desultorio e follemente rapsodico dell’amico Louis-Ferdinand Céline, assurge nel ’40 a teorema della Disfatta e legittima da un lato l’appoggio fanatico alle politiche filonaziste di Déat e dell’ex comunista Doriot, dall’altro spiega l’aperto disprezzo per il tradizionalismo reazionario, rurale e cattolico, della cricca di

Quella sporca canaglia amata da Truffaut

Esce in Francia un volume che raccoglie le recensioni cinematografiche di Lucien Rebatet, dandy fascista, notista politico, critico musicale e grande scrittore

Pétain: nello splendido film documentario di un sodale di Truffaut, cioè L’oeil de Vichy (1994) di Claude Chabrol, mai distribuito in Italia, lo si vede per un attimo nella sequenza di un cinegiornale, pallido e minuto nel rigore mortuario di una cerimonia fra le camicie brune. Fuggiasco dopo l’insurrezione di Parigi, si aggrega nel castello di Sigmaringen agli spettri di Vichy prima di consegnarsi agli alleati il giorno della fine della guerra, l’8 maggio del ’45, da tempo braccato dalla Resistenza e colpito da mandato di cattura sulla base dell’art.75, «collaborazione e intelligenza col nemico». Incarcerato a Fresnes, processato e condannato a morte, poi graziato dal governo Auriol, infine scarcerato nel luglio del ’52, riavvia in piena guerra fredda e sui fogli della destra (Rivarol, Dimanche Matin) una cospicua attività di critico cinematografico e musicale (wagneriano della prima ora, pubblica a tempo perso una divulgativa Histoire de la musique,

’69, che gli addetti ai lavori apprezzano molto), poi anche di notista politico e di memorialista: muore di infarto nel villaggio natale il 24 agosto del ’72, senza avere nulla abiurato dei propri trascorsi politici come attesta il seguito di Le décombres, un libro incompiuto che esce postumo in Francia nel ’76 e in Italia, nel ghetto editoriale dell’estrema destra, nel ’94 col titolo Memorie di un fascista 1941-1947 (a cura di Moreno Marchi, Settimo Sigillo). Ora, che un individuo così immondo, un uomo tanto discutibile o, insomma, che una simile canaglia sia contemporaneamente stato un grande scrittore è un paradosso difficile da accettare ma tuttavia fondato su almeno due riscontri. In primo luogo (e questo da sempre lo si dice a bassa voce) Rebatet è stato un eccellente critico cinematografico (per nulla accecato dai pregiudizi e dai deliri del Rebatet ideologo) che infatti si firmava Francois Vinneuil con evidente omaggio a Vinteuil, il musicista proustiano. Al riguardo,

in Francia da qualche mese è in libreria Quatre ans de cinéma1940-1944 (Pardès, pp. 410, • 30.40), volume che riunisce le recensioni apparse su Je suis partout di questo amico dell’anarchico Jean Vigo e futuro accanito lettore dei Cahiers du Cinéma, già estimatore del noir americano e sperticato laudatore di due film che furono l’emblema del Fonte Popolare, La Grande Illusione e La Marsigliese di Jean Renoir, come puntualmente Rebatet ricorda nelle sue Memorie: «A mio piacimento avevo così potuto lodare nel giornale dell’estrema destra i film bolscevichi ancora animati dallo spirito rivoluzionario, quelli dell’espressionismo ebreo-tedesco, le pagliacciate di ghetto dei Marx Brothers, le gesta dei gangsters americani, immagini del tutto estranee all’estetica mistraliana o neoclassica della Casa, ai costumi delle giovani ragazze monarchiche e alle loro quadrigenarie verginità». In secondo luogo (ma questo invece lo si tace da sessant’anni


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I FILM DEGLI ULTIMI VENTI ANNI

●●●A 20 anni dalla nascita del quadrimestrale «Trafic», paradossalmente aniconico, ovvero «come vivere con le immagini», una rivista aperta «a tutti quelli che hanno l’immagine come prima passione, il cinema nel loro bagaglio culturale e la scrittura come seconda passione», esce in Francia il numero 80. E per festeggiare l’intuizione controccorente del fondatore Serge Daney (e dell’editore Paul Otchakovsky-Laurens), ovvero disinteressarsi dell’attualità e ritrovare il piacere della scrittura aperta anche a chi critico non è ma studioso d’arte o filofoso o romanziere, si fa la lista dei 20 film del ventennio. Non i più belli bensì «quelli sui quali si ama di più scrivere», da «A.I.» di Rosenbaum, a «Zefino torna» di Mekas, passando per l’«Inland» di Teguia di Ranciere, «Crash» di Cronenberg, «Il bacino di J.W.» di Monteiro, «Film socialisme» di Godard...

Da ragazzo Truffaut amava sugellare ogni nuova amicizia regalando una copia di «Les deux étendards», un capolavoro nascosto del ’900, scritto da Rebatet in carcere dopo la guerra

SEGUE DA PAGINA 3 esatti) Rebatet è l’autore di uno dei più grandi romanzi del secolo, Les deux étendards, che nelle lettere francesi ha un posto d’onore fra il Voyage di Céline e la Recherche di Proust, milleduecento pagine uscite in semiclandestinità all’inizio del ’52 da Gallimard, tuttora in catalogo anche se mai tradotte in nessun’altra lingua, da sempre appannaggio dei cosiddetti happy few. I due stendardi evocati nell’insegna del romanzo che si sarebbe dovuto intitolare prima La teologia lionese e poi Né Dio né Diavolo, rinviano alle estremità inconciliabili, ideologiche nonché esistenziali, del Secolo Breve. Scritto in un’unica e possente presa di fiato, coi ferri ai piedi del condannato a morte, redatto in una lingua di scintillante polifonia e nello stile à la diable del venerato Stendhal, Les deux étendards aspetta ancora i suoi lettori in Francia e all’estero. E’ un romanzo dell’apprendistato e insieme la vicissitudine amorosa di un triplice percorso teologico-politico (due giovani di indole opposta i quali sono innamorati di una stessa donna, la fatale Anne-Marie) che George Steiner, il grande critico ebreo di origini francesi, così presenta ai lettori del New Yorker il 24 agosto del ‘92 (poi in Letture, a cura di Robert Boyers, Garzanti 2010): «Rebatet era un vero assassino, un cacciatore di ebrei, di combattenti della resistenza e gollisti. Mentre aspettava che fosse eseguita la condanna a morte (in seguito fu amnistiato), Rebatet portò a termine Les deux étendards. Questo lungo romanzo si colloca tra i capolavori nascosti del nostro tempo. Inoltre è un libro di inesauribile umanità, traboccante di musica (Rebatet fu per un periodo il più importante critico musicale di Francia), d’amore, di comprensione profonda del dolore. La giovane donna che sta al centro del racconto non è meno plasmata dalle pressioni irradiate dal progressivo maturare della vita di quanto non lo sia la Natascia di Guerra e pace». Si tratta di un’opera scritta in stato di assoluta necessità interiore, dunque lontana anni luce, per estremo paradosso, dall’universo ideologico di Les décombres come dall’estetica dei Brasillach, dei Bardèche e della più o meno svergognata paccottiglia collaborazionista. Venticinque anni prima di girare L’ultimo metrò, memore delle stupende recensioni a firma Francois Vinneuil, pare che il giovane redattore dei Chaiers du Cinéma (la notizia è in Antoine de Baeque- Serge Toubiana, Francois Truffaut. La biografia, Lindau 2003) abbia voluto incontrare un Lucien Rebatet sorpreso e lusingato invitandolo a pranzo sulla Senna, a bordo di un bateau-mouche. Pare anche che Truffaut amasse suggellare ogni nuova amicizia donando una copia di Les deux étendards.

moderati arabi

VILLAGE VOICE CACCIATO HOBERMAN ●●●«Mi sono sentito veramente come Tom Sawyer che partecipa al suo funerale». Così con l’eleganza e lo humor appuntiti e colti che caratterizzano la sua scrittura, il grande critico del Village Voice J. Hoberman (la J. sta per Jim) ha ringraziato sul suo blog la moltitudine di colleghi, amici, cinefili, ex studenti…che ha reagito con supremo orrore alla notizia del suo licenziamento dal prestigioso periodico newyorkese, mercoledi’ scorso. «Ho visto molti colleghi licenziati qui dentro negli ultimi cinque anni. Mentirei se dicessi di non aver mai considerato la possibilità che, un giorno, capitasse anche a me. Sono rimasto scioccato ma non sorpreso. Questo non è lo stesso giornale per cui ho cominciato a lavorare», aveva dichiarato Hoberman ad Anne Thompson di Indiewire poco dopo che si era diffusa la notizia. Nemmeno sul suo blog, medium ideale per gli sfoghi personali, Hoberman ha voluto ombra di risentmento o amarezza. «Non ho rimpianti. E ogni tristezza è mitigata da un senso di gratitudine. Poter fare ciò che uno ama, aiutare la causa delle cose in cui crede per trentatre anni è raro. Ancor più essere pagati per farlo». Il suo post si conclude così: «Basically, I am OK». Hoberman lavorava per il settimanale newyorkese dalla fine degli anni settanta. La sua prima recensione «ufficiale» per il Voice è stata quella di Eraserhead di David Lynch, ma nel 1972, come freelance, era già uscito su quelle pagine con un pezzo su Flaming Creatures, diretto da Jack Smith, su cui avrebbe poi scritto un libro. La sua ultima pagina, sull’edizione del 4 gennaio 2012, era dedicata a Bir Zamanlar Anadolu'da (C’era una volta in Anatolia) e al magnifico nuovo film di Ken Jacobs, Seeking the Monkey King, insieme alla

Truffaut e la passione per i libri, foto tratta da «Francois Truffaut correspondance» di Gilles Jacob e Claude de Givray (Foma 5 continents). A sinistra, Catherine Deneuve nel film «L’ultimo metrò» (1980). Sotto, Lucien Rebatet mentre firma le copie di «Les décombres» alla libreria Rive Gauche

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volti di sahrawi scomparsi dal 1975 ad oggi - www.afapredesa.org - www.arso.org

segnalazione di un’imperdibile serata «Occupy Cinema» curata da Jacobs all’Anthology Film Archives. Turchia, un kolossal underground che dà filo da torcere a Transformers e Occupy Wall Street: un trio jazz che ben riflette la curiosità, l’agilità e la passione intellettuali ma anche il senso di gioco con cui Hoberman continua a guardare il cinema e muoversi liberamente nella fittissima griglia dell’universo filmico, cittadino e planetario. E, nell’overdose di conformismi che appesta l’awards season di quest’anno, è stato uno degli unici a difendere a spada tratta J. Edgar («c’e’ vita dopo Heareafter», iniziava la sua recensione con un gioco di parole –non è un eastwoodiano di ferro), a ricordarsi che su Hoover ha fatto un film anche Larry Cohen, a «vedere» il bluff di The Defendants, (non un brutto film ma sicuramente uno dei più sopravvalutati degli ultimo tempi) e a preferire l’ «orribile» Charleeze Theron in Young Adult al mostro sacro Meryl Streep che fa Margaret Tatcher. La trasversalità, la cultura profonda, la capacità di leggere attraverso la distinzione tra high and low di Hoberman e quel suo modo di pensare il cinema in una continua dialettica di riflessi con il mondo che ci circonda non devono essere sembrati un patrimonio ai padroni del Voice, il primo e il piu noto tra I settimanali alternativi americani (Henry Miller, Ezra Pound, James Baldwyn, con Jonas Mekas e Andrew Sarris per il cinema), acquistato nel 2005 dal gruppo dell’Arizona New Times Media (che possiede diciassette settimanali analoghi) e dissanguato da allora delle sue voci più storiche e distintive. In realtà è quel mix unico che fa non solo delle sue recensioni ma anche dei libri (ne ha scritti undici. purtroppo non tradotti in Italia) di Hoberman dei documenti importanti per capire la storia della cultura e della politica americane. Il suo ultimo volume, An Army of Phantoms/(Un esercito di fantasmi) è un ritratto della Guerra fredda raccontata attraverso il cinema dei Fifties. Quello precedente, The Dream Life (uscito nel 2003), rintraccia gli Usa esplosivi degli anni sessanta nella Hollywood di quegli anni. Sono libri vitali, emozionanti, pieni di idee, densi di storia e di amore per il cinema («nel profondo, rimaniamo tutti dei sedicenni», scriveva Hoberman nel post dell’altro giorno parlando del suo lavoro di trenta e più anni). Prima di licenziarlo, il Voice si era già liberato di altri critici, come Nathan Lee, Michael Atkinson, Amy Taubin e (nel 2006 appena dopo aveva completato di curare un’antologia storica degli scritti di cinema più importanti delle rivista) di Dennis Lim. La scusa è sempre la stessa – la necessità di abbattere le spese. La medesima che è stata usata, in questi anni di recessione e calo di vendita dei giornali, per «terminare» I contratti di Andrew Sarris al New York Observer, Stuart Klawans a The Nation e Michael Sragow al Baltimore Sun – per citare quelli che uno ci teneva a leggere. Aveva fatto un piccolo scandalo il licenzamento del critico storico di Variety, Todd McCarthy. Le cose si sono messe così male che, nel 2009, il bostoniano Gerald Peary (critico anche lui) ha dedicato un documentario all’estinzione della critica cinematografica a stelle e strisce, For the Love of the Movies, che a sua volta ha scatenato un dibattito tra la «vecchia» (su carta stampata) e la «nuova» guardia (online) dei recensori. Ma non raccontiamo quanto ci dispiace che la firma J.Hoberman non apparirà più su quello scheletro che oggi rimane del glorioso Village Voice, per comporre un’elegia della categoria e magari prendersi qualche soddisfazione nei confronti dell’eccesso di ego e della scarsità di interesse di gran parte di quello si legge online sul cinema contemporaneo. Ma perché la sua voce è veramente unica e preziosa. E la complessità del suo modo di guardare e raccontare il cinema da difendere. Non è uno scandalo che Jim sia stato licenziato dal Voice, ma che il New York Times non lo abbia ri-assunto immediatamente.

del processo democratico in Egitto, e si opponevano al documento Salmi che poneva i militari al di sopra della volontà del prossimo parlamento e della Costituzione. Ma ora la piazza domanda la creazione di un Consiglio di Unità Nazionale ristretto, composto da personalità di rilievo del panorama politico egiziano, ciò comporta un lungo periodo di tempo che impatta negativamente sul processo democratico. I Fm seguono il corso dettato dal referendum del marzo 2011, approvato dal 70% della popolazione: prima elezioni parlamentari, poi scrittura della nuova Costituzione e infine elezioni presidenziali. Chi ora è in piazza nega il risultato referendario. Perciò non accettiamo nessun suggerimento, neanche da un Consiglio formato da personalità di tutto rispetto quali El Baradei, Al Fotouh, Amr Mousa...». Comunque è indubbio che dopo le dimissioni di Mubarak pochi sono stati i cambiamenti democratici nel paese; i militari avrebbero potuto ripulire gli organi di polizia e il Ministero degli Interni dalla gente ancora leale al vecchio regime. Inoltre, la decisione dei Fm di non appoggiare la piazza Tahrir durante gli scontri di novembre, può aver creato una frattura profonda nella società civile che potrebbe avere conseguenze dannose nel futuro. Esiste una sfida implicita che la Fratellanza dovrà affrontare negli anni a venire per continuare ad avere quella presa che oggi ha su larga parte della società egiziana: quella della modernità e della democrazia. «L'idea del fondatore El Banna affonda la sua radice direttamente nei valori dell'Islam e quelli del profeta Maometto, quindi non c'è nulla di nuovo, a parte il metodo con cui affrontiamo le questioni legate alla vita moderna» dice Rashaad El Bayumi, 73 anni, vice-leader generale dei Fm e professore presso l'Università de Il Cairo. I giovani della Fratellanza hanno un'eredità pensante e devono avere la forza e la spinta necessaria per la realizzazione di tutti i buoni propositi democratici a cui l'organizzazione si richiama. Prima o poi questa dovrà accettare un compromesso con il sistema della democrazia e i suoi meccanismi di funzionamento, dove la dialettica e il confronto sono alla base della vita politica. Sotto la dittatura di Mubarak, i Fm costituivano l'unica opposizione al regime; ora, oltre il loro partito ufficiale L&G, sono nati molti partiti liberali e altri di stampo islamico, che hanno portato a numerose defezioni della Fratellanza ma che probabilmente le ruberanno solo pochi voti, come è stato il caso del partito salafita de El Nur. Dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011 e i fatti di novembre a Tahrir, molti giovani dell'organizzazione, capeggiati da Moaaz Abdel Karim, hanno cominciato a criticare la struttura troppo rigida dell'organizzazione, ancorata a valori troppo tradizionalistici e in contrasto con quello che vedono attraverso internet e i social network. Hanno una forte presa sulla società, e contrariamente dalle imposizioni della Fratellanza, appoggeranno la candidatura alle presidenziali di Abou Al Fotouh, ex membro dei Fm. I Giovani Musulmani vogliono maggiore rappresentanza dentro l'organizzazione, vogliono essere partecipi delle decisioni da prendere. Gli stessi giovani guardano al futuro attraverso Facebook, i blog, i website e i giornali online, attraverso discussioni democratiche in cui i nuovi cittadini egiziani possono interfacciarsi con i valori del proprio domani.


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FOTOGRAFIA

MONIKA BULAJ

Le foto di Monika Bulaj presenti in questa pagina appartengono alla mostra «Aure. Il sacro in figura» che dopo esser stata a Mestre sarà a Roma in febbraio

fedi (mistica, archetipi, divinazione, possessione, pellegrinaggi, corpo, culto dei morti), minoranze, popoli nomadi, migranti, intoccabili, diseredati, in Asia, Europa e Africa».

di NICCOLÒ NISIVOCCIA

●●●Incontro Monika Bulaj a Mestre, nelle stanze al secondo piano del Centro Culturale Candiani poco prima che inauguri Aure. Il sacro in figura, una delle sue due mostre fotografiche attualmente in corso in Italia e nel mondo intero. L’altra è Nur. Aure, dopo essere stata a Mestre, arriverà a Roma in febbraio, nella Sala Coro dell’Auditorium Conciliazione. Nur sarà nelle gallerie Leica di tutto il mondo nell’arco del 2012 e – in Italia – a Trieste in primavera. Monika sta finendo di attaccare le didascalie accanto alle foto (che poi vere didascalie non sono, ma piuttosto suggestioni ed evocazioni) e quasi corre. Il nostro è dunque un incontro che potrebbe dirsi peripatetico, osserva. In sottofondo, le musiche che lei stessa ha scelto e raccolto o addirittura registrato dal vivo, come in occasione di ogni sua mostra o di ogni suo intervento in pubblico: musica zingara, klezmer, afghana, canti di monasteri ortodossi, «tutto ciò che sia un’ispirazione profonda. Questa ad esempio è una preghiera degli hassidim che ho registrato io. È una preghiera straordinaria perché c’è una polifonia, in realtà una cacofonia che diventa armonia, senti?». Monika ha quarantacinque anni, è molto bella, il suo corpo è agile e teso e il suo viso pare levigato dal vento, il vento di cui parlano anche alcune delle didascalie che sta attaccando, come questa: «Il vento dice le preghiere sulle dimore degli dei. Tibet». Nel complesso emana qualcosa di profondo e quasi di ascetico, come sono profonde e come in parte hanno a che fare con l’ascetismo le foto che fa; ed è insieme estremamente empatica. Del resto, «nur» in persiano vuol dire «luce» e luce è il significato ebraico anche di «aura»: luce nel senso di brezza, di aura appunto, «spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce» come spiega – citando Elémire Zolla – lo scritto introduttivo di Aure. Ma Monika Bulaj non è solo una fotografa, è anche scrittrice e autrice di un documentario (anzi, nei suoi progetti futuri è compresa l’idea di «sperimentare molto, e sperimentare anche l’unione fra l’immagine fotografica e quella del

INTERVISTA ■ MICROCOSMI DIMENTICATI TRA GIBILTERRA E LA PERSIA

L’immagine dello spirito Incontro con l’artista polacca che a febbraio sarà a Roma con la mostra «Aure». «Viaggio alla ricerca dei confini delle fedi. Sempre verso est, verso l’Asia centrale, culla della civiltà» video»). E soprattutto è una grande viaggiatrice, e ciò che affascina dei suoi racconti – fotografici e narrativi – è proprio questo, innanzitutto: i percorsi compiuti. «Viaggio tra Gibilterra e l’Afghanistan» si legge sempre nel suo scritto introduttivo di Aure, secondo «un’agenda che perfeziono anno dopo anno». Parla una decina di lingue, fra cui l’arabo, il persiano e alcune lingue slave, oltre al polacco che è la sua madrelingua e l’italiano che è la lingua del Paese in cui vive da molti anni, a Trieste. I suoi temi di ricerca sono, per usare ancora le sue parole (pubblicate nel suo sito internet personale, monikabulaj.com), «i confini delle

Dei suoi lavori hanno parlato fra gli altri Enzo Bianchi, Moni Ovadia, Guillaume Prébois, Paolo Rumiz, peraltro autore con Monika di un libro di recente ristampato, Gerusalemme perduta. Sempre in toni giustamente entusiastici. Prébois ha detto che le sue foto sanno d’incenso, ed è vero, se si vuole alludere al senso del sacro che non solo le sue foto ma anche i suoi testi, e si potrebbe aggiungere il suo sguardo sulle cose, esprimono, e a patto di intendersi bene: «la geografia del sacro chiarisce un frate in Gerusalemme perduta - non c’entra con la religione. La religione è regola, apparato. Il sacro è altro... misterium tremendum... nostalgia di un’assenza... Ti sorprende dove non te l’aspetti. In una chiesa o in una sinagoga diroccata, in un mendicante che ti guarda, sulla cima di un monte». Le chiedo da dove viene tutto questo, e com’è cominciato: «All’università, a Varsavia, ho studiato filologia polacca, perché era la facoltà più universale, a base umanistica, come Lettere qui in Italia. Io ero un po’ matta e frequentavo anche altre facoltà, per sapere – antropologia, storia, teologia. Ma tutto questo è nato prima, prima dell’università. Tutto viene dal desiderio che ho sempre avuto di capire cosa fosse rimasto nel mio Paese della sua tradizione bizantina ed ebraica. Quale eredità. Mi sono interessata alle minoranze ortodosse, distrutte dal regime comunista perché troppo diverse, e questo è stato il mio laboratorio, ho imparato a stare con le persone, ad ascoltare. Ecco, tutto viene da qui, dal mio essere polacca, dal vuoto che abbiamo subìto, dalle voci che mancano. Anche l’elaborazione del lutto è mancata. Volevo studiare, sapere e capire. Da ragazzina studiavo in modo maniacale, e da allora è stato un continuo crescendo di storie ed esplorazioni. Ognuno ha il proprio viaggio iniziatico, il mio è stato attraversare a piedi il confine orientale della Polonia. Oggi non faccio che continuare a camminare, e sempre verso est – verso l’Asia centrale, che è la culla della nostra civiltà». Si capisce, o meglio si ha la conferma che in Monika studiare e viaggiare non sono elementi dell’essere distinti, ma compenetrati: ogni ricerca è un viaggio e ogni viaggio è una ricerca. Ma talvolta sapere troppo, scrive Rumiz sempre in Gerusalemme perduta, può anche confondere le idee, può far perdere l’andatura. Domando dunque: come prepari e come organizzi i tuoi viaggi, e prima ancora come scegli le tue mete? «Mi piace partire vuota, affidarmi ai luoghi, alle persone. Certo studio tantissimo, ma poi il viaggio insegna già tutto, perché una volta nel viaggio è il viaggio che crea tutto, anche la narrazione. Quando sono in un luogo, in una situazione, voglio essere solo in quel luogo, in quella situazione. In questo senso il viaggio è un grande maestro, ma non è vero che sapendo troppo non si vede. Bisogna essere preparati, per riconoscere i simboli, la Storia, e al tempo stesso bisogna ascoltare le persone, e ascoltarle – anche se non se ne capisce la lingua – attraverso tutte le emozioni che dalla lingua non passano: la mimica, gli occhi, il cuore. Quando parto, non ho niente di prenotato. Non ho regole. Spesso ho il biglietto del ritorno aperto e spesso dormo a casa delle persone che conosco lungo la strada, ma neppure questa è una regola, è solo una cosa che mi capita spesso».

Guardo le foto, enormi, appese alle pareti, e leggo le didascalie che le accompagnano; sotto, la musica continua a scorrere. Mi sembra di riuscire a immaginarla, Monika, mentre scatta le immagini che ora ho davanti, alcune in bianco e nero altre a colori: una donna che lava un bambino nella penombra di quella che potrebbe essere un’izba russa; un’altra donna di spalle, scalza, che attraversa l’immenso cortile, abbacinato dal sole, di una moschea; un monaco, vestito di una tunica rossa e pure lui di spalle, solo in mezzo al deserto; una famiglia, caravaggesca nel gioco dei chiaroscuri, intorno a una tavola molto semplice; persone raccolte in preghiera individuale o collettiva, riti sacrificali. A Monika interessano soprattutto, anche se non solo, i monoteismi, e in particolare le tre cosiddette religioni del Libro (cristianesimo, ebraismo, islamismo). Ma cosa intende quando parla, riferendosi a queste o ad altre religioni, di «confini delle fedi»? La risposta è in una sua pagina in cui ogni parola è necessaria, ai fini della spiegazione: «Il calendario dei miei spostamenti... svela una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani Khidr il verde; San Giorgio a cavallo è festeggiato nei Balcani da cristiani e islamici; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, napoletane e stambuliote; e poi le ricorrenze della salita del figlio di Dio in cielo, la salita degli armeni scalzi sulle ginocchia fino alla cima della montagna annerita di candele, le feste della fecondità e della morte, quelle della fine dell’anno e del suo inizio, zingaro, persiano o ebraico non importa. Il calendario del sacro, nelle tre religioni del Libro, segue – a ben guardare – gli stessi ritmi dell’eterno ritorno: il sole, la luna, le stagioni, i sette anni, i quaranta giorni, con la notte della vigilia che spesso è più importante della festa in sé. Le donne armene e turche che leggono il futuro attraverso i sogni dormendo sulla tomba di un profeta sul Bosforo, per esempio, sono assolutamente simili alle pellegrine russe accovacciate nel buio con le candeline accanto alle reliquie di un santo sulle montagne dei Carpazi, o alle donne tuaregh vestite a festa in una notte di preghiera sui tumuli sacri del deserto. Se seleziono nel calendario i momenti più forti e misteriosi che ho vissuto, m’accorgo non solo che essi scavalcano gli steccati eretti dai chierici o dai teologi, ma che la loro successione svela un assieme solido e coerente, una continuità che abbiamo disimparato a osservare, condizionati come siamo dalla superficiale impressione di cataclisma – oggi si direbbe conflitto di civiltà – che ci divide. Lo stesso avviene per i luoghi. Se sono sacri, sono sacri per tutti. Allo stesso modo, il buon santo è buono per tutti. Per non parlare dei gesti della preghiera, dell’uso del corpo come tramite per comunicare con l’Altrove». Di nuovo si capisce, o meglio di nuovo se ne ha la conferma, che Monika Bulaj è anche un’antropologa, come lo sono spesso, si sa, gli artisti. Ogni sua foto, ogni sua pagina testimonia una comprensione del mondo rispetto alla quale sapere e sensibilità hanno trovato il giusto equilibrio. Verrebbe voglia di seguirla nel cammino, e di mettersi in viaggio con lei – che adesso progetta di tornare presto, ancora una volta, in Tibet, in Afghanistan, in Pakistan, in altri Paesi dell’Asia centrale. Intanto l’ora dell’inaugurazione è arrivata e in moltissimi stanno già entrando, sono già entrati. Rimane però un insolito silenzio, nell’aria, aldilà o al di qua della musica.


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CULT

GREGG ARAKI INTERVISTA ■ «KABOOM», TRA COLLEGE E FANTASCIENZA

«Il cinema è come la sessualità, non ha bisogno di etichette» Ragazzini scatenati, biscotti lisergici, fantasmi sul web, complotti per distruggere la terra. Tra i protagonisti la fantastica Juno Temple di CRISTINA PICCINO

●●●Una cosa è certa: nessuno è mai ciò che dice al 100%. Almeno alla prova della scala di Kinsey, il medico che ha cercato di «classificare» la nostra sessualità tenendo conto più delle sfumature che del gender in senso stretto. Ci vuole poco a minare le sicurezze più spavalde: prendiamo quel ragazzotto biondo e belloccio, il tipico metrosexual da college. Alla domanda dove ti posizioni tra 0 e 6 lui replica con un 0 senza esitazione. Ovvero: totalmente etero. Pochissimo dopo però eccolo a letto con la ragazzetta che lo ha rimorchiato - spiegandogli pazientemente che fare sesso non è un esercizio ginnico e soprattutto che leccarla un po’ non è come mangiare un piatto di spaghetti - e col suo migliore amico. Per non dire del muscoloso bagnino che fa sesso con lo studente timido mentre la moglie fa impazzire isterica il cellulare ... Kaboom è l’ultimo film di Gregg Araki, presentato due anni fa al festival di Cannes, dove è divenuto subito un assoluto «cult», è uscito il 13 in Italia grazie alla distribuzione on demand Own Air (www.ownair.it). Tra il college-movie e la fantascienza lisergica, omaggio dichiarato al cinema di John Waters che il regista californiano, icona del cinema indie americano più irriverente, adora sin da ragazzo, Kaboom ritrova le passioni dei primissimi film di Araki (anche autore della sceneggiatura e del montaggio), dentro però un visione nuova, scatenatissima, e di totale libertà espressiva. Immagini e storia mischiano allegramente umorismo, commedia, complotti mistici, beach movie, stravolgimenti in rete, premonizioni da social network. Un film da non perdere, che con leggerezza da colpo di fulmine scombina generi, identità, sessuali e cinematografici, in un crazy party dell’immaginario. Complici i magnifici attori, Thomas Dekker, Roxane Mesquida, Juno Temple (figlia di Julien) Smith vive il college, divide i segreti con l’amica del cuore Stella, si fa sedurre da London, sognando un incontro sessuale con il compagno di stanza, Thor, e poi con il più timido Oliver. Ma un incubo lo perseguita e la sua vita cambia nel momento in cui, complice un biscotto di «spezie», ritrova ad una festa i protagonisti del suo stesso sogno, fino ad allora mai

visti o conosciuti. Eventi paranormali, coincidenze inquietanti e rivelazioni incredibili sul suo passato coinvolgono sempre più a fondo il ragazzo in un progetto folle e pericoloso, che minaccia l’umanità intera... Avevo incontrato Gregg Araki a Cannes, due giorni dopo la proiezione, ancora incredulo per il successo del film. «Kaboom è forse il mio film più autobiografico, che mi riporta a quando ero studente, ancora giovane, con la spensieratezza e l’insolenza che si possono avere solo negli anni del

college, quando non sappiamo ancora chi siamo, cosa diventeremo, quale è la nostra sessualità». ●Un po’ come i personaggi del tuo film. Sì, diciamo che con questa storia abbastanza folle mi piaceva l’idea di esplorare a distanza quel momento della vita in cui tutto è ancora nella sfera delle possibilità. Ricordo che a vent’anni ero molto confuso, ogni cosa mi sembrava difficilissima e traumatica. Se ci ripensi da adulto, capisci che è un po’ come dice Stella nel film, che quelli sono i migliori anni della tua vita, in cui si possono vivere avventure meravigliose e molto importanti. Perché è lì che si determina il tuo futuro, cosa diventerai... E tutto questo non riguarda gli studi ma le esperienze che si sono vissute, cosa si è imparato come persona. Le relazioni umane, la sessualità, le rotture, ogni piccola cosa, anche ciò che in quel momento sembra terribile e senza senso. ●C’è un personaggio al quale ti senti più vicino? Smith che è anche l’io narrante? Da studente ero molto simile a lui ma un po’ tutto quello che accade nel film appartiene alla mia vita ... C’è un momento nel film, quando Smirh guarda al club il gruppo che suona: ecco trovo che quella scena mi rispecchi davvero moltissimo.

Ancora adesso, ogni volt che vado a un concerto mi sento come se la musica mi trasportasse diventando l’unica cosa che davvero conta nella vita in quel momento. ●La sessualità è vissuta dai personaggi in modo molto libero e con immenso piacere, anche nella confusione, nelle tragedie dei tradimenti o degli abbandoni e senza pensare al genere. Si sta con chi ci piace, uomini o donne. Ho l’impressione che i ragazzini oggi, almeno negli Stati uniti, siano meno preoccupati ad autodefinirsi e che gli piaccia sperimentare il più alto numero di cose possibili. In questo senso ho l’impressione che un film come Nowhere (97) ha anticipato i tempi, già lì i protagonisti vivevano con molto libertà la propria sessualità senza classificarsi etero o gay o bisessuali. E adesso credo che sia così, che quest’ansia di mettersi dentro una categoria sessuale sia superata. Fino a quindici anni fa un ragazzo si tormentava chiedendosi se era gay o no. Ora le diverse esperienze sessuali vengono viste come parte della condizione umana senza sentire subito la necessità di metterci sopra un’etichetta. Inoltre una libertà sessuale che non è soffocata da sensi di colpa, giudizi, punizioni, che non si porta dietro un fardello di negatività, è davvero unica nel cinema americano. Che invece tende a essere puritano e ipocrita, e

preferisce gli ammiccamenti travestiti da qualcos’altro alla leggerezza esplicita e al piacere di divertirsi. ●Anche «Kaboom» è un film inclassificabile. Ci ho lavorato per molti anni, e il soggetto originale è passato attraverso vari sviluppi, a un certo punto si era parlato persino di farne una serie tv. Così ho seguito più fili narrativi, e pensato diversi personaggi. Molte scene le ho tagliate al montaggio ed è stato terribile farlo ... Di fondo però avevo in mente sin dall’inizio di fare un film che si potesse rivedere più volte senza stancarsi, senza mai dire che è troppo lungo o cose simili ... Per questo ho cercato di dargli un ritmo veloce, è come se fosse un vortice che risucchia lo spettatore in un mondo folle prima che se ne accorga. E a quel punto ci sta e non riesce a uscirne. ●Scrivi i tuoi film e li monti. Ovviamente non è solo una questione di budget. Si tratta sempre di pensare cosa funziona in ogni film. Sì faccio anche il montaggio, Kaboom è il mio decimo film, e ogni volta è diverso. Si impara molto montando, si capisce il senso del ritmo, come funziona un film. E questo è importante, aiuta a crescere anche come regista. Ci sono molti giovani all’opera prima che quando montano non riescono a separarsi da una scena, ne sono innamorati il film però non è quel dettaglio che magari in sé è meraviglioso ma l’insieme. Per fare un buon film si deve rinunciare a qualcosa. ●La colonna sonora è molto bella. Sono stato fortunato a mettere insieme gruppi come Interpol, Placebo e XX, e pezzi di Ulrich Schnauss e Robin Guthrie dai Cocteau Twins. La musica è intimamente legata all’universo del film, ne esprime il sentimento.

In alto Gregg Araki. Al centro una scena da «Kaboom»

SCANDALOSI COLLANT ●●●Gambe – in un bel film di Francoise Truffaut che si chiama Finalmente domenica il protagonista guarda le gambe delle donne dalla finestra rasoterra di un seminterrato in cui è nascosto, ciò gli procura un grande godimento e lo distrae dal resto. Fanny Ardant, segretaria di lui innamorata, se ne accorge e passa e ripassa volutamente davanti alla finestrella; in un altro film, sempre di Truffaut, L’uomo che amava le donne nella prima scena al funerale del protagonista l’inquadratura, che ha il punto di vista della cassa da morto, ci mostra una lunga processione di gambe selezionate con cura: belle, scattanti, longilinee, più o meno polpacciute con caviglie sia solide che sottili che si fermano sul terriccio rimosso del cimitero a rendere omaggio al defunto. Tutte immancabilmente inguainate in invisibili calze di nylon. «Le gambe delle donne sono compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi donandogli il suo equilibrio e la sua armonia». Sono davvero belle a vedersi tutte quelle gambe vestite di calze trasparenti e seducenti. Peccato che la fabbrica di Faenza che le produce, la Omsa e la Golden Lady, fabbrica italiana in attivo, abbia deciso di chiudere e licenziare in tronco, con un semplice fax inviato al posto degli auguri durante le feste natalizie, le sue 239 lavoratrici che sono già in cassa integrazione da diversi mesi. La Omsa, attiva dagli anni Sessanta quando pubblicizzava i suoi prodotti attraverso le gemelle Kessler con quell’«Omsa che gambe!», che attualmente sarebbe meglio trasformare in un «Omsa che schifo!», copre tuttora il 55 per cento del mercato del collant, grazie anche alla Golden Lady, e ha deciso di sbaraccare in Italia per aprire l’attività in Serbia dove il costo del lavoro è pari ad un terzo di quello italiano. Le lavoratrici continuano a protestare con tutti i mezzi, teatro di strada compreso e un passaparola su facebook che invita a non comprare queste marche pare che cominci ad avere successo. Spero che ne abbia sempre di più, spero che la dissennata scelta di mandare per strada e per stracci tante donne porti sfortuna all’imprenditore che la sta attuando e spero che non si faccia confusione in questi tempi «d’amor patrio» in cui sento spesso parlare di «comprar italiano» tra le marche italiane prodotte all’estero e quelle che, anche a costo di qualche sacrificio, resistono sul nostro territorio. Non basta ragionare sui nomi propri serve tener d’occhio anche i luoghi di produzione se si vuole veramente partecipare. Così come, insieme alla parola d’ordine cultura bene comune si cominci a pensare a industria bene comune, parlo di quelle abbandonate, alcune delle quali (in Sicilia di ceramiche per bagni) rilevate da cooperative degli stessi lavoratori licenziati. Utopia: che le forti donne di Faenza si approprino della fabbrica di calze dove hanno perso la propria giovinezza che la facciano funzionare e che usino un bel montaggio di spezzoni di film di Truffaut per farsi pubblicità.


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ALIAS 14 GENNAIO 2012

DEBITO PUBBLICO

LEGA NORD

Dai «Dialoghi» del Ruzante con Roberto Citran, sotto la compagnia Pupi e Fresedde, in alto da «Comédia Mosqueta» regia di Mario Barradas (Portogallo)

STORIA ■ VENEZIA NEL QUATTROCENTO-CINQUECENTO

KAFKA E LA CRISI ●●●Questo è il sesto anno della mia collaborazione ad Alias con la rubrica del primo sabato di ogni mese. Lo dedicherò ai dodici autori che secondo me hanno meglio sentito-compreso-capito la crisi che stiamo vivendo. Cominciamo con Kafka. Nato nell’anno in cui è morto Marx, era il 1883, se n’è andato a 41 anni, dopo aver scritto poco e pubblicato meno. In quel meno, il racconto In loggione. Tutti i personaggi di tutte le opere di Kafka sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i nostri vicini di casa, i nostri lontani di casa, tu e io, qui e ora. Vabbene, starai pensando, ma su questa ‘materia’ si sono rotti la testa generazioni di critici, ognuno la pensa a modo suo e ancora oggi se ne discute. Già: per alcuni Kafka è «eroe di un’etica laica», per altri «il precursore spirituale della controrivoluzione», altri lo vogliono «testimone della morte di Dio», e senti questa: «la carica profetica dell’angoscia kafkiana nasce dalla riduzione alla sua nuda struttura di una esperienza storica determinata: l’esperienza della disumanità del capitalismo, della condizione operaia nella fabbrica capitalistica» (Lucio Lombardo Radice, Gli accusati, De Donato 1972). Ha ragione Lucio. Lo mostra l’inizio del Loggione: «Se un’acrobata a cavallo, fragile, tisica venisse spinta per mesi interi senza interruzione in giro nel maneggio sopra un cavallo vacillante dinanzi a un pubblico instancabile da un direttore di circo spietato sempre colla frusta in mano...» Ha torto Lucio. Lo mostra, seguitando, il racconto: «…Ma non è così: una bella dama bianca e rossa entra lieve dal velario che due orgogliosi servitori in livrea sollevano per lei; il direttore, cercando ossequioso i suoi occhi, le sospira incontro con devozione bestiale, la solleva cauto sul cavallo pomellato, come se fosse la sua nipote preferita che parte per un viaggio pericoloso...» Cosa vuol dire? Vuol dire che Kafka è, nello-stesso-tempo, il poeta di un «mondo finito» (la civiltà liberale-borghese) e il poeta di un «mondo disgregatore» (le società burocratiche di massa), dell’enigma e del disincanto, dell’uomo-massa «condannato non solo senza colpa ma anche senza cognizione» e dell’intellettuale-creativo «che ha poco suolo sotto i piedi». Insomma Kafka è il poeta della complessità. Ecco perché l’opera sua non solo sopporta, ma fomenta tante singole interpretazioni. Spingendoci delicatamente a costruire interpretazioni sempre più comprensive, quindi sempre più creative, di questa vita, di questa crisi. Invece noi la semplifichiamo, questa crisi, incastellandoci a ogni passo nelle ideologie della vecchia civiltà moderna (il liberismo, il marxismo, la social-democrazia, il cristianesimo sociale), come fragili spettatori di galleria. Come termina difatti In loggione? Mentre lei, acrobata e dama, una e bina, «correndo alta sulle punte dei piedi entro un nembo di polvere, a braccia aperte e arrovesciando la piccola testa, vorrebbe far partecipe tutto il circo della sua felicità, lo spettatore di galleria appoggia il viso al parapetto e, sprofondando nella marcia di chiusura come in un triste sogno, piange di un pianto inconsapevole». www.pasqualemisuraca.com

Il feroce sistema di tasse e balzelli della Serenissima di BEATRICE ANDREOSE

●●●Citata, vezzeggiata, invocata e rimpianta. La Lega Nord indica nella Repubblica Serenissima il più alto grado di civiltà raggiunto dalla storia veneta. Ma ne siamo certi? Una lettura meno superficiale e viziata da ideologia dimostra che essa fondava la sua ricchezza e la sua forza sullo sfruttamento del lavoro contadino perpetrato attraverso un sistema fiscale che impoveriva fino alla fame gli abitanti dei contadi e della terraferma in generale. Le magnifiche sorti del buon governo erano monopolio dei raffinati e ricchi cittadini veneziani, categoricamente esclusi invece i residenti dell’entroterra veneto costretti a condurre esistenze infami. Venezia città capitale. Tutte le altre, suddite. E sudditi erano soprattutto i contadini e i miserabili delle plebi urbane. Lo sottolinea un testimone eccellente di quel tempo. Rivolgendosi al potentissimo Cardinale Francesco Cornaro, Angelo Beolco, detto il Ruzante, nella Seconda oratione scrive: «...E vi dirò di più, che quanti stanno nel Pavano sarebbero venuti anche loro, se non fosse che essi sono così secchi e così consunti dalla fame che si potrebbero soffiar via e, come si dice, sono più leggeri di un moscerino» e ancora «In conclusione, questo mondo è diventato come una terra incolta. Guardate se vedete più un innamorato. Vi so dire che la fame gli ha cacciato l’amore via dal culo. Nessuno osa più innamorarsi, per non prendersi spesa in casa; e quei singhiozzi e quei sospiri che si solevano trarre per amore, adesso si traggono per la fame». Siamo nel 1529. Pochi anni prima era stata combattuta la devastante guerra di Cambrai che contrappose le principali potenze europee alla ricchissima Serenissima, già in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo e impegnata in una guerra di conquista della terraferma romagnola e lombarda. Il Ruzante, l’esempio più alto e genuino del teatro veneto nel Rinascimento,

Venezia fondava la sua ricchezza e la sua potenza sullo sfruttamento intensivo dei contadini, tassati e impoveriti fino alla fame

svela il rovescio delle immagini idealizzate, trasmesse sino ad oggi dalla grande pittura veneta del ’400-’500 e da gran parte della letteratura ufficiale dello stesso periodo. Descrive come il senso di superiore armonia della Repubblica si fondasse sui sacrifici del ceto contadino, il gruppo iniziale del successivo proletariato protagonista, alcuni secoli dopo, della lotta di classe. Fame e miseria, carestie ed epidemie accompagnavano gli anni ’20 del 1500, epoca in cui la Dominante dovette far fronte a tutte le sue risorse per affrontare le orde lanzichenecche che devastavano le campagne del veronese e del bresciano arrivando fino al bergamasco. Per sostenere gli

ingentissimi oneri bellici lo stato veneto ridusse le spese razionalizzando e centralizzando l’amministrazione statale, prese denaro a prestito da privati, sfruttò in tutti i modi il debito pubblico. Non solo. Allora come oggi, quel potere alienò i beni demaniali e gli uffici. Soprattutto torchiò il più possibile i sudditi, aumentando le vecchie imposte e introducendone di nuove, costringendoli a prestare grosse somme di denaro allo Stato e a mantenere gli eserciti in armi. Spesso tutto questo non bastava cosi la bancarotta fu inevitabile. Nulla di nuovo insomma sotto il cielo. Gli aristocratici veneziani fondavano il loro privilegio e ne traevano alimento per esercitare il loro indiscusso potere. Una veloce analisi dell’imposizione fiscale rimessa in piedi dopo la guerra di Cambrai lo dimostra . Dure le imposte applicate allo Stato «da tera», ovvero ai territori dell’entroterra padano-veneto che, assieme al Dogado e allo Stato da Màr, costituivano le tre ripartizioni in cui era suddiviso lo Stato veneziano. Vi erano le «gravezze» o «angherie» e i dazi, come quello sul sale, riscossi in funzione della ricchezza dei sudditi o del loro numero e imposti con una quota fissa alle comunità, ai corpi del contado o alle arti. Per le sue guerre Venezia chiedeva ai sudditi della terraferma una imposta diretta come la «dadia delle lance», calcolata in base al valore dei beni posseduti e pagata da ognuno insieme al «corpo» a cui apparteneva che poteva essere il corpo della città o quello del territorio. Ad essa le comunità si opponevano in tutti i modi tanto che all’inizio del ‘500 il gettito annuo dell’imposta era molto ridotto e, comunque, non più adeguato alle necessità della Serenissima. Sino al 1446 i veneziani la evadevano sistematicamente, obbligando gli abitanti dello «stato da tera» a contribuire al loro posto. I contadini e i piccoli proprietari, cosi magistralmente rappresentati dal Ruzzante, erano stati rovinati dagli eserciti in lotta che avevano devastato le campagne tanto che i più poveri si trovavono costretti a vendere a prezzi bassissimi molta terra ai cittadini facoltosi. Ed al danno si aggiungeva la beffa perché la campagna, causa i vecchi estimi, continuava a contribuire anche per le proprietà passate alle città tantochè nel 1516 si registrarono tumulti e sommosse per il riaggiornamento degli estimi stessi. In quell’anno a Treviso il Podestà e Capitano Nicolò Vendramin avvertiva, ad esempio, l’urgenza di una riforma degli estimi poiché «li poveri contadini lo quali hanno alienato il suo, hanno etiam perso gli animali, et bona parte de lor famiglie son mancate e ruinate. Et butandose sopra l’estimo vechio, seguiria questo grandissimo inconveniente che bisogneria astrenzer dicti contadini a pagar de cose che non hanno, che seria un meter tuto el paese sotosopra». Il territorio chiedeva che i proprietari dei beni venduti dopo il 1509 pagassero regolarmente le imposte col comune nel quale abitavano eliminando così il tradizionale predominio della città sulla campagna che aveva nel privilegio fiscale uno dei suoi cardini. La città di Vicenza fornisce un esempio. Su un totale di 14000 ducati, nel 1518, il riparto attribuiva 1539 ducati della dadia al clero, 4166 alla città e ben 8322 al territorio. Una palese ingiustizia tanto che la Serenissima intervenne aumentando d’autorità la quota della città di più del 30% e riducendo quella del distretto del 25%. Oltre alla dadia delle lance venivano imposti anche oneri personali come i lavori pubblici o gli obblighi militari. I contadini erano reclutati come rematori, soldati o guastatori. Scavare canali, realizzare gli argini o portare legna giù dai

«...questo mondo è diventato come una terra incolta. Guardate se vedete più un innamorato... la fame gli ha cacciato l’amore via dal culo...»

boschi, erano lavori imposti esclusivamente ai contadini che li dovevano svolgere gratuitamente. Se un Contarini, patrizio veneziano, o un Zabarella, nobile padovano, possedevano a Pernumia campi irrigati dall’acqua dei fossi che i distrettuali tenevano puliti e che avevano eretto, ebbene quei signori non pagavano alcuna moneta per quei lavori! Non bastassero le gravezze, i Consigli cittadini, incaricati di rilevare la capacità contributiva di ciascun residente del centro urbano e del distretto, aggiungevano anche la tassazione locale. Questa la panoramica dunque, per quanto concisa, delle condizioni in cui versavano i residenti dei contadi (leggermente diversa quella dei residenti nelle città, soprattutto se nobili), nel corso della lunga dominazione veneziana. Nel 1997 i Serenissimi occuparono il campanile di San Marco. Alcuni di loro provenivano dalla pancia del più profondo nord-est, il basso padovano. Una cosa è certa. I loro antenati, contadini padani, facce arse dal sole,cappello di paglia in testa, abiti grezzi, bifolchi insomma, spesso davanti al giudice per far valere i loro diritti contro gli aristocratici veneziani, non avrebbero gradito la ribalderia dei loro insipienti pronipoti!


ALIAS 14 GENNAIO 2012

I FILM LA CHIAVE DI SARA DI GILLES PAQUET-BRENNER, CON KRISTIN SCOTT-THOMAS, NIELS ARESTRUP FRANCIA 2010

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A Parigi, nella notte del 16 luglio 1942, i nazisti compiono un rastrellamento e ammassano gli ebrei nel Velodromo d’Inverno prima della deportazione. La piccola Sara Starzynski (Mélusine Mayance), che ha solo dieci anni è riuscita a nascondere il fratellino Michel in un armadio prima con la promessa di tornare. Dopo sessant’anni la giornalista americana Julia Jarmond (Scott-Thomas) che vive in Francia da vent’anni è incaricata di realizzare un reportage sul rastrellamento. L'INCREDIBILE STORIA DI WINTER IL DELFINO 3D DI CHARLES MARTIN SMITH, CON MORGAN FREEMAN, ASHLEY JUDD. USA 2011

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Ispirato alla storia vera del delfino Winter e della comunità che si unisce per salvargli la vita: mentre nuota libero, un giovane delfino rimane impigliato in una trappola per granchi e riporta gravi ferite alla coda, viene soccorso e trasportato al Clearwater Marine Hospital, dove gli viene dato il nome Winter. Un biologo marino, un medico e un ragazzo con la sua amicizia riescono a salvarlo. L'INDUSTRIALE DI GIULIANO MONTALDO, CON PIERFRANCESCO FAVINO, CAROLINA CRESCENTINI. ITALIA 2011

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Il proprietario quarantenne di una fabbrica nella Torino colpita dalla crisi economica cerca di risolvere la situazione, pressato dagli operai e dal suo orgoglio di imprenditore. Parallelamente avanza in termini ossessivi la crisi familiare poiché invece di cercare di risolvere i suoi problemi matrimoniali, inizia a sospettare e a seguire la moglie.

SINTONIE modo di pensare, con un meccanismo da commedia che coinvolge sentimenti, stampa, televisione e governo. Come in altre commedie rurali (da «Svegliati Ned» di Kirk Jones a «Holy Water» di Tom Reeve) anche le zone più isolate cambiano grazie alla tecnologia o a eventi imprevisti. (s.s.) ALMANYA - LA MIA FAMIGLIA VA IN GERMANIA DI YASEMIN SAMDERELI, CON VEDAT ERINCIN, FAHRI OGÜN YARDIM. GERMANIA 2011

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Lontano dal «dramma dell'emigrazione» e dalla temibile commedia etnica è una sophisticated comedy di una regista trentenne, Yasemin Samdareli, tedesca di origine turca, fan di Lubitsch e di Guney, dai quali distilla humour dissacrante e memoria storica per il suo film d'esordio. Successo all'ultima Berlinale, Almanya ha registrato in Germania un record d'incassi (11 milioni di dollari). (m.c.) LE IDI DI MARZO DI GEORGE CLOONEY, CON RYAN GOSLING, PAUL GIAMATTI. USA 2011

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Incursione di profondità nell'immaginario americano di un cineasta che ha stile, George Clooney (qui scrive, dirige e interpreta): è Mike Morris, governatore democratico candidato alle presidenziali, l’«uomo nuovo», pacifista, fautore dello stato sociale, spudoratamente ateo. Ma nello staff covano corruzione e brama di potere. Thriller bipartisan dedicato al più appassionante dei giochi, la politica, Ma finisce per ridurre tutta la storia Usa (Kennedy, Nixon, Clinton/Levinsky...) ai suoi moventi più «bassi», oscuri, patologici e casuali, rompendo con la sensibilità «liberal» se non proprio radical, che rese indimenticabile il filone «elettorale» new Hollywood anni '60 e '70 (r.s.)

KABOUM DI GREGG ARAKI; CON THOMAS DEKKER, HALEY BENNETT. USA 2010

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Fantascienza innestata con genere college: Smith vive come tanti altri studenti al college tra amiche. amici e relazioni diverse, finché qualcosa ingerita ad una festa non gli fa credere di avere assistito a un omicidio compiuto da individui che indossano maschere di animali. Questo causerà una reazione a catena di vaste proporzioni (vedi anche intervista a Gregg Araki a pag. 7) SUCCHIAMI DI CRAIG MOSS, CON DANNY TREJO, NIC NOVICKI. USA 2011

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Parodia di Twilight dal regista di 40 anni vergine. Stella (Alissa Kramer) è costretta a scegliere fra l’egocentrico vampiro Edward e il licantropo Jacob. LITFIBA: CERVELLI IN FUGA EUROPA LIVE 2011

DI PIERO PELÙ, MARIO PIREDDA. ITALIA 2012

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Il diario di viaggio del tour dei Litfiba che ha visto, nel 2011, la rock band calcare i palchi di Londra, Berlino, Bruxelles, Amsterdam, Ginevra, Zurigo, Parigi e Barcellona: backstage, live e racconti di un viaggio rock’n’roll. (dal 16 gennaio) AGUASALTAS.COM DI LUÍS GALVÃO TELES, CON JOÃO TEMPERA E MARÍA ADÁNEZ. PORTOGALLO 2011.

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Pedro, un ingegnere inviato da Lisbona al villaggio Aguas Altas per costruire una strada, decide di creare un sito web dedicato al paese. Però a Madrid una multinazionale ha registrato lo stesso dominio per commercializzare un’acqua minerale e richiede il pagamento di 500 mila euro come risarcimento. Inizia una battaglia: gli abitanti del borgo difendono il sito nonostante non sappiano neanche cosa sia internet e cominciano a cambiare

IMMATURI. IL VIAGGIO DI PAOLO GENOVESE, CON RAOUL BOVA, AMBRA ANGIOLINI. ITALIA 2011

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Se il primo Immaturi poggiava su una ideuzza debole, ma efficace, quella dei quarantenni obbligati a ripetere la maturità, arrivati al (troppo) rapido sequel, la trovata si dimostra fragile e non trova nella sceneggiatura, che prevede un viaggio tutti insieme in Grecia, il modo per sviluppare ulteriormente caratteri e situazioni. La partenza è particolarmente buona, ritmo serrato, battute giuste, gli attori funzionanti. Appena si parte per Paros gli immaturi si scontrano con la tragica realtà della commedia italiana e delle sue macchine di scrittura non così perfette. Quando scivola nel film di viaggio e si affaccia l'effetto cinepanettone o l'effetto dei viaggi in Grecia dell'epoca Muccino, la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti e la regia, pur attenta e veloce, non riesce a rimettere le cose a posto. Tutto affoga nella noia. (m.g.)

DI ENRICO CARIA; CON PATRIZIO RISPO, CRISTINA DONADIO. ITALIA 2011

DI TROY NIXEY, CON KATIE HOLMES, BAILEE MADISON. USA 2011

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SHAME DI STEVE MCQUEEN; CON MICHAEL FASSBENDER, CAREY MULLIGAN. USA 2011

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Secondo approfondito studio dark dell’artista nero britannico McQueen (dopo Hunger) sulle prigioni, questa volta un carcere autoimposto, duetto tra imprigionati consanguinei, fratello e sorella sul disagio di vivere che non si incontrano mai. Brandon è prigioniero della sessuomania, Sissy ha passato la vita a tagliuzzarsi le braccia. Alle loro spalle si immagina un terrificante passato di molestie in famiglia. Fino a un tuffo gay anni ’70 nei vicoli della metropoli, rendendo comsumistica la visione omosessuale del mondo. Fassbender è all’altezza di questo personaggio e aggiunge tonalità inedite allo yuppy in crisi. Il film in fondo ci rassicura: il male si vince sempre. (r.s.) SHERLOCK HOLMES: GIOCO DI OMBRE DI GUY RITCHIE, CON ROBERT DOWNEY JR., JUDE LAW. USA 2011.

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MIRACOLO A LE HAVRE DI AKI KAURISMÄKI con ANDRÉ WILMS, KATI OUTINEN, FRANCIA - 2001

LA TALPA

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IL FILM L'ERA LEGALE

NON AVERE PAURA DEL BUIO

Ispirato al fumetto di Lionel Wigra, ecco il sequel semi-gay delle neoavventure di Holmes e Watson, questa volta contro l'arcinemico, il prof. Moriarty. Siamo nel 1891. La misoginia di Doyle, incolpevole, ma sempre ispiratore, ha travolto la nuova coppia di sceneggiatori (Kieran Mulroney e sua moglie Michele) che si sbarazzano di donne, zingare o meno, con nonchalance. Ritmo e sviluppo visuale sono da videogame. L'aspetto più divertente è nei travestimenti di Sherlock Holmes magnifici quando si mimetizza nell'ambiente circostante. Bisogna abbandonarsi al flusso Guy Ritchie e al duetto giocoso Downey jr-Law, più Stephen Fry l' imperturbabile fratello di Holmes. (a.ca.)

Marx, scrittore bohémien in esilio volontario al suo banchetto di lustrascarpe, in una Francia perfetta per il poemetto dedicato a Idrissa (Blondin Miguel) un ragazzino africano sbarcato da un container. Kaurismaki disegna le coordinate dell'avventura «extracomunitaria», Idrissa nascosto nell'armadio, dentro un carretto, dietro una porta mentre il lustrascarpe, malvisto fino a quel momento dal vicinato, diventa la primula rossa di Le Havre e come in un musical orchestra l'opera di soccorso corale. Il film lievita nel suo esilarante tocco. Con i tratti leggeri di matita, Kaurismaki disegna il suo presepe laico - il miracolo è tutto umano - e dà il via a un thriller

A CURA DI FILIPPO BRUNAMONTI, ANTONELLO CATACCHIO, MARIUCCIA CIOTTA, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, CRISTINA PICCINO, ROBERTO SILVESTRI, SILVANA SILVESTRI

emozionante, gioco di equivoci e tranelli, «realismo poetico» con humour. (m.c.)

Alcuni anni orsono, 1973, la teleplay con protagonista Kim Darby (Don’t Be Afraid of the Dark) incantava (o traumatizzava) un bambino di appena dieci anni, Guillermo Del Toro che ha continuato a sognare il progetto di un remake espanso fino all’incontro con Troy Nixey dal backround fumettistico. Con la sua regia e la sceneggiatura di Del Toro e Matthew Robbins fanno di quest’oggetto filmico una piccola imbarcazione sperimentale. In un maniero vittoriano il padrone nutre diaboliche creature. Un secolo dopo arriva una coppia con la piccola Sally. Il suo essere «molto piccola» strega le creature che infestano ancora la residenza. Ma Nixey non è Del Toro: gli occhi sono per intero fanciulleschi ma la fantasia di Sally è sostanzialmente impotente. (fi.bru.)

DI TOMAS ALFREDSON; CON GARY OLDMAN, COLIN FIRTH. USA 2011

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John Le Carré, borghese inglese che ha passato la vita a proteggersi dai germi del comunismo dittatoriale (e non più proletario) diventa tra le mani di Tomas Alfredson il più estenuante, ripetitivo e complicato, opaco nei colori e indigesto film di spionaggio. Ambientato nel ’73, la cupola dei servizi segreti di sua maestà ha una pericolosa talpa al suo interno. A Smiley (Oldman) il compito di trovarlo e sarà molto difficile perché tra doppi e tripli giochi la Cia sta organizzando la mossa Allende per non parlare del Vietnam. I cultori di spy story apprezzeranno lo stile recitativo, tutto a togliere di Hurt, Oldman e Firth. (r.s.)

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NUOVE TECNOLOGIE PER L’HORROR ●●●Mario Salvucci, che ha curato le colonne sonore di diverse film horror americani indipendenti, appartiene a quella nuova generazione di compositori di musica per il cinema, che hanno una formazione che va al di là dello studio classico dello strumento (Salvucci ha studiato prima il pianoforte, poi la chitarra classica e poi jazz) e della composizione. Spesso cercano di completare la loro formazione con altre culture musicali e con una profonda conoscenza delle nuove tecnologie, per potere affrontare qualsiasi problema inerente alla musica e al suono nel film. Salvucci ha quindi conseguito una laurea in ingegneria informatica ed un master in ingegneria del suono. È stato premiato all'ultima edizione di Sulmonacinema con il premio «Soundtrack» per la colonna sonora di The dark side of the sun di Carlo Hintermann. Con quest'ultimo aveva già collaborato per le musiche di Chatzer: Inside Jewish Venice nel 2004 e quelle del film collettivo Rosy-Fingered Dawn: a Film on Terrence Malick nel 2002. Come hai lavorato alla colonna sonora di «The Dark Side of the sun»? Si trattava di connotare due mondi, quello reale della parte documentaria e quello più onirico dell’animazione, di farli convivere, distinguerli, ma anche di fonderli progressivamente l’uno nell’altro. Dapprima avevo pensato a dei leitmotiv associati ai personaggi che si proponessero in maniera diversa nei due contesti, poi però, lavorando sulle immagini, ho capito che la strada migliore da seguire era quella delle sensazioni evocate dalla fotografia di Giancarlo Leggeri. Nella parte documentaristica ho seguito una strada più concreta, in senso musicale e timbrico, manipolando i suoni di alcuni strumenti attraverso software sviluppati per l’occasione. Ho seguito un approccio, per così dire, più ‘sperimentale’. Nella parte animata invece, mi sono rivolto di più al mondo classico e orchestrale, seppur coadiuvato da molti suoni di sintesi, in questo senso è un approccio più tradizionale. Su tutto però l'intento essenziale era di avvolgere la musica intorno al mondo del film, sottolineando o sostenendo le immagini, a volte emergendo, in funzione dell’evoluzione narrativa. . Quanto tempo hai avuto a disposizione? La fase più continua del lavoro è stata di circa otto mesi. Solitamente per un film di novanta minuti impiego dalle tre alle quattro settimane senza interruzioni, in questo caso però il ritmo è stato dettato dalle scadenze di tutta la lavorazione. Man mano che erano prodotti i materiali interveniva il mio contributo e nelle battute finali si è trattato di regolare velocemente le tempistiche e di dare coerenza a tutto quello che era stato prodotto. Dove hai registrato? La maggior parte della musica è prodotta in studio utilizzando sintetizzatori e campionatori e registrando ed elaborando le performance di alcuni strumentisti. Poi se si vuole dare più organicità e umanità a un’orchestra sintetica, e soprattutto a un coro, è necessario registrare alcune parti con dei veri musicisti.

MAGICO

Da parcheggiatore abusivo Nicolino Amore (Patrizio Rispo) diventa il sindaco di Napoli e rende la città ricca e famosa nel mondo. È un mockumentary (finto documentario) che però rende in modo assai veritiero la realtà italiana che ci ossessionava appena poco tempo fa per lanciarsi in un’utopia interessante: se si rende legale la droga la camorra perde il suo potere. Pur senza sostegni pubblici il film si avvale di una grande partecipazione di collaboratori e personalità che hanno voluto dare il loro contributo: Giancarlo De Cataldo, Pietro Grasso e Vincenzo Macrì magistrati dell’antimafia, Tano Grasso dell’antiracket, i giornalisti Bill Emmott dell’Economist e Marcelle Padovani, Carlo Lucarelli, Francesco Ferrante di Legambiente, Fabio Granata. Collegati anche Renzo Arbore e Isabella Rossellini, poiché quasi tutto il film corre lungo le vie delle televisioni pubbliche e private, con servizi che commentano e riportano la scalata vittoriosa del sindaco. E non ci sono riferimenti a De Magistris (che ha poi accompagnato il film al festival di Torino), perché il film è stato portato a termine proprio al momento della sua elezione: una nuova coscienza civile si è risvegliata nella città. Satirico, entra e esce da situazioni reali (come nel caso della fabbrica effettivamente bruciata dell’imprenditore Salvatore Mignano che interpreta se stesso) costruite con una grande quantità di personaggi e situazioni riprese dalle televisioni locali vere o immaginarie a indicare le soluzioni possibili di una terra che potrebbe creare ricchezza per tutti. (s.s.)

IL REGISTA VITTORIO DE SETA, DIARI DI UN MAESTRO DI CINEMA ROMA, 14 GENNAIO - 1 FEBBRAIO

Un omaggio su 18 schermi al maestro del documentario scomparso a novembre si tiene a Roma dal 14 gennaio al 1 febbraio. A realizzarlo in modo autogestito sono stati i tanti amici, registi e appassionati di cinema, che hanno raccolto i film e organizzato gli eventi. Ogni proiezione sarà accompagnata dall’intervento di collaboratori critici, registi e storici tra cui Goffredo Fofi, Enrico Ghezzi, Mario Sesti, Raffaele La Capria, Cecilia Mangini, Adriano Aprà, Marco Lodoli, Gianfranco Pannone, Marzia Mete e molti altri. I film della rassegna e gli incontri si terranno in sale d’essai, cineclub, università, bibioteche, sia al centro che in periferia: si inizia oggi alla Casa del cinema (ore 16) con documentari e Diario di un maestro e l’incontro con Gianni Amelio e Luigi Tovoli (ore 19.15). Lunedì 16 l’appuntamento è all’Università Roma 3 (ore 11) con Lettere dal Sahara e alla Casa della memoria (ore 17, intervengono Fofi e Cecilia Mangini). Al programma in stampa si è aggiunto un altro film appena giunto dalla Francia: Le Cinéaste est un Athlète - Conversations avec Vittorio De Seta di Vincent Sorrel, Barbara Vey (2010) che sarà proiettato il 24 gennaio all’Apollo 11 (ore 19). (s.s.)

IL FESTIVAL TRIESTE FILM FESTIVAL TRIESTE, TEATRO MIELA, CINEMA ARISTON 19-25 GENNAIO

Il festival di Trieste Alpe Adria specializzato nel cinema dei paesi dell’est, diretto da Annamaria Percavassi si apre il 19 con Milcho Manchevski, il regista macedone di Before the Rain. Anche il suo Majki (Madri) è un trittico come il suo esordio che lo rese famoso. Il regista terrà una masterclass il 21 gennaio. Il film di chiusura il 25 sarà Odcházení (Partire) di Václav Havel recentemente scomparso, tratto da una pièce teatrale che aveva iniziato a scrivere poco prima dell’89, tragicomica storia di un Cancelliere esautorato che non riesce ad accettare la nuova situazione. Anche quest’anno si terrà il premio Corso Salani dedicato a un film italiano indipendente in progettazione. Da segnalare, oltre a «Zone di cinema» con lungometraggi e documentari, gli incontri con i registi, l’omaggio alla scuola di Wajda, la retrospettiva curata da Federico Rossin del regista polacco Grzegorz Krolikiewicz, uno spazio musicale dedicato a Bijelo Dugme (Bottone bianco) la band rock più famosa dell’ex Jugoslavia, sei milioni di dischi venduti, fondata da Goran Bregovic che ne fu il leader fino allo scioglimento nell’89 con la proiezione del film Bijelo Dugme di Igor Stoimenov. (s.s.)

LA MOSTRA DISCRETO CONTINUO PITTURE DI ALBERTO BARDI GALLERIA NINAPÌ, RAVENNA

«Ho fatto la Resistenza in montagna, sull’Appenino tosco-romagnolo dalla fine del ’43 alla primavera del ’44. In seguito, sono stato comandante del Gap in provincia di Ravenna. Avevo 25 anni». Raccontava così i suoi inizi in battaglia Falco - questo il suo nome da partigiano - in un’intervista rilasciata a Noidonne nel 1967. Ma Bardi, nato nel 1918 a Firenze e poi trasferitosi nell’Appennino tosco-romagnolo, oltre alla passione politica nutriva anche quella artistica: parte da quadri figurativi, con paesaggi industriali e si avventura poi verso i segni dell’astrattismo, affidando al colore tutte le mutazioni possibili della superficie. Gesti essenziali i suoi che producono opere in empatia con quelle di Turcato, Perilli, Accardi, soprattutto nel suo periodo romano. A volte, la figura torna ad affiorare (siamo negli anni Sessanta), altre subisce una sparizione a favore della forma pura. Quando descrive il suo procedere creativo Bardi racconta sempre che si fa per via «di eliminazione e decantazione», in un itinerario che costeggia il «disincanto della ragione» affidandosi sia a un vivace cromatismo che a una composizione gestuale automatica. La sua personale è alla galleria Ninapì di Ravenna, fino a questa domenica. a. di ge.


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Artisti che hanno forzato, spesso senza rendersene conto, barriere e linguaggi del pop. Hanno creato o spaccato subculture, sovvertendo musiche e ideologie di GUIDO MARIANI

Nel vernacolo del pop vengono definite meteore gli interpreti che dominano una breve stagione con con un loro successo e poi più nulla. Ci sono invece artisti che hanno inciso solo un pugno di brani, uno o due album al massimo, e hanno saputo ispirare generazioni di nuovi musicisti o semplicemente azzeccare un lavoro che vale un’intera discografia. Spesso sono protagonisti che per varie vicissitudini hanno avuto vite artistiche non prolifiche o brevi, talvolta brevissime, e comunque indimenticabili. Alcuni di essi hanno creato vere e proprie subculture all’interno delle subculture da cui provenivano. Magari spaccandole, musicalmente e talvolta anche ideologicamente. Alcuni di essi sono scomparsi prematuramente, altri hanno cambiato strada o hanno rinunciato per ragioni spesso puramente casuali alla loro carriera, ma quel poco che hanno fatto ha saputo lasciare il segno e, in alcuni casi, costruire una leggenda.

BUDDY HOLLY & RITCHIE VALENS Inevitabile affiancare questi due artisti, morti insieme il 3 febbraio 1959 in un incidente aereo sui cieli dell’Iowa mentre stavano andando a un concerto in Minnesota. Sembrano appartenere a un’epoca quasi preistorica, ma se fossero ancora vivi oggi Holly avrebbe 75 anni, e Valens 70. L’occhialuto Buddy Holly in tre anni di carriera ha saputo rivoluzionare il rock per sempre ed è accreditato per essere uno degli inventori della moderna rock band, innovatore delle dinamiche e della struttura della canzone rock. La sua intera vita musicale è racchiusa in un cofanetto uscito nel 2009 intitolato Not Fade away che raccogliendo tutte le session, dai primi vagiti in studio quando aveva 12 anni alle comparsate di quando ne aveva 15, fino alle sue indimenticabili hit in varie versioni e ogni altra registrazione reperibile, arriva a sei cd. Tanto è bastato per cambiare il volto della musica giovane. Valens (la foto nel tondo) nel tondonella sua esistenza brevissima incise poche canzoni, ma la sua La Bamba, rivissuta in migliaia di versioni, rappresentò un momento di svolta nell’infanzia del rock’n’roll. Per il critico Lester Bangs quel singolo che riproduceva con una chitarra elettrica un giro armonico della tradizione musicale dei mariachi fu la scintilla che darà poi vita al garage rock degli anni ’60 e allo spirito del punk rock. Il 3 febbraio del ’59 verrà ricordato nell’epica del pop come «il giorno in cui la musica morì».

MINOR THREAT

ROBERT JOHNSON

STORIE ■ DA «NEVER MIND THE BOLLOCKS» A «STRAIGHT OUTTA COMPTON» E OLTRE

«Esiste solo nelle sue registrazioni. È pura leggenda». È così che Martin Scorsese ha ricordato la storia di questo bluesman del Mississippi vissuto solo 27 anni e morto nell’agosto 1938, di cui esistono solo aneddoti diventati pura mitologia. Musicista girovago di mezzatacca trasfiguratosi in virtuoso dopo aver «venduto l’anima al diavolo», donnaiolo impenitente ucciso con il veleno da un marito geloso, su di lui si è scritto di tutto. Ma quello che è inconfutabile è il valore di quelle 29 canzoni che ha consegnato alla storia, incise con la chitarra in due soli giorni in 41 takes in presa diretta in due studi musicali di San Antonio nel 1936 e di Dallas nel 1937. Dopo la sua morte fu praticamente dimenticato per vent’anni fino a che il produttore John H. Hammond convinse l’etichetta Columbia a ristampare la sua opera nel 1961 con il titolo King of the Delta Blues Singers. Sweet Home Chicago, Cross Road Blues, Hellhound on My Trail, Love in Vain fanno oggi parte dell’alfabeto di ogni musicista blues e rock. Per Eric Clapton è stato il più importante bluesman mai esistito. Oltre a quelle incisioni di Johnson esistono solo due fotografie e poche testimonianze spesso indirette, ma il mito che circonda la sua vita è destinato a diventare solo più grande dopo la scomparsa avvenuta lo scorso 29 agosto di “Honeyboy” Edwards, l’ultimo musicista vivente che aveva suonato con lui che lo riaccompagnò a casa dopo il suo ultimo concerto e che di Johnson diceva: «Non era una persona magica. Era come tutti noi, uno che suonava dove capitava per guadagnare qualche spicciolo».

La vita appesa a un disco. Dieci geni per caso

SEX PISTOLS Se dovessimo giudicare il rapporto tra influenza ed esiguità dell’opera probabilmente Johnny Rotten (nella foto) e sodali vincerebbero il primo premio. Saranno anche stati la «grande truffa» di cui parlava il loro manager Malcolm McLaren ovviamente non era così - ma dopo l’uscita del loro primo e unico album Never Mind the Bollocks, Here's the Sex Pistols, la musica e la cultura pop non sono state più le stesse. Il disco venne pubblicato il 28 ottobre 1977, ma a quella data i Pistols avevano già fatto a pezzi la scena musicale dell’epoca con la ferocia iconoclasta dei loro primi singoli. Il

punk che sembrava un fenomeno di costume destinato a bruciarsi in fretta si dimostrò una vera e propria deflagrazione e le 12 canzoni di quel disco ancora oggi rimangono diamanti grezzi di pura ribellione. Non poteva durare, non durò. I Pistols cessarono di esistere di fatto il 17 febbraio 1978, quando Rotten dopo un caotico tour Usa decise di andarsene, l’anno dopo Sid Vicious morirà di overdose. Sono tornati ad esibirsi dal vivo nel 1996 (con il bassista originario Glen Matlock). Per fare finalmente quei soldi che non erano riusciti a mettersi in tasca vent’anni prima.

Un quartetto di adolescenti di Washington Dc, attivo dal 1980 al 1983, guidato da Ian MacKaye e con poche cose incise all’attivo. Ciononostante ha contribuito all’edificazione della più importante rivoluzione musicale Usa degli anni ’80: la nascita del movimento hardcore punk Usa da cui la scena alternativa degli anni ’80 e ’90, il grunge e il più recente stile emo. Furono sufficienti un solo album (Out of Step del 1983), alcuni singoli e una filosofia di vita nuova per la scena musicale Usa: il «do it yourself», fattelo da solo. Ovvero dischi autoprodotti, un canale di informazione autogestito in cui erano protagoniste le celebri fanzine ciclostilate in proprio e più entusiasmo e rabbia che tecnica musicale. Era il 2.0 quando non esisteva ancora internet. Ma soprattutto i Minor Threat proponevano un punk al fulmicotone per sovvertire gli stereotipi del rock: ad esempio predicavano astinenza da alcol, fumo e droghe. Tutte storie raccontate nel pezzo Straight Edge, da cui l’omonimo movimento. Era la nuova generazione suburbana bianca di estrazione protestante che cercava un proprio linguaggio e una propria cultura JOY DIVISION senza scendere a compromessi. I Minor Threat sono stati anche una Ian Curtis decise di porre fine alla sua vita il 18 maggio 1980 a 23 delle band più fraintese. Proprio lo anni. Ragazzo padre con un matrimonio sfortunato alle spalle, straight edge (dall’omonima malato di epilessia e di depressione, non riusciva forse neppure a canzone della band) ha spesso comprendere il valore di quello che aveva creato come musicista. avuto derive di ultra destra; una Artisticamente non potrebbe essere più vivo. È difficile trovare un delle loro canzoni più celebri Guilty nuovo gruppo rock, soprattutto inglese, che non citi lui e la sua of Being White («Colpevole di essere band come influenza fondamentale. Alcuni gruppi negli ultimi bianco») fu scritta da MacKaye ai anni (Editors, Interpol ecc.) hanno costruito carriere del tutto tempi del liceo in risposta ai tanti dignitose riprendendo il suo stile vocale e il suo gusto per le suoi compagni neri. Era un inno atmosfere cupe e un po’ decadenti. La sua vita è stata brevissima antirazzista in cui si dichiarava e il lavoro dei Joy Division chiuse la stagione del punk per estraneo alla storia del pregiudizio inaugurare la new wave. La loro eredità è un Ep con quattro razziale: «Sono dispiaciuto/di canzoni e due soli album Unknownk Pleasures (1979) e Closer, qualcosa che non ho commesso». uscito nel luglio 1980 dopo la scomparsa di Curtis. Ci resta anche La canzone è poi comparsa nel una serie di brani sparsi tra cui la canzone che meglio identifica il repertorio di band naziskin. «A disagio interiore di Ian: Love Will Tear Us apart uscita su singolo scuola ero io la minoranza - ha pochi giorni prima del suicidio. Quel titolo è oggi l’epitaffio scritto spiegato Ian MacKaye - chiedevo sulla sua tomba, inciso per sempre anche nella storia del rock. solo di non essere giudicato per il colore della pelle. È un brano palesemente antirazzista. Come potevo pensare che quindici anni dopo saltasse fuori qualche nazista europeo a dire che avevo parlato in difesa della razza bianca?». MacKaye, da sempre a sinistra, storicamente legato ai csoa anche nostrani, è diventato poi leader dei Fugazi e padrone dell’etichetta musicale Dischord.


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THE STONE ROSES

FUGEES

Quando il quartetto di Manchester pubblicò il proprio esordio omonimo nel 1989, la musica inglese voltò pagina. Iniziava la stagione d’oro del brit pop, il rock britannico riscopriva il ritmo e la voglia di ballare, Manchester diventava Madchester e si trasformava in una capitale musicale. La scena indie tornava alla ribalta dettando mode e tendenze. Guidati dal cantante Ian Brown e dal chitarrista John Squire, i Roses non si distinsero mai per simpatia né per modestia (e anche in questo fecero purtroppo scuola), ma sconvolsero tutti con un sound fresco, contagioso e innovativo. Con brani come I Wanna Be Adored e Made of Stone, oggi ritenuti dei classici, sembravano destinati a conquistare il mondo, ma si impantanarono in beghe legali con le case discografiche e dopo un tour trionfale si ritirarono dalla scene per più di quattro anni. Quando tornarono nel 1994 con il loro pretenzioso album The Second Coming, loro erano già storia, e Oasis e Blur avevano già occupato il trono. Per loro fu la fine. Quest’anno hanno annunciato una reunion per alcuni concerti dal vivo.

N.W.A L’opinione pubblica Usa si fece cogliere del tutto impreparata quando cinque ragazzi provenienti da Compton, uno dei quartieri più problematici di Los Angeles, si presentarono nella seconda metà degli anni ’80 sulle scene con il nome di Niggaz With Attitude (traducibile con approssimazione in Negracci stilosi) e una miscela esplosiva di hip-hop. Non solo sventolavano l’epiteto razzista in faccia a tutti, ma le loro canzoni rap raccontavano una realtà che nessuno avrebbe mai pensato potesse finire su un disco. Non è esagerato dire che il loro disco di esordio Straigh outta Compton del 1988 abbia avuto sulla scena musicale nera un impatto paragonabile a quello che i Sex Pistols ebbero sulla scena rock britannica. Il loro stile venne subito etichettato come gangsta rap, l’hip-hop dei criminali, e raccontava storie di armi, droga, prostituzione, violenze della polizia. La band era guidata da Eric Lynn Wright, alias Eazy-E, ex spacciatore che aveva usato i proventi del suo commercio per lanciarsi nella carriera

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Nell’estate del 1995 il trio dei Fugees, formato dagli haitiani Wyclef Jean, Pras Michel e dall’americana Lauryn Hill, era sull’orlo della disoccupazione. Dopo un debutto sfortunato, Blunted on Reality, i tre riuscirono a convincere in extremis il boss della loro etichetta, la Ruffhouse, a scommettere su di loro un’ultima volta. Ricevettero un finanziamento di 135mila dollari e si misero al lavoro per sei mesi in uno studio allestito nella cantina dello zio di Wyclef. All’inizio del 1996 uscì The Score, destinato a diventare un album fondamentale nella storia dell’hip-hop e uno dei più grandi successi discografici del decennio. L’alchimia che rese il disco un classico era quella di far ritrovare al rap le sue origini soul e caraibiche e creare un’opera che

non solo rappresentava un momento di maturazione di un intero genere musicale ma anche una raccolta di canzoni che conquistarono il pubblico fino ad allora ostile al rap e suoi derivati. Dopo quasi venti milioni di copie vendute, i Fugees non conobbero mai un futuro. Lauryn Hill intraprese una breve carriera solista che portò a un album di altrettanto successo, The Miseducation of Lauryn Hill del 1998, e poi scelse di ritirarsi. Ex compagna di uno dei figli di Bob Marley e madre di 6 figli, continua ad esibirsi regolarmente in concerto (ora è accompagnata da Doug Wimsbish, bassista dei Living Colour); Wyclef Jean ha diviso la sua vita tra carriera musicale e attivismo politico a favore della sua patria Haiti. Ci fu un tentativo di reunion, ma finì male. Disse Pras Michel: «Ci sono più probabilità di vedere George Bush e Bin Laden prendersi un caffè insieme prima che io lavori ancora con Lauryn Hill».

MY BLOODY VALENTINE musicale e che morirà di Aids nel 1995. Nella band oltre al rapper Mc Ren e al Dj Antoine Carraby (Yella) militavano alcuni nomi divenuti poi pesi massimi nell’industria dell’entertainment Usa come Ice Cube e Dr. Dre. Il brano che fece accapponare la pelle era Fuck Tha Police in cui si denunciava il razzismo della polizia e si inneggiava a sparare sui poliziotti («Quando avrò finito sarà un bagno di sangue»). Per la prima volta nella sua storia l’Fbi cercò di censurare un’opera musicale, ma gli N.W.A erano già diventati gli eroi dei giovani dei ghetti d’America, non solo neri. Era nato un nuovo linguaggio, un nuovo modo di esprimersi che non conosceva censure o mediazioni. Ma veniva anche disvelato un connubio tra crimine e rap music che lascerà diversi cadaveri sull’asfalto. Il gruppo non sopravvisse alle faide interne e terminò la sua breve corsa nel 1991 dopo aver conquistato il primo posto delle classifiche con il secondo album. Il regista John Singleton sta girando un film sulla loro breve epopea.

JEFF BUCKLEY Figlio di Tim Buckley, cantante scomparso prematuramente negli anni ‘70, Jeff all’esordio fu corteggiato dalle case discografiche, ma accolto con una certa diffidenza, con il consueto atteggiamento di curiosità e scetticismo che colpisce chi si deve portare dietro un cognome ingombrante. La diffidenza scomparve presto tra i solchi del suo eccezionale esordio, Grace, pubblicato nel 1994, un disco che stregò il pubblico e impose sulle scene un artista che riusciva ad essere rocker e cantautore, intenso e romantico allo stesso tempo. La straordinaria voce di Jeff ha cantato per una stagione troppo breve. Nel maggio del 1997 si trovava a Memphis per registrare il suo secondo lavoro, nei confronti del quale stava crescendo una febbrile attesa. In una pausa delle registrazioni andò sulle

sponde del Mississippi e decise di immergersi nel fiume completamente vestito. Venne inghiottito dalle acque. Da quel momento il suo mito è cresciuto sempre di più. Sarà il fascino e il carisma che le sue canzoni e le sue interpretazioni non hanno cessato di emanare, sarà per il talento puro che non è mai riuscito ad esprimere completamente, ma oggi il nome di Jeff compare come riferimento di tutta la nuova leva di cantautori. Di lui rimane pochissimo, oltre a Grace, alcune incisioni live e l’intelaiatura di un lavoro incompiuto che doveva intitolarsi My Sweetheart the Drunk. Sono quasi più numerose le canzoni a lui dedicate. Hanno scritto brani alla sua memoria artisti come Chris Cornell, PJ Harvey, Rufus Wainwright, Juliana Hatfield, Duncan Sheik, Mark Eitzel, Willie Nile e Ron Sexsmith.

Sulla carta questa band irlandese ha avuto una carriera più che decennale conclusasi negli anni ‘90. In realtà ha pubblicato solo due album. È curioso pensare come una formazione non prolifica e che non ha mai conosciuto neppure un grande successo commerciale possa aver lasciato il segno. Ma l’eredità dei My Bloody Valentine è racchiusa nei 50 minuti scarsi di Loveless, album del ’91 diventato disco di culto e ispirazione per la scena pop rock anglosassone degli anni successivi. L’opera è frutto del lavoro maniacale del chitarrista e cantante Kevin Shields che per tre anni elaborò e cesellò i suoni in 19 studi discografici diversi con una dedizione ossessiva che non si vedeva dai tempi delle stravaganze del Beach Boy Brian Wilson. La genesi dell’album è materiale da aneddotica rock: dall’etichetta Creation che si rifiutò di affrontare le spese fuori controllo, alle follie di Shields che incideva le parti vocali dietro una tenda per non farsi vedere dai tecnici, dai ritardi dovuti a problemi di udito dello stesso Shields (che era solito suonare a volumi atroci) a inattesi problemi tecnici. Il disco, un monumentale affresco di noise-pop, venne recensito benissimo dalla stampa, ma arrivò appena al 24esimo posto della classifica inglese. Alan McGee, capo della Creation, licenziò la band. Disse, riferendosi alle stravaganze di Shields: «Non avevo scelta. O lui o io». All’epoca il loro stile venne definito «shoegaze», alludendo all’atteggiamento schivo e ombroso di chi suona a occhi bassi fissandosi le scarpe. Ma anno dopo anno Loveless è stato accolto come un’opera coraggiosa che ha saputo aprire nuovi scenari e compare in tutte le graduatorie degli album di guitar-rock più influenti di sempre.


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RITMI

LA MAPPA DELLE CANZONI di FRANCESCO ADINOLFI

Un’idea geniale. Camminare lungo i viali reali e figurati del rock, tornare con la mente a splendide passeggiare nell’«Itchycoo Park» degli Small Faces, soggiornare nell’«Heartbreak Hotel» di Elvis, ridiscendere negli abissi dell’esistenza

percorrendo la «Highway to Hell» degli Ac/Dc. Tutti spazi metaforici senza tempo, luoghi dell’anima (intesa stavolta anche e soprattutto come soul, il genere musicale). Seguire con gli occhi come la «Highway 61 Revisited» di Bob Dylan si intreccia con la «Long and Winding Road» dei Beatles dà un brivido e diverte. Questa l’idea di Dorothy, studio grafico di Manchester, che ha concepito una mappa stradale fitta di

vie, ponti, viali, parchi, hotel che negli anni sono finiti nella titolistica pop/rock e che hanno consegnato alla storia centinaia di canzoni. La stampa - 60x80 - costa 25 euro più spese di spedizione e si acquista direttamente sul sito dello studio. Esistono anche 100 litografie firmate e timbrate acquistabili a 120 euro più spese postali. Dorothy è noto per il modo in cui lavora sugli oggetti del pop. Tra le sue tante

LA fOCACCIA DEL BOMBER GENOVA Ombre Rosse Vico Indoratori 20-22-24 (tel. 010 2757608/3474280698) Apre la porta, fa un mezzo passo nel locale e invece di salutare fa: «Gardel!». Ha i baffi bianchi e, chissà, qualche ricordo legato a vecchi tanghi e milonghe. La voce di Gardel l’ha riconosciuta al primo colpo. Sarà che uno dei ragazzi che portano le pietanze ai tavoli è latinoamericano, fatto sta che da Ombre Rosse, nei carrugi appena sotto piazza De Ferrari, può capitare di mangiare gnocchi di castagne al pesto con colonna sonora in spagnolo. Ottimi i primi, piacevole la seconda. E anche i secondi: brasato alla frutta con torta di verza viola e riso basmati lievemente abbrustolito. Oppure pesci mediterranei sottratti all’oblio al quale li aveva condannati il gusto dominante (ma il gusto di chi, poi?) e riportati sulla teglia. Certo, i pesci avrebbero preferito l’oblio... Ma tant’è: sono piuttosto saporiti, e accompagnati dai carciofi perdono ogni scontrosità. Nella bella stagione c'è il dehor alberato. Quando fa freddo si sta dentro, fra poster di John Ford, scaffali di libri, bottiglie. E ce n’è una, di vino rosso ligure, che il produttore fa invecchiare per due anni sott’acqua, in fondo al mare. Temperatura costante, dice. Bonus: la saletta sotterranea è uno splendore. Malus: la saletta sotterranea è un budello con passaggi così stretti che se si è sovrappeso non si passa. Voti: cucina 7; ambiente 7; servizio 8. BARI Ciccillo u’ Gnore Corso Alcide De Gasperi 296 (tel. 080 5014229) Il pesce è una religione e Bari è la sua città santa. Ma questo lo sanno tutti. Quello che forse non tutti sanno è che anche nella città santa del pesce non tutti i posti sono uguali. La differenza la fa il «crudo», perché a buttare in forno un paio di spigole appena pescate sono buoni tutti. Il crudo migliore, a Bari, non lo trovi in nessun ristorante, lo trovi da chi ce l’ha. E spesso ce l’ha Ciccillo u Gnore. Famiglia di pescatori forniti di pescheria, quelli di Ciccillo hanno deciso di fare il grande salto e hanno aggiunto ai due loro negozi, la cucina, creando così dal nulla il primo fish market in salsa pugliese. Il risultato? Quando arrivano al tavolo i piatti dei vari mostri marini in miniatura (allievi e cozze pelose e tartufi di mare) insieme agli odori, senti da lontano giungere echi mitologici, canti di sirena e versi di bue marino, come nemmeno in un incubo di Capossela. Da provare. Bonus: la location. Essendo una pescheria si mangia circondati dalla materia prima, viva. Malus: la location: essendo una pescheria... Voti: ambiente 6; cucina 7,5; servizio 6. MILANO Il gusto di Virdis via Piero della Francesca 38 (tel 02 33607093). Si, è proprio il Pietro Paolo, con tanto di baffoni e simpatia. Ha lo stesso sorriso ironico che sfoggiava sull'erba dei campi di calcio e la stessa grinta che qui usa per servirvi un risotto al Barolo sul bancone della sua enoteca. Entri e ti sembri di sentire la sigla di Novantesimo minuto. Un bancone circolare dove si dispongono quei sette o otto clienti che ci stanno (ma c'è anche un'altra micro saletta), proprio di fronte a Virdis e alla moglie chef Claudia. Piatti come lumache alla birra, bottarga di Cabras, salame al mirto, cinghiale con polenta e, naturalmente, la focaccia del bomber. Per cominciare le «minchiatelle» che accompagnano i vini d'aperitivo. Esci e nelle orecchie ti rimbomba la sigla della Domenica Sportiva. Bonus: il pranzo a 10 euro. Malus: i prezzi serali, decisamente alti. Voti: ambiente 7,5; cucina 7; servizio 8. www.puntarellarossa.it

In grande Angela Davis e due copertine di dischi

di FRANCO BERGOGLIO

«Noi siamo il 99 percento della popolazione che subisce il sistema, voi l’1 percento che ne gode gli sproporzionati vantaggi». Lo slogan degli indignati si presenta quanto mai efficace e carico di un populismo che rompe con alcune parole d’ordine classiche della sinistra. Prendiamo la pietra angolare marxista della lotta di classe: divideva la società in proporzioni diverse e nessuno pensava che la vituperata borghesia fosse tanto esigua. Invece gli «indignados» americani pretendono di parlare a nome di tutto il paese, eccezion fatta per il manipolo di potenti che lo rovina. Una maggioranza tanto schiacciante (sulla carta) da far apparire una banda di delinquenti la minoranza che detiene le leve economiche. Ma qual è la provenienza di questa parola d’ordine messianica che divide il bene dal male in maniera tanto schiacciante? In un recente filmato comparso su youtube Angela Davis conciona il pubblico al grido di «Occupy Philly», occupiamo Philadelphia. Angela, militante di lungo corso della sinistra, utilizza la retorica americana «da predicatore» che ha influenzato l’oratoria dei politici di colore di estrazione religiosa (ma non solo), da Martin Luther King a Jesse Jackson, dai rivoluzionari come Malcolm X fino al sogno infranto di Obama. Angela Davis affronta il pubblico con la pratica del salmo responsoriale: all’affermazione dell’officiante fa da immediato contraltare la risposta in coro dei fedeli: è la tecnica del «call and response», tipica del gospel, del blues, del jazz. Il drappello dei credenti si scalda al rauco arringare del predicatore mentre tuona di inferno e dannazione o zufola di paradiso e salvezza: un’esperienza distante da quella della sinistra tradizionale legata al comizio politico o sindacale di piazza. Ecco perché una parola d’ordine così può derivare da un gospel: 99 and a Half

IDEE ■ INNI ANCORA IN VOGA TRA CONGREGAZIONI E MILITANTI NERI

Indignati, dove nasce il furore delle parole che scatenano i sogni Un vecchio gospel e un’incitazione di Angela Davis danno il via agli slogan del movimento Occupy. Gridando con Wilson Pickett e Buddy Guy

Won’t Do (99 e mezzo non bastano, dobbiamo essere 100). Come per il 99 percento degli indignati contro l’1 percento: la lotta del bene (grande) contro il male (piccolo, infimo) è simile in questo celebre inno, ancora oggi cantato nelle congregazioni nere. Il testo si rifà alla parabola del buon pastore citata dai vangeli di

Matteo e Luca. Gesù narra che il pastore, accortosi che le sue pecorelle sono novantanove e non cento, si mette in cerca di quell’unica smarrita. Egli tornerà felice dal resto del gregge solo quando l’avrà trovata. Il regno dei cieli appartiene a tutti e il pastore deve cercare di salvare l’anima del singolo peccatore più che gioire delle coscienze già redente. Una canzone dalla lunga storia. L’ultima versione l’hanno cantata il diacono Joseph Carter Jr. e il ministro Leslie Sims Jr. nel disco Sing Me Back Home (2006) inciso dai New Orleans Social Club per raccogliere fondi dopo l’uragano Katrina, ma il brano aveva assunto già negli anni Cinquanta un valore secolare a fianco di quello religioso: non tutti i cittadini godevano della piena libertà e i neri volevano conquistarsi

un posto nella società americana, non solo ambire al regno dei cieli. Per gli afroamericani la speranza messianica consisteva nell’arrivare a un’America che non fosse più un inferno ma il paradiso in cui entrare come comunità. Le classiche versioni rese dal gruppo gospel Harmonettes o dalla cantante Rosetta Tharpe giocano sul doppio registro: significato religioso visibile e accezione politica in filigrana. La carica potenzialmente eversiva rimase al brano anche quando negli anni Sessanta Wilson Pickett ne fece una versione r’n’b tostissima, reclamando furioso di voler possedere tutto il cuore della sua bella e di non accontentarsi del novantanove e mezzo. Dalla chiesa alle classifiche, dall’amore sacro a quello profano; ma il messaggio resta: vogliamo tutta la libertà, non quasi tutta. Il fatto che dietro il ruggente Pickett graffiasse anche un riff del giovane Hendrix ne amplifica l’ascendente sul rock. Cover successive di questo brano arrivano dai Credence Crearwater Revival (versione bianca e dura), da Buddy Guy (blues rock), Mavis Staples (soul). Fa anche capolino durante un tour mondiale di Springsteen. Insomma novantanove continuano a non bastare, bisogna fare cento e cancellare (o convertire) quell’uno. Impresa faticosa. Non era l’inventore Edison ad affermare riecheggiando anch’egli la parabola del buon pastore - che: il genio richiede un 1 percento di inspiration e un 99 di perspiration (sudore)? Un pizzico di genio e tanta buona volontà: vale per il gospel, per il rock e forse anche per gli indignados.


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LEGENDA ❚❚❚❚❚ NAUSEANTE ❚❚❚❚❚ INSIPIDO ❚❚❚ ❚❚ SAPORITO ❚❚❚ ❚ ❚ INTENSO ❚❚❚❚❚ UNICO

produzioni (premiate in Europa e negli Usa) spicca una serie dedicata ai marchi e loghi più famosi depurati dei nomi delle rispettive aziende. E ancora stampe, giochi da tavolo, una serie bizzarrissima di soldatini feriti in guerra, uno splendido poster-parodia della copertina di «Pretty Vacant» dei Sex Pistols con carrelli portaspesa al posto dei pullman originali. Info: http://www.wearedorothy.com/

IN USCITA A GENNAIO Aborted Global Flatline (Century Media/ Emi) Big Deal Lights Out (Mute/Self) Big Harp White Hat (Saddle-Creek/ Goodfellas) The Big Pink Future This (4AD-Beggars/ Self) Boy & Bear Moonfire (V2/Coop. Music) Ani DiFranco Which Side Are You On? (Righteous Babe/Audioglobe) Electric Six Heartbeats and Brainwaves! (Too Many Robots/Goodfellas) Francois and The Atlas Mountain E Volo Love (Domino/Self) Galapaghost Runnin' (Lady Lovely/ Audioglobe) Liz Green O, Devotion! (Pias/Self) Lisa Hannigan Passenger (Pias/Self) Hauschka & Hildur Guonadottir Pan Tone (Sonic Pieces/Goodfellas) Howler America Give Up (Rough Trade/ Self) Glenn Hughes Live in Wolverhampton, 2 cd (earMusic/Edel) RM Hubbert Thirteen Lost & Found (Chemikal Underground/Audioglobe) Islet Illuminated People (Pias/Self) The Maccabees Given to the Wild (Fiction/Cooperative Music) Margareth Fractals (Macaco/ Audioglobe) Medeski, Scofield, Martin & Wood In Case the World Changes Its Mind (Indirecto/Goodfellas) Operaja Criminale Roma, guanti e argento (Psicolabel/Audioglobe) Papercranes Let's Make Babies in the Wood (Manimal Vinyl/Goodfellas) Porcelain Raft Strange Weekend (Secretly Canadian/Goodfellas) Pulled Apart by Horses Tough Love (Transgressive/Cooperative Music) Punkreas Noblesse oblige (Edel) Radiohead Live from the Basement, dvd (Xl/Audioglobe) Trent Reznor and Atticus Ross The Girl with the Dragon Tattoo (Mute/ Self) Ronin Fenice (Santeria/Audioglobe) Dan Sartain Too Though to Live (One Little Indian/Self) Enter Shikari Flash Flood of Colour (Pias/Self) The Spits The Spits, 5th album (In the Red/Goodfellas) Mark Sultan Whatever I Want/ Whenever I Want (In the Red/ Goodfellas) Syncoop Syncoop (Autoproduzione/ Wondermark) Trailer Trash Tracys Ester (Double Six-Domino/Self) Tribes Baby (Island/Cooperative Music) The Walrus Hanno ucciso un robot (Garrincha Dischi) We Have Band Ternion (Naive/Self)

ON THE ROAD Anthony Joseph & Spasm Band Afrodisia presenta il poeta, romanziere, musicista e docente. Fra afrobeat, free funk e jazz africano. Milano VENERDI' 20 GENNAIO (BIKO) Roma SABATO 21 GENNAIO (ANGELO MAI)

We Were Promised Jetpacks Arriva in Italia la band scozzese, «promessa» dell'indie rock britannico. Torino MERCOLEDI' 18 GENNAIO (SPAZIO

CHEF RAGOO LA COMPRESENZA DEI MORTI E DEI VIVENTI (Aròma) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Se sul finire dei Novanta Dj Gruff raccontava la sua «lucida follia», il romano Chef Ragoo dopo quasi dieci anni di astinenza torna al rap mettendo in rima la sua lucida disperazione. Rap nichilista, ma anche rap vissuto, con testi e suoni non certo tipici della «scena hip hop». La fusione del background punk hardcore dell'autore con il linguaggio diretto del rap, genera un album che non può che spiazzare sia gli habitué sia i formalisti del nostro rap e nel contempo intrigare gli scettici verso il genere. Tutto espresso con un flow da vecchia scuola e su produzioni musicali trasversali anche grazie a Little Tony Negri. (l.gr.) DEEP PURPLE NEW LIVE & RARE 1969-71 (Sonic Zoom) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Ottimi archivisti di se stessi, i Deep Purple. Ammesso e non concesso che quelli che oggi continuano a farsi chiamare così siano davvero i Purple. Questa raccolta è un po’ da fondo del barile: nastri recuperati da performance varie, dal biennio lontano che marca la svolta verso il più furente ed elegante hard rock della storia. Tra impennate chitarristiche, arpeggi sull’Hammond di pura scuola barocca e ugole d’acciaio. E una Child in Time da pelle d’oca. (g.fe.)

ITALIA

Avrebbe dovuto essere un disco tutto dedicato al lavoro, il nuovo di Gianmaria Testa. Invece è successo che alcune canzoni dedicate alla precarietà feroce sono rimaste lì, ma in Vitamia (Fuorivia/Egea) si sono aggiunte narrazioni sulla memoria personale e collettiva, un tagliente apologo sulle «20mila Leghe», accenni di malinconia, maturi esercizi d’amore e, al solito, parole che sembrano cavate col bulino, piuttosto che scritte. Il ben argomentato sdegno di Testa è anche quello di Ennio Rega e del suo Arrivederci Italia (Scaramuccia/ Edel). Registrazione in diretta per un lavoro teso che funziona come un concept album sull’arroganza, la solitudine, il veleno quotidiano di una società berlusconizzata. Filippo Andreani, classe 1977, cesellatore di parole, in «direzione ostinata e contraria» torna con Scritti con Pablo (Lucente/ Venus). Un artigiano della parola in musica che scrive versi così: «La gente ha pretese in discesa e altruismo in salita/nel brevissimo tutto da fare che scambia per vita/così quando muore un poeta/è al cielo che tocca vegliare». Il Poeta, qui, è Bruno Lauzi. (Guido Festinese)

La folk band al femminile britannica The Unthanks torna con un live registrato alla Union Chapel di Londra. Il disco, Diversions Vol. 1 (Rough Trade/Self), è un omaggio che l’ensemble fa a due artisti, lontani temporalmente ma uniti dal genio musicale, Antony Hegarty e Robert Wyatt, dei quali riprendono alcuni dei brani più belli e significativi, rileggendoli con gusto e grande rispetto. Repertorio fantastico e lavoro di gran classe. Un tributo al Natale è invece quello che Smith and Burrows (Tom Smith degli Editors e Andy Burrows dei Razorlight) hanno messo insieme in Funny Looking Angels (Pias/Self). Dieci canzoni, tra originali e cover, dedicate alla festa per eccellenza da due amici, alla vecchia maniera. Tra le cover anche brani inaspettati come Only You degli Yazoo e Wonderful Life di Black, e poi una Christmas Song cantata da Smith con Agnes Obel. Un autotributo è quello che un’altra band inglese, i Tunng, si è concessa. Formazione di punta della scena folktronica d’Oltremanica, in This Is Tunng... Live from the Bbc (Full Time Hobby/Self), ripercorrono il meglio della loro carriera in un’esibizione alla radio nazionale britannica, punto d’arrivo per ogni gruppo che si rispetti da quelle parti. (Roberto Peciola)

Uno dei film più significativi del panorama sci-fi americano Fantastic Voyage dà il nome all’etichetta che da qualche tempo si occupa di ristampare rarità dal mondo del rock’n’roll, rockabilly, soul, jazz e blues. Nell’imbarazzo della scelta peschiamo tra le ultime uscite. Three Months to Kill - West Coast Rock 'n' Roll, 2 cd per un totale di 60 tracce, antologizza la produzione della costa californiana e continua un percorso regione per regione inaugurato da tempo alla ricerca di «pepite» tirando giù dagli scaffali della memoria le incisioni di etichette assolutamente di nicchia come Challenge, Crest e Del-Fi. Il diario di viaggio sonoro tracciato naviga dal country & western in stile honky tonk al r’n’r strumentale più psicotico, allo swing più serrato con il contributo di eccellenze quali Eddie Cochran, Dick Dale e Sam Butera. In ritardo rispetto alle indicazioni stagionali segnaliamo ancora per la Fantastic Voyage l’ottima compilation Rockin’n’Rollin’ with Santa Claus. Dalla Spagna riemerge dai solchi del tempo Antonio González «El Pescaílla» con Tiritando (Vampi Soul), splendida antologia delle magistrali esecuzioni del re del flamenco rumba al top delle sue prestazioni. (Simona Frasca)

DIAGRAMS BLACK LIGHT (Full Time Hobby/Self) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Mentre la sua band originale, i Tunng, edita un album live (vedi box), Sam Genders pubblica il suo esordio solista. In questo disco la vena folktronica dei Tunng lascia spazio a una serie di canzoni dal mood decisamente pop, con contorni vari che vanno dall’elettronica a ritmiche funky (Tell Buildings, Appetite) fino a ricordi westcoastiani (Night All Night, Peninsula) e all’indie rock (Antelope), tutti di grande effetto e fruibilità. La bella voce di Genders poi fa il resto. (r.pe.)

MASTODON THE HUNTER (Roadrunner/Warner) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Chi si attendeva un disco sulla scia del celebrato Crack in the Skye forse resterà deluso, ma non per molto. The Hunter non ricalca lo stile del concept, con quei brani dilatati che molto devono al progressive, e riprende piuttosto cliché cari al metal puro. Ma la band Usa non dimentica le sonorità che ne hanno fatto una delle più apprezzate formazioni delle ultime generazioni heavy, regalando momenti di gran musica e un muro di suono come se ne sentono pochi. (r.pe.)

AMY WINEHOUSE LIONESS: HIDDEN TREASURES (Island/ Universal) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ L'intento è platealmente commerciale, checché ne dicano produttori e familiari della sfortunata cantante inglese. Però che piacere riascoltare l'incredibile voce di Amy alle prese con cover e qualche (vero) inedito. Sugli scudi A Song for You interpretata nei Settanta dal suo mito, Donny Hathaway e da lei ripresa con commovente trasporto. Viene il magone e si rimpiange una carriera spezzata troppo presto. (s.cr.)

A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI ■ SEGNALAZIONI: rpeciola@ilmanifesto.it ■ EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ

Black Sun Empire

Galapaghost

Nada

Torna a Roma il trio di dj e producer olandesi specialisti del darkstep e neurofunk. Roma VENERDI' 20 GENNAIO

In Italia la giovane promessa del cantautorato statunitense. Pinerolo (To) MARTEDI' 17 GENNAIO

La cantante toscana di nuovo in tour a tutto rock. Barberino del Mugello (Fi)

(ESPRESSO ITALIA)

(CS BRANCALEONE)

Torino MERCOLEDI' 18 GENNAIO (BLAH

VENERDI' 20 GENNAIO (TEATRO CORSINI) Milano SABATO 21 GENNAIO (CS LEONCAVALLO)

BLAH)

Band of Skulls Il trio indie rock di Southampton, Inghilterra, di nuovo nel nostro paese per due concerti. Bologna VENERDI' 20 GENNAIO (LOCOMOTIV)

Asti GIOVEDI' 19 GENNAIO (DIAVOLO ROSSO)

Novafeltria (Rn) VENERDI' 20 GENNAIO (SIP) Lecce SABATO 21 GENNAIO (I SOTTERRANEI)

Segrate (Mi) SABATO 21 GENNAIO

The Real McKenzies

(MAGNOLIA)

Sono canadesi e suonano punk venato di musica celtica. Massa Carrara SABATO 14 GENNAIO

SABATO 21 GENNAIO (BRONSON)

Matt Bianco

Notwist

Ritorna la divertente band acid jazz-pop anni Ottanta. Tra i loro hit si ricorda Whose SIde Are You On? Milano SABATO 14 GENNAIO (BLUE NOTE, ORE 21 E 23.30) Roma LUNEDI' 16 GENNAIO (CROSSROADS) Bari MARTEDI' 17 GENNAIO (TEATRO FORMA)

(MAGAZZINI GENERALI)

Dai trascorsi elettronici con i Third Eye Foundation, l'inglese Matt Elliott è passato al folk contemporaneo. Carpi (Mo) VENERDI' 20 GENNAIO (MATTATOIO)

Valeggio sul Mincio (Vr) SABATO 21 GENNAIO (VILLA ZAMBONI)

RISTAMPE

Antony e Robert, Il «fantastico conciati per le feste viaggio» del r’n’r

211)

Matt Elliott

TRIBUTI

La solitudine dei versi persi

Firenze GIOVEDI' 19 GENNAIO (FLOG) Roma VENERDI' 20 GENNAIO (TRAFFIC) Madonna dell'Albero (Ra)

Arrivano dalla Germania. Dagli esordi hardcore punk alle sonorità elettroniche. Milano MERCOLEDI' 18 GENNAIO

ULTRASUONATI DA STEFANO CRIPPA GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE LUCA GRICINELLA GUIDO MICHELONE ROBERTO PECIOLA

AA. VV. RARE AND UNISSUED JAZZ CONCERTS (Riviera Jazz Records) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Prosegue, da parte della piccola label romana, la meritoria scoperta del jazz italiano primigenio, di fatto ancora stilisticamente acerbo negli anni 1952-’63, che vede antologizzato, in sedici brani dal vivo, il bebop nostrano per trii, sestetti, orchestre di Rotondo, Barigozzi, Piccioni, Salviati, Boneschi, Basso-Valdambrini. La fedeltà ai modelli Usa è quasi ascetica, ma non mancano verve, professionalità, virtuosismo, intraprendenza in queste jam session a Milano, Sanremo, Perugia, Roma e nella Salle Pleyel di Parigi. (g.mic.) THE BLUES AGAINST YOUTH PURE AT HEART BLUES (Deer It Yourself Records) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ One-man band. Voce, chitarra e batteria. Dieci brani per aprire la carriera. Al termine di più d’uno di questi, frammenti degni di un cinefilo. Il nostro arriva da Roma. Dietro le spalle storie raccontate da Hank Williams e Richard Johnston, ascoltate dentro qualche scantinato dove punk e hardcore la facevano da padrone. Un disco sporco e slabbrato. Caratteristiche evidenziate da Pure at Heart Blues e Until it Sounds Better. Un volo notturno (Tevere Delta Blues) e una hit: I Want to Be Your Daddy. (g.di.)

The Answer La giovane hard rock band inglese, sulla scia dei Led Zeppelin, è molto apprezzata proprio da Jimmy Page. Torino MERCOLEDI' 18 GENNAIO (HIROSHIMA MON AMOUR) Roma GIOVEDI' 19 GENNAIO (LANIFICIO 159) Milano VENERDI' 20 GENNAIO (TUNNEL)

(SWAMP)

Roma DOMENICA 15 GENNAIO (TRAFFIC) Torino LUNEDI' 16 GENNAIO (UNITED CLUB)

Giorgio Canali e Rossofuoco Il chitarrista ex Csi e Pgr torna con un nuovo lavoro. Brescia SABATO 14 GENNAIO (VINILE 45)

Le Luci della Centrale Elettrica Il giovane cantautore Vasco Brondi in tour. Segrate (Mi) MERCOLEDI' 18 E GIOVEDI'

Mr. Alan McGee

19 GENNAIO (MAGNOLIA) Lugano (CH) VENERDI' 20 GENNAIO (TEATRO IL FOCE) Perugia SABATO 21 GENNAIO (URBAN)

Il guru del britpop in un dj set. Perugia VENERDI' 20 GENNAIO (URBAN) Bologna SABATO 21 GENNAIO (COVO)

Zen Circus

David Rodigan

La indie rock band italiana sul palco per presentare il nuovo album. Cortemaggiore (Pc) SABATO

Nato in Germania da padre scozzese e madre irlandese, ha vissuto i primi anni in Nord Africa per trasferirsi ancora bambino in Inghilterra. Probabilmente il sound system per eccellenza. Torino SABATO 14 GENNAIO (LAPSUS)

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14 GENNAIO (FILLMORE)

Novara Jazz Winter La parte invernale del propositivo festival piemontese vede esibirsi il

Nexus Workshop di Tiziano Tononi e Daniele Cavallanti. Novara SABATO 14 GENNAIO (AUDITORIUM DEL CIVICO ISTITUTO MUSICALE BRERA)

Musica afroamericana a Milano «Atelier Musicale» propone (oggi, ore 17) il pianista Michele Di Toro con un itinerario tra Novecento europeo e jazz. «Aperitivo in Concerto» (domani, ore 11) ha in programma il gruppo São Paulo & Chicago Underground, guidato dal sassofonista Pharoah Sanders (per l’occasione con Rob Mazurek e Chad Taylor). Milano SABATO 14 E DOMENICA 15 GENNAIO (AUDITORIUM G. DI VITTORIO; TEATRO MANZONI)

Casa del Jazz Un critico letterario (Filippo La Porta) e un trombonista (Marcello Rosa) hanno concepito Jazztales. Quattro viaggi tra scrittori e poeti del ‘900 alla scoperta della vera \scrittura jazz. Il terzo e quarto itinerario vedono in azione (tra futurismo, Savinio, Kurt Weil, Vian, Cèline, Davis e Juliette Greco) il Sestetto Jazztales con Rosa, La Porta, Gianluca Figliola, Paolo Tombolesi, Francesco Galatro ed Emiliano Caroselli. Roma SABATO 14 E SABATO 21 GENNAIO (CASA DEL JAZZ)

L’ESAME DEL CANTAUTORE In un mare di parole, spesso senza senso, c’è ancora un baluardo storico della canzone italiana che è quello del cantautorato che è fenomeno di storicizzazione da parte di vari autori. Sarà un caso ma non sfuggono le analisi di cantautori storici come Francesco Guccini al quale vengono dedicati ben due volumi; il primo è Francesco Guccini-Fiero del mio sognare( Arcana, pg. 320, 18 euro) scritto dall’esperto Gianluca Veltri che riesce a spulciare punto per punto, ciò che ha scritto e fatto il cantautore bolognese, e lo fa con mano esperta e felice. Diversa cosa è il volume scritto a quattro mani da Claudio Sassi e Odoardo Semellini Francesco Guccini in concerto (Giunti, pg. 256, 16,50 euro) che prendendo come punto d’incontro il vissuto concertistico del nostro, fanno un viaggio fatto di ricordi, curiosità e analisi di un mondo unico come quello del live; il bello di questo volume (oltre l’accurato apparato fotografico) è tutta una sequela di interviste che rendono unico l’intero lavoro. C’è chi invece ha voluto scrivere da sé la propria storia come Eugenio Finardi che con Antonio G. D’Errico scrive Spostare l’orizzonte. Come sopravvivere a 40 anni di rock (Rizzoli, pg. 238, 18 euro) che, come è noto, il rock di Finardi è stupendo proprio per quella sua profonda analisi della vita e della storia. Nel suo libro c’è una parte di storia della canzone italiana che vale la pena leggere e sfogliare quasi come se si fosse i veri protagonisti di quanto narrato dal cantautore milanese. Diversa la storia raccontata da Mario Bonanno e da Stefania Rosso di un protagonista storico del cantautorato off off, quello Stefano Rosso che viene giustamente ricordato in Che mi dici di Stefano Rosso? Fenomenologia di un cantautore rimosso (Stampa alternativa, pg. 112, 18 euro, con cd). Di Stefano Rosso si sa poco, quel poco che però serve a non essere perso nei meandri del dimenticatoio tanto caro alla cultura italiana, quindi Bonanno e la figlia di Rosso provano a tirare dalla naftalina uno che è stato sempre in direzione ostinata e contraria, più di De André, ma che non ha avuto la stessa fortuna del cantautore genovese. Giunto al suo terzo libro, Simone Cristicchi (uno dei pochi bravi neo cantautori) in Santa Fiora Social Club (Rizzoli, pg. 120, 21,90 euro, con dvd) ripercorre la storia del suo personale movimento creato con i minatori di Santa Fiora, corale particolarissima che fra canzoni sociali e politiche, tiene il passo in un tempo senza memoria. L’ennesimo capitolo della Donzelli è dedicato a Caruso di Lucio Dalla, scritto con dovizia di particolari da Melisenda Massei Autunnali (154 pg., 17 euro) mette assieme le ispirazioni napoletane alla lirica di Dalla, quasi un escursus storico e critico. Infine Federico Vacalebre dedica al suo mito Renato Carosone, un nuovo tassello d’affetto e di critica, Carosonissimo (Arcana, 256 pg., 24 euro)che si legge con piacere, quasi un romanzo della vita del maestro, ricco di testimonianze e di rimandi della memoria.


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ALIAS 14 GENNAIO 2012

CALCIO & WEB di ALBERTO PICCININI

●●●Apro facebook e trovo Kansas City 1927. L’essere tifoso della Roma aiuta. Apparso lo scorso agosto, Kansas è un diario delle partite giallorosse scritto in lunghi e articolati post in romanesco moderno, un mix tra Nick Hornby, Alberto Sordi e un capannello di tifosi all’Università. È insieme epica e carnevale, tragedia e commedia, diario intimo e sketch fragoroso. È rock’n’roll, mai una lagna. Fa ridere. Ha 12.500 fans, in crescita costante, che a loro volta si scambiano ininterrottamente pareri e battute. Nessuno ha ancora capito chi sia veramente Kansas City. Si parla insistentemente di Valerio Mastrandrea e Zoro Bianchi, ma questo è del tutto secondario. Domande e risposte via mail, con la necessaria vaghezza. Il resto sta tutto in Rete. ●Quando e perché è venuta fuori l’idea di fare Kansas City 1927? Dopo Slovan Bratislava-Roma. Era stato l’inizio della nuova era, la prima ufficiale, ed era andata come nessuno avrebbe potuto prevedere. Abbiamo capito subito che sarebbe stato un anno particolare, da raccontare e da esorcizzare, sperando d’aver più da raccontare che da esorcizzare. ●Ma Kansas City esiste perché nessuno, sui giornali, nelle radio, in tv, parla di calcio così? È controinformazione o cazzeggio? È autoterapia de gruppo. ●Ancora a proposito di radio, di giornali, di giornalisti. Cos’è che non sopportate nel racconto del calcio a Roma (che è un genere a parte)? Cosa vi fa ridere? Cosa vi manca? Cosa vi piace? In generale, volete farvi dei nemici in questo ambiente o no? C’era un periodo in cui ascoltavamo spesso le radio romane, e mediamente, salvo eccezioni, alla fine dell’ascolto si diventava brutte persone con un nemico che non sapevi d’avere prima dell’ascolto, fosse giocatore, dirigente, laziale, vario, eventuale. Per il resto, noi de nemici non ce ne volevamo fa’, ma eravamo sicuri ne sarebbero arrivati a frotte, appena avessimo infranto alcuni tabù. Invece, con sorpresa, vediamo che sti tabù stavano sur cazzo a un sacco de gente. Poi sì, a qualcuno stiamo sul cazzo noi, c’è chi dice che siamo laziali perchè chiamiamo i romanisti col soprannome e pure chi dice che il nostro non è vero romanesco, come se fossimo na coverband de Trilussa e non due che semplicemente scrivono come parlano. ●Ma insomma se vi chiama una radio, o Skysport, o Il Messaggero vi chiede una rubrica, ci andate o no? Finora abbiamo detto qualche no, ma non per spocchia, semplicemente perchè ce piace fa le cose con calma. A Kansas sta a succede na cosa fica, ovvero che i tifosi parlano tra di loro invece di gridarsi addosso, con risultati talvolta sorprendenti. Ecco, se una radio, Sky, o Il Messaggero possono essere funzionali ad allargare questo fenomeno, allora forse sì, la rubrica la facciamo, ma a certe condizioni. Estremamente capricciose. Roba tipo i camerini de Lady Gaga. ●Kansas city è Alberto Sordi. Com’è che ogni volta che arrivano gli americani a Roma scatta questa sindrome? Non cambiano mai loro (gli americani), o non cambiamo mai noi? Il riferimento è ovvio e resta al momento il migliore per rappresentare con efficace sintesi l’egemonia culturale che gli americani esercitano da sempre da ste parti. Ce ne siamo sempre un po’ vergognati, poi con Obama ce ne siamo vergognati un po’ di meno. «Hope», «Change» e «Yes we can», tuttavia, sono parole che ormai associamo a Di Benedetto e Pallotta.

INTERVISTA ■ UN DIARIO ANONIMO SU FACEBOOK TRA ROMANESCO MODERNO, EPICA GIALLOROSSA E ROCK’N’ROLL

Kansas City 1927, la Roma come non l’avete mai letta «Dicono che semo laziali oppure na coverband de Trilussa. In realtà semo solo due tifosi che scrivono come parlano. Famo autoterapia de gruppo» ●Anonimi perché? E’ un caso, una scelta, non se poteva fare a meno? Perché avete scelto di stare su facebook e non per esempio di aprire un blog? Anonimi è una scelta. All’inizio volevamo esse sicuri der fatto che nessuno ce venisse a prende sotto casa, chè quando parli de Roma nse sa mai. Poi appurato che nessuno ce voleva menà, è stato divertente e continua ad esselo vedè le ipotesi che se rincorrono tra siti e giornali circa chi siamo. E te diciamo con piacere che ancora si brancola nel buio. E poi pensiamo sia più importante cosa si scrive che non chi scrive. Comunque anche sta cosa dell’anonimato non deve diventà un’ossessione, un giorno, presto o tardi, finirà. E ce verranno a prende sotto casa. ●Le partite le vedete allo stadio o in tv? Na rappresentanza all’Olimpico c’è sempre. E pure una davanti alla tv. ●Serve davvero uno stadio nuovo a Roma? E col centro commerciale dentro? Non sarebbe meglio un centravanti di riserva? Fino a du mesi fa forse te rispondevamo che era mejo er centravanti, ma mo amo rosicato a vede lo stadio de la Juve, e lo volemo pure noi. Però senza rischio di crollo colposo, né falso ideologico, né frode in commercio. ●A Roma si sente sempre meno parlare di gladiatori e Colosseo applicati al calcio. Nel frattempo faranno «Ben Hur» con la musica di Stewart Copeland (la città è piena di cartelloni). Eravate affezionati a quella roba lì? O è meglio lasciarla al sindaco fascio? Roma è Roma, dei romani, dei romanisti e paradossalmente pure dei laziali, che a causa degli errori di marketing fatti nel 1900 passano buona parte delle loro giornate a spiegare che anche loro sono Roma (Lotito quest’estate aveva il problema di romanizzare l’aquila, come se non fosse legionaria abbastanza, mettendola sul Colosseo). Insomma, a quelle cose lì ci si tiene un po’ tutti. Solo che un tifoso che si tatua un gladiatore, a meno di non lavorare nei pressi del Colosseo, non si mette automaticamente scudo, elmetto e gonnellino. Di per sé non ci pare grave. Certo, se oltre ad essere tifoso romanista o laziale sei pure fascista,

qualche suggestione pericolosa in più potresti averla. I fascisti pensavano davvero di rifare l’Impero Romano. E come è andata a finire lo sappiamo tutti.

mediano se non meglio. Quindi sì, il calcio di una volta era se non altro più comprensibile, si apprezzava tutto di più, e pure i fenomeni erano in numero superiore ad oggi. A unire mondi separati, idealmente c’è Totti. Puoi cambiare regole e velocità, ma certi piedi sono rari, averli aiuta. Se ce l’hai ce l’hai, sennò te impari a core.

●Siete anche voi della scuola che il calcio va sempre peggiorando, e che il calcio di una volta era molto meglio di quello di oggi? Anche nei disastri dico. Avete mai pensato che Bojan valesse Fabio Junior, o non c’è paragone? Fabio Junior un gol come quello di Bojan con l’Atalanta non l’ha mai fatto. Però oggi per giocare alla velocità con cui si gioca, devi soprattutto saper correre, caratteristica che un tempo era un di più. Il rischio, pertanto, è che ora ci si specializzi di più nella corsa che nella tecnica, per non parlare del look, che è diventato il vero spartiacque per ambire almeno ad una vita da

●Non è che avete fatto una cazzata? Ci sono più di 12.000 persone là fuori che stanno a rota di pezzi vostri. Avete chiesto più volte scusa perché non potevate fare il pagellone, la presentazione della partita della sera, la vostra cronaca. Qualcuno ha capito, altri ci sono rimasti male. Quella di aver fatto una cazzata è un pensiero che a intermittenza si ripresenta. Ogni tanto si avverte qualche migliaio di fiati sul collo. Però anche loro hanno capito quello che diciamo dall’inizio, cioè che siamo due tifosi, no due giornalisti, e non è questo il lavoro nostro. Con tutto ciò che ne consegue, nel bene e nel male.

PIPPE & CAMPIONI

Capitan Boh, Erfucipolla e la Bambola Assassina ●●●Nella cosmogonia di Kansas City 1927, ogni eroe romanista ha il suo soprannome (anche più di uno). Totti è Ercapitano, semplice semplice. De Rossi è Capitan Boh, Boh, uno che ad ogni minuto che passa e ogni pallone che tocca jaumentano quotazioni, rughe e pensieri. Luis Enrique è Luigi Enrico, omo iPad ante litteram, plagiatore de menti e ideologie. Il portiere Stekelemburg è Escci Francoooo, na figurina da stampare in onore di Tancredi e l’amarcord. Taddei è il nostro Willem Dafoe ma soprattutto Rodrigo Carlos. A sinistra ce sta José Angel da Twitter, uno che come s'accorge de avé perso tre follower su Twitter se fa pià dar panico. In mezzo alla difesa svetta Heinze, Er Cannicane, l'uomo che ogni volta che vede un altro uomo con la palla al piede, vede passarsi davanti tutta la propria vita fatta di carestie, malattie, guerre incivili e ferite lacerocontuse. Il danese Kjaer è Tohr ma anche il gerarca nazista, Pjanic Er fio der cantante dei Green Day, Simplicio prima è Supplicio poi riabilitato la Bambola Assassina. Gago, Lady Gago. In attacco Osvardo comincia come Er Cipolla, poi scioglie i capelli e diventa Erfucipolla. Bojan è il Macaulay culkin de Trigoria, alias l’Arcangelo Krkic, alias er putto. Infine Lamela, er coco nostro.


ALIAS 14 GENNAIO 2012 LUIGI ENRICO E LA REVOLUCIÒN CULTURAL Kansas City 1927 nasce su Facebook una mattina di 5 mesi fa, il 19 agosto. E’l’alba della rivoluzione ispano-americana. Il primo post, intitolato «Verso la revoluciòn», comincia così. «Dice: ma come fai un blog sulla squadra tua e lo chiami così? Non ce metti in mezzo manco un onore, una tradizione, un antichi sapori? Ma ancora prima dice: ma come, fai un blog sulla squadra tua, un blog depallone? Nel 2011? Eh, quando er gioco se fa perplesso, i perplessi cominciano a giocà. E poi, come te lo spiego, parlà de Roma non è parla depallone, non solo quantomeno. Parlà de Roma è parlà de gente bellissima e terrificante, de maniche de pippe e de campioni assoluti, de un popolo in cammino verso una soddisfazione che ormai, a forza de mannà giù merda, è diventata qualcosa de più e de troppo, na specie de riscatto sociale in pay per view. Na soddisfazione che manco se ricordamo ndo sta de casa,

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ma che chi c’ha la memoria bona ogni tanto je ricorda all’altri che ne vale la pena. E allora camminiamo, popolo in cammino, portamo sta croce e sta delizia». Il post è delle 12.41. La Roma è appena uscita sconfitta da Bratislava in Europa League. L’esordio di Kansas si conclude così. «E a nulla è valso il rasposo e volenteroso e aggressivo e feroce rush finale, a nulla è valso il tourbillon di cambi orchestrato dal tecnico asturiano (che pure ste Asturie ndo cazzo stanno è tutta da capì) con l'improvviso inserimento dell'emergente Totti Francesco e dell'emerso e sommerso Borriello Marco, a nulla è valso tornare negli spogliatoi, mettersi improvvisamente a ridere e dare il five a Tom Di Benedetto come niente fosse accaduto. Amo perso, e pure Tom alla fine l'ha capito, anche perché gli americani so veloci, rapidi, gente de business, e 80 minuti pe capì le regole del gioco jerano bastati. "Henry Louis, what a fuck are you laughing?" pare abbia detto al suo Mister il novello Closer. "Hasta siempre comandante", avrebbe replicato l'asturiano. "No sarà la Slovachia a stopar la revolucion cultural"».

FEBBRE A 90’ ■ VENTI ANNI FA USCIVA IL LIBRO CULTO CHE CAMBIÒ TUTTO La locandina di «Un americano a Roma» (1954), il film più celebre di Alberto Sordi. Nella foto grande (Reuters), un murales di Francesco Totti alla Garbatella, quartiere popolare della capitale. Sotto, la figurina del portiere olandese Maarten Stekelenburg, ribattezzato Franco

Il calcio di noialtri, magnifica ossessione inventata da Hornby di A. PI.

●●●«Mi innamorai del calcio come mi innamorai delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore e allo sconvolgimento che avrebbe portato con sè». I fell in love with football... Difficile dimenticare l'incipit della prima partita registrata da Nick Hornby nel diario autobiografico che vent'anni fa esatti cambiò per sempre lo scrivere di calcio: Arsenal-Stoke 1-0, maggio 1968 (!), gol su un rigore respinto dal portiere avversario. Quel diario, Fever Pitch, vendette 1 milione di copie con una facilità sorprendente e finì al primo posto di ogni classifica dei migliori libri sul calcio di tutti i tempi. Fu tradotto un po’ ovunque: da noi arrivò come Febbre a 90’, un po' colpevolmente solo nel 1997, e dopo il buon interesse suscitato da Alta fedeltà, l'altro diario delle ossessioni musicali di Hornby. Ma la doppietta fu micidiale: in piena era di Brit-pop, oltretutto, Londra tornava a essere la nostra città del cuore. L'importanza di Fever Pitch per il calcio e la cultura inglese derivò in parte dal fatto che dopo le tragedie dell'Heysel e di Hillsborough, dopo l'esclusione delle squadre dalle coppe europee, l'orgogliosa insularità e il marchio di classe che da sempre animavano la passione per il gioco, si stavano trasformando nella sua tomba. Lo ha ricordato lo stesso Hornby: «All'epoca il Times poteva tranquillamente scrivere che il calcio era un gioco di merda per gente di merda». E da trentenne, sceneggiatore senza lavoro, raccontò letteralmente la storia della sua vita attraverso il ricordo delle partite dell’Arsenal (noioso Arsenal...) viste allo stadio. A cominciare dal puro caso che lo portò la prima volta, dopo la separazione dei suoi genitori, a passare i sabati nello stadio dei Gunners con suo padre perchè i due non sapevano dove andare a passare del tempo assieme. Il calcio per Nick Hornby è come se la tribuna nord di Highbury fosse l’ermo colle di Leopardi, con tutta la nostalgia del caso, con tutta la serietà che si deve alle cose importanti: «Ciò che mi colpì fu proprio quanto la maggior parte degli uomini attorno a me odiasse, letteralmente odiasse

POST

Socrates. «Basta Luis, famose na bira...» ●●●Tra i post più divertenti di Kansas c’è quello che il 5 dicembre, a mente fredda, saluta così il punto più basso della gestione di Luis Enrique, la sconfitta per 3-0 contro la Fiorentina che coincide con la morte del dottor Socrates. «Socrates, come quasi tutti nel mondo, è stato ad un passo dalla Roma, passo che lo avrebbe incastonato, tra Falcao e Cerezo, nel centrocampo con più cervello della storia del calcio, facendolo sentire più a casa di quanto non si sia mai sentito, non solo a Firenze, ma forse pure in Brasile. Socrates, come quasi tutti nel mondo, dei pochi gol fatti in Italia, uno lo ha fatto alla Roma. Socrates, come quasi tutti nel mondo, a fine partita avrebbe preso Luis Enrique da parte e gli avrebbe detto ’Luis, basta co sta bicicletta su per i monti, ste diete salutiste, sto fisico inutilmente asciutto, sta tecnologia arida, basta Luis. Famose na bira, magari tembriachi e te se mettono a posto le idee. Sennò poi s'embriacano i tifosi e a furia dembriacasse finisce che fanno la fine mia senza manco esse mai stati intellettuali’». Indimenticabile anche il post sul sorteggio degli Europei 2012. «Sorteggiato il girone con Spagna, Italia e Irlanda. Commento della Bce. Ma che davero? E chi lo paga er campo?”.

l'essere là (...) L'intrattenimento come dolore era un'idea che mi giungeva nuova».«Questo libro è per noialtri», scrisse quindi nella sua introduzione. E regalò a tutti le parole per dire qual che tutti cominciavano a intuire. Le buone poche regole per sopravvivere al calcio moderno: tifare per il bambino che ti è rimasto dentro, tifare per la tua squadra (non necessariamente sarà quella che vince), nutrire la propria ossessione. Nel 1992, anno cruciale per il mercato dei diritti televisivi, stavamo entrando nell'era delle partite 24 ore al giorno, la nostra era. Solo pochi anni prima del diario di Hornby era uscita in Inghilterra la prima fanzine «intelligente» di calcio, When Saturday Comes – e il sottotitolo era splendido: «la rivista di calcio quasi decente». Occuparsi «dal basso» della sopravvivenza del proprio oggetto d'amore si rivelò un gesto contagioso. Si è ripetuto spesso che un libro come Fever Pitch aprì la strada alla fine dell'egemonia della working class sul calcio, rendendolo uno spettacolo piccolo borghese, uno spettacolo e basta. E' vero, ma fino a un certo punto. Basta da solo il pezzetto nel quale Hornby rievoca la sua prima volta da solo allo stadio, inseguito, picchiato e derubato della sua sciarpa da due ragazzi che non abitavano nel suo stesso quartiere, per capire che la sociologia non spiega tutto. Fever Pitch è stato il libro del cuore per tanti giovani aspiranti

giornalisti sportivi. Le sue tracce portano fino a noi, stanno certamente dentro un curioso fenomeno di epoca facebook come Kansas City 1927, di cui ci occupiamo accanto. E’ un libro per ragazzi. Le ragazze, per forza di cose, stanno a guardare. A meno che non decidano di entrare allo stadio. «"A cosa stai pensando?", chiese lei. A questo punto mento. Non stavo affatto pensando a Martin Amis, Gerard Depardieu o al Partito Laburista. D'altronde gli ossessionati non hanno scelta; in occasioni come questa devono sempre mentire. Se dicessimo sempre la verità (...) verremmo lasciati a marcire coi nostri programmi dell'Arsenal». Il calcio sarà raccontato ora e sempre dai titoloni sempre uguali dei quotidiani sportivi, nel bla bla della tv e della radio. Ce ne faremo una ragione. Ma un'ossessione è un'ossessione. Il calcio di noialtri non è metafora della vita, tutto il contrario. Hornby mostrò come il primo disco dei Buzzcocks, gli esami all'università, la fine di una storia d'amore, avessero sempre una misteriosa risonanza negli eventi accaduti allo stadio: una finale perduta, una doppietta inaspettata della propria squadra, cose così. Invitò tutti quelli che amavano il calcio e non avevano paura di soffrire, a vedere le cose dalla stessa angolazione. Se abbiamo ancora voglia di accendere la tv, guardare la partita e scherzarci su, molto dobbiamo a lui. E grazie.

CONFLITTO DI PARENTELA ●●●Per la serie «uomo morde cane» ecco il riassunto degli ultimi minuti di Longobarda-Cadorago, con gli ospiti in vantaggio per 2-0 e i padroni di casa falcidiati dalle espulsioni, ben tre. All’uscita dagli spogliatoi, ecco avvicinarsi il presidente della società ospitante che urla all’indirizzo dell’arbitro: «Complimenti, sei riuscito a rovinare la partita». Errore. L’arbitro, il signor Giuseppe Veltri da Saronno, gli ammolla due pugni al volto che lo stendono a terra. Lesione al timpano, 30 giorni di prognosi e una denuncia per ingiurie. L’arbitro è stato sospeso per sette mesi. Si dovrà ripetere Piccarello-Nuova Cos Latina (terza categoria), perché l’arbitro, Michael Siragusa, è risultato il figlio del dirigente della Nuova Cos, Antonio Siragusa. Il designatore si è difeso dicendo: era il miglior arbitro a disposizione. Il padre si è difeso dicendo: non mi occupavo della prima squadra ma solo delle giovanili. L’arbitro si è difeso dicendo: la parentela l’avevo segnalata ad inizio stagione. Tutti condannati e sospesi. Vena-Fortitudo Lamezia (seconda categoria calabrese) è stata sospesa più volte «per incendio di vari sterpi e lancio in campo di pezzi di legno». Terminata 0-0, il risultato non andava a genio al guardalinee di parte della squadra di casa, Francesco Fiumara, che con la bandierina colpiva più volte il capitano avversario, dando il via a una rissa gigantesca. A Rutigliano (Puglia) i tifosi hanno lanciato ripetutamente in campo un fresbee. Mille e duecento euro di multa all’Angizia Luco (Abruzzo) per lancio di petardi verso un assistente arbitrale «che causavano un fischio all’orecchio continuo e prolungato». A pochi minuti dal termine di Collepasso-Taurisano, Puglia, in uno scontro di gioco rimane a terra privo di sensi il portiere di riserva del Collepasso, Luigi Romano. Svenuto, la faccia una maschera di sangue, viene chiamato subito il 118 che per fortuna è tempestivo, addirittura due ambulanze, trasferimento all’ospedale di Gallipoli. A sirena ancora udibile, l’arbitro convoca i due capitani e invita a riprendere il gioco. Il capitano dei padroni di casa – a sorpresa - gli dice ok, mentre quello del Taurisano (in svantaggio) dice che no, nessuno di loro se la sente, sono in ansia per lo sfortunato avversario, meglio chiuderla qui. Partita persa al Taurisano. L’arbitro in casa del Centerba Toro Tocco (Abruzzo), a fine gara, ha ritrovato la gomma destra dell’automobile sgonfiata e senza i quattro tappini alle gomme. Due anni di squalifica al presidente del Città di Castello (Umbria), Ivano Massetti, che è anche conduttore di programmi di calcio sulle televisioni locali. Ha assalito un arbitro con insulti di ogni genere e poi gli ha schiacciato la mano contro la porta dello spogliatoio, «provocando forte dolore, arrossamento e gonfiore». Ha poi aggredito un guardalinee. La squalifica è una carezza, che si va ad accumulare su un curriculum giudiziario senza fine. Massetti non doveva nemmeno stare nel recinto dello stadio, avendo in corso già due squalifiche per analoghi motivi, due anni di inibizione per «istigazione alla violenza contro gli arbitri» pronunciata dagli schermi di Rete Sole. Chiudiamo con i due anni di squalifica per Marco Peluso, reo di aver insultato, aggredito e inseguito l’arbitro fino al rientro negli spogliatoi cercando di colpirlo con un cazzotto. L’aggravante è il nome della squadra, dalla mission indubitabile: Paolo VI. Ma forse era un lefevriano.


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