Alias de Il Manifesto 22 gennaio 2012

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di ELISA DONZELLI

●●●Il 7 gennaio di cent’anni fa nasceva Giorgio Caproni. Amava definirsi ‘genovese di Livorno’ perché nel capoluogo ligure era arrivato all’età di dieci anni trascorrendo parte dell’infanzia e la giovinezza tra gli studi di violino e i primi esperimenti poetici. Ma il 1˚ novembre del 1938, fresco dei versi pubblicati in due brevi raccolte, aveva lasciato la casa dei genitori e si era trasferito a Roma per insegnare nelle scuole elementari. Dopo la guerra «penetrata nell’ossa», dalla Val Trebbia era tornato nella Capitale senza immaginare che proprio qui, «purtroppo o per fortuna», avrebbe abitato per tutto il resto della sua vita, sino al 22 gennaio del 1990. Alla «luce rossa di Roma», ai suoi ponti, ai suoi quartieri Caproni ha dedicato alcuni dei versi più alti del Novecento nutrendo per lei un affetto assai più contraddittorio e intermittente (e ancora poco indagato) rispetto a quello per la Livorno di sua madre «Annina» e per la sua «Genova di tutta la vita». Proprio a Roma nel quartiere Marconi, a qualche isolato da una delle scuole in cui il poeta aveva insegnato e dalla casa di via dei Quattro Venti, si trova il Fondo della Biblioteca privata di Caproni. Sono state le Biblioteche di Roma ad acquisire, nel 2000, quasi cinquemila volumi provenienti dall’abitazione romana di via Pio Foà e poi spostati nei locali della Biblioteca «Guglielmo Marconi». In pochi lo sanno perché chi cerca tra le carte del poeta spesso preferisce visitare gli archivi di Firenze dove sono conservati i suoi manoscritti e i suoi dattiloscritti. E invece è a Roma che bisogna venire per condividere con il poeta le letture che lo avevano accompagnato nel tempo. Il «baco della letteratura» Caproni diceva di averlo preso alle elementari, anni di «miseria nera» durante i quali leggeva Dante in un’edizione a dispense comprata dal padre in edicola. Giovanissimo, oltre ai classici e ai contemporanei, aveva

scoperto i filosofi cui si era unita la passione precoce per la poesia straniera. L’elenco sarebbe lungo ma, tra gli autori annoverati nella vigile bibliografia caproniana di Adele Dei, spicca il nome di un poeta francese della generazione di Ungaretti, Pierre Jean Jouve, cui in Italia non si presta grande attenzione. Tra gli scaffali del Fondo Marconi è nascosto un libretto di Jouve, Per esser gai come Titania, che Aldo Capasso aveva pubblicato nel 1935 traducendo alcuni dei versi più incisivi del poeta di Arras. Dico nascosto perché il profilo sottile della Collezione degli «Scrittori Nuovi» di Emiliano degli Orfini (la stessa che nel 1936 avrebbe accolto, grazie a Capasso, l’esordio poetico di Caproni Come un’allegoria e, nel 1938, la poesia ariosa delle nozze con Rina Ballo a Fontanigorda) rischia di essere messo in ombra da volumi più corposi soprattutto per chi avesse frequentato solo di scorcio la poesia poco rassicurante di un grande autore del Novecento francese. Ci sono cinque libri di Jouve nel Fondo romano ma quell’edizione curata da Capasso ha qualcosa in più rispetto agli altri volumi della Biblioteca. Chi si appresta a sfogliarla troverà tra le pagine ingiallite alcuni appunti che Caproni aveva segnato a margine dei testi. Fino a qui nulla di nuovo perché i libri del Fondo Marconi si presentano proprio così: note, pensieri, versi interrotti e scritti a mano con una grafia cuneiforme. Ma nel libretto di Jouve accanto alla poesia diciassettesima, sotto la traccia sbiadita di un rossetto rosso depositato sul margine del foglio, Caproni aveva scritto a matita un appunto veloce che a tentare di rileggerlo appare più o meno così: «Il segno rosso è un bacio di Olga datovi a Neiron[…] in una giornata di serenità. Perché cadde proprio in questa poesia? E per di più è 17esima (17 febbraio amandoti, 27 febbraio peggiorando, 7 marzo morta a 27 anni!)». Di Olga Franzoni, prima fidanzata del poeta morta in Val Trebbia nel 1936, la critica ha parla-

to molto. A quella ragazza, da poco scomparsa, Caproni aveva dedicato la prima edizione di Come un’allegoria e l’ultima poesia di Ballo a Fontanigorda. L’episodio della sua morte l’aveva ricordato nel racconto Il gelo della mattina, iniziato nel 1937 e simile allo Jouve di Dans les années profondes del 1935. Poi il nome di Olga era scomparso ma la sua ombra era tornata a vivere nei Sonetti dell’anniversario del 1942 e nei versi di E lo spazio era un fuoco entrambi ambientati in una Roma di rovine e macerie dove il rossetto di quella ragazza spargeva, in incognita, i suoi segni febbrili: «Rivedo / i tuoi netti confini / d’iridata fanciulla / – il fuoco sulla bocca / d’una chiusa rincorsa». Nel segno di Olga erano nate queste poesie della «stagione rossa» di Cronistoria rispetto alle quali la critica caproniana ha saputo dare i suoi migliori frutti. Oggi, grazie al libretto di Jouve conservato nel Fondo Marconi, la sua immagine di ragazza-lettrice scavalca ulteriormente l’eterno femminino della tradizione lirica italiana per mostrare una nuova natura camaleontica. Secondo Ungaretti in Jouve «l’amore si converte in morte spaccato dal peccato» e Risi (che mol-

to lo ha tradotto dopo Capasso) ha aggiunto che per salvarsi l’uomo «esteriorizza i fantasmi che lo divorano». Lo confermano i bestiari jouviani che riesumano la cerva di Petrarca e che inscenano il passaggio di una misteriosa bestia: «Una bestia ammirabile dalla coscia segreta / Passa sulla terra infinitamente ferita – / Piaga di sangue spumeggiante e fresco – / Esso mi trascina, lo sento, fuori della città». Di questa poesia, scoperta da Capasso, Caproni aveva parlato sul «Popolo di Sicilia» nel 1937: «La donna, ecco ‘la bestia ammirabile’ […]. Qui sembrerebbero i cardini della poesia di Jouve: una sensualità gaudiosa, che drammaticamente è in lotta, straziandosene, con l’idea di peccato». Insieme alla caccia la Bestia con la ‘B’ maiuscola, si sa, è uno dei grandi temi dell’ultima stagione poetica caproniana ma, rileggendo questo articolo, viene il sospetto che all’anagrafe proprio lei, «(l’ónoma) che niente arresta», fosse stata registrata sotto il nome di Jouve. Chi è la Bestia? si chiedeva il poeta di Livorno in un’intervista rilasciata a la Repubblica nel SEGUE A PAGINA 4

GIORGIO CAPRONI (LIVORNO 1912-ROMA 1990)

DALLA TRECCANI ALLA MARCONI, UN CENTENARIO «ROMANO» ●●●In occasione del centenario della nascita di Giorgio Caproni (Livorno 1912-Roma 1990), questa primavera la città di Roma si prepara a celebrare il poeta con due importanti iniziative. Il 16 aprile la Biblioteca dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani dedicherà un’intera giornata al poeta di Livorno riunendo assieme insigni studiosi tra cui Sabino Cassese, Pietro Citati, Antonio Debenedetti, Adele Dei, Giorgio Devoto, Anna Dolfi, Biancamaria Frabotta, Luigi Surdich e Stefano Verdino. Il 19 aprile sarà la Biblioteca Comunale «Guglielmo Marconi» dell’Istituzione delle Biblioteche di Roma a promuovere e a ospitare un’iniziativa dedicata al rapporto di Giorgio

Caproni con la città di Roma e i quartieri della Capitale nei quali il poeta aveva abitato per più di cinquant’anni, dal 1942 al 1990. Durante la giornata sono previste proiezioni di materiale audio-visivo e letture degli studenti delle Scuole superiori. Il progetto ideato e curato da Elisa Donzelli nasce in collaborazione con i responsabili dell’area culturale della Biblioteca «Guglielmo Marconi» (Laura Alegiani, Stefano Gambari, Marina Girardet e Anna Taccone) e si avvale del contributo e della partecipazione di Biancamaria Frabotta e della preziosa testimonianza di Attilio Mauro Caproni.


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ALIAS DOMENICA 22 GENNAIO 2012

VARIAZIONI SUL GENERE POLIZIESCO

DÜRRENMATT Un delitto in grado

Felix Vallotton, «Le mauvais pas» (part.), 1893, xilografia

di CLOTILDE BERTONI

●●●Non c’è discorso sulle problematizzazioni della detective story che non preveda almeno un rinvio al romanzo più famoso di Dürrenmatt, La Promessa, del 1958, sottotitolato appunto Requiem per il romanzo giallo. Ma a ben vedere questo requiem è assai meno radicale di quelli proposti da Borges, Gadda, Sciascia: intanto, perché presenta una indagine ancora impeccabilmente razionale, di cui la casualità impedisce il trionfo ma non lo svolgimento; inoltre, perché l’intreccio contesta il poliziesco ponendosi sul suo stesso piano, mantenendo una tensione centripeta che converge verso un finale colpo di scena. Tensione che caratterizza anche opere successive dell’autore, in cui il pessimismo, peraltro, si accentua: per esempio Giustizia, comparsa nel 1985, da noi già uscita per Marcos y Marcos e ora ripubblicata da Adelphi nella stessa traduzione di Giovanna Agabio (pp. 211, € 18, 00); storia in cui a un incipit che sembra negare ogni suspense segue una suspense delle più avvincenti, e in cui eventi che sembrano affastellarsi in girandole impazzite si saldano invece in un sofisticato puzzle. Opposti squilibri Il colpevole è subito noto, il delitto dei più atipici: il rispettabile ex consigliere cantonale Kohler uccide l’altrettanto rispettabile professor Winter in un ristorante di Zurigo, davanti a numerosi avventori, tra cui un comandante della polizia stupito non dalla crudeltà ma dall’insensatezza dei fatti («Un omicidio senza motivo per lui non era un delitto contro la morale, bensì contro la logica»); l’assenza di movente e la sardonica serenità dell’assassino fanno apparire il gesto come un atto dimostrativo o gratuito nel solco di Dostoevskij o di Gide, finalizzato a indagare e sfidare le leggi sociali. Ma il quadro si complica: dopo il primo processo, malgrado la flagranza del reato, le testimonianze iniziano a contraddirsi e Kohler riesce a indirizzare i sospetti su un altro personaggio; inoltre, la rete delle complicità e delle ritorsioni si infittisce, figure disparate (un campione sportivo, una coppia di sociologi, un detective privato, un’ereditiera e una prostituta unite da un rapporto di vita per delega di impronta balzacchiana) innescano una ridda di gelosie, umiliazioni, atti mancati e nuovi omicidi, una sulfurea commedia nera rispetto a cui la legge è sempre più impotente. Impotenza evidenziata dagli opposti squilibri di due suoi rappresentanti: l’inflessibilità ostinata e fallimentare di un sostituto procuratore, e la debolezza dell’avvocato narratore della vicenda, prima difensore di Kohler e oscuramente invischiato nei suoi progetti, poi ansioso di sottrarsi a questa connivenza e di sopperire allo scacco delle istituzioni con un’azione plateale, ma sprofondato nell’alcoolismo, degradato come il Matthai della Promessa (senza essere

di uccidere la logica

Gelosie,umiliazioni, LA FARSA FILOSOFICA ALLUSIVA DELLA GUERRA FREDDA IN EUROPA omicidi impuniti che lo spronano a agire. Il buffonesco Spurio Tito Mamma, Riproposta la pièce di Dürrenmatt persone capitano delle armate, giunto in corsa da Pavia coperto di sangue, in una sulfurea continua a ribadire la disfatta. La moglie Giulia inneggia a prendere le su Romolo il grande armi, la figlia, Rea, ha una dissennata passione per il teatro e, sotto la commedia nera ●●●Il teatro di Friedrich Dürrenmatt vive in un tumultuoso guida dell’attore Filace, prova ossessivamente una parte che non di suggestioni brechtiane e pirandelliane, rielaborate riesce a dominare: quella di Antigone. Zenone Isaurico, imperatore titolata «Giustizia»: abbraccio secondo una personalissima sensibilità per il grottesco e la d’Oriente, arriva a chiedere aiuto con i suoi due verbosissimi provocazione, non esente da certe suggestioni di Shaw. Marcos y Fosforide e Sulfuride. Giunge anche un industriale, Adelphi la riprende Marcos, da sempre fedele all’autore svizzero, ripubblica in questi camerlenghi: Cesare Rupf, che produce pantaloni, rivoluzionario indumento giorni l’antica (e per certi aspetti datata) traduzione di Aloisio Rendi grazie alla praticità del quale i barbari otterranno la vittoria. Egli dopo l’edizione (uscita per la prima volta da Einaudi negli anni ’70) di una delle chiede in sposa la rampolla imperiale in cambio della salvezza del commedie più famose dell’autore: Romolo il grande. Il testo è del potere romano, ma l’augusto rifiuta. Lentamente, nel corso di Marcos y Marcos 1950 e risente decisamente dei fantasmi della guerra da poco dialoghi surreali e spesso sgangherati, si svela che il disegno di conclusa. Protagonista del lavoro è l’ultimo imperatore di Roma, che Romolo è quello di esaurire una storia intessuta di morte e sangue, a pubblicata nell’85 ha deciso di sabotare il residuo potere del suo regno, scegliendo cui nel tempo del suo regno ha cercato di porre fine, non l’inazione assoluta. I suoi predecessori sono diventati per lui galline, che da provetto pollicultore alleva e cura nella sua villa di Campania, tenendosi ben lontano da Roma e dai suoi intrighi, quando tutti stanno cambiando bandiera, in attesa dei barbari, o fuggendo verso altri lidi. In quella rovinata dimora-pollaio, dove i Flavi e i Domiziani danno i nomi a creature che becchettano per terra a caccia di vermi, il paladino dell’inazione assoluta, viene continuamente visitato da

occupandosi se non di uova e di cucina. Quando infine giunge il tedesco Odoacre non reca la morte prevista, anzi anche lui vuole sfuggire a un potere che lo opprime, mentre sullo sfondo si esercita il nipote Teodorico, visto come futura minaccia. La suggestione dei temi classici, da sempre rilevante per Dürrenmatt, qui diviene chiave per una riflessione sull’Europa della guerra fredda, declinata come agitata farsa filosofica. (luca scarlini)

riuscito, diversamente da lui, a decifrare l’accaduto), visibilmente incapace di assolvere i suoi propositi, in preda a un disorie-ntamento che il suo resoconto, in cui i piani temporali si accavallano e la narrazione rischia il tracollo, mette in tangibile evidenza. Il testo però non resta in bilico su questo disorientamento, perché la narrazione dell’avvocato risulta, come si sarebbe detto un tempo, «intradiegetica», in quanto inviata all’autore – o meglio a uno scrittore che ne è la proiezione – dal comandante della polizia: un passaggio accompagnato dal vezzo citazionistico, perché il comandante è quel dottor H. che nella Promessa introduce la storia, e lo scrittore rintraccia il testo molti anni dopo, con allusione implicita alla travagliata gestazione del libro, iniziato nel 1957, lasciato a lungo in sospeso, e portato a termine solo nel 1985. Il ricorso al topos del manoscritto ritrovato non si esaurisce nel gioco metaletterario, perché rimette in moto la trama: lo scrittore ritrova luoghi e personaggi del resoconto, fino ad apprendere che gli omicidi derivavano da un movente concreto ed erano interconnessi dalla strategia, mutuata dal biliardo, del colpo à la bande (che tira una palla verso la sponda perché rimbalzando ne mandi in buca altre); in uno stratificato spiazzamento delle attese, le fila che sembravano confusamente aggrovigliate si distendono, la curiosità che pareva dover rimanere inappagata è canonicamente soddisfatta. Impotenza dell’autore Ma se la suspense del poliziesco è ripresa, i suoi presupposti sono scardinati: i colpevoli restano impuniti, le loro ragioni appaiono pressanti ma non lineari (le faide economiche di un gruppo industriale si intrecciano a slanci intimi di desiderio o astio), e non c’è più una forza in grado di dipanare, neanche idealmente, questi grovigli: la giustizia evocata nel titolo latita dalla vicenda, non solo perché (come nella narrativa giudiziaria classica) quella istituzionale risulta fragile e quella privata dannosa o impraticabile, ma perché anche le sue istanze astratte vacillano, la realtà appare indocile a qualsiasi forma di verdetto e persino di giudizio. La tranquilla Svizzera, dedita «agli orologi di precisione, agli psicofarmaci, al segreto bancario e alla neutralità perenne» (elenco ironico che un po’ riecheggia la celebre tirata di Orson Welles nel Terzo uomo), e di fatto inquinata da grossi giri e conflitti affaristici, appare come la punta simbolica di una pace occidentale fittizia, che ricopre dinamiche di rapacità e sopraffazione cruente come le guerre del passato, dinamiche che nessuno è in grado di valutare esattamente. Tantomeno l’autore, che, mettendosi in scena, rinuncia a ogni classico piedistallo, mostrandosi prima sprovveduto come le sue creature, incapace di capire gli eventi se non grazie a tardive rivelazioni, e poi (quando la finzione è ormai dichiarata tale), ancorato al conforto del proprio mondo immaginario e insieme riluttante a cavarne un senso definito: «Stanco, ritorno alla mia scrivania ... nel cerchio magico dei miei personaggi... Li ho inventati ma non sono riuscito a decifrarli»: un’intensa messin-scena della costitutiva ambivalenza della creazione letteraria, insieme strumento per esplorare senza remore l’esperienza e voluttuoso riparo dai suoi contraccolpi.

«IL SORRISO DELLA SFINGE», DIECI RACCONTI DELLA SCRITTRICE AUSTRIACA RIBADISCONO IL POTERE TRASFORMATIVO DELLA LETTERATURA

Ingeborg Bachmann tra vite e mondi di STEFANO ZANGRANDO

●●●«Un tipo di esperienza vitale che fino a oggi è stata attribuita esclusivamente all’esperienza mistica è invece un’esperienza normale, di norma soltanto nascosta»: così Robert Musil descriveva l’«altro stato», quella sorta di estasi e «metafora assoluta», come ebbe a chiamarla Ferruccio Masini, la cui esplorazione attraversa tutta l’opera del classico di Klagenfurt. Potrebbe essere questa l’epigrafe ai racconti giovanili della conterranea Ingeborg Bachmann finalmente proposti al pubblico italiano con il titolo Il sorriso della sfinge (a cura di Antonella Gargano, Cronopio, pp. 112, € 14,00). Sono dieci prose

narrative, due delle quali in forma di frammento, scritte tra il 1945 e la fine degli anni ‘50: certo, parlare di «narrativa» nel caso della Bachmann è un po’ rischioso, se è vero quel che disse Christa Wolf, e cioè che l’autrice del Trentesimo anno «non ha la natura della narratrice, se con ciò si vuole intendere chi racconta con disinvoltura delle storie, dimenticandosi di se stesso.» Ebbene, in questi primi racconti l’aspetto riflessivo si traduce, con le parole della curatrice, in un «intrecciarsi e sovrapporsi di concretezza e astrazione», una forma peculiare di quella commistione di poesia e prosa che contraddistingue tutta l’opera della Bachmann, tra rigore compositivo e tensione linguistica. C’è peraltro un Leitmotiv che lega questi racconti, ed è quello del confine. Nel primo racconto, Il

traghetto, il fiume che separa i comuni mortali dalla «casa dei signori» è una linea tra due mondi, mentre l’assenza di coordinate storiche e i nomi del traghettatore, Josip, e della donna cui egli preclude con mal celata gelosia l’attraversamento, Maria, alludono insieme a un elemento favoloso che, al di là della matrice goethiana individuata dalla curatrice nella postfazione, è già irruzione dell’altro, e che nei racconti successivi assume spesso i tratti di una parabola kafkiana. Del resto quello di Kafka è forse il debito più manifesto di questi primi lavori in prosa. Nel secondo racconto, In cielo e in terra, il rapporto asimmetrico tra uomo e donna, dove l’abnegazione femminile è tutt’uno con l’autoritarismo parossistico del maschio, assume tinte già vagamente irreali, assurde.

Nel Sorriso della sfinge la dimensione è più allegorica, con un re che, costretto dall’ombra di un’immane creatura, induce i sudditi a una indagine completa dello scibile per poi concludere in sterminio la reazione all’ultima domanda del mostro. Puramente visionaria è invece la rappresentazione dell’aldilà nel racconto titolato La carovana e la Resurrezione, il cui finale prevede un bambino che rompe la fila dei morti ambulanti cui appartiene per seguire il richiamo dello scampanio che lo trasformerà in fiamma. «Richiamo» è del resto una parola chiave per capire l’accesso all’altrove da parte dei personaggi bachmanniani: nell’onirico Il comandante, il protagonista è indotto da un moto inspiegato a svegliarsi e abbandonare la propria stanza per cercare inizialmente di prendere un treno

impossibile, e dunque attraversare a piedi la «barriera XIII», ovvero la frontiera oltre la quale lo aspetta, tra una «strada larga» e un edificio chiamato «Comando», un perpetuo rovesciamento della propria identità. Tema, questo del corto circuito identitario, che – a conti fatti – emerge come il più incisivo del volumetto. Notevole in questo senso è il pur incompiuto Ritratto di Anna Maria, narrazione turbata di una figura inafferrabile di pittrice, dove, come si legge nella postfazione, «l’io narrante si scontra con il problema della dicibilità del reale per la perdita di ogni valore denotativo e connotativo della lingua». Un negozio di sogni, invece, declina lo stesso tema come rottura della quotidianità borghese da parte di un personaggio che, oltrepassato l’ingresso di un’insolita bottega, andrà incontro a

una visione che lo disancorerà per sempre dai propri «doveri». E Il saldatore traspone lo stesso principio tematico e strutturale a un livello ancor più dirompente, poiché qui il protagonista di una svolta nella propria vita è un lavoratore proletario, che trova per caso, sotto il tavolo di un bar, un libro abbandonato, La gaia scienza, grazie alla lettura del quale lotterà per una emancipazione radicale, destinata tuttavia a non durare. Se si tratti di fallimento o impossibilità, è difficile dirlo. Del resto, nelle sue lezioni francofortesi tra il 1959 e il 1960, la Bachmann parlò di «letteratura come utopia». Nell’ultima di quelle lezioni disse: «la letteratura non è un fatto compiuto, essa è il territorio più aperto, più aperto ancora di quelle scienze in cui ogni nuova scoperta soppianta le vecchie… »


ALIAS DOMENICA 22 GENNAIO 2012

DALLA GERMANIA, UN CASO DI «VÄTERLITERATUR»

di ENZO DI MAURO

●●●Devo confessare di avere letto Dopo le guerre (Le Lettere, trad. di Paolo Scotini, pp. 168, € 16, 50) sulla spinta di due impulsi assai poco attinenti alle qualità letterarie, o per dir meglio stilistiche, del libro: due curiosità, due ossessioni, due coazioni a ripetere riportando al presente eredità obsolete, consuetudini antiche, incrostazioni rugginose di patemi privatissimi, di traffici interiori più o meno oscuri o, se si preferisce, limacciosi. La prima ragione è generazionale, l’autrice essendo nata nel 1955, ossia e pur sempre nel cuore del lungo secondo dopoguerra tedesco, a macerie ancora calde e visibili, dentro un paesaggio morale devastato, stretto tra sconfitta e sentimento di colpa, quasi in esergo a una lunga, ininterrotta elaborazione, che con l’avanzare degli anni è diventato, per limitarci alla letteratura, un vero e proprio genere (un flusso torrenziale o una corrente ricca di nomi e di titoli, cioè di opere tra loro concomitanti e però dal valore discontinuo, spesso chiuse e pinzate alla voluminosa cartella delle testimonianze o al registro dell’interrogarsi nel migliore dei casi sul silenzio e sulla responsabilità che quell’aver taciuto ha comportato e comporta). La ragione seconda, di conseguenza, mi pare inerente (e funzionale) al tema stesso affrontato nel romanzo da Dagmar Leupold, il cui esordio risale al 1992, in morte del padre Rudolf, a guisa di indagine, rendiconto, resoconto e persino saggio critico, almeno nell’ultima parte, dentro e intorno ai resti della scrittura (diaristica e narrativa) dell’uomo che a lungo, oltre alla pas-

GERENZA

LEUPOLD Anche lo stile

Gerhard Richter, «Betty», collezione privata

vittima di guerra sione per la matematica, coltivò una ondivaga vocazione (ma la figlia propende, più crudelmente, per una semplice e mai piegata ambizione) alla celebrità letteraria e che al dunque rimase uno scrittore inespresso e soprattutto ignoto al mondo. Leupold, mentre sperimenta in corpore vili come non sempre l’approssimarsi della fine renda migliori gli uomini e come, anzi molti tra loro, non smettano d’attossicarsi di boria e di vanità, cerca di ricomporre i tasselli di una vita, di dare senso a ciò che chiama una «forma mancata, una forma rovinata dalla guerra», laddove inoltre l’esperienza bellica va a scavare un fossato all’interno della famiglia, ad esempio tra chi c’era e vi ha preso parte e chi (i figli), di quell’evento in sé lacerante, sarà destinato a respirare gli effetti postumi, dentro e fuori le mura di casa, nei discorsi e nei silenzi e poi nel paesaggio ferito e nelle ferite dei mutilati, degli invalidi. Ricorda l’autrice un’immagine che fu comune a una genera-

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Immersa nei diari e negli appunti del padre, che fu uno scrittore inespresso, Dagmar Leupold ne ricompone criticamente la vita in «Dopo le guerre», un romanzo-saggio

zione: «Negli anni ’50 e ’60 – la mia infanzia – stampelle, fasce per tenere le braccia, maniche vuote e ciondolanti, gambe di pantaloni tirate su, occhi di vetro e cicatrici non erano nulla di straordinario». La guerra come punto collettivo di non ritorno, la guerra (ormai vecchia di cinque, dieci, quindici, vent’anni) come «unico avvenimento ... che imponeva una narrazione». Una narrazione imperniata innanzitutto attorno a frattaglie verbali inessenziali, corrive, esornative. Oppure c’era il silenzio, un silenzio mirato, inconsapevolmente intelligente ovvero plastico e rivelatore. Il ritratto del padre è equilibrato. Dopo aver letto e studiato i diari, i racconti e gli appunti di guerra, dell’uomo che era stato prima che lei nascesse emergono verità, deduzioni e implicazioni mai sensazionali, sebbene non meno atroci, non meno crude per chi mostro non può essere definito e invece di grana piuttosto ordinaria, fatto salvo un certo talento, fatta salva un’ambizione di sicuro più

forte del coraggio – che è poi il grande peccato, il supremo disonore di coloro i quali hanno praticato il nazionalismo e il razzismo, tipici marchi della gioventù tedesca umiliata dalla sconfitta nel primo conflitto mondiale, nel nome di una supposta posizione di superiorità. È a partire da qui, a me pare, che si mostra tutta l’originalità di Dopo le guerre. Leupold – che prende su di sé il peso di procedere verso quell’introspezione radicale che Rudolf non seppe o non volle mettere in atto, seppure e a maggior ragione nel corso del tempo guardasse con forte simpatia alla socialdemocrazia e ai movimenti della sinistra giovanile e antagonista del Sessantotto – trasforma il suo romanzo in un serrato, tagliente saggio critico intorno allo stile della scrittura del padre e ai segnali (anche evidenti o addirittura lampanti) ch’essa lancia mentre si specchia nella lezione dei due maestri riconosciuti, vale a dire Ernst Jünger (quello di Irradiazioni, pubblicato in volume nel 1949, e in genere dei diari) e Gottfried Benn, in particolare l’autore del Tolemaico, anch’esso stampato nel 1949. Due supremi stilisti, dunque, due eclatanti esemplari di animali a sangue freddo, secondo i quali il distacco è sostanza spirituale ed elemento morale. Il nocciolo della questione, per il padre e per i suoi modelli, era pur sempre logistico e il mondo e la sua realtà una immensa scacchiera. L’assillo, l’ambizione è venirne fuori sani e salvi, attraversare indenni l’orrore e le tempeste. Così lo sguardo neutro, «anche dopo la guerra», restò come uno stigma dello «scrittore» Rudolf Leupold. Ogni cosa si equivale per l’occhio che esamina come una telecamera, ogni cosa merita «un interesse disinteressato, una partecipazione indifferente»: «la fioritura, la digestione, il teatro, le esecuzioni capitali». È precisamente qui, a questa altezza, che la posizione estetica si fa politica ed etica. Anche se quel padre e i suoi «padrini» letterari (li appella proprio così l’autrice) vollero negarlo o ignorarlo, sia nella vita e di sicuro a partire dallo stile. Anche questo, ci viene suggerito, fu un danno delle guerre.

«LO CHALET DELLA MEMORIA»

Tony Judt, il Novecento privato di uno storico in difesa delle parole Ibrido testuale sistematico ma inclassificabile – a meno di non scadere nell’approssimazione più conformista –, Lo chalet della memoria di Tony Judt (Laterza, pp. 220, € 16,00) è tuttavia più che onesto nel suggerire al lettore, sin dal sottotitolo, la natura dei pezzi che lo compongono: diviso in tre parti precedute e chiuse da una prefazione e da un «commiato», i venticinque capitoli di questo Novecento privato sono propriamente delle tessere sia perché elementi distinti di un unico, e unitario, affresco sia perché micro-libretti cui sono affidati i principali tratti distintivi del loro autore (uno dei massimi esponenti anglosassoni della sua generazione): intuizione analitica, capacità di sintesi e nitore d’espressione. Qualità, tutte, che in questo libro Judt (nato a Londra nel ’48 e scomparso nell’estate di due anni fa a New York, stroncato dagli effetti devastanti della SLA) dispiega per ricostruire la sua vicenda di uomo e di intellettuale eludendo qualsiasi forma di retorica dell’io (e il suo contrario): che parli di episodi e momenti personali o si soffermi su aspetti particolari di quel secolo che è stato per oltre trent’anni al centro degli interessi storici di Judt, ogni tessera dello Chalet combacia con quella che la precede o la segue in virtù di una disposizione improvvisamente chiara del carattere e del destino del loro artefice, il quale, sebbene «più comprensivo nei confronti di chi è costretto al silenzio» a causa della malattia che gli fu diagnosticata nel 2008, pure non ha mai smesso di «disprezzare il linguaggio confuso» e l’arroganza che proprio dietro il disordine e la semplificazione a ogni costo maschera nient’altro che un pensiero debole e insicuro: “«non più libero di praticarla, apprezzo più che mai l’importanza della comunicazione nella vita pubblica: non solo il mezzo che ci consente di vivere insieme, ma il senso profondo di quel vivere insieme. L’abbondanza di parole in cui sono cresciuto costituiva uno spazio pubblico in sé. E quello che manca, oggi, sono proprio spazi pubblici ben tenuti. Se le parole cadono in rovina, che cosa prenderà il loro posto? Sono tutto quello che abbiamo». (stefano gallerani)

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In copertina, uno dei dipinti rupestri di Lascaux

TRA CRONACA, EVENTI POLITICI E COSTUME, NOTE PASSIONALI SCRITTE PER «IL CORRIERE» TRA IL 2006 E IL 2011

Un breviario civile di Claudio Magris di MARIA FANCELLI

●●●Riletti oggi nel loro insieme, gli articoli scritti da Claudio Magris tra il 2006 e il 2011 e appena ripubblicati da Garzanti sotto il titolo Livelli di guardia. Note civili (pp. 208, €18) con l’aggiunta di due importanti discorsi (a Roma il 27 gennaio e a Francoforte il 18 ottobre 2009) e il ripristino dei titoli originali dell’autore, ci restituiscono l’impressione di un libro coeso nei contenuti e perfino nella sua nuova struttura, che è un po’ quella involontaria del diario. Il diario di una crescente passione civile che, per la sua forte impronta didascalica, può essere

letto anche come un manuale o come un «breviario»: uso questo termine perché qualcosa, in questo libro, mi ha fatto più volte pensare a quel Breviario di devozioni domestiche che Bertolt Brecht aveva scritto nel 1927, fornendo ai suoi lettori, sotto la forma dell’esercizio devozionale, un’opera di educazione laica e di straniamento. Ebbene, i pezzi di questo breviario civile di Magris raccontano fatti di cronaca, eventi politici e di costume, dove da ogni parte monta l’ira e la voce dell’autore risuona forte come raramente l’avevamo sentita. Il germanista, il fine scrittore e letterato, qui fa parlare a voce alta la sua coscienza di cittadino: ha affilato le sue armi contro i maggiori responsabili del degrado morale italiano e ha preso a

commentare senza veli gli eventi più squallidi della cronaca e della vita politica nazionale. Non sempre emergono i nomi e i cognomi, ma i bersagli sono chiari: la degenerazione del linguaggio politico, la pratica dell’insulto, la regressione morale della Lega, la volgarità dei suoi leader, la lotta agli immigrati trasformata in odio razziale, l’egoismo di un nord arricchito e senza pietà, lo spettro del nuovo populismo, l’indifferenza di classi sociali che sembrano non percepire più neppure lo stato e il livello del degrado, soprattutto da parte di una borghesia «pezzente» e «pasciuta» che ha perduto ogni rispetto di sé e degli altri. L’occhio del cittadino Magris si sposta spesso anche sulle istituzioni che non hanno saputo mantenere la

dignità del loro ruolo; su questioni grandi e piccole dell’esistenza; sui nuovi luoghi comuni, come la diffusa retorica della diversità o quella delle scuse pubbliche e del perdono erga omnes. Il punto di vista è quello di un laico che non si sente in opposizione al credente, ma che vive il proprio laicismo come tolleranza e come dubbio, «come capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri». Se quelli dell’impegno civile e della denuncia sono i temi più in vista del libro, il Magris scrittore e lo studioso della storia e della cultura tedesca non scompare affatto dietro alla cronaca italiana, ma continua a parlarci e a offrire, anche qui, molti illuminanti spunti di riflessione. Penso al bel ricordo del collezionista triestino

di minerali e fossili, Primo Rovis; alle pagine dedicate alla Shoah; alle riflessioni sulla memoria come presente e alla storia che non è maestra di vita; penso, in maniera particolare, a quella forma di organizzazione politico-economica cosiddetta del capitalismo renano che Magris affronta nell’articolo cui aveva originariamente dato il titolo, appunto, Capitalismo renano, ovvero umano, e nel quale sintetizza alcune riflessioni sul sistema tedesco e sulle sue radici storiche, indicandoci un modello possibile e invitandoci ad approfondirne la conoscenza e il funzionamento. Infine, nel discorso di ringraziamento per il Friedenspreis (18 ottobre 2009), con il quale si chiude questo libro, Magris disegna il modello della

nuova Europa e la sua è davvero una direzione possibile e forse più che una speranza: «All’Europa spetta il grandioso e arduo compito di aprirsi alle nuove culture dei nuovi europei provenienti da tutto il mondo, che vengono ad arricchirla con le loro diversità. Si tratterà di mettere in discussione noi stessi e di aprirsi al massimo dialogo possibile con altri sistemi di valori, ma tracciando le frontiere di un minimo di valori non più negoziabili... Pochi ma netti valori, come per esempio l’uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere da ogni differenza di sesso, di religione o di etnia. Ma finché l’Europa sarà ancora un’Azione parallela, la nostra realtà, come quella musiliana, sarà campata in aria».


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ALIAS DOMENICA 22 GENNAIO 2012

GIUSEPPE COLITTI, UN LIBRO DI STORIA ORALE SU RISORGIMENTO E POPOLO NEL MERIDIONE PISACANE, UN’INCOMPIUTA PER LA PRIMA VOLTA IN INTEGRALE «La rivoluzione» avrebbe dovuto essere il terzo dei «Saggi storico-politico militari sull’Italia» di Carlo Pisacane (nell’immagine). Ma si interruppe tragicamente all’alba del 2 luglio 1857 tra i monti di Sanza, in Cilento. Ne rimane una stesura provvisoria, di primo getto, però preziosa per approfondire il socialismo utopista, libertario del «giovin dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro» descritto nella «Spigolatrice di Sapri» e che Victor Hugo considerava più simpatico di Garibaldi. Ora la grande incompiuta di Pisacane esce per la prima volta per merito di una piccola casa editrice cilentana, Galzerano («Rivoluzione», a cura di Aldo Romano, pp. 416, € 20,00), accompagnata da una ponderosa introduzione di Giuseppe Galzerano sul personaggio. Sullo stesso tema va segnalato il numero di dicembre del «Calendario del Popolo» (pp. 87, €, 9,00), dedicato ai 150 anni dell’Unità d’Italia e aperto dall’ultimo saggio dello storico Franco della Peruta (scomparso lo scorso 13 gennaio), che nel 1970 aveva curato e introdotto per Einaudi un’edizione degli scritti di Pisacane.

DALLA PRIMA

Caproni e la «bête innommable» di Lascaux vista da Blanchot 1986. Una risposta quell’anno aveva provato a darla tramite i versi del Conte di Kevenhüller: «La Bestia assassina. / La Bestia che nessuno mai vide. / La Bestia che sotterraneamente / – falsamente mastina – / Ogni giorno ti elide. / La Bestia che ti vivifica e uccide… / Io solo, con un nodo in gola, / sapevo. / È dietro la parola». Verso il 1990, quell’animale erratico si era spostato nei territori «disabitanti» della poesia postuma di Res amissa. Ma la sua presenza ferina affondava le radici molto lontano nel tempo. Molteplici erano state le sue metamorfosi, ancora più evidenti le sue eclissi. In origine, con Jouve, era stata «bestia ammirabile» e, dopo l’intervallo della poesia di Finzioni, si era manifestata ‘dentro’ la città di Roma nelle poesie di Cronistoria. Nel 1962 con René Char, tradotto da Caproni per Feltrinelli, si era trasformata nella «Bête innommable» interpretata da Maurice Blanchot come «parola che dona voce all’assenza» nel saggio La Bête de Lascaux del 1958 (le pitture rupestri di Lascaux, manifesto della nascita dell’arte e del congedo dell’uomo dal suo passato animale). Caproni, che nelle interviste non ha confessato proprio tutto su Blanchot, quel saggio lo conosceva bene e lo possedeva sin dal 1961 (negli anni del Congedo del viaggiatore cerimonioso) perché era stato Char a inviarglielo. Il libretto è conservato nel Fondo romano e lo ha segnalato con attenzione Michela Baldini. Quante e quali sono le Bestie nell’opera di Giorgio Caproni? È questo l’oggetto di uno studio che mi riservo di descrivere a fondo in sede critica. Basti dire per ora che qualcosa distingue il poeta di Livorno da altri scrittori della stessa generazione. Molto per lui è stato fatto (talvolta «con punte di culto» avverte Mengaldo) e molto resta da fare. Già nel 1980 lo aveva segnalato Sereni: «alla poesia di Caproni bisognerà anzitutto invidiare la sorte piuttosto rara (perché non equivoca) del suo circolare ed essere letta, ossia del suo parlare ad altri anche indipendentemente dal rapporto delle definizioni critiche e dal gioco dei confronti e delle poetiche contrapposte». E prima ancora lo aveva capito Pasolini che, venuto ad abitare a Roma nel 1950, dieci anni più tardi, avrebbe dedicato A Caproni questi versi: «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».

BENVENUTI AL SUD

Via dal fotoshop ideologico, tra i borboni e i piemontesi io scelgo il Cilento In alto, una scena di «Noi credevamo» di Mario Martone, 2010; nella pagina a fianco in basso, Ferdinando Scianna, «Senza titolo»

SUD SUD Cilento magnetofono della Conquista

di ANGELO MASTRANDREA

●●●Che secolo di grandi rivolgimenti, speranze passioni e massacri, quello che si apriva alla Storia mentre, seduti attorno a un falò dopo la battaglia, i fratelli Abatemarco arrostivano e mangiavano la faccia del sindaco Nicola Cestari come si usava fare in quella stagione per il maiale. Era il 17 febbraio del 1799 e contemporaneamente, qualche chilometro più a sud, nella stessa piazza in cui quasi sessant’anni dopo Carlo Pisacane si accorse dell’errore madornale compiuto – aver voluto l’insurrezione proprio mentre chi avrebbe dovuto compierla era nelle Puglie per la stagionale mietitura – qualcuno piantava un olmo e lo chiamava «albero della libertà». Poco più a nord, invece, i rivoluzionari bruciavano la biblioteca di don Diego Gatta, colto e ricco discendente di una famiglia di chiesa e di medicina, costringendolo a una fuga precipitosa. Donna Mariantonia de Stefano «la maccarunara», classe 1916, era la custode di memorie popolari che risalendo controcorrente il fiume del tempo riannodavano il secolo dei rivolgimenti, delle passioni e dei massacri a partire dal-

la sua conclusione, dai briganti ai francesi e non viceversa. Eccoli, questi ultimi, in una «oralità» che in appena tre passaggi fa un salto all’indietro di trecent’anni: «Mi diceva mia madre che una sua zia morta a 96 anni raccontava: quando venivano i francesi, loro fuggivano subito. Dicevano nascunnite li criature. Le bambine andavano a nasconderle nelle pagliere (i fienili, ndr), le coprivano di paglia, perché facevano strage (le stupravano, ndr)». I francesi liberatori e violentatori, i libertari sui cui alberi innalzati nelle piazze furono piantate le loro teste e in qualche caso sbranate per vendetta da crudeli sanfedisti di paese, don Matteo Farro che, uscito dalle galere borboniche, si fece aprire la chiesa per dire messa e predicò dal pulpito la richiesta della Costituzione, i tre disertori dell’esercito che furono uccisi proprio nel giorno in cui la pena capitale fu tramutata in ergastolo. A conclusione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, può essere di qualche interesse provare a guardare alla storia del Risorgimento da una prospettiva solo apparentemente laterale: quella di un’area del sud Italia periferica perfino all’epoca, rispetto

di FRANCO ARMINIO

●●●Gli Italiani non conoscono bene la loro storia e gli italiani del sud ancora meno. Mi capita spesso girando nei paesi di trovare qualche targa di cui nessuno sa dirmi niente. È come se la memoria si fosse fermata a Mike Bongiorno e all’avvento della televisione. Quasi sempre nei paesi c’è lo storico locale, ma spesso ha le idee confuse. Quello che manca è una consapevolezza diffusa di quello che è accaduto, specialmente nei momenti più significativi. In Campania questo momento copre un arco che va dalla rivoluzione napoletana del 1799 fino al passaggio garibaldino. Storie di ardori rivoluzionari e di miserie clericali, storie tristissime in cui le intelligenze più illuminate trovano i peggiori nemici nella plebe. Un groviglio di eventi che ha come epicentro il Cilento e il Vallo di Diano. Venivano da questa terra molti degli intellettuali napoletani della rivoluzione trucidati dai borboni. Quando si va in vacanza nel Cilento è il caso di ricordarsi che ci si trova in un luogo im-

Un appassionat0 autodidatta registra memorie «vive» fino al 1799 sottraendole all’underground del vicolo alla Sicilia napoletana e a quella palermitana, e quella delle classi che hanno vissuto la Storia senza poterla scrivere. La regione di cui parliamo è più grande della Valle d’Aosta e comincia laddove nell’immaginario di Carlo Levi Cristo si era fermato. È il Cilento con il confinante Vallo di Diano, tra Montesano dove il 17 febbraio del 1799 i fratelli Abatemarco banchettarono con la faccia del sindaco e Casalbuono dove gli insorti piantarono un olmo nella piazza in cui i loro nipoti si perderanno l’ar-

portante della storia d’Italia. In quei piccoli paesi c’era e c’è ancora una bella fibra morale. Le rivoluzioni di allora non andarono a buon fine, ma il Cilento è un sud non completamente abbrutito. Pollica, Auletta, Sanza, Padula, Sapri e i tantissimi paesi grandi quando il pugno di Polifemo non sono la stessa cosa dei paesi giganti della pianura intorno a Napoli e Caserta. Stanno nella stessa regione, hanno da decenni lo stesso malgoverno regionale, ma l’atmosfera è diversa. Basti pensare a cosa è diventato il mare nel litorale domizio e a quello che si trova pochi chilometri più sotto, tra Acciaroli e Palinuro. Sarebbe una buona pratica se si trovasse il modo di raccontare ai turisti la storia di luoghi ancora tanto belli. Andare a Padula per vedere la Certosa e per sapere la storia di Carlo Pisacane e anche quella di Petrosino. Oltre alle vicende del mezzo secolo che precede l’unificazione italiana, il Cilento è anche una zona capitale delle varie ondate migratorie. È un fatto che dal Risorgimento fino ai giorni nostri la grande ferita dell’emigrazione non si è mai arrestata.

rivo di Pisacane, tra Sala Consilina dove il rogo della biblioteca costrinse alla fuga don Diego Gatta e Auletta dove Mariantonia de Stefano la «maccarunara» ha esercitato indisturbata il ruolo di custode della memoria popolare finché un appassionato, autodidatta, cultore di storia orale l’ha finalmente sottratta all’underground del vicolo. Giuseppe Colitti per decenni è andato casa per casa, nei campi e nei mercati, munito solo di un registratore portatile, ha ordinato in numerosi libri (mai usciti dalla dimensione locale: la periferia culturale ha spesso distanze ancora maggiori da percorrere per far centro) le migliaia di testimonianze raccolte. Quella che ci interessa in questa sede ha un titolo semplice, Popolo e risorgimento nelle fonti orali del Vallo di Diano (Laveglia&Carlone editore, pp. 208, € 10,00), e ci pare il naturale complemento al Noi credevamo di Mario Martone, un film che ha avuto il merito di comprendere la centralità di un’area periferica come quella del Cilento per la storia dell’Unità d’Italia, smontando in un colpo solo qualsiasi montante nostalgia neoborbonica di ritorno. Anche in questo caso, si deve alla tenacia di un piccolo editore locale, Giuseppe Galzerano, il merito di aver tirato fuori dall’oblio – ripubblicando le memorie di un protagonista, Antonio Galotti, editate a Parigi nel 1831 e mai tradotte in Italia – un massacro sconosciuto, quello con cui furono annegate nel sangue, dalla ferocia borbonica, le speranze di un pugno di ribelli. Siamo nel solco de La conquista, la storia del Risorgimento riletta da questo giornale (a cura di Gabriele Polo). Siamo nel 1828, l’olmo piantato a Casalbuono nel ’99 era ormai da tempo bruciato, e il Cilento tornò a ribellarsi chiedendo la Costituzione. Un paese, Bosco, poco lontano dalla Sapri in cui trent’anni dopo sbarcherà Pisacane, accolse gli insorti e mal glie ne incorse. La rivolta fu stroncata nel sangue, i rivoltosi arrestati e molti di loro condannati a morte, le loro teste esposte in gabbie di ferro nelle piazze e lungo le strade in cui abitavano i familiari. Il paese fu fatto radere al suolo e il terreno cosparso di sale, a impedire scaramanticamente che la mala pianta dell’insurrezione potesse tornare a crescere: un decreto reale ne dispose la soppressione e il divieto di riedificarlo. Fu in quei giorni che, a Sala Consilina, don Matteo Farro uscito di galera si fece aprire la chiesa e invece della messa recitò la Costituzione.

Oggi per essere buoni meridionali è bene capire cosa è successo. Guardare alla nostra storia senza mettere ridicole casacche per cui i briganti sono eroi o delinquenti. La rappresentazione del regno piemontese che abbiamo letto a scuola risentiva di una sorta di fotoshop ideologico teso a esaltarne virtù e nascondere difetti. Ora il gioco si è ribaltato e pare che il regno di Napoli fosse la mecca del buon governo. E allora tra i borboni e i piemontesi io scelgo il Cilento. Scelgo Vincenzo Lupo da Caggiano, avvocato, giustiziato a Napoli il 20 agosto del 1799. Scelgo Nicola Maria Rossi da Laurino, professore dell’università, giustiziato a Napoli l’otto ottobre del 1799. Non tutte le nazioni sono uguali e non tutte le regioni sono uguali. Si può amare l’Italia per le sue diversità e credere che il crimine maggiore che abbiamo commesso contro questa nazione sia stato quello di piallare le sue differenze. L’omologazione consumistica di cui già parlava Pasolini, l’ossessione della crescita, lo sviluppismo senza cultura ha fatto danni enormi anche nella vastissima provincia salernitana, basti pensare all’indegna bol-

Non sapeva, il buon prete, che di lì a vent’anni, nel 1848, accadrà di ben peggio. Quando Ferdinando II ritirò la Carta, furono dichiarati decaduti i Borbone, a Sala fu nominata la sede del governo provvisorio e arrivò una colonna rivoluzionaria guidata da un lucano. Finì con il paese circondato dalle truppe e i rivoluzionari costretti alla resa dopo otto giorni di assedio, non prima di aver incenerito tutti i documenti del governo provvisorio. Fu anche per questi fermenti passati che Carlo Pisacane, nove anni dopo, dovette decidersi che l’Italia si faceva a Padula o non si sarebbe fatta. La storia racconta che finì in un vicolo cieco, i suoi trecento giovani e forti trucidati senza possibilità di difendersi, i cadaveri ammucchiati davanti al convento dei minori osservanti e poi bruciati. Dell’assenza dei contadini impegnati nelle Puglie abbiamo già detto, del fatto che quando il socialista utopista che voleva dirottare il corso della storia meridionale perse la vita tra le montagne di Sanza il resto della popolazione locale era in chiesa a celebrare la festa della Madonna della Grazia ancora no. La tradizione popolare, forse per autoassolvere se stessa dall’onta storica, attribuisce la fine a un equivoco: Pisacane avrebbe sparato un colpo in aria di saluto che per fatalità avrebbe forato il cappello di una persona del luogo, innescando così lo scontro definitivo. Incontro al Ponte Rotto Comunque sia andata, è certo che Pisacane e Garibaldi si fermarono a cenare nella stessa osteria, e per quest’ultimo l’accoglienza riservata, tre anni e un terremoto devastante dopo, fu decisamente migliore. Zì Giovanni Di Filippo gli andò incontro al Ponte Rotto, sul passo del Fortino dove le camicie rosse poi si fermarono a riposare. Cecilia Bruno che lo aveva conosciuto racconta a Colitti: «Era vestito rosso, camminava a piedi. Andò a mangiare da don Ciccillo Sabatini. Qua cantavano: Garibbaldi, quannu venne, ne purtau na quantità: cappielli cu le ppenne, ne fece nnammurà». Come fu possibile che da quell’accoglienza festosa per le camicie rosse sulle stesse montagne si passò al brigantaggio è oggetto di discussione storica e politica. Tra gli effetti collaterali della legge Pica che mise a tacere con la forza il malcontento nei confronti dello Stato unitario c’è la strage che tra il 28 e il 30 luglio del 1861 i soldati fecero fra la popolazione di Auletta. Mariantonia “la maccarunara” l’aveva ascoltata dalla nonna, che aveva vissuto in diretta gli eventi. Quando cominciarono gli scontri, la donna si nascose in un camino per salvarsi la vita. E così potè raccontare ai nipoti: «Quando mia nonna è uscita cosa ha trovato? Erano diventati tutti garibaldini, i signori borbonici». Alla fine della battaglia si contarono venticinque morti tra i cittadini. Per un pezzo d’Italia si chiudeva così, quarant’anni prima del previsto, un secolo più breve di quello che si apriva alle porte, denso di rivolgimenti, speranze passioni e massacri. La storia non gli concederà una seconda possibilità.

gia urbanistica dell’agro nocerino-sarnese o alla villetteria spuntata in pochi decenni su quel meraviglioso panno da biliardo che è il vallo di Diano, però nel Cilento qualcosa ha fatto resistenza, qualcosa c’è ancora. Mi piace pensare che sia una resistenza che venga proprio da quei semi di civiltà che allora furono repressi e che tuttavia appartengono al dna del popolo cilentano. Volendo si può andare ancora più lontano e si può pensare a Velia e alla scuola eleatica fondata da Parmenide e portata avanti dal suo allievo Zenone. Oggi parlare di sud significa parlare di queste cose e farlo insieme alla denuncia della miopia piccolo-borghese che ha spostato a valle interi paesi, secondo un modello che ha i suoi fasti massimi in Calabria, ma che è già ben visibile nel capoluogo del Vallo di Diano, Sala Consilina. Il sud sono gli intellettuali della repubblica napoletana e i contadini di Sanza e il prete che li avvisò dell’arrivo dei «briganti». Il sud è Giordano Bruno e i sanfedisti. Bisogna scegliere da che parte stare. Ora come allora. Ora più di allora. La parola in cima all’agenda volendo è sempre la stessa: rivoluzione.


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TRE SGUARDI D’AUTORE FRA CONTESTI SOCIALI E LETTERARI JOVINE RITRATTO DA CARLO LEVI Nel 1977 Carlo Levi ci fornisce notizie sulla genesi del dipinto «Lo scrittore Francesco Jovine con l’asino», 1947, che illustra questa pagina: «Di ritratti di Jovine ne ho fatti due, e alcuni disegni. Eravamo stati insieme, con Rocco Scotellaro, nei prati di Villa Doria Pamphili, ancora abitata da veri pastori, e da greggi e da animali nelle capanne. Per questo in uno dei due ritratti (e non solo riferendomi al suo mondo poetico del Sud) misi un asino e un contadino (che in quel tempo erano quasi la mia firma). Questo ritratto, dipinto il 20 ottobre 1949, lo rappresenta con il suo peso e il colore violaceo dei morti. Jovine cadde a terra per infarto, appena arrivato, con tutti noi a Venezia, al Congresso della Resistenza, nel 1950. Lo ricordo all’ospedale di Venezia (meraviglioso di assurda architettura) convinto di non avere nulla di grave. Lasciato partire dopo solo una settimana dai medici, ebbe, subito dopo il viaggio, il secondo infarto e morì. E lo ricordo con le macchie viola sul viso, identico a quello che avevo dipinto l’anno prima».

SUD SUD JOVINE ■ «LE TERRE DEL SACRAMENTO» DEL ’50

Storie molisane sospese nel panico e governate dallo stupore di GRAZIELLA PULCE

●●●Pubblicato nel 1950 – proprio l’anno della riforma agraria – subito dopo la morte di Francesco Jovine, Le terre del Sacramento (introd. di Francesco D’Episcopo, Donzelli, pp. XIV-257, € 23,00) avevano conosciuto una lunga gestazione. Nel ’46 l’autore dichiara-

va alla «Fiera letteraria»: «Da dieci anni mi porto in mente un romanzo di vastissime proporzioni, senza titolo, per ora, ma con una decina di personaggi che mi fanno già ottima compagnia». Il romanzo rappresenta uno dei più cospicui contributi al realismo e il vertice dell’opera dell’autore molisano, che volle rappresentare la condizione del

Meridione d’Italia nel suo groviglio di vitalismo e abiezione, fede e disincanto. L’opera è articolata secondo una scansione lenta e vede alternarsi una serie di figure che inizialmente paiono contendersi il ruolo protagonista: Enrico Cannavale, proprietario delle terre del Sacramento, tremila ettari espropriati alla Chiesa nel 1867 e ritenuti maledetti dalla superstizione popolare; Clelia, cugina di Enrico e sua amante occasionale; Laura, la moglie che si adopera perché il Fondo sia nuovamente coltivato e poi distribuito tra i contadini; e infine Luca Marano, ex seminarista e poi avvocato, che coadiuva Laura nell’impresa di strappare quelle terre al destino di abbandono e di salvare i Cannavale dalla rovina. Le rivolte contadine, gli assalti squadristi ai danni dei lavoratori in lotta e la marcia su Roma costituiscono la trenodia che accompagna il racconto, in cui s’infiltrano elementi di schietto paganesimo. Questo per dire che nulla di ciò che accade nel romanzo ha un valore puramente individuale, né nelle sue origini lontane, né nelle motivazioni più o meno prossime, né negli effetti che ne scaturiscono. Tanto il mondo cittadino che quello agricolo-pastorale, i due poli di un cosmo verghianamente corale, sono librati in una condizione di sospensione panica. E dunque ciò che accade e ancor di più ciò che non accade appartengono paradossalmente al medesimo universo governato da inerte stupore. In questa opera potentemente realistica e insieme sanguignamente fantastica Jovine ha dato vita a una storia che non si lascia circoscrivere nei confini del romanzo di intonazione sociale, dove il giovane Luca conquistata lentamente e faticosamente coscienza dell’ingiustizia sociale. Rinunciando a ogni consolazione e a ogni semplificazione, Jovine ha creato un mondo complesso dove le varie voci coabitano senza istituire una gerarchia, quella gerarchia tanto celebrata dal fascismo e della quale in queste pagine si evidenziano le radici storiche e i meccanismi psicologici. Che Luca Marano sia destinato alla morte lo si intuisce sin dal principio e non solo per ragioni di natura socio-politica, ma per ragioni squisitamente letterarie di dispositio. Egli ha osato sfidare le camicie nere e i privilegi della proprietà fondiaria, ma prima si era sottratto alla volontà della madre che lo voleva prete. Ed è in quella scena iniziale apparentemente irrelata, nella quale la terribile donna scopre il seno e pronuncia la propria maledizione, che tutto si incardina verso la tragedia. È la Grande Madre mediterranea, amorosa e distruttrice, il luogo centrale della vicenda e della storia di questo paese, come in qualche modo aveva già intuito Grazia Deledda che con La madre aveva delineato un conflitto di identica tragicità. Le terre del Sacramento non sarebbe quel complicato e attualissimo romanzo che è se la voce del narratore avesse voluto imporre un proprio superiore ed esterno ordine a questo grumo di storia mediterranea e molisana, nel quale il denaro e i manganelli sono in mani maschili, ma la forza resta nelle mani della donna.

ANNA MARIA ORTESE CONSOLO RILETTO

Da Anna Frank ai Vangeli, una «lettrice» sotto il segno della pietà e dell’esattezza

«Il sorriso dell’ignoto marinaio» restituito in una analisi ironica e capillare di Salvatore Grassia

di CECILIA BELLO MINCIACCHI

di VIOLA PAPETTI

●●●La cifra stilistica di Anna Maria Ortese, quella sua peculiare finezza di tratto unita alla capacità di affondare immediatamente al cuore delle cose, di coglierne l’essenza con una naturalezza infallibile, riemerge ora, tutt’intera, nella raccolta di scritti sulla letteratura e sull’arte appena curata da Monica Farnetti, Da Moby Dick all’Orsa Bianca (Adelphi, pp. 187, € 13,00). In poche altre scrittrici si possono ravvisare insieme, miracolosamente inestricabili, severità e pietà. Lo sguardo di Anna Maria Ortese è sempre esatto: i dettagli necessari, le inquadrature mai sfocate, incarnati e contorni mai dilavati. La sua pietà, vibratile, è quella di chi si è conosciuta dovunque «in luoghi di esilio». La sicurezza del suo gusto letterario e artistico non prescinde dalla densità etica delle opere a cui rivolge attenzione. Del Diario di Anna Frank, che è uno dei «libri che guardano l’orizzonte», Anna Maria Ortese coglie subito la freschezza adolescenziale – «è il libro di tutte le generazioni giovani del mondo» –, l’affamato desiderio di capire e al contempo la saggezza straordinaria e istintiva: «non hanno nome né volto né sguardo i nazisti per Anna, sono il male anonimo, la natura inquieta, la condizione dell’oscurità mentale: un assurdo». A rendere la piccola olandese «imbattibile», a sostenerla nel chiuso del suo «alloggio segreto», è una passione che la Ortese chiama «amore della realtà». Passione che lei stessa ha condiviso tenacemente, ma in modo unico, suo proprio. Che era il vedere «la realtà vera disfarsi continuamente (...), e la realtà irreale dominare l’eterno», scriveva nel Porto di Toledo. Ortese non si lascia persuadere da storie «esemplari», con personaggi altrettanto esemplari, narrate «con linguaggio esemplare», e non teme di scrivere che avrebbe preferito «un Metello meno sicuro di sé, una Ersilia meno cosciente, un Libero meno paffuto ed anonimo»: il Pratolini che ha caro, infatti, è «quello che invece di parlare agli uomini li fa parlare; e ascolta anche il linguaggio dell’Arno dove è più basso». In questi scritti critici, mai apparsi prima in silloge, a dominare è la libertà del metodo e della voce, che passa dalla «magnifica discrezione» di Cechov per le sue creature, al Buzzati «scrittore delicato e sinistro, sempre in allarme», all’«infanzia meravigliosa piantata negli occhi» di Hemingway. Nei Vangeli – ciascuno, «dietro un’apparente semplicità, misterioso e terribile» – riconosce la condanna del tempo che si oppone all’eternità: «di solo tempo non ci si può nutrire, senza mangiare morte». In Achab che perseguita Moby Dick, balena enorme e bianca come l’Orsa che «ha avuto un figlio» allo zoo, scorge un «Uomo-Senza-Natura, cioè senza pace, uomo muto, perduto nei sistemi senza orizzonte dell’utile». Lungimirante, acutissima, Anna Maria Ortese si chiede se il persecutore non sia «il mondo come America». Ben sapendo di poter dire anche la «Russia di domani», l’«Europa di oggi». Ovvero «vita come mercificazione della vita; trionfo dell’utile, apoteosi dei costi». Il mercato, «compra-vendita di ogni splendore».

●●●Innamorati a volte delusi sono gli estimatori della ubiqua, ambigua, bellissima creatura ermafrodita che è la chiocciola, «impastata di d’argento e di perle» – secondo padre Bartoli – «fortezza portatile», disabitata prigione, funerea mangiatrice di bulbi oculari morti. La conchiglia è figura del barocco che ha generato preziose varianti ornamentali e concettuali, e può crescere da metaforetta a metafora addirittura romanzesca, come dimostra Vincenzo Consolo nel Sorriso dell’ignoto marinaio del 1997. Salvatore Grassia fa un’analisi capillare, illuminista, ironica di quel denso lumescente tessuto narrativo in La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ ignoto marinaio» (Sellerio, pp. 80 € 12). La struttura triangolare del romanzo, che si vuole romanzo ideologico, antirisorgimentale, è affidata al protagonista, il barone siciliano Enrico Pirajino di Mandralisca, patriota e malacologo, veramente vissuto, che trascrive gli «atroci fatti succedutisi in Alcàra Li Fusi» il 17 maggio del 1860, in cui villani e pastori ferocemente massacrarono i padroni delle terre, e a loro volta furono imprigionati e «moschettati». Vessillo della atavica elusiva identità è il Ritratto d’ ignoto di Antonello da Messina, tradizionalmente detto dell’Ignoto marinaio, somigliante a Mandralisca, Sciascia, Consolo, – aggiungerei anche Silvano Nigro – troppo acuto per essere uno strumentale servitore della storia. Grassia ricostruisce una genealogia della scrittura menzognera che si vorrebbe veritiera, da Manzoni al barocco tropicale di Alejo Carpentier, scrittura della lumaca che a volte appare scia d’argento a volte schiuma bavosa. La tesi di Grassia è che Consolo, scrittore civile, «si rivela perennemente taglieggiato dalle parole, edonisticamente sedotto dall’accadimento sonoro e ritmico della pagina, arrendevolmente soggiogato dall’incantesimo della retorica: il libro "impegnato" di un letterato coscientemente compromesso con l’indecorosa e dilettevole pratica irresponsabile della letteratura, e con l’ "impellenza" agiatamente menzognera della scrittura.» Si comprende perciò il dispetto di Mandralisca (alter ego di Consolo) di fronte alla capricciosa ornamentazione della propria scrittura che dovrebbe testimoniare i drammatici fatti di Alcàra. Non gli resta che trascrivere le singole testimonianze dei protagonisti storici, tracciate col carbone sui muri del carcere prima dell’esecuzione, in oscuri e tremendi dialetti. Scrittura nera – ma anche questa derivata dalla tradizione colta e non da quella popolare secondo le prove portate da Grassia – contro scrittura d’argento. Ai dubbiosi non resta che godere della imprevista Wunderkammer linguistica di cui Consolo è capace, e che materializza a tratti in decrizioni incantate e poeticamente ritmate, una lingua che si fa cassa di risonanza dei dialetti dell’isola, un italiano però impregnato di quella pastosità esuberante: parole riempite di cose, profumate, colorate, gustose. Così, come i villani di Retablo, si può essere trasportati «in altri mondi e vani, su alte sfere e acute fantasie, sopra piani di luce e trasparenze, col solo appiglio d’un quadro informe e incomprensibile e la parola più mielosa e scaltra…»

«AUTORITRATTO DI UN FOTOGRAFO»: LA FUNZIONE-SICILIA IN UN’ESTETICA DIALETTICA E PENDOLARE, DOVE IL SOLE «FA» OMBRA

Le oscillazioni di Ferdinando Scianna di SILVANA TURZIO

●●●In Autoritratto di un fotografo (Bruno Mondadori, pp. 208, € 16,15) Ferdinando Scianna racconta le sue vicende di giornalista e fotoreporter, di critico fotografico e di intellettuale. Se l’autoritratto fa parte di un più generale pensiero autobiografico, si deve allora indicare come punto di partenza Quelli di Bagherìa ( 2003), ottimo frutto di una sperimentazione poco praticata nel mondo editoriale fotografico italiano. La definizione migliore ce la dà lo stesso Scianna nell’Autoritratto: «Non erano didascalie e le foto non illustravano quel tessuto di memorie che si andava strutturando. Volevo che

vivessero insieme.. È un lungo fotoromanzo». Quelli di Bagherìa è diventato una mostra, poi un film, ha vinto premi. Da lì, da quel particolare livello di qualità, cosa e come fare per proseguire nell’elaborazione di un’autobiografia? Certo, non si poteva pensare a un secondo capitolo di Quelli di Bagherìa, ma non si poteva non partire da lì. Autoritratto riannoda infatti i fili con il volume precedente per illuminare gli incontri fondamentali che Scianna racconta con una calibrata dose di veemenza e di autoironia. Il padre che condanna la scelta della fotografia, e così facendo a fortiori la legittima. E poi i maestri amici, Roberto Leydi, Leonardo Sciascia, Henri Cartier- Bresson che punteggiano le vicende professionali: la pubblicazione di Feste siciliane, l’Europeo dei tempi gloriosi e Parigi,

la Magnum, il giornalismo critico e le corrispondenze per Le Monde diplomatique, e ancora, il mondo della moda nel quale entra grazie a Dolce e Gabbana alle loro prime prove. Ma eccolo, Scianna, ancora e sempre a tu per tu con la sua Sicilia: terra primordiale, popolata di animali, abitata da paure ancestrali e pervasa da sentimenti radicali ai quali Scianna non può sottrarsi perché tutto questo è allo stesso tempo nutrimento e veleno. «Credevo che con quel libro (Quelli di Bagherìa), avrei affrontato i miei rancori oscuri sul mio paese e la Sicilia sciogliendoli dentro tutto il mio amore. Non è stato così: magari è stato un modo , invece per dire, addio». Strana faccenda questa della sicilianità che ogni volta lo allontana dalla sua terra per riportarcelo

sempre animato dagli stessi sentimenti minacciosi. Il racconto che si dipana qui è un filo d’Arianna che conduce al punto dove risiede una personale mitologia fondativa: il rancore e l’amore, Scilla e Cariddi tempestosamente uniti e divisi: «Per me il grigio del nord è una luce esotica, mentre i fotografi che dal nord vengono a fotografare in Grecia, in Sicilia, cercano l’apollineità, il classicismo, l’abbacinamento. I fotografi siciliani sembrano invece amare la Sicilia nera. Io dico che il sole mi appassiona perché fa ombra. Costruisco le immagini a partire dall’ombra». È infatti da una costante opposizione tra luce e ombra che nasce la sua fotografia, e non è solo un vezzo del fotografo in bianco e nero, ma un vero e proprio punto percettivo che fonda la sua estetica. Molte delle sue foto portano il segno

dell’ombra come un secondo tratto che delimita la superficie dell’immagine, a sottolineare che è dall’ombra che nascono, così come è dalla dialettica tra rancore e amore verso questa terra, padre oscuro e

vendicativo, madre solare e ridente che nasce forse il suo inarrestabile desiderio di scrivere. Paul Ricoeur aveva definito l’insieme delle riflessioni alla ricerca di un tema fondante «le formidabili oscillazioni del pensiero sull’io e sul sé»: questo movimento pendolare è nel caso di Scianna particolarmente evidente. Se il centro è definito non dalla sua marmorea consistenza ma dalla forma mutevole eppure sempre localizzata, ogni volta che scrive di sé Scianna percorre le escursioni del pendolo e intanto scava un po’ più a fondo nel centro per rivelare un punto di vigile intelligenza del proprio operare. «La risata devastante» con cui Scianna prende distanza dalle proprie e altrui ossessioni, dalle convenzioni fotografiche e dai conformismi intellettuale, richiede libertà.


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ALIAS DOMENICA 22 GENNAIO 2012

LA RICEZIONE MODERNA DEI TESTI GRECO-LATINI, UNA STORIA CRITICA

CAMBIANO

«Perché leggere i classici»? Il saggio illuminante di uno storico della filosofia antica contro il ritorno identitario dell’apologetica di destra e gli stereotipi anti-umanistici di certa sinistra

L’ARBORETO DEI DALLA RAGIONE È, anch’esso, tutt’altro che salvatico, l’arboreto di circa quattrocento piante da frutto di molteplici varietà locali, antiche, ormai rare e trascurate, recuperate dal paziente lavoro di ricerca, innesto e salvaguardia avviato a partire dall’Alta Valle del Tevere molti decenni fa da Livio Dalla Ragione e proseguito poi con sua figlia Isabella. Varietà di fruttiferi sottratte all’abbandono dettato da quell’imperante monoculturale omologazione al profitto, del tempo e del gusto, che si misura, ad esempio, in una produzione di mele che oggi è basata all’80% su tre sole varietà, mentre cinquanta se ne contavano all’inizio del Novecento e un centinaio se ne trovavano nominate nei trattati ottocenteschi. Esito di una pionieristica, generosa, ricerca etnobotanica, questa collezione di varietà altrimenti disperse, coltivate secondo metodi tradizionali a San Lorenzo di Lerchi, vicino a Città di Castello, e denominata Archeologia arborea, è diventata una sorta di salvifico vivente giardino di alberi fruttiferi. Ma, assieme, anche, «raccolta di storie, di viaggi, di profumi e sapori, vicende umane e tradizioni popolari, cucina e archeologia, ricordi e racconti». Custodia di un patrimonio di conoscenze, usi, saperi, simbologie che solo integrato restituisce senso a quei testimoni vegetali, superstiti alla livella della monocoltura intensiva. Prescelti, fino ad allora, e affiancati tra loro nel campo sulla base di diversificate capacità di adattarsi e di resistere alle malattie. Diversi tra loro geneticamente e perciò in grado di assicurare nel complesso stabilità produttiva, raccolti «da maggio a novembre», in regimi spesso di autonomia alimentare. Diversi per aspetto, sapore, periodo di maturazione, modalità di utilizzo, conservazione e consumo. I molti fili di questa vicenda sono raccolti nel volume Archeologia arborea Diario di due cercatori di piante, (Ali&no editrice, Perugia, pp. 167, € 16,00), giunto alla quarta edizione integrando le tappe di un lavoro che non si arresta. Dalle perlustrazioni di poderi abbandonati e proprietà dismesse, sul filo del ricordo, del racconto di qualche anziano contadino, inseguendo la traccia di vecchie varietà botaniche testimoniate nei vecchi manuali di agricoltura e nei sussidi delle cattedre ambulanti di agricoltura che riaffiora nei toponimi, nei proverbi, nelle fantasmagorie della nomenclatura popolare di specie e varietà e si conferma nel loro affacciarsi dagli affreschi delle antiche residenze nobiliari della regione (altrove, Isabella Dalla Ragione affronta queste rappresentazioni con le varietà della sua collezione: Tenendo innanzi frutta. Vegetali, coltivati, descritti e dipinti tra ’500 e ’700 nell’Alta Valle del Tevere, Peruzzi, 2009). Dalle esplorazioni «per merangole», ai sopralluoghi in antichi monasteri e conventi, meglio ancora se di clausura, votati alla conservazione di un sapere (anche) vegetale. Sempre rincorrendo segnalazioni di fruttiferi da salvare dall’estinzione. Per tornare, una volta individuati, a trovarli a tempo debito e verificarne dai frutti l’identità, potarli, innestarli, preservarli. Una sfida che continua con l’aspirazione a creare una Fondazione a supporto della collezione (cfr. www.archeologiaarborea.org). Nel frattempo, si può contribuire adottando un albero, con il diritto di goderne il raccolto. A patto, secondo la tradizione, di lasciare sulla pianta almeno tre frutti: uno per il sole, uno per la terra e uno… per ricompensarla.

Sulla trincea dei classici di FEDERICO CONDELLO

●●●«Classici: si presume di conoscerli». Così Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni. Ci sarebbe poco da aggiungere. Se non fosse che la placida sonnolenza del «classico» – forte di un primato che mille classicismi e anticlassicismi hanno mutualmente rinforzato – sembra oggi turbata da sogni inquieti, o destinata a bruschi risvegli. In Italia, specialmente: perché il Ventennio fascista, con la sua «orgia di classicità» (Degani), ha prodotto una dura reazione all’altezza, per dirla alla grossa, del Dopoguerra. Una reazione che ha iniziato a incidere, allora per la prima volta, sulla scuola e sui suoi programmi, e non solo su quelli del super-gentiliano liceo classico. Un certo «classico» appariva ormai di classe, platealmente e non senza ragioni. Del resto, il ron ron classico sembrava ormai fuori moda a ogni acuto osservatore dell’epoca. Micidiale una pagina dei Fiori italiani di Meneghello, dedicata alla quotidianità della formazione liceale in età fascista: nei «classici» imparaticci della scuola, ricorda il romanziere, «si trovavano memorabili battute di guerrieri e filosofi, ragguagli sugli effetti delle pugnalate e sulla boria, e con poche altre cose, qualche modello di bellezza suprema. Molti singoli versi greci e latini, come “l’ambidestro campione asteropeo”, s’im-

primevano profondamente negli animi; e c’erano infine quelle stimolanti trovate circa la natura del mondo, per esempio panta rei, e una serie di arguti ideali, a cominciare dal calò-cagazzò». Chiunque abbia frequentato, negli ultimi venti o trent’anni, un liceo classico, non tarderà a riconoscere la deprimente attualità del brano. E oggi? Oggi, da un quindicennio almeno, spia di una situazione sempre più critica è la fortuna di un genere saggistico che assomma ormai titoli a decine: chiamiamolo, per intenderci, l’«apologia del classico». Una specie di libro, o di libello, inimmaginabile fino a due generazioni fa. Certo, l’allarme è periodico e l’apologia altrettanto: i prodromi di questo genere panflettistico risalgono almeno al Seicento. Nel Novecento la produzione si intensifica, specie fra anni trenta e quaranta, quando l’Occidente si identifica nel «classico» soprattutto per reazione identitaria; e poco importa se fosse reazione alto-borghese o apertamente nazi-fascista, dal momento che non pochi slogan accomunano personaggi della statura di Curtius ai più servili propagandisti di regime, ivi compreso quel Heidegger su cui Karl Löwith pronunciò una famosa, agghiacciante boutade: dopo averlo ascoltato, «non sapevi se prendere in mano i Presocratici di Diels o se marciare con le S.A.». Di lì

a poco – e siamo finalmente a noi – la crisi è conclamata: e tocca davvero la scuola, di ogni ordine e grado, dai licei via via riformati alle università costrette a criteri di ranking – oscura parola di moda – elaborati a prescindere dai saperi più tradizionali. Una crisi indubbia, che ha i suoi promotori tanto nella destra neoliberista, che chiama «riforme» i tagli, quanto in certa sinistra progressista, che ribadisce volentieri stereotipi grossolani (fra gli ultimi, il giubilante Piergiorgio Odifreddi: «gli umanisti continuano a predicare l’insostituibile ruolo formativo delle lingue morte nel mondo vivo», «la lobby umanistica sta per finire inesorabilmente nel “cestino dei rifiuti della storia”»). Di fronte a un simile cataclisma – cui non mancano, come si vede, cantori e corvi – gli odierni apologeti del classico ce l’hanno messa tutta. Hanno rinverdito argomenti perenni: le «radici» greco-romane (pericolosa linea destrorsa) e il «latino lingua logica» (dunque l’inglese è illogico?); ne hanno inventato di nuovi o quasi nuovi: l’«inattualità» antagonistica del classico (trovata di vaga matrice nietzschiana) e addirittura, all’antitesi di ogni «radice», il mirabolante esotismo di Atene e di Roma (ma per quale ragione il «classico» sarebbe più esotico di qualsiasi altro «antico», o di qualsiasi altro «altrove»?); infine – argomento

imperituro – le lingue classiche come indispensabile ausilio all’apprendimento dell’italiano (ma quale italiano? Quello dei «classici» italiani, forse: non certo quello, finalmente standard, dell’età post-televisiva). Sono argomenti stanchi, che giustamente stancano. Ne faceva un piccolo, corrosivo censimento, anni fa, Giuseppe Cambiano, in un suo contributo compreso in Di fronte ai classici (a c. di I. Dionigi, BUR, 2002), e proprio da Cambiano viene ora una notevole raccolta di saggi Perché leggere i classici Interpretazione e scrittura (il Mulino, pp. 192, € 18.00), che è senza dubbio fra le letture più ricche e raccomandabili, sul tema, degli ultimi tre decenni. Non deve ingannare il titolo alla Calvino, che poco merito rende alla ricchezza del volume, e che suggerisce un improprio apparentamento al succitato genere apologetico: quel che importa qui, è semmai il sottotitolo. Perché, se una morale si ricava dallo snello ma densissimo lavoro, è che i «classici» dovrebbero essere letti per una sola e semplice ragione: perché essi sono sempre stati letti. Soluzione troppo facile? Soluzione addirittura tautologica? Pigra resa all’autorità del canone? Niente di tutto questo. L’essenza di ogni classicismo – scriveva Valéry – è «de venir après», di venire dopo. L’après strutturale del classico è preso da Cambiano molto sul serio, con dottrina pari al disincanto. Un après che può essere mero conformismo (e sostanziale indifferenza); può essere nostalgia reazionaria e ansia di rinascita; può essere anche – ed è il punto che più interessa all’autore – illusoria presunzione di estraneità, e dunque passiva accettazione di idee, ideologie e stereotipi dalle quali può immunizzarci soltanto una meditata riappropriazione della tradizione. Sicché questo invito a rileggere i classici – invito pacato, illuminato, laico, mai retorico né prescrittivo – si traduce spontaneamente in una storia delle riletture passate e contemporanee: storia critica, va da sé, e spesso polemica. Sulla «vigilia del Nazismo» si apre, non a caso, il volume: e Cambiano ricostruisce magistralmente le posizioni assunte nel 1930, durante un celebre convegno svoltosi a Naumburg, su impulso di Werner Jaeger, dai migliori rappresentanti della filologia coeva, a proposito del «classico» e della sua vitalità. È un vero germinaio di clichés tuttora prosperi. E, pur fra accenti diversi, spicca la sinistra consonanza di quell’«umanesimo» (cosiddetto «terzo») con temi e intenti del terzo Reich. Fa eccezione, nell’ambiente, il grande Bruno Snell: quello Snell – giova ricordarlo – che nel fatidico 1934, anno del plebiscito pro Hitler (19 agosto), scrisse un articolo, innocente in apparenza, sul «verso dell’asino» nelle lingue classiche; per dimostrare che se il verso dell’asino, in greco, si trascrive sempre più o meno con ou («no»), l’asino tedesco, invece, fa sempre j-a («sì», come il 90% dei tedeschi dinanzi al nuovo Führer; l’articolo è stato felicemente riproposto negli ultimi «Quaderni di Storia», luglio-dicembre 2011). Fa eccezione a suo modo anche il vecchio Wilamowitz, che nel 1930, in risposta alle sollecitazioni del Convegno, scrisse seccamente: «la parola “classico” mi fa orrore». Quanto a Benjamin, che recensì gli atti della grande kermesse, il suo verdetto fu ancor più drastico: «una considerazione del classico che non sa dir nulla sulla schiavitù non può certo valere come conclusiva». Il séguito del volume mostra bene come alla trappola del classicismo apologetico – anzi, con il termine di Cambiano, «cosmetico» – non sfugga nessuno dei successivi laudatores della tradizione greco-romana: non certo Gadamer, di cui è denunciata con lucidità la «concezione reverenziale», appena mascherata dall’ermeneutica; ma nemmeno i rappresentanti del classicismo liberal d’Oltreoceano, da Rorty alla Nussbaum, che per proclamare continuità o auspicare restaurazioni (democratiche, naturalmente) bonificano il «classico» da quanto in esso è più scabroso e scandaloso. Ancor più in generale, Cambiano argo-

UN NIETZSCHE LICEALE

LA TRAGEDIA PRIMA DI BASILEA Nell’aprile 1864, durante l’ultimo anno di liceo a Pforta, il diciannovenne, già fremente Friedrich Nietzsche riempie quasi per intero un quaderno di 72 pagine con un saggio sul primo canto corale dell’Edipo re di Sofocle. Si tratta per certi versi di una tipica dissertazione di impianto scolastico ‘prussiano’, che presuppone cioè il ruolo predominante delle lingue classiche nella regia didattica e formativa: e infatti viene redatta dall’alunno Nietzsche in tre lingue, in prevalenza in latino, con diverse parti in greco antico e in tedesco. Ma essa suppone soprattutto – di qui il nostro interesse retrospettivo – quel raptus di interessi specifici che otto anni più tardi (gennaio 1872) daranno vita alla determinante Nascita della tragedia. Di solito la elaborazione della concezione tragica, anti-aristotelica, di Nietzsche si fa risalire sostanzialmente agli anni di Basilea, e invece una più attenta lettura di questo quaderno già percorso da riflessioni sul rapporto con la musica contemporanea (Wagner vi compare), in qualche modo retrodata la humus. Imprevedibilmente anche in Italia è soltanto adesso, dal melangolo, che arriva una traduzione del liceale esercizio, non incluso nell’edizione Adelphi delle opere giovanili, per le cure di Gherardo Ugolini: Il primo canto corale dell’Edipo re (pp. 118, € 12,00). Questi, in buona sostanza, gli spunti che fanno affiorare sotto la veste filologica ed esegetica – coerente con la manualistica coeva – il futuro teorico della Tragedia: la figura innocente di Edipo schiacciato dal destino come «il più puro degli uomini», che innesta una drammatica dialettica tra estetica ed etica, foriera di grandi sviluppi; il valore di rappresentazione sacra connesso alla tragedia greca e la funzione prevalente del coro e della musica nella realizzazione dell’«effetto tragico»; la tragedia come «opera d’arte totale», in cui il tragediografo antico è il pentatleta impegnato nelle varie discipline (compositore, poeta, scenografo, coreografo, attore).

Luca Pignatelli, «Schermi - Caccia», 2007 menta con efficacia contro la tendenza sottilmente anti-illuministica di molta ermeneutica contemporanea, che rimprovera alla «critica» – sono parole di Gadamer – i suoi «pregiudizi contro i pregiudizi»: una tendenza anti-illuministica contro la quale vanno fatte valere, almeno, le ragioni della più concreta filologia, intesa come «materialismo testuale» minimo e tuttavia indispensabile. Molto altro si troverà, in queste pagine avvincenti, dai singolari riusi di Tucidide alla vigilia dell’ultima guerra in Iraq, fino alle posizioni della filosofia contemporanea (Derrida compreso) sull’«oralità» come dimensione comunicativa della poesia e della filosofia antiche. E Cambiano non si esime, nell’epilogo, dall’affrontare la questione che dà il titolo al volume. Perché leggere i classici, appunto. Perché saremmo altrimenti condannati – se non pratici di letture e riletture – a subirne passivamente l’influenza. Il classico è davvero l’«Ewig-Alte, EwigTote», il «sempre-antico, sempre-morto», come voleva Wölfflin? In un certo senso sì, per Cambiano, che da ogni classicismo vitalistico e da ogni tradizionalismo restaurativo è lontano mille miglia. Ma sono «morti» particolari, i classici splendidamente ritratti in queste pagine: sono morti che possono ancora – per parafrasare Eschilo – uccidere i vivi.


ALIAS DOMENICA 22 GENNAIO 2012

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UNA MONOGRAFIA SULL’ARTISTA NEOCLASSICO DANESE «RIVALE» DI CANOVA

Qui sotto, Bertel Thorvaldsen ritratto da Christoff Wilhelm Eckersberg (part.); in grande, Thorvaldsen, «Giasone», part., Copenaghen, Thorvaldsens Museum

THORVALDSEN Lo scultore parallelo e contiguo

di BARBARA CINELLI

●●●Nel 1989 la Galleria d’Arte Moderna di Roma dedicava a Bertel Thorvaldsen una esposizione che possiamo ancora ricordare come turning point della fortuna in Italia dello scultore danese. Il merito ne andava a Stefano Susinno che indicava una via fino ad allora inesplorata e rivelatesi poi intuizione straordinariamente feconda: Thorvaldsen andava letto oltre il topos della contrapposizione con Canova – già allora recuperato, contrariamente al danese, alla fortuna degli studi –, e inteso invece come artista autonomamente capace di accogliere nel suo linguaggio «lo scorrere parallelo e contiguo» di sollecitazioni diverse, per costruire un paradigma di sapiente narrazione che trascorreva dai modelli classici alle emozioni contemporanee. Quasi in reverente omaggio a Carlo Giulio Argan, ‘padre nobile’ a un tempo della Galleria e del recupero canoviano, il catalogo si apriva con un suo testo dedicato a Thorvaldsen filosofo dell’arte: con cristallina, e questa sì davvero filosofica, intelligenza, Argan conduceva uno dei suoi straordinari sillogismi, opponendo alla coppia Canova/Kant quella formata da Thorvaldsen e Hegel; al paganesimo classico della prima, il cristianesimo purista e romantico anticipato dalla seconda; per concludere, con uno dei suoi strepitosi cortocircuiti ideologici – che oggi abbiamo imparato a rimpiangere – come proprio la scultura di Thorvaldsen costituisse, nella sua sigla di atemporalità, un presentimento della morte cui l’arte era destinata nella società borghese. Ma nel medesimo catalogo il saggio di Susinno, co-firmato con la preziosa sodale Elena di Majo, segnava un felice snodo storiografico, ritessendo attorno al «Prometeo danese» una trama di persone, accadimenti, luoghi, opere, che discioglievano le algide concatenazioni arganiane nella ricchezza palpitante della Storia. E a seguire, contributi di studiosi del-

SETTECENTO 1

Liliana Barroero decostruisce il concetto di Neoclassico a partire dai Lumi

●●●Una nuova costola della «Piccola Biblioteca Einaudi», «Piccola Storia dell’Arte», che si propone di presentare spaccati tematici fuori dalle consuete partizioni manualistiche. Prezioso ausilio una tagliata antologia di testi figurativi, con relativa scheda, alla fine del volume. Scopo di Le Arti e i Lumi Pittura e scultura da Piranesi a Canova (pp. 262, € 28,00), scritto dalla ferratissima settecentista Liliana Barroero, è – sulla traccia di Rosenblum e in discreta alternativa, invece, a Honour – decostruire il sistema di lettura e di riferimenti definito dal termine «neoclassicismo», vera e propria «"camicia di forza" semantica», per restituire al secondo Settecento tutta la sua ricchezza e complessità di espressione e di cultura. Motore di ricerca in questo approccio più empirico, più aderente alla concretezza del prodotto artistico, è la cultura illuminista e l’internazionale delle arti che vi si realizza. Si consideri una figura come Diderot, tutte le produttive contraddizioni insite nel suo rapporto, ora mercuriale ora sistematico, con le arti figurative, per comprendere quanto il concetto di illuminismo scelto dalla Barroero sia permeabile alla ricchezza del quadro in questione: e, non tanto paradossalmente, questo vettore finisce per sposarsi con la tendenza storiografica, di cui la Barroero è protagonista della prima ora, che vede nella Roma del Settecento una ritrovata centralità cosmopolita negatagli dal mito del ‘progresso’ parigino. (f.d.m.)

SETTECENTO 2

Vedutista o caravaggesco? Bellotto a Conegliano con i suoi «ritratti» di città

Costruttori ticinesi nella Russia neoclassica Nel 1702 il neoambasciatore di Pietro il Grande in Danimarca ingaggia a Copenaghen, per imbarcarlo alla volta della Russia, un drappello di tecnici, architetti e ingegneri, da impiegare nel grande progetto urbanistico di San Pietroburgo. Tra di essi un giovane costruttore ticinese: Domenico Trezzini, come racconta Nicola Navone in Costruire per gli zar Architetti ticinesi in Russia 1700-1850 (Casagrande, pp. 163, € 21,00), che ci fa rivivere i fasti dell’architettura italiana sulla Neva.

l’Ottocento che precisavano questioni e aspetti particolari: la biografia, le fonti archeologiche, i committenti e i collezionisti, il restauro degli egineti, il ritorno in patria e la celebrazione nel museo di Copenhagen. Due tempi e due modi di leggere uno scultore, cui oggi si aggiunge quella che potremmo chiamare una terza via, grazie a Stefano Grandesso che di Susinno fu allievo, e che ora affronta, con indubbia generosità, una monografia – Bertel Thorvaldsen 1770 1844 (Silvana Editoriale, pp. 304, € 38,00) – nella quale squaderna in modo puntuale e sistematico notizie preziose per la comunità scientifica, riordinandole da una vasta bibliografia, non sempre facilmente accessibile. Quasi disposte in una ordinata mappa di navigazione, le questioni relative alla produzione thorvaldseniana si susseguono in un ordinato palinsesto tra cronologie e iconografie, e consentono piani di lettura e fruizione su livelli diversi. Se il registro di scrittura – che ipotizzo consapevolmente adottato dall’autore – costituisce quasi una scelta analogica della narrazione thorvaldseniana nei bassorilievi, e soddisfa pienamente, col ritmo quieto e suadente, il lettore amateur appassionato d’arte e di storia; la completezza delle informazioni e la complessità dell’orizzonte ricostruito da Grandesso si pongono come strumenti preziosi per lo studioso che voglia disporre di una voce bibliografica scientificamente accreditata, con la quale procedere a riflessioni non consuete sulla scultura dell’Ottocento, un territorio che nonostante molti studi – e non pochi li dobbiamo proprio a Stefano Grandesso – continua a sollecitare indagini e problemi. La centralità di Roma per la scultura ottocentesca e la modernità del laboratorio thorvaldseniano sono temi che già Susinno aveva magistralmente analizzato; ma ripercorsi organicamente in questa monografia consentono di cogliere con vivida definizione alcuni aspetti che meriterebbero ulteriori indagini; e dunque, se misura di un buon libro è la sollecitazione di idee e percorsi di ricerca, quello di Stefano Grandesso è un buon libro. Le numerose testimonianze d’epoca che percorrono le pagine sono esemplari a questo riguardo: dallo stupore dell’antiquario Zoega di fronte all’ignoranza del giovane danese giunto a Roma nel 1797 per diventare uno scultore e che egli definisce invece «una persona così incolta» che non possedeva «neppure qualche vaga idea sul nome e sul significato delle cose che vede»; si giunge fino al riconoscimento tributatogli da Angelo Maria Ricci per i bassorilievi anacreontici come compiuta traduzione delle liriche greche; e così potremmo, ad esempio, attraversare il libro di Grandesso per ricostruire il ruolo del codice mitologico nella scultura, dalle asseverative corrispondenze winckelmanniane fino alle affettuose metafore che Thorvaldsen dissemi-

●●●Uno dei capitoli più perspicui dell’arte illuminista è la pittura di Bernardo Bellotto, al quale Conegliano dedica, in Palazzo Sarcinelli, una mostra dignitosa di prestiti, a cura di Dario Succi (fino al 15 aprile, catalogo Marsilio). Artista viaggiante, secondo la modalità di un secolo intriso di confronti culturali, Bellotto tocca alcune delle più esimie corti europee: da Torino a Dresda, Vienna, Monaco, di nuovo Dresda, e poi, fino alla morte (1780), la Varsavia di Stanislao Augusto. E in tutte conduce la potente lucidità ottica di nipote di Canaletto, che gli frutta la serie, diremmo mitologica, di ‘ritratti’ di città che conosciamo. Per leggere Bellotto ci sono però due strade, che nella storia degli studî risultano abbastanza divaricate: la prima – privilegiata, ci sembra, nel presente appuntamento – è inquadrarlo, e magari isolarlo, in quel laboratorio di genere che è il vedutismo veneziano , con le sue partizioni: da un lato Carlevarijs-Canaletto-Bellotto, a definire un repertorio di immagini «a scatola ottica», massimamente oggettivanti; dall’altro Marieschi-Guardi, cioè a dire una linea più interessata al ‘ teatro’ della città, e dell’io, sino a esiti volanti di tocco in anticipo su... de Pisis. L’altra lettura privilegia invece, longhianamente, la «pittura della realtà», vedendo in Bellotto, via-Codazzi, un erede di Caravaggio. Dal che si stabilisce con più cognizione anche il confronto con lo zio, il cui cristallo non riflette mai le frementi gore d’ombra che ‘animano’, invece, le città del nipote. (f.d.m.)

Sulla traccia di Argan e di Susinno, Stefano Grandesso ricostruisce impeccabilmente il profilo stilistico e culturale del «Fidia nordico»

na nelle proprie opere. E non credo sia soltanto una suggestione del ricco apparato illustrativo la possibilità di isolare l’iconografia della libagione come tema ricorrente della produzione del «Fidia nordico», tanto da ipotizzare tra la ritualità del gesto e le possibili declinazioni formali un legame particolarmente consentaneo allo spirito dello scultore, che si porrebbe in tal caso oltre l’esteriore richiamo alla mitologia. E anche il topos del confronto/ scontro con Canova risulta, dalla lettura della monografia di Grandesso, puntualmente illustrato da convincenti testimonianze, come il ricordo della poetessa Friederike Brun che raccoglie nel 1808 le lodi del veneto sull’Adone cui si contrappone l’ammirazione per Thorvaldsen di Grillparzer che nel 1819 giudica il Ganimede superiore a ogni opera canoviana. La possibilità di disporre di questi materiali consente di aprire una riflessione su quanto l’antagonismo reciproco dei due scultori si debba a una tradizione di pubblico e fruitori divergenti nel gusto e nella formazione intellettuale. Lo riconosceva già, d’altro canto, il biografo Thiele, che nel 1832 scriveva: «Se solo questi due grandi artisti non avessero avuto degli ammiratori ciechi, diciamo pure dei partigiani, difficilmente quello che è un nobile torneo avrebbe assunto con tanta facilità le parvenze della reciproca invidia». E allora di più vorremmo sapere su quel divieto fatto dallo scultore al Ricci contro un possibile riferimento a Canova nella prefazione del volumetto dedicato proprio a L’Anacreonte di Thorvaldsen, cui Grandesso allude nel suo testo: ombroso vezzo d’artista? o piuttosto desiderio di sottrarre ogni spunto di polemica alle due schiere di «partigiani»? Piuttosto che ripercorrere l’antica lettura di Fernow, che vedeva nello scultore danese il solo interprete dello spirito autentico della Grecia classica non inquinato come in Canova dalla categoria del «grazioso», questa monografia ci suggerisce di utilizzare riferimenti tratti dalla biografia intellettuale dell’artista come strumenti più appropriati per recuperare la dimensione del suo immaginario, e dunque dei temi e delle forme con le quali allestisce il suo ‘teatro figurato’. E dunque molto opportunamente la nostra attenzione viene richiamata sulle letture delle Georgiche di Virgilio e delle composizioni poetiche di Ovidio, sulla collezione di gemme antiche e sugli acquisti di artisti contemporanei; mentre lo sguardo sui marmi greci poteva incrociarsi sulle tesimonianze della scultura romana di età imperiale come la Colonna Traiana (e l’Arco di Costantino?), per configurare quello «scorrere parallelo e contiguo» di cui già parlava Susinno, e che testimonia nello scultore danese una disposizione libera e inventiva nei confronti delle proprie fonti. Questo sì, davvero, il discrimine con Canova, al di là di ogni pretestuosa contrapposizione tra le categorie del «bello» e del «piacevole».


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ALIAS DOMENICA 22 GENNAIO 2012

IL MOVIMENTO CHE NEGLI ANNI SESSANTA IMPOSE I SUOI AZZARDI PER RISOLVERE LA CONGESTIONE URBANA DI TOKYO Colin Davies, demistificare l’architettura

METABOLISMO Megastrutture erette

Cos’è l’architettura? Cosa distingue – si chiedeva Nikolaus Pevsner – la cattedrale di Lincoln da una rimessa per le biciclette? Domande basiche, il cui spirito però consente a uno storico e critico inglese, Colin Davies, di compilare una «demistificante» guida che ambisce a rendere accessibile una delle discipline più teoricamente instabili (e astruse): Il primo libro di archiettura (Einaudi «Pbe», pp. X-273, € 28,00), aggiornato e illustratissimo, con accostamenti quantomeno arditi come il manierismo di Palazzo Te (Giulio Romano) e quello della Maison à Bordeaux progettata da Koolhas nei Novanta.

di MAURIZIO GIUFRÈ

●●●È da almeno quindici anni, da quando scrisse Bigness, che Rem Koolhaas si interroga sull’«architettura estrema», quella delle mega-dimensioni. La grande scala lo affascina e non solo per ciò che riguarda l’altezza – già ammirata e compresa nel suo Delirious New York – ma anche per ciò che investe la sua forma più dilatata e estesa: un’altra «specie» architettonica, come l’ha definita, ancora da venire, anche se da altri prima di lui prevista o addirittura programmata. Per Koolhaas il «Grande Edificio» è il solo in grado di ricondurre all’ordine la frammentazione urbana (sprawl) coesistendo con la città nel suo assoluto gigantismo. L’architetto olandese, nel segno salvifico della teoria del Bigness, che ingloba e neutralizza la realtà, ha dichiarato che solo nella grande scala «l’architettura può dissociarsi dagli esausti movimenti ideologici e artistici del modernismo e del formalismo, per riacquistare la sua strumentalità come veicolo di modernizzazione». È noto come la retorica astratta del conciso manifesto di Koolhaas trovi i suoi precisi riferimenti in Asia: così, nello scritto Singapore Songlines spiega quali siano le vicende dalle quali derivano le sue tesi. Che non hanno nulla di utopico poiché si fondano sul programma edilizio messo in atto nell’isola asiatica: tra i più pragmatici e cinici della modernità e di tutto l’Oriente. Quantità e efficienza Koolhaas ci ha spiegato come, dalla metà degli anni sessanta, questa importante regione geografica sia stata sconvolta attraverso la pratica autoritaria della tabula rasa. In pochi decenni ne è stato consumato il suolo, pronto per essere densificato con edifici alti e compatti, nell’incessante e meccanico processo di distruzione e ricostruzione di ogni preesistenza. Diverse new town sono sorte nelle aree libere e urbanizzate, distribuite ad anello intorno a Singapore: il fulcro delle modificazioni più radicali. Questo modello, eretto sulla base dell’autoritarismo ideologico, nel rifiuto dei valori della storia, ha misurato le trasformazioni urbane solo nei termini di quantità e efficienza. Se è inutile negare che Singapore sia stata il modello dell’espansione urbana delle città cinesi è altresì vero che, dal punto di vista teorico e del linguaggio architettonico, è stato il Giappone il paese che più ha influenzato l’Asia. In particolare, con il movimento dei Metabolisti, che negli anni sessanta si è imposto sulla scena internazionale grazie alle sue proposte utopistiche volte a risolvere i gravi problemi causati dalla congestione urbana di Tokyo. Rem Koolhaas, ha voluto ricostruire, insieme a Hans Ulrich Obrist, la storia del Metabolismo attraverso l’incontro con i suoi protagonisti. Il volume Project Japan. Metabolism Talks (Taschen, pp. 719, € 39,99) non si risolve, però, in un omaggio all’«ultimo movimento che ha cambiato l’architettura», ma in qualche modo è l’occasione per riproporne alcuni temi e comportamenti, visto che oggi come allora la burocrazia, gli affari e i media continuano a proporsi come i poteri dominanti. Già il titolo «Progetto Giappone», non nasconde la sua vocazione «operativa». Più che dedicarsi a una «attenta filologia», Koolhaas è interessato a una pragmatica attualizzazione della storia, deformandola e strumentalizzandola. In questo senso la storia non è, contrariamente a quanto dimostrò Manfredo Tafuri, «una instabile dialettica, una compresenza continua di positività e negatività, una non componibile molteplicità di sensi e direzioni». Per l’autore olandese l’architettura è abitata da due tipologie umane: i «costruttori» e i «pensatori», uniti entrambi da un «reciproco disprezzo». Districarsi all’interno dei loro conflitti è l’impe-

su una fragile utopia Kenzo Tange, grande«coltivatore» di talenti, è il faro che guida Rem Koolhaas e Hans U. Obrist nelle interviste sull’architettura anni ’60, raccolte in «Project Japan. Metabolism Talks»

ARCHITETTURA / ALLENE-MCQUADE

ARCHITETTURA / ANNI SESSANTA

La Megaforma estesa in orizzontale, una variante ibrida del gigantismo edilizio

L’utopia critica di Superstudio in mostra al Pecci di Prato

●●●La megalopoli differisce sostanzialmente dalla città tradizionale per la sua assenza di punti di riferimento significativi. Così afferma Kenneth Frampton in Landform Building (Lars Müller, pp. 478, € 43,74), saggio collettaneo a cura di Stan Allene e Marc McQuade intorno all’aspirazione dell’architettura a rappresentarsi come paesaggio, geologia, terreno artificiale sotto le sembianze della «Megaforma». Quando la sub-urbanizzazione senza limiti riduce l’architettura a semplice «design urbano», quindi a un discorso del tutto accademico, si annuncia l’egemonia di infrastrutture e edifici di grandi dimensioni: aerostazioni, centri commerciali, ospedali, reti autostradali e ferroviarie. Questo gigantismo edilizio e costruttivo non conserva più l’«espressione» della grande scala, nel significato che ne diede Reyner Banham in Megastructure: Urban Future of the Recent Past (1976). La «Megaforma», termine sfuggente dal programma ibrido, si distingue essenzialmente per la topografia: la sua orizzontalità si integra nel paesaggio oppure è così invadente da assumere la funzione di landmark. Sarà lo stratagemma per arrestare la frammentazione e la cacofonia delle nostre metropoli? (m.g.)

●●●A metà degli anni sessanta anche l’architettura italiana produce esperimenti e ricerche in sintonia con le coeve tendenze asiatiche del Metabolism e con quelle europee dell’Archigram. Guidati dall’idea per cui solo nella quantità è possibile immaginare la metropoli del futuro, due gruppi fiorentini, Archizoom e Superstudio, portarono ai limiti estremi l’utopia modernista, in particolare quella di Le Corbusier. Nei loro progetti – una fusione di artifici tra arte e letteratura – negavano che l’architettura nell’«età della macchina» potesse ancora legittimarsi nei modelli, nelle tecniche e nei linguaggi del Movimento Moderno, quindi, nella logica e nella razionalità del progresso industriale. All’«utopia critica» di Superstudio è dedicata la mostra al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato (fino al 26 febbraio), curata da Stefano Pezzato e Cristiano Toraldo di Francia che ne è stato il fondatore nel 1966 con Adolfo Natalini: la ricostruzione del «microambiente» esposto alla mostra newyorkese Italy: The New Domestic Landscape (MoMa, 1972) e la ricostruzione di Supersuperficie, uno dei tre progetti di Superstudio sui conflitti della città contemporanea. (m.g.)

Il Mori Art Museum di Tokyo, disegnato da Kohn Pedersen Fox, è un esempio di megastruttura odierna che occhieggia al Movimento Metabolista: qui si è tenuta, recentemente, la mostra a questo movimento dedicata. In piccolo, Kenzo Tange, padre putativo dei metabolisti. In alto, un dettaglio (una finestra) della Maison à Bordeaux di Rem Koolhaas

gno quotidiano che Koolhaas si è assunto e che immagina simile a quello di Kenzo Tange, l’architetto antesignano del Metabolismo, come lui alle prese con la città del futuro, anche se cinquanta anni prima. Tutte le interviste ruotano intorno a Tange, un infaticabile «coltivatore» di talenti, senza il quale, secondo Koolhaas, il Metabolismo non sarebbe mai nato. Il suo Centro della Pace nel parco di Hiroshima, inaugurato nel 1955, il municipio di Kurashiki, del ’60, gli impianti per le Olimpiadi e il Centro televisivo Yamanashi a Tokyo, di un lustro dopo, furono di una tale dirompente novità espressiva da rappresentare una violenta rottura con la tradizione e il simbolo della rinascita democratica del dopoguerra giapponese. È al suo piano di Tokyo per quindici milioni di abitanti che guarderanno, con ammirazione, i Metabolisti Junzo Sakakura, Kunio Maekawa, Sarchio Otani e Kiyonori Kikutake, Fumihiko Maki. Immaginato da Tange come disteso all’interno della baia della capitale giapponese, il piano è una griglia ortogonale di strade sovrapposte e ponti sulla quale si incastrano monumentali edifici a forma di pagoda. Una soluzione radicale, che accenderà l’utopia dei metabolisti. La loro tesi era semplice e coerente con le coeve sperimentazioni «neofuturiste» europee – dagli Archigram a Yona Friedman – e con quelle americane di Buckminster Fuller. Eccessi di ottimismo A una società condizionata gravemente dalla crescita demografica e dallo squilibrio ambientale doveva corrispondere una nuova idea di città: compatta e verticale, estensibile e stardardizzata, galleggiante sul mare e interconnessa nella profondità del suolo. Solo le megastrutture potevano assolvere a questi compiti: edifici e infrastrutture a scala metropolitana che, per analogia, dovevano seguire le stesse leggi organiche della natura vivente, quindi, crescere e trasformarsi come accade nei processi metabolici. Nonostante la sua ambivalente relazione con il Metabolismo, Arata Isozaki riconosce, con ragione, l’eccesso di ottimismo che contraddistingue l’utopia del movimento. Nelle foto di Charlie Koolhaas che corredano il saggio, le centinaia di «capsule» incastrate e sovrapposte a formare la Nakagin Capsule Tower di Kisho Kurokawa rivelano un degrado che è una eloquente dimostrazione della fragile e incondizionata fiducia riposta dal Metabolismo nella tecnologia. La torre è una delle poche architetture sopravvissute a memoria dell’Expo di Osaka del ’70: l’apoteosi del Metabolismo. Nell’area espositiva – ancora prima che fosse gridato l’«ultimo hurrah» quindici anni dopo con l’Expo di Tsukuba – i Metabolisti compresero come la pianificazione a grande scala fosse condizionata dall’economia e dalla politica. La crisi petrolifera, la guerra nel sud-est asiatico, l’organizzazione neoliberista del capitale che per la prima volta dal ’45 conobbe una contrazione, misero in crisi i sogni e le ambizioni del movimento. Tuttavia, l’idea di diffondere la Metabolic City nel resto del mondo – soprattutto in Asia e in Africa – dimostra ancora un entusiasmo di cui oggi restano solo frammenti. Project Japan si conclude con uno scatto fotografico che ritrae Toyo Ito mentre guarda la tabula rasa che lo tsumani ha causato a Tohoku. Koolhaas, in un breve poscritto, annota la «preziosa occasione» per riprendere il cammino interrotto dei Metabolisti, declinandolo in una versione che mantenga la sua visionarietà: azzerando ogni residuo di «norma del modernismo» e disinteressandosi a qualsiasi condizionamento. Se questa ricerca di un diverso «rapporto con la natura» sarà capace di non mistificare il proprio anacronismo è tutto da verificare.


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