Alias domenica de Il Manifesto N. 1 / 8 gennaio 2012

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di GRAZIELLA PULCE

●●●Dopo un passato di aspirante pittrice e scultrice, da cui si è ritratta nel segno del fallimento, Julie Otsuka, stregata da Henry James, si è dedicata alla scrittura, facendosi conoscere nel 2002 con When the Emperor Was Divine, centrato su un particolare momento della storia statunitense, quando dopo l’attacco di Pearl Harbor gli americani di origine giapponese residenti sulla costa atlantica furono internati nei campi di prigionia di Utah, Arkansas, Arizona, Colorado. Anche se erano i loro fioristi, i loro fruttivendoli, i loro barbieri di fiducia, per gli americani quegli uomini divennero presenze sgradite o inquietanti, da cui era bene tenersi a distanza. Qualche mese fa Julie Otsuka ha pubblicato, con il medesimo editore newyorkese Knopf, The Buddha in the Attic, tradotto con il titolo più esplicito di Venivamo tutte per mare (in uscita il 12 gennaio per Bollati Boringhieri, trad. di Silvia Pareschi, pp. 132, € 13,00), affidando a queste pagine il compito di tracciare le storie delle promesse spose, giovani o addirittura bambine, che lasciarono i loro villaggi nel cuore del Giappone e si imbarca-

rono per l’America in cerca di una nuova vita. Erano gli anni del primo dopoguerra e i giapponesi guardavano oltreoceano come a un mondo ricco di opportunità. Nell’America delle Ford T, dei supermercati, delle fabbriche che lavoravano senza sosta, c’era bisogno di contadini, cameriere, bambinaie, stiratrici. Durante la traversata, le ragazze stipate in cuccette maleodoranti e in preda al mal di mare immaginavano un futuro da favola al fianco dei connazionali cui erano state promesse e dei quali ammiravano giorno e notte le fotografie. Quelle fotografie – credevano – sarebbero state il passaporto per la felicità. Come in ogni storia di emigrati, anche tra le pagine di Venivamo tutte per mare disperazione e speranza hanno pesi equivalenti sulla strada della vita. Qui le aspettative si tingono di rosa e quei mariti belli e ricchi ritratti nelle foto rappresentano un compenso adeguato rispetto alla perdita di madri, sorelle e sicurezza del luogo natio. Come in ogni storia di emigrati, la disillusione è brutale. Nulla di quanto era stato promesso viene mantenuto. I mariti sono più vecchi, più brutti e più poveri e le donne sono destinate a fornire manodopera gratuita nei campi, nei negozi e negli opifici. L’orgoglio nip-

ponico e la severa etichetta familiare precludono, naturalmente, l’ipotesi del ritorno. Il testo diluisce i dati storici del fenomeno e i dati psicologici delle testimonianze (in appendice una nutrita bibliografia) in una scrittura impersonale e priva di qualsiasi istanza soggettiva o sentimentale. Il «noi» che ricorre dalla prima all’ultima pagina di questo memoriale collettivo è un agglomerato che coagula verbalizzazioni multiple, anche contrastanti l’una con l’altra. «Quella notte i nostri nuovi mariti ci presero in fretta. Ci presero con calma. Ci presero dolcemente ma con decisione, e senza dire una parola … Ci presero con bramosia... Ci presero con violenza, usando i pugni quando cercavamo di resistere». La forza del «noi» sostiene la cadenza della narrazione e guida i destini diversi, eppure comuni, delle protagoniste. Com’è noto, la cultura giapponese privilegia il punto di vista collettivo, quello del dover essere in riferimento a una prospettiva sociale che rende inammissibili le istanze della pura individualità. A maggior ragione, in un contesto così estremizzato, le ragazze, lontane dalle famiglie d’origine e dalle compagne di viaggio, affidate a degli estranei

con cui devono condividere dall’oggi al domani l’intimità, totalmente inesperte del mondo, possono fare affidamento soltanto su ciò che hanno portato con loro: una cultura, una dignità e un kimono. Spalle diritte e mento alto, fanno ciò che ci si aspetta da loro e non c’è tempo per recriminare o lamentarsi, meno ancora per prendere riposo, c’è solo da lavorare: cavare carote, raccogliere fragole, lavare abiti altrui, servire nelle case dei ricchi americani, cristiani che mangiano carne, dove le signore dormono fino a tardi e si fanno portare la colazione a letto. C’è anche chi, compiuto il primo salto, ne azzarda un altro e si ribella sperimentandosi su strade di malsicura novità. La lista delle storie comprende anche adulteri, vendette, prostituzione, suicidi. Il «noi» governa con ferma mano monarchica il ritmo sincopato di tutte le vicende attraversate da queste donne cedevoli e resistenti, sempre esauste e senza mai un filo di rossetto sulle labbra, donne che non parlano inglese, madri di figli che invece si sentono totalmente americani. Il libro è costruito per sottrazione e allinea solo i fatti registrati e legittimati dalla memoria collettiva. La sua struttura tematica è circolare:

si apre con il viaggio per mare e si chiude con l’abbandono delle case, dei negozi e dei campi, una deportazione inaspettata che strappa le radici fatte crescere da queste famiglie in più di un ventennio. Ma sarebbe un errore limitarsi a leggere il libro come un racconto di emigrazione femminile. Venivamo tutte per mare è un piccolo gioiello in cui si incastonano mille storie miniaturizzate in poche righe, tutte dal profilo fiabesco: non ci sono personaggi e ogni individuo rappresenta la declinazione di un ruolo. Se leggiamo questo libro come un deposito di storie, un campionario di vicende unificate dal motivo della perdita e dell’abbandono in vista dell’ignoto, le vicende di queste donne assumono un valore naturale e paradigmatico: di esseri umani che condividono il destino delle carote o delle erbacce da estirpare. Non c’è alcun senso unificatore, nessun cielo che riscatti le delusioni e le difficoltà degli individui: il senso è leggibile solo traendolo dall’insieme, dal pulviscolo costituito da queste storie, puntiformi e minuscole particelle che viaggiano dentro un grande organismo. SEGUE A PAGINA 2


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ALIAS DOMENICA 8 GENNAIO 2012

UNA CONTROVERSIA DEL NOVECENTO ITALIANO WALTER PEDULLÀ E L’«IPOCRISIA» DI SAVINIO

PIOVENE PULCE DALLA PRIMA

Orchestrazione di una disfatta sotto l’occhio vigile del Buddha Dunque il libro risulta orchestrato in modo da lasciare nelle mani del lettore alcune chiavi con le quali può leggere, e perciò aprire, altre storie, sue e altrui, come se tutto fosse già accaduto e ogni volta tornasse ad accadere. Il viaggio per mare in fuga dalla povertà, la difficoltà di essere donna in un paese straniero, la sudditanza totale rispetto ai mariti o l’orgoglio di costruirsi una posizione. Impressionante il capitolo che racconta l’internamento dei giapponesi nei campi di prigionia, che per più di un dettaglio rievoca la contemporanea vicenda ebraica. Anche se i tasti vengono sfiorati con ancora maggiore levità, ciò che si intravede è sufficientemente terrificante. Costretti a partire, e a vendere tutto rapidamente in cambio di pochi dollari o di assegni scoperti, molti di questi uomini non faranno ritorno. Di case, campi e negozi si approprieranno americani scaltri che sfonderanno porte, raccoglieranno frutti che non avevano seminato e continueranno le attività commerciali che erano state degli operosi e discreti giapponesi, di cui ben presto saranno dimenticati nomi e volti. Il Buddha che continua a sorridere nel buio di una soffitta diventa il simbolo più eloquente (quello da cui viene, appunto, il titolo originale del testo) dell’orizzonte all’interno del quale incorniciare queste storie: nulla di quanto accade dovrebbe turbare troppo la mente giacché tutto fluisce, niente si ferma e niente ha più consistenza dell’immagine riflessa nell’acqua.

SCRITTI D’ARTE

Roberto Longhi come lezione interiore: Attilio Bertolucci legge l’antico e il presente di RAFFAELE MANICA

●●●Il magistero di Roberto Longhi ha notoriamente generato discepoli che ne hanno variamente letto la lezione. Illustri storici dell’arte, ma anche scrittori e poeti che hanno praticato lo scrivere d’arte come pratica non secondaria. Attilio Bertolucci è stato uno dei nomi più eminenti della covata portata a

Non deve essere stato facile lottare per inserire Alberto Savinio nel canone della letteratura italiana. Che l’intento abbia avuto o meno i suoi effetti (ma ne dubitiamo), resta la viva testimonianza di quello sforzo critico in Alberto Savinio scrittore ipocrita e privo di scopo, del maggior esegeta del poligrafo greco, Walter Pedullà, e uscito per Lerici nel 1979: oggi viene riproposto, con in più due testimonianze del figlio di Alberto, Ruggero (edizioni Anordest, pp. 239, € 18,00). Ipocrita e privo di scopo perché? È proprio nella gratuità «dilettantesca» del suo dettato, nel continuo depistaggio delle aspettative del lettore attraverso il funambulismo verbale e di immagine, che Pedullà indica la grandezza, anche morale, di questo colorato interprete del Novecento.

CRITICA ■ UN «MONOLOGO» DI FRANCO CORDELLI

Fare i conti con l’infamia di un simbolo

●●●Franco Cordelli lo sa benissimo, e lo dice apertamente al termine di questo suo sorprendente e pungente libretto intitolato L’ombra di Piovene (Le Lettere, pp. 90, € 12,00). Guido Piovene è «uno scrittore che nessuno più legge – se non qualche mio amico». Ma allora, se le cose stanno così, perché insistere, con quella che ha tutta l’aria di una predilezione che si tramuta in ossessione ? Tanto per fare un esmpio, Piovene piaceva anche a Goffredo Parise (che Cordelli detesta), ma non tanto da farne una malattia. La figura dello scrittore vicentino, vissuto tra il 1907 e il 1974, autore di libri memorabili come Lettere di una novizia e Le stelle fredde, è rievocata anche nell’ultimo romanzo di Cordelli, La marea umana. Per Cordelli, Piovene è «uno degli eroi intellettuali del XX secolo». L’ombra di Piovene è un discorso unico, ma scandito nel tempo, da gennaio 2007 a giugno 2011. Tra il penultimo e l’ultimo capitolo Cordelli ha inserito un testo abbastanza lungo di Piovene, intitolato Contro Roma. Dal punto di vista formale, è una bella trovata, il monologo è sospeso, si sente per un po’ un’altra voce, la voce del vecchio Piovene (è praticamente un testamento), poi il monologo ri-

comincia e si avvia alla conclusione. La difficile e controversa arte del saggio critico ha tutto da guadagnare nel contaminarsi col monologo teatrale. È un modello molto più utile e sorprendente di quello offerto dal romanzo, dal racconto. In ogni critico c’è una specie di Prospero, il critico aspira a chiudere la scena, quando tutte le magie sono finite. Ma questo tipo di argomentazione non è roba da mediocri, bisogna saperci fare. Mentre ci parla, noi cominciamo a percepire l’interprete come un personaggio su una scena, con tutta la forza di persuasione che questo comporta. I saggi di Giacomo Debenedetti sono stati un esempio molto brillante ed efficace di questo ricorso del saggismo a espedienti di tipo teatrale, come fosse possibile recitare di fronte a un pubblico immaginario il proprio stesso atto di lettura. Cordelli è degno del paragone, però il suo tono teatrale è molto più quello del gran misantropo, che non è più disposto a tacere i fastidi per pura cortesia. Il centro del discorso tra l’altro è oltremodo grave, tutt’altro che un’ennesima e oziosa ricostruzione del cànone: riguarda la vita di Piovene intesa come la vita di un colpevole, di qualcuno che ha commesso una colpa incancellabile. Questa colpa si rende visibile attraverso delle coordinate storiche, e si parla in modo legittimo di adesione al fascismo, di antisemitismo. Il più grave corpo del reato è una recensione molto postiva scritta da Piovene su un orrido libello antisemita di Telesio Interlandi. Se si consulta la voce, molto striminzita, dedicata a Piovene su wikipedia, vale a dire la più diffusa fonte enciclopedica contemporanea – la prima cosa che si guarda per informarsi –, tante cose sono omesse, ma la recensione a Interlandi c’è, come uno degli innumerevoli e ormai incomprensibili panni sporchi che si agitano sotto il naso dei posteri. Ma la colpa di Piovene, in questo l’acutezza di Cordelli va lodata, non è di natura esclusivamente ideologica. A funestare la vita di Piovene rimane sempre il fantasma di Eugenio Colorni, l’amico antifascista, assassinato a Roma dai sicari della banda Koch nel maggio del 1944. Esiste tradimento peggiore del tradimento del-

l’amicizia ? Cordelli intravede in questa vecchia e penosa storia una partita morale straordinariamente interessante – non solo dal punto di vista storico ed esistenziale, ma propriamente letterario. Il colpevole Piovene, prima che colpevole della famosa recensione razzista, è colpevole della fragilità, della corruttibilità tipiche del letterato italiano. Come tutti i letterati italiani, aspira a scrivere sui giornali, più di ogni altra cosa al mondo. Conviene soffer-

marsi su questo punto. È il fascismo la colpa fondamentale di questo letterato veneto di sangue aristocratico? O il fascismo è la conseguenza di un’altra faccenda, questa sì dura da redimere, una specie di istinto insopprimibile a dire ciò che gli altri si vogliono sentire dire, e scrivere quello che gli altri (i lettori, gli editori, i critici, i direttori dei giornali, i preti, i laici...) vogliono leggere? La piaga verminosa è questo patto scellerato. Cordelli lo sa fin troppo be-

maturità soprattutto negli anni bolognesi di Longhi, e poi dai saggi consegnati alla palestra di «Paragone», prima che cominciassero a raccogliersi i volumi delle opere complete, dove fu possibile leggere del maestro i capitoli più antichi. C’è da dire che essere longhiano, per Bertolucci come per Bassani, fu decisamente non imitare lo stile (o gli stili) del maestro: scrittori veri, possedevano lo stile in proprio, e la lezione fu per loro interiore, concentrata nel saper leggere l’arte, rimettendola in movimento, proprio al modo in cui a un altro discepolo, Pasolini, le lezioni di Longhi sembravano essere l’invenzione del cinema o qualcosa di simile. Due volumi raccolgono adesso una bella porzione degli scritti d’arte di Bertolucci: Lezioni d’arte (introduzione di Gabriella Palli Baroni, Rizzoli, pp. 287, € 35,00) e La consolazione della pittura Scritti sull’arte (a cura di Silvia Trasi, introduzione di Paolo Lagazzi, Aragno, pp. XVI-325, € 17,00). Il primo volume, sontuosamente edito, accompagna con belle riproduzioni la ristampa degli articoli pubblicati da Bertolucci sulle controcopertine

del «Gatto selvatico» tra il 1956 e il 1964, praticamente per quella che fu l’intera durata della rivista dell’Eni (il 1956 è l’anno di esordio di un’altra creatura di Enrico Mattei, Il Giorno). Come intitola la sua ampia introduzione la Palli Baroni, ci si trova di fronte a un «Racconto di Storia dell’arte a puntate» (oltre a molto altro, dell’introduzione andrà trattenuta l’osservazione che l’arte longhiana del conoscitore si innestò in Bertolucci come su una pianta di per sé, nativamente, attratta più dalla poesia che dalla tecnica dell’arte). E questo racconto, consono all’intento divulgativo o se si vuole didattico dell’autore, intreccia suggestioni letterarie e di varia cultura ai fatti pittorici, lasciandone intuire i diversi contesti con rapidi, essenziali tratti. Il secondo volume raccoglie scritti pubblicati in varie sedi (tra le altre «La Fiera Letteraria», «L’Illustrazione italiana», «Palatina» e lo stesso «Gatto Selvatico», per gli articoli non in controcopertina) dal 1939 al 1991, tolti quelli già antologizzati da Bertolucci per i suoi libri di prosa. Sono gli articoli nei quali più Bertolucci si apre al suo tempo, visitando mostre di pittori ancora in

attività: testimonianze preziose per il clima degli anni (peccato che manchino sussidi fotografici, che sarebbero stati assai utili almeno per i nomi oggi più remoti). Così, se entrambi i volumi sono di grande utilità per la ricostruzione del fervore intellettuale di Bertolucci, e se entrambi sono di lettura fruttuosa, interesserà tuttavia gli storici dell’arte novecentesca particolarmente il secondo, per il quale Lagazzi sottolinea come curiosità o committenza non davano nello scrivere di Bertolucci diverso effetto di interesse. Nell’apertura alla contemporaneità, e nei modi di questa apertura, si affianca a Bertolucci il nome di un altro longhiano suo amico bolognese, Francesco Arcangeli (all’ora della lezione del comune maestro è dedicato uno degli articoli qui raccolti). Il nome di Arcangeli è subito affacciato da Silvia Trasi, all’inizio del saggio «Pinacoteca Bertolucci» che congeda La consolazione della pittura (titolo a suo modo cecchiano). Nella parte finale di Consolazione sono alcuni articoli della distillata collaborazione di Bertolucci a

Repubblica, e se ne ritrova uno del 1978 (quando, dopo decenni, l’Adone del Marino riapparve in due diverse edizioni), titolato con allusione – si crede dal responsabile della pagina – «Adone e Venere in camera da letto». Bertolucci, a proposito di due versi del canto ottavo dell’Adone, «Tutte incrostate, e qual diamante terse, v’han di fino cristallo e mura e travi», dà rapida prova di quello che era il suo «metodo» – una proustiana e parmense «intermittenza» – e vede Marino «in perfetta sintonia col parmigiano manierista Bertoia»: «Il Bertoia non ha dipinto colonne di cristallo attraverso cui amanti si baciano, o credono, perché divisi dal lucido vetro implacabilmente?». Un’intermittenza è come un oggetto che si trova e si reinventa: in Bertolucci è un affinamento della connessione, sempre presente, e che – siccome non si può che connettere – si allerta anche in chi legge, se viene in mente una pagina degli Amori (titolo mariniano) di Dossi, dove le anime si toccano ma le labbra no, separate da un cristallo (lasciamo stare, nell’occasione, i cristalli che separano dalla vita in tanti luoghi di Bassani).

Negli ultimi anni Cordelli ha preso di petto lo scrittore vicentino (che nessuno legge più), sviscerando i risvolti letterari della sua colpa: fascista e traditore di EMANUELE TREVI

ne: questa vecchia storia del giovane Piovene è la storia di sempre, è la storia di adesso, se non fosse così non ci sarebbe da farne un’ossessione. In fin dei conti, le colpe degli altri non ci riguardano, le nostre dovrebbero essere più che sufficienti, e la cosa più sciocca è puntare il dito, forti del fatto di non essere stati lì. Ma questa materia molle e limacciosa è tale da restarti appiccicata alle dita: parli di Piovene, uno che non legge più nessuno, e stai parlando di tutti, stai parlando di te. Piovene è una «parte per il tutto». Inoltre anche se la colpa in sé non vale nulla, e non è né molto originale né molto significativa, nella colpa l’individuo realizza pienamente il proprio essere uomo. Piovene ha rinunciato al privilegio morale, la sua storia politica e il suo stile letterario vanno in direzione opposta, sono un’anatomia dell’infamia, non guardano il mondo da qualche altezza di principio. Questo è il punto: non sentirsi superiore a nessuno: il contrario esatto della stragrande maggioranza degli scrittori di oggi, con la loro aria di martiri di chissà che, di resistenti a chissà che. La colpa, oltre che un grande motivo morale, è anche, nonostante tutto, il terreno dell’esperimento. «Sempre Piovene», osserva Cordelli, «è dalla parte del male; dalla parte di una sperimentazione abnorme, che lui per primo definirebbe contro natura». Ecco una perfetta sintesi di ciò che sempre dovrebbe essere un vero scrittore, e che proprio per questo fa di Piovene un «simbolo», e non, una volta tanto, una metafora. Questo dovrebbe corrispondere sempre alla critica, o diciamo pure al pensiero: tirare fuori qualcosa dal passato, perché è ancora fin troppo vivo e urgente, non è un’ulteriore conoscenza che non serve a nessuno, ma un «simbolo», appunto, l’infamia e la grandezza del singolo come specchio dell’infamia e della grandezza del tutto.


ALIAS DOMENICA 8 GENNAIO 2012

SCRITTORI ITALIANI CONTEMPORANEI

di GIULIO FERRONI

●●●Da tempo ormai tante nuove possibilità letterarie sono suscitate dall’uso della lingua italiana da parte di stranieri immigrati, che in modi diversi si sono impadroniti della nostra lingua: essi mettono in scena il rapporto, il conflitto, lo scontro o l’integrazione tra la loro esperienza, quella del loro paese di origine, della loro cultura, della loro lingua, e la condizione dell’essere in Italia, con tutto ciò che questa nuova collocazione comporta. Nella narrativa questo incontro con la lingua italiana per chi viene da altrove si dà peraltro in molti modi diversi, con esiti linguistici ed espressivi vari e contrastanti, come vari e contrastanti sono i modi in cui questi scrittori «stranieri» percepiscono il rapporto con l’Italia e con la sua cultura, le prospettive con cui si rivolgono alla loro cultura di origine, ne riaffermano l’identità o ne verificano la distanza. E certo molto particolare è la posizione di chi ha lasciato da tanti anni un paese di grandi tradizioni culturali come l’Iran e ne è rimasto fuori (tanto più di fronte al regime teocratico e fondamentalista che lo domina), continuando a occuparsene da lontano, interrogandosi sulle sue vicende politiche e sociali, sulla difficile e durissima situazione presente. In Italia fin dal 1960, Bijan Zarmandili ha continuato a guardare variamente alla patria lontana, come esponente della sinistra e oppositore dello scià, esperto di politica, giornalista, scrittore: e ha continuato a farlo con i suoi romanzi, come con questo ultimo I demoni del deserto (Nottetempo, pp. 262, € 16,00). Tra quella degli «stranieri», la sua è in realtà una voce molto particolare: la voce pienamente matura di chi, penetrato a pieno titolo dentro la lingua e la cultura italiana, se ne è lasciato accogliere, sapendola usare per proiettarvi l’immagine della realtà del proprio paese, della sua difficile situazione, dei conflitti e delle passioni che lo agitano. Alla lingua italiana egli acquisisce così uno sguardo non esteriore, non esotico, non pittoresco, non condiscendente, verso un mondo che per tanti versi (e tanto più nella congiuntura presente) appare così lontano, ma che al suo interno è legato al nostro da tanti profondi fili, da antichi rapporti, da essenziali tracce culturali e umane. Iraniano e italiano, Zarmandili dà vita a una singolare solidarietà tra i due universi linguistici e culturali, senza nessun compiacimento sentimentale, agli antipodi di quegli stucchevoli atteggiamenti di sguardo buonista sul diverso di cui danno prova certi nostri narratori di successo. Qui Zarmandili prende avvio da un evento catastrofico che si è abbattuto non molto tempo fa sul suo paese: il terremoto che nel dicembre 2003 ha distrutto la città storica di Bam, nell’Iran sud orientale, ai margini del deserto del Kavir: un

CRITICA

Ma nella cultura italiana post-’68 cosa significa «moderno»? Una mappa di Afribo/Zinato

GERENZA

ZARMANDILI Fili e passioni d’Iran, un impasto italiano Ne «I demoni del deserto» la voce di Bijan Zarmandili (in Italia dal 1960) dà vita a una particolare solidarietà linguistica e sentimentale

Protagonisti del romanzo, un vecchio e una bambina sopravvissuti al terremoto che distrusse nel 2003 la storica città di Bam

Un dipinto da fotografia di Shirana Shahbazi. Nella pagina a fianco: in grande, Luxardo, «Il fuggiasco», 1938; in piccolo, la scrittrice nippo-americana Julie Otsuka

rà l’aiuto di un pescatore presso cui viene alloggiato. Il racconto procede con un ritmo narrativo continuo, gestito con grande rigore e non senza momenti di suspense, sostenuti da un equilibrato uso del tempo presente. Si alternano situazioni e punti di vista diversi, mentre la voce narrante si sposta dalla prima persona del vecchio, che segue il farsi stesso dei propri movimenti, tra sguardi al mondo circostante, considerazioni, ricordi, e una narrazione in terza persona che registra gli eventi a cui egli non assiste direttamente. Nel rapporto tra il vecchio e la nipote si danno momenti di grande delicatezza: in una resistente volontà di vita, il vecchio è sostenuto da una cultura che sa confrontarsi col mondo, che tende a integrare la saggezza antica della Persia, la religiosità islamica più aperta e tollerante, lo scambio con la più viva cultura occidentale, nella coscienza di una comune umanità. Del resto Zarmandili inserisce anche segni di quel legame tra cultura italiana e cultura iraniana che lo costituiscono come scrittore: nei ricordi di Agha Soltani si affaccia quello di una sua collaborazione come consulente alla troupe del Deserto dei Tartari nel 1975; poi pensa al passaggio di Marco Polo sulla Via della seta, quando, nel porto di Bandar Abbas, si avvicina una nave con una bandiera i cui colori sono: «rosso, bianco e verde, i colori della bandiera italiana, gli stessi di quella dell’Iran».

luogo che non dovrebbe essere completamente sconosciuto in Italia, anche perché qualche decennio prima aveva costituito il set del film di Valerio Zurlini tratto dal romanzo di Buzzati, Il deserto dei Tartari (1975). Agha Soltani, professore di lettere in pensione, sopravvive al terremoto proprio perché durante la scossa più terribile e distruttiva si trova al limite del deserto, dove suole recarsi a meditare, fantasticare, a studiare la realtà; della famiglia distrutta sopravvive solo una nipote, con la quale si allontana a piedi da Bam, diretto verso il Golfo. Lei si chiama Hakimè, ed è una bambina di singolare bellezza, ma immersa in un inquietante silenzio e ossessionata dal sangue e da misteriosi richiami di qualcosa di inafferrabile, che in parte si identifica con le favolose risate dei jinn, i demoni del deserto. Procedendo con Hakimè, il vecchio sente inizialmente un certo disagio, avverte la difficoltà di istituire un vero contatto con lei, dovuta all’abituale distanza tra universo maschile e universo femminile: in fondo in passa-

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to non aveva mai voluto «vedere» quella nipote, al cui carattere ora man mano si avvicina con nuova apertura umana e culturale. Durante il viaggio però la bellezza della ragazza viene notata da un negoziante collegato a una banda di trafficanti (i veri demoni del deserto) che rapiscono fanciulle vergini per offrirle a ricchi notabili: e la vicenda del rapimento di Hakimè apre

di NICCOLÒ SCAFFAI

●●●Modernità italiana Cultura, lingua e letteratura dagli anni settanta a oggi (a cura di Andrea Afribo e Emanuele Zinato, Carocci, pp. 326, € 27,00) è un libro di cui vale la pena discutere, perché invita a porsi domande importanti. Che cosa significa ‘moderno’? Il volume si concentra sul periodo dagli anni settanta (in realtà dal ’68) a oggi: un’epoca, cioè, che è più usuale definire ‘postmoderna’. Sennonché – lasciano intendere Afribo e Zinato nella Premessa – la modernità o la tardiva «modernizzazione» italiana interagiscono con i caratteri del postmoderno. A meno che il moderno non fosse «già postmoderno fin dall’inizio». Se è così, c’è un problema di fondo: come conciliare la consustanzialità di moderno e postmoderno con l’idea di una crisi, di una svolta collocata «a cavallo del 1970»? Da questa domanda ne discende un’altra: quando comincia il moderno in Italia? O almeno, quando si produce quella frattura tra

vari squarci sugli intrecci tra criminalità e pasdaran, sulla corruzione violenta e sulla facciata di unzione religiosa che prospera sotto il regime fondamentalista. Ora Agha Soltani sente un legame sempre più forte con la bimba che gli è stata sottratta: cercandone le tracce procede verso il grande porto di Bandar Abbas, sul Golfo Persico, luogo di traffici di ogni sorta, dove trove-

il ciclo delle «grandi speranze del ’45» e il tempo delle illusioni spezzate? Se sul piano sociale o su quello economico la faglia corre tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, sul piano culturale e specificamente letterario la coscienza della crisi matura molto prima. Prendiamo Montale e Calvino, due ‘campioni’ novecenteschi spesso evocati nel volume. Dell’uno e dell’altro qui si citano soprattutto gli scritti a partire dagli anni sessanta; ma se si leggono le prose montaliane della fine dei quaranta e se si considerano, per esempio, il progetto e lo svolgimento dei Racconti calviniani nei cinquanta, ci si rende conto che le contraddizioni del secondo dopoguerra erano evidenti già all’alba o addirittura prima del boom. I sei saggi di cui Modernità italiana si compone sono dedicati ai «Contesti» (Lingua di Giuseppe Antonelli, Filosofia di Paolo Tamassia, Editoria e critica di Emanuele Zinato) e ai «Testi» (Narrativa di Luigi Matt, Poesia di Andrea Afribo, Canzone di Paolo Giovannetti). Ogni saggio, per ricchezza e densità, è una monografia compendiaria e una

voce originale nella bibliografia delle rispettive materie. Messi insieme, i capitoli non potevano né dovevano esaurire gli aspetti della cultura italiana nell’ultimo quarantennio (anche se pesa, in particolare, l’assenza del cinema), ma raggiungono un risultato forse anche più importante: indurre a riflettere su un’idea di cultura. Cultura umanistica, in primo luogo, com’era inevitabile vista la formazione linguistico-letteraria dei sei autori. Cultura alta, in secondo luogo; per quanto la restaurazione di soglie tra highbrow e low o middlebrow non fosse evidentemente tra gli obiettivi dell’impresa, la centralità dell’oggetto letterario crea un’implicita gerarchia. E se il saggio di Antonelli, dedicato alla lingua d’uso (parlata, scritta, digitata), si sottrae a quelle polarità, quelli di Zinato e di Giovannetti vi alludono e contrario. Il primo, eccellente nella sezione sulla critica letteraria, è meno efficace in quella dedicata all’editoria, in cui rientra anche un elemento, la televisione, che avrebbe richiesto un capitolo a sé stante prima di essere liquidata come fenomeno deteriore. Le ragioni di perplessità sono due: l’adesione un

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In copertina di «Alias-D»: montaggio di una foto di Yasuzo Nojima e di un aquilone d’artista firmato Mitsuo Kano

po’ schematica al paradigma di Schiffrin («editoria senza editori»: ma è davvero così semplice?) e un riflesso condizionato che riattiva qua e là il vecchio dualismo struttura/sovrastruttura. Il saggio di Giovannetti, d’altra parte, è una mappa preziosa in un campo importante, di per sé e nei rapporti con il genere confinante della poesia, ma pecca a volte per difetto di sprezzatura verso gli oggetti più provvisori nella rassegna. Se il saggio di Tamassia, pregevole, resta forse un po’ ai margini di un contesto quasi tutto letterario, i capitoli sulla narrativa e sulla poesia di Matt e Afribo sono invece centrali. Del primo, si apprezza la scelta di parlare di stile più che di grammatica, anche se il punto di vista linguistico prevale e sorvola su aspetti non meno decisivi, come le strutture e i generi. Del secondo, impressiona la sicurezza sempre motivata del giudizio (che fa rimpiangere l’esclusione dal panorama proprio dei poeti nati tra la fine degli anni sessanta e i settanta, coetanei dei pochi ‘giovani’ critici che Afribo seleziona e accredita).


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UN PROTAGONISTA DELLA MUSICA DEL NOVECENTO

di PIERO GELLI

●●●Non si scappa a Roman Vlad, alla sua prorompente vitalità, alla sua voglia di sapere e far sapere, alla molteplicità dei suoi interessi, ieri come oggi che ha superato i novant’anni e affida a due validissimi consulenti, Vittorio Bonilis e Silvia Cappellini, non tanto un racconto autobiografico, come indirizza il sottotitolo, o non soltanto questo, che apparirebbe distratto e fugace, per l’accavallarsi di troppi avvenimenti in un’esistenza vorticosa, quanto piuttosto la silloge di tutto quello che egli vorrebbe che restasse, oltre la vita: i suoi ricordi, gli incarichi innumerevoli, le amicizie carissime, l’affetto per la moglie e i figli, e, soprattutto, l’attività più direttamente creativa (Vivere la musica, Einaudi Super ET, pp. VI-239, € 14,00). Vlad è cosciente, e lo dichiara apertamente nell’ultima pagina, di quanto la poliedricità del suo personaggio abbia in qualche modo relegato in secondo piano la sua musica. Del resto, non è successo solo a lui, si pensi a un precedente illustre, Ferruccio Busoni, tra l’altro da Vlad molto amato: indubbiamente l’importanza del teorico e la fama internazionale del pianista hanno osteggiato la diffusione della sua opera; si potrebbe ricordare anche il filosofo e musicologo più quotato del secolo scorso, Theodor W. Adorno, se non si nutrisse più di un sospetto sull’effettivo valore delle sue scarne Kompositionen. Forse è proprio per effetto della sua fama, per la sua presenza attiva nelle manifestazioni musicali più importanti del secondo Novecento, che Vlad, giunto a un’età in cui i riti della giubilazione tendono talvolta a oscurare alcuni aspetti della personalità, prediligendone altri, ha sentito la necessità di ricordare, soprattutto nella terza parte del volume, alcune sue composizioni di tante che ne ha scritto, nel corso degli anni. E si può partire da quelle più occasionali, come numerose colonne sonore, davvero tantissime, dalla prima per un dimenticato film di Mario Soldati, Eugenie Grandet del 1945, per finire con l’ultima per un film che è meglio dimenticare, Il giovane Toscanini di Zeffirelli del 1988, in mezzo composizioni bellissime, quali, per esempio, quelle legate ai documentari d’arte di Emmer, e, direi, per La bellezza del diavolo di René Clair. A questa attività su commissione si affianca fin dai primi anni una più «sperimentale» e nata da un’incessante ricerca e da una sempre reattivissima curiosità verso ogni linguaggio nuovo, verso ogni anche commistione di forme e generi, o pastiche per semplificare. Nasce da qui forse il suo amore e la sua fedeltà verso un genio del Novecento, Stravinskij (cui Vlad, tra l’altro, ha dedicato una delle prime monografie (Einaudi, 1958). Va ricordato inoltre che, in quel periodo, l’espressionismo musicale, i cultori della dodecafonia, l’universo di Darmstad, capitanati da Adorno, avevano decretato un feroce attacco al musicista russo, visto come l’emblema della reazione, di contro a Schönberg, personificazione del

MUSICA E STORIA

Harvey Sachs: la Nona di Beethoven nell’orizzonte culturale europeo

VLAD L’aggressiva felicità di un apolide Roman Vlad fotografato da Luca Fregoso nella sua casa di Roma, 1999

di DANIELE MASTRANGELO

●●●Non potremo mai vivere, ma soltanto immaginare l’emozione che accese l’animo di Franz Schubert allorché nei primi giorni di maggio del 1824, scrivendo a un amico, riferiva come «ultima notizia da Vienna» l’imminente esecuzione di quella che sulle locandine, con solenne esattezza, veniva annunciata come Grande Sinfonia, con voci di Solisti e Coro che entrano nel Finale, sull’Ode di Schiller ‘Alla Gioia’. La Nona Sinfonia di Beethoven sebbene come si vede nacque già grande era però ancora libera da quell’incessante teoria di strumentalizzazioni che si propaga fino a oggi e minaccia di ridurre il suo messaggio a involucro dai contenuti più vari e vuoti. A contrastare questa tendenza c’è l’antidoto della conoscenza storica, come quella dispiegata nel

nuovo contributo di Harvey Sachs, che può essere assunto a modello per ripetere l’esperienza dell’ascolto di questo capolavoro usufruendo però di una consapevolezza nuova: La nona di Beethoven (Garzanti, pp. 286 , € 22.00). Il libro non è una monografia specialistica come potrebbe far pensare il titolo della versione italiana e tantomeno una cronaca ragionata come suggerisce la versione originale (The Ninth: Beethoven and the World in 1824), ma una ricostruzione storica diremmo senza aggettivi, che attraversa diversi saperi ‘speciali’ e diversi modi di fare storia senza parteggiare aprioristicamente per nessuno. Se il nucleo ideale e il contenuto sempre attivo del saggio è la conoscenza del ‘testo’ attraverso l’analisi e la prassi esecutiva, da esso dipartono molteplici orizzonti di

interpretazione: dalle condizioni materiali e psicologiche in cui Beethoven trascorse gli ultimi anni, alle ricadute sociali e culturali della Restaurazione; si fa tesoro dei risultati del modello storiografico del Leben und Werke così come di quelli della Wirkungsgeschichte, si recupera il valore storico dell’evento (la grande opera, il capolavoro appunto) senza però investirlo di un significato teleologico. Insieme a tutto questo e forse più di tutto il saggio di Sachs rappresenta in maniera esemplare l’aporia fondamentale entro la quale si dibatte il lavoro dello storico della musica: descrivere l’indescrivibile, trasmettere attraverso parole e concetti un mondo di suoni. Da questo paradosso si genera lo spazio lasciato alla sensibilità individuale dello storico, all’arbitrio delle sue inclinazioni e delle sue scelte e, fra queste,

DUE LETTURE INNOVATIVE DI LISZT L’artista dell’arabesco, della digressione, della malattia romantica condotte fino all’estremo dell’estasi: così Baudelaire immaginava Franz Liszt, suggerendo al pubblico europeo che idolatrava il suo virtuosismo di ricercarne la radice segreta. In questa direzione e come eredità dell’appena trascorso bicentenario, escono due innovativi contributi. Il libro di Michele Campanella: Il mio Liszt (Bompiani) è la testimonianza di un concertista internazionale che pone al centro i meriti del compositore e la necessità di approfondirne le opere meno note. Dalla Germania invece viene la meravigliosa ricerca iconografica sui tanti anni che Liszt trascorse in Italia. L’autore è Ernst Burger e l’opera Franz Liszt Die Jahre in Rom und Tivoli (Schott). (d. ma.) progresso. Vlad fu uno dei pochi, insieme con il caro amico Massimo Mila (Compagno Stravinskij, Einaudi, 1959), a prendere le distanze da questa sorta di linciaggio critico. Per tornare all’opera di Vlad, bisogna per lo meno ricordare gli affascinanti Studi dodecafonici per pianoforte (1943-’57), affidati a Carlo Grante, almeno nell’edizione discografica (anche se Vlad è un pianista straordinario), e il bellissimo Concerto per arpa e orchestra (sonetto a Orfeo). Personalmente io rammento come indimenticabile e emozionante serata l’esecuzione della Cantata III, Le ciel est vide, su testo di Gérard de Nerval, col coro e l’orchestra di Santa Cecilia, diretta da Vittorio Sinopoli. Era l’inverno del 1997, il giorno dopo incontrai a colazione Sinopoli per motivi editoriali. Mi regalò un suo saggio, affascinante e divagante come la sua conversazione, Parsifal a Venezia, ma soprattutto mi parlò della composizione dell’amico carissimo, che trovava bellissima e intrisa di una profonda ricerca di fede. Per inciso, quel concerto fu l’ultimo che tenne con l’orchestra di Santa Cecilia, di cui, per fortuna, a ricordarlo esiste un’incisione discografica. Pochi anni dopo, nella primavera del 2001, Sinopoli morì per un infarto, mentre stava dirigendo l’Aida a Berlino. Vlad dedica all’amico, al quale era legato da tanti interessi oltre quelli musicali, parole significativamente speculari: «Sinopoli non era solo un grande artista, era anche un grande uomo. Aveva una carica vitale inesauribile e, più che un’energia ed una capacità di lavoro, una necessità, una sete di conoscenza insaziabile. Non gli bastava l’intensa attività di direttore d’orchestra, non gli bastavano diplomi e lauree musicali...». Insomma, si direbbe, proprio un’anima gemella, se si aggiunge anche l’interesse archeologico, che convergeva con la sfera delle competenze della moglie di Vlad, Licia Borrelli, da lui sposata nel 1953 e da allora compagna ideale di vita, oltre che madre dei figli Alessio e Gregorio. Cosmopolita e/o apolide fin dai primi vagiti, nato, come gli altri suoi conterranei e amici, Paul Celan e Gregor von Rezzori, in quella per noi misteriosofica e impronunciabile cittadina di Czernowitz, dal glorioso passato austro-ungarico, o Cernauti in rumeno, o Cernivci, oggi, in Ucraina, Vlad è l’esito felice di una vocazione europeista (molto prima dell’euro), a tal punto la contaminazione culturale è parte integrante della sua vita, con l’aggressiva felicità con cui affronta e conquista ambienti anche pieni di sospetto se non ostili. In queste pagine, ad esempio, racconta l’incontro e l’amicizia importante di Casella, i primi contatti italiani, da Pizzetti a Respighi, da Cilea a Mascagni, e soprattutto a Goffredo Petrassi; e i primi incarichi, in un ambiente che, nonostante il fascismo e la guerra – vissuta gli ultimi due anni da suddito tedesco, e quindi costretto a nascondersi, per non essere richiamato alle armi –, è vivace e internazionalmente animato, forse perché al regime la musica come la letteratura intesoprattutto a quelle dalla letteratura. Così raccontare l’anno della prima della Nona attraverso le opere che allora andavano scrivendo Byron, Heine, Puškin è, se preso alla lettera, un trick romanzesco; nella sostanza invece è la convinzione che in queste creazioni dello spirito e non nella dimensione dell’evenemenziale ci sia il senso stesso dell’epoca che è stato poi quello del passaggio da una visione idilliaca della vita a una drammatica, all’idea che vivere è un continuo lottare senza una vittoria ultima. L’ultima sinfonia di Beethoven è per Sachs partecipe di tutto questo, ma per andare oltre di esso. L’ultimo movimento della sinfonia infatti realizza l’abbandono definitivo di ogni retorica dell’eroismo individuale, consapevole che l’ideale per esser tale è possibilità di tutti proprio come un motivo che chiunque potrà fischiettare.

Nato a Czernowitz (come gli amici Celan e Rezzori), Roman Vlad ridà vita, nell’autobiografia, a un mondo «contaminato», non solo musicale

ressano poco: conosce quindi Prokofiev, Bartòk, Hindemith, Benedetti Michelangeli, assiste a Roma alla prima italiana del Wozzeck di Berg, diretto da Tullio Serafin (1942). Dopo la liberazione, frequenta Firenze, dove vivono, tra gli altri, intorno al Gabinetto Vieusseux, Alessandro Bonsanti, Eugenio Montale e Luigi Dallapiccola (stimato, ma forse non molto amato), incontra casualmente Benedetto Croce ma soprattutto prende i primi contatti con l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, grazie a Igor Markevitch, con cui suona, come pianista, Prokofiev e Bach. È il primo incontro destinato a diventare un rapporto di lunghissima durata. Nel 1964, su proposta di Raffaello Ramat e del sindaco più celebre della Firenze del secondo Novecento, Giorgio La Pira, Vlad ha l’incarico della direzione artistica del Teatro Comunale. Nasce il celebre Maggio Musicale Fiorentino dedicato all’espressionismo: nel ricordo dei giovani fiorentini che frequentavano allora quel teatro un’esperienza indimenticabile. Io ero fra quelli, giovane studente della Facoltà di Lettere, inseguivo Vlad dovunque riuscissi a ottenere biglietti gratis per me e per gli amici. Quel festival ha avuto una risonanza enorme dal punto di vista critico, ma in realtà ricordo desolate platee alla prima del Dottor Faust di Busoni, e ancor più vuote con le due «operine» di Schönberg, Die Glückliche Händ e Erwartung. Meglio andò invece con la Salomè di Strauss, ancora in odore di scandalo per il pubblico fiorentino di quegli anni, mentre un grande successo arrise al magnifico Il Naso di Sostakovic, per la regia di Eduardo De Filippo, le scene di Maccari e la direzione di un giovanissimo direttore di Sesto Fiorentino, Bruno Bartoletti, che da qualche anno al Comunale dirigeva coraggiosamente ostici concerti di musica contemporanea. Grazie a Vlad e a quello spettacolo, Bartoletti divenne una personalità internazionale ed è tuttora una dei più grandi maestri italiani. Vlad ha ideato a Firenze altri Festival tematici, come quello sul neoclassicismo nel 1970, o l’anno successivo quello dedicato al rapporto con le civiltà musicali extraeuropee, con minore glamour. Ancora oggi mi chiedo che cosa rese magica l’atmosfera di quel Maggio espressionista 1964, e indubbiamente era la sua presenza: Vlad era dappertutto, organizzatore e didatta, diplomatico e battagliero, con la sua instancabile euforia nulla riusciva a farlo desistere. Credo che sia rimasto così. Ho avuto altre occasioni, in un passato recente, di incontrarlo, sempre immutabile di vivacità e di umanità, come attestano queste recenti rievocazioni, dove tra tanti episodi e cammei di amici scomparsi (bellissimo quello dedicato a Leyla Genger), non mancano anche le decise polemiche, le dure prese di posizione. Tutto però è come avvolto nella grazia esistenziale di Vlad, a cui si addice mirabilmente una qualità di quelle che Calvino, prima di morire, descrisse nelle sue Lezioni americane (poi diventato un libro postumo, Garzanti, 1986): la leggerezza. Una leggerezza però, quella di Roman Vlad, che pesa, che incide, che conta.


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STORIA DELLA MUSICA TRA ORIENTE E OCCIDENTE

MEDIOEVO Luce degli orecchi

È nel segno di una concezione totalizzante, la stessa evidenziata da Marius Schneider, la musica medi0evale che riprende corpo e figura in un libro di storia quasi magico

di CARLO SINI

●●●La comprensione delle cose da parte degli antichi e il loro modo di farle erano sensibilmente diversi dal modo che caratterizza noi e la nostra modernità. Questo è vero in modo particolare per la musica: uno dei fenomeni più pervasivi e profondi di ogni cultura. Apprendere che i Greci consideravano la musica come il tratto fondamentale dell’educazione ci sconcerta. Ma la loro mousiké non coincide con lo studio della musica nei conservatorii, ci spiegano; per musica si deve intendere l’unità delle arti dinamiche, cioè danza, musica e poesia. Ecco però che ci stupiamo di nuovo, perché da noi un ballerino non è un poeta e un musicista non è un letterato. Queste strane commistioni in campo estetico si complicano ulteriormente, quando apprendiamo che i medievali, articolando tutte le scienze nelle corporazioni e nelle arti liberali del trivio e del quadrivio, collocavano la musica assieme all’aritmetica, alla geometria e all’astronomia. Che un astronomo debba essere anche musicista è per noi qualcosa di bizzarro, anche se qui si parla della musica in un senso «pitagorico», cioè teorico e astratto, ovvero in relazione al rapporto tra le vibrazioni acustiche dei suoni e la successione dei medesimi nella scala musicale. L’acustica delle cattedrali La verità è che il punto di vista in base al quale articoliamo l’enciclopedia dei saperi in senso moderno è totalmente disomogeneo rispetto al mondo antico. Noi siamo caratterizzati sempre più dalla specializzazione e da un’indubbia efficienza nell’esercizio di ambiti particolari; il mondo antico aveva invece di mira la sintesi e il senso complessivo. Anche per questa ragione la musica, sebbene sia «profondamente radicata nelle matrici dell’Occidente», scrive Vera Minazzi, «trova ancora a fatica una adeguata collocazione nella storia dell’arte, dell’architettura, della società e della cultura medievali. Sul versante musicologico, gli specialisti integrano con difficoltà il fenomeno sonoro con le altre espressioni artistiche e con la vita medievale in generale». Con queste parole si apre l’Atlante storico della musica nel Medioevo (Jaca Book, pp. 290, € 85,00): un’opera straordinaria e unica nel suo genere, che raccoglie contributi di numerosissimi studiosi internazionali e della quale Vera Minazzi ha steso il progetto editoriale e condotto la curatela assieme a Cesarino Ruini. «Questa opera, essa scrive, si pone l’obiettivo ambizioso di contrastare l’impoverimento paradossale conseguente alla dispersione delle discipline». Paradossale, perché più si arricchiscono i nostri saperi nei particolari e nelle tecniche di ricerca, più sembra sfuggirci il loro senso originario e la loro qualità umana complessiva. Ecco per esempio che scopriamo come sia indispensabile ricollocare il modo di costruire le cattedrali del medio evo in base alla loro frequentazione da parte di grandi masse di fedeli e di pellegrini anche in relazione all’acustica, cioè al suono che le riempiva, alle parole del culto e alla loro intonazione musicale; intonazione che a sua volta modificava le sue forme espressive in uno con l’evolvere del dato architettonico-spaziale, con l’ufficio che vi esercitavano le colonne, con i rimbalzi sonori delle volte e così via. Comprendiamo allora che inserire la musica nella geometrica costruzione degli spazi e nei loro orientamenti (per esempio verso Oriente per simboleggiare la rinascita dell’uomo con l’avvento del Cristo) era un’esigenza ben concreta e non una stravaganza. Di qui lo scopo dell’Atlante: «quello di fornire al lettore, anche non specialista in musicologia, una immagine articolata, piana, godibile, e tuttavia scientificamente rigorosa, della musica nel contesto della vita medievale», dal-

in questo Atlante Veit Stoss, dettaglio delle sculture dell’altar maggiore in Santa Maria a Cracovia, 1477-’89

le origini tardo-antiche alla fine del Trecento. Di qui il suo impegno multidisciplinare e l’ampissimo spazio dedicato agli splendidi materiali iconografici, il cui fine non è solo ornamentale; le innumerevoli figure, le riproduzioni plastiche, le cartine, le schede, i codici fanno da guida, da orientamento e da spiegazione puntuale del contenuto stesso del testo. Il lettore, non importa se musicista o amante più o meno colto della musica (ma se lo è, il suo godimento sarà raddoppiato), sfoglia, legge, osserva, confronta, analizza, via via con un piacere al tempo stesso sociale e storico, estetico e filologico, scientifico e morale, psicologico e cosmico. Nel consultare il grosso volume si rianima, quasi per magia, una verità antichissima che tutti abbiamo per lo più dimenticato: che esiste da sempre una fusione primordiale tra vista e udito, suono e visione; quella «luce degli orecchi» e «suono degli occhi», ha scritto il grande musicologo Marius Schneider, «che per le culture superiori orientali e per la mistica medievale europea era una fusione per niente insolita; ma l’uomo moderno avverte ormai appena la grande imperscrutabilità del mondo acustico, la policromia, la poliritmia e la forza lineare del suono, da cui le antiche leggende cosmogoniche facevano procedere il mondo visibile e tangibile». Schneider scriveva queste parole nella presentazione di Pietre che cantano, libro famoso di molti anni fa che illustrava una straordinaria scoperta: il senso «musicale» dei capitelli dei chiostri nelle chiese romaniche della Catalogna. Ogni figura «ornamentale» delle colonne del chiostro rappresentava in realtà un suono e l’insieme del cammino circolare dispiegava al monaco, come in una partitura di figure di pietra, l’inno del suo monastero, dedicato per esempio al santo patrono. Le pietre «cantavano» allo sguardo sapiente di chi sapeva leggerle e il suono si materializzava per l’orec-

STORIA DELL’ARTE

Sculture per l’ultimo viaggio: tradotte le lezioni 1956 di Erwin Panofsky

chio nella pietra e si orientava nello spazio, specificando il senso del cammino mortale in unità con i fenomeni celesti del cielo e con i simboli della salvezza terrena. Commentando quest’opera straordinaria e unica, Elémire Zolla scriveva: «Rari sono i libri che possono cambiare la vita di chi li legge: questo è uno di essi. Chi sappia cavarne tutte le deduzioni, vede in modo nuovo la storia, ascolta altrimenti i suoni della natura e la musica, guarda diversamente le cose (…); ci si accorge che vacilla il nostro mondo culturale di tutti i giorni, che la storia e i valori comunemente accettati tremano come figure di un velo dipinto. Una lama di luce rade le tenebre della storiografia medievale, una storia ignota emerge, si ha la prova che si trasmettevano nel Medioevo conoscenze metafisiche simili a quelle che avevano generato la teoria musicale indù; esisteva una conoscenza metafisica non trascritta su pergamene, ma urlata dai capitelli». E riprendendo a sua volta l’esempio delle cattedrali gotiche, aggiungeva: «Bisognava visitarli sotto la pioggia battente i duomi gotici: si destavano allora in vita i loro doccioni a forma di draghi, ne brillavano allora gli smalti colorati e, intasandosi, i loro condotti muggivano: ululavano le fauci di pietra, barrivano sputando i getti dell’acqua di vita. Bisognava udirle le cattedrali». Nessi con l’arte campanaria L’Atlante storico della musica nel Medioevo mi sembra che riprenda la via aperta dal grande Schneider, moltiplicandone però le applicazioni. Non solo architettura e musica, ma la struttura e l’evolvere della pratica e della teoria musicale in relazione alla filosofia scolastica; il nesso profondo tra i melismi del canto di giubilo e la capacità della musica di esprimere l’ineffabile, ciò che la parola non può dire; la reciproca ispirazione di musica, pittura e miniatura; musicoterapia e medicina (nesso che di recente è tornato al centro del nostro interesse); l’unione di elementi sacri e profani, tecnici e ideali nella produzione di campane (luogo simbolico per eccellenza, che nei millenni ha segnato i confini delle comunità umane); la relazione della musica con la natura e con il canto degli uccelli; l’evoluzione della scrittura musicale e l’origine della musica «moderna» e della sua grande complessità tecnico-esecutiva. Solo qualche esempio tra i moltissimi, a segnare un cammino che è anche un potente invito a ripensare il senso ultimo delle nostre specializzazioni e conseguenti scissioni: siamo potentissimi ed efficientissimi rispetto al passato, non c’è dubbio; ne paghiamo anche un prezzo. Questo libro, splendido e modesto, è un invito a prenderci cura dei nostri limiti e a ripensare l’unità materiale e spirituale del senso delle arti e del lavoro umano.

●●●Rielaborazione di una serie di conferenze tenute nel 1956 presso la New York University, La scultura funeraria dall’antico Egitto a Bernini di Erwin Panofsky (Einaudi «Piccola Biblioteca», a cura di Pietro Conte, pp. XXXV-199, € 40,00) vide la luce nel ’64, quattro anni prima della morte dell’autore, che era espatriato in America nel 1933 in seguito alle persecuzioni razziali. Spaziando attraverso una parabola secolare, come è intrinseco all’approccio morfologico della tradizione warburghiana (è di lì che Panofsky partiva, per poi divenire il maggior sistematore teorico del metodo iconologico), il saggio si propone di isolare nella storia della scultura, in base all’analisi comparativa di un consistente materiale figurativo, e al confronto discreto con diverse discipline di riferimento (dall’archeologia classica e orientale alla storia delle religioni alla filologia), due diversi atteggiamenti delle civiltà nei confronti del morto: da una parte quello «retrospettivo», teso a eternarne la memoria, a scolpirne i meriti per chi rimane e chi verrà; dall’altra quello «prospettivo», che vuole invece accompagnare il morto tramite una sorta di configurazione ambientale dei suoi bisogni e dei suoi desideri nell’al di là. Perché gli egizi, si chiede Panofsky, spalancavano ai cadaveri la bocca e gli occhi? C’è in questa modalità una filosofia della morte di tipo «prospettivo» che spiega anche i termini delle espressioni artistiche connesse, così come il rigor mortis della scultura barocca agisce come memoria «postuma». (f.d.m.)

SCULTURA ANTICA

Modelli greci, copie romane: una storica querelle rivisitata da Barbanera

●●●Per noi la conoscenza della statuaria greca è basata quasi esclusivamente sulle copie in marmo che ne trassero i romani: pochissimi i pezzi originali che ci sono rimasti. Di questo già era avvertito, nella seconda metà del Settecento, il pittore teorico del Neoclassicismo Anton Raphael Mengs, mentre Winckelmann, che del nuovo stile fu teorico a tutto tondo, sostanzialmente e curiosamente lo negò. Nel filologico Ottocento, poi, le copie romane furono utilizzate al solo scopo di riconfigurare i prototipi greci: dal che la loro ancillarità, e sfortuna come valore estetico. Contro questa connotazione negativa, protrattasi in realtà fino a oggi, si leva uno svelto e ferrato saggio di Marcello Barbanera, Originale e copia nell’arte antica (Tre Lune, pp. 144, € 18,00), che facendo tesoro degli avanzamenti di cognizione in materia di committenza nella Roma antica (una prospettiva di studio maturata negli anni sessanta-settanta) ricolloca le copie dei capolavori greci nel loro contesto sociale, riguadagnandole così a uno statuto espressivo. Statuto riconsiderato anche a partire da una serie di esempi tratti dalla musica e dall’arte moderne e contemporanee che implicano un cambiamento di paradigma nella valutazione del rapporto tra «originale» e «copia». In questo senso, e storico e concettuale, l’arte romana non è più soltanto quella isolata come autoctona da Ranuccio Bianchi Bandinelli, la cui costruzione espunge radicalmente come inerti le dipendenze dall’arte greca, ma anche quella fibrillante in bianco nelle innumerevoli officine dei copisti. (f.d.m.)


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CATTELAN AL GUGGENHEIM

DA NEW YORK di GABRIELE GUERCIO NEW YORK

ANDREA WULF, OSSESSIONE INGLESE Botany, Empire and the Birth of an Obsession recita nell’originale il sottotitolo de La confraternita dei giardinieri (Ponte alle Grazie, pp. 426, € 22,50) dove Andrea Wulf racconta il montare, appunto, della vera e propria ossessione giardiniera che nel volgere di nemmeno un secolo, il Settecento, si accese nel corpo della società inglese finendo per permearne tratti fondamentali della fisionomia. Se all’inizio del secolo i giardinieri inglesi imitavano lo stile continentale in giardini «smorti e desolanti… per almeno cinque mesi l’anno», mentre la confusione regnava nella nomenclatura delle poche piante autoctone prima della diffusione delle esotiche, già nell’anno successivo alla pubblicazione del suo Systema Naturae (1735), Linneo doveva recarsi a Londra per perorare l’accoglienza del suo sistema di classificazione proprio nel «paese che stava diventando il più importante mercato d’Europa nel campo della floricoltura». Era lì che Philip Miller, capo giardiniere del Physic Garden, aveva da poco (1731) dato alle stampe il suo Gardeners Dictionary, manuale sistematico di grande successo dove, rivolgendosi in un inglese piano a un pubblico di là dalla cerchia dei collezionisti facoltosi, finalmente si analizzavano con approccio scientifico aspetti pratici del giardinaggio. Era da Londra che il collezionista di piante Peter Collison intratteneva con il suo fornitore di semi e piante dal Nord America John Bartram quella fitta corrispondenza che per decenni avrebbe reso disponibili per sé e altri collezionisti sottoscrittori quegli arbusti e alberi che in grande quantità avrebbero modificato il panorama inglese. E proprio il diffondersi di quelle specie «resistenti» sarà alla base del successo di Thorndon, il giardino di Robert James Petre, dove forme e motivi del verde erano ora ricreati utilizzando le caratteristiche stesse degli elementi naturali: portamento e struttura degli alberi, texture di cortecce, toni del fogliame... «Con l’aiuto di Miller e Collinson, Petre smantellò gradatamente le regole sulle quali si basavano i giardini barocchi». E con ciò, oltre Kent e Capability Brown, la Wulf restituisce i termini della vera e propria rivoluzione colturale e botanica che si pone a fondamento dell’affermarsi del giardino all’inglese (presto esportato oltremanica) e ripercorre le tappe del diffondersi in tutti gli strati sociali della passione nazionale per il giardinaggio. Ossessione pervasiva, con la sempre maggiore disponibilità di piante e con oltre 200 vivai nella sola Londra di fine secolo, testimoniata dall’organizzazione di escursioni botaniche nei parchi, dalla pubblicazione di opuscoli e almanacchi botanici da tasca a buon mercato come pure del primo periodico divulgativo dedicato alla botanica e al giardinaggio (dal 1787, «The Botanical Magazine»), nonché dal successo di pubblico fin tra gli appassionati di romanzi popolari del poemetto ispirato al sistema di classificazione sessuale linneiana e intitolato a Gli amori delle piante da Erasmus Darwin, nonno di Charles.

●●●La retrospettiva di Maurizio Cattelan al Guggenheim di New York (sino al 22 gennaio) presenta un insieme caotico eppure stranamente compatto. Le circa 130 opere (sculture, foto, dipinti ecc.) non sono cronologicamente disposte nei vani laterali alla grande spirale del museo bensì appese al soffitto, ad altezze diverse, grazie a un’impalcatura di cavi, corde e piattaforme sospesa nello spazio centrale circondato dalla rampa su cui i visitatori si affacciano dai vari piani. Il pubblico, salendo e scendendo la rampa, può incontrare le opere in più momenti e da più punti di vista (alto, basso, frontale ecc.). Una presentazione così sfaccettata spinge a chiedersi se le opere «reggano» in termini vuoi di installazione e ingegneria vuoi di durata nella carriera dell’artista e nel sistema dell’arte. Di certo l’impalcatura fa sì che le opere «reggano» stagliandosi e bilanciandosi nell’aria. Ma il senso della «tenuta» è specialmente visivo. Impedendo di coglierle nella loro specificità, l’impalcatura le rivela componenti di un insieme che si contrae e si dilata, mostra pieni e vuoti, sia perché dotato di mobilità interna sia perché muta la posizione di chi guarda. La visione di questo insieme è più avvincente di quella ottenuta da un montaggio filmico. Enuncia una verità da tempo nota ai conoscitori d’arte: la produzione di un autore è immaginabile come un’oeuvre o organismo vivente dove gli elementi – formali e/o tematici – valgono per sé ma anche nel dinamico intreccio con gli altri elementi. Sfruttando e reinventando l’idea di oeuvre, la retrospettiva di Cattelan vorrebbe garantire alle opere dell’artista una tenuta multiprospettica. Nel suo disordine ordinato, la cascata di opere dal soffitto offre loro un invisibile involucro protettivo. La visione dell’insieme supera quella delle parti. Preserva le opere da indagini volte ad appurare se le loro qualità «artistiche» siano davvero distinguibili dalla retorica della pubblicità e dalle puntuali provocazioni che dagli anni novanta caratterizzano il modus operandi di Cattelan. Al Guggenheim la conquista dell’immunità delle opere va di pari passo con un processo di de-differenziazione nel quale le opere sacrificano la loro unicità per ritrovarsi assieme nello spazio circondato dalla rampa. Non a caso forse All è il titolo sia della retrospettiva sia di un’opera realizzata da Cattelan nel 2007: nove figure di marmo che giacciono supine a terra, anonime e indifferenziate nel loro velato essere cadaveri. Poco importa di cosa siano vittime. L’opera restituisce il senso della morte che è di tutti e rende tutti uguali. Un’analoga scoperta dell’uguaglianza connota la presentazione collettiva del Guggenheim. Il titolo della retrospettiva è interpretabile come un’allusione alla richiesta totalizzante di siffatte mostre (che pretendono di offrire una rassegna esaustiva della produzione di un artista) e al fatto che Cattelan abbia cercato di soddisfare la richiesta inventandosi una forma di presentazione che proteggesse le sue opere. Così facendo, le ha sì rese un «tutto» dimostrando la loro «tenuta», ma ne ha anche attutito le sin-

MODERNISMO

L’estetica dell’impostore

Un allestimento «de-differenziato» che di Maurizio Cattelan esalta l’ambivalenza: fingersi impostori per meglio inserirsi in un certo sistema di riferimenti

Maurizio Cattelan, «Senza titolo», 2003, Colonia, Museum Ludwig. In basso, Peggy Guggenheim golarità accentuandone la genericità. Sembrerebbe, cioè, che tenuta e successo dipendano non tanto dall’originalità quanto dalla flessibilità e capacità di adattamento. Al Guggenheim l’arte nasconde l’arte in un suggestivo allestimento che mira a esorcizzare il timore del fallimento – un timore che Cattelan ha reso un tema ricorrente della sua oeuvre. L’esorcismo è spinto al punto che reinvenzione e svalutazione di quanto finora realizzato dall’artista tendono a coincidere. Come spesso accade con Cattelan, l’ambivalenza è padrona. La creatività si estrinseca a patto che l’opera esibisca il sigillo dell’incertezza. Nella modernità non esistono condizioni prede-

finite per legittimare il lavoro creativo. Esso poggia sull’incertezza. Cattelan radicalizza questo destino di precarietà. Molte delle sue trovate «artistiche» hanno goduto di ampia risonanza mediatica ma sono così ambivalenti che viene il sospetto si tratti di un’impostura. Tuttavia il sospetto va bene. Probabilmente è previsto dall’artista che si «finge» impostore per meglio inserirsi in un sistema di riferimenti – museo, storia dell’arte, mercato, ecc. – anche con mezzi che si direbbe stravolgono quel sistema. Fingendo l’impostura, Cattelan ha gioco facile a rappresentare sofferenze e atrocità o a inscenare una ribellione, un disadattamento. Apparendo

di CLAUDIO GULLI

cura di Maurizio Vanni, fino al 15 gennaio, catalogo Silvana editorale) dà l’opportunità di rileggere, con taglio intelligente, l’arte fra Stati Uniti e Europa dalle avanguardie agli anni cinquanta. La collezione di Peggy fu un canone: ragionare su quel momento della storia significa sempre tornare ai suoi gusti e alle sue scelte. È quello che accade visitando questa mostra, dove il filo conduttore sono venti delle sue opere su carta (in tutto una settantina), alcune delle quali furono esposte alla Biennale «liberata» del 1948, e comunque visibili solo in rare occasioni. I confronti – vedi Kandinsky insieme a De Kooning o Picasso

LUCCA

Da Kandinsky a Kupka: a Lucca la passione su carta di Peggy Guggenheim

no pure per il volume-catalogo All che accompagna la retrospettiva. Pubblicato dal Guggenheim (in Italia è tradotto per Skira) e firmato da Nancy Spector, curatrice del museo, meriterebbe la stessa attenzione qui dedicata alla mostra. Rilegato in similpelle rosso scura con sovraimpressi in oro titoli e figure (riproducenti due opere dell’artista), il libro ricorda la tipologia dei classici venduti a poco prezzo. Imita di quei volumi la simulazione del lusso, il loro rivolgersi alle classi sociali più modeste e rassegnate ai surrogati e alle repliche. Il testo di Spector sembra adeguarsi a questa atmosfera. Ricalca la popolare tradizione della monografia – narra di Cattelan giovane, suggerisce affinità tra vita e opera – anche se evolve mediante capitoli tematici che discutono dall’«estetica del fallimento» alla politica alla società dello spettacolo. Privo di gerghi specialistici, il testo armonizza ricostruzioni di eventi con commenti perspicaci e calibrati. Dichiarando che l’esegesi delle opere di Cattelan è relativa – c’è sempre la chance di trovare altri significati –, Spector mette i lettori a proprio agio, li incoraggia a sentirsi dei po-

●●●A pochi passi da Piazza Anfiteatro, da più di due anni e mezzo, Palazzo Boccella ospita il Lu.C.C.A. (che sta per Lucca Center for Contemporary Art), sede espositiva da tener d’occhio, perché sta smuovendo efficacemente l’atmosfera medievale di una delle più belle cittadine toscane. Dopo le mostre dedicate al Gruppo Origine e dintorni, a Juliet fotografata da Man Ray, a otto minimalisti della collezione Panza, alla ricezione di Dubuffet in Italia, adesso Carte rivelatrici I tesori nascosti della Collezione Peggy Guggenheim (a

inestricabile dalla finzione, il suo lavoro ottiene un duplice effetto. Per un verso, sminuisce ogni fiducia nella creazione di opere la cui unicità e singolarità sarebbe tale da rivoluzionare il mondo in cui emergono. Per un altro verso, conferisce all’arte intesa nella sua genericità il potere di espandersi senza limiti producendo scarti e metamorfosi comprensibili all’interno del sistema che la definisce. Di questo misto di scetticismo e sistemica sopravvivenza è una prova la massa di opere cascanti dal soffitto del Guggenheim con la sua domanda di immunità e coeva intensificazione del generico ai danni dello specifico. Le considerazioni precedenti valgo-

tenziali critici. Così come la presentazione delle opere cascanti dal soffitto le unisce de-differenziandole, il volume-catalogo propone un’identità d’autore associabile a quelle di altri autori, innumerevoli e indifferenziati, cui sono stati dedicati analoghi libri in similpelle. In entrambi i casi l’inatteso e l’irriverente sposano l’impersonale e l’indifferenziato. Coltivando l’ambivalenza, fingendo l’impostura, Cattelan risponde all’imperativo di «marcare una distinzione». L’imperativo, secondo Niklas Luhmann, è chiave per il mantenimento del sistema moderno dell’arte. Permette alle opere di dispiegare il paradosso dell’arte che, passando di distinzione in distinzione, è libera di fare quel che vuole a patto di produrre connettività autoreferenziale. All, il libro e la mostra, sono emblematici di questa libertà irrealizzabile senza l’assunzione di un «tutto» che può significare l’oeuvre di un artista e il sistema dell’arte, come pure lo stato delle cose e la genericità della morte. Da qualche tempo i media riportano che Cattelan avrebbe smesso di produrre opere. Dopo All, la decisione suona come un’ennesima distinzione: una morte o sacrificio che è finale solo e precisamente perché al servizio di una connettività senza fine e senza vie di uscita. con Tanguy – consentono di capire come si istituissero, nelle gallerie, nei padiglioni e poi nei musei di marca Guggenheim, ponti fra le due sponde dell’oceano e fra le generazioni dell’ante e del dopoguerra. Nelle pareti di Peggy, l’astrattismo anni dieci andava a preconizzare i colori graffianti dei CoBrA o dei Pollock, il surrealismo si liberava dalla cappa di Breton, gli italiani – Tancredi o Vedova – sgattaiolando dalle censure del Pci, trovavano radici in padri americani o americanizzati. Si fa anche luce su personaggi minori, che potrebbero esser ugualmente ricoperti di alloro: un nome su tutti, quello del ceco Kupka.


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FENOMENOLOGIE LETTERARIE

PLAGIO

Georgij Petrusov, «Caricatura di Alexandr Rodcenko», 1933-’34, Colonia, Galleria Alex Lachmann

«L’ULTIMO ATTO» ■ A CURA DI F. MALCOVATI

Mejerhol’d, misteriosa fine di un teatro di GIANCARLO MANCINI

Darriussecq, onore ai ladri di parole di TOMMASO PINCIO

●●●«Il plagio è una nozione idiota, la cui frequentazione rende idioti»: chiunque viva di letteratura, non importa in quale veste, se di critico, scrittore o semplice lettore, presto o tardi si trova a fare i conti con questa verità crudamente espressa da Marie Darrieussecq nel saggio Rapporto di polizia (Guanda, «Biblioteca della Fenice», traduzione di Luisa Cortese, pp. 331, € 20,00). Può darsi che la verità del problema, la sua idiota natura cioè, non venga colta né presto né tardi, ma è pressoché impossibile non venire carezzati almeno una volta dal suo venticello calunnioso. A me è capitato guardando un film. Dopo poche sequenze, quando la trama muoveva ancora i primi passi, mi è sorto il sospetto che il regista avesse costruito il tutto attingendo in maniera cospicua e spudorata a un mio romanzo. Non ebbi bisogno di attendere la fine perché il sospetto si tramutasse in certezza. Giunti i titoli di coda, avevo raccolto elementi a sufficienza per fugare ogni dubbio. L’idea di protestare le mie ragioni davanti a un giudice neppure mi sfiorò, e non tanto per la difficoltà di dimostrare un fatto pur evidente, quanto perché l’accusa di plagio è incompatibile con i miei principî. Originalità, invenzione nociva Ho sempre considerato l’originalità un’invenzione nociva, oltre che ipocrita. I racconti nascono da altri racconti, le parole da altre parole. Scrivere storie non è che un continuo rimasticare. Lo scrittore che teme di rubare o di essere derubato non è dunque un vero scrittore. Malgrado questa mia convinzione, volli tuttavia confidare a qualcuno il furto legittimo di cui mi sentivo vittima. Fu a questo punto che si manifestò l’idiozia di cui parla Darrieussecq. Per cominciare, scelsi un giudice non esattamente immune da conflitti d’interessi: mio fratello. Inoltre, quando il giudice mi sentenziò che non ravvisava somiglianze di sorta, restai di avviso immutato. Conclusi che mio fratello non aveva prestato la dovuta attenzione ai dettagli. Ciò non mi impedì però di conservare quel minimo di lucidità necessario

Dietro l’accusa di plagio si cela la lacaniana «paranoia di autopunizione»: una idiozia che, quando va al potere (per esempio col regime sovietico), diviene strumento di annientamento... per sentirmi uno sciocco. Più chiaramente: mi resi conto che non mi interessava affatto appurare la verità; ciò che davvero mi premeva era altro. È convinzione di Marie Darrieussecq che dietro l’accusa di attingere oltre il lecito all’opera altrui si nasconda il desiderio folle di essere derubati delle proprie parole. Questo desiderio perverso sarebbe a sua volta espressione del bisogno di sapersi letti e amati, un bisogno simile a ciò che Gatian de Clérambault definì erotomania, «l’illusione delirante di essere amati», concetto sviluppato anche da Lacan nei termini di una «paranoia di autopunizione». Darrieussecq, nota per romanzi quali Troismi e Tom è morto, ha deciso di inoltrarsi in un simile ginepraio perché in più di una circostanza si è vista accusata di plagio. Ma non solo. Mentre lavorava al suo unico libro autobiografico, Una buona madre, fu ossessionata dall’idea che altri, dopo di lei, osassero scrivere del tema affrontato in quelle pagine: la maternità procrastinata. Ulteriore stimolo, nonché motivo di conforto, fu la scoperta che persino Paul Celan, la cui voce di poeta è ormai all’unanimità considerata unica e inimitabile, dovette subire l’onta della plagiunnia. Claire Goll, vedova del poeta Yvan, lanciò infatti ben tre campagne di diffamazione da cui Celan uscì devastato. Che lo si accusasse di avere copiato equivaleva per lui a un tentativo di eliminazione fisica. Le parole erano la sola cosa che gli restava o, perlomeno, quella che riteneva più sua: essere bollato come ladro di parole era peggio di un’infamia, significava spossessarlo della sua identità, annientarlo. Cercare di difendersi, confutare le prove portate a suo carico sarebbe stato inutile oltre che umiliante. Un esempio: Ce-

lan avrebbe copiato il frammento di verso «sangue di luna» perché in una composizione di Goll si legge: «una goccia del sangue lunare». Il buon senso imporrebbe che simili coincidenze fossero pesate senza perdere di vista l’insieme, ma l’idiozia insita nella nozione di plagio prevede invece l’esatto contrario: una spasmodica attenzione al dettaglio, non importa quanto irrilevante nell’economia dell’opera. Quasi mai perciò l’accusa di plagio risponde a criteri di ragionevolezza; è piuttosto e perlopiù «un tentativo di far impazzire l’altro». Plagiunnia contro Majakovskij È nella Russia dei primi anni della Rivoluzione che la plagiunnia comincia a essere usata sistematicamente quale efficacissimo strumento di annientamento. Caso emblematico quello di Majakovskij, che nel 1927 ebbe l’idea, non proprio brillante, di insultare un protetto di Stalin. Fu chiesto che venisse «rimesso al suo posto» e quale miglior modo della plagiunnia? Lo si accusò dunque di custodire i manoscritti del defunto Chlebnikov e di pubblicarli a poco a poco a suo nome. Tre anni dopo, nel corso di una serata letteraria, Majakovskij esclamò: «Mi si accusa di così tanti peccati, che ho o che non ho commesso, che a volte mi capita di dirmi che dovrei andare da qualche parte e restarci per un anno o due, se non altro per non ascoltare più le accuse». Ci andò davvero da qualche parte, e non per un giorno o due. Il suo sfogo precedette infatti di pochi giorni il gesto estremo che l’accomuna a Celan, il suicidio. Del resto, non c’è scampo. La tesi di fondo di Darrieussecq è che «due libri, quali che siano, letti in parallelo in un’ottica malevola o paranoica, potranno sempre passare per plagi

l’uno dell’altro», quando invece bisognerebbe dare per scontato il «plagio per anticipazione», come lo chiama Perec alludendo al fatto che, in quanto creature appartenenti a una medesima specie e mosse pertanto da bisogni e stimoli analoghi, gli scrittori incorrono fatalmente nella sconvenienza (se mai è una sconvenienza) di proporre temi, racconti e accostamenti di parole già scritti. Se il buon senso finisce per avere la peggio è perché cozza con un’idea molto in voga, sebbene vecchissima. All’origine di tutto ci sarebbe Platone. Fu lui, affermando che l’invenzione poetica parla al «posto di coloro che hanno fatto la guerra» ossia di chi ha sofferto in prima persona, a porre le basi del sentimento diffuso in base al quale leggere narrativa è una perdita di tempo. Ai racconti d’invenzione andrebbero preferiti la vera Storia e i documenti di vita vissuta, perché, ci dice Platone, «l’imitazione non conosce nulla di essenziale sul conto di ciò che imita: la sua imitazione è uno scherzo più che un’attività seria». Accusare di plagio e lamentare una qualche forma di inautenticità sono in fondo la stessa cosa. Ne consegue che, in teoria, qualunque sforzo di immaginazione, o anche di semplice empatia, reca la macchia dell’appropriazione indebita. Calarsi nei panni del prossimo, immedesimarsi, significa in fondo appropriarsi di cose d’altri, di esperienze che non ci appartengono e pertanto, nella più indulgente delle ipotesi, dovrebbe essere stigmatizzato come un atto di usurpazione. Che nella sostanza non sia così pare evidente a tutti, ringraziando il cielo. Ciò non basta però a riscattare la nozione di plagio, a renderla estranea alla pericolosa e censoria idiozia che Marie Darrieussecq ha inteso smascherare.

●●●Nel suo libro linguisticamente più fervido e immaginoso Angelo Maria Ripellino, nonostante di molti e geniali e fondamentali maestri del teatro russo primo-novecentesco raccontasse le gesta, a uno tributava l’onore di poterlo siglare con il suo segno epocale, inscritto nell’Ottobre. Il trucco e l’anima (Einaudi, 1965) derivava infatti da un pugno di versi di Boris Pasternak dedicati ai Mejerhol’d, Vladimir Emil’evic e Zinajda Raich: «Quasi respirando odor di tinta, / vi siete cancellato per il trucco. / Il nome di questo trucco è anima». E proprio con la fine della coppia praticamente si chiudeva quest’opera di ineguagliata riviviscenza, Ripellino smetteva i panni del gioioso trovarobiere per lanciare un funebre lamento concluso con: «Sia dunque maledetta l’intolleranza con tutti i suoi piccoli schiavi, che fanno della Non-legge suprema con la sua giungla di borghesucci spietati, sempre pronti ad urlar “crucifige”, a proteggere la tirannia, ad impancarsi a salutisti, a tutori di “virtù” conculcate». Zinajda Raich fu trovata sgozzata in casa sua dopo l’arresto di Mejerhol’d, avvenuto il 20 giugno 1939. Poco però era riuscito a sapere Ripellino all’epoca della scrittura del libro sui suoi ultimi mesi, di cui anche la data di morte era ancora incerta («febbraio 1940?»). Giunge dunque necessario L’ultimo atto. Interventi, processo e fucilazione (La Casa Usher, pp. 233, € 22,00), a cura di Fausto Malcovati. Per illuminare finalmente l’ultimo pezzo di strada compiuto dal multiforme «Dottor Dappertutto», l’antinaturalista, l’inesausto, il sovvertitore, allenatore di corpi plasmati dall’impeto dell’evoluzione e poi dello sberleffo, della burla verso i burocrati e gli uomini in divisa Ancien régime. «Un secondo di pausa – scriveva Ehrenburg – è la morte. Tutto di fuori. Non più movimenti dell’intimo. Zio Vanja e sorelle, restate a casa! Piuttosto gli acrobati! Il salto è estasi, il salto è tragedia. Le “riviviscenze”, putredine». La rivoluzione lo contagia di un

Antinaturalista e rivoluzionario, nel 1939 finì risucchiato nella macchina sovietica del terrore. Ora sul suo processo c’è un po’ di luce

ardore fanatico, negli anni della guerra civile fa lanciare in aria i dispacci dell’Armata rossa nella lotta contro i bianchi mentre gli spettatori scattano in piedi per intonare l’Internazionale alla notizia della presa dell’ultima roccaforte di Vrangel’ in Crimea. Eppure nel pieno dei tremendi processi di Mosca Mejerhol’d viene risucchiato proprio con l’accusa di disinteresse verso la costruzione dello Stato socialista. Il primo passo verso la fine, tramite un articolo pubblicato da Platon Mihaijlovic Kerzencev sulla Pravda il 17 febbraio 1937, e intitolato Un teatro estraneo. Nel ventennale dell’Ottobre, si scriveva, Mejerhol’d non aveva allestito nessun testo generato dalla nuova situazione, in ciò mostrando una sfiducia nella capacità di produzione culturale del proletariato. Mejerhol’d, sentendo la stretta avvicinarsi, aveva tentato di inserire due testi «nuovi» sui quali però ugualmente si era scagliato il Comitato per gli affari artistici vietandone, dopo la prova generale, la messa in scena pubblica. La sua esperienza era alla prova dei fatti, secondo Kerzencev, una «bancarotta», artistica e ideologica. Serve ancora alla causa sovietica un teatro così, chiedeva retoricamente Kerzencev? Si riunisce il collettivo del GOSTIM, Mejerhol’d prende la parola per primo, cerca di giocare d’astuzia, dando ragione a Kerzencev, parla al plurale, però nessuno accetta più di far parte assieme a lui. Che parli per sé. La macchina del terrore individua i suoi obiettivi li isola e poi colpisce in modo da rendere il colpo inesorabile. Solo un falegname interviene in sua difesa, Kanyskin. «Se al Maestro non sarà offerta la possibilità di mostrare quel che aveva in mente, e non gli daranno il palcoscenico che voleva, l’arte teatrale non conoscerà mai quel segreto». Mejerhol’d riprende la parola per un’ultima volta, ripercorre per ore tutta la sua pratica artistica, Blok, Majakovskij, il simbolismo, la biomeccanica, Staniskavskij. Non serve a nulla. Il vecchio maestro è l’unico ad accoglierlo dopo la caduta in disgrazia, con il GOSTIM chiuso per decreto si riprende «l’unico allievo che abbia mai avuto». Pochi mesi dopo Stanislavskij muore. Mejerhol’d è solo per sempre. Il 20 giugno 1939, alle 7 di mattina è arrestato, viene portato alla Lubjanka. Picchiato, firma una dichiarazione di colpevolezza: era al servizio dei nemici del popolo trozkisti. Ne firmerà altre di dichiarazioni «spontanee». Accusato anche di essere spia al servizio di giapponesi e inglesi. Giusto poche settimane prima era stato sommerso dagli applausi al Congresso dei registi sovietici. Lui aveva cercato di mettersi dietro Višinski, il terribile orchestratore di quella gigantesca ghigliottina che furono i processi di Mosca, così da farli sembrare diretti a lui. E invece no, erano solo per Vladimir Emil’evic Mejerhol’d. Della cui morte per anni nessuno riuscì a sapere nulla di preciso.


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RITRATTO D’ARTISTA DAL VILLAGE A PALAZZO PRIMOLI

GENDEL Il fotografo che ha giocato con l’aura Vip passati al setaccio dell’understatement, in attimi magici della Roma anni cinquanta e sessanta; artisti amici da Burri a Scialoja, e situazioni mondane uccise con «wit» surrealista di ROBERTO ANDREOTTI

●●●Riuniti sotto il titolo un po’ a chiave Milton Gendel: una vita surreale, sovrapposto nel libro-catalogo all’autoritratto sull’Appia antica con la silhouette dell’autore in azione che entra nell’inquadratura (1950), due recenti omaggi romani – uno all’American Academy in Rome (i ritratti); l’altro al Museo Carlo Bilotti a Villa Borghese (chiude giusto oggi), decisamente più panoramico comprendendo accanto alle fotografie gli inchiostri ‘surrealisti’ su carta degli anni quaranta à la (e di) Motherwell, amico di gioventù, documenti e taccuini, fascicoli di «Art News» con le corrispondenze dall’Italia (Burri, Scialoja, Guttuso), una campionatura della collezione (Afro, Lucio Manisco, Rotella, Colla, de Kooning, Calder, Tancredi, John Rudge) – hanno riproposto i materiali, come si sarebbe detto negli anni settanta, di una avventura intellettuale spesa soprattutto con la Rolleiflex al collo: ma una Rollei ‘senza pose’, priva cioè di aura professionale e dei parafernalia da artista in stile Cecil Beaton – infilzato peraltro da Gendel in un’inquadratura feriale davvero, con la caraffa in mano «e in testa un buffo copricapo», nella casa di campagna della principessa Margaret, 1965. A una definizione del newyorkese Milton Gendel (1918) ma per tutti «americano di Roma» – città in cui vive senza interruzioni dal ’50 quando arrivò con una borsa Fulbright –, occorrerebbe più di una mezza dozzina di voci, quasi tutte in lizza per una supremazia interiore, se non disciplinare: scienziato, critico d’arte (e giovane assistente di Meyer Shapiro), giornalista (storico corrispondente dall’Italia per gli Stati Uniti), scrittore, fotoreporter e ritrattista, collezionista furioso di oggetti mistilingui alti e bassi, un po’ di tutto secondo la matrice bretoniana dell’objet... Probabilmente di nessuno di questi lemmi egli si riconoscerebbe degno sino in fondo, tenendo fede a un’ironia tra gli amici proverbiale. Rara avis. Giornalistiche etichette rivivono (tollerate?) nel sito ufficiale e nelle rade pubblicazioni: «il surrealista in tuta mimetica», ad esempio. Redattore con Motherwell della rivista «VVV», decide di arruolarsi nell’esercito americano (’42), una mossa indigeribile per il capo Breton e gli artisti del Greenwich Village – in fuga da Parigi occupata –, che Milton ventenne frequentava e assorbiva entrando nelle riunioni programmatiche, nelle gallerie, nelle tipografie, negli scatti di gruppo che ce li tramandano. Nelle loro file anche l’amico David Hare: una cui scultura irradia come d’oro l’autoritratto in dissolvenza (’48) di Gendel, seduto sul pianerottolo della scala anti-incendio a Washington Square, con la sovrappo-

sta skyline di Manhattan e un tetto (ardesia?) che ricorda i verdi del Congdon tardo rifugiatosi nella Bassa lombarda. A Hare (1917-’92) Milton ha dedicato pochi anni fa, in occasione della retrospettiva ai Sassi di Matera, un bellissimo saggio – committente l’infaticabile Giuseppe Appella – che ricostruisce da testimone, come in un film di Scorsese, gli anni surrealisti e la comune gioventù al Village. Gendel, va detto, è stato soprattutto fotografo in nero, di ascendenza «straight». Perciò nell’impossibilità di dare conto delle molte vite: artista – s’è accennato –, sperimentatore di mimetizzazioni militari nella Compagnia ingegneristica di Camouflage, inviato a Formosa come membro dell’unità investigativa per i crimini di guerra, consulente di Adriano Olivetti ecc., potrà aiutarci a profilarne la personalità espressiva – del resto esaurientemente ricostruita nei saggi di Peter Benson Miller e Barbara Drudi (catalogo Hatje Cantz Verlag) – una simbolica campionatura dei più celebri scatti testè esposti (sarebbero oltre 70.000 i negativi in catalogazione). Lasciamo però sullo sfondo i due tuttora sorprendenti album topografici: la Sicilia del Piano Marshall effigiata come un reporter Magnum al seguito della fotografa americana Marjorie Collins, e la Cina 1945-’46. Viene più facile puntare lo sguardo a Roma, una Roma ancora intrisa di mondanità internazionale in corsa per l’ultimo Grand Tour, fino agli anni settanta, poi diluvio. Un

punto di sintesi interpretativa può essere l’understatement, esercitato con differenti, calibrati dosaggi sia verso i soggetti a tiro – e spesso si tratta di ‘amici’ inavvicinabili come la Regina d’Inghilterra –, sia verso la retorica della Fotografia in quanto arte che immortala. Anche quando sono impegnate sul piano compositivo: Piero Dorazio con alle spalle i campanili di Trinità dei Monti (1950), Toti Scialoja col Corriere della Sera che squaderna lo slogan (allusivo?) della benzina: «Mordente. Slancio. Rendimento del motore», le foto di Gendel lasciano sempre circolare leggerezza. La principessa Margaret può scherzare sotto i suoi occhi con una maschera accanto a Harold Acton (Villa La Pietra, 1983); Iris Origo rimanersene a letto nella penombra austera della camera, senza dover assumere l’allure di Berenson, lui sì fattosi immortalare a letto, con leggio, da David Lees ed Emil Schultness, sulla copertina di Tramonto e crepuscolo. Cambiando scena, Mochetti scherza di profilo con la sua Freccia in acciaio passata alla collezione Carandente (1978); Philip Johnson è còlto nella trasparente Glass House, Connecticut, mentre fasci di luce paralleli, interpretati da Gendel, arredano architettonicamente l’inquadratura raddoppiandone il mood modernista; Elisabetta II come una colf dà da mangiare ai cani, oppure s’aggiusta il foulard nella tenuta di Balmoral (a margine si dovrà osservare che nessuno aprirebbe la porta

JOSEF KOUDELKA

Milton Gendel a New York, 1948, in un autoscatto davanti a una scultura di David Hare. In alto, in piccolo, i ritratti degli amici artisti: Burri, Dorazio, Mochetti

MICHEL POIVERT

Riemerge da Contrasto il libro-fantasma degli zingari

Fotografia contemporanea, non più solo Arte

●●●Nell’Europa anni sessanta tagliata dalla cortina di ferro i rom si chiamavano ancora zingari (gitans, gypsies), e il ceco Joseph Koudelka li pedinava nei loro villaggi di baracche con le tendine ai vetri nei campi gelati della Slovacchia, della Boemia, della Moravia, della Romania, con puntate in Francia e Ungheria. Da quelle campagne fotografiche dall’attrezzatura leggera con obiettivo grandangolare, più idoneo a catturare elementi di centrifuga, sarebbe nato il libro più conosciuto e forse più bello di Koudelka, uscito nel 1975 in Francia col titolo Gitans, la fin du voyage. Ma non era esattamente quello che il fotografo aveva pensato e montato a Praga (Cikáni), che non vide mai la luce a causa dell’esilio politico nel ’70. Ora, sulla base del menabò originario e definitivo, quel libro fantasma vede la luce, con l’aggiunta di ulteriori scatti effettuati sino al 1971: da noi lo pubblica impeccabilmente Contrasto (Koudelka Zingari, € 59,00), e il libro non è certo per palati patinati ma piuttosto va ricodificato al cuore di un dibattito umano e politico se possibile ancora più ultimativo per i rom d’Europa e d’Italia – come si evince dall’excursus storico di Will Guy. L’impatto di Koudelka con gli zingari è sempre teatrale, con una messa in scena dei primi piani e dei contrasti di luce che drammatizzano i soggetti, donne, bambini, vecchi. Un teatro di posa naturalistico che li vede attori per un momento: come emersi dal raggio di luce di un Dante che passa. (r.a.)

●●●Teoricamente sovraesposto, il saggio che Michel Poivert dedica a La fotografia contemporanea (Einaudi, pp. 237, € 45,00, illustratissimo) intende dare una sistemazione per categorie concettuali alla produzione fotografica dall’alba degli anni ottanta a oggi. L’assunto di fondo è che si stia uscendo da una fase, gli ultimi due decenni del Novecento, caratterizzata da una tetragona identificazione fotografia-arte, fotografia, cioè, come luogo privilegiato dell’espressione, come provocazione, ma tutta interna al ‘sistema dell’arte’, delle pratiche tradizionali. Poivert sembra più interessato a cogliere l’ambiguità di status di un mezzo in bilico tra i generi e gli utilizzi, e a derivare proprio da questa incertezza una possibile – sua l’espressione – «etica del moderno». Se non esiste una separazione netta tra «immagini culturali» e «immagini artistiche», se un reportage può ambire al riconoscimento intellettuale quanto un’icona di Cindy Sherman, se la teatralità di una foto da set (Crewdson) confina con quella di ‘pose’ tratte dal quotidiano (Sultan), il critico della fotografia si fa sensore di una serie ben più abbondante e variegata di voci del contemporaneo, trascegliendole non più soltanto in base al coefficiente formale ma al grado di critica del presente e di avventura utopica che mostrano di saper offrire. (f.d.m.)

al proprio assassino se non si fidasse di lui). Ancora, il magnate del petrolio Paul Getty dietro un bacile romano sostenuto da un capitello corinzio, a Palo Laziale, dove «nei primi anni sessanta acquistò i ruderi di un casino di caccia rinascimentale» trasformato in museo «per la cianfrusaglie romane trovate durante il restauro». Cianfrusaglie è un buon termine sprezzato per svelare il Gendel collezionista ora ospite di Palazzo Primoli, sopra il Museo Napoleonico. Nell’altro lato aleggia il fantasma del professor Praz, coinquilino la cui nomea – che il passare degli anni e soprattutto il wit dei romani non accennano a sgonfiare – non deve avere sfiorato un uomo come Gendel che ha fatto dello humour scudo e arma di stile. M.P. peraltro figura nella lista di personalities frequentate che egli ha avuto la cortesia di fornirmi, e ci resta l’allucinato ritratto che gli fece sul sofà, 1982: una maschera Kabuki. Al genere carpe diem o, se si preferisce altra enciclopedia, ruit hora, si vorrebbero assegnare certe riprese nelle quali l’eternità degli interiors romani, e magari il rango dei ritratti, sono ipso facto demoliti, in un soffio: come André Leon Talley e Lord Snowdon travestiti in pellicce Fendi nel cinquecentesco Palazzo Ruspoli, per una sfilata. Perfidamente il fotografo: «La pelle scura di Talley contrasta con il biancore della pelliccia di lince nella quale era avvolto, mentre Snowdon ha assunto l’espressione altera di una mannequin che ancheggia sulla passerella». Picnic a Villa Pamphilj allestito da Georgina Masson, storica e biografa autrice della più anglosassone delle Companion Guide to Rome: Gendel pesca un Evelyn Waugh seccato all’idea di sedersi per terra; e infatti scandalizzò gli au-

torevoli ospiti «esigendo tavoli e sedie». Ma che ruolo giocano questi brevi testi – Milton, va ribadito, è fior di critico –, impaginati di solito accanto a quelli che egli chiama, abbassando, «incontri fortuiti»? L’esigenza didascalica di ricostruire l’occasione mondana o sociale che sta a monte degli scatti è intrisa di un umorismo, che, se possibile, sottrae ulteriore aura, ammesso ne fosse rimasta dopo l’emulsione: di sicuro questa grazia autoironica abbatte il mito inscalfibile dei campioni, o mostri, dell’attimo. L’attimo che rese celebre l’insuperato Cartier-Bresson, si coglie al volo o si aspetta talmente a lungo da costruirselo? Resta che Milton Gendel cominciò a riprendere per documentare visivamente i propri lavori, vuoi di progettista, vuoi di giornalista, vuoi di tecnico ingegnere, e in fondo non ha mai abbondonato questa concezione ausiliaria della fotografia, risparmiandosi fra l’altro l’ossessione espressiva e ‘identitaria’ dell’Autore. Anche per questo l’esigenza di commentare le proprie stesse immagini è un interessante tema semiotico. Vengono in mente, è ovvio, gli esercizi parola/figura di Max Ernst o Magritte, mentre per certi accostamenti iconici si è giustamente richiamata la tecnica dei «cadaveri eccellenti». Ma quando ci rivela senza sussiego le banali occasioni (in realtà spesso molto ‘esclusive’) che hanno consentito la precipitazione formale che stiamo visualizzando, o l’origine casuale di certi paradossi tipo la Rolls Royce affrontata a un’oca, lo scrittore umorista Milton Gendel condensa in un gustoso apologo esistenziale come uccidere il miracolo della fotografia. Come se dicesse «ma sì, vi spiego perché io mi trovavo là».


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