IL SETTIMANALE DE LE GUIDE DE L’ESPRESSO
Ogni fine settimana, al vostro indirizzo di posta elettronica, vi verrà recapitato il Weekly Enjoy, un magazine con notizie, servizi, approfondimenti e consigli più interessanti della settimana. Chi ha fame di notizie enogastronomiche può mettersi a tavola. Il servizio è gratuito
WEEKLY ENJOY - IL SETTIMANALE DELLE GUIDE DE L’ESPRESSO
Pubblicazione settimanale gratuita #006 - 29 Luglio 2023
Direttore Responsabile: Alessandro Mauro Rossi Coordinamento Editoriale Digital: Carlo Carnevale Grafica e Impaginazione: Beatrice Dalla Paola Direttore Commerciale: Michele Belingheri
VIP: VERY IMPORTANT POSTO
RISTORANTE MOI OMAKASE
A Prato si trova il Moi Omakase, una pietra miliare per la tradizione gastronomica giapponese, casa dello “Shokunin” Francesco Preite. Un ristorante a Prato può essere un punto di riferimento in Italia per provare la vera ed autentica cucina omakase, paragonabile all’esperienza che si può vivere dai grandi sushi master orientali in Giappone? E oltretutto eseguita e realizzata da un italiano? Sì, può certamente esserlo. “In Giappone ho imparato che cucinare è cercare la “verità” in ogni ingrediente, un dialogo continuo tra corpo mente e materia” così recita il mantra dello chef, anzi del “Shokunin” Francesco Preite. E a questa tavola, aperta 5 giorni su 7 solo a cena potrete degustare, appuntamento per tutti alle 21, insieme a massimo una decina di altri commensali, un menù omakase in cui i nigiri, quello che noi chiamiamo genericamente ed erroneamente sushi, saranno realizzati con alta maestria, rispettando gli ingredienti le temperature e le proporzioni. Materia prima di elevata qualità, quando possibile, raramente, reperita direttamente dalla baia di Okinawa, e uso sapiente di tecniche e di sensibilità tutte nipponiche, imparate in anni di studio e applicazione. Vale il viaggio da qualunque parte d’Italia questo piccolo ristorantino di Prato? Vale il viaggio assolutamente, per immergersi nella vera e autentica cultura e cucina giapponese.
NOME DELLO CHEF : Francesco Preite MENU DEGUSTAZIONE : Degustazione omakase 120 euro.
VIP: VERY IMPORTANT PIATTO
RISONE DI CANOCE, CICORIA E XO DI SCHIE
RISTORANTE LOCAL CHEF: SALVATORE SODANO
Un’immersione nella Laguna insieme a Salvatore Sodano, chef di Local con il suo Risone di canoce.
Local è uno di quei posti dove la ristorazione veneziana ha cominciato a togliersi la polvere di dosso, costruendosi un’identità, partendo da un’idea contemporanea di cicchetto, trasformata in piatto, con uno sguardo molto attento al vino. Qui troverete una carta ricchissima, con la possibilità di avere cinquanta scelte al calice. Benedetta Fullin e Manuel Trevisan, patron del ristorante, hanno scelto ai fornelli dall’anno passato, Salvatore Sodano, campano che con il fratello Francesco, era stato protagonista al Faro di Capo d’Orso a Maiori. La terra natale dello chef si fonde con la laguna veneziana in questo piatto potente, saporito, sempre al confine della sapidità, che non viene mai attraversato. Al posto del riso, una pasta secca dal formato simile, il risone, cotto nel brodo di canocchie, il tocco amaro della cicoria, anche in polvere e quello piccante/speziato della salsa XO a base di schie essiccate, chili ed aglio che collega verso Levante, dove Venezia ha sempre volto lo sguardo, a chiudere il cerchio.
RISTORANTE LOCAL Salizzada dei Greci Venezia (VE) Tel: +39 0412411128 ristorantelocal.com
I recentissimi avvenimenti meteorologici che hanno spaccato il paese non possono lasciare indifferenti. Già in passato più o meno persistente, la voce della consapevolezza climatica è in queste ultime ore tornata a farsi sentire, portando sul tavolo prove sempre più evidenti della necessità di fare qualcosa in più, o per certi versi, di smettere di fare alcune cose. I decisori avranno di che riflettere, e non è questo il luogo per discuterne. È invece la piattaforma adatta per ricordare ancora una volta quanto la ristorazione possa giocare il proprio, fondamentale ruolo nel combattere le conseguenze del cambiamento climatico, e soprattutto quanto i fatti debbano necessariamente seguire le parole: è facile per un ristorante millantare la collaborazione con produttori di prossimità e filiera corta, solo per seguire una tendenza di mercato con grande attrattiva sul consumatore, salvo poi continuare a proporre anche ingredienti evidentemente fuori stagione, che richiedono colture intensive o enorme impatto ambientale per il trasporto. Occhio, cocktail bar, che professate sostenibilità impiegando anche gli scarti di agrume come guarnizione, tenendo però accesi essiccatori e altri apparecchi per notti intere, consumando vagonate di energia. Il vero spreco, forse, è quello di risorse non dedicate allo studio e alla ricerca per soluzioni alternative: perché abbiamo sempre fatto così, ma adesso è chiaramente il momento di cambiare davvero.
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di Alberto Cauzzi
di Alfonso Isinelli
Carlo Carnevale
Carlo Carnevale
Coordinatore editoriale digital de Le Guide de L’Espresso
CAMBIARE DAVVERO
RISTORANTE MOI OMAKASE Via Piave 10/14 Prato (PO) moiprato.it
CIOCCOLANDIA
di Antonio Franchi
MA PERCHÈ PROPRIO CIOCCOLATO?
Sull’etimologia della parola cioccolato (o cioccolata) non esiste certezza e si alternano diverse teorie. Vi è chi, facendo ricorso all’onomatopea, sostiene che la parola cioccolata riproduca il suono associato a quella bevanda mediante un procedimento tipico del fonosimbolismo, così risultando tale parola dall’unione di “xoc”, termine quest’ultimo derivato dal rumore che si ottiene quando la cioccolata (in forma di bevanda) viene sbattuta e frullata, e di “atl” (termine che nella lingua azteca significava “acqua” o “liquido”, che veniva utilizzata in abbinamento con il cacao e altre spezie per la preparazione della bevanda originaria).
In base ad una teoria che sembra la più plausibile, invece, si sostiene che la parola cioccolata sia una trasposizione fonica, dalla lingua azteca, della parola “xocoatl” (termine che sembra significasse letteralmente “acqua aspra”, formato dall’unione di “xocotl” [“frutta dal sapore aspro”] e “atl” [“acqua o liquido”, appunto]), che si narra venisse utilizzato per indicare una bevanda energetica a base di semi di cacao e mais ridotti in polvere, altre spezie e acqua. Si dice anche che gli spagnoli adottarono il termine “chocolatl” (da “xocoatl”) accostando la parola Maya “chocol” (“caldo”) con la parola Azteca “atl”, per indicare quella “acqua calda”, di colore scuro che avevano cominciato a bere. Termine che, poi, pur nelle declinazioni ricevute nelle varie lingue, è rimasto in uso sostanzialmente simile fino ai giorni nostri. Venendo, poi, all’uso del termine cioccolato/cioccolata, è interessante segnalare che l’Accademia della Crusca ha stabilito che i termini cioccolata o cioccolato siano sostanzialmente sinonimi, sia come sostantivi, (con riferimento all’alimento costituito da una miscela di cacao e zucchero, con eventuale aggiunta di aromi o altre sostanze), sia come aggettivi (nell’accezione di colore bruno scuro), segnalando, tuttavia, che il termine cioccolata è normalmente utilizzato per indicare la bevanda.
CURIOSITÀ ARTIFICIALI
Abbiamo chiesto all’AI...
La Sacher: è la torta al cioccolato più famosa del mondo, creata nel 1832 dal pasticcere Franz Sacher a Vienna. Si tratta di due strati di pan di Spagna al cioccolato farciti con marmellata di albicocche e ricoperti con una glassa al cioccolato fondente. Si serve con panna montata e si accompagna con un caffè o un tè. La Victoria Sponge: è la torta tipica del tè delle cinque in Inghilterra, dedicata alla regina Vittoria che ne era golosa. Si tratta di due strati di pan di Spagna soffice farciti con marmellata di fragole e panna montata. Si spolvera con zucchero a velo e si decora con frutta fresca. La Tarte Tatin: è la torta di mele rovesciata più famosa del mondo, nata per errore nel 1898 dalle sorelle Tatin, proprietarie di un albergo-ristorante a Lamotte-Beuvron, in Francia. Si tratta di una base di pasta brisée su cui si dispongono delle mele caramellate, che poi si copre con un altro strato di pasta brisée e si cuoce in forno. Si serve capovolta su un piatto e si accompagna con panna montata o gelato alla vaniglia. La Caprese: è la torta al cioccolato e mandorle tipica dell’isola di Capri, nata negli anni ‘20 del Novecento da un errore del pasticcere Carmine Di Fiore, che dimenticò di aggiungere la farina alla sua torta. Si tratta di una torta umida e densa, senza glutine, che si spolvera con zucchero a velo e si decora con una scorza d’arancia candita. La : è la torta al formaggio più famosa del mondo, originaria della Grecia antica ma diffusa soprattutto negli Stati Uniti, dove ha diverse varianti regionali. Si tratta di una base di biscotti sbriciolati su cui si stende una crema di formaggio fresco, uova e zucchero, che poi si cuoce in forno o si lascia rassodare in frigo. Si guarnisce con frutta fresca, marmellata, cioccolato o caramello.
PERSONAGGI
ANTONIO SANTINI
Antonio Santini lo troverete spessissimo nominato come esempio di stile, eleganza e grande levatura nella nostra rubrica “Gueridon e dintorni”. Tanti giovani più o meno affermati uomini e donne di sala lo citano come il faro a cui ispirarsi. Grande maestro di accoglienza ha creato assieme a sua moglie Nadia Santini uno dei più grandi ristoranti italiani : Dal Pescatore a Canneto sull’oglio. Antonio è figlio d’arte, cresciuto al ristorante di famiglia, ma è anche stato abituato e spronato a visitare da sempre i migliori ristoranti del mondo, dove ancor oggi, a detta sua, impara e non smette mai di crescere, di cogliere i dettagli, di annusare la perfezione dell’accoglienza. E così da una piccola trattoria di provincia ha trasformato il suo ristorante, assieme alla sua famiglia, in una delle mete più ambite dai gourmet di tutto il mondo. Che vengono qui, a Canneto sull’Oglio, non solo per degustare le prelibatezze della moglie e cuoca Nadia ma anche e soprattutto per vivere una esperienza indimenticabile grazie a lui. Il Pescatore è con Pinchiorri, Cipriani, Le gavroche, le Cirque, La Pergola un insieme di luoghi di culto dove i direttori vedono e vedevano oltre i muri. E dove l’accoglienza prima di tutto è una missione, poi una professione. Oggi la generazione successiva, i figli Giovanni in cucina e Alberto in sala, portano avanti questa tradizione e questa cultura importante con grande freschezza, vivacità e classe. Ma Antonio non si dimentica mai, è nel cuore di tutti i suoi innumerevoli clienti.
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Quali sono le torte più famose al mondo?
LE BUONE COSE… di ANDREA
L’esperto svela tutti i segreti per preparare e gustare al meglio gli ingradienti della settimana.
DISSETARSI CON L’ACQUA BIANCA
Si assomigliano per il colore. Ma il latte di mandor la ha sempre gli stessi tre ingredienti, l’orzata invece ha una variante per ogni Paese L’orzata e il latte di mandorla
Sipuòprepararefacilmente incasautilizzandoprodotti diqualità:mandorledolci, mandorleamare,acquadi fiorid’arancio,zucchero e acqua.
La coppetta gelato in estate
Se il cono configura un’estetica tutta sua con un progetto di fruizione del gelato in cui la parte voluttuosa e sensuale si intreccia con il sostegno croccante della cialda, la coppetta in estate permette una strada salvifica all’assaggio. Un discorso un po’ prosaico che salva macchie ed eccessi di velocità.
Frescume e freschino
Due termini di origine dialettale (settentrionale) che non hanno una chiara traduzione in italiano ma che delineano molto bene l’odore sgradevole che sprigionano in certi casi le stoviglie utilizzate per le uova. In estate soprattutto attenzione al servizio perché anche bicchieri e tovaglioli rischiano.
Al di là delle calorie due bevande lattiginose italiche sono un trionfo per il sorso estivo, simili eppur diverse: l’orzata e il latte di mandorla. La prima (dal latino hordeata) è tradizionalmente un termine che definiva una bevanda preparata soprattutto con orzo, ma che successivamente è stata prodotta con altre materie (cereali o semi che siano). La similitudine con il latte di mandorla è dovuta al colore (bianco lattiginoso) e al sapore che richiama la mandorla, presente all’interno (sia nella versione dolce che amara). Ovviamente va diluita con acqua fredda così da attenuarne la dolcezza. Si può preparare facilmente in casa utilizzando prodotti di qualità: mandorle dolci, mandorle amare, acqua di fiori d’arancio, zucchero e acqua. Con nomi diversi e con alcune varianti, l’orzata è conosciuta in tutto il mondo dove spesso viene utilizzata per la preparazione di bevande tipiche. E allora troviamo in Francia l’orgeat, in Grecia la soumada, a Malta la ruggata, speziata con cannella e chiodi di garofano e limone, ma forse la più famosa è la horchata valenciana, preparata con la chufa, un tubero derivante dallo zigolo dolce che conferisce alla bevanda sentori floreali e nocciolati. Senza contare la messicana “agua fresca” che tra le varie tipologie è presente proprio in una versione con riso, cannella e zucchero. Per chi vuole un tocco in più consigliamo il cocktail Mai Tai nel quale all’orzata viene aggiunto un mix di rum chiaro e rum scuro (che verrà aggiunto in superficie per creare un piacevole contrasto visivo), il succo del lime e l’orange curaçao. Un’invenzione, che i più attribuiscono a un barman di Oakland per omaggiare degli amici di Tahiti, che dal 1944 è rimasto un must dell’estate. Arriviamo allora al latte di mandorla. Corroborante e dissetante, è ricco di proprietà nutrienti e salutari. Può essere preparato in casa in modo semplice e veloce, per una parte di mandorle occorrono tre parti di acqua e un terzo di zucchero o saccarosio. Vanno lasciate in ammollo per una notte le mandorle, poi vanno sciacquate e spellate prima di metterle in un frullatore aggiungendo l’acqua e lo zucchero. Vanno tritate fino al momento in cui si presenti come un liquido bianco da filtrare con un colino per eliminare eventuali residui Per ottenere un latte di mandorle più o meno concentrato è sufficiente aumentare o diminuire la quantità di acqua, lo stesso vale per renderlo più o meno dolce. Il latte di mandorle è un ingrediente molto versatile, ottimo bevuto freddo al naturale o addizionato con altri gusti a piacere come cioccolato, vaniglia, menta, e trova largo impiego nella preparazione di frullati di frutta, nei frappè, nelle granite, nei gelati e nei budini.
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GRIGNAFFINI
DOLCE & AMARO
ENIO OTTAVIANI
Via Pian di Vaglia 17 fr. S. Andrea in Casale
San Clemente (RN)
Tel. 0541 952608
enio@enioottaviani.it
IL BUON VINO… di LUCA GARDINI
Conosciuto anche come The Wine Killer, grazie al successo del suo sito, redatto interamente in lingua inglese e dedicato alle sue degustazioni di vini da tutto il mondo, GardiniNotes. com, Luca Gardini è oggi uno stimato wine-critic a livello internazionale.
SANGIOVESE DA BERE CON AMICI
Una terra incantata, la Romagna, luogo dove la coesione di grande qualità della cucina, proverbiale ospitalità e brillantezza di una popolazione resiliente, dotata di innate doti comunicative, si trasforma in palcoscenico perfetto per le ore migliori. Ma anche territorio consistente, dalle grandi tradizioni vitivinicole, come dimostra la cantina Enio Ottaviani di San Clemente di Rimini. Siamo in Valconca, nell’Oasi Faunistica che sorge all’interno dell’antico alveo del fiume Conca, suoli di grande complessità geologica, con la loro combinazione di sabbia, limo e ghiaia in superficie, più sotto le celeberrime argille grigio-azzurre e sotto ancora sedimenti marini risalenti a circa 5000 anni fa. Realtà relativamente giovane, Ottaviani si deve all’intuito di nonno Enio, che ormai 60 anni fa fondò la prima azienda agricola, muovendosi poi nel settore del commercio del vino. Si inizia ad imbottigliare a marchio con l’annata 2007, grazie ai nipoti Massimo e Davide Lorenzi, che ora gestiscono la struttura assieme a Milena e Massimo Tonelli. 12 ettari di proprietà, cui se ne aggiungono altrettanti in gestione, in cui si coltivano soprattutto Sangiovese, ma anche Bombino Bianco (qui ribattezzato Pagadebit), Grechetto Gentile, Chardonnay, Sauvignon e Riesling. Uve che beneficiano degli influssi del vicino Adriatico, come confermano le caratteristiche dei prodotti, di bevibilità e tensione, progettati con l’idea “fare vino per gli amici”, certo, eppure, come conferma la cura riservata ad ogni aspetto della produzione, oltre agli investimenti nei nuovissimi (e spettacolari) cantina e wine shop, qui c’è davvero poco di casuale. Etichette precise, di bella nitidezza, che si incaricano del difficile compito di esprimere compiutamente l’anima varietale, raccontando nel contempo di un’arte antica e onesta, di un vino consumato soprattutto in convivialità, condito dai racconti e dalle storie che, inesauribili, raggiungono questo fatato angolo di mondo.
ROMAGNA DOP
PAGADEBIT STRATI 2022
PUNTEGGIO 93+/100
prezzo €
Una cantina capace come poche altre di restituire la vera natura dei vini romagnoli: fedeltà al territorio, identità e grande bevibilità. Questo Bombino Bianco in purezza è una conferma di vocazione, naso di cedro, susina gialla, con tocchi di timo e mughetto e finale ammandorlato, alla bocca salmastro-croccante, con ritorno officinale-floreale e ritorno ammandorlato. Consigliatissimo sia con un fritto misto alla romagnola che con un altrettanto territoriale, meraviglioso, spaghettone con le poverazze.
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I quattro cugini Ottaviani, nipoti di Enio Ottaviani, fondatore della cantina che porta il suo nome.
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ENOGASTRONOMICA ITALIANA
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IL LUSSO RUSTICO DEGLI STAZZI GALLURESI
Da vecchie stazioni di ristoro per pastori, a luoghi di ospitalità genuina e di alto profilo. Gli stazzi sono la nuova frontiera dell’accoglienza della Sardegna.
Sardegna, regione di mare cristallino abbagliante, appiattito o increspato da un vento sempre costante. Questa fotografia prettamente estiva e accaldata dell’isola mostra e racconta solo una parte minore di quello che realmente questo territorio offre. Per di più, nella Sardegna di costa e di mare c’è anche meno storia, economia e passato di quello che si può recuperare visitando l’entroterra e le zone di montagna. Dove tutt’oggi ci sono pastori e allevatori, dove l’agricoltura per quanto difficile ancora resiste, dove le case spesso sono in muratura a secco, si vedono grandi greggi sonnolenti attraversare le strade e in qualche modo la Sardegna assomiglia a qualcosa di diverso da ciò che il turismo di massa racconta.
In Gallura, nel nord-est della Sardegna, si assiste da qualche anno alla nascita di una nuova ospitalità caratterizzata da un forte ritorno alla ruralità e alla ricerca di pace e tranquillità.
Quelli che un tempo erano i vecchi rifugi di sosta di pastori e agricoltori galluresi prendono il nome di stazzi, dal latino statio ovvero stazione. Per secoli questo termine ha racchiuso il concetto di azienda contadina e contemporaneamente di costruzione abitata da padroni e mezzadri che si occupavano della campagna. Recentemente, molte di queste vecchie dimore sono state riqualificate in luoghi di ospitalità genuina, più o meno lussuosa ma sempre particolarmente intima e riservata. Gestiti da famiglie che ne hanno ereditato la proprietà o da privati che si sono appassionati alla loro storia, gli stazzi stanno vivendo una vera e propria rinascita. Le ristrutturazioni ne valorizzano l’architettura mantenendo una connessione con il territorio grazie all’uso di materiali locali, a forme e decorazioni naturalistiche oltre che alle collaborazioni con artigiani nativi della Sardegna. Ne abbiamo selezionati tre che ci hanno particolarmente colpito per coerenza di progetto, visione, qualità dei servizi e design.
Un’antica tenuta di campagna, un tempo casa di mezzadri, è ora un elegante resort con piscine e ville private poco distante da Arzachena e dalla Costa Smeralda. La proprietaria Geraldina Giovannoni, avvocato di origine fiorentina, ha trascorso le sue estati seguendo passo passo i lavori di restauro: «Volevo che Stazzo Lu Ciaccaru assomigliasse a una casa, non volevo snaturarlo. Così ho mantenuto in vita tutti gli spazi originali e ho curato personalmente ogni ambiente, accostando mobili realizzati da artigiani locali ad arredi appartenuti alla mia famiglia». Il resort ospita diciassette camere di diverse tipologie, quattro con piscina privata riscaldata e due ville.
La prima, chiamata Lo Stazzo, è una tipica dimora di pastori risalente al 1850, dove l’anima rustica è stata perfettamente conservata anche dopo il restauro ma è stata completata da comfort moderni come la piscina ad uso esclusivo e un solarium. La seconda è invece Il Pagliaio, quella che un tempo era “la casina della paglia” dove i mezzadri conservavano il fieno per il bestiame. Oggi è un’elegante villa su due piani, con tre camere fresche e silenziose, una cucina e un patio esterno. Lu Ciaccaru offre anche un ristorante, La Ciminea, dove la cucina è diretta, genuina e saporita come vuole da tradizione regionale. Continua a leggere sul sito
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THE ITALIAN TRAVELLER
di Chiara Buzzi
COCKTAILS & DREAMS
TEQUILA, SPIRITO LIBERO
Il distillato messicano per eccellenza è nel pieno di un momento d’oro, con qualità e ricerca a livelli mai visti.
Lontani, per fortuna, sono i tempi in cui le menti dei bevitori, quando il tequila faceva il suo ingresso nelle conversazioni, volavano a bottiglie anonime con tanto di vermetto sul fondo, o temibili “shot” con sale e limone ad accompagnare. La sorsata messicana per eccellenza (articolo rigorosamente al maschile) è oggi uno dei prodotti più ricercati e richiesti dal mercato del bar, forte del rinnovato interesse da parte di bartender e consumatori.
Derivato della pianta d’agave (solo l’Agave Weber, dal nome del botanico tedesco Weber Franz che ne definì le potenzialità, può essere utilizzato), il tequila è protetto da una vera e propria Denominazione d’Origine dal 1977, in base alla quale la regione di Jalisco e alcune delimitazioni limitrofe sono le uniche ammesse per la produzione, date le caratteristiche del suolo locale: vulcanico, ferroso, perfetto per donare al prodotto finale le sue note tipiche di verde, spezie, dolciastro e personalità. Le enormi piante (arrivano a poco meno di due metri) vengono raccolte a mano e cotte in forni dedicati: il parente stretto del tequila, il mezcal, deriva invece da agavi cotti in fossati e poi coperti di fogliame e altro materiale, da cui il sentore fumoso inconfondibile. Segue la macina della “piña” cotta, la fermentazione del liquido che se ne ricava e infine la distillazione, prima dell’eventuale “blend” e dell’invecchiamento. A seconda del tempo di maturazione si può avere un tequila blanco, reposado o añejo.
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di Carlo Carnevale
GASTROCKNOMIA
L’INCURSIONE FRUTTIFERA FIRMATA
THE PRESIDENTS OF THE U.S.A.
Correva l’anno 1995 e il mondo era leggermente diverso da quello che viviamo e respiriamo oggi. In Italia, Oscar Luigi Scalfaro era il presidente del consiglio, la Norvegia vince l’Eurovision Song Contest, MTV è il fedele compagno di merenda dei giovani, e quello che diventerà successivamente un colosso, Ebay, muove i primi passi. In territori musicali, invece, il mondo è orfano di Kurt Cobain e di tutto il carrozzone grunge. Seattle diventa spettrale e per tanti giovani - figli legittimi della Generazione X - si perde un punto di riferimento.
Dalle ceneri del grunge (ma in tutti i sensi visto che Seattle è nuovamente protagonista), esplodono i The President Of The Usa e la loro memorabile”Peaches”.
Il brano è stato incluso nel loro album di debutto omonimo e pubblicato come singolo nel febbraio 1996. La traccia è stata prodotta dal produttore americano Conrad Uno. I membri della band hanno riconosciuto che “Peaches”
prende in prestito riff dalla canzone dei Bad Company del 1975 “Feel Like Makin’ Love”.
Il video musicale presenta la band che esegue la canzone in un frutteto pieno di alberi che coltivano lattine di pesche. Come non associare quindi un frutto così prezioso a questo memorabile brano capace, in 28 anni, di toccare la vetta di ben 13 milioni di visualizzazioni su YouTube?
Dobbiamo essere sinceri e trasparenti: il brano in questione non è squisitamente l’omaggio alla “pesca” ma è una metafora ben chiara: il brano è una piacevole incursione nei nosense: narra di una fabbrica che produce pesche in scatola, di chi raccoglie queste pesche e le mette nei barattoli, di un tizio che vuole andare a vivere in campagna per mangiare le pesche. Il nome botanico della pesce è Prunus persica e segnala la sua provenienza dalla Persia, anche se in realtà, studi hanno rivelato che questo frutto proviene dalla Cina, dove era coltivato sin dal 2000 a.C. e da cui successivamente viene esportato in Persia. Oggi è presente ovunque, per fortuna. Alla prossima puntata.
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di Giovanni Aragona
GUERIDON E DINTORNI
MARIELLA ORGANI:
UN SERVIZIO IN EQUILIBRIO CON IL TEMPO E IL PAESAGGIO
Le riflessioni e gli aneddoti di Mariella Organi, restaurant manager del ristorante Madonnina del Pescatore di Senigallia
Si parla da tempo di emergenza di sala, del fatto che le nuove generazioni non siano così appassionate del lavoro di sala, che lo chef è la star e la figura centrale a cui tutti ambiscono, mentre invece un fulcro importante della fortuna di un ristorante è anche e soprattutto il grande lavoro di accoglienza che si opera nella sala del ristorante, dove nasce e finisce l’esperienza principale. Abbiamo deciso di creare questa rubrica non per parlare dei soliti argomenti ma per chiedere agli uomini e attori principali di questo straordinario mestiere il loro punto di vista, la loro visione e soprattutto gli aneddoti e le curiosità che stimolano e ravvivano questo mondo. Oggi ne parliamo con Mariella Organi, classe 1968. Nel 2022 è stata proclamata MAM e inserita nell’Albo d’Oro dei Maestri d’Arte e Mestieri, miglior Maitre dell’Anno 2023 per le Guide dell’Espresso, miglior Servizio di Sala Ristoranti d’Italia 2022 Gambero Rosso, miglior Donna di Sala 2015 per Identità Golose. Dal 2017 fa parte del Comitato Scientifico di Alma Scuola Internazionale di Cucina Italiana per il settore ospitalità. Dal 1994 è socio e restaurant manager del ristorante Madonnina del Pescatore di Senigallia e del gruppo Cedroni.
Cara Mariella, come hai iniziato questa professione e perché?
Mariella Organi: Ho iniziato per potermi mantenere gli studi e per essere indipendente. Il fratello e la sorella di mio padre avevano attività di ristorazione e da bambina mi capitava di passare qualche giorno da loro, di rimanere affascinata da quegli ambienti e dai loro ospiti. Ho sempre pensato che quel lavoro avesse reso questi miei zii particolarmente intelligenti e aperti. Ricordo gli anni in cui ho lavorato e studiato ricchi di energia e positività. Il tuo bilancio di questi 30 anni di carriera qual è?
Mariella Organi: Assolutamente positivo, abbiamo contribuito a cambiare la cultura adriatica, siamo diventati un riferimento di eleganza e di affabile professionalità, uno stile fatto di empatia e complicità inserito in un rarefatta cornice minimalista. Abbiamo formato e inspirato i nuovi protagonisti di questo settore che ora lavorano in Italia e all’estero. Sono stati anni di grande responsabilità, di dedizione assoluta, di attenzione e di misura. Hai degli aneddoti, curiosità, episodi che ti piacerebbe condividere con noi?
Mariella Organi: Ricordo perfettamente quando dopo aver pagato il conto, si presentò con un biglietto da visita un ispettore Michelin. Mi chiese gentilmente una copia del menù e si congedò. Era la primavera del 1995. A novembre facevamo vacanza ed eravamo in Borgogna per visitare cantine e ristoranti: Blanc, Lameloise, Loiseau. A casa arrivò il telegramma con la comunicazione della prima stella Michelin, eravamo increduli e sorpre -
si, mai avremmo sperato che potesse accadere a noi, microscopici di fronte alla grandeur dei ristoranti che stavamo ammirando.
Adesso ti chiediamo un ricordo… il ricordo di un grande uomo o una grande donna di sala che ti ha impressionato, nel tuo lungo girovagare per ristoranti, e perché ti ha impressionato.
Mariella Organi: I miei primi grandi maestri sono stati in assoluto tre donne protagoniste degli anni ’90: Livia Iaccarino, Renata Fugazzi e Emanuela Pierangelini. Donne eleganti, consapevoli del ruolo dell’accoglienza, solide nella conduzione di queste grandi case, già allora molto attente alla comunicazione del fine dining e dei movimenti turistici. I loro ristoranti erano meravigliosamente curati, caldi, ricchi di dettagli estetici esclusivi.
Poi Antonio Santini, servizio maniacale e invisibile, colto e ironico, indipendente dalle tendenze, uno degli uomini che più ha saputo dare valore alla professione e creare relazioni internazionali. La mia sala ideale tra quelle contemporanee, quella di Cristiana Romito, per rigore, coerenza e attenzione agli ospiti.
La domanda più curiosa, pertinente e intrigante che ti ha fatto un cliente? E cosa hai risposto?
Mariella Organi: Appena dopo la pandemia, un uomo d’affari mi chiese perché il ristorante fosse rimasto qui nelle Marche e non avessimo pensato di spostarci su città più importanti. Di getto ho risposto che qui siamo liberi, le persone vengono qui per noi, qui si vive molto bene, in equilibrio con il tempo e il paesaggio.
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di Alberto Cauzzi
TERRITORI A TAVOLA COMO di
Un focus immediato sul settore food ci porta lungo le rive del lago, dove a regnare è senza dubbio il pesce, mentre il microclima mite ha reso possibile l’inserimento degli ulivi sui dolci pendii e nelle zone limitrofe al grande specchio d’acqua. Spostandoci sulle montagne e nelle valli interne, vanno per la maggiore polenta, salumi, formaggi e piatti a base di carne.
Ponendo lo sguardo sulle specialità più caratteristiche della cucina lariana abbiamo il Misultitt e la Polenta Uncia . Il termine Misultitt indica un pesce di acqua dolce: l’agone, che una volta pescato, pulito ed essicato (lasciandolo appeso ad uno spago) viene sistemato in particolari contenitori di latta, le “misolte”. I pesci vengono posizionati a strati alternati con foglie di alloro e rimarranno dentro questi particolari contenitori per alcuni mesi sotto torchio, per estrarne l’olio che contengono. Al momento della consumazione, si potrà scegliere una cottura alla griglia oppure semplicemente piastrati e guarniti con una spolverata di prezzemolo. Questa tipicità della cucina comasca la possiamo accompagnare con un ottimo vino da uve di vitigno “Verdese-bianco” (unico vitigno storicamente locale).
Un territorio che con i suoi rilievi abbraccia il ramo più occidentale dell’omonimo lago, la provincia lariana presenta tradizioni enogastronomiche uniche, fondate e fortemente influenzate dalle variabili ambientali presenti nel luogo, che hanno orientato lo sfruttamento di specifiche risorse, legate al binomio lacustre e montano.
Per concludere il ricco menù della tradizione, un dolce molto conosciuto e di antica origine, è la Miascia : preparato unendo molti ingredienti come pane raffermo, uova, latte, burro, frutta, liquore e scaglie di cioccolato. Questa specialità, considerata in passato “il panettone dei poveri”, veniva impastata con ingredienti semplici, nata per riciclare il pane raffermo, in modo che mai venisse sprecato.
Ad accompagnare questo antico dolce, un passito delle Terre Lariane IGT, Indicazione Geografica Tipica recentemente riconosciuta del Ministero delle Politiche agricole nel 2008. Le Terre Lariane abbracciano anche la provincia di Lecco e presentano un territorio vario al suo interno e ricco di alcuni dei paesaggi più belli dell’ambiente alpino e prealpino, una terra che si pone come elemento di continuità tra le circostanti realtà vitivinicole del Canton Ticino, della Valtellina e delle colline bergamasche.
I vigneti terrazzati intorno al lago costituiscono paesaggi di grande pregio naturalistico, con forti pendenze, le escursioni termiche sono importanti e trasmettono ai vini prodotti: eleganza, freschezza e sapidità, espressioni di questo territorio. Come anticipato, nella cucina comasca possiamo gustare la polenta uncia (unta), un piatto molto saporito, naturalmente più adatto alla stagione fredda, nonostante sulle alture di Como sia apprezzata anche d’estate. Si tratta della classica polenta, ma che viene posta in una speciale pentola chiamata marmitta, alternandola a strati con formaggio e guarnita con un “ricco” condimento a base di burro fuso, aglio e salvia. Per questa portata così carica di sapori e profumi, è molto apprezzato un vino rosso, da uve Barbera , molto diffuso in tutto il settentrione.
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Matteo Calzaretta
Non “cosare” le animelle
Umbratili, sfuggenti, soccombenti sono le animelle, tanto utili nel giovane bovino quanto superflue nell’adulto al punto di scomparire, almeno ai fini culinari. Fors’anche per questo, per il oro fascino misterioso, sono prova irrinunciabile per la cucina d’autore, ed esame capitale per ogni buongustaio. Qui quattro versioni imperdibili.
Animella alla piemontese, barolo chinato, salsa verde e radicchio rosso.
Silvio Salmoiraghi Acquerello Fagnano Olona (VA)
Animella e Gravner.
Alberto Gipponi
Dina
Gussago (BS)
Animella e ricci di mare.
Ivan Maniago
Impronta d’Acqua Fagnano Olona (VA)
Animella d’agnello, cime di rapa e cacao.
Riccardo Agostini
Il Piastrino
Pennabilli (RN)
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ASSAGGI DI LUCE di Stefano Caffarri
Feed ‘n’ Food
Roberta Castrichella è una delle food blogger italiane più unconventional che ci siano: foto, viaggi e cibo tutto con perfetta simmetria e logica.
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Ne abbiamo girato di profili ma Francesco Mattucci è l’esplosione della creatività. Pensate a un musicista creare una hit con due accordi. Beh, il livello è quello.
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Andriana Kulchytska viene definita come “la ragazza con l’accento”. Un vero talento di simpatia capace di cucinare dei piatti deliziosi anche con due ingredienti.
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Valentina Boccia non ha bisogno di grandi presentazioni: un seguito enorme per un canale frizzante e pieno di energia: sempre con le mani in pasta e con un dolcino a portata di mano.
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