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CULTURA NUOVE RELAZIONI

tante. Le cose che ci troviamo addosso dalla nascita, che ereditiamo, che ci regalano ai compleanni e che crediamo di scegliere nei negozi finiscono per assegnarci un’identità di genere, come un oroscopo, ben prima che ci sia modo di interrogarla. Il bello è trasgredirle, queste profezie. Tuttavia, mentre è sempre stato facile esportare le cose da maschi presso qualunque identità non-maschile, è ai maschi che si tende a vietare, più o meno tassativamente, di provarsi addosso cose-non-da-maschi senza perciò negare (tradire?) la propria maschilità. Per questo quando, col collare e il kajal, hai aperto un ventaglio da femmina al Ninfeo ricevendo il Premio Strega per “Spatriati”, la gente ha avuto l’impressione che stessi facendo, come dicevi prima, propaganda».

Infatti ero pienamente me stesso e c’era anche un elemento ludico di richiamo ai protagonisti di “Spatriati” che si scambiano ruoli e vestiti nel romanzo. In molte circostanze della mia vita ho usato il kajal, ma quando ero più giovane me ne vergognavo e così quando mi si chiedeva se avessi fatto uso della matita mentivo. Per placare il mio senso di colpa di averlo pensavo mi aggrappavo al pensiero seguente “sto dicendo la verità, non ho né matita e né eye liner, questo è un kajal”, e infatti è un cosmetico che ha un pigmento molto più pastoso e meno preciso della matita o dell’eye-liner. Comunque ho mentito molte volte per difendere una parte del mio gusto, della mia identità ma anche del mio orto di frivolezze composto da cose molto distanti, come per esempio il kayal o andare in trasferta con gli ultras del Martina Franca. Ma le contraddizioni fanno parte di tutti noi. Non mi rassegno all’idea che ci si debba chiudere nei recinti. Ma ritieni che sia comodo per essere accettati?

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«Amo molto la metafora del recinto. In inglese si adopera, general- mente in senso deteriore, per parlare di chi tentenna e non sa decidere: si dice “è sul recinto”, on the fence. A me sembra che non ci sia luogo più vitale, più radicale addirittura, del ciglio di un recinto. Sono un patito di Giano, la divinità romana delle porte e delle transizioni, che ha due facce e guarda, contemporaneamente, in due direzioni. Ho scritto questo libro essenzialmente per dire a Mario, adolescente di Martina Franca, che il kajal e la trasferta cogli ultras si toccano sull’asse di un recinto percorribile. Per dire ad Alessandro, adolescente di Mostacciano, che lo smalto nero comprato in gita scolastica a Berlino si può mettere anche in sala pesi, sul tatami di un dojo, a una gara di sputi dai ponti del Laurentino. Per insegnare, soprattutto, a Mario e Alessandro come camminare agili lungo il recinto. Così magari si incontrano, e fanno amicizia».

Scrivi che hai imparato alle scuole medie che eri maschio. Racconti la tua illu- minazione quando ti rendi conto che certi pantaloni, che prima ti parevano pantaloni qualunque, non ti mettevano più a tuo agio. L’adolescenza secondo te è troppo presto o troppo tardi per iniziare a porsi la domanda “chi sono io davvero”?

«Secondo me io, da adolescente, chi ero lo sapevo già. Quel che non sapevo, e che intuivo solo per istinto e paura, era chi gli altri credevano (o meglio chiedevano, esigevano) che fossi. Volevo essere maschio, e all’improvviso scoprivo che per esserlo non bastava essere me stesso. Onestamente non credo sia un’esperienza unica e particolare, anzi. Maschi si diventa, anche, forse soprattutto, quando sembra che venga naturale. La condotta di genere, come tutti i galatei occidentali emersi dalla trattatistica del Rinascimento mediterraneo, è il contrario della natura: è un artificio, una coreografia che impariamo per dire agli altri non tanto chi siamo, ma chi vogliamo essere. Però ecco, sto già scadendo nei con-

INVENTARIO DI SIMBOLI Alessandro Giammei.

In alto: Mario Desiati, premio Strega 2022. Nella foto grande: oggetti “da maschi” voluti discorsi da professore che lancia il sasso e nasconde la mano smaltata. La domanda che credo ogni adolescente dovrebbe potersi porre senza angoscia è: chi voglio essere?».

Già, ma a quella domanda secondo me non si smette di rispondere per tutta la vita. Potremmo definirla una questione di fluidità? Insomma, secondo te, cos’è la fluidità?

«Ci sono due testi che trovo assai utili per ragionare di fluidità. Uno è “Avatar: The Last Air-Bender” (il cartone animato, non il film monnezza che ne ha tratto M. Night Shyamalan). L’altro è l’introduzione che la grecista Brooke Holmes ha scritto per un libro di lettere classiche intitolato “Liquid Antiquity”. In entrambi questi capolavori l’acqua non è tanto una metafora quanto uno strumento cognitivo. Immaginando le verità cui ci affidiamo non come concetti solidi, ma liquidi, permettiamo loro di fare una serie di cose che altrimenti gli sarebbero precluse: sgocciolare, imbevere, mescolarsi irrevocabilmente, scorrere, adottare qualunque forma senza mai diventare, sostanzialmente, altro da sé».

Insomma la libertà! Mi chiedevo se avessi nella tua libreria la “Psicologia del fascismo” di William Reich. Un potere autoritario inizia col reprimere la libertà sessuale. Forse le persone più libere non sono i seduttori o i promiscui, ma coloro che accettano la libertà degli altri.

«Non leggo Reich dai tempi del dottorato, ma hai perfettamente ragione: egli mi abita, forse anche perché, da quando vivo in America, cerco di capire Deleuze e Guattari, che senza l’antifascismo anti-normativo di Reich non si possono capire. I maschi più anziani con cui dibatto di cose da maschi finiscono sempre per dirmi che i libertini erano i veri maschi rivoluzionari, che quel che propongo io è solo un consolatorio prontuario di scuse per la timidezza. Invece esercitarsi a godere della libertà altrui è il massimo tirocinio alla felicità sessuale».

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