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L’antifascismo è un sentimento Parola di Cervi

Adelmo Cervi parla del diffuso neofascismo italiano sopravvissuto nei decenni, strisciante nelle cronache, irrobustito nel Paese e batte i pugni sul tavolo, grida: «È uno schifo totale, un obbrobrio per il vivere civile, un insulto alla storia della mia famiglia, a chi ha combattuto per avere un po’ di libertà e un po’ di giustizia in questo Paese». A ogni pugno il tavolo di legno centenario traballa. Siamo in provincia di Reggio Emilia in una casa contadina, la casa della famiglia Cervi ai Campi Rossi di Gattatico, simbolo di un antifascismo generoso incarnato dai sette fratelli che all’alba della guerra partigiana, nel 1943, pagarono con la vita il tentativo di far germogliare la Resistenza in Emilia. Adelmo Cervi è il figlio di Aldo, uno dei fratelli. Ottant’anni anagrafici, trentaquattro percepiti. Nei suoi occhi c’è la forza di quel che si è sempre sentito raccontare, mai vissuto: lieve nostalgia, una passione quasi antropologica per la giustizia: «L’antifascismo è un sentimento. Ma non servono celebrazioni, commemorazioni di morti. Serve far vivere l’insegnamento». Adelmo incarna la storia del nostro Paese. Fisicamente. Le mani nodose che disegnano nell’aria, il volto intenso solcato dalle rughe e dalle responsabilità pesanti di chi da quando è nato coltiva «un sentimento».

«Di mio padre ho sempre conosciuto il mito, mai l’uomo. Chi era veramente, non lo so». Aveva pochi mesi quando è stato ucciso. È di questo che parla

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“I miei sette padri”, il documentario girato da Liviana Davì. Di un figlio alla ricerca. Di memoria e di assenza. Di cosa resta di un padre che non c’è più eppure è così vivo in ogni celebrazione, in ogni via, in ogni statua, in ogni piazza d’Italia: «Questo mito si è portato via mio padre. Mi ha lasciato in cambio soltanto un nome e una lapide per poi fare di lui un pezzo di un monumento unico, una statua a sette teste, sette uomini, sette vite, sette morti, sette medaglie». Nell’anno in cui si celebra l’ottantesimo anniversario dell’eccidio dei Cervi, “I miei sette padri” racconta l’eredità dei fratelli antifascisti attraverso lo sguardo di Adelmo, sapientemente circondato di testimonianze inedite: le pellicole 8 mm girate da Mario Cervi (figlio di Agostino) negli anni ’80, i passi tratti dal libro scritto da Adelmo assieme a Giovanni Zucca e ancora foto, documenti e archivi della famiglia.

La Famiglia

Alcide Cervi, (18751970) al centro della foto scattata nel 1950 con le due sorelle, Rina e Diomira, le due vedove di due dei sette fratelli Cervi, gli orfani e i nipoti

Per l’occasione a L’Espresso Adelmo apre le porte di Casa Cervi dove il 26 marzo, anniversario della morte di Alcide, padre dei sette, si presenterà in anteprima il film.

Entriamo nella casa-museo che rimanda subito al mondo contadino scomparso: aratri, telai, bidoni per il latte. Ovunque appaiono le immagini dei sette, di papà Alcide Cervi e della mamma Genoveffa Cocconi. Adelmo tutto vestito di rosso è un fiume in piena: l’antifascismo, il governo Meloni, la nuova segretaria del Partito Democratico, le nuove generazioni. «Sono figlio di Aldo Cervi e di Verina Castagnetti. E a dire la verità un po’ ce l’avrei anche su con questo mito. La storia non era di sette comunisti rivoluzionari alla Che Guevara, mio padre era contadino e lo è rimasto. Solo che si è ribellato alle ingiustizie. Ed è la cosa più naturale».

Il padre di Adelmo «era la testa della famiglia». Formatosi in una particola-

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