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PULIZIA ORBITALE SFIDA E BUSINESS
SPACE ECONOMY
DI MATTEO MARINI*
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PULIZIA ORBITALE:
SFIDA E BUSINESS
COME IL FUTURO UNICORNO SPAZIALE D-ORBIT INTERPRETA LA MINACCIA DELLA COMPROMISSIONE DELL’ORBITA BASSA
Ordine e pulizia, proprio come si fa (o si dovrebbe fare) per il traffico su strada o i rifiuti urbani. Il problema dei detriti e dei relitti spaziali, che affollano soprattutto le orbite basse attorno alla Terra, si dovrebbe risolvere così: “Si chiama space traffic management, abbiamo capito che il problema dei debris è in realtà un problema di logistica spaziale” sintetizza Stefano Antonetti, Vp business development di D-Orbit, l’azienda italiana che diventerà
presto un “unicorno” spaziale
tricolore. Si quoterà al Nasdaq entro il terzo trimestre del 2022, attraverso la fusione con Breeze Holdings Acquisition Corp. per arrivare a un valore di 1,28 miliardi di dollari. Un successo arrivato per la visione con cui è nata: fare ordine, appunto, dove invece regna ancora il caos. O quasi. Basti pensare a ciò che è successo in poche settimane, a fine 2021: quasi di tutto, tranne l’irreparabile. Il 15 novembre la Russia ha distrutto intenzionalmente un proprio satellite, un relitto in orbita dal 1982, con un missile (si veda l’articolo a pagina 26). Una dimostrazione di forza, come ce ne sono state altre in passato. Poche ore dopo, a bordo della Stazione spaziale internazionale, gli astronauti si sono rifugiati nelle capsule, pronti, in caso l’avamposto orbitante fosse stato investito dalla nuvola di detriti, a una evacuazione di emergenza. Secondo gli Stati Uniti, dall’annientamento del relitto sovietico sarebbero scaturiti almeno 1500 frammenti tracciabili più altre centinaia di migliaia di oggetti più piccoli, tutti proiettili che
viaggiano a oltre sette chilometri al
secondo. A dicembre ha fatto il giro del mondo la protesta ufficiale della Cina, in sede Onu. Oggetto della lamentela sono i satelliti Starlink (articolo a pagina 24): Pechino sostiene che in almeno due occasioni la Stazione

» Rappresentazione grafica dello space tug Ion di D-Orbit in azione.
spaziale cinese, la Tiangong, ha dovuto eseguire manovre (collision avoidance) per evitare di incrociare la strada di due satelliti di Elon Musk, ad aprile e a ottobre. Giusto qualche settimana prima, a novembre, la Stazione spaziale internazionale era stata costretta a una manovra per evitare uno dei migliaia di frammenti di satellite distrutto proprio dalla Cina in un test missilistico del 2007. Al di fuori della follia bellica di bombardare satelliti non più in uso, la “questione Starlink” è tuttavia una sintesi esemplare del problema. SpaceX ha lanciato ormai più di 2000 satelliti per la connessione Internet globale. Alcune centinaia pare (non ci sono dati ufficiali) siano già deorbitati autonomamente. Ma il programma è di lanciarne fino a 40mila. A questi vanno aggiunti tutti gli altri micro, nano, cubesat, e grandi satelliti di privati, agenzie spaziali e governi. Mai così tanti nella storia dell’umanità. E come in qualsiasi storia umana, un problema che va risolto è un’occasione di business. E allora torniamo a D-Orbit, il nome della compagnia già dice molto. Nata nel 2011 proprio con l’ottica della sostenibilità nello spazio: “D-Orbit è nata per trasformare i debris spaziali in opportunità, con un’idea molto pratica di logistica nello spazio - spiega Antonetti - sulla Terra le strade sono pulite dalla spazzatura, perché c’è un sistema che permette la gestione dell’eccesso. Nello spazio è la stessa cosa. Lasciare satelliti in orbita quando non servono più è come buttare la carta a terra, o lasciare un’auto ferma senza benzina o rotta in strada. Solamente negli scorsi due anni sono stati lanciati più satelliti dei 60 anni precedenti. Per risolvere il problema bisogna, quindi, anzitutto smettere di creare debris, rimuovendoli a fine vita”. Una delle soluzioni è applicare un dispositivo intelligente che, in autonomia, sposti il satellite fuori dalle vie più battute. Spingendolo verso il basso per bruciare in atmosfera come una stella cadente, o verso l’alto, dove non dà fastidio. D3, il nome del sistema, è un “deorbit kit” già testato da D-Orbit una volta nel 2017. L’azienda ha firmato un contratto con l’Esa per il suo sviluppo. Obiettivo? Far deorbitare Vespa, un adattatore per payload utilizzato sul vettore Vega. Ma D3 è studiato per essere come il secondo pilota di un satellite: “È, diciamo, furbo, perché deve capire se c’è un malfunzionamento. Se il satellite ‘muore’, da Terra non lo puoi più controllare. D3 lo capisce e si orienta verso l’orbita di rientro. A propulsione verde, con un carburante molto più green dell’idrazina, che è molto tossica”. Alla sede di D-Orbit, a Fino Mornasco, in provincia di Como, si immagina però uno scenario più “futuristico”, una flotta di robot orbitanti che, “a chiamata”, possano fare servizio di rimorchiatore. Si parte dal prodotto “di punta” dell’azienda, Ion, il taxi per satelliti
che farà anche da “carro attrezzi”
spaziale: “Ion, per ora, trasporta satelliti, ma sarà anche uno space
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tug, un rimorchiatore. Un cliente commerciale, per esempio, potrebbe dire ‘mi sposti quel satellite? - racconta Antonetti - perché la sua evoluzione sarà andare a prenderli per spostarli in una posizione migliore, in un’orbita cimitero, anche di pochi chilometri per toglierli dalla zona più congestionata. Oppure deorbitare. Idealmente, parlo di una costellazione di carrier nello spazio. Abbiamo moltissimi test da fare, di rendezvous, con bersagli virtuali, missioni di inspection. La prima entrata in scena del servizio di rimozione la prevediamo per il 2024”. Siccome il sistema propulsivo di Ion sono proprio i D3, lo sviluppo corre in parallelo: “Abbiamo lanciato quattro Ion negli ultimi 15 mesi, nel 2022 ne lanceremo almeno cinque e contiamo di lanciarne 13 nel 2023, e quindi possiamo testare moltissimo”. La piattaforma Ion è come una specie di jolly, già capace di molte cose, prima di deorbitare: “La missione di trasporto finisce dopo pochi mesi, ma il carrier ha una vita utile più lunga - conclude Antonetti - come usiamo questo tempo? Ospitiamo payload, esperimenti o dimostratori tecnologici di altre aziende, come telecamere, telescopi, software star trackers. Poi stiamo riempiendo
questi satelliti di potenza
computazionale, per creare una sorta di cloud computer nello spazio”.
*MATTEO MARINI GIORNALISTA SCIENTIFICO, EX ARCHEOLOGO, SCRIVE DI ASTRONOMIA, MISSIONI SPAZIALI E AMBIENTE. ALLEVA GIOVANI REPORTER ALLA SCUOLA DI GIORNALISMO DI URBINO.