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DI WALTER RIVA
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A COLLOQUIO CON ALBERTO BUZZONI CACCIA AGLI SPACE DEBRIS
UN PROBLEMA SEMPRE PIÙ ATTUALE E DALLA SEMPRE PIÙ DIFFICILE SOLUZIONE, ANCHE A CAUSA DI CARENZE LEGISLATIVE SOVRANAZIONALI
Il 2 aprile 2018 la stazione spaziale cinese Tiangong-1 precipitò sulla Terra, probabilmente nell’Oceano Pacifico meridionale, destando allarme e preoccupazione, in gran parte ingiustificate, in ogni angolo del globo. La storia si è in parte ripetuta lo scorso maggio, quando un frammento del razzo cinese Lunga Marcia 5B, che ha lanciato in orbita un componente della nuova stazione spaziale cinese, la Tiangong-3, è rientrato in modo incontrollato sulla Terra, finendo la sua corsa nell’Oceano Indiano. Più recentemente, gli astronauti della Stazione spaziale internazionale (Iss) hanno dovuto rifugiarsi cautelativamente nelle due navette, una Soyuz e una Crew Dragon, sempre attraccate alla Stazione, perché i detriti di un vecchio satellite spia russo non più operativo, fatto esplodere con un missile a novembre 2021, avrebbero potuto collidere con la Iss, provocando lo scenario immaginato dal film di fantascienza Gravity, dove la Iss viene disintegrata da una pioggia di detriti originata dalla collisione fra due satelliti in orbita. Ancora, nelle Space News di questo numero riportiamo la notizia dell’esplosione del satellite meteorologico cinese YunHai 1-02 avvenuta a marzo dello scorso anno a causa della collisione con una piccola scheggia associata al vettore di lancio Zenit-2 del satellite russo Cosmos 2333, in orbita dal 1996. E proprio nei giorni in cui leggerete questa rivista, è probabile che un detrito spaziale sia finito addirittura sulla Luna: inizialmente creduto un pezzo di un razzo Falcon 9 di SpaceX, è stato infine identificato con uno stadio della missione lunare cinese Chang’e 5-T1 (inquadra il QR a pag.13 per un servizio dedicato al tracking di questo detrito). Tutti questi avvenimenti, più volte ricordati anche in altri articoli di questo numero, sono accomunati da un filo comune: il problema crescente degli space debris cioè dei detriti spaziali lasciati in orbita a seguito degli innumerevoli lanci che ormai caratterizzano la normale attività degli enti spaziali governativi e delle industrie private.
Per aiutarci a districarci in questo labirinto di “spazzatura spaziale” (non a caso gli esperti americani preferiscono usare il termine letterale di space junk) abbiamo chiesto aiuto ad Alberto Buzzoni, astronomo associato Inaf presso l’Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna. Dopo essersi occupato per molti anni dello studio della popolazione di galassie nell’Universo ha alla fine applicato queste esperienze allo studio della popolazione dei detriti spaziali “terrestri”, diventandone un vero e proprio esperto, e rappresentando l’Inaf nel Comitato di Coordinamento e Indirizzo di Ocis, l’organismo governativo per il coordinamento dell’attività nazionale di Space surveillance and tracking, in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e la Difesa.
SEMBRA CHE IL PROBLEMA
DEI DETRITI SPAZIALI
SIA DIVENTATO DAVVERO
IMPORTANTE. MA DI CHE COSA STIAMO PARLANDO,
QUANDO CI RIFERIAMO
A QUESTI OGGETTI?
Parliamo di satelliti “dismessi”, cioè oggetti che hanno finito la loro vita operativa, ma continuano ugualmente a orbitare, di stadi interi o parti di lanciatori e rottami vari (si va dai bulloni ai fiocchi di vernice) generati durante i lanci, oppure a causa di esplosioni a bordo, oppure ancora come esito di esperimenti militari “anti-satellite”. Perfino il fumo dei razzi può essere considerato fonte di detriti spaziali, perché, nel caso dei propellenti solidi, i lanciatori rilasciano in quota grumi di ossidi di alluminio che rientrano molto
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lentamente, nelle settimane e nei mesi seguenti a ogni lancio. Mediamente, ogni anno ricadono in atmosfera circa 400 oggetti di dimensioni simili a quelle di una motocicletta fino a quelle di un pullman (satelliti integri o stadi di vettori), ma questa è una stima largamente per difetto, che non tiene conto delle migliaia di detriti più piccoli e che in ogni caso è destinata ad aumentare a causa dell’aumento dei lanci. Negli ultimi anni stiamo inoltre assistendo a una crescita esponenziale dei mini e micro-satelliti (i cosiddetti cubesat) che (per adesso) popolano la fascia orbitale bassa (Leo, Low-Earth orbit) tipicamente a quote di 300-600 km. Questo aumento è certamente favorito anche dal crollo dei costi di accesso allo spazio (per le orbite Leo siamo attualmente a tariffe dell’ordine di 2000 euro per kilo di carico utile lanciato) e dalla maggiore offerta di lanciatori, anche privati. Possiamo identificare l’anno 2017 come uno spartiacque in questo contesto: da quell’anno, infatti, il numero dei lanci privati ha superato quello delle agenzie governative. Questo ha inevitabilmente indotto un cambio di paradigma, riconsiderando l’accesso allo spazio non più (solo) con finalità esplorative quanto piuttosto di sfruttamento commerciale.
SI PUÒ INDIVIDUARE
LA CAUSA CHE STA ALLA BASE DEL PROBLEMA
DEGLI SPACE DEBRIS?
Il vero problema della vicenda è come un Giano bifronte: la maggiore facilità dell’accesso allo spazio sta portando inevitabilmente all’aumento del numero degli attori, ma il tutto continua ad avvenire in una sorta di anarchia planetaria, con l’assenza quasi totale di legislazione o comunque di regolamentazione condivisa. L’approdo allo spazio è diverso da tutte le altre attività umane: per esempio, il naturale paragone con il traffico aereo in realtà è solo parziale, poiché mentre nel caso degli aeromobili si può parlare ancora di un contesto di navigazione per “spazi aerei nazionali”, in orbita la situazione è drasticamente differente, a causa delle velocità in gioco. Basti pensare che, muovendosi a 7 km al secondo, la Stazione spaziale è in grado di sorvolare l’intero territorio italiano in meno di tre minuti, passando poi sopra altre decine di stati differenti nel corso dei 90 minuti della sua orbita. Per avere qualche effetto, la regolamentazione dovrebbe quindi essere non più a livello nazionale, ma addirittura a livello planetario, ed essere estesa agli operatori privati e governativi di tutti i singoli stati. Ora, come ci insegnano anche altre vicende umane, trovare l’unanimità in questi frangenti è estremamente complicato soprattutto quando ci sono enormi interessi in gioco: industriali, commerciali, militari. Qualunque tentativo normativo dovrebbe poi tenere conto dell’ulteriore complicazione che gli oggetti in orbita appartengono al Paese che ha lanciato il satellite, cioè che gli Stati mantengono la proprietà degli oggetti lanciati nello spazio extra-atmosferico anche quando essi ritornano sulla Terra, sul territorio di un’altra nazione, ma le sedi legali delle società sono spesso ubicate da un’altra parte, per esempio in Paesi che offrono una legislazione fiscale più favorevole.
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DI WALTER RIVA

» La nuvola di debris maggiori di 1 metro secondo una simulazione dell’Esa. Notare l’affollamento nelle orbite basse e geostazionaria.
È POSSIBILE L’EFFETTO
IPOTIZZATO DALLA
SINDROME DI KESSLER,
CIOÈ UNA CONGESTIONE
TALE DI SPACE DEBRIS DA RENDERE IMPOSSIBILE
IL LANCIO DI ALTRI SATELLITI?
Grosso modo, la popolazione degli space debris scala in numero in base all’inverso della superficie dell’oggetto. Per esempio, gli oggetti di dimensione del millimetro sono circa cento volte di più di quelli di dimensione centimetrica, e circa un milione di volte di più di quelli di dimensione del metro. Grazie alla più favorevole visibilità nel rilevamento ottico o radar da terra, gli oggetti in orbita “noti” e censiti sono i circa 24mila maggiori di 10 cm. Attenzione qui alla parola “censiti”, che significa non solo conoscerne il pedigree di origine e le caratteristiche fisiche, ma anche l’orbita attuale. Per oggetti in Leo, l’orbita è continuamente soggetta a perturbazioni rilevanti, dovute al fatto che la Terra non è esattamente sferica. A quote maggiori, poi, si somma la piccola, ma continua, attrazione del Sole e della Luna. La stessa luce solare esercita una pressione sulle superfici dei corpi in orbita, a seconda del loro colore e della loro lucentezza, introducendo una perturbazione che diventa importante negli oggetti più piccoli (vedi l’articolo a pag. 68, ndr). La somma di tutte queste perturbazioni richiede quindi un aggiornamento continuo dei parametri orbitali, con frequenza giornaliera per gli oggetti in Leo e ogni 4-5 giorni per gli oggetti a quote superiori. Solo una frazione minima (alcuni percento) degli oggetti compresi fra i 10 e i 20 cm è nota e censita, mentre ancora “terra incognita” è la popolazione dei detriti di dimensione centimetrica o meno. Quelli fra 1 cm e 10 cm destano particolare preoccupazione, poiché alle velocità orbitali l’energia di impatto di questi “sassolini” è di gran lunga superiore a quella di un colpo di cannone di carro armato. Oggetti più piccoli di 1 cm possono certamente perforare la tuta (e il corpo) di un astronauta
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» La nuvola di debris maggiori di 10 cm in una simulazione dell’ESA. Gli oggetti censiti di questa dimensione sono oltre 24mila, ma molti sfuggono al censimento in particolare nel range della decina di centimetri.
durante una passeggiata spaziale e fare ammaccature profonde (ma non fatali) in un’astronave, mentre dimensioni anche di poco maggiori possono causare perforazioni nelle lamiere, fino a causare l’esplosione e la distruzione totale del bersaglio raggiunto. Poi c’è la questione della possibile reazione a catena, mutuata da quanto avviene nelle centrali nucleari a fissione, ma con una differenza importante però, cioè che nello spazio gli oggetti sono allo stesso tempo proiettili e bersagli, rendendo realistico una sorta di “effetto domino”. Per certi aspetti, quindi, uno scenario simile a quello presentato dal film Gravity potrebbe anche diventare plausibile. Per fortuna, non siamo ancora a quel livello di rischio, ma il fenomeno sta evolvendo in modo più che lineare.
I DETRITI SPAZIALI
VENGONO CENSITI E COSTANTEMENTE SEGUITI
DA TERRA E DALLO SPAZIO?
Il censimento è una questione centrale per la sorveglianza “passiva” del traffico spaziale ed è alla base del concetto di Space Surveillance and Tracking. Ci sono “uno, nessuno, centomila” oggetti che vediamo una sola volta ma che poi perdiamo e facciamo fatica a re-identificare nelle ore e nei giorni seguenti, se l’orbita non viene definita subito e aggiornata con la cadenza necessaria. L’osservazione avviene sia in ottico che per mezzo radar, ad alta frequenza, in grado di rilevare il passaggio di oggetti di alcune decina di centimetri, se “volano bassi” e la potenza di illuminazione radio, da terra, è adeguata. Tuttavia, il problema in questo caso è l’alta velocità angolare e il tempo di transito che, nel caso in cui si usi un radiotelescopio come ricevitore, è dell’ordine di pochi secondi per gli oggetti più veloci. In ottico, il campo di vista è spesso ancora più piccolo e il tempo transito è dell’ordine di un secondo o meno. Pertanto, si deve aumentare il campo di vista (con le relative complicazioni e criticità nella progettazione), oppure bisogna dotare lo strumento di un’adeguata movimentazione per il tracking.
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» La nuvola di debris maggiori di 1 cm in una simulazione dell’Esa: si tratta di milioni di oggetti.
Nel caso del radar, inoltre, va considerato che lo strumento deve anche “illuminare” l’oggetto (se questo non è “cooperativo” di suo), in modo da captarne il segnale riflesso. Siccome il segnale di andata decade con la distanza al quadrato e altrettanto perde durante il tragitto di ritorno, la sensibilità di rilevamento radar diminuisce rapidamente (con la quarta potenza della distanza) man mano che la quota aumenta. Al contrario, per un telescopio ottico, oggetti troppo bassi solcano il cielo troppo velocemente; quindi, un telescopio è più efficiente nel vedere e seguire oggetti più lontani, a patto che questi siano illuminati dal Sole e solo durante le ore notturne. Le due tecniche di rilevamento sono complementari: il radar può vedere anche di giorno e tende a essere “miope” (cioè vede meglio “da vicino”), mentre il telescopio ottico può operare solo di notte (e con il cielo sereno) e tende ad essere “presbite” (cioè vede meglio “da lontano”). La quota che demarca le differenti zone di lavoro, fra radio e ottico, si situa circa a 1000 km. Per le attività di sorveglianza, vanno infine considerati gli aspetti economici poiché - non piccolo dettaglio - in termini di costi per ora di operazione, un radar è circa due ordini di grandezza più caro rispetto a un telescopio ottico. Il che rende la capacità radar quasi esclusivo appannaggio delle applicazioni militari.
COME È ORGANIZZATA
LA SORVEGLIANZA
DEGLI SPACE DEBRIS? ESISTONO RETI MONDIALI, CONTINENTALI, NAZIONALI?
La rete europea, di cui l’Italia fa parte a pieno titolo in quanto ne è fra i cinque Paesi fondatori, è la European Space Surveillance and Tracking (Eusst), un consorzio costituito attualmente da sette Paesi (ma in rapida crescita) tramite le loro agenzie spaziali: Italia, Francia, Germania, Polonia, Romania, Spagna e Portogallo. In verità, questi ultimi due Paesi, in mancanza di una agenzia spaziale costituita, partecipano rispettivamente tramite il Cdti (la Spagna), un’organizzazione pubblica per lo sviluppo tecnologico e industriale, e tramite la propria Marina militare (il Portogallo). Anche l’Agenzia spaziale europea (Esa) si occupa della questione space debris, tramite un programma specifico e un ufficio dedicato che ha sede a Darmstadt in Germania. Nell’ambito dell’Eusst, ogni nazione ha, diciamo così, il suo stile di partecipazione e ognuno apporta la sua dote di strumentazione e struttura organizzativa di appoggio, per esempio la Romania mette a disposizione i suoi radar, il Portogallo ha il vantaggio di possedere le isole nell’Atlantico consentendo così un’estensione territoriale del tracking, la Polonia vanta una dotazione di piccoli telescopi sparsi in diverse zone del mondo e così via. L’Italia partecipa come Difesa, in particolare l’Aeronautica Militare, come Asi e come Inaf, gli stessi enti che danno vita e forma all’Organismo di Coordinamento e di Indirizzo per le attività di Space Surveillance and Tracking (Ocis), che ha compiti di Sst nell’ambito di Eusst. I dati di Eusst sono disponibili gratuitamente per qualsiasi entità pubblica o privata che abbia qualche titolarità a ricevere informazioni e che si iscriva al servizio. Anche il database della corrispondente iniziativa americana Norad è pubblico nella sua quasi totalità mentre il servizio di informazione russo mette a disposizione solo una parte dei

» La cupola del telescopio “Cassini” a Loiano, in una immagine invernale di Ivan Bruni (Oas).
dati di natura “non classificata”, raccolti attraverso la rete mondiale Ison (International Scientific Optical Network), coordinata dall’Accademia delle Scienze russa, attraverso il Keldysh Institute of Applied Mathematics di Mosca. Esiste naturalmente anche una sua omologa (e più importante) rete militare, il progetto Krona, i cui dati sono del tutto riservati.
CHE COSA SI PUÒ FARE PER MODIFICARE QUESTA
SITUAZIONE CHE STA CREANDO PROBLEMI ALLO SVILUPPO DELLE ATTIVITÀ
SPAZIALI E RISCHIA
DI CREARNE MOLTI
DI PIÙ IN FUTURO?
Il principale problema, a mio avviso, è la mancanza di una legislazione sovranazionale condivisa, che normi le modalità di accesso allo spazio, specialmente nelle orbite Leo e per fini di sfruttamento commerciale, un processo già in atto ma che esploderà in questo decennio. Va inoltre trovato un accordo sulle modalità degli esperimenti anti-satellite militari (già ora nominalmente proibiti), che sono copiosa fonte di detriti tutte le volte che si “spara” a un bersaglio in orbita per distruggerlo. Occorre trovare un terreno comune sulla space diplomacy e mancano risorse anche umane in questo ambito. Ecco, quella dei “diplomatici spaziali” è un’area di intervento in grande crescita ed è opportuno che noi come Italia manteniamo uno spazio di azione per il nostro Paese. Posso fare un ragionamento analogo, in quanto al vuoto legislativo, pensando allo space mining, cioè lo sfruttamento delle risorse minerarie della Luna o degli asteroidi. Ambito nel quale, per esempio, gli Stati Uniti e il Lussemburgo hanno predisposto una legislazione a loro vantaggio. A lato di tutto questo c’è poi un discorso geopolitico più generale che riguarda alcuni dei paesi emergenti (pensiamo al Brasile, all’India, addirittura all’Iran o alla Corea del Nord), per i quali l’accesso allo spazio, prima ancora di essere visto in termini di progresso sociale ed economico, è principalmente motivo strategico per “mostrare i muscoli” e accreditarsi nel contesto internazionale come potenze politiche regionali. In definitiva, tornando alle possibili soluzioni “attive” al problema dei detriti spaziali, possiamo dire che la strada più realistica che si va affermando non è tanto quella di limitare i lanci, quanto piuttosto di intervenire preventivamente e in misura mirata, attraverso attività di in-orbit servicing con satelliti “spazzini” che vadano a catturare solo quei satelliti “a fine vita” di maggiori dimensioni (si parla di 4-5 missioni all’anno), potenziali fonti di proliferazione di detriti più piccoli in caso di collisione in orbita. Come si può intuire però, il problema principale in questo caso sono i costi proibitivi di simili missioni “a perdere” (dal punto di vista del profitto commerciale), e quindi la domanda inevasa è: chi paga? L’evoluzione delle condizioni di mercato nell’ambito spaziale definiranno presto i limiti e le condizioni di questo tipo di approccio “attivo” al problema della Sindrome di Kessler. Resta, in ogni caso, ingestibile qualunque azione di pulizia “attiva” dei detriti più piccoli in orbita: per questi (almeno alle orbite Leo sotto i 500 km) bisogna solo confidare nel lento (ma per fortuna inesorabile) effetto di spazzino dell’attrito atmosferico, su scale di azione di diverse decine di anni.
I PROGETTI IN CORSO VANNO DAL RACCOGLIERE
I DETRITI, A DEVIARLI SU ORBITE POCO AFFOLLATE,
A DE-ORBITARLI FINO
ALLA DISTRUZIONE IN
ATMOSFERA. QUALE DI
QUESTI METODI È PIÙ PROMETTENTE?
Saltare da un’orbita all’altra non è un’operazione semplice: richiede notevoli costi materiali di propellente e adeguata capacità di manovra dell’astronave, nonché ottime conoscenze teoriche di astrodinamica per ottimizzare la navigazione e le complesse manovre necessarie. Questa premessa, per dire che dal punto di vista di una nazione che possieda asset spaziali, dimostrare che si è in grado di modificare autonomamente l’orbita di un proprio satellite è essa stessa dimostrazione di potenza militare, anche perché alcuni piccoli satelliti di quella nazione, mascherati da detriti, potrebbero avvicinarsi a satelliti di altre nazioni e diventare delle spie o perfino degli incursori distruttivi. Queste tecniche di space-war e cyberwar sono già in atto e noi come Ocis ci siamo già trovati a dover gestire alcuni di questi casi di potenziale
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DI WALTER RIVA

» Una veduta interna della cupola del “Cassini”, durante una pausa delle osservazioni notturne di Sst, con Alberto Buzzoni (Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio) e Germano Bianchi (Istituto di Radioastronomia, Bologna).
coinvolgimento per satelliti europei in orbita. Ciò detto, dal punto di vista delle attività di in-orbit servicing, c’è sicuramente molto spazio, anche in Italia, per start-up magari provenienti dai politecnici sia per il controllo in orbita che per il tracking o per le varie attività del segmento di controllo a terra. Nel caso delle missioni di “pulizia” in Leo, il “satellite spazzino” dovrà contenere le sue dimensioni per non essere troppo costoso e quindi si pone il problema di come un oggetto piccolo possa spostare o ingabbiare un oggetto molto più grande di lui. Sono anche allo studio soluzioni “ecosostenibili” in partenza, che prevedano cioè, al momento del lancio di un nuovo satellite, anche il processo di de-orbiting. Da questo punto di vista l’Esa è all’avanguardia, essendosi dotata di un ufficio e di un programma apposito, il CleanSat. Esso prevede che un nuovo satellite debba rimanere operativo in orbita non più di 25 anni e che debba essere prevista fin dall’inizio la modalità di dismissione una volta terminata la sua vita attiva. Tecnicamente, le operazioni di deorbiting sono fattibili in molti casi, anche se sono molto più difficoltose per i cubesat e per i satelliti di piccole dimensioni come gli Starlink, ma comportano comunque dei costi aggiuntivi. Per esempio, nelle orbite Leo, questo obiettivo si può raggiungere aumentando di molto la superficie di attrito del satellite (gonfiando appositi air-bag, oppure dispiegando “vele” sottili), in modo da accelerare il rientro in atmosfera. Si tratta in sostanza di una procedura di de-orbiting naturale, sperando ovviamente che il sistema funzioni correttamente dopo anni di permanenza nello spazio. Torniamo però al punto di partenza: in assenza di un ambiente legislativo che imponga (o renda finanziariamente o fiscalmente ineludibili) certe procedure, ogni soluzione è lasciata alla buona volontà degli attori, pubblici e privati, che partecipano allo spazio. Nel contesto attuale, inoltre, nemmeno le regole di ingaggio per manovre di collision avoidance, in caso di traiettorie conflittuali fra satelliti operativi, sono definite in maniera univoca. Sarebbe importante almeno stabilire prassi operative condivise su chi debba intervenire e provare a spostarsi. Potrebbe essere sensato, per esempio, dare la precedenza a chi era in orbita da prima e quindi imputare la mossa all’altro satellite che è arrivato dopo. Sembrano casi isolati, ma sono destinati a crescere; già adesso ogni anno si contano 3-4 manovre della Iss per evitare potenziali impatti con i debris.
IN ITALIA, AL DI FUORI
DELLA RISTRETTISSIMA
CERCHIA DEGLI ADDETTI AI LAVORI, C’È SENSIBILITÀ
SU QUESTI PROBLEMI?
L’Italia ha acquisito consapevolezza nel 2018 con la caduta della Tiangong-1: il Dipartimento della Protezione civile si è interessato all’avvenimento con un Tavolo tecnico, coinvolgendo, oltre a Ocis, tutti gli enti di vigilanza e controllo espressamente previsti dalla legge. Le azioni operative di messa in sicurezza o in pre-allarme, soprattutto degli asset industriali e strategici sul territorio nazionale, hanno in qualche modo inaugurato e definito una prassi che va consolidandosi e che è già stata applicata anche in un paio di casi successivi. Ciò significa che adesso siamo fra i pochi Paesi al mondo in grado di “mettere in moto” la macchina della sicurezza nazionale in caso di minacce spaziali.