

Ciao Francesco



Periodico della Scuola di Giornalismo e Comunicazione multimediale
Università Luiss Guido Carli
Numero 25 Aprile 2025
Ottant’anni di Resistenza
Quei pattini tutti d’oro
Il mondo dei Kayapò

Italian Digital Media Observatory
Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Ansa, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy, CY4GATE, ministero dell’Istruzione e del Merito



Speciale Papa Francesco Irriducibile gesuita
di Alessandro Imperiali
Dietro le porte del Conclave di Nicole Saitta
Francesco e i suoi nemici di Gennaro Tortorelli
Photogallery
Una piazza commossa di Gizem Daver e Stefania Da Lozzo
Il carcere e la guerra i segnali del Papa di Michelangelo Gennaro
Nel segno della non violenza di Luca Graziani
Coverstory
Ottant’anni di Resistenza di Alessandro Villari
Resistenza città
Gli eroi della lotta non armata di Valeria Costa
Nella barberia, la rivolta dei Sassi di Gennaro Tombolini
Vicoli in guerra a Napoli di Mariahelena Rodriguez
Czerwone maki na Monte Cassino di Chiara Grossi
Ottant’anni dopo
Luciano, cosa combini? di Alessandro Imperiali
I lager di Salò di Chiara Boletti
Il fraticidio di Porzûs di Sara Costantini
L’eroe irregolare di un’Italia in cerca di sè di Caterina Teodorani
Eredità
Quelle ragazze in bicicletta di Nicoletta Sagliocco
Il rammendo delle Fosse Ardeatine di Lisa Duso
Photogallery
Ora e sempre Resistenza a cura di Matilda Ferraris
Tramandare la memoria
Il volto giovane della Resistenza di Lavinia Monaco
Fischia il vento dei partigiani di Giulia Rugolo
Resistenza nell’arte
Quando la letteratura resiste di Ludovica Bartolini
Dal Neorealismo alla lotta moderna di Rosita Laudano
«Tutte le genti che passeranno» di Nicole Saitta
Resistenza nel mondo
Cartina
a cura di Lorenzo Pace
Desaparecidos, nomi scolpiti nella pietra di Simone Salvo
La Rosa bianca di Matilde Nardi
Marcel, “postino” della Résistance di Asia Buconi
L’eco Usa nel silenzio dei ghiacciai di Gabriele Ragnini
Quelle note annunciano la libertà di Pietro Angelo Gangi
Né con Israele né con Hamas di Francesco Esposito
Società
La prima donna pilota F-35B di Alessio Matta ed Elisa Vannozzi
Il mercato del falso corre su Tik Tok di Federica Carlino
L’arpista più famosa delle app di Giulia Tommasi
Cultura
A lezione di disagio di Massimo De Laurentiis
Il museo nella foresta di Silvia Della Penna
Ambiente
La tribù dei Kayapò di Alessandra Coffa
L’agricoltura filosofica di Andrea Iazzetta
Sport
L’oro di Francesca Lollobrigida di Isabella Di Natale
Arriva il Super Var di Alexandra Colasanti
Speciale recensioni
Parole e immagini
Resistenza
«La pace è artigianale: non la costruiscono solo i potenti. La pace la costruiamo noi nelle nostre case, in famiglia, tra vicini di casa, nei luoghi dove lavoriamo, nei quartieri dove abitiamo», Papa Francesco.
Qualche anno fa, all’incirca cinque, da un momento all’altro divenne molto in voga una parola fino ad allora poco conosciuta: resilienza. Nata a metà del ventesimo secolo dal lavoro dello psicologo americano Jack Block, indica la capacità di affrontare un evento traumatico o un periodo difficile assorbendo l’impatto e adattandosi. Nella lotta al Covid-19 divenne un mantra, e passò dai tatuaggi ai programmi dell’Unione Europea.
Ogni società modella il proprio linguaggio a partire dalle priorità e dalle sfide che deve affrontare. Confrontarsi tutti uniti contro un nemico invisibile, che sfuggiva ai tentativi di controllo umano, non conosceva frontiere e non usava fucili, cannoni o decreti-legge, spingeva ad essere, appunto, resilienti: stringere i denti e provare a fare tesoro di questa esperienza così nuova. Gli anni successivi, però, hanno portato anche il privilegiato Occidente a fare i conti con parole che sembravano morte con il Nove-
Periodico
Università Luiss Guido Carli Numero 25 Aprile 2025

Giorgio
Supervisione
Giorgio
cento: imperialismo, colonialismo, autoritarismo, genocidio. Fenomeni umani, che dovrebbero indurre ognuno di noi a guardarsi dentro e chiedersi: «E io? Da che parte sto?». In sostanza, a decidere se porre o meno resistenza. Come ha fatto Papa Francesco fino alla morte dello scorso 21 aprile. Rimasto, negli ultimi anni di vita, sempre più solo, fra i grandi della Terra, a parlare di pace, disarmo, ambientalismo e fratellanza. Ritornare sull’anno e mezzo di lotta per la Liberazione fra 1943 e 1945 nei boschi degli Appennini e nei vicoli delle città, a cui dedichiamo una parte di questo periodico, è necessario per ri-conoscere quanto quell’esperienza possa essere alla base delle istituzioni in cui ancora oggi viviamo.
Ma le esperienze attuali in giro per il mondo ci ricordano che resistere è un processo, che va oltre i momenti di guerra a qualunque intensità e che quei diciannove mesi assumono il loro pieno valore solo se letti alla luce del ventennio precedente, della clandestinità, dell’esilio, del confino. Non serve un Comitato di Liberazione Nazionale per resistere: lo si fa ogni giorno, con le parole e i gesti quotidiani. Perché, così come il linguaggio e le emozioni, anche la resistenza è una capacità che va allenata.
Francesco Esposito
pagina
ringrazia l’Istituto storico della Resistenza
dell’età contemporanea in Ravenna e provincia


Animo latino, radici italiane irriducibile gesuita
La famiglia ha origini piemontesi, Bergoglio ha vissuto quasi tutta la vita a Buenos Aires. Nei suoi dodici anni di pontificato ha preferito la concretezza della strada alla teologia da salotto
di Alessandro Imperiali
PAPA
«Sono andato l’ultima volta nel 1975, dovevo andare anche nel ’76 ma c’è stato il colpo di Stato in Argentina. Mi piace il mare, mi piace tanto», così rispondeva Papa Francesco durante una delle sue ultime interviste. Ora sua Santità, dopo aver fatto una chiacchierata con San Pietro, potrà tornare lì dove abisso blu e infinito azzurro si incontrano. Nel luogo dove profondità spirituale e corpi nudi si mescolano. Lo potrà fare senza talare, solo da Jorge Mario Bergoglio.
Privo di quell’abito bianco che nel suo decennio da vicario di Cristo ha sempre cercato di spogliare da ciò che era accessorio. Bandite le tradizionali scarpe rosse e dell’anello del pescatore, da sempre in oro. Di questo preferì una versione argento. Lo stesso per quanto riguarda la croce pettorale, durante il papato ha continuato a utilizzare la stessa di quando era cardinale.
Che l’argentino sarebbe stato diverso dai suoi predecessori si è capito la sera del 13 marzo 2013. Piazza San Pietro è gremita. Il quinto scrutinio avvenuto nella Cappella Sistina si è rivelato essere quello della fumata bianca.
Le prime parole: «Fratelli
e sorelle buonasera»
Il cardinale Jean Louis Tauran è l’incaricato dell’annuncio. «Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam [...] Franciscum», è la formula pronunciata alle ore 19:06 che permette al mondo di incontrare per la prima volta il suo nuovo pontefice. Rivoluzionario nella forma e nella sostanza dai primi minuti. Nella forma perché si affaccia dalla Loggia delle Benedizioni solo vestito di bianco senza la mozzetta rossa, la mantellina chiusa sul petto da bottoni indossata da tutti i suoi predecessori.
Lo stesso per le prime parole, anche queste inusuali, che pronuncia: «Fratelli e sorelle, buonasera», con sorriso sul volto e mano che si muove verso la folla. Nella sostanza per il nome che sceglie: Francesco, come Francesco da Assisi, patrono d’Italia che scelse una vita all’insegna della povertà nonostante provenisse da una delle famiglie più agiate della città.
«Un uomo di povertà, un uomo di pace. L’uomo che ama e custodisce il Creato», spiegava a 5mila giornalisti durante la sua prima conferenza stampa. Un nome scelto perché la sua idea di Chiesa, raccontava sempre nella stessa occasione, era «una Chiesa povera e per i poveri». È stato il primo gesuita a diventare Papa, l’ordine fon-
dato i primi del ‘500 da Ignazio di Loyola. Clemente XIV nel 1773 arrivò a sopprimere l’ordine per motivi politici. Persone prima di sacerdoti che nella storia della Chiesa non hanno mai cercato posizioni di comodo e che per questo sono sempre rimaste indigeste a molti, come Bergoglio, in pieno stile della Compagnia di Gesù. Tra gli esercizi spirituali ideati da Sant’Ignazio durante la convalescenza dovuta a una ferita a una gamba procurata durante l’assedio di Pamplona nel 1521 - prima di convertirsi era soldato - quello che più appartiene all’argentino si chiama Essere cristiano: le due bandiere.
Per farlo bisogna chiudere gli occhi e immaginare un campo di battaglia con due eserciti schierati di fronte. Due grandi vessilli che sventolano in cielo e una scelta da fare: da quale parte schierarsi. Questo ha fatto per tutta la sua vita: ha preferito la concretezza della strada alla teologia da salotto, non sottraendosi alle questioni scomode che il suo papato ha dovuto affrontare. Dall’ultima guerra in Medio Oriente quando voleva andare a Gaza, passando per i continui richiami al disarmo, alla proposta di fare da intermediario nella guerra in Ucraina senza dimenticare gli attacchi diretti alle industrie delle armi.
Dall’invito a “lottare pacificamente per la giustizia e la libertà religiosa” riferito ai cristiani perseguitati nel mondo al dialogo con il mondo islamico e la storica messa celebrata nello Zayed Sports City Stadium di Abu Dhabi. Alle sue posizioni sull’immigrazione e sull’integrazione che lo hanno fatto considerare “un uomo di sinistra” quando non erano altro che quelle di un Papa cat-

tolico. Dall’intransigenza sulla pedofilia e sulle questioni etiche come aborto ed eutanasia, passando per le aperture nei confronti degli omosessuali: «La Chiesa riceve le persone, tutti e non si domanda come sei».
Al tema dell’ambiente trattato nella sua enciclica Laudato si’. La realtà è che Papa Francesco ha rappresentato qualcosa di diverso. Dalle prime parole pronunciate alle ultime scritte nel testamento: «Il sepolcro deve essere nella terra; semplice, senza particolare decoro e con l’unica iscrizione: Franciscus. ■


Francesco e i suoi nemici
Bergoglio ha sfidato i tradizionalisti con le sue riforme, suscitando opposizioni nel clero conservatore
di Gennaro Tortorelli
È il settembre del 2021 e Jorge Mario Bergoglio si trova in Slovacchia per un incontro con dei confratelli gesuiti. «Come sta?», chiede uno di loro. Il pontefice era reduce da un intervento chirurgico. La risposta è scherzosa e lapidaria: «Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. Preparavano il Conclave. Pazienza!». Non ha mai avuto paura di farsi nemici Papa Francesco.
Uno dei primi segnali di rottura è arrivato con l’enciclica Evangelii Gaudium del 2013, in cui ha attaccato il modello economico neoliberista: “Alcuni ancora difendono le teorie della ricaduta favorevole (trickle-down theories), che suppongono che la crescita economica promossa dal libero mercato riesca inevitabilmente a portare maggiore giustizia e inclusione nel mondo. Questa opinione, mai confermata dai fatti, esprime una fiducia rozza e
ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico”. La sua prima visita ufficiale fuori Roma è stata a Lampedusa, dove ha denunciato l’indifferenza dell’Europa verso le migliaia di migranti morti in mare: «Abbiamo perso il senso della pietà e siamo diventati insensibili alla sofferenza degli altri».
Queste posizioni hanno subito messo Francesco in rotta di collisione con i cattolici conservatori. Nel 2017, una lettera di 62 firmatari, tra cui un ex vescovo e un ex direttore della Banca Vaticana, lo aveva accusato di eresia per aver esortato ad adottare un atteggiamento più conciliante verso divorziati e conviventi.
I tradizionalisti hanno visto nella dichiarazione una rottura con la dottrina precedente, in particolare con Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II. Uno degli
oppositori più espliciti è stato il cardinale del Wisconsin Raymond Burke, fiero “pro-life” e dichiarato estimatore del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Negli States le questioni legate alla sessualità e al genere sono state spesso il dardo più affilato da scagliare in direzione San Pietro. Secondo l’interpretazione dei vescovi americani più tradizionalisti, il documento di sintesi del Sinodo sulla sinodalità ha rappresentato una minaccia ai valori cattolici e ha aperto alla possibilità di benedire le coppie LGBTQIA+.
La galassia del dissenso nei confronti di Bergoglio è stata ampia e ha tenuto insieme diverse correnti ecclesiastiche. Ne ha fatto parte anche il cardinale tedesco Walter Brandmüller, che ha espresso riserve sulla politica di Francesco di nominare cardinali da tutto il mondo, proponendo che solo i cardinali residenti da almeno dieci anni a Roma possano eleggere il Papa. O il cardinale guineano Robert Sarah, in disaccordo su Islam, immigrazione e liturgia.
Per molti dei nemici di Francesco, il predecessore e papa emerito Joseph Ratzinger rappresentava un baluardo e lo slogan “il mio papa è Benedetto” ha dilagato sul web. Si tratta di una contrapposizione che non trova riscontro nel rapporto che c’è stato tra i due. Il giorno delle dimissioni di Benedetto XVI è stata scattata una foto evocativa, quasi un presagio funesto: un fulmine che colpisce la cupola di San Pietro.
Più che un vaticino, però, quell’immagine è diventata il simbolo del lavoro dietro le quinte del papa emerito, che ha fatto da parafulmine al pontefice. Secondo una ricostruzione del Washington Post, finché Ratzinger è stato in vita, è riuscito a contenere il dissenso. Con la sua morte, le contestazioni si sono intensificate.
Lo scontro tra Bergoglio e i conservatori ha visto contrapporsi due visioni antitetiche del ruolo dell’istituzione religiosa. Da una parte chi crede che la Chiesa debba influenzare il mondo, dall’altra chi pensa che debba farsi influenzare dal mondo, dialogare con l’esterno. I suoi oppositori sono attratti da un modello rigoroso e arroccato, che non si contamina, ma aspira a contaminare. Francesco, invece, è stato il papa «venuto dalla fine del mondo» e nel suo pontificato ha sempre provato ad accorciare le distanze. ■
ROTTURA
1. Lo storico abbraccio tra Papa Francesco e Benedetto XVI nel 2013







Il carcere e la guerra i segnali del Papa
Era l’estate del 2013 quando il telefono squillò in casa di Alejandra Pereyra. Dall’altro capo, una voce calda e familiare: «Sono il Papa». La donna argentina, vittima di stupro da parte di un poliziotto, aveva scritto al Vaticano senza aspettarsi risposta. Ma Francesco l’aveva chiamata. «Non sei sola, abbi fiducia nella giustizia», le disse. Era il primo anno di pontificato di Jorge Mario Bergoglio, morto il 21 aprile a causa di un’infezione polmonare.
Eletto il 13 marzo 2013, primo Papa gesuita e primo sudamericano, aveva scelto l’essenzialità. Nessuna croce d’oro al collo, solo ferro. Niente mocassini rossi su misura, ma le sue scarpe nere, consumate. Prendeva il posto di Joseph Ratzinger, che aveva rinunciato al soglio pontificio 598 anni dopo l'abdicazione di Gregorio XII.
Al balcone di San Pietro, dopo la fumata bianca, Bergoglio dedicò al predecessore il discorso ai fedeli: «Vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca». Per il nuovo pontefice, la Chiesa doveva tornare alla missione originaria, stare con gli ultimi. Il
primo viaggio fu a Lampedusa, dove lanciò un monito: «Abbiamo perso il senso di responsabilità fraterna. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri», disse Francesco riferendosi ai migranti annegati nel Mediterraneo.
Chiese di abbandonare «la globalizzazione dell’indifferenza», per ricominciare a piangere chi era morto mentre cercava di fuggire «da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace». L’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama disse di lui: «Il Papa ci sfida. Ci implora di ricordarci dei poveri. Ci invita a fermarci e riflettere sulla dignità dell'uomo».
Nel 2015 pubblicò l’enciclica Laudato si’, lanciando l’allarme sulla crisi ambientale causata dall’uso «irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto» sulla Terra. E poi indisse il Giubileo straordinario della misericordia, celebrato nel 2016 in scala ridotta rispetto all’Anno Santo iniziato lo scorso 24 dicembre con l’apertura della Porta Santa a San Pietro. In quello stesso anno, portò con sé sull’aereo papale dodici rifugiati siriani sbarcati sull’isola di Lesbo. Si trattava di tre famiglie di fede
musulmana, poi accolte dalla Comunità di Sant’Egidio. Ma l’uomo della misericordia fu anche il Papa delle controversie. Non tutti gradirono l’apertura alle persone risposate e alla comunità Lgbt. «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?», disse nell’anno dell’insediamento, rispondendo a una domanda su una presunta lobby di sacerdoti omosessuali all’interno del Vaticano. La Chiesa si divise tra chi lo considerava un riformatore necessario e chi temeva andasse troppo oltre.
Anche le posizioni di Bergoglio sulla guerra in Ucraina furono criticate. Francesco chiedeva un tavolo di pace con il leader russo Vladimir Putin. A marzo 2024, parlando alla Radiotelevisione Svizzera, disse: «Il negoziato non è mai una resa». Fu un assist per la propaganda di Mosca. «L’Occidente ha sacrificato il popolo ucraino, lo Stato ucraino e la pace del mondo solo per le sue ambizioni», rilanciò Maria Zakharova, portavoce del ministro degli esteri russo, «ecco perché oggi il Papa chiede: “mettete da parte le vostre ambizioni e ammettete che vi siete sbagliati”».
«Abbiamo perso il senso di responsabilità fraterna. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri»
Eppure Francesco ha lasciato un segno profondo nello Stato Vaticano. A gennaio ha nominato suor Simona Brambilla prefetta del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, la prima donna a guidare un dicastero. Un passo atteso da decenni.
Ma forse il testamento umano lo lasciò nell’aprile 2024. Ormai in sedia a rotelle, si recò nel carcere femminile di Rebibbia per ripetere il gesto che aveva segnato il suo primo anno da Papa: la lavanda dei piedi. Dodici detenute di diverse nazionalità e religioni. «Gesù perdona tutto, vuole solo che noi chiediamo perdono», disse loro. Mentre il mondo lo piange, resta quell’immagine. Un uomo curvo, fragile nel corpo, ma saldo nello spirito, piegato davanti agli ultimi. Così era iniziato il suo pontificato. Così è finito. ■
di Michelangelo Gennaro
Tutte le lezioni di misericordia verso gli ultimi
UMANITÀ

Nel segno della non violenza
DIALOGO
Un appello costante al disarmo e alla difesa dei più vulnerabili ha segnato il magistero di Francesco, fino alle ultime parole del suo testamento spirituale
di Luca Graziani
La pace non è stata un tema tra gli altri, nel lungo pontificato di Papa Francesco. È stata il filo rosso che ha attraversato omelie, viaggi, documenti ufficiali e gesti simbolici. Una posizione netta, costante, che ha avuto come fulcro la non violenza, intesa non solo come rifiuto della guerra, ma come fondamento di una visione globale fondata sulla giustizia sociale.
«Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo» è uno dei passaggi più forti dell’Urbi et Orbi letto nella domenica di Pasqua dal Maestro delle Cerimonie pontificie, monsignor Diego Ravelli. Francesco ha scelto di esserci, nonostante le condizioni di salute.
Dal Medio Oriente all’Ucraina, dal Caucaso all’Africa, ha ricordato le popolazioni colpite dai conflitti e ha rivolto un appello alla comunità internazionale, con un richiamo esplicito anche a destinare le risorse «per aiutare i bisognosi, combattere la fame, promuovere lo sviluppo integrale della persona umana». Parole che oggi assumono i toni di un testamento spirituale, in continuità con un impegno più volte ribadito nei dodici anni di pontificato. Francesco aveva parlato di una “terza guerra mondiale a pezzi” già nel 2014, al
sacrario di Redipuglia e più recentemente definito la guerra «un crimine contro l’umanità». Emblematico anche il messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2017, intitolato La non violenza: stile di una politica per la pace: «La non violenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona».
«La sofferenza che si è fatta presente nell'ultima parte della mia vita
l'ho offerta al Signore per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli»
Anche nei momenti più critici della scena internazionale, il Papa degli ultimi ha sempre cercato di incoraggiare il dialogo Intervenendo sulla guerra in Ucraina, nel marzo 2024, ha indicato la “bandiera bianca” come simbolo di forza e non di
resa: «È più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio di negoziare». In più occasioni aveva denunciato con forza anche il sistema economico che alimenta i conflitti: «Dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi». L’attenzione ai dimenticati è stata una costante dei suoi messaggi. Venuto «quasi dalla fine del mondo», nelle sue preghiere e appelli, ha citato regolarmente scenari di guerra spesso assenti dal dibattito pubblico: Yemen, Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, il Caucaso, il Myanmar.
Con insistenza, ha ricordato che «ogni vita è preziosa agli occhi di Dio», anche quella dei più vulnerabili, dai bambini non nati agli anziani e ai malati. «La sofferenza che si è fatta presente nell’ultima parte della mia vita l’ho offerta al Signore per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli», è la frase con cui si conclude il testamento di Francesco.
Scritto il 29 giugno del 2022 e diffuso dal Vaticano alla vigilia della sua scomparsa. Poche righe che racchiudono il senso profondo di un pontificato vissuto come servizio, anche nel dolore, e orientato alla costruzione di una comunità umana più giusta. ■

Partito comunista italiano Palmiro Togliatti, in qualità di ministro di Grazia e Giustizia, ha emanato il 22 giugno 1946 un provvedimento di amnistia nei confronti di coloro che si erano macchiati di reati politici e anche di quelli che avevano collaborato con il nemico nazista e si erano resi a loro volta responsabili di omicidi e stragi. «Erano in molti a essere consapevoli – commenta Flores - che cancellare il fascismo nella testa dei suoi sostenitori sarebbe stato molto difficile, ed è per questo che è nato il bisogno di una pacificazione civile. Il problema è che non c’è stato un riconoscimento degli aspetti storici del passato». Il professore si riferisce al rigurgito di violenza neofascista, che ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta della storia repubblicana, messa in atto dalle organizzazioni
terroristiche di estrema destra, come i Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Il terrorismo nero si è reso responsabile della strage di Piazza Fontana a Milano (1969) che ha causato diciassette morti e ottantotto feriti, della strage di piazza della Loggia a Brescia (1974) che ha ucciso otto persone e ne ha ferite centotré, dell’esplosione di una bomba sul treno Italicus (1974) che ha provocato dodici morti e quarantotto feriti e della strage alla stazione di Bologna (1980), ottantacinque morti e duecento feriti.
In quest’ultimo caso, la verità giudiziaria ha ricostruito anche un collegamento nell’attentato con la loggia massonica Propaganda 2 (P2), comandata allora da Licio Gelli. Inoltre, nel 1970 c’è stato un tentativo di colpo di Stato messo in atto da Julio Valerio Borghese in collaborazione con alcuni reparti dell’esercito. «Questo è il clima – aggiunge Flores - in cui si è formata gran parte della classe dirigente che guida oggi Fratelli d’Italia, e quindi nei confronti di quel periodo e di quei comportamenti ci vorrebbe una presa di distanza molto più netta e molto più precisa».
Quando si guarda al passato è necessario distinguere tra storia e memoria: la prima è generale, capace di frapporre una barriera emotiva che permetta un’analisi oggettiva degli avvenimenti, la seconda guarda da un punto di vista particolare ed è quindi soggettiva. Non si può pensare che le grandi stragi dei soldati italiani a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema o la deportazione del 16 ottobre 1943 degli ebrei dal ghetto di Roma siano state
compiute solo dai tedeschi «senza considerare il ruolo attivo, partecipe, collaborativo e concreto che hanno avuto i fascisti. Dentro di sé ognuno pensa quello che vuole, e Ignazio La Russa può pure continuare a tenere in casa i busti di Mussolini, ma un presidente del Senato non dovrebbe affermare pubblicamente che a via Rasella i partigiani hanno ucciso una banda di musicisti».
Il professore allude alla frase pronunciata da La Russa che ha screditato un momento della Resistenza: i partigiani del Gruppo di Azione Patriottica (Gap), un’unità del Partito comunista, tra i quali figurava anche Carlo Salinari che diventerà uno dei critici letterari più importanti del Novecento, uccisero alcuni soldati di un reparto del battaglione tedesco “Bozen”. Come rappresaglia per l’attentato, i nazifascisti hanno trucidato nelle Fosse Ardeatine più di trecento civili e prigionieri politici ed «è inaccettabile dire, come ha fatto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che sono stati solo i tedeschi a compiere quella terribile strage. L’eredità più importante che ci ha lasciato la Resistenza è la libertà», ma è inutile custodirla adorandone le ceneri, l’unico modo per preservare il significato e il valore della Resistenza e di ciò che ha rappresentato per l’Italia è quello di mantenere vivo il fuoco e fare in modo che non si spenga mai. ■

1. Liberazione di Ravenna, 4 dicembre 1944. Dal balcone della Residenza Municipale, accanto al tricolore, sventolano le bandiere degli alleati e della 28esima Brigata Garibaldi
2. "Storia della Resistenza" di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, Laterza, 2022
3. Guardie tedesche dopo l'attentato di via Rasella, Roma, 1944

stati ugualmente fucilati». Anche alcuni parroci hanno contribuito ad aiutare la popolazione civile nel suo sforzo unitario per la liberazione. È in questo senso emblematica la «foto di don Luigi Piazza, parroco di San Valentino, in provincia di Forlì, affianco a Romeo Corbari e in mezzo agli altri partigiani, con la pistola nella fondina sotto la tunica. Rende l’idea del senso di complicità che c’era tra clero e combattenti».
Pure le suore non sono state da meno, come quelle del «collegio di San Giuseppe a Lugo», in provincia di Ravenna, dove c’era una piccola comunità ebraica. Come racconta Masetti, fu lì che «nascosero i bambini delle famiglie ricercate e una delle suore litigò addirittura con due tedeschi a colpi di forcone perché non fossero scoperti i piccoli». L’assistenza ai ricercati, che fossero partigiani o ebrei fa parte delle azioni di lotta non armata nella Resistenza.
Tra chi li ha aiutati in Italia c’è stato anche Gino Bartali, il campione di ciclismo. Bartali percorreva 185 chilometri al giorno pedalando avanti e indietro tra Assisi, dove c’era una stamperia clandestina, e Firenze. Nel tubo della sua bici infilava i documenti falsi che il vescovo del capoluogo toscano poi distribuiva agli ebrei per farli espatriare. Così, fingendo di allenarsi per tutti quei chilometri, il ciclista ha salvato 900 ebrei. Meno nota è invece la storia di Vittorio Zansi, commissario prefettizio di Cotignola, un piccolo angolo di Romagna, poco distante da Lugo, che ha avuto il riconoscimento di “Città dei Giusti” dallo Stato d’Israele. Zansi riuscì a mettere in piedi una rete di
solidarietà in tutto il paese. Era lui stesso però che «portava a casa degli ebrei rifugiati - provenienti da Bologna e Ferrara, e fatti passare per sfollati - delle carte d’identità numerate, regolari e autentiche perché li compilassero con i loro dati e scampassero alle deportazioni».
I partigiani sulle montagne sapevano quanto ogni gesto fosse fondamentale. Ad esempio, l’organizzazione delle Brigate Garibaldi prevedeva al suo interno anche le Squadre di azione patriottica (Sap). «Si trattava di persone occupate che continuavano a fare la loro attività nelle officine, nei campi, nei luoghi di lavoro, senza esporsi troppo – specifica Masetti – ma che erano utili quando c’era da aiutare i combattenti». Il padre dello storico era un meccanico, ma era a lui che i partigiani si rivolgevano per far aggiustare armi e pistole. Ci voleva sangue freddo per compiere delle azioni antiregime alla luce del sole perché qualsiasi imprevisto poteva far saltare la copertura e condurre alla morte.
«C’erano una volta delle sorelle che dovevano attraversare il fiume Reno con una valigia piena di armi – racconta Masetti - arrivate al guado, un fascista della Xª MAS, si offrì di aiutarle e disse “come pesa questa valigia” e una delle ragazze con grande prontezza di spirito rispose “Ah, ci credo è piena di armi” e lui la portò senza dire niente». Questo è solo uno dei tanti episodi, «il lavoro delle donne è stato prezioso e riconosciuto». Tra le

tante che hanno dato la vita e lottato per la libertà e la democrazia c’è soprattutto Ines Bedeschi «la madre di tutte le staffette partigiane romagnole».
«Dopo che il marito è andato in Africa con i volontari delle camicie nere a cercare fortuna lei si mise a disposizione degli antifascisti. Si innamorò anche di un commissario politico del Partito Comunista, Umberto Macchia, che la portò con sé a Parma. Lì ha organizzato la distribuzione della stampa e degli ordini di partito fino a febbraio 1945, quando venne catturata e torturata per due mesi dalla Gestapo e bruciata con il ferro da stiro. Sarà poi uccisa alla fine del marzo 1945 sulle rive del Po».
Tutti i gesti, anche quelli più piccoli come stendere le lenzuola in un certo modo per segnalare la presenza dei tedeschi o fare il pane per sfamare i partigiani, hanno permesso che l’Italia diventasse un paese libero e democratico. Al pari della lotta armata nella Resistenza c’è, quindi, quella non armata di un popolo che unitariamente si è mobilitato, affinché gli oppressori fossero scacciati e questa è una lezione da non dimenticare mai. ■
1. Don luigi Piazza, parroco di San Valentino accanto a Romeo Corbari, Appennino faentino ottobre 1944
2. La prima pagina de La Libertà, organo di stampa dei partigiani bianchi della Democrazia Cristiana, Veneto 29 aprile 1945
3. Una ragazza nella pineta di Classe, vicino a Ravenna, ha fatto il pane per i partigiani del distaccamento "Garavini"
3

4. Le donne stendevano le lenzuola in modi diversi per segnalare la presenza dei tedeschi, dintorni di Ravenna ottobre 1944

Una sollevazione nata senza capi vicoli in guerra a
Napoli
RIBELLI
Una resistenza nata senza piani, senza comando, senza retorica. Quattro giorni bastarono alla città per respingere l’occupazione tedesca
di Mariahelena Rodriguez
Napoli, 27 settembre 1943. Dopo settimane di fucilazioni, coprifuoco e violenze, il grido è uno solo: “Mo basta!”. Al Vomero, un gruppo di civili armati ferma un’automobile tedesca e uccide il maresciallo alla guida. È la prima miccia delle Quattro Giornate di Napoli. Come scriverà anni dopo Antonio Tarsia in Curia, professore e testimone diretto dell’insurrezione, sulla rivista Patria: “Non vi fu un piano generale, e non vi poteva essere, data la fulmineità con la quale i cittadini vennero in possesso delle armi e divampò l’insurrezione.”
La città si solleva con ciò che ha: barricate improvvisate, bottiglie incendiarie, fucili nascosti. A combattere ci sono operai, studenti, donne, ragazzini. Il giorno dopo, la rivolta dilaga: Materdei, Foria, la Sanità diventano trincee urbane. «Ogni rione agì come un’unità autonoma.» spiega il professor Russo. «Non c’erano comandi centrali, ma alleanze di vicinato. Questo permise una resistenza diffusa, difficile da spegnere, anche per un esercito organizzato come quello tedesco.» Tra vicoli e scale, i civili alzano barricate.
A Materdei, Maddalena Cerasuolo, giovane operaia, affronta i tedeschi per impedire il saccheggio di una fabbrica. Poi si unisce ai combattenti del ponte della Sa-
nità, punto strategico per l’accesso alla città. Sono decine le donne che imbracciano armi. Il 29 settembre è il giorno più cruento. Napoli diventa un campo di battaglia. Tra esplosioni di mine, incendi e palazzi sventrati, i cittadini resistono.
A Piazza Cavour, Piazza Garibaldi, lungo Corso Umberto, centinaia di persone si dispongono ai lati delle strade, improvvisando difese con mobili, tram rovesciati, macerie. «La struttura urbana di Napoli rappresentò un problema per l’esercito tedesco» afferma il professor Russo «Le stra-

de strette, le alture, le scale, rendevano inefficace il movimento dei mezzi pesanti.»Le armi spuntano dalle caserme abbandonate, dove i soldati italiani, disarmati dai tedeschi, le avevano nascosto. Alcuni militari tornano a combattere in abiti civili, unendosi alla rivolta. Tra gli insorti c’è Gennaro Capuozzo, dodici anni, ucciso da una granata mentre lancia pietre contro un mezzo corazzato. Gli scugnizzi, figli dei vicoli e della miseria, combattono con ferri e bombe artigianali: diventano il volto feroce della resistenza.
Il 30 settembre, anche se i tedeschi iniziano a ritirarsi, si continua a combattere. Fucilate si sentono ancora in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco. Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, va in scena l’ultimo scontro armato. A Trombino, alcuni giovani vengono uccisi durante una delle ultime rappresaglie.
Poi l’ultimo giorno: poche ore prima dell’arrivo degli Alleati, i tedeschi aprono un ultimo fuoco d’artiglieria da Capodimonte. Le esplosioni continuano quasi fino a mezzogiorno. Durante la fuga, i tedeschi incendiano l’Archivio Storico di Napoli a San Paolo Belsito. Nessuno diede l’ordine di insorgere: Napoli si prese la libertà da sola, un vicolo alla volta. ■

Il sacrificio dei soldati polacchi durante la Seconda guerra mondiale rivive nella voce dei familiari e nelle parole di una canzone
di Chiara Grossi
Monte Cassino
Era la primavera del 1944. Su Montecassino, però, pochi fiori sbocciavano, piegati dalla devastazione della guerra. Gli unici a resistere sulle pendici del monte erano i papaveri, ma a bagnarli non era più la rugiada del mattino, bensì il sangue caldo dei soldati. «Per la nostra e la vostra libertà noi soldati polacchi demmo l'anima a Dio, i corpi alla terra d'Italia, alla Polonia i cuori» è la frase incisa sull’obelisco del cimitero militare polacco di Montecassino. Una distesa di 1.051 lapidi marmoree ricorda i militari deceduti nella battaglia di Montecassino, una delle più cruente e decisive della Seconda guerra mondiale. Non fu un’unica offensiva, ma una serie di assalti militari degli Alleati contro l’esercito tedesco. Da gennaio a maggio 1944, infatti, ci furono quattro combattimenti nella Città Martire, che aprirono alle forze alleate la strada verso Roma.
L’ultimo, quello decisivo, conosciuto come “Operazione Diadem”, iniziò l’11 maggio. «Oggi è giunta per noi l’ora della sanguinosa rappresaglia. È l’ora che aspettavamo da tempo, attesa dal nostro martoriato Paese e dai polacchi sparsi in tutto il mondo. Quindi, soldati, all’azione! - E fuoco nella testa o nel cuore!», disse il generale polacco Władysław Anders per incoraggiare il Secondo Corpo d’Armata prima dell’assalto simultaneo contro i nazisti che occupavano le rovine del monastero. Tra la notte del 17 e 18 maggio il reparto si batté con valore, ma non senza spargimenti di sangue: 923 morti, 2.931 feriti e 345 dichiarati dispersi. «Fu una
dura settimana in cui i polacchi del Secondo Corpo d’Armata furono quasi completamente uccisi nei combattimenti corpo a corpo con i soldati tedeschi», racconta Maurizio Nowak, presidente dell’Associazione famiglie combattenti polacchi in Italia Un dolore che brucia nella memoria collettiva di un popolo che, ogni 18 maggio, ricorda i propri caduti in una messa commemorativa. «Portiamo avanti questa tradizione perché è ancora una battaglia molto sentita in Polonia. Per motivi anagrafici, siamo rimasti solo noi a tramandare queste memorie. Non potremmo mai dimenticarlo».
L’Associazione, per lo più formata dalle mogli e dai figli degli ex combattenti, custodisce e porta avanti la memoria storica di una generazione. Edward Nowak, padre di Maurizio, combatté nella fanteria del Secondo Corpo d’Armata dopo essere sopravvissuto ai gulag sovietici: «Io ho un fratello e una sorella, ma nostro padre non parlava mai di guerra, a nessuno di noi figli. Sono riuscito a estorcergli alcuni ricordi solo negli ultimi anni della sua vita, quando era ormai malato. Nemmeno in quel momento, però, riferì episodi cruenti o violenti. Era una cosa talmente dura e forte che non intendeva trasmetterla». Eppure, tra i suoni sordi dell’artiglieria pesante, si levava anche qualche nota di speranza. Nella notte tra il 17 e il 18 maggio, il cantante di operette e compositore Feliks Konarski, noto con lo pseudonimo di Ref-Ren, scrisse durante quella notte di guerra una canzone che sarebbe diventata il simbolo di quel sacrificio: Czerwone maki na
Monte Cassino (Papaveri rossi su Montecassino). La melodia fu composta dal compagno Alfred Schütz. Quei versi divennero poi i più famosi della musica polacca. «La prima volta che abbiamo cantato i Papaveri rossi su Montecassino, abbiamo pianto tutti. I soldati hanno pianto con noi. I papaveri rossi, che sbocciavano nella notte, divennero un altro simbolo di coraggio e sacrificio, un tributo ai vivi che per amore della libertà morirono per la libertà delle persone», scrisse Konarski nelle sue memorie.
La terza strofa fu aggiunta poche ore più tardi, mentre la quarta arrivò nel 1969, per il 25° anniversario della battaglia. Ma è giusto definirla una canzone della resistenza? «Il suo significato - continua Nowak - esprime molto bene lo spirito di tutti coloro che hanno lottato per la liberazione. Forse se non avessero avuto la spinta di quella canzone non sono sicuro che avrebbero avuto la forza e il coraggio necessari per andare a combattere e a stanare i paracadutisti tedeschi nelle buche».
Dopo la nascita del brano, come un presagio, i polacchi riuscirono a liberare l’abbazia. Mentre la bandiera biancorossa sventolava sulle rovine e il suono di una tromba annunciava la vittoria, le note di Papaveri rossi su Montecassino risuonavano nel quartier generale di Anders. E così, tra fumo e macerie, parole e musica si fusero insieme, per rendere immortale il coraggio di chi, su quella montagna, scelse di morire per la libertà degli altri. ■


«Luciano, cosa hai combinato?»
Da presidente della Camera e uomo di sinistra, Violante parlò dei ragazzi di Salò. 29 anni dopo è ancora necessario parlare di riconoscimento reciproco
Per primo chiese se non fosse il momento di riflettere «sui vinti di ieri» e sul perché «senza revisionismi falsificanti, migliaia di ragazzi e soprattutto ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò». Era il ’96 quando Luciano Violante, durante il suo discorso di insediamento come presidente della Camera dei deputati, pronunciava quelle parole. «Il fatto che, 30 anni dopo, il discorso si considera attuale, non è perché il discorso è importante, ma perché il problema resta attuale». Oggi «siamo ancora alla divaricazione» ma non manca la speranza che il dialogo parta proprio dai giovani perché «per loro è meno difficile».
Gennaio del ’47, repubblichini e partigiani portano insieme una corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto con scritto “Gli italiani agli italiani”. Cerimonia poi sconfessata dai partiti e dall’Anpi. Cosa ne pensa?
di Togliatti ai giovani della Federazione dei Giovani Comunisti a Roma nel ‘54, in cui disse che non era colpa dei giovani e che bisognava dialogare con i propri coetanei perché le responsabilità erano dei capi che li avevano portati in quella direzione. Molti cercarono di trovare un punto di non odio, di riconoscimento reciproco, fermo restando le identità differenti. Questo, ragionevolmente, urtava contro le esigenze contingenti delle diverse parti politiche. L’episodio che cita è positivo. Alla fine, però, l'idea del conflitto è prevalsa. Le lacerazioni della guerra civile erano state profonde, da entrambe le parti. Ha sempre trovato difficoltà nel Paese l'idea di capire le ragioni dell'altro.
30 anni dopo quel discorso, perché pronunciò quelle parole? Oggi a che punto siamo?
di Alessandro Imperiali
Dopo la fine della guerra ci furono numerosi tentativi di ricostruire il concetto di patria comune. Ci fu un discorso
Lo feci perché lo ritenevo giusto. A me hanno colpito i diari di Benedetto Croce dell’8 settembre dove scriveva: tutto è perduto. Contemporaneamente giovani prendevano le armi per difendere l'Italia. Un grande intellettuale non aveva capito
che era il momento della svolta. 30 anni dopo io credo che siamo ancora alla divaricazione, si fatica da una parte e dall'altra al rispetto. Definire fascista Fratelli d’Italia o comunista il Partito Democratico sono infantilismi. Si tratta di categorie superate. Naturalmente esistono ancora residui nostalgici. Fratelli d’Italia, però, sta costruendo una strada per dare vita a un partito conservatore italiano. Il fatto che oggi il discorso si considera attuale, non è perché il discorso è importante, ma perché il problema resta attuale. Se il problema non fosse attuale non se ne parlerebbe.
Un discorso simile è stato quello di La Russa quando ha ricordato Fausto e Iaio e Sergio Ramelli.
Sì, anche se in una logica un po' diversa.
Quelle parole che lei pronuncia alla Camera ricevono delle critiche, in particolare a sinistra. Perché?
Avvertii due dirigenti del mio partito. Loro mi sconsigliarono di farlo e io lo feci lo stesso. Arrigo Boldrini, il Presidente dell'Anpi e senatore, mi telefonò e mi disse: «Luciano, cosa hai combinato? Tu hai legittimato i fascisti». Risposi che non era così. Gli mostrai il discorso di Togliatti. Facemmo un incontro con l’Anpi a Bologna a porte chiuse, che, come si diceva, fu un franco aperto dibattito tra compagni. Non volarono le sedie ma poco ci voleva. Dopo una discussione molto seria e molto lunga trovammo un punto di comprensione. Si trattava, in un momento di egemonia della sinistra, di guardare oltre i propri confini. Intellettuali importanti italiani, che non hanno letto il discorso, criticarono pesantemente le mie parole. Non mi ha preoccupato particolarmente, era una cosa giusta. Come giusta fu la cosa che feci.
Carlo Mazzantini, repubblichino, scrisse: «Era tutta la nostra cultura, tutto ciò che avevamo imparato in quei venti anni dentro i quali eravamo nati, e il mezzo attraverso il quale avevamo appreso il mondo». Qual è la sua idea di quei ragazzi?
Mio zio fu ucciso a Mauthausen. Io sono nato in un campo di concentramento inglese perché mia madre era ebrea e mio padre comunista. Vivevano in Etiopia dove c'era un'intolleranza minore. Poi arrivarono gli inglesi e misero tutti gli italiani in un campo di concentramento. Fossi nato quindici anni prima la mia famiglia mi avrebbe corretto. Loro, invece,
sono quelli che non sono stati corretti. Capisco ciò che scrive Mazzantini. Quello che non capisco invece è l'onore. Quale onore? Dei vagoni piombati? Della persecuzione degli ebrei? L'educazione fascista li aveva educati al disonore.
Sempre Mazzantini: «Vittoria? Sconfitta? Riguarda gli altri: i tedeschi, gli alleati. Noi ne siamo fuori. A noi non resta, non ci è stata lasciata che la nostra sorte individuale». L’onore potrebbe riferirsi a questo?
I protagonisti dello scontro erano nazisti e antinazisti. L'Italia fascista era una piccola appendice. Salò, indipendentemente dalla volontà dei singoli fu un sistema di supporto al nazismo, anche nelle operazioni più tragiche.
Nelle tesi del congresso di Alleanza Nazionale viene scritto: «Nel dopoguerra non tutto l’antifascismo è stato infatti antitotalitarismo. Oggi la destra politica fa propri i valori democratici che il fascismo aveva negato. Perché mai dovrebbe sopravvivere l’antifascismo?». Cosa ne pensa?
C'è una specificità italiana del partito comunista: chi ci ha insegnato è stato Gramsci, non Lenin. Ci furono all'interno del Pci dalle posizioni fortemente filosovietiche, non democratiche. Ci fu una lettera a Stalin dai portuali di Genova che si dicevano pronti al conflitto. Furono cacciati. Comprendo il discorso e quella posizione ma, lo dico da uomo di parte, non la condivido. La comprendo perché fa riferimento a un antifascismo non democratico ma che non si può addebitare a tutto il Partito Comunista.
Perché lo scontro fascismo-antifascismo è ancora centrale, in particolare tra i giovani? Esiste oggi un antifascismo non democratico?
Le classi dirigenti dovrebbero costruire progetti ideali per le giovani generazioni e quando non li costruiscono, le giovani generazioni si ritrovano sole. È la carenza di grandi valori ideali che fanno rifugiare in questo tipo di conflitti. Tra le parti politiche manca il rispetto. E se manca il rispetto tra gli adulti è chiaro che manca il rispetto anche tra i ragazzi. Perché immaginano che quella sia la forma del confronto politico.
È più facile che il riconoscimento dell’altro avvenga con un governo di destra o con un governo di sinistra?
Devono essere disponibili tutti e due. Non è un problema di governi, è un problema di disponibilità delle parti. Non è ozioso interrogarsi su queste cose, bisogna evitare di farlo solo il 25 aprile.
Storicizzare l’antifascismo oltre che il fascismo può essere un passo in avanti per avere una memoria condivisa?
Il fascismo è una filosofia, un modo di agire. Quando ci si professa antifascisti lo si fa con riferimento ad antisemitismo e discriminazione. Il problema è essere antifascisti democratici, cioè che dallo scontro non si passi al conflitto o all'aggressione perché questo non è accettabile. Io penso che il tema ci sia anche oggi e che debbano essere i giovani ad affrontarlo. Per loro è meno difficile affrontare il tema del rispetto reciproco. ■

Ottant'anni dopo

I lager della Repubblica Sociale
Nel libro I campi di Salò, Capogreco mappa i campi di concentramento della RSI ricostruendo le responsabilità italiane nella Shoah
di Chiara Boletti
Ottant’anni fa, la Liberazione portava la fine della guerra e l'inizio di un nuovo capitolo della storia italiana. Eppure, dietro i festeggiamenti e il ricordo della Resistenza, permane ancora oggi una verità difficile da affrontare: quella delle responsabilità italiane nella Shoah. Un capitolo doloroso, spesso trascurato, che lo storico Carlo Spartaco Capogreco affronta nel suo libro, I campi di Salò edito da Einaudi.
L’intento del libro è porre luce sull'autonomia con cui la Repubblica Sociale Italiana (RSI) partecipò in modo attivo alla persecuzione degli ebrei, andando a mettere in discussione l’idea dell’“italiano brava gente”, complice di un autoassolvimento nazionale durato decenni. I campi di Salò porta alla luce luoghi dimenticati dal grande pubblico: i “campi provinciali” istituiti tra il 1943 e il 1945 per concentrare gli ebrei in vista della deportazione verso Auschwitz e altri lager nazisti. Questo sistema mostra come, lungi dall'essere semplici esecutori degli ordini tedeschi, le autorità fasciste della Repubblica di Salò
avessero inserito la persecuzione degli ebrei al centro del loro programma politico.
Capogreco ricostruisce la realtà di questi campi di concentramento istituiti e voluti dalla Repubblica dopo l’8 settembre 1943, portando alla luce dettagli trascurati o minimizzati dalla storiografia ufficiale. Nel libro vengono mappati i cosiddetti campi provinciali, istituiti tra il 1943 e il 1945. Questi luoghi, tra cui Fossoli, Borgo San Dalmazzo, Bolzano e la Risiera di San Sabba, in cui fame, malattie e torture erano quotidianità per migliaia di internati, vengono esaminati dall’autore mostrando come il regime fascista repubblicano abbia avuto un ruolo attivo nelle persecuzioni contro gli ebrei.
Nel libro emergono due date-chiave che segnano la persecuzione ebraica italiana: il 14 novembre 1943, data del Manifesto di Verona che definì gli ebrei “stranieri nemici”, e il 1° dicembre dello stesso anno, quando un’ordinanza istituì formal-
mente i campi provinciali per internare gli ebrei e confiscare i loro beni. I campi di Salò è una ricerca storica che non si limita a restituire fatti ma va oltre, offrendo una narrazione che rimettere al centro della riflessione pubblica una verità storica, scomoda, in cui i fascisti non furono semplici pedine dei nazisti, ma complici autonomi e convinti.
Capogreco ricostruisce con precisione storica la realtà drammatica dei campi di concentramento istituiti dalla Rsi dopo l’8 settembre 1943, portando alla luce dettagli finora trascurati o minimizzati dalla storiografia ufficiale. Il saggio si distingue per un lavoro capillare di ricerca archivistica e territoriale, fornendo per la prima volta una mappa completa dei cosiddetti "campi provinciali". Questi luoghi, tra cui Fossoli, Borgo San Dalmazzo, Bolzano e la famigerata Risiera di San Sabba, sono esaminati nel contesto più ampio dell'internamento civile fascista e delle deportazioni naziste verso Auschwitz e altri lager.
Una svolta decisiva nella persecuzione antiebraica fu la resa italiana dell'8 settembre 1943, che divise il paese e portò alla creazione della Repubblica di Salò. Contrariamente alla narrazione consolidata che vedeva i fascisti italiani come semplici esecutori passivi dei nazisti, Capogreco dimostra come la Rsi abbia invece assunto un ruolo attivo, autonomo e deliberato nella persecuzione degli ebrei. Rastrellamenti, confische e repressioni non furono soltanto ordini tedeschi eseguiti per obbedienza, ma politiche consapevolmente promosse e attuate dal regime fascista italiano.
Nel libro emergono con chiarezza due date chiave: il 14 novembre 1943, data del Manifesto di Verona che definì gli ebrei "stranieri nemici", e il 1° dicembre dello stesso anno, quando un'ordinanza firmata da Buffarini Guidi istituì formalmente i campi provinciali per internare gli ebrei e confiscare i loro beni.
La forza del saggio di Capogreco sta proprio nella capacità di sfidare il mito dell'"italiano brava gente" e invitare il paese a una presa di coscienza autentica e definitiva, simile a quella che la Francia affrontò nel 1995 con la dichiarazione del presidente Jacques Chirac sul rastrellamento del Vel d'Hiv. I campi di Salò rappresenta così non soltanto una ricerca storica essenziale, ma anche un invito esplicito all’Italia contemporanea: affrontare con trasparenza e coraggio le proprie responsabilità storiche per celebrare realmente la Liberazione con verità, rispetto e piena consapevolezza. ■
VERITÀ
Ottant'anni dopo

L'eroe irregolare
di un'Italia in cerca di sé
CAMBIAMENTO
Dalla giovinezza fascista alla militanza comunista, la parabola di Piero
Vivarelli racconta la possibilità di cambiare e di resistere anche dentro di sé di Caterina Teodorani
Quando si racconta la Resistenza, spesso si cercano gli eroi puri, le scelte limpide, le linee nette. Ma la storia vera, quella che brucia sotto la pelle del Novecento, è fatta di zone d’ombra, di svolte improvvise, di dolori che diventano ideologia. Ed è lì, proprio in quella terra incerta tra la colpa e il cambiamento, che si muove la vicenda di Piero Vivarelli.
«Quando ero bambino, guardavo mio padre come si guarda un monumento antico, pieno di misteri, incrinature e grandezza», racconta suo figlio Oliviero. E quel monumento, prima di diventare regista, autore di canzoni leggendarie e figura iconica del costume italiano, fu un adolescente immerso nel caos dell’Italia che bruciava.
Aveva sedici anni, Piero, quando scelse di arruolarsi nella Xª MAS, la formazione militare repubblichina nota per la sua feroce fedeltà alla causa fascista. Non lo fece per ideologia, non
per calcolo. «Aveva perso suo padre, un medico, ucciso dai partigiani comunisti. E quell’assenza bruciante lo spinse a scegliere da che parte stare. Non era ideologia, era dolore». Il dolore, nei ragazzi, è spesso più forte di ogni teoria. E così, in un’Italia spaccata, confusa, ferita, Piero cercò una risposta indossando una divisa.
«Me lo raccontava poco, quasi mai», dice Oliviero. «Ma a volte, nei silenzi lunghi, nei gesti ripetuti, nei sorrisi ironici che sapevano di malinconia, io lo vedevo quel ragazzo. Vedevo il sedicenne con gli stivali troppo grandi, lo sguardo fiero e confuso, il cuore in guerra più che il fucile».
Eppure, qualcosa accadde. Un cambiamento sottile, lento, ma radicale. L’adolescente ferito diventò un uomo in cerca. Cominciò a leggere, a viaggiare, a interrogarsi. «Quel ragazzo che aveva cercato vendetta, finì per cercare
giustizia. Non più armata, ma umana, profonda, politica». Da quella ferita iniziale, Piero Vivarelli riscrisse sé stesso. Divenne un artista, un autore, un regista. Scrisse testi per Celentano, Mina, Morandi. Fu parte del boom, del rock’n’roll, della rivoluzione culturale italiana.
Ma la svolta più sorprendente fu ancora una volta politica: divenne l’unico italiano ad avere la tessera del Partito Comunista Cubano, firmata da Fidel Castro in persona. «Sì, proprio lui, l’ex ragazzo della Xª MAS, diventò comunista. Un paradosso? Forse. Ma mio padre era fatto così, viveva tutto con passione, anche le sue contraddizioni».
Contraddizioni, appunto, ma anche consapevolezze. Vivarelli non rinnegò ma il suo passato come si cancella un errore: lo portò con sé, lo attraversò, lo trasformò. «Non voglio giustificare né condannare, voglio solo ricordare»,
Quelle ragazze con la bicicletta
La storia di Adelina Casadio, staffetta partigiana per la 28esima Brigata Garibaldi che combatteva vicino alle valli di Comacchio per liberare l'Italia dal fascismo teva, a volte si litigava, ma tutti avevano in comune l'antifascismo. Io sono quello che sono grazie a quella cultura lì», spiega Casadio.

Si girava di notte, le biciclette macinavano chilometri e, con le pance gravide di armi e tritolo, la resistenza delle donne partigiane si opponeva al fascismo in Italia. Era il 1944 e «la Romagna era una terra rossa», spiega Giorgio Casadio storico giornalista de Il Manifesto e La Repubblica. Sua madre, Adelina Casadio, aveva poco più di vent’anni quando, insieme alle altre staffette, nascondeva sotto le vesti pacchi di giornali, manifesti ed equipaggiamenti militari per combattere una guerra che aveva ricoperto l’intero Paese con un velo nero di repressione.
Le giovani che lottavano contro il regime un giorno si presentavano come ragazze affette da gravi malattie, nascondendo sulla schiena aiuti per chi era al fronte, quello dopo, invece, sarebbero state incinte solo per poche ore, quanto bastava per trasportare il necessario nei luoghi stabiliti. Adelina aveva una bambina piccola e un marito lontano, militare in Grecia.
La guerra li separò, ma li rese parte della stessa lotta. Lei viveva a Ravenna, nelle Valli di Comacchio, dove operava la 28ª Brigata Garibaldi, una delle poche brigate partigiane attive in pianura. Lì la guerra non si combatteva solo in montagna, ma tra le case, tra le strade, nelle acque basse delle paludi.
Lei si faceva chiamare “la Dina”, questo era il suo nome di battaglia. Una lotta che condivideva con altre donne: «Era un periodo drammatico. Mia madre aveva una migliore amica. Erano sempre in due, sempre insieme. Andava una volta una, una volta l'altra. Ma c’è un episodio in particolare che mia madre si è portata dietro per tutta la vita. Un giorno, durante il turno, la sua compagna è stata catturata dai nazisti. Morì, impiccata con un gruppo di partigiani. Mi ha sempre detto: “Quel giorno potevo esserci io”, e la tristezza che derivava da questo pensiero l’ha accompagnata per anni».
La resistenza di Adelina e delle altre staffette era fatta di azioni quotidiane e rischiose, ma la vita andava avanti. Nel mezzo c’era la guerra e per chi, come lei, era cresciuta con forti ideali antifascisti, non c’era possibilità di scelta. Essere repubblicani o socialisti significava rifiutare il regime: «Mia madre era di famiglia repubblicana, influenzata anche dalle idee di mio nonno. Mio padre, invece, veniva da una famiglia socialista. Io sono cresciuto in una famiglia divisa a metà, si discu-
«Mi ha sempre detto: "Quel giorno potevo esserci io" e questo pensiero l'ha accompagnata per anni»
Il ricordo delle storie raccontate dai genitori, che ascoltava da bambino gli ha trasmesso gli ideali con cui è cresciuto. Durante la parata commemorativa a Bologna, per il trentennale del 25 aprile, vide sua madre e gli altri della Brigata Garibaldi marciare tra gli applausi. «Fu un momento commovente. Ero uno studente universitario quando assistetti alla sfilata. Guardavo mia madre camminare sorridente tra i membri della brigata. Era evidente che quelle donne erano diventate sorelle, parte della stessa famiglia».
Da quel momento sono passati cinquant’anni e, questo aprile, la Romagna è stata una delle tappe di Re Carlo d’Inghilterra. Il sovrano britannico ha reso omaggio a quelle terre e ha incontrato chi le difese con coraggio per ricordare quanto la libertà sia stata, e sia ancora, una preziosa conquista lasciata in eredità. ■

di Nicoletta Sagliocco
Ora e sempre Resistenza
I partigiani e le partigiane che hanno contribuito alla liberazione dell'Italia dall'occupazione nazifascista e i ragazzi di oggi che ancora manifestano per ideali di libertà, giustizia e uguaglianza

1. Tina Anselmi Durante l’occupazione nazifascista appena diciassettenne, fu obbligata dai nazisti ad assistere all’impiccagione di un gruppo di partigiani a Bassano del Grappa. Dopo quel momento decise di unirsi alla Resistenza portando messaggi, armi e medicinali sotto il falso nome di Gabriella, rischiando spesso di perdere la vita. Si distinse a tal punto nella lotta partigiana che fu nominata staffetta e segretaria personale del comandante militare regionale Cesare Sabatino Galli. Copyright: "Associazione In Memoria di Tina Anselmi" ■

5. Nilde Iotti è stata una partigiana e tra gli esponenti principali del partito comunista italiano. Dopo l’8 settembre 1943, Iotti entrò nella Resistenza nei “Gruppi di difesa della donna”, attivi contro i nazifascisti anche nella provincia di Reggio Emilia. Da quell’impegno nacque il suo percorso politico, che la portò all’Assemblea Costituente. Il suo impegno politico è coronato nel 1979 quando fu nominata presidente della Camera. Copyright Camera dei deputati portale storico ■

Tramandare la memoria

Il volto giovane della resistenza
i ragazzi e le ragazze partigiane
Grazie al progetto Viva l’Italia le scolaresche di tutto il paese hanno festeggiato l’Anniversario del 25 aprile con la proiezione in anteprima della serie Fuochi d’artificio
È stato un incontro intenso e pieno di emozioni quello che si è tenuto il 4 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Per celebrare l’ottantesimo Anniversario della Liberazione dal nazifascismo, la sala concerti Petrassi è stata trasformata in un cinema dove alcune scolaresche romane, insieme ad altre collegate in diretta streaming da 30 città simbolo della Resistenza, hanno visto in anteprima due puntate di Fuochi d’Artificio
La serie tv, trasmessa in prima serata su Rai 1 il 15, 22 e 25 aprile, racconta uno dei momenti cruciali della storia recente del nostro Paese, ma dal punto di vista di Marta, una ragazzina di 12 anni. Siamo nel 1944 e sulle Alpi piemontesi fascisti e soldati tedeschi sono impegnati a combattere contro i partigiani.
La protagonista, che vive con i nonni in un piccolo paesino, capisce di poterli aiutare più facilmente rispetto agli adulti perché ai posti di blocco non viene perquisita. È troppo piccola per poter essere considerata una minaccia. Allora, insieme al fratello Davide e agli amici Sara e Marco, inizia a passare alle brigate combattenti cibo e informa-
zioni, fino ad organizzare piccole azioni di sabotaggio. «Ho letto il romanzo con mio marito e i miei figli e ce ne siamo subito innamorati» ha raccontato la regista Susanna Nicchiarelli nell’incontro che è seguito alla proiezione. La serie, infatti, è tratta dall’omonimo libro di Andrea Bouchard, pubblicato da Salani editore nel 2015. «È una storia che ha tanti livelli di lettura ed è ricca di valori che vale la pena trasmettere alle nuove generazioni, come la pace, la libertà, l’amicizia e la solidarietà».
Ma ciò che rende unico questo prodotto è il punto di vista da cui vengono narrate le vicende e il pubblico a cui si rivolge: «Mancava un racconto per immagini sulla Resistenza che fosse adatto alle famiglie e che parlasse di temi importanti in termini così semplici e al tempo stesso profondi» spiega Nicchiarelli, che aggiunge: «Il mio sogno è che i nonni con i nipotini, i genitori con i figli si ritrovino davanti alla televisione a vedere insieme questa serie». Un’aspirazione che non sembra essere lontana dal realizzarsi, considerata la calorosa accoglienza che la platea di giovanissimi spettatori ha riservato alle prime due puntate. Gli scrosci di applausi
che hanno accompagnato i titoli di coda si sono fatti ancora più fragorosi quando a salire sul palco insieme alla regista, a Bouchard e all’attrice protagonista Anna Losano è stata la partigiana Luciana Romoli.
Classe 1930, romana, la donna ha travolto tutti, raccontando con un’intensità fuori dal comune la sua esperienza di staffetta. Nata in una famiglia antifascista, entra a far parte della Resistenza nell’ottobre del ’43, due mesi prima del suo tredicesimo compleanno. Da qual momento in poi diventa Luce, il suo nome di battaglia, e inizia ad andare in giro in bicicletta giorno e notte per mantenere i collegamenti tra il Comitato di liberazione e le brigate.
Il pericolo di essere catturata e uccisa dalle pattuglie tedesche era altissimo. «Ma noi non avevamo paura» rivela Romoli «perché combattevamo per i valori della Resistenza, che erano pace, giustizia e libertà». Valori poi diventati i pilastri della nostra Costituzione, che non vanno mai dati per scontati. «Perciò studiate, studiate, studiate» dice Luce alla platea, «perché una nazione senza memoria è una nazione senza futuro».■
SCUOLA
di Lavinia Monaco
Resistenza nell'arte

Quando la letteratura resiste
Beppe Fenoglio,
Primo Levi e Marguerite
Yourcenar, un viaggio nella scrittura come atto di lotta morale, politica e civile
C’è una scena in Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio in cui il protagonista, mentre attraversa i boschi delle Langhe, riflette sul senso della sua scelta di combattere. Non è solo questione di ideologia o di coraggio: è questione di dignità. Di non accettare l’assurdo, l’ingiustizia, l’oppressione come normalità. In quella pagina, come in tutta l’opera di Fenoglio, la resistenza si fa carne, si fa parola, si fa gesto narrativo. Non è solo un evento storico da ricordare, ma un’esperienza esistenziale che continua a parlare, a mordere, a interrogare chi legge. Perché la resistenza, in letteratura, è molto più di un tema: è un modo di stare al mondo.
all’oblio, per costruire una memoria collettiva che non sia compiacente, ma problematica, inquieta, viva.
di Ludovica Bartolini
Nella storia del Novecento italiano, la letteratura resistenziale ha rappresentato una delle forme più alte di impegno civile. Gli scrittori che hanno raccontato la lotta partigiana non lo hanno fatto solo per documentare i fatti, ma per dare voce a una verità morale. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, scrive: «Comprendere è impossibile, ma conoscere è necessario». La conoscenza, attraverso la narrazione, diventa allora uno strumento per opporsi
Eppure, limitare la resistenza in letteratura alla sola stagione della lotta antifascista sarebbe riduttivo. La letteratura è, per sua natura, uno spazio di resistenza. Lo è ogni volta che rifiuta la semplificazione, l’omologazione, il conformismo. Ogni volta che scava nella complessità del reale, che dà voce a chi non ha voce, che mette in crisi il potere. Scrivere è un atto profondamente politico, anche quando non parla esplicitamente di politica. Come ricorda George Orwell, «ogni riga di un serio lavoro letterario è stata scritta con uno scopo politico».
Pensiamo alla scrittura di Antonio Scurati, che nei suoi romanzi su Mussolini (M. Il figlio del secolo, M. L’uomo della provvidenza, M. Gli ultimi giorni dell’Europa) ha scelto di raccontare il fascismo dal suo interno, attraverso un montaggio di fonti storiche e invenzione narrativa. È una scelta che ha fatto discutere, ma che non si può accusare di neutralità. Anzi,
STORIA

proprio quella scrittura ibrida, a cavallo tra storia e romanzo, mette il lettore davanti a una responsabilità: quella di riconoscere i meccanismi del potere, di vedere come il consenso si costruisce, come la violenza si normalizza. In un’intervista a La Repubblica, Scurati ha dichiarato: «Scrivere di fascismo significa oggi interrogarsi su come possa rinascere sotto nuove forme. Non è una ricostruzione storica, è una sfida morale».
La letteratura resiste anche quando si fa dissidenza nei regimi che la censurano, la temono, la perseguitano. Dalla poesia di Osip Mandel’štam nella Russia stalinista alle parole di Ngũgĩ wa
Thiong’o, imprigionato in Kenya per aver scritto nella sua lingua madre, ogni pagina diventa un atto di ribellione. In questi casi, la parola è pericolosa perché libera. Perché afferma la dignità dell’individuo contro il dominio del collettivo. Perché dice ciò che il potere vuole zittire. E poi c’è la resistenza più sottile, quella che si esercita ogni giorno contro l’indifferenza, contro l’oblio, contro il rumore assordante dell’informazione veloce.
Gli scrittori che continuano a raccontare le storie dei migranti, dei lavoratori invisibili, delle minoranze oppresse, praticano una forma di resistenza silenziosa ma radicale. Scrivere diventa allora un

modo per tenere accesa una luce, per opporsi alla cancellazione, per rifiutare la narrazione dominante. Come ha scritto Marguerite Yourcenar: «Il compito dello scrittore non è di accettare il mondo così com’è, ma di cercare di trasformarlo». È questa la forza della letteratura: la sua capacità di immaginare altri mondi, altri futuri, altre possibilità. Di non accontentarsi della realtà, ma di interrogarla, di scardinarla, di sfidarla. In un’epoca in cui la verità è spesso deformata, la letteratura può ancora essere un presidio di resistenza etica.
«Il
compito dello scrittore non è di accettare il mondo così com'è, ma di cercare di trasformarlo»
Ma perché tutto questo sia possibile, servono lettori disposti a mettersi in gioco. Perché leggere, come scrivere, è un atto di resistenza. Significa rallentare, ascoltare, empatizzare. Significa accogliere punti di vista diversi dal proprio, entrare in mondi sconosciuti, uscire dalla comfort zone. In un tempo che premia la superficialità e l’immediatezza, la lettura profonda è già di per sé un gesto controcorrente. Ogni testo che sceglie di raccontare ciò che è scomodo, che si oppone alla narrazione dominante, è un atto di resistenza.
La resistenza in letteratura, quindi, non è solo un tema da studiare o da celebrare in occasione delle ricorrenze. È una postura, un’attitudine, una scelta di campo. È lo spazio dove la parola si fa responsabilità, dove il silenzio viene rotto, dove l’ingiustizia viene nominata. In questo senso, ogni scrittore che sceglie di raccontare ciò che disturba, che ferisce, che divide, sta compiendo un atto di resistenza. E mentre i libri continuano ad essere scritti, censurati, amati o dimenticati, resta il bisogno profondo di storie che ci aiutino a capire chi siamo, dove siamo, cosa possiamo diventare. Resistere, oggi, non è solo ricordare. È continuare a raccontare. ■
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Marguerite Yourcenar, 10-04-1982, Berbard De Grendel
Primo Levi, in Primo Levi e le sue storie. 30 anni dopo
Beppe Fenoglio, tratto dallo speciale del 1994 Beppe Fenoglio: la guerra di Johnny
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«Tutte le genti che passeranno»
La storia di Bella ciao è quella di un inno alla Resistenza, ma ha origini molto più antiche della lotta partigiana
di Nicole Saitta
Tra le immagini di montagne impervie, staffette coraggiose e lotte disperate si alza una melodia immancabile nell’aria: Bella ciao. Nella memoria della Resistenza italiana, questa canzone è diventata un inno universale alla libertà. Cantata dai partigiani dopo la Seconda guerra mondiale, ha attraversato epoche, confini e generazioni e oggi risuona in ogni parte del mondo in cui si lotti contro l’oppressione.
Le radici di questo canto sono da ricercare nella tradizione popolare, molto prima che diventasse il simbolo della lotta partigiana: erano le mondine, lavoratrici delle risaie della Pianura Padana, a intonare canti di protesta contro le dure condizioni di lavoro. «Dovrebbe essere di combattenti maschi, invece veniva intonata da Gianna Daffini, una cantante popolare che lavorava nelle risaie piemontesi», ha spiegato Paolo Giovannetti, professore di poesia, canzone e letteratura all’Università IULM di Milano. Allora, Bella ciao parlava di fatica, soprusi e dignità. Da quelle melodie antiche nasce l’ossatura musicale di questa musica che diventa una mescolanza di due tradizioni, trasformandosi: «Una è sicuramente quella della gran-
de ballata, che in Italia veniva chiamata “canzone epico-lirica”, in cui si ritrova questo elemento distintivo dei canti popolari narrativi, il resto corrisponde ai fatti internazionali delle ballads inglesi».
Secondo l’etnomusicologo Roberto Leydi, Bella ciao presenterebbe delle analogie musicali con il gioco infantile, che spiegherebbe il tradizionale battito di mani durante il ritornello. «La ballata è una storia, un racconto drammatico, dunque battere le mani è qualcosa che viene da un elemento più femminile, di una mamma che canta a un bambino. Questo è un elemento curioso», sottolinea Giovannetti.
Negli anni Quaranta, poi, il testo cambia ancora. La protagonista non è più una mondina, ma un partigiano che si congeda dalla sua amata e si prepara a morire per un ideale più grande: la libertà. La forza del messaggio la rende rapidamente popolare tra le brigate partigiane, in particolare nel nord Italia. Dopo la Liberazione del 25 aprile 1945, Bella ciao conosce una nuova vita: non è più confinata alla memoria della Resistenza italiana, ma diventa un inno internazionale. Negli anni Ses-
santa, grazie ai movimenti studenteschi, viene tradotta e cantata in molte lingue. In Francia, negli Stati Uniti, in Sud America: ovunque si lotti contro dittature e ingiustizie, risuona come una bandiera sonora di speranza e ribellione.
Ulteriore momento di svolta fu lo spettacolo del 1964, intitolato proprio “Bella ciao”, portato in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto, in Umbria: «Fu uno spettacolo di canti popolari in cui questa musica divenne ancora più famosa». Per il professore Giovannetti, ciò che ha fatto la differenza nella notorietà del canto è «la leggerezza femminile» conferita dalle mondine e dall’influenza dei giochi infantili. È un canto anomalo e, forse, il suo segreto è proprio questo.
Negli ultimi anni, la canzone ha conosciuto un ulteriore momento di popolarità grazie alla serie televisiva spagnola La Casa de Papel, prodotta da Netflix, che l'ha riproposta a un pubblico globale, rinnovando il suo significato in chiave contemporanea: un inno non solo politico, ma anche esistenziale, una dichiarazione di fermezza personale contro ogni forma di imposizione. Ma cosa c’entra un gruppo di ladri spagnoli con un canto popolare della Resistenza italiana? Probabilmente hanno in comune poco o nulla, ugualmente a mondine e partigiani. Bella ciao può essere vista come simbolo di ribellione contro un’autorità costruita e nessuno meglio di un gruppo di ladri intenzionati a rapinare la Banca di Spagna può incarnare la lotta del popolo contro il colosso finanziario, spesso considerato responsabile delle ingiustizie globali. Proprio per questo motivo Javier Gomez Santander ha deciso di inserirla all’interno della serie. L’inno rivive, interpretando un generico invito a tenere saldo il coraggio per seguire i propri ideali. ■

CANZONI
La mappa

GROENLANDIA
L'isola più grande del mondo è contesa tra gli Stati Uniti, la Danimarca (che ne detiene la sovranità) e gli indipendentisti. Gli inuit difendono le lande di ghiaccio, Trump ambisce alle terre rare
FRANCIA
Nell’Europa occupata, mentre il regime di Vichy collabora con i nazisti, nella clandestinità si organizza la resistenza: sabotaggi, staffette, stampa illegale e reti di fuga sfidano la repressione
PORTOGALLO
La rivoluzione dei Garofani in Portogallo pose fine al regime autoritario di Salazar. L’azione fu rapida e quasi priva di violenza. Quei fiori sono il simbolo di una rivoluzione pacifica
Resistenze nel mondo
Non solo in Italia. I regimi dittatoriali sono stati combattuti in altri Paesi, come Francia, Germania e Porotgallo. E ancora oggi, tante popolazioni lottano per la libertà e la giustizia, come in Argentina. Oppure, in casi come la Palestina e la Groenlandia, in gioco ci sono interi territori. Ecco le resistenze che abbiamo raccontato in questo numero di Lorenzo Pace
ARGENTINA
Durante la dittatura di Videla, decine di migliaia di studenti, attivisti e militanti politici sono scomparsi. Sono i Desaparecidos: prima le madri e le nonne, oggi i figli e i nipoti cercano risposte
STORIA
GERMANIA
A Monaco di Baviera la resistenza non violenta della Rosa Bianca, un gruppo di studenti tedeschi che si è ribellato alle menzogne del regime nazista combattendo la dittatura con dignità

PALESTINA
Dall'Intifada a oggi: la resistenza quotidiana per la vita e per la terra, da Gaza alla Cisgiordania, si incrocia con quella degli israeliani che lottano contro la guerra e gli insediamenti illegali dei coloni

Desaparecidos argentini nomi scolpiti nella pietra
La storia di Sofia e sua madre Silvia, scomparsa sotto la dittatura di Videla
di Simone Salvo
Non tutti sanno che Buenos Aires non è bagnata in modo diretto dall’Oceano. Si affaccia su una baia dell’Atlantico denominata Rio de la Plata (“fiume dell’argento”). A dispetto del nome non è un fiume in senso stretto, ma il più grande estuario del mondo. Negli anni bui del Processo di Riorganizzazione Nazionale (1976-1983) le sue acque torbide furono usate per far sparire migliaia di dissidenti politici, in alternativa alle fosse comuni. I soggetti indesiderati erano caricati su aerei o elicotteri, drogati e gettati giù nella baia. L’obiettivo era farli svanire nel nulla, senza lasciar traccia. Da qui il nome, desaparecidos, scomparsi.
I “voli della morte” partivano da diversi aeroporti militari di Buenos Aires: uno di questi proprio sulle rive del Rio. A poche centinaia di metri dalla pista si erge oggi un monumento in ricordo di tutte le vittime del terrorismo di Stato. «Il Parque de la Memoria è un luogo austero. Anche l’impatto cromatico è forte. In mezzo al prato ti trovi davanti a questi muri di granito scuro che si stagliano alti contro il cielo azzurro. Poco oltre si vede l’acqua marrone del Rio de La Plata». A parlare è Sofia Borri: quello di sua madre, Silvia Susana Roncoroni, è uno degli ol-
tre trentamila nomi incisi sulle pareti. La loro storia è stata raccontata per la prima volta dal podcast Figlie di Sara Poma.
Nel 1978 Silvia ha trentacinque anni. È una madre e una sorella. Per i nipoti Cristian e Belén, la zia progressista cui affidare i propri sogni da adolescenti. Alla sua brillante carriera da architetta affianca la militanza nel partito comunista marxista leninista. Una doppia vita difficile da ricostruire, anche per amici e familiari. Il giorno del sequestro, il 26 febbraio, Silvia si trova in una “casa sicura” a Mar del Plata, insieme alla figlia di due anni e ad altre tre compagne di partito. Di quella notte Sofia conserva solo sprazzi confusi di memoria: buio, luci accecanti, grida.
C’è un’altra bambina con lei: è Victoria, la figlia di Dora Cristina. Le due nenas - così le chiamano - sono legate sin da subito da un destino comune. A entrambe, per ragioni di sicurezza, è assegnato un “nome da guerra”, Nani e Toti. Nei vestiti di entrambe è nascosto l’indirizzo delle rispettive nonne, cucito sulla biancheria. Dopo il sequestro le bimbe passeranno una settimana in un luogo imprecisato, forse un orfanotrofio, prima di essere ri-
BUENOS AIRES
consegnate alle famiglie. Sofia andrà a vivere per alcuni mesi a casa dei nonni. Poi inizierà una nuova vita in Europa con il padre: prima in Svezia, poi in Italia.
Per tutta l’infanzia e l’adolescenza il ricordo della madre rivive solo nei racconti del papà e in Sofia cresce forte il bisogno di ricongiungersi con il proprio passato. A 17 anni parte alla volta dell’Argentina. Due anni dopo, nel 1995, un secondo viaggio. «A quell’età hai voglia di vedere, di scoprire. Io avevo una fame incredibile di relazioni. Volevo capire, confrontarmi con gli altri». A Buenos Aires è tempo di fermento e di lotta. Sofia conosce da vicino il mondo della militanza politica. Entra in contatto con las Madres de Plaza de Mayo, il movimento delle madri che reclamava giustizia per i desaparecidos. Negli stessi anni nasce H.I.J.O.S., l’organizzazione dei figli. Tra i fondatori c’è anche sua cugina Josefina: il padre Carlos è un’altra vittima della dittatura di Videla.
«Ho
piantato nelle mie figlie piccoli semi di memoria»
«Mi sono sentita parte di una comunità. Avevamo tutti la stessa esigenza di riprenderci la nostra identità rubata», racconta Sofia. «Nell’attivismo ho instaurato dei rapporti di fratellanza e sorellanza di cui mi sono presa molta cura negli anni a venire. Volevo mantenere vivo questo pezzettino di me al di là dell’oceano».
Con H.I.J.O.S nascono gli escraches, le rumorose “segnalazioni pubbliche” davanti alle case dei torturatori rimasti impuniti. «Ho partecipato a molte di quelle manifestazioni. Sono momenti di grande potenza, in cui ti senti protagonista. Stai lì con tanta altra gente a urlare, eppure al contempo ti sembra di essere lì da solo. Sei il piccolo ingranaggio di una collettività unita di fronte alle ingiustizie».
Negli anni Sofia è andata e tornata dall’Argentina. Ha costruito legami sempre più forti con i cugini, ha letto e riletto il quaderno di nonna Rosita, ha incontrato le amiche e i compagni di militanza di sua madre. Ha messo insieme foto e racconti, come pezzettini di un puzzle. «Chi era più grande quando ha perso i genitori ha dei ricordi a cui aggrapparsi. Io, invece, mia madre me la sono potuta solo immaginare», racconta.
«Nella mia testa, Silvia era una donna indipendente e anticonformista. Era appassionata: le piaceva il lavoro da architetta. E poi era una persona solare, capace di mettere gli altri a proprio agio». Tutte caratteristiche che Sofia rivede in se stessa. «Mi piace pensare di aver ereditato da lei questi tratti. Ho la sensazione che saremmo andate molto d’accordo».
Sofia non ha molte fotografie della madre. È un problema comune tra i figli dei desaparecidos. «Per i militanti farsi immortalare con i familiari poteva essere pericoloso», spiega. Sono due le immagini a cui Sofia tiene in modo particolare. In una Silvia ha 21 anni e si trova insieme a un gruppo di amici dell’università. «Dietro di lei c’è anche suo cugino Carlos che suona la chitarra. Sembra una giovane piena di energia». L’altra è la sua foto preferita in assoluto. «Qui è seduta in un parco e ha le gambe chilometriche ben in vista. Gli amici dicevano che era una donna molto attraente, che riempiva le stanze con la sua presenza. Una gnoccona, diremmo oggi».
Poi c’è un’immagine che Sofia non ama molto. È l’unico scatto che le ritrae insieme, dove la madre è girata di profilo e «ha l’aria triste e preoccupata». «Di solito non la mostro», confessa. «Eppure è la sua sola foto a colori. Si può vedere che era bionda, mentre io non lo sono», sor-
ride. «Anche le mie figlie hanno i capelli chiari. Mi rende felice il pensiero che li abbiano presi da lei».
Oggi Amanda e Adele non sono più due bambine. «Sono due milanesi che parlano itagnolo e che un giorno potranno approfondire le loro radici argentine, se vorranno. In loro ho piantato dei piccoli semi ma starà a loro decidere cosa farne». Il passaggio di consegne generazionale è l’ingrediente principale della memoria. Prima c’erano las abuelas e las madres, poi gli H.I.J.O.S. Oggi tocca ai nipoti continuare la lotta. «Si definiscono nietes, con il plurale inclusivo».
A febbraio, dopo quasi cinquant’anni dalla scomparsa della madre, Sofia è stata chiamata a testimoniare. Con lei, anche Victoria e gli altri parenti delle militanti sequestrate quella notte. «Appena atterrata sono andata subito al Parque de la Memoria. Fissando il nome di Silvia, mi è montata la rabbia e mi è venuto da piangere. Poi, ho pensato alle persone che mi circondavano, a quello che il mausoleo rappresentava per tutti e mi sono sentita abbracciata, in un profondo senso di comunità». Su quei muri non c’è solo sua madre, ma il cugino Carlos, la madre di Victoria e i protagonisti di trentamila storie, una diversa dall’altra. «Di recente, persino chi non aveva mai conosciuto Silvia mi ha scritto:“Quando tornerò al parco, andrò a salutare anche lei”». ■


La Rosa bianca, il sacrificio dei giovani avversari di Hitler
Contro il nazismo, in Germania, per incitare il popolo a «strappare il manto dell’indifferenza» e a combattere la dittatura con dignità. Dal fiore e dal colore della purezza prende il nome la Rosa bianca, un gruppo di giovani studenti ghigliottinati a causa della ribellione alle menzogne del regime.
Attivo dal giugno 1942 al febbraio 1943, durante la Seconda guerra mondiale, la Rosa bianca ha come epicentro della resistenza non violenta e clandestina Monaco di Baviera, città dove studiavano medicina all’università tutti gli studenti maschi del gruppo: Hans Scholl, Christoph Probst, Alex Schmorell e Willi Graf.
A loro si unirà qualche anno più tardi Sophie Scholl, sorella di Hans e studentessa di filosofia e biologia. Era parte della compagine anche Kurt Huber, professore di filosofia ed esperto di musica popolare. «Dopo i primissimi anni in cui furono considerati traditori della patria, con l’uscita nel 1952 del primo libro sulla Rosa bianca di Inge Scholl [sorella di Hans e Sophie Scholl, n.d.r.], la storia ha cominciato a essere conosciuta», spiega Paolo Ghezzi, autore dell’opera «La rosa bianca.
La resistenza al nazismo in nome della libertà». Il gruppo ha prodotto e distribuito sei volantini con una tiratura limitata, prefigurando un’Europa federale che superasse gli egoismi nazionali, e una forma di governo alternativa a quella dell’epoca. Tra i temi spiccavano il riferimento ai valori cristiani, la denuncia della criminalità del regime e un appello a risvegliarsi dalla «narcotizzazione» e dal «sonno della coscienza».
La Rosa bianca combatté per la libertà attuando una «resistenza allo stato puro», e con una vernice al catrame imbrattò, in segno di protesta, alcuni edifici pubblici di Monaco. «Preferirei essere lì da sola, essere una trota...» scrisse Sophie Scholl il 17 febbraio 1943, nella sua ultima lettera prima di morire all’amica Lisa Remppis. La ragazza, descritta come un “maschiaccio” dai vicini di casa, aveva un legame profondo con la natura, tanto che adorava arrampicarsi sugli alberi e bagnarsi con l’acqua mentre trascorreva momenti all’aria aperta. Si riuniva con gli altri membri del gruppo in serate letterarie e culturali a discutere di libri, articoli e prospettive politiche. Apprezzava la scrittura, l’arte, la musica e il disegno, si distingueva per
lo spirito critico, l’animo anticonformista e la capacità di analizzare la società. «A Sophie piace vivere, l’appassiona questa avventura», scrive Ghezzi. Lei fu l’unica ragazza del gruppo e pagò con la vita, a poco più di vent’anni, la sua resistenza. Introdotta con un busto di marmo nel Walhalla di Regensburg assieme a personaggi tedeschi significativi come Martin Lutero, Albert Einstein e Ludwig van Beethoven, per Ghezzi Sophie Scholl «è diventata una figura fondativa della nuova Germania, una delle donne più conosciute nel Paese».
La Rosa bianca è diventata «un fenomeno mediatico popolare nella memoria collettiva, un mito», ricorda Ghezzi, citando le scuole, le piazze e i monumenti intitolati ai protagonisti del sacrificio contro il sistema hitleriano. La Rosa bianca non ha stabilito collegamenti con gruppi più importanti della resistenza tedesca, per cui è lecito parlare di fallimento sul piano dei risultati storici. Non aveva chance di rovesciare il regime, eppure resta indelebile l’impronta lasciata sotto il profilo della memoria e del messaggio simbolico: «È stato colto il valore ideale e la spinta del gruppo», conclude l’esperto. ■
di Matilde Nardi
La storia di un gruppo di studenti che ha sfidato la dittatura con coraggio
LIBERTÀ

Marcel, "postino" della Résistance a sei anni
STORIE
In Francia, visse e cadde tra i partigiani come un piccolo messaggero di libertà
di Asia Buconi
Prima arriva la sconfitta sul campo di battaglia. Siamo all’alba del secondo conflitto mondiale e la Francia capitola in appena 20 giorni, piegata dall’esercito nazista dopo una trafila di disastri militari. Il 13 giugno 1940 Parigi viene evacuata e il governo fugge a Bordeaux. Poi tocca all’occupazione: la Wehrmacht si prende una parte del territorio francese. Da qui, l’armistizio con la Germania, firmato il 22 giugno dal maresciallo Pétain, nominato nel frattempo a capo del governo collaborazionista installatosi a Vichy, sud della Francia. Il nord-ovest del Paese sarà invece amministrato direttamente dai tedeschi.
In questo contesto si solleva il grido del generale Charles De Gaulle, che il 18 giugno, da Londra, via radio, lancia un appello a non piegarsi, prima vera manifestazione pubblica della Resistenza francese. Da lì dedica tutto se stesso a un solo obiettivo: organizzare un embrione di governo in esilio nelle colonie. All’inizio è isolato, da solo con pochissimi a fondare “la France libre”. Le iniziative dei partigiani d’Oltralpe sono locali e prive di coordinamento: sono deboli. Col tempo, però, nascono le prime reti: i cristiano-demo -
cratici di Combat, i socialisti di Libération. Solo nel 1943 - quando De Gaulle manda in Francia Jean Moulin - la resistenza interna si unifica: nascono l’Armée Secrète e poi le Forces Françaises de l’Intérieur. Prima di allora, però, i nazisti si fronteggiano con piccoli gruppi spontanei. È in questo contesto che va inquadrata la vicenda del piccolo Marcel Pinte, detto “Quinquin” –come la canzone ottocentesca “Le petit Quinquin” – oggi considerato il più giovane eroe della Resistenza francese.
Marcel ha solo quattro anni quando suo padre Eugène, alias comandante “Athos”, affitta una fattoria dove trasferisce la famiglia e crea una cellula clandestina. In breve, la fattoria diventa uno dei centri più attivi della resistenza a Limoges, nel sud-ovest del Paese. Qui si pianificano operazioni, arrivano paracadutisti inglesi e carichi di armi da nascondere in soffitta.
Il piccolo Marcel osserva tutto e vuole rendersi utile. Ma questa volontà gli sarà fatale. A riportare alla luce la sua storia è oggi Marc Pinte, nipote del comandante Athos, insieme a un altro parente, Alexandre Brémaud. Ed è il primo a spiegare come il piccolo Marcel tra i maquisards,
i partigiani, fosse una sorta di “postino”: «Marcel aveva sorpreso tutti con la sua incredibile memoria. Portava messaggi ai capi della resistenza nascondendoli sotto la camicia, raccoglieva informazioni quando andava a fare una passeggiata o a scuola, giocava con una lampada elettrica per fare il codice morse. E, naturalmente, passava inosservato perché era un bambino». «All’inizio deve averlo preso come un gioco – continua Marc Pinte – ma presto si è reso conto che era rischioso». Lo era davvero. Quinquin verrà ucciso a soli sei anni il 19 agosto 1944, proprio poco prima della Liberazione. Un’ulteriore beffa: morirà per errore, per una pallottola partita da un fucile britannico, un incidente di fuoco amico.
Poco dopo il suo decesso, aerei inglesi sorvolano la casa dei Pinte con stendardi neri. Nel 2020 il nome di Marcel è iscritto sul monumento ai caduti del suo piccolo paese, Aixe-sur-Vienne, dove riposa nella sua lapide rosa accanto al padre, morto pochi anni dopo di lui – qualcuno dice di crepacuore – nel 1951. Sulla pietra sono iscritte le parole “il mio fiore preferito è il non-ti-scordar-di-me”. E chi mai potrebbe, Quinquin, piccolo grande eroe? ■
1. Marcel Pinte. Photo credit: Alexandre Bremaud

L'eco Usa nel silenzio dei ghiacciai
Trump mira alle terre rare nell'Artico, ma l'isola è sotto la sovranità della Danimarca e ambisce
all'indipendenza
a una base militare Nato targata Usa. Lì e in altri presidi americani il vicepresidente J.D. Vance si è di recente recato in visita, accompagnato dalla moglie Usha, tra sorrisi e cappellini "Make Greenland Great Again”. «Se gli Stati Uniti non si interesseranno alla Groenlandia, allora lo faranno Cina e Russia», il monito del numero due di Trump.
Proprio in risposta alle pressioni internazionali e interne, lo scorso marzo JensFrederik Nielsen, leader dei democratici, è diventato il nuovo primo ministro e ha formato una coalizione di unità nazionale insieme ad altri tre partiti. L'accordo di governo gravita attorno allo sviluppo, ma invita alla prudenza: «Arriverà, ma non ora. Prima dobbiamo emanciparci sul piano economico», ha avvertito Nielsen. «La gente qui è divisa», ammette Patrick O'Fredericksen, capitano della nazionale di calcio e operatore sociale in un orfanotrofio di Nuuk. «C'è chi preferisce restare con la Danimarca, chi guarda con curiosità agli Usa e pochi sono realmente convinti della libertà totale. Da soli non riusciremmo a sostenerci». Metà del bilancio annuale della Groenlandia arriva da Copenaghen: 600 milioni di euro, l’incognita è trovare nuove soluzioni per sostituirli.
di Gabriele Ragnini
Tra le lande bianche alla periferia di Nuuk neanche il silenzio sembra più durare per sempre. Come il ghiaccio, laggiù chiamato “eterno” o permafrost, che al disgelo ha portato gli insediamenti indigeni a riversarsi attorno alla capitale groenlandese. «Prima vivevamo negli igloo, cacciavamo, pescavamo. Io però sono nato quando molti di noi si erano già trasferiti nelle città». Milo Biilmann è il primo inuit diventato calciatore professionista, tanti dei suoi sono stati costretti ad abbandonare negli anni ’70 le abitudini da viandanti dei fiordi. Colpa dello scioglimento dei ghiacciai, lo stesso che ha man mano rivelato al mondo le terre rare.
Da lì, il frastuono al di là del mare: «Abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza internazionale, dobbiamo prenderla anche con la forza». Le minacce di Donald Trump fanno da mesi eco alle mire espansionistiche mai nascoste dagli Stati Uniti. Rimbombano gli avvertimenti a Copenaghen, rimasta sovrana pur concedendo ampia autonomia alla Groenlandia. E all'Europa intera, che teme il ripetersi di una colonizzazione moderna.
«C'è chi aspetta di svegliarsi una mattina e trovare navi militari statunitensi al largo di Nuuk», spiega Penny, ricercatrice inglese residente nell’Artico. «È già in corso una guerra invisibile, fatta di fake news sui social network, divisioni interne e propaganda che sfrutta persino le ferite storiche tra danesi e inuit». È la paura di nuovi coloni ad aumentare la sfiducia di chi abita da secoli quell’isola. Vecchie brine risalgono al ’53, quando gli inuit furono cacciati dall’insediamento di Thule per far spazio
E mentre la politica internazionale inizia a galleggiare attorno all'isola, tra i locali restano profonde cicatrici sociali. Il 22% degli adulti soffre di alcolismo per far fronte alla solitudine, alle notti polari che si alternano sei mesi l’anno con il sole di mezzanotte. Tra i giovani, il suicidio resta la prima causa di morte. «Mio fratello non ha retto, si è tolto la vita lo scorso novembre», è la testimonianza di Milo, che saluta dalle Isole Faroe, abbattuto ma ancora non rassegnato. «Nel frattempo sono stato costretto a trasferirmi qui per fare del calcio un lavoro. È sempre un problema di fondi, in tutti i campi, per qualunque mestiere. Ma resto fiducioso: è solo questione di pazienza». La stessa che da quelle parti li fa resistere al frastuono. ■

GROENLANDIA
Resistenza nel mondo

Né con Israele né con Hamas la terza via dei palestinesi
A
Gaza e in Cisgiordania la popolazione si ribella contro la guerra e contro chi ha il controllo della Striscia dal 2007
di Francesco Esposito
Fra le macerie di Gaza, dalla fine di marzo 2025, si muovono cortei di persone stremate dalla fame. Manifestano non solo contro la guerra ma anche per opporsi a chi dal 2007 controlla la Striscia. «Non sono andato, ma sono proteste giuste. Non vogliamo Hamas e non vogliamo le bombe», spiega Majed Al-Shorbaji, rifugiato in Italia dal 2019, ora bloccato a Jabalya con la moglie incinta Lasim.
Non tutti i gazawi, però, sono convinti della genuinità delle proteste. C’è anche chi, come il cooperante Sami Abu Omar, pensa che siano i servizi segreti israeliani a guidarle, «con l’obiettivo di cacciare dalla Striscia i suoi abitanti», racconta da Khan Younis: «Le proteste sono arrivate anche qui». Due visioni opposte che raccontano di una popolazione allo stremo. Ma con l’anima politica che non si spegne. «Alcune persone sono
scese in strada perché sono stanche di chi governa. Ma penso che le manifestazioni non siano solo anti-Hamas», spiega Xavier Abu Eid, politologo palestinese, collaboratore di Al Jazeera ed ex consulente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp): «Anche alcuni sostenitori di Hamas hanno partecipato alle manifestazioni, si tratta di un movimento molto più grande. È la nostra gente e dovremmo ascoltarla. Credo, infatti, che le accuse ai manifestanti di essere spie israeliane siano addirittura vergognose».
Il focus delle proteste, per Abu Eid, resta la catastrofe umanitaria e la necessità che la guerra finisca. «Le persone vogliono porre fine al genocidio. Persone la cui condizione di civili è stata negata dall’occupazione israeliana». Cinque giorni dopo il massacro del 7 ottobre 2023, il presidente israeliano Isaac
Herzog aveva dichiarato che «l'intera nazione» dei gazawi era «responsabile» dell’attacco. E che la retorica dei “civili ignari e non coinvolti” non era vera. «Avrebbero potuto resistere», aveva aggiunto, «avrebbero potuto combattere il regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza».
Larakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, “movimento islamico di resistenza”, da cui l’acronimo Hamas, nasce ufficialmente nel 1987, ma governa la Striscia dal 2007. Dopo aver vinto le elezioni dell’Autorità Nazionale Palestinese, nel gennaio 2006, vince anche il conflitto armato che scoppia subito dopo contro Fatah. «Ma a Gaza ci sono una pluralità di opzioni politiche da tempo. Anche negli anni Cinquanta, ad esempio, c’erano il movimento nazionalista arabo, i Fratelli Musulmani, i comunisti», aggiunge

Xavier Abu Eid. Cinquantamila morti, però, pesano anche sulla politica interna. «È un dato di fatto che Hamas sia debole. Ha perso molta popolarità», sottolinea il politologo prima di chiarire, però che trovare un’alternativa è molto difficile. «C'è una generale crisi dell'intero sistema politico. La maggior parte dei palestinesi non si sente rappresentata da nessun movimento e questo in tutti i territori e nella diaspora».
L’indebolimento riguarda tutta l’Autorità Nazionale Palestinese. L’Operazione “Muro di Ferro” dell’Idf in Cisgiordania, partita il 21 gennaio, due giorni dopo la firma della tregua nella Striscia, ha colpito in particolare i campi profughi di Jenin, Tulkarem e Tubas, in cui sono tanti i sostenitori delle formazioni islamiche. La mancanza di risposta ha reso ancora più fragile la posizione del presidente Abu Mazen. «Non riesce neanche a far entrare del cibo», commenta, affamato, Majed da Jabalya. «Abbiamo bisogno di elezioni», commenta Abu Eid. «C'è bisogno di un dialogo politico nazionale, di ritrovare unità o almeno un governo
di consenso. Ma non si può pensare alle elezioni nazionali nel bel mezzo di un genocidio», e quando più di un milione di persone teme la deportazione.
Non solo a Gaza. La resistenza del popolo palestinese va avanti da decenni anche oltre la kill zone di un chilometro istituita dall’Israeli Defence Force (Idf) all’interno del perimetro della Striscia. Con minacce, aggressioni e falsi acquisti gli insediamenti dei coloni israeliani hanno reso la Cisgiordania uno scolapasta geografico e le azioni quotidiane degli agricoltori palestinesi, come raccogliere i frutti del proprio lavoro nei campi, impossibili.
«Abbiamo
bisogno di elezioni, di un dialogo politico nazionale,
di ritrovare unità»
«Di solito il sistema è quello di stabilire un piccolo avamposto, da cui si muovono per pascolare o per molestare gli arabi della zona», racconta Hagit Ofran, attivista di Peace Now, associazione israeliana che si batte per la pacificazione dei rapporti nella regione.
«Lo Stato sostiene questi atti di violenza e i suoi agenti talvolta vi partecipano direttamente», aggiunge Shai Parnes, rappresentante di B’tselem, Ong che raccoglie, racconta e combatte le violazioni dei diritti umani nei territori occupati. Il governo presieduto da Benyamin Netanyahu continua a sostenere l’attività delle
organizzazioni che creano insediamenti nei territori palestinesi per poi annetterli allo Stato ebraico. «Da quando c’è questo governo ne ha inaugurati quasi cento», aggiunge Ofran, «i ministri della destra vedono i coloni come l'unità d’élite che protegge Israele, dato che considerano ogni angolo della Zona C (la maggior parte del territorio extraurbano della West Bank, ndr) come territorio israeliano e ogni palestinese che le attraversa come un’invasore».
Come spiega Parnes «la violenza dei coloni è una forma di politica governativa, sostenuta attivamente dalle autorità ufficiali dello Stato. Che così si appropria di terre utilizzando metodi ufficiali sanciti da consulenti legali e giudici», ma contrari alla legge internazionale.
Dal 7 ottobre 2023, secondo i dati raccolti da Peace Now, il numero di comunità palestinesi cacciate dalla propria terra è aumentato di dieci volte rispetto all’anno e mezzo precedente. «C'è anche un cambiamento nel modo in cui l'esercito è coinvolto in questa situazione», aggiunge Ofran.
«Ha reclutato coloni per proteggere gli insediamenti perché si temevano altri attacchi. Indossano l'uniforme militare ma agiscono alla stessa maniera». Eppure l’attivista di Peace Now ha ancora speranza: «Perché credo che la maggioranza degli israeliani sosterrà qualsiasi accordo di pace che verrà loro presentato, anche se comprende lo sgombero degli insediamenti in Cisgiordania». Se ci sarà ancora qualcuno a proporlo. ■
1. Proteste a Beit Lahia, nord di Gaza. Ph: Habboub Ramez/ABACA
2 “Un vero leader porta la pace. Un tiranno codardo sacrifica il suo popolo in guerra”, striscione di Peace Now


Erika Raballo, la prima donna pilota di F-35B della Marina
Dall’Accademia ai comandi del jet di quinta generazione: a 28 anni è entrata nella storia della Marina Militare
di Alessio Matta e Elisa Vannozzi
Erika Raballo è seduta nella cabina dell’F-35B, casco allacciato, dita salde sui comandi. Davanti a lei, la pista della portaerei Cavour si confonde con l’infinito blu del mare. Tutto è pronto, l’adrenalina sale. In un attimo, si staccherà dalla superficie per decollare verso il cielo. «Ogni volta che accendo il motore, mi sento esattamente dove ho sempre voluto essere».
Raballo ha 28 anni, è nata ad Alba, in Piemonte, e ha scritto una pagina di storia diventando la prima donna pilota di aerei da combattimento della Marina Militare italiana. La sua storia comincia presto, a soli quindici anni, quando decide di lasciare casa per frequentare la Scuola Navale Militare Francesco Morosini di Venezia. «Da allora non ho mai tolto le stellette e la divisa della Marina», racconta. Il suo sogno, però, sembrava ancora lontano. «Quando avevo come sfondo gli Harrier e vedevo la patch del gruppo aereo imbarcato, c’erano diverse persone che mi dicevano: “Guarda che non
c’è mai stata una donna, non ci sarà mai, non fa per te”. Ma io ci ho creduto fino in fondo. Non mi sono posta limiti e ho sbattuto la testa contro diversi muri. Oggi sono qui e mi sento felice, realizzata e molto fortunata». Il percorso è stato lungo e impegnativo. Per diventare pilota operativo ha dovuto trascorrere tre anni e mezzo negli Stati Uniti, affrontando un addestramento fisico e psicologico serrato.
«È molto tosto: ci sono prove in acqua, a terra e in volo. Il corpo deve saper reagire alle forze che subisce quando voliamo ad alte velocità. È fondamentale anche il lavoro sui simulatori e l’addestramento teorico. Solo alla fine siamo pronti per fare i primi passi su un aereo tattico come l’F-35B».
E proprio su quel jet, simbolo di potenza e innovazione, ha vissuto il momento più difficile – e allo stesso tempo più emozionante – della sua carriera: «Il primo appontaggio sulla portaerei Cavour.
STORIE
È successo poco più di un anno fa. Mi trovavo sopra la nave, con tutti gli specialisti che mi guardavano: le gambe tremavano, un’emozione indescrivibile». Durante l’esercitazione Mare Aperto 2025, il ruolo di Raballo e degli altri piloti è stato centrale. «Come gruppo imbarcato abbiamo protetto la nostra flotta sfruttando le capacità aerotattiche sia in difesa, sia nella proiezione verso la terra. Un lavoro strategico, di precisione e responsabilità».
La sua attività quotidiana è scandita da regole precise: «Da protocollo dovrei dormire almeno otto ore a notte. Non posso volare se ho raffreddore, o le orecchie e il naso chiusi. In volo serve il massimo dell’efficienza». E poi c’è la passione, che traspare dai suoi occhi e da ogni parola: «Il mio posto preferito per esercitarmi è sul mare. Posso guidare a un’altitudine più bassa e alla massima velocità, rompendo la barriera del suono. Ma anche la terra ha il suo fascino: dall’alto i paesaggi sono mozzafiato».
Volare da una portaerei, poi, è qualcosa di unico. «C’è un che di romantico nell’operare da bordo. A differenza dei piloti dell’Aeronautica, noi abbiamo una pista corta che si muove. Quando decolli, sai che al tuo ritorno la nave non sarà più dove l’hai lasciata. Devi cercarla, devi fidarti di quello che hai imparato. Quando metti in moto e vedi solo cielo e mare davanti, ti vengono i brividi». La concentrazione è fondamentale: «Quando sono alla guida, il mio cervello
è focalizzato solo su quello. Tutto il resto scompare». Per questo Raballo sa bene quanto servano determinazione e sangue freddo. E lancia un messaggio forte, soprattutto alle ragazze che sognano di seguire la sua strada: «Da donna mi sento di dire che il genere non impedisce nulla. La passione è la prima cosa. Poi serve un pizzico di coraggio, ma se ci credi, ce la puoi fare».
Oggi Erika è ancora all’inizio della sua carriera operativa, ma guarda al futuro con entusiasmo: «Mi aspetto anni ricchi di soddisfazioni, con esercitazioni internazionali e cooperazione con altri assetti e nazioni». La dedica che lascia ai giovani che sognano di diventare piloti è «di non lasciarsi fermare dalla paura. Nella vita bisogna rischiare. Il pensiero di fallire non può impedirci di vivere i nostri sogni».
Che cos'è la "Mare Aperto"?
La Mare Aperto 25, svoltasi dal 26 marzo al 18 aprile 2025, è la principale attività addestrativa della Marina Militare e dell'intera Difesa in ambito marittimo. L'edizione di quest’anno si è distinta per innovazione, complessità e rilevanza operativa, sviluppandosi in uno scenario ad alta intensità che ha coinvolto personale proveniente da numerosi reparti e specialità diverse, su un’a-
rea di oltre 600.000 km² nel Mediterraneo centrale. È stato un vero e proprio stress test per equipaggi, fucilieri, staff di comando, centri operativi e logistica, tutti chiamati a operare in condizioni ambientali mutevoli e affrontare minacce simulate sempre più realistiche, come i nuovi bersagli notturni e le avanzate simulazioni di guerra elettronica.
Tra le principali novità, l’integrazione dei domini cyber e spaziale, la sperimentazione di sistemi di comunicazione alternativi in assenza di supporto satellitare e l’uso di piattaforme social simulate nell’ambito del cognitive warfare, a dimostrazione dell’evoluzione tecnologica della componente marittima.
Di grande importanza è stata la partecipazione dell’unità d’assalto anfibio Trieste, che per la prima volta ha operato insieme alla portaerei Cavour, rafforzando in modo decisivo la capacità expeditionary della Marina Militare. In parallelo, si sono svolte operazioni lungo il fiume Tevere, esercitazioni CBRN (Chimico, Biologico, Radiologico, Nucleare) con il coinvolgimento di numerose forze civili e militari, e missioni di bonifica mine che hanno portato al ritrovamento di 13 ordigni risalenti alla Seconda guerra mondiale. Durante le operazioni l’Italia è stata tra i pochi Paesi in grado di esprimere un Expeditionary Strike Group completo, dimostrando prontezza operativa, interoperabilità tra forze e una solida sinergia tra Difesa, industria e sistema-paese. ■

Società

Il mercato del falso corre su TikTok
Le dirette trasformano il social in un mercato h24 di merce contraffatta
di Federica Carlino
Un tempo c’erano le televendite, oggi ci sono le dirette su TikTok. Borse griffate, cinture di lusso, capi d’abbigliamento all’ultima moda, tutto però contraffatto. Le vetrine sono i profili social delle decine di utenti che hanno trasformato la popolare piattaforma in un’enorme bancarella digitale del falso. Non più solo la sera, quando l’algoritmo rallenta ed è più difficile un controllo, le vendite adesso vanno in scena a ogni ora del giorno, senza più timori né bisogno di nascondersi.
La merce viene mostrata con tanto di dettagli, codici, colori disponibili e perfino promozioni speciali, come in una televendita dei primi anni 2000. Al posto dei centralini c’è una chat, e invece di usufruire di una rete televisiva, adesso basta uno smartphone e un algoritmo che spinge i contenuti al pubblico interessato. Il fenomeno non è solo una minaccia per i marchi colpiti, ma rappresenta un problema anche per le autorità. Secondo i dati del Rapporto sulle “Attività svolte per la lotta alla contraffazione dalle
amministrazioni competenti” nel primo semestre del 2024, la Guardia di Finanza ha denunciato all'Autorità giudiziaria 1.394 responsabili per contraffazione. Dal Nucleo Speciale Tutela Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza fanno sapere che: «Nel solo mese di febbraio 2025, sono stati sequestrati oltre 50.000 articoli falsi, inclusi imitazioni di capi d’abbigliamento di alta moda e occhiali non conformi agli standard di sicurezza, che venivano pubblicizzati anche mediante dirette su TikTok».
In un altro intervento, sempre nel mese di febbraio, le Fiamme Gialle hanno sequestrato oltre 7000 prodotti contraffatti, tra i quali orologi Rolex, borse e altri accessori di noti marchi, venduti tramite dirette sullo stesso social network. Accedere a una diretta è semplice: è sufficiente individuare uno degli account-hub che promuovono le vendite, per iniziare a ricevere contenuti simili tramite l’algoritmo.
In una delle live osservate, una giovane donna mostra la merce con tono molto amichevole, sostenuta da una rete di acquirenti abituali. «Se non raggiungiamo 150mila like non vi faccio vedere i nuovi arrivi», ripete con insistenza, mentre le passano delle borse con logo Louis Vuitton una azzurra, rosa e anche gialla. Tutto corredato da dustbag e scatola, “come se fosse originale”. Oltre alla vendita in di-
retta, la ragazza sottolinea più volte che «tutta la merce la trovate caricata sul nostro sito», dove compare una lunga lista di accessori delle più grandi firme, come Balenciaga, Chloè, Chanel, tutto sempre falso.
Le modalità di pagamento variano: chi si trova a Napoli può pagare alla consegna, mentre bonifico anticipato per le altre destinazioni. Le spedizioni, secondo quanto dichiarato in chat dallo staff, avverrebbero in due o tre giorni. In caso di ritardi, viene offerta assistenza durante la live. Nel momento in cui la soglia dei 150mila like viene raggiunta, il numero di utenti collegati raddoppia. «Qualità top», «loghi interni», «tessuto morbidissimo», «prezzo speciale solo per oggi» è questo il lessico ricorrente.
L’obiettivo è creare urgenza e fiducia, e spingere gli utenti a “tap tap” sullo schermo per aumentare la visibilità. Non risulta alcuna traccia di un negozio fisico. Nessun indirizzo, nessuna sede, solo un numero di telefono per le informazioni. I nomi dello staff, riferiti in live, appaiono fittizi. Lo conferma il Nucleo Speciale della Guardia di Finanza, secondo cui «molto spesso gli interventi risultano ostacolati dall’uso diffuso di nickname anonimi da parte degli utenti, che rendono difficile risalire alla loro reale identità». Un commercio che continua a crescere sotto gli occhi dell’algoritmo. ■


L’arpa di Giovanna da Villa Borghese alle app
SOCIAL
L'artista di strada con 20mila follower da tutto il mondo: «Le persone si svegliano la notte per ascoltarmi»
di Giulia Tommasi
«Cerco di utilizzare la musica come cura, per sollevare l’umore dai pensieri negativi». È questa la missione di Giovanna Ofelia Berardinelli, cantante e suonatrice di arpa. Si esibisce al Lago di Villa Borghese quasi ogni giorno, in tutte le stagioni, da otto anni. Dal 2023 porta la sua performance anche live su TikTok, dove la seguono 20.000 persone da tutto il mondo.
Tutto è cominciato da un profondo rapporto con il Giardino del Lago. «Penso sia uno dei posti più belli di Roma e poi è legato a miei ricordi d’infanzia». La postazione che ha scelto per suonare non è casuale. «Volevo vedere il tempio che, per ironia della sorte, è dedicato al Dio della medicina Esculapio». Questo tempio le ha dato ispirazione e cura: per lei e per chi l’ascolta.
Il repertorio che ha costruito è nato lì, integrandosi con il paesaggio. Una musica che si fonde con l’ambiente. Giovanna spazia tra generi e lingue. È diplomata in canto jazz e suona l’arpa da circa 15 anni. «Qualunque canzone io approcci, la faccio con il mio stile». A Villa Borghese suona l’arpa celtica. «Da bambina ero affascinata dalle immagini di creature fatate che
suonavano l’arpa nei libri di fiabe». Lei stessa è diventata un personaggio incantato: i bambini si fermano a guardarla rapiti. «Un bambino una volta ha chiesto al papà se fossi una fata», racconta ridendo. Il pubblico è vario: dai turisti, che vede solo una volta, ai frequentatori abituali. «Si crea un rapporto di scambio. Spesso qualcuno mi chiede di imparare una canzone. Lo faccio sempre volentieri. La musica è comunicazione, e restituire in musica i desideri di chi mi ascolta è un privilegio».
Nonostante tutto, Giovanna si è sentita «sempre un po’ sola» e aveva bisogno di condividere di più la sua musica. Così ha iniziato a fare live su TikTok, dalla stessa postazione a Villa Borghese. «All’inizio non c’era quasi nessuno. Ma piano piano si è creata una community che mi ha dato una gioia incredibile». Parla e si esibisce in italiano, inglese, francese e spagnolo. «Volevo comunicare il più possibile e entrare in contatto con culture diverse».
Oggi, nelle sue dirette, ci sono ogni giorno 30-50 persone da tutto il mondo. «So che alcuni si svegliano apposta di notte per ascoltarmi». La sua community è animata da una filosofia semplice: godere della musica, rilassarsi e trovare uno
spazio di amicizia internazionale. «È un piccolo miracolo». Alcuni follower sono persino venuti a trovarla. Come Claudine, francese, che in viaggio a Roma le ha portato in dono dei guanti nuovi da concerto: «Ascolto Giovanna quando sono in smart working, la sua musica è magnifica e mi rilassa».
Per il 2026, Giovanna sta organizzando una reunion a Roma con il suo gruppo TikTok. Tre giorni per conoscersi dal vivo, esplorare la città e, finalmente, ascoltarla insieme sotto il cielo di Villa Borghese. ■

Cultura

A lezione di disagio
La storia di Chitarradisagio, il canale Youtube in cui la cultura è una forma di resistenza
etro, secondo cui il pericolo più grande è l’omologazione. «Ci vestiamo uguali, mangiamo le stesse cose, ragioniamo allo stesso modo, ascoltiamo la stessa musica. Per me oggi la vera resistenza è essere se stessi». In una società ossessionata dai numeri e dalla performance, il suo messaggio è semplice: recuperare la propria umanità e mostrarsi per quello che si è. Niente camera professionale, niente editing, niente attrezzatura da migliaia di euro: poco importa se l’audio non è perfetto o se una nota è stonata, non c’è bisogno di effetti speciali per chi sa ascoltare.
Per imparare a suonare la chitarra, Youtube è pieno di canali tematici e tutorial che spiegano nel dettaglio ogni passaggio con grafiche precise e uno studio ben curato sullo sfondo. Chi segue Chitarradisagio cerca qualcos’altro. Basta seguire una sua lezione per capire che suonare bene non richiede strumenti costosi, e che forse, per vivere bene, non abbiamo bisogno di tutto ciò che crediamo essenziale.
Barba lunga, camicia di flanella, accento genovese e chitarra sempre in mano. Pietro Uliana, musicista e divulgatore, è così come si presenta nel suo canale Youtube, Chitarradisagio, seguito da una comunità affezionata al suo stile semplice e diretto, alle sue conoscenze e alla sua passione.
«Mi ricordo perfettamente il momento in cui mi sono innamorato della musica - racconta Pietro - avevo otto o nove anni e mio fratello maggiore mi fece ascoltare un disco dei Guns ‘n Roses. Da lì ho iniziato a pensare solo a suonare». Il suo è un percorso da autodidatta guidato dalla curiosità, in cui l’hard rock convive con i romanzi di Jules Verne. Da qui nasce il forte legame con la figura dell’avventuriero, sempre alla ricerca di quella autenticità che oggi lo rende un punto di riferimento per molti appassionati.
Dopo essersi diplomato al conservatorio da privatista - «All’esame di ammissione non mi hanno preso perché ho suonato Vasco Rossi e gli Aerosmith» - Pietro inizia a insegnare chitarra, anche nelle scuole. Nel 2017, senza un piano preciso, decide di aprire un canale Youtube per parlare di musica e condividere insegnamenti e pensieri. «Il nome è casuale, mi
è venuto così, Chitarradisagio, tutto attaccato», ricorda Pietro. «Secondo me il disagio è una componente fondamentale nell’arte e nella vita in generale. È ciò che ti fa trovare il tuo centro, se lo sai ascoltare ti guida e ti fa seguire la tua strada». Ogni tanto una passeggiata in montagna, altre volte un consiglio di lettura o una sessione di studio: sul canale si trova un po’ di tutto, senza copione e senza troppi fronzoli.
«Credo che le persone mi seguano perché riconoscono qualcosa di autentico», dice Pietro. «Non ci sono filtri, né barriere: è tutto così com’è». I contenuti “fighetti”, come dice lui, cercateli altrove, gli accordi precisi si trovano ovunque. Qui è come stare in compagnia di un amico che conosci da sempre, a cui basta una chitarra mezza scassata per mostrare ciò che gli altri, in tutto il loro apparire, non fanno vedere.
Dalla musica barocca del Seicento al pop, passando per l’hard rock e la canzone d’autore italiana, nel suo mondo non esiste un genere più importante di un altro e ogni brano può insegnare qualcosa. Chitarradisagio offre spunti inediti, arrangiamenti originali e riflessioni che travalicano l’arte. «Non ci manca niente, eppure stiamo tutti male», continua Pi-
Secondo Pietro, oggi la tecnica ha raggiunto livelli altissimi in ogni ambito ma si è persa l’originalità e l’unicità del singolo. «Ormai i video un po’ artigianali sono diventati il mio marchio di fabbrica», racconta. «Il mio canale è anche un’oasi di resistenza rispetto a certi canoni di perfezione che non mi piacciono». Contro tutto questo, continua la sua battaglia attraverso la cultura, tra una camminata in mezzo ai monti e un nuovo video improvvisato, con la chitarra in mano e la passione di sempre. ■

di Massimo De Laurentiis
MUSICA

Il museo nella foresta
NATURA
Khao Yai Forest nel cuore della Thailandia, dove l'arte ha trovato spazio dopo anni di sfruttamento agricolo
di Silvia Della Penna
Un paesaggio collinare immerso nella nebbia, ricreata in modo artificiale e attraversabile dai visitatori. Si tratta della Fog Forest della giapponese Fujiko Nakaya. È una delle opere esposte nella Khao Yai Forest, il parco artistico a 3 ore d’auto da Bangkok in Thailandia.
«Sembra naturale ma è il risultato di un’operazione artificiale per creare delle valli in cui la nebbia ritarda a disperdersi. La foschia è prodotta dalle valvole che spruzzano delle particelle che hanno la stessa dimensione della nebbia. Per noi è interessante testare le opere d’arte nella natura» spiega Stefano Rabolli Pansera, curatore dell’istituzione.
La foresta ospita installazioni permanenti, tra cui una dello scultore italiano Francesco Arena. Solo il ragno “Maman”, la statua in bronzo di dieci metri per dieci di Louise Bourgeois, rimarrà fino ad agosto all’ingresso del parco, perché temporanea.
Il progetto, voluto dall’imprenditrice sociale e collezionista d’arte Marisa Chearavanont, è quello di creare una nuova forma di land art in cui l’intervento umano non è imposto sulla natura.
Nel 2022 la fondatrice ha acquistato i 65 ettari per creare il museo all'aperto, vicino al più grande parco naturale della Thailandia: «Circa 50 anni fa qui c’era tutta foresta. Dopo un grande alluvione nel nord del paese, gli agricoltori si sono trasferiti in quest’area perché il governo gli ha dato i terreni» racconta Pansera.
«Noi iniziamo a consumare quando non siamo più capaci di utilizzare le cose.
Khao Yai è un invito a integrare il modo di vivere la foresta con la nostra vita»
vuole prendersi cura» spiega il curatore del parco. Per l’architetto, la Khao Yai Forest è un esempio di riforestazione perché «nasce dall’idea che occuparsi della natura significa curare noi stessi.
Inoltre, la visione del museo è occidentale, non è spontanea» La filosofia è ispirata al mondo buddhista, religione praticata da circa il 95% della popolazione thailandese:
«Questa è una cosa tipica del paese perché ci sono due scuole di pensiero: i monaci arancioni che chiedono l’elemosina la mattina e quelli che vivono nella foresta. Questi ultimi la usano perché ci vivono in simbiosi» afferma Pansera.
Per il curatore italiano gli interventi artistici di Khao Yai permettono di vivere la natura, non di consumarla: «Come ha detto Giorgio Agamben, noi iniziamo a consumare quando non siamo più capaci di utilizzare le cose. Khao Yai è un invito a integrare il modo di vivere la foresta con la nostra vita». ■
I contadini, però, tagliarono gli alberi secolari per piantare Tapioca in modo intensivo: «Quando per legge, però, sono diventati proprietari di questi appezzamenti, li hannovenduti. Quello che noi vediamo oggi è un pezzo di natura pesantemente violentato di cui Chearavanont
1. Stefano Rabolli Pansera. curatore della foresta, accanto a una delle installazioni del parco
2. Il curatore e l'imprenditrice Marisa Chearavanont sotto l'installazione "Maman"


L’agricoltura filosofica
TERRA
Tra innovazione e tradizione millenaria, coltivare i campi con il metodo organicorigenerativo prova a restituire al pianete quello ciò che l’uomo preleva
di Andrea Iazzetta
Se si pensa ad aprile ci si immagina la primavera in fiore. La natura segue il suo ciclo di rinnovamento e si ripresenta l’opportunità di fare piacevoli passeggiate nel verde e picnic nei parchi. Ad aprile, mese in cui la natura si risveglia, è il momento perfetto per riflettere anche sul nostro rapporto con la terra. Quella che si chiama “agricoltura rigenerativa” segue proprio questo principio: riconnettere l’artificialità dell’attività agricola umana con la sua dimensione più naturale e che meno impatta sul pianeta.
L'agricoltura rigenerativa non è una semplice tecnica agricola, ma una filosofia che unisce pratiche che mirano a migliorare la qualità del suolo e la sua capacità di sequestrare carbonio. Tra queste pratiche troviamo la rotazione delle colture, la riduzione del lavoro del suolo, l'uso di colture di copertura, l'integrazione di bestiame nei cicli produttivi e la gestione attenta dell'acqua. A differenza dell'agricoltura convenzionale, che spesso degrada il terreno con l'uso intensivo di prodotti chimici e la lavorazione eccessiva, l'approccio rigenerativo mira a riportare il suolo al suo stato naturale di fertilità e resilienza.
Questo approccio nasce da una volontà di restituire qualcosa al pianeta. Talvolta, però, non si limita solamente a ‘restituire’, ma anche a ‘donare’: lo racconta Francesco San Bonifacio, dottore in biologia e imprenditore agricolo del nord Italia. «La pianura Padana è un ambiente inospitale», spiega, «non ti viene voglia di andarci. La prima cosa che abbiamo fatto è piantare alberi. Abbiamo piantato dei boschetti e adesso si è creato un bellissimo paesaggio».
«L'agricoltura organicorigenerativa lavora sul ripristinare l'equilibrio perduto tra la natura e l'uomo»
Un cardine dell’agricoltura rigenerativa è infatti anche quello della ricostruzione paesaggistica. A discapito talvolta del terreno coltivabile, le tecniche messe in atto mirano ad una riqualificazione ambientale di luoghi che prima erano inospitali, o addirittura che lo sono sempre
stati e che acquisiscono un nuovo volto. Per quanto possa sembrare un’idea tutta moderna, l’approccio rigenerativo dell’agricoltura è in realtà il sistema che si rifà al modo più antico per coltivare la terra. «Di questi tempi sembra una cosa innovativa», spiega San Bonifacio, «In realtà è ciò che hanno sempre fatto gli agricoltori da millenni ed è la cosa più giusta per dare la possibilità alla genetica di esprimersi e di evolvere, adattandosi anche ai cambiamenti climatici».
«È un’ottica in cui l’uomo non è il centro», spiega Francesca Ercoli, anche lei laureata e imprenditrice agricola. «Ho scelto di chiamare la mia azienda Il Salto perché è quello che dovremo fare tutti noi nelle nostre vite. Veniamo da tantissimi anni in cui il suolo è stato impoverito dall’agricoltura convenzionale. L’agricoltura organico-rigenerativa lavora sul ripristinare l’equilibrio perduto tra la natura e l’uomo».
Con un network in continua espansione, l’agricoltura organico-rigenerativa si propone come un’opportunità per costruire un ecosistema più bilanciato e un habitat più ricco. ■
Sport

Un oro al collo il figlio tra le braccia
La pattinatrice di velocità, reduce dal primo posto in Norvegia, si prepara per le Olimpiadi di MilanoCortina 2026
La personalità di Francesca si può immaginare già dal suo primo racconto: «Avevo partorito da tre mesi ed ero in partenza per il ritiro a Livigno. Così ho deciso di portare mio figlio con me - dice l’atleta, neocampionessa mondiale di pattinaggio di velocità – era ancora uno scricciolo. Ad aiutarmi c’è stata mia sorella Giulia, di quattro anni più piccola di me».
La medaglia d'oro è arrivata lo scorso marzo nei 5000 metri ai Mondiali di Hamar. Un’impresa che la consacra come prima donna italiana a vincere il titolo. «Se mi avessero chiesto su quale gara puntassi, avrei risposto “la 3000 m” e invece lì mi sono fregata da sola a causa dell’ansia – ricorda la trentaquattrenne romana – invece la soddisfazione è arrivata dopo. È stato incredibile perché non avevo nemmeno capito di aver vinto». È infatti il suo
staff a rendersi conto che l’avversaria, proprio all’ultimo giro, aveva perso secondi di vantaggio, il che significava il gradino più alto per lei. A vederla sfrecciare sul ghiaccio a 50 km/h, con le lame sotto ai piedi, sembra impossibile che tutto sia iniziato quando aveva 14 mesi. I primi pattini ai piedi sono a rotelle, messi da papà Maurizio, da sempre suo allenatore: «La parola chiave nella mia formazione è “famiglia”, dai miei genitori a mio marito, senza cui non avrei raggiunto questi successi».
I valori appresi nello sport Francesca li ha portati anche nella vita: «L’aiuto reciproco, il concetto di team, sono principi che voglio trasmettere a mio figlio Tommaso», che ancora non ha scelto la sua strada sportiva ma, nel dubbio, ha già indossato i primi pattini. Le medaglie conquistate arrivano dal ghiaccio, a cui però Francesca preferisce il calore dell’estate, meglio se accompagnato da una vista sul mare: «Vivo a Ladispoli, non ho mai voluto trasferirmi, anche se questo significa passare 265 giorni all’anno fuori casa per allenarmi, perché in Italia non ci sono piste sempre aperte», spiega.
Così la preparazione sul ghiaccio si svolge nei paesi del nord, mentre pista e palestra sono tutte italiane. Cognome im-
portante il suo, Lollobrigida come l’attrice Gina, di cui è pronipote: «All’estero me lo chiedono spesso. La sua carriera è stata il riferimento per farmi riconoscere nel mondo sportivo, ma non ho mai sfruttato il suo nome» specifica, ricordando l’ultimo compleanno passato insieme prima della scomparsa. Tra un allenamento e un gioco con Tommaso, Francesca scrive la tesi magistrale sulla maternità nello sport: «C’è pochissima documentazione - diceDurante la gravidanza ho avuto l’appoggio della Federazione e del gruppo sportivo. Sono stata fortunata, non sempre è così. Vorrei che questo servisse da esempio per tutte le atlete che vogliono essere anche mamme».
Le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026, le quarte per lei, sono sempre più vicine. Il sogno di una vittoria si accompagna a quello di avere con sé il figlio, il suo portafortuna: «Al Villaggio Olimpico i bambini non sono ammessi, però l'anno scorso è stata creata una nursery per i genitori. Spero si possa replicare anche in Italia, sarebbe un bel riconoscimento per tutte le mamme», conclude. Una vocina dagli spalti è già pronta a sostenerla. ■

di Isabella Di Natale
LEGAMI
Parole e immagini
di Ludovica Esposito
Orgoglio e premeditazione
Tirzah Price
320 pagine

È una verità universalmente riconosciuta che un romanzo di successo venga preso come ispirazione ancora secoli dopo la prima pubblicazione.
È quello che succede al classico inglese Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, che a duecento anni di distanza offre spunti agli autori moderni per creare storie in cui i celebri personaggi si trovano ad affrontare nuove situazioni. Orgoglio e premeditazione di Tirzah Price (Giunti, 2025) rivisita l’opera ottocentesca, ambientandola in uno studio legale: Elizabeth Bennet desidera diventare avvocato e dovrà sfidare le convenzioni dell’epoca e i suoi colleghi uomini per ottenere il posto.
Quando un omicidio nell’alta società londinese potrebbe rivelarsi l’occasione di cui ha bisogno, Lizzie fa la conoscenza dell’antipatico Fitzwilliam Darcy, con cui si ritrova in competizione, ma con il procedere delle indagini, i sentimenti della giovane donna nei confronti del rivale iniziano a cambiare. Orgoglio e premeditazione è un romanzo che in 320 pagi-
ne combina amore e mistero per un pubblico giovane, ma si rivela apprezzabile a tutte le età; è una lettura scorrevole e avvincente sia per chi ha letto il classico che per chi non l’ha fatto. Chi conosce l’opera non sarà sorpreso dalla risoluzione della storia d’amore e potrebbe con facilità intuire chi sia il colpevole, ma potrà essere intrigato dallo scoprire il modo in cui Tirzah Price ha combinato il rispetto per il materiale originale, rimanendo fedele ai personaggi e alle loro dinamiche, all’ideazione di una situazione molto diversa. La nota finale dell’autrice aiuta a comprendere meglio il lavoro fatto nella stesura del romanzo.
Questo è il primo libro della trilogia Jane Austen Murder Mysteries, serie in cui ogni volume rivisita un’opera di Jane Austen, aggiungendo un omicidio alla trama originale. Ogni romanzo segue personaggi differenti, ma la coppia di Orgoglio e premeditazione è stata così tanto apprezzata dai lettori che l’autrice l’ha fatta tornare in una nuova dilogia, Lizzie & Darcy Mysteries, in corso di pubblicazione in inglese. ■
I magici unicorni incontrano la brama di denaro umana nel debutto alla regia di Alex Scharfman. Death of a Unicorn è nei cinema italiani dal 10 aprile 2025, l’evento che mette in moto la trama è quello rivelato nel titolo: un giovane unicorno viene investito e ucciso. All’inizio c’è un tentativo di occultare il cadavere, ma, quando ne vengono scoperte le straordinarie capacità curative, esso diventerà un’occasione di arricchirsi. Mentre ogni personaggio cerca di sfruttare l’incredibile scoperta per il proprio tornaconto personale, i genitori del piccolo si avvicinano alla casa dove tutti sono riuniti per vendicarlo. Sebbene lo spettatore possa attendere con ansia l’arrivo degli unicorni assassini, la prima parte del lungometraggio è riservata alla presentazione dei personaggi, dell’ambientazione e della mitologia, gli eventi horror splatter sono condensati nella seconda metà dei 107 minuti di film. Questo sviluppo rende la trama lineare e facile da seguire, senza particolari sorprese, ma l’originalità della pellicola è nel modo in cui è presentata la figura dell’unicorno: il ciclo

di arazzi La caccia all’unicorno, che lo spettatore potrebbe già aver visto, viene sfruttato per ideare una nuova storia; uno degli arazzi è incompleto e il film ne ipotizza una versione completa che utilizza per presentare i suoi unicorni. Nel corso del lungometraggio, ci sono un paio di momenti in cui arrivano delle rivelazioni che dovrebbero stupire lo spettatore, ma erano informazioni già date a tutti i personaggi, quindi l’effetto sorpresa non funziona, anzi, sorprende che nessuno se ne sia reso conto fino a quel momento. Così come sorprende un taglio in cui si passa dalla notte al pieno giorno in maniera drastica, disorientando lo spettatore. Paul Rudd e Jenna Ortega interpretano una convincente coppia padre-figlia, ma tutto il cast riesce a rendere divertenti e godibili i personaggi, anche se non sono brave persone, aiutato dal limitato numero di attori presenti in scena che permette di dare spazio ad ognuno di loro. Il finale è aperto, ma è la scelta giusta per il contesto: sarebbe stato difficile trovare un modo realistico per concludere la vicenda fantastica. ■
Giunti
LIBRO FILM
Death of a Unicorn Alex Scharfman
I Wonder Pictures
A24
107 minuti


Master in Journalism and Multimedia Communication Show, don’t tell
Lectures: Marc Hansen, Sree Sreenivasan, Linda Bernstein, Ben Scott, Jeremy Caplan, Francesca Paci, Emiliana De Blasio, Colin Porlezza, Francesco Guerrera, David Gallagher, Claudio Lavanga, Eric Jozsef, Federica Angeli, Paolo Cesarini, Massimo Sideri, Davide Ghiglione
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