DUE ANNI

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Periodico del Master in Giornalismo e Comunicazione multimediale
Università Luiss Guido Carli
Numero 26 Giugno 2025

Italian Digital Media Observatory

Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Ansa, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy, CY4GATE, ministero dell’Istruzione e del Merito

Storie

“Volia”, il cuore invisibile dell’Ucraina di Chiara Boletti

Ma come fanno i marinai di Alessandro Imperiali

La rotta del cuore di Giulia Rugolo

Tutti i colori del silenzio di Nicole Saitta

Influencer creep, arte in vetrina di Rosita Laudano

Il peso del coraggio di Caterina Teodorani

Growing green, il turismo sostenibile di Pietro Angelo Gangi

Esteri

Photogallery Gaza a cura di Francesco Esposito

Le mani di Israele sulla Cisgiordania di Francesco Esposito

La rotta per l’inferno di Elisa Vannozzi

Il futuro della Siria passa per Rojava di Michelangelo Gennaro

Congo e Yemen, guerre dimenticate di Ludovica Bartolini

Polonia, il corpo diventa campo di battaglia di Matilde Nardi

Diritti

Tempo d’attesa, maternità e collettività di Matilda Ferraris

La paura cambia le abitudini delle donne di Federica Carlino

Con gli occhi di chi vive l’albinismo

Chiara Grossi

La morte «inutile» di Satnam Singh di Alessandro Villari

Politica

Intervista a Gianfranco Fini di Alessandro Imperiali

Il reddito che uccide il vitello grasso di Gennaro Tortorelli

L’assurda agonia di Roberta Repetto di Asia Buconi

Leoni, il nuovo volto di Forza Italia di Alessio Matta

La narrativa russa nei libri di scuola di Filippo Cappelli

Giornalisti ma soprattutto Journalai di Luca Graziani

Città

Senza casa, senza diritti di Valeria Costa

Eredità olimpica di Silvia Della Penna

Infosfera e conflitti di Stefania Da Lozzo

La stregoneria diventa anche terapia di Laura Pace

Il deserto della periferia di Nicoletta Sagliocco

Ambiente

Smart green, il futuro del verde urbano di Lavinia Monaco

Il caldo soffoca il Mediterraneo di Andrea Iazzetta

Sport

Nicholas Kohl, il capovoga di Oxford di Isabella Di Natale

Il quarto scudetto del Napoli di Ludovica Esposito

Così è rinato il tennis italiano di Lorenzo Pace

Pontefice

Un’atleta per il Papa di Gabriele Ragnini

La Chiesa nei social di Sara Costantini

Il futuro è già passato di Massimo De Laurentiis Cultura

Il mondo Sikh a Roma di Lisa Duso

La rinascita della Love Parade di Simone Salvo

Maschi veri, la crisi degli uomini di Gizem Daver

La poesia performativa Roma di Giulia Tommasi

Recensioni Strega di Autori vari Letture estive di Giulia Rugolo

Oroscopo

Periodico della Scuola di Giornalismo e Comunicazione multimediale

Università Luiss Guido Carli Numero 26 Giugno 2025

Due anni dopo

«Le parole, i modi di dire, le frasi abituali di nostro padre e di nostra madre, sono la sostanza della nostra memoria più tenace, sono la nostra storia» scriveva Natalia Ginzburg nel romanzo Lessico famigliare.

La scrittrice riflette sull’idea che la nostra identità personale e collettiva si costruisce attraverso il linguaggio quotidiano: le frasi ricorrenti, i motti, le espressioni tipiche del nostro ambiente.

Questi elementi non sono solo parole ma memoria viva, tracce affettive che ci formano e ci accompagnano per tutta la vita. Sono queste le cose che resistono nel tempo, che sedimentano dentro di noi e diventano la lente attraverso cui guardiamo il mondo. In fondo, è ciò che abbiamo provato a fare anche noi in questi due anni nella redazione di Zeta: aguzzare lo sguardo, allenarlo a cogliere ciò che spesso sfugge, prima di raccontarlo.

Da subito abbiamo capito quanta sensibilità richieda questo mestiere: i nostri primi articoli, nel dicembre 2023, riguardavano il femminicidio di Giulia Cecchettin. Una ragazza di 22 anni in cui spesso ci siamo ritrovati: nel sorriso, nella genuinità, nei sogni che, pochi mesi dopo il delitto, suo padre Gino ci ha raccontato con una forza che ci ha sorpresi. Quando abbiamo iniziato la Scuola, la guerra in Ucraina e quella a Gaza

erano già in corso, ne abbiamo seguito gli sviluppi e la devastazione, scoprendo storie di sofferenza e resistenza. Abbiamo vissuto la frenesia dei preparativi per il Giubileo e assistito alla lenta metamorfosi della città, che non si è mai snaturata. Roma - che oggi sentiamo un po’ nostra – l’abbiamo percorsa e raccontata con Google Maps in mano, a volte anche sbagliando strada, ma sempre guidati dal desiderio di ascoltare ciò che i vicoli della città, così antichi, caotici e affascinanti, avevano da dire. Abbiamo testimoniato l’ultimo saluto a Papa Francesco e ci siamo commossi insieme al mondo stretto in Piazza San Pietro.

Abbiamo aspettato con pazienza il Conclave, scrutando per ore un comignolo, in attesa di una risposta che ha aperto la strada a Papa Leone XIV e al suo monito «Disarmiamo le parole per disarmare il mondo».

Questa edizione del periodico di Zeta, l’ultima del Biennio 2023/2025, è la memoria emotiva del nostro tempo, un racconto corale in cui le storie individuali e quella collettiva si intrecciano. Non abbiamo solo scritto, ma dato un volto. Alla guerra, alla sofferenza, ai diritti, alla passione, alla vita. Abbiamo cercato di restare fedeli a un insegnamento che ci accompagna, “Il giornalismo è metterci il cuore”, come ci ha detto il nostro maestro e amico Ernesto Assante. E per questo, siamo immensamente grati.

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Supervisione

Giorgio Casadio

Alessandro Imperiali
Nicoletta Sagliocco
Nicole Saitta
Redazione
Chiara Grossi

La Russia invade l'Ucraina. È l'inizio di una guerra che continua da tre anni.

L’attacco, giustificato dal Cremlino come «un’operazione militare speciale», è stato condannato dalla comunità internazionale che ha risposto con dure sanzioni economiche e un sostegno crescente al governo ucraino guidato da Volodymyr Zelensky.

Giulia Cecchettin, 22 anni, viene uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta con 75 coltellate a Vigonovo, in provincia di Venezia. Il corpo è stato trovato una settimana dopo.

Turetta viene arrestato in Germania ed estradato in Italia. Il 3 dicembre 2024 riceve l’ergastolo. Il caso ha scosso l’Italia, accendendo un ampio dibattito sulla violenza di genere.

Nel 2024 sono state 113 le donne vittime di femminicidio.

Si svolgono le decime elezioni del Parlamento Europeo. I gruppi governativi pro-UE (PPE, S&D e Renew Europe) mantengono la maggioranza, ma crescono notevolmente le forze di destra, con circa un quarto dei 720 seggi occupati da gruppi filo-sovranisti o radicali.

In Italia, con la più bassa affluenza di sempre (49%) primo partito è Fratelli d’Italia al 28,8%, seguito dal Partito Democratico al 24,1% e dal M5S al 10%.

16 febbraio

Durante il festival musicale Supernova, i miliziani di Hamas uccidono oltre 1.200 persone in territorio israeliano, e rapiscono numerosi ostaggi.

Inizia una nuova guerra tra Israele e Hamas, con raid e bombardamenti nella Striscia di Gaza. Gli attacchi israeliani provocano oltre 100mila morti.

A giugno 2025 Israele ha attaccato l'Iran che ha risposto a sua volta contro Tel Aviv.

Aleksej Navalny, tra i leader dell’opposizione russa, muore all’età di 47 anni nella colonia penale di Charp, nell’Artico russo, dove stava scontando una condanna di 19 anni di carcere.

Le autorità russe hanno attribuito il decesso a un’aritmia cardiaca, ma la famiglia e i sostenitori accusano il regime di omicidio politico. Nel 2020 era sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento.

Trump prosegue la campagna e, il 5 novembre 2024, vince le elezioni presidenziali contro Kamala Harris, riportando i Repubblicani al potere.

Durante un comizio a Butler (Pennsylvania), il ventenne Thomas Matthew Crooks spara da un tetto contro Donald Trump, uccidendo un partecipante e ferendo altri prima di essere neutralizzato dalle forze speciali del Secret Service.

Parigi ospita la XXXIII Olimpiade, con una cerimonia inaugurale fluviale lungo la Senna, a cento anni esatti dall'ultima volta in cui la città ha ospitato l'evento.

Gli Stati Uniti si sono imposti al primo posto nel medagliere con 40 ori, 44 argenti e 42 bronzi. L’Italia ha conquistato un totale di 40 medaglie.

26 luglio - 11 agosto2024

ANNI

8 dicembre 2024

Dopo un’offensiva di dodici giorni del gruppo militante islamista Hay’at Tahrir al-Sham e sostenuta dall’Esercito Siriano Libero, le forze ribelli conquistano Damasco, costringendo Bashar al-Assad a fuggire in Russia.

Finisce il regime baathista iniziato nel 1971.

Si insedia un governo di transizione guidato da Ahmed al-Sharaa, ex militante di Al Qaeda.

Nella Vigilia di Natale, Papa Francesco apre la Porta Santa della Basilica di San Pietro, dando inizio al Giubileo 2025, dedicato al tema della speranza.

Per la prima volta, si apre anche la Porta del carcere di Rebibbia, simbolo di inclusione per i detenuti.

L'Anno Santo si concluderà il 6 gennaio 2026, e si accompagnerà a un calendario ricco di eventi religiosi, culturali e sociali.

25 dicembre 2024

11 febbraio - 15 febbraio 2025

Nel Teatro Ariston, la 75ª edizione del Festival di Sanremo, condotta da Carlo Conti, trionfa il cantante Olly, 23 anni, con il brano Balorda nostalgia.

Nonostante le polemiche, gli ascolti sono record: la finale viene seguita da oltre 13,4 milioni di italiani, con uno share del 73%.

Il Lunedì dell’Angelo Papa Francesco muore nel suo appartamento alla Domus Sanctae Marthae, in Vaticano.

Il Pontefice, ricoverato al Policlinico Gemelli dal 14 febbraio per una polmonite bilaterale, viene dimesso il 23 marzo. Il governo italiano ha proclamato cinque giorni di lutto nazionale. I funerali si svolgono il 26 aprile 2025 in piazza San Pietro.

Il conclave successivo elegge il cardinale Robert Francis Prevost come 267° Papa della Chiesa cattolica. Il nuovo Pontefice sceglie il nome di Leone XIV, un omaggio a Papa Leone XIII, noto per la sua dottrina sociale e il suo impegno per la pace.

Nato a Chicago nel 1955, Prevost è il primo statunitense e il primo appartenente all'Ordine di Sant'Agostino.

21 aprile 2025 / 8 maggio 2025

Maggio 2025

È la nuova frontiera dopo gli LLM.

Se fino ad ora eravamo abituati a software come Chat GPT e Gemini, puramente reattivi, gli AI agent sono dotati di autonomia decisionale, capaci di pianificare, ragionare ed agire.

Il concetto nasce già nel 1956, quando alla conferenza Dartmouth nasce ufficialmente il campo dell’intelligenza artificiale.

«Volia», il cuore invisibile di una nazione in guerra

In lingua ucraina c'è una parola che non si lascia tradurre. In essa si concentrano la volontà di esistere, la dignità ferita e la determinazione di un popolo che continua a combattere

«The love of freedom is our strength and our curse», dice Ruslan, cercando le parole giuste in inglese. «Non so come si traduca dall’ucraino».

In tutta l’Ucraina, soldati come Ruslan e civili sotto attacco si aggrappano a qualcosa che va oltre la strategia militare o la resistenza fisica, una parola: Volia. Un termine centrale nell’identità ucraina, difficile da tradurre, che racchiude il significato profondo di questa guerra. Letteralmente significa “libertà”, ma non nel senso astratto o legale del termine. Volia è libertà intesa come destino, come rifiuto della sottomissione e il diritto di esistere.

Secondo Liubomyr Mysiv, tra i principali sociologi ucraini e vicedirettore del Rating Group, un’organizzazione di ricerca indipendente ucraina, Volia è oggi la parola più frequentemente citata quando ai cittadini viene chiesto cosa rappresenti per loro l’Ucraina. «Questa guerra non riguarda il territorio», spiega Mysiv,

«Quando muore un compagno, il dolore non spezza la volontà. Al contrario, rafforza il senso della lotta»

«Riguarda il diritto di esistere come nazione. Volia è il cuore di questa lotta: non solo libertà di movimento o di espressione, ma libertà di essere noi stessi».

Da dopo oltre tre anni di guerra, anche la più tenace delle resilienze inizia a mostrare segni di logoramento. I numeri parlano chiaro: a febbraio, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato di oltre 46.000 soldati ucraini uccisi, 380.000 feriti, e “decine di migliaia” tra dispersi e prigionieri. Cifre che, secondo osservatori internazionali, sarebbero a ribasso.

Pubblicamente, molti ucraini si dicono pronti a resistere a tempo indefinito. In privato, le ferite sono ovunque: nella fatica, nel lutto, nella tensione psicologica delle bombe. «Quando si chiede direttamente se siano stanchi, rispondono di no», spiega Mysiv, «Ma basta porre domande indirette sul lavoro, sulle perdite, sulla salute perché emerga il peso reale che stanno portando».

Questa dualità - l’invulnerabilità dichiarata e la fragilità taciuta - è lo specchio di una società che resiste sotto al peso della guerra. Un popolo che non ha solo il compito di resistere, ma anche di sostenere chi combatte, ogni giorno, per difendere quella parola così difficile da tradurre.

Secondo Vladyslav Klochkov, generale maggiore e comandante della direzione supporto morale e psicologico delle forze armate ucraine: «La società ucraina è stanca ma non spezzata». È un popolo che nonostante le ferite sta cercando di cambiare al passo con la guerra, muovendosi dalla mobilitazione per la vittoria alla mobilitazione per la sopravvivenza: «La solidarietà non è ideologia», dice Klochkov, «È l'esperienza della sopravvivenza comune. Da qui nasce il senso di responsabilità: sapere che la vita degli altri dipende da te, anche se non sei al fronte».

Dopo il 2022, per molti la guerra è diventata realtà improvvisa. Cittadini comuni sono diventati soldati senza preparazione, spinti da un dovere morale senza diritto alla stanchezza. «Se i militari percepiscono che il fronte interno vive in un mondo parallelo, questo li demoralizza. La vera preparazione a un conflitto prolungato non riguarda solo armi o logistica», aggiunge il generale, «ma una nuova etica collettiva: in questa guerra siamo tutti coinvolti, ognuno nel proprio ruolo». Di fronte a tanta determinazione il rischio, avverte Klochkov, è che la motivazione, senza un’elaborazione emotiva, possa degenerare in cinismo o apatia: «Quando un soldato smette di preoccuparsi di chi vincerà, allora siamo davanti a qualcosa di molto pericoloso - e prosegue - quando muore un compagno, il dolore non spezza la volontà. Al contrario, rafforza il senso della lotta. Ma col tempo, quella spinta morale si trasforma in un’esigenza cieca: non cedere mai, nemmeno quando corpo e mente crollano». Ruslan, che combatte da tre anni, racconta come l’esperienza e le competenze aiutino a ri-

manere vivi. Ma, una volta sul campo, neanche i veterani sono al sicuro: «Molti dei più motivati sono già morti. Stanno morendo tutti», dice. «Ma non abbiamo alternative: dobbiamo continuare a combattere». Secondo Mysiv e molti analisti, l’obbiettivo di Mosca non è solo occupare territori, ma distruggere qualsiasi forma di identità che sfugga dalla narrativa del “mondo russo”. Per l’Ucraina, perdere la guerra non significherebbe solo perdere confini. Significherebbe perdere se stessa e il diritto a esistere come popolo.

L’identità nazionale si è evoluta dalla dichiarazione di indipendenza del 1991, ma è stato il 2014, con l’annessione della Crimea, a segnare una prima cesura. L’invasione del 2022 ha completato la frattura, rendendo irreversibile una trasformazione in atto da decenni.

Oggi, oltre il 90% della popolazione si identifica come ucraino, secondo i dati del team di Mysiv: la percentuale più alta mai registrata. Anche il rapporto con la Russia è cambiato radicalmente: «Prima del 2014, molti ucraini vedevano i russi come vicini, con qualche riserva. Oggi, oltre il 90% li considera nemici», sottolinea Mysiv. «Non è solo una rottura politica. È un divorzio psicologico».

Le nuove generazioni, cresciute fuori dall’orbita sovietica, stanno costruendo un’identità che non guarda al passato comune, ma alla differenza. L’idea della “nazione sorella” si è rovesciata: «È diventata un nemico. E quel nemico si combatte con il sangue».

«La sensazione», conclude Ruslan, «è che la vita ti stia sfuggendo dalle mani, e tu non possa farci nulla. Ma arrenderci? Diventare schiavi dei russi? E poi combattere per i loro interessi? Non abbiamo scelta».

Ma come fanno i marinai

La bussola dopo due anni per il mondo come ambasciatori italiani ha smesso di puntare a Nord e le vele hanno mirato verso l'Italia. 5 continenti, 30 nazioni visitate e 46 mila miglia percorse. Tra difficoltà e orgoglio, la «nave più bella del mondo»

L’avventura come ideale, il mare come mezzo, la vita da riempire. Non solo albe e tramonti ma onde da ammaestrare, rotte da percorrere, mancanze da sopperire. Disciplina, gerarchia e obiettivi da portare a compimento. Il tutto è amplificato se si naviga sull’Amerigo Vespucci, la «nave più bella del mondo».

È l’estate del ‘62 quando in mezzo al Mar Mediterraneo si incontrano un veliero a tre alberi dal peso di circa 3 mila tonnellate e mezzo e una portaerei di 60 mila. Uno costruito in legno e acciaio e lungo un centinaio di metri, l’altra di oltre trecento e fatta in buona parte d’amianto. Il primo batte bandiera tricolore, la seconda a stelle e strisce. L’eleganza italiana si confronta con la potenza americana. In uno scontro a fuoco non ci sarebbe paragone, eppure la USS Indipendence (CVA 62 Forrestal-class) non può far altro che dire «You are the most beautiful ship in the world» (Siete la nave più bella del mondo). Un incontro ripetuto 60 anni dopo, nei pressi di Taranto. La USS Indipendence è in pensione dal ’98. Al suo posto c’è la USS George H.W. Bush. Di fronte alle vele tirate dal vento, il comandante David-Tavis Pollard non può che ripetere dalla radiolina: «After 60 years you're still the most beautiful ship in the world» (Dopo 60 anni siete ancora i più belli del mondo).

L’Amerigo Vespucci non è solo una nave da ammirare quando la si incontra. Nata nel ‘30 dall’unione «tra la tradizione stabiese nella costruzione e l’apice della costruzione velica del tempo», spie-

ga il capitano di vascello Giuseppe Lai, e varata nel ’31 per essere nave scuola degli allievi dell’Accademia navale, oggi è diplomazia. Per la Patria e per il Re, il primo motto. Cambiato dopo la Seconda guerra mondiale e mantenuto fino al ’78 in Saldi nella furia dei venti e degli eventi. Ora rialzato sulla parete di legno smaltato c’è scritto Non chi comincia ma quel che persevera

Un pezzo di Italia che naviga per i 7 mari, portavoce in movimento di una storia che veleggia per gli oceani da quasi un secolo. Dopo 20 anni dall’ultima circumnavigazione è salpata lo scorso 1 luglio 2023 per percorrere 46 mila miglia nautiche, raggiungere 5 continenti e farsi conoscere in 30 Paesi. Una missione voluta dal ministero della Difesa e supportata da altri 12 dicasteri per formare al meglio i suoi marinai - sono 264 i militari a bordo - e per rafforzare le relazioni internazionali e l’immagine del Made in Italy. «La Vespucci è innanzitutto tradizione. Ora anche un'ambasciata galleggiante, un aspetto straordinario di diplomazia navale. Con questo giro del mondo – afferma il comandante Lai – abbiamo assolto, oltre alla funzione formativa, anche quella di rappresentare l’Italia a 360 gradi». Il tour mondiale si è concluso l’1 febbraio del 2025. Quel giorno la bussola ha smesso di indicare il Nord e ha tracciato la rotta per l’Italia. Fine dei giochi? Tutt’altro: solo l’inizio del Tour Mediterraneo iniziato l’1 marzo a Trieste e concluso il 10 giugno a Genova.

Due anni, in giro per il mondo, lontano dai propri affetti. «Questo non è un lavoro ma una scelta di vita. Se non piace

è meglio fare altro ma se piace dà il massimo della soddisfazione», spiega il capitano Lai. Una riflessione che fa pensare alle parole del tenente Montini in Mediterraneo, film cult premiato con l’Oscar. Siamo nel ’41, in Europa c’è la guerra. Lui e la sua truppa sono a largo di Megìsti (Castelrosso), pronti a sbarcare verso un’isola di cui non sanno nulla: né se ci sono soldati nemici, né per quanto resteranno, né se torneranno mai a casa. «Avevamo tutti più o meno quell’età per cui non sapevamo se mettere su famiglia o perderci per il mondo», dice tra sé e sé. Una scelta dove la bilancia misura i pro e contro al milligrammo. «Quello che

serve – racconta Lai - è il supporto di una famiglia e degli affetti. Dico sempre che non abbiamo soltanto l'equipaggio che sta a bordo, noi abbiamo un equipaggio che sta a casa e che ci supporta. Se non ci fosse stata la serenità data dalle nostre famiglie, questo giro del mondo non sarebbe stato possibile».

L’avventura come stile di vita. Sognare «i mari ampissimi dove corrono dolci le malinconie oppure le bugie» senza smettere di inseguire «la propria favola», come dice Rasputin al suo amico-nemico Corto Maltese. Qualcuno che ti ama con il quale dedicarsi i migliori pensieri an-

che da lontano, anche se lontani. Amare la propria uniforme e la propria Patria ricordandosi che non si è mai protagonisti ma gregari di una storia più grande. Saper condividere con l’altro le piccole gioie quotidiane o la vita in burrasca. La gente di mare ha poche regole. Guai a tradirle.

Foto scattate da Alessandro Imperiali

«Questo non è un lavoro ma uno stile di vita»

La rotta del cuore

Joanna Lukaszewicz, pianista polacca, lascia una cattedra a Danzica per imbarcarsi su una nave da crociera. Tra concerti in mare aperto e incontri inattesi, scopre l’amore e una nuova vita di Giulia Rugolo

Una giovane pianista polacca si innamora del vicecapitano della nave da crociera dove è stata ingaggiata per intrattenere i passeggeri con la sua musica e tra note, melodie, pause e sospiri nasce un amore idilliaco. Sembra di leggere Novecento di Alessandro Baricco, invece è la storia vera di Joanna Lukaszewicz. È nata a Lipsk - una cittadina nel nord-est della Polonia, a venti chilometri dal confine con la Bielorussia - e ha iniziato a suonare il pianoforte all’età di sette anni.

«A quindici anni, mi sono trasferita a Danzica per studiare. Avevo sentito parlare di un liceo musicale di alto livello. Il test di ammissione era difficile: quindici candidati per tre posti. Mia madre, fuori dalla porta durante l’esame, pregava che non passassi perché non voleva che andassi via di casa. Ma sono stata ammessa e mi è stato assegnato il miglior professore della scuola, Andrzej Artykiewicz. È stato mio maestro sia al liceo che all’università. Mi ha insegnato tutto quello che so», dice Joanna.

Nel suo Paese, la musica classica è intrisa nella cultura ed è percepita in modo diverso. Gli artisti sono trattati come dei veri professionisti, al pari di medici o ingegneri, e le città sono piene di scuole statali musicali. Ad esempio, a Varsavia nel parco dedicato al compositore Fryderyk Chopin si organizzano concerti all’aperto ogni domenica.

A ventiquattro anni, dopo essersi appena laureata, Joanna viene assunta come insegnante di pianoforte in un liceo a Danzica a tempo indeterminato. Un giorno, mentre faceva lezione

a un suo alunno, una violinista entra in classe domandandole se conoscesse una pianista che potesse unirsi a lei e una violoncellista per formare un trio classico e suonare sulla nave Carnival Paradise della compagnia Carnival Cruise Line: «Ho pensato subito che quella musicista potessi essere io. Sono corsa dal professor Artykiewicz e lui mi ha consigliato di partire. Così siamo andati insieme dal dirigente scolastico per richiedere un’aspettativa di sei mesi. L’ho ottenuta e sono salpata».

Era l’ottobre del 1998 e Joanna partiva per la sua prima crociera da New York, che era riservata ai vip della compagnia: il proprietario, gli ingegneri, i grandi nomi. Poi si sono spostati a Miami e da lì sono cominciati i giri regolari nei Caraibi: «Suonavamo tre volte al giorno: alle 17:00, 19:00 e 20:30. Avevamo preparato un repertorio molto vasto, che copriva sette ore, perché molti passeggeri venivano ad ascoltarci tutte le sere. Al suo interno c’erano brani difficili, come i trii di Sergej Vasil'evič Rachmaninov, Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven, ma anche pezzi più leggeri», racconta.

L’esperienza a bordo si rivela preziosa per la pianista, che ha modo di crescere - a livello personale e professionale - ma

«Suonavamo tre volte al giorno, molti passeggeri venivano ad ascoltarci tutte le sere»

anche di apprendere importanti lezioni di vita: «Una volta, dopo una settimana faticosa, abbiamo deciso di suonare dei brani molto semplici. Alla fine del concerto si è avvicinato un uomo che ci ha detto di essere un musicista professionista della Carnegie Hall di New York. Noi tre siamo rimaste scioccate, perché gli avevamo proposto musica di livello basso. L’indomani, alle sette del mattino, eravamo già in sala prove a preparare il nostro repertorio più ambizioso. Da quel momento abbiamo imparato a non sottovalutare mai il pubblico. Anche se ci sono tremila passeggeri, dieci di loro potrebbero essere del mestiere e non bisogna mai deluderli».

Nel 2001 - proprio durante uno dei suoi periodi di lavoro in mare aperto - Joanna conosce Paolo Adella, il comandante in seconda della nave, e se ne innamora.

«All’inizio eravamo solo amici. Io mi ero appena imbarcata e lui stava per finire il contratto, quindi ci siamo visti solo per due o tre settimane. È scattata subito una scintilla tra di noi e abbiamo continuato a sentirci e scriverci lettere».

E prosegue: «Poi Paolo mi ha chiamato dicendomi che era tornato a casa sua in Italia, per invitarmi a stare da lui e farmi vedere i luoghi belli di Roma, dove poi mi sono trasferita l’anno dopo. È stato amore a prima vista. Dopo due settimane insieme, avevamo già fissato la data del matrimonio e, nel 2002, ci siamo sposati nella basilica dei Santi Cosma e Damiano, vicino al Colosseo. La messa è stata celebrata in due lingue, così che entrambe

le nostre famiglie potessero capire tutto». Pochi mesi dopo, i due avrebbero dovuto imbarcarsi insieme per una crociera da Vancouver verso l’Alaska. Ma la pianista rimane incinta ed è costretta a rinunciare: «Conservo ancora il biglietto e il contratto nel cassetto per ricordo», dice sorridendo.

Con il passare del tempo, il suo rapporto con la musica si è evoluto, ma non è mai cambiato del tutto: «Non posso immaginare la mia vita senza di essa. Quando suonavo sulle navi, mi preoccupavo di dovermi “vendere” bene. Il pianoforte non passava in secondo piano, ma anche la mia presenza era parte dello spettacolo. Oggi sono più insegnante che concertista».

E quando aiuta i suoi allievi a leggere uno spartito o a scegliere con quale dinamica suonare un passaggio, spiega loro che bisogna sentire dentro ciò che si sta interpretando: «La musica è conoscenza, va compresa. Non basta avere talento. Un musicista deve essere preparato: se non lo è, gli ascoltatori non possono capire. Ma sono fondamentali anche struttura, fraseggio, forma. Se non hai una storia da raccontare con il tuo brano, l’interpretazione sarà vuota. Il pubblico deve poterlo sentire e vivere attraverso di te», afferma Joanna.

Se potesse tornare indietro nel tempo e sostituire qualche tassello della sua vita, non ha dubbi su cosa farebbe: «Andrei di nuovo a Danzica, una città meravigliosa, sul mare, piena di studenti, viva e piena di cultura. Sceglierei ancora la mia università, che mi ha dato tutto. A volte penso che dopo il primo contratto in nave, forse sarei dovuta tornare a insegnare a scuola. Ma suonare per i passeggeri mi arricchiva. Non mi pento di quello che ho fatto», conclude la pianista. Insomma, rifarebbe tutto da capo: la musica, l’amore, il mare.

«La musica è conoscenza, va compresa. Non basta avere talento. Un musicista deve essere preparato: se non lo è, gli ascoltatori non possono capire. Ma sono fondamentali anche struttura, fraseggio, forma. Se non hai una storia da raccontare con il tuo brano, l'interpretazione sarà vuota»

1 e 3. Joanna Lukaszewicz durante i suoi concerti
2. Paolo Adella e Joanna Lukaszewicz 4. Paolo Adella con l'equipaggio della nave

Tutti i colori del silenzio

Tommaso e Andrea eterni bambini taciturni, Gianluca e Vincenzo i loro papà. La vita un grande gioco. Preoccupazioni per il futuro e difficoltà sono storie di avventura

C’erano una volta Lupo Giovacchino, a cui non andava tanto di cacciare, e Pavone Gedeone, che non amava essere guardato. Gatti verdi, spade danzerine. Tommaso non parla, ma con papà Gianluca non serve. Dal 1998, la vita attraverso i suoi occhi è colorata, ballerina, stravagante, bella. Tommy è un artista neurodivergente che con pennelli e tempere dà forma a ciò che vede. Dal 2019 produce quadri e disegni, fonte di ispirazione per il padre, Gianluca Nicoletti, che li unisce attraverso un filo invisibile per creare storie di fantasia. Il libro Nel paese dove i maiali volano, i lupi galleggiano è nato così, ma non è solo un insieme di racconti inventati. È una risorsa per fare luce sull’autismo, per capire quel compagno di classe che si comporta in modo “strano” e fa qualche capriccio, un mezzo per entrare in una mente un po’ ribelle, unica.

«Non immaginate come vorrei avere, anche solo per un attimo, il punto di vista “eccentrico” di Tommy. Capirei molto di più di lui e, forse, capirei molto di più pure della realtà che vedo con il banalissimo e stantio sguardo condiviso dal resto dell’umanità», racconta Nicoletti nel suo testo Alla fine qualcosa ci inventeremo.

In fin dei conti, il Disturbo dello Spettro Autistico (DSA) è «una delle infinite possibilità che abbiamo di misurare il mondo, un punto di vista individuale». È un labirinto in cui le parole a volte si perdono e le convinzioni si dissolvono, una ricchezza da comprendere, non un ostacolo invalicabile.

Di limiti ce ne sono, tanti quante sono le preoccupazioni di un padre. Ogni genitore ha timori e angosce che riguardano la vita e il futuro dei propri figli, ma non tutti a fine giornata si chiedono «che farà quando io non ci sarò più?». Il principale tormento di cui parla Gianluca Nicoletti è di non poter essere eterno per prendersi cura

di Tommy fin quando ne avrà bisogno: per sempre. Per questo, pensare agli autistici come a dei perenni bambini facilita l’arduo compito di dover affrontare la loro maturità. Nomignoli e coccole aiutano a non pensare, almeno per un po’, che anche da adulti «i padri allacciano loro le scarpe, se non sono riusciti a trovare quelle col velcro che li rendono autonomi».

Chiunque abbia in famiglia un neurodivergente ha la cupa consapevolezza che prima o poi, per il forzato corso della vita, non potrà più prendersi cura di lui e dovrà confinarlo in un centro con degli esperti che mai sapranno rassicurare come gli abbracci di mamma e papà durante una delle tante crisi. Così, si cerca sempre di proteggerli, di fare loro da schermo contro la verità che incombe con il passare dei giorni: «Mi basta che sia felice e sapere che non capiterà mai che qualcuno attenti alla sua felicità quando io non ci sarò più per difenderlo».

La quotidianità di Tommy e Gianluca è la stessa di tante altre persone. Secondo il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), un bambino su 77 nella fascia d’età tra 7 e 9 anni presenta un disturbo dello spettro autistico di vario livello e le diagnosi sono in aumento. Le problematiche si espandono per l’accesso nel mercato del lavoro. Le persone con disabilità psichiche affrontano sfide non indifferenti anche in questo campo. I dati generali ISTAT sull’impiego di persone con disabilità in età lavorativa (15-64) in Italia risalgono al 2023 e sono inferiori rispetto alla media europea. Le difficoltà riguardano spesso la

mancanza di una preparazione precisa all’interno delle aziende, la persistenza di pregiudizi e la scarsa valorizzazione delle competenze individuali. I neurodivergenti incontrano maggiori ostacoli legati alla specificità dei supporti di cui necessitano e alla poca flessibilità dei contesti aziendali. L’obiettivo di una piena occupazione inclusiva è lontano, ma i progetti di inserimento non mancano. Tra questi, la Fondazione Cervelli Ribelli, di cui Nicoletti è presidente, ha creato un HubLab a Roma in cui Tommy ha prodotto le sue opere d’arte e vengono svolte attività laboratoriali con lo scopo di dare inclusività sociale e lavorativa a persone fragili.

Non tutti, però, hanno la fortuna di potere almeno sperare che i propri “eterni fanciulli” riescano a trovare un posto di lavoro. Alcuni livelli di DSA sono così avanzati da non avere aspettative superiori a traguardi giornalieri che, per le persone normodotate e autosufficienti, sono basilari. È il caso di Vincenzo, papà di Andrea, un bambinone di 28 anni che non parla, almeno non più. «Me lo ricordo ancora il suono della sua voce quando cantava Nella vecchia fattoria o quando urlava “papà” appena mi vedeva fuori dalla finestra».

Nel suo caso, l’autismo si è aggiunto alla sindrome di Down, diagnosticata prima della nascita. Ogni giorno è fatto di rituali ripetuti e accudimenti costanti. Vincenzo ha gli occhi stanchi di chi sa che il tempo corre, e corre contro. Nel silenzio di Andrea, fanno eco le inquietudini del padre: «Non c’è nessuno che lo può invitare a uscire, come invece è normale per tutti i ragazzi, nessun amico. Non ha mai dato il primo bacio ed è probabile che non lo darà mai».

Mentre l’età avanza, i figli diventano bastone di vecchiaia. Per Andrea è il contrario, perché i genitori hanno lo stesso ruolo di quando aveva 3 anni. I suoi due fratelli hanno «pagato il prezzo» di tutte le attenzioni che mamma e papà hanno dovuto riservare, spesso, solo a lui: «Hanno sofferto per questo. Forse mi danno la colpa di non essere stato un buon padre e, magari, sotto quell’aspetto non lo sono stato». Ci sono dei momenti che restano dentro le mura di una casa per sempre, e per quanto gli amici più stretti possano tentare di far sentire la loro vicinanza, solo i membri della famiglia sanno cosa si è vissuto. «Alcune serate erano drammatiche, un disastro. A volte ci guardavamo negli occhi senza sapere più come gestire le sue crisi. Ci si sente soli, un nucleo a parte».

La storia di Gianluca è diversa da quella di Vincenzo. Tommy è un omone, come Andrea, ma in fondo entrambi sono ancora dei bambini. Come scrive Nicoletti, arriverà un giorno in cui papà e mamma non potranno più proteggerli, «quel giorno, saranno esposti alle intemperie dell’indifferenza umana come la maggior parte dei loro colleghi poco loquaci».

Dopo le loro storie, però, gli umani indifferenti avranno almeno imparato che un lupo può anche non aver voglia di cacciare, e se si nasce pavone non si ha per forza voglia di sentirsi dire «come sei bello».

Influencer creep, arte in vetrina

In Italia, tra i 37.700 creator che il rapporto I-Com conta, tanti sono gli artisti: l’industria culturale ha invaso il digitale

L’infiltrazione “creepy” della cultura degli influencer plasma anche le forme “tradizionali” del lavoro culturale, che spesso segue strade non convenzionali, che hanno come unico passo quello dell’artista e delle opere. In contesti creativi, impone tacitamente dei meccanismi, schematizza in modelli standard ciò che, per natura, rifugge lo schema preconfezionato.

Nella sua ultima pubblicazione, “Influencer Creep”, la studiosa inglese Sophie Bishop studia il lavoro di creazione di contenuti social e la loro rappresentazione, modellati dagli ingranaggi delle piattaforme; la sua ricerca si basa su un'etnografia digitale (un’analisi delle interazioni tra gli utenti nel web) di un anno su Instagram, oltre a 25 interviste ad artiste donne e non binary nel Regno Unito.

I tre pilastri dell’“influencer creep” (inquietante ndr.) sono il self-branding, (fare di sé un marchio), l’ottimizzazione dell’algoritmo e la performance dell’autenticità (che, di per sé, è già un paradosso). Includere sé stessi nei contenuti promozionali.Anche il network artistico italiano risente oggi del fenomeno: Mary Ciaccia, artista molisana, racconta: «Curo molto i miei social, TikTok e Instagram, mi è stato insegnato che sono una sorta di estensione della mia identità».

Nonostante ciò, spiega: «Non è assolutamente nella mia indole farlo. Mi sento spesso spinta da dinamiche esterne, come la ricerca di approvazione o la pressione a mostrarmi “professionale”». Ma qual è il guadagno e quanto invece affatica performare nelle vetrine digitali? «A volte fatico persino a postare i miei lavori: mi sembra di smettere di creare per me stessa e iniziare a farlo per gli altri. È frustrante trovarsi costantemente a confronto con altri profili. Mi capita di cancellare o archiviare tutto».

Potrebbe essere una nuova occasione di aumentare la propria audience ed essere visibile a un ampissimo pubblico, senza confini di spazio. O potrebbe svilire il carattere libero e liberatorio dell’artista e svuotare il senso del creare. Allo stesso modo, la visibilità a cui i social “costringono”, offre vantaggi: «Condividere ha permesso anche agli altri di riconoscere il valore di alcune mie creazioni, e questo ha aiutato anche me a vederle sotto una luce diversa».

Uno degli elementi chiave della ricerca di Bishop è l’interesse verso l’identità di genere: donne e persone queer sono state l’oggetto di studio. Risentono di una maggiore oggettivazione, di uno sguardo e un giudizio

1. Immagine generata con l'Ai

2. Il libro della studiosa Sophie Bishop

alterato. La visione di Samuele Marrone, attore abruzzese, suggerisce in effetti similitudini e differenze: «Servire un algoritmo (nello specifico, quello di TikTok) affinché la mia arte arrivi è qualcosa che mi disturba. Il social può, comunque, essere un ottimo strumento pubblicitario». La piattaforma è spesso in contrasto con l’essenza dell’arte: «Il teatro non può entrare nello schermo, è uno spazio troppo stretto. Si snaturerebbe». «La pagina Instagram di una compagnia teatrale può diventare uno storyboard delle rappresentazioni fatte ed essere un ottimo biglietto da visita. Non è un valore aggiunto, è molto difficile diventare un influencer virale recitando», conclude.

Mary Ciaccia riassume il paradosso che l’artista vive nella società dello spettacolo, oggi digitale: «Lavorare con i social può essere tossico, perché è facile perdere il confine tra ciò che fai per te stessa e ciò che fai per “funzionare”. Non voglio snaturarmi. Preferisco rimanere autentica». Ci si interroga sull’ ”autenticità” dell’arte odierna. L’artista e l’automa hanno più in comune di qualche tempo fa, o forse dispongono di più strumenti per fare della propria passione un lavoro (retribuito, in qualche modo).

Il peso del coraggio

Ghisa, sacrifici e sogni, un esempio di determinazione oltre lo sport

«Mi piace dire che ho due vite: la prima, interrotta a due anni e mezzo e la seconda, iniziata da lì in poi». È in quel momento, dopo un incidente che lo ha costretto all’amputazione di entrambe le gambe, che Donato Telesca comincia la sua storia, non fatta di rinunce ma di conquiste.

Lucano, classe 1999, è un atleta di pesistica paralimpica, milita nel gruppo sportivo Fiamme Oro della Polizia di Stato ed è laureato in economia alla Luiss. Dietro questi traguardi ci sono anni di lotta silenziosa e determinata, costruiti su un’idea semplice ma rivoluzionaria: trasformare l’invalidità in una possibilità. «Fin da subito, grazie al sostegno della mia famiglia, ho imparato a vivere questa “seconda vita” senza usare la disabilità come una scusa, ma piuttosto come una condizione da cui partire per costruire il mio percorso». Nel suo racconto non c’è spazio per il vittimismo: «A un certo punto, ho capito che non avevo alternative. Avevo perso le gambe e non c’era modo di tornare indietro. Dovevo scegliere se restare fermo a piangermi addosso o reagire». E Donato ha scelto di rimboccarsi le maniche.

A otto anni entra per la prima volta in palestra, ambiente che, da subito, sente suo: «Ricordo perfettamente quel giorno: le luci, l’odore del ferro, i pesi ovunque. E io lì, piccolino, quasi spaesato, con gli occhi spalancati davanti a quei dischi enormi». Presto quegli attrezzi diventano strumenti per costruire «non solo l’atleta, ma soprattutto la persona che sono diventato». Appena maggiorenne, Telesca conquista il suo primo titolo ai Mondiali Junior e stabilisce due record del mondo. Un risultato straordinario, frutto di

una convinzione profonda: «Non serve che gli altri credano in te. Serve che tu creda in te stesso». Sul campo, Donato si trasforma: «Quando gareggio, provo adrenalina pura. È quella la vera ragione per cui salgo in pedana, una miscela esplosiva di paura, sfida, rischio». Anche nei momenti più critici, trova dentro di sé una forza che lo spinge oltre. «Ho affrontato competizioni in condizioni critiche, ho rischiato infortuni – e alcuni li ho anche pagati». Ma in quegli attimi per lui non esiste nient’altro, «è guerra contro le probabilità».

Il legame con la maglia azzurra è profondo. «Rappresentare l’Italia in campo paralimpico è il più grande onore che la vita mi abbia mai dato», spiega il campione. «Quando sono in competizione in Italia do tutto, ma quando rappresento l’Italia davanti al mondo intero, do anche quello che non ho». Ogni gesto in gara diventa un messaggio per chi guarda, per chi combatte una battaglia personale, per chi cerca un motivo per crederci.

Lo sport ha avuto per lui un ruolo centrale non solo come via di riscatto, ma come scuola di vita. «Mi ha insegnato cosa vuol dire sacrificarsi, rinunciare, stringere i denti. È proprio lì, in quel momento di stanchezza estrema, che si crea il vero distacco tra chi sogna e chi conquista». E lui ha capito la «formula del successo: lavora, rinuncia e sogna più degli altri. E quando senti che stai per crollare, spingi ancora».

Se potesse parlare al sé di dieci anni fa, Donato gli direbbe «di non aspettare, di essere disposto a pagare il prezzo subito, adesso, non domani» perché temporeggiando si rischia di perdere l’occasione, quella che lui, invece, ha colto al volo per arrivare dove è. Donato Telesca è tutto questo, atleta, esempio di coerenza, ragazzo lucido che ha scelto di «trasformare una ferita in forza, un limite in una miccia, una difficoltà in un traguardo» per realizzare i suoi sogni.

Una casa sostenibile

Eliza e Francesca hanno deciso di trasferirsi in un piccolo paese del Cilento, un’area interna dove mancano servizi e residenti. Lì hanno avviato Growing Greener

di Pietro Angelo Gangi

La mattina di Eliza e Francesca comincia con un caffè veloce in casa, qualche ora al computer per rispondere ai messaggi e coordinare i prossimi eventi. Poi si dedicano ai loro lavori part-time e nel primo pomeriggio si spostano verso il loro terreno, dove tagliano l’erba e sistemano le strutture che hanno costruito. Verso sera, se avanzano energie, salgono in macchina e puntano verso la costa: trenta minuti di curve per vedere il tramonto sul mare, prima di rientrare e cenare a casa.

Vivono così da più di un anno a Perdifumo, un comune nel Cilento, in provincia di Salerno. Hanno affittato una casa nel centro storico e ricevuto in dono un terreno abbandonato poco fuori. Il loro progetto si chiama Growing Greener: un’iniziativa di ospitalità, scambio culturale ed eventi pubblici, nata con l’obiettivo di rimettere a valore un pezzo di terra, rendendolo un luogo d’incontro per la comunità locale e una meta turistica sostenibile.

«Passavamo tutte le sere in città a bere, uscire, fare serata. Spendevamo soldi per evadere, non per costruire», racconta Eliza Cox, 25 anni, inglese, trasferita a Napoli per lavoro nel 2020. Lì ha conosciuto Francesca Tortorelli, 31 anni, originaria di Battipaglia. Si sono innamorate quasi subito e hanno iniziato a condividere la consapevolezza che la vita nei grandi centri non era quella che volevano. «Ci siamo chieste: se non vogliamo vivere qui, allora dove? E in che modo?».

Perdifumo non era la risposta immediata. Prima hanno viaggiato: Portogallo, Francia, Inghilterra. Hanno fatto volontariato in fattorie didattiche, vigne biologiche, comunità rurali. Tornavano in Cilento nei mesi di pausa, cercando un luogo dove fermarsi. Hanno provato a Laurito, dove hanno presentato all’amministrazione locale l’idea di rilevare uno spazio in disuso per organizzare attività. «All’inizio erano entusiasti, poi è diventato impossibile comunicare. Abbiamo capito che dovevamo partire dalle persone, non dai comuni». A Perdifumo si sono fermate una settimana per lavorare nel verde. Hanno spiegato il progetto agli abitanti. Qualcuno le ha aiutate a cercare casa, qualcun altro ha messo a disposizione un terreno inutilizzato.

Il piccolo paese che le ospita rientra tra le cosiddette “aree interne”, definite dalla Strategia Nazionale delle Aree Interne – una politica nata nel 2013, promossa dall'Agenzia per la coesione territoriale e dal governo Monti – come quei territori che non garantiscono ai residenti un accesso completo a servizi essenziali come salute, istruzione e mobilità. Secondo la classificazio -

ne, i comuni sono divisi in “poli” e “poli intercomunali”, dove i servizi si concentrano, e in aree "intermedie”, “periferiche” e “ultraperiferiche”, in base alla distanza dai centri. Perdifumo, che fino al 2021 era considerato intermedio, oggi è classificato come periferico. Questo significa che, rispetto ai Poli, la distanza e la carenza di infrastrutture sono ostacoli che incidono sulla vita quotidiana. In Italia, le aree interne comprendono oltre 4.000 comuni, cioè quasi la metà del totale (48,5%). Vi abitano circa 13,3 milioni di persone, quasi un quarto della popolazione italiana (Istat, 2024).

Questi territori sono segnati da un declino strutturale. La popolazione è scesa del 5% tra il 2014 e il 2024 (contro l’1,4% dei centri urbani). L’indice di vecchiaia cresce più in fretta: per ogni 100 bambini sotto i 15 anni, ci sono 225 anziani nei comuni periferici, e 243 in quelli ultraperiferici (Istat, 2024). La dinamica è aggravata dalla fuga di giovani: tra il 2002 e il 2022, 375 mila laureati tra i 25 e i 39 anni sono andati via dalle aree interne. Solo 215 mila sono rientrati, lasciando un saldo negativo di 160 mila giovani. Come si vede dal grafico, la differenza tra chi parte e chi torna è aumentata negli anni, questo significa che il trend è in crescita.

Francesca ed Eliza hanno scelto la direzione opposta. «Abbiamo iniziato con il terreno che un abitante del posto, Guido, ci ha regalato: era inaccessibile e malmesso», dice Francesca. «Nei primi sei mesi abbiamo lavorato con la Comunità: c’era chi ci insegnava a costruire scale, chi ci spiegava come potare».

A maggio 2024 hanno organizzato il primo evento pubblico con più di cento partecipanti: un mercatino solidale con laboratorio di tarantella cilentana nel loro spazio di terra. Da allora hanno continuato: panificazione, fermentazione, trekking, yoga, scambi culturali.

Growing Greener deve parte della sua fama anche al lavoro che Eliza e Francesca hanno svolto sui social. Ad oggi, il loro profilo Instagram conta quasi 25 mila seguaci e grazie alla copertura mediatica riescono ad attrarre sempre più persone. «C’è chi vuole partecipare, chi vuole capire come fare qualcosa di simile. I social sono diventati uno strumento di connessione: non per promuovere il territorio, ma per farlo incontrare». A livello economico, per ora, il progetto si regge sulle loro spalle e i loro stipendi. Eliza lavora in una

scuola in un comune nel Cilento che dista un'ora da casa loro, Francesca lavora da remoto come engagement manager. I bandi pubblici non sono stati risolutivi. Hanno vinto il bando "Imprese Borghi” del PNRR, ma non lo hanno potuto attivare: «Scadenze troppo strette, obiettivi pensati per contesti urbani. Anche con il punteggio più alto, non era fattibile per noi». Ora stanno lavorando a un bando Erasmus Plus in collaborazione con organizzazioni spagnole. Il loro sogno è di aprire un eco-lodge, trasformare Growing Greener in una struttura ricettiva stabile e sostenibile. «Ci permetterebbe di viverci davvero, di non dover lavorare part-time per pagare le spese. Per ora facciamo tutto il possibile con quello che abbiamo».

1 . Francesca Tortorelli ed Eliza Cox fondatrici di Growing greener
2. Vista su Perdifumo, provincia di Salerno
3. Il terreno di Growing Greener

GAZA

Un anno e nove mesi di massacro nella Striscia

di Francesco Esposito

Un uomo disperato mentre cerca di recuperare alcuni oggetti nel cortile devastato di una scuola nel quartiere di al-Tuffah a Gaza City, il 4 aprile 2025, il giorno dopo essere stata colpita da un attacco israeliano. Il 3 aprile, l'agenzia di difesa civile di Gaza dichiara che almeno 31 persone, inclusi bambini, sono state uccise nell'attacco israeliano alla scuola che fungeva da rifugio per gli sfollati. (Foto di Majdi Fathi/NurPhoto)

Ragazze palestinesi piangono il padre, morto in un bombardamento israeliano nell’area dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City il 3 giugno 2025. Un tempo struttura sanitaria più grande della Striscia, l’Al-Shifa è diventato un simbolo della distruzione che non risparmia niente. Fra marzo e aprile 2024 è oggetto di un assedio da parte dell’esercito israeliano che ha provocato fra le 200 e le 300 vittime. (Foto di Majdi Fathi/NurPhoto)

Una donna piange sul cadavere, avvolto in un sacco, di un caro morto in un raid a Jabalia. Dall’inizio delle operazioni militari dell’Israeli Defense Forces sono quasi 60 mila le vittime, secondo il Ministero della salute di Gaza e le organizzazioni umanitarie. (Foto di Omar Ashtawy/Apaimages)

Una famiglia palestinese, sfollata a sud per ordine di Israele durante la guerra, torna verso la propria casa nel nord di Gaza durante il cessate il fuoco del 27 gennaio 2025. La tregua si è conclusa nella notte fra il 17 e il 18 marzo. Da quel momento il governo israeliano ha bloccato l’ingresso di aiuti umanitari per oltre 50 giorni. (Foto di Majdi Fathi/NurPhoto)

Persone in attesa di un pasto alle cucine comuni dell’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (UNRWA) a Gaza City. A ottobre 2024 il parlamento israeliano dichiara che l’agenzia non può più operare all'interno del territorio israeliano e vieta alle autorità israeliane qualsiasi contatto con l'UNRWA, revocando così il trattato del 1967 che consente all'agenzia di fornire servizi ai rifugiati palestinesi nelle aree sotto il controllo di Israele. (Foto di United Nations)

Una coppia palestinese di novelli sposi, Shaima' Qazeat e Mahmud Akhiziq, celebra il proprio matrimonio in un campo per sfollati a Deir Al-Balah, nella Striscia di Gaza centrale, il 16 febbraio 2024. (Foto di Majdi Fathi/NurPhoto)

Le mani di Israele sulla Cisgiordania

Attraverso confische, sfratti e decreti il governo di Netanyahu sta prendendo il controllo di sempre più terre della West Bank

di Francesco Esposito

«Ilan, ci stai portando via tutto». C’è questo nome sugli avvisi di sfratto che colpiscono le famiglie delle colline di Masafer Yatta, sud di Hebron, Cisgiordania, nel docu-film premio Oscar No Other Land. Ilan non è un soldato. La sua divisa è fatta da t-shirt della Nike, cappellino con visiera e occhiali da sole specchiati. È l’incarnazione del potere amministrativo che muove e autorizza quello militare. Ma è anche l’unico essere fisico a cui uomini e donne disperati possono chiedere – invano – spiegazioni, mentre raccolgono una coperta o una padella da sotto le macerie di quella che fu la loro casa. Siamo nell'Area C istituita dagli accordi di Oslo del 1993: il 59% del territorio della Cisgiordania, composto prevalentemente da terre agricole, ancora sotto il controllo militare e amministrativo israeliano.

A partire dall’inizio delle operazioni militari a Gaza, la tensione è salita molto anche qui. Secondo i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), dall’ottobre 2023 a luglio 2024 sono stati più di mille i casi di aggressione a palestinesi da parte di coloni israeliani. Uomini mascherati e armati scendono ogni giorno dalle colline sassose, tirano pietre, bastonano e sparano con armi automatiche rivendicando le terre ad ovest del fiume Giordano come proprie. Ma l’annessione della Cisgiordania – minacciata dal ministro degli Esteri Israel Hayom in risposta al riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dei governi occidentali – usa anche la carta bollata.

Sempre secondo dati dell’Ocha, dal 7 ottobre 2023 il numero di case e altri edifici di palestinesi demoliti è salito del 14,75% rispetto all’anno e nove mesi precedenti, quello di persone sfrattate dalla propria casa o dalla propria terra del 87,81%. In generale, i palestinesi colpiti, direttamente o indirettamente da questi provvedimenti, sono aumentati di quasi cinque volte nello stesso periodo».

Il sequestro per ragioni militari è spesso solo l’inizio: il primo passo verso la confisca legale delle terre per dichiararle “di Stato”. «Si dichiara un’area come zona militare chiusa. E poi vanno dal proprietario e gli dicono: “Senti, per la legge ottomana, il codice fondiario del 1858, non hai usato la tua terra per più di tre anni. Quindi te la requisiamo”», commenta un avvocato e attivista per i diritti umani palestinese che vuole restare anonimo. «Qui in Palestina, nella storia, sono state applicate diverse leggi - continua il legale e attivista - dopo gli ottomani, siamo passati sotto il mandato britannico, che ha emesso ordini e leggi che sono ancora in vigore.

1 La colonia di Eldad, a sud di Betlemme ph. Trocaire

2. Bezalel Smotrich ph. Avi Ohayon/Governo di Israele

59%

Del territorio della Cisgiordania è sotto il pieno controllo israeliano

Ministro delle finanze israeliano

Leader del Sionismo religioso israeliano, è nato nelle Alture del Golan occupate. Vive con la sua famiglia nella colonia di Kedumim, in Cisgiordania, in una casa costruita illegalmente anche ai sensi del diritto israeliano e in violazione del piano generale d’insediamento.

È anche fra i fondatori di Regavim, Ong che promuove la colonizzazione e porta avanti azioni legali per smantellare le costruzioni nell'Area C.

Nel 2017 è stato fra i promotori della “legge sulla regolarizzazione”, che consente di legalizzare insediamenti costruiti su terreni privati palestinesi.

Anche la Giordania ha applicato le proprie». Una stratificazione normativa che, secondo l’avvocato, Israele ha usato a suo vantaggio. «In Palestina la proprietà della terra è, per tradizione, orale. Solo il 10% della proprietà è documentata», prosegue l’avvocato. La mancanza di atti è alla base della demolizione degli edifici palestinesi nell’Area C e B (controllo militare israeliano, amministrazione all’Autorità nazionale palestinese) di Cisgiordania e Gerusalemme Est. Sono costruzioni senza autorizzazione, tirate su in una notte mentre i soldati dormono. «Il 95% delle richieste di permesso che i palestinesi hanno presentato dal 1967 sono state respinte», aggiunge l’avvocato e attivista.

Non è vietato costruire, ma senza un certificato di proprietà è impossibile ottenere il permesso. «Così se in Italia guardi il telegiornale e senti che Israele ha demolito una casa perché era stata costruita abusivamente, ti viene da pensare che sia stato giusto. In realtà, non abbiamo altra scelta». A maggio l’esercito israeliano (IDF) ha raso al suolo la quasi totalità degli edifici di Khalet El Dabaa, uno dei villaggi di Masafer Yatta. La motivazione è sempre quella dell'area di tiro, ma, come testimoniano video e racconti raccolti dal quotidiano Haaretz, i militari hanno subito lasciato il campo libero ai coloni. «Continuano a venire nelle nostre case con pecore e fucili, e l'esercito non fa nulla per allontanarli», ha dichiarato un civile palestinese della zona.

Secondo dati dell’organizzazione pacifista Peace Now, dal 7 ottobre sono stati fondati 89 nuovi avamposti di insediamento. Il 29 maggio scorso il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che 22 di questi diventeranno presto colonie, riconosciute ufficialmente dallo Stato ebraico, ma illegali per il diritto internazionale, come ribadito dalla risoluzione ONU 2334 del 2016. I territori dell’Area C vengono quindi sgomberati per ragioni militari, annessi come terre statali e poi concesse liberamente ai coloni. Il passaggio successivo, la legalizzazione dell’annessione, è già in atto. Il 29 maggio 2024 l’IDF ha pubblicato un ordine con cui si trasferisce la responsabilità di decine di regolamenti dell'Amministrazione civile (l'organismo israeliano che governa la West Bank) dall'esercito ai funzionari del Ministero della Difesa. Non più territori occupati – o “contesi”, come dicono i diplomatici israeliani – ma province.

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Il progetto di annessione passa anche dall’ambientalismo. Peace Now conta 141 aree della Cisgiordania identificate dall’Amministrazione Civile come parchi o riserve naturali. «Pensi che l’abbiano fatto perché si preoccupano dell'ambiente? - commenta il legale palestinese - Hanno creato queste aree verdi per impedirci di costruire case». Oltre alle restrizioni vigenti nell'Area C, nelle riserve naturali ne esistono di ulteriori per limitare l'uso palestinese della terra. Qui i proprietari non possono coltivare, piantare alberi o pascolare le loro terre senza l'approvazione del Funzionario della Riserva Naturale. «Ma possono essere trasformate in aree edificabili quando si tratta di un insediamento. Come Har Homa, a Gerusalemme Est. Noi la chiamavamo la collina Abu Ghneim. Allora sì che era un'area verde».

La rotta per l'inferno

La testimonianza di Mamadou Kouassi, coautore di Io Capitano, e il rapporto Borders of (In)humanity: storie di migranti tra Libia, Tunisia e Mediterraneo

«In Libia non si vive, si sopravvive. In prigione pensavo di non farcela. Il pensiero, un giorno, di tornare a casa e raccontare ai miei genitori cosa avevo passato è ciò che mi ha tenuto in vita». Chiudere gli occhi può servire a non guardare. Ma chi scappa dalla Libia o dalla Tunisia, attraversa il Mediterraneo e lascia la propria casa in cerca di una vita migliore, non può evitare di vedere l’inferno. Lo racconta Mamadou Kouassi, 41 anni, il ragazzo a cui il regista Matteo Garrone si è ispirato per il film Io Capitano, sopravvissuto a un viaggio lungo tre anni e mezzo da Dame, in Costa D'Avorio, all’Italia, passando per i lager libici.

«Vedere persone morire nel deserto, imprigionate, torturate. Raccontare la mia sofferenza è servito per mostrare al mondo cosa significa essere migrante. Era come un passato che avevo dimenticato» dice Mamadou, fiero della candidatura della pellicola agli Oscar 2024. Ma quel ricordo è ancora il presente di migliaia di persone. A testimoniarlo è il rapporto Borders of (In) humanity di SOS Humanity, che raccoglie le storie di 64 sopravvissuti salvati nel Mediterraneo tra ottobre 2022 e agosto 2024 dalla nave Humanity 1. Uomini, donne e bambini che hanno conosciuto prigioni illegali, schiavitù, violenze sessuali e razzismo.

Una denuncia delle conseguenze delle politiche di esternalizzazione dell’Unione Europea, che affidano il controllo dei flussi migratori a paesi terzi per impedire l’accesso ai propri confini. E che hanno trasformato il Mediterraneo in un luogo insicuro. Secondo il rapporto, 166.393 persone sono state intercettate e riportate in Libia tra il 2017 e il 2025 dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Insieme a quella tunisina, è stata creata e potenziata anche grazie al sostegno dell’Europa. Presentate come forze di “Search and Rescue”, queste unità sono spesso composte da milizie non regolari o attori statali corrotti. I fondi europei sono stati usati per la fornitura di motovedette, addestramento e attrezzature, ma il loro impiego ha portato più a intercettazioni e respingimenti che a salvataggi.

Diverse testimonianze nel rapporto documentano episodi in cui i “soccorritori” hanno aperto il fuoco, sabotato imbarcazioni o riportato i migranti nei centri di detenzione. «Tre partenze dalla Libia e ogni volta i libici ci hanno preso. Tre tentativi, tre volte in prigione. Ti torturano. È un business» racconta Keita, un soprav-

«In Libia non si vive. Si sopravvive. In prigione pensavo di non farcela»

vissuto della Guinea. Fidaa, siriana e madre di cinque figli, ricorda: «Tre giovani si sono gettati in mare a causa delle violente botte subite. La Guardia costiera libica li ha lasciati morire davanti ai nostri occhi, maledicendoli mentre annegavano, dicendosi l'un l'altro: "Lasciateli morire, è più facile per noi e per loro”».

Solo nel 2024, 1.719 migranti sono morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo centrale. L’83% dei testimoni è partito dalla Libia, descritta come un buco nero in cui si entra e si scompare. «La Libia è un gruppo di gang che si vendono le persone tra loro» spiega Jamaal, giovane siriano. Ramadan descrive così la sua prigione: «Era fatta di lamiere conficcate nel terreno, a formare una cupola metallica sopra di noi. Dalle 10 alle 17, il caldo saliva a 60 o 70 gradi. Era impossibile per un essere umano sopravvivere in quelle condizioni. Quando qualcuno sveniva, nessuno veniva a portarlo fuori. La nostra pelle diventava così fragile che sembrava non ricoprire più le nostre ossa». Mohammed e Abdul ricordano che quando «qualcuno chiedeva delle medicine, arrivavano con le pistole e lo colpivano». Anche Mamadou conferma: «Lavoravamo sempre, a volte per uno o due mesi, e poi non ci pagavano. Oppure di notte entravano nelle nostre case e ci derubavano. Chi non aveva i soldi, veniva portato in galera dove ti chiedevano di

chiamare un genitore o un parente per pagare il pizzo». La Tunisia non è un’alternativa sicura. Il 17% dei sopravvissuti racconta di essere partito da lì. Oltre al razzismo sistemico verso i migranti subsahariani, si aggiungono schiavitù, aggressioni fisiche e violenze sessuali da parte delle milizie. «Moltissime donne vengono rapite e fanno loro tutto quello che vogliono con la forza sessuale. Ci vanno a letto. Per questo, molte ragazze hanno gravidanze indesiderate e problemi mentali» racconta Diana, eritrea.

Il prezzo è alto, sia per le vite spezzate che in termini economici. I costi dell’esternalizzazione, nel periodo tra il 2015 e il 2027, ammonteranno a oltre 290 milioni di euro. Soldi spesi dall’UE per sostenere la cosiddetta Guardia costiera libica e tunisina, i centri di detenzione e i sistemi di controllo dei confini. Al contrario, le missioni umanitarie come SOS Humanity, che ha salvato oltre 4.000 persone in tre anni, sono costate 42 milioni in dieci anni.

Le guardie costiere italiane o maltesi spesso segnalano le imbarcazioni in pericolo ai libici o ai tunisini, pur consapevoli delle condizioni di illegalità in cui agiscono. Ramadan ricorda: «Quando abbiamo raggiunto le acque territoriali maltesi, un piccolo aereo da ricognizione è arrivato e ha scattato delle foto alla nostra barca. Dopo circa quattro ore, un aereo maltese ha lanciato una bomba fumogena vicino a noi, sembrava un segnale. Dopo mezz’ora, la Guardia costiera libica è venuta e ci ha riportati indietro. In realtà, la Guardia costiera non è collegata alla prigione, ma ci vende a loro per denaro, è un modo per fare profitto». Molti dei sopravvissuti arrivano in Italia con un solo desiderio: lasciarsi alle spalle l'orrore vissuto. «In Africa ci affascinava il valore dell’Europa. La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani. Un mondo migliore dove seguire i nostri sogni» ricorda Mamadou, che voleva diventare un calciatore. «Spero che i figli dei miei fratelli possano integrarsi nella vita occidentale, culturalmente diversa dalla nostra, e che trovino opportunità di studio, una vita senza paura» è l’augurio di Rami, siriano. L'appello che chiude il rapporto è netto: l’Unione Europea deve interrompere ogni collaborazione con Libia e Tunisia, che non sono considerati luoghi sicuri secondo il diritto internazionale, per istituire un programma europeo pubblico di soccorso in mare.

«Per me l'Europa è consapevole, ha siglato gli accordi con la Libia. È importante che ritrovi il valore dell’umanità, che oggi sta perdendo» dice Mamadou. «L’essere umano è fatto di movimento. Il migrante è una persona che parte alla ricerca della propria identità, da sempre. L’aiuto dei governi è necessario per muoversi in libertà e sicurezza». Oggi vive a Caserta, lavora con bambini e famiglie italiane, racconta la sua storia nelle scuole: «Il mare per me è un punto di partenza. Ogni volta che lo vedo, mi ricorda l’inizio della mia nuova vita».

Il futuro della Siria passa dal Rojava

L’amministrazione autonoma curda ha firmato un accordo con il governo per avviare un processo di pace, mentre esecuzioni sommarie colpiscono le minoranze nel resto del Paese

Si chiama Mamo Mid, ma sui documenti c’è scritto Khalil Muhammad. «Quando sono nato il governo siriano ha impedito alla mia famiglia di registrarmi con un nome curdo». Fixer di professione, passa le giornate viaggiando tra città e villaggi, seguito dai giornalisti stranieri arrivati in Rojava, nel nord est della Siria. Dal 2012 la regione ha un’amministrazione democratica autonoma a maggioranza curda (Daanes), che sta trattando con Damasco per mettere fine alla guerra dopo quattordici anni.

«Vogliamo una pace che ci garantisca pieni diritti, l’uguaglianza del nostro popolo con gli arabi e il diritto all’autodeterminazione», dice Mamo. Non si fida del governo transitorio di Ahmad al-Shara, ex terrorista di Al Qaeda e leader dell’organizzazione islamista Hayat Tahrir al-Sham, che ha conquistato la capitale a dicembre 2024 mettendo fine al regime di Bashar al-Assad. Una vittoria raggiunta insieme ai ribelli del Syrian National Army, supportati dalla Turchia. «Nonostante il cessate il fuoco, la situazione può cambiare in qualsiasi momento. Se domani lasciassimo le armi, verremmo attaccati e uccisi tutti», prevede il fixer.

Intanto i droni turchi continuano a sorvolare il confine con il Rojava, ma i bombardamenti sono cessati. «È un segnale positivo e speriamo che sia una situazione permanente, non temporanea», ha detto Elham Ahmed, copresidente dell’ufficio per le relazioni estere della Daanes, lo scorso 16 aprile. Nelle settimane precedenti, era andata in scena una battaglia sulla Tishrin Dam, diga controllata dai curdi a novanta chilometri a est di Aleppo. Le Syrian Democratic Forces (SDF), milizie dell’amministrazione del nord est della Siria supportate dagli Stati Uniti, avevano conquistato l’infrastruttura nel 2015, sottraendola agli jihadisti dello Stato Islamico.

Dopo l’ultimo assedio della Turchia alla diga, che ha un ruolo chiave nell’economia siriana, il governo di al-Sham ha raggiunto un accordo con l’amministrazio -

ne autonoma il 12 aprile. La Tishrin Dam rimarrà sotto il controllo civile curdo, con la creazione di una forza militare congiunta con Damasco per proteggere l’impianto. Un passo verso la riconciliazione, avviata il 10 marzo con il cessate il fuoco firmato dal presidente al-Sharaa e il comandante delle SDF Mazloum Abdi. Il patto riconosce i diritti costituzionali della comunità curda e stabilisce la fusione delle strutture civili e militari del Rojava nell’apparato statale.

Le condizioni sembrano favorevoli, adesso che lo Stato turco ha raggiunto una tregua con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Dopo quarant’anni di guerra contro Ankara e 40mila morti, il PKK ha deposto le armi e si è sciolto il 15 maggio, seguendo l’appello dal carcere del fondatore Abdullah Öcalan. Così la Daanes spera di non essere ostacolata dalla Turchia, mentre conduce le difficili trattative con il governo di transizione, resistendo alla volontà accentratrice di al-Shara. «Crediamo che il progetto portato avanti in questi anni», afferma Jiyan Hisen, coordinatrice dell’organizzazione delle donne in Rojava Kongra Star, «possa estendersi a tutta la Siria, con tutti i suoi popoli ed etnie, che cercano la libertà e vogliono costruire un nuovo Paese decentralizzato, pluralista e democratico». L’attivista sogna che Damasco abbracci il modello multietnico e di parità di genere sperimentato nel nord est. L’amministrazione autonoma, infatti, comprende anche minoranze arabe, assire e cristiane. Dalla politica alla cultura, i ruoli al vertice delle istituzioni sono condivisi da due persone, un uomo e una donna. «Noi diciamo sempre che sono le donne a guidare questa rivoluzione», conclude Hisen, ricordando il ruolo delle combattenti curde dell'Unità di protezione delle donne nella lotta contro l’Isis.

«Avevo un’idea del Rojava incentrata sulla rivoluzione e il femminismo», dice il fotogiornalista francese Philippe Pernot, tornato il 23 aprile dal suo secondo viaggio in Siria. Lì ha scoperto una realtà complessa: «L’area è ancora abbastanza conservatrice, tra i politici c’è un problema di corruzione e l’amministrazione autonoma è più autoritaria rispetto al modello anarcodemocratico che immaginiamo in Europa». Ma ha visto

anche segnali di cambiamento, in una società «con maggiori libertà politiche, in cui l’Islam non è più centrale». Nei suoi reportage, Pernot racconta l’inquinamento da petrolio che sta avvelenando il territorio, aggravato dalle fuoriuscite di greggio dopo i bombardamenti turchi su pozzi e serbatoi. «Ho incontrato cittadini, istituzioni e infrastrutture provati dalla guerra», prosegue il giornalista, «ma c’è anche ottimismo. Nel nord est sanno di avere la capacità militare di difendersi se il nuovo governo attacca».

Nel resto del Paese, invece, le minoranze sono esposte alle violenze del governo e dei ribelli, proseguite dopo la caduta di Assad. Secondo l’Osservatorio siriano sui diritti umani, negli ultimi sei mesi sono morte 7670 persone. Il 75% erano civili, mentre almeno 2.130 sono vittime di esecuzioni sommarie e omicidi su base etnica «commessi in modi brutali», si legge nel report. Ad aprile i combattenti islamisti hanno ucciso dozzine di persone nei quartieri intorno a Damasco abitati dalla minoranza drusa. Due mesi prima, i gruppi estremisti alleati dell’esercito avevano ucciso 1.600 persone di fede alawita, sulla costa Mediterranea. Secondo l’Osservatorio, gli omicidi degli alawiti continuano con la complicità dell’esercito.

«C’è uno spiraglio per ricostruire la Siria, anche per il rinnovato interesse dei Paesi occidentali», commenta Alessia Chiriatti, ricercatrice dell’Istituto affari internazionali, «ma senza una riconciliazione dal basso è impossibile». Secondo dati anagrafici parziali riportati dall’organizzazione Minority Rights Group, circa il 74% della popolazione è musulmana sunnita, seguita da alawiti, sciiti e ismailiti (13%). I cristiani rappresentano il 10%, mentre i drusi sono il restante 3%. I curdi sono la principale minoranza etnica, ma nel mosaico si inseriscono palestinesi, iracheni, armeni, greci, assiri, circassi, mandei e turcomanni. «La Siria non è una sola, sono tante», conclude Chiriatti. Dopo quattordici anni di guerra, tenerle insieme è una grande sfida.

1. Syria, Dirbesiye, 2025. Cerimonia funebre per due esponenti politici curdi uccisi da un attacco di droni turchi

Congo e Yemen le guerre dimenticate

Non tutti i conflitti vengono coperti dai media allo stesso modo. Alcuni dominano le prime pagine mentre altri restano nell'ombra

Ci sono guerre che fanno rumore e guerre che si consumano nel silenzio. Le prime occupano titoli, dirette televisive, thread sui social. Le seconde sembrano accadere ai margini del mondo, come se fossero sospese in un altrove che non ci riguarda. Tra queste, il conflitto in Congo e quello in Yemen sono tra i più lunghi, cruenti e dimenticati del nostro tempo.

«Parlare di guerre silenti significa parlare di conflitti che, pur essendo drammatici in termini di morti, conseguenze umanitarie, sfruttamento delle risorse e implicazioni internazionali, non trovano spazio né nella narrativa dominante dei media né nell’agenda politica globale», spiega Massimo De Giuseppe, storico e presidente della Facoltà di Arti, moda e Turismo presso la Libera università di lingue e comunicazione, IULM.

Secondo De Giuseppe, dietro questa invisibilità non c’è solo disattenzione, ma un vero e proprio «meccanismo selettivo dell’informazione e della memoria». Le guerre silenti, come quelle in Congo e in Yemen, coinvolgono potenze globali e interessi economici che non vogliono essere messi sotto i riflettori. «Spesso queste guerre sono frutto di dinamiche post-coloniali irrisolte, in cui le potenze straniere mantengono un ruolo

Royal forces nel nord dello Yemen durante la guerra civile del 1965

attivo nella destabilizzazione di intere regioni per il controllo di risorse o per interessi geopolitici». Ed è proprio qui che il silenzio diventa complice: tacere, distogliere lo sguardo, permette a questi conflitti di continuare indisturbati. Il caso del Congo è emblematico. Il Paese è al centro di uno dei conflitti più lunghi e devastanti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Milioni di morti, violenze sistematiche, sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Eppure, la Repubblica Democratica del Congo raramente compare nelle rassegne stampa occidentali. «Il Congo è una guerra silente per eccellenza: un Paese martoriato da conflitti legati alle risorse minerarie, soprattutto il coltan, fondamentale per la produzione di smartphone, computer, batterie. Un vero e proprio paradosso della modernità: ciò che alimenta la nostra tecnologia quotidiana è frutto di un sistema di sfruttamento disumano», dice De Giuseppe.

La connessione tra guerra e consumo è inquietante: i minerali che estraiamo dal Congo sono parte integrante della nostra economia digitale. L’opinione pubblica occidentale fatica a riconoscere questo legame. «Esiste un’ipocrisia di fondo: siamo disposti a condannare le guerre ‘visibili’ quando ci vengono presentate con immagini scioccanti, ma tendiamo a ignorare quelle che si consumano nell’ombra, lontane dai nostri occhi e apparentemente scollegate dal nostro quotidiano».

Anche lo Yemen vive un conflitto devastante, definito dalle Nazioni Unite come la più grave crisi umanitaria in corso. Dal 2015, il Paese è al centro di una guerra tra ribelli Houthi e una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, con il sostegno, diretto o indiretto, di Stati Uniti e altre potenze occidentali. «La guerra in Yemen non è solo un conflitto locale, ma un vero e proprio scacchiere geopolitico in cui si giocano equilibri tra potenze regionali e globali. Il problema è che, proprio per la sua complessità e per i soggetti coinvolti, diventa scomodo parlarne apertamente», afferma De Giuseppe.

Il paradosso yemenita è simile a quello congolese: una tragedia umanitaria di proporzioni enormi, che si consuma nell’indifferenza globale. «Abbiamo assistito a bombardamenti su civili, fame diffusa, epidemie, bambini che muoiono per mancanza di cure basilari. Eppure, la copertura mediatica è minima, sporadica, mai approfondita». Secondo De Giuseppe, la colpa è anche di un sistema informativo che privilegia la rapidità alla complessità. «Viviamo in una società che consuma notizie come prodotti usa e getta. Le guerre che

non si prestano a narrazioni semplificate o immagini forti tendono a essere escluse». Ma il silenzio mediatico ha conseguenze dirette anche sul piano politico. «Se un conflitto non esiste nell’opinione pubblica, non esiste neppure nell’agenda dei governi democratici. L’assenza di pressione da parte dei cittadini permette ai governi di non intervenire, o peggio, di continuare a vendere armi ai Paesi coinvolti». E qui si inserisce un altro nodo: il ruolo dell’industria bellica. «L’Italia, ad esempio, ha avuto rapporti commerciali con Paesi coinvolti in conflitti come quello yemenita. È difficile fare pressione quando c’è un interesse economico in gioco».

Ciò che colpisce nelle parole di De Giuseppe è la consapevolezza che queste guerre non sono lontane solo geograficamente. Lo sono anche culturalmente. «Le guerre in Africa o in Medio Oriente vengono spesso rappresentate come cicliche, tribali, inevitabili. Una visione profondamente colonialista, che le relega a un eterno presente di violenza, rendendole meno urgenti, meno reali». In questo senso, il silenzio non è solo omissione: è anche una costruzione culturale, un filtro ideologico che decide chi ha diritto a essere ascoltato e chi no.

Alla domanda su cosa si possa fare, De Giuseppe risponde con un invito alla responsabilità. «Il ruolo dell’informazione è centrale, ma serve anche una cittadinanza più attenta e consapevole. Bisogna educare all’ascolto, alla complessità, all’empatia verso le sofferenze degli altri, anche quando non ci toccano direttamente». È un compito difficile, ma non impossibile. «Le giovani generazioni, se ben formate, possono rompere questo silenzio. Possono usare i social media in modo intelligente, informarsi, fare pressione. La conoscenza è il primo passo per la giustizia». In un mondo in cui la guerra sembra tornare ovunque, non possiamo permetterci di ignorare chi vive in guerra da sempre. Il Congo e lo Yemen non sono periferie del pianeta, ma specchi delle nostre contraddizioni. Se continuiamo a non parlarne, non solo tradiamo le vittime, ma perdiamo anche una parte della nostra umanità.

1. Soldati nel Congo belga, 1933
2. Rompendo il silenzio della complicità inglese sui crimini di guerra dell'Arabia Saudita in Yemen, 2018

E in Polonia il corpo diventa campo di battaglia

«Molte donne sono costrette a viaggiare all’estero per accedere alle cure, con costi elevati e difficoltà logistiche», racconta Miko Czerwinski di Amnesty International. Qui la legge sul diritto all’aborto è una delle più restrittive nell’Unione europea

«La rivoluzione è donna! Libertà, uguaglianza, aborto su richiesta!». Questo è il grido di più di 500mila persone scese in strada nell’ottobre del 2020 a Varsavia. A 5 anni da allora, le donne polacche continuano a lottare. E le loro vite raccontano che potere e politica incidono sul corpo, un campo di battaglia. La storia del diritto all’aborto è un groviglio difficile da districare in una Nazione che ha conquistato la democrazia negli anni Novanta.

Nella Polonia filostalinista il diritto all’aborto è riconosciuto dal 1956 ma viene limitato nel 1993, quando il Paese scrive un nuovo capitolo dopo il crollo dell’Unione Sovietica (Urss). «Non è un paradosso se compreso nel contesto storico. Molti regimi socialisti dell’Europa centrale e orientale, inclusa la Polonia, lo legalizzarono prima delle democrazie occidentali. Ciò è radicato nella visione socialista secondo cui uomini e donne erano cittadini uguali, e lo Stato aveva la responsabilità di ridurre le disuguaglianze di genere, comprese quelle derivanti dai ruoli riproduttivi», spiega Dominika Tronina, esperta di sistemi politici dell’Europa dell’est. A detta della studiosa, la legge introdotta nel 1993 - definita come il “compromesso sull’aborto” - rifletteva un terreno politico intermedio tra posizioni opposte: non fu un consenso, ma un accordo politico volto a evitare sia un divieto totale che una piena liberalizzazione.

Dall’ottobre 2020 la situazione è peggiorata con un pronunciamento del Tribunale costituzionale, entrato in vigore nel gennaio 2021, che ha eliminato la malformazione del feto come motivazione legale per l’aborto. In Polonia la gravidanza può esser interrotta solo quando è il risultato di un crimine, come lo stupro e l’incesto, o quando rappresenta un pericolo per la salute o la vita della donna.

«Le donne sono costrette a portare avanti gravidanze contro la propria volontà o a cercare l’aborto fuori dal sistema, a volte rischiando la salute o la vita. Anche nei casi in cui l’aborto dovrebbe essere consentito, i medici talvolta si rifiutano di eseguirlo per timore di conseguenze legali o per convinzioni personali. Molte donne sono costrette a viaggiare all’estero per accedere alle cure, con costi elevati e difficoltà logistiche», racconta Miko Czerwinski, Responsabile della sezione campagne presso Amnesty International Poland.

La speranza che le cose potessero cambiare è emersa nel dicembre 2023 quando Donald Tusk è stato eletto primo ministro, rimpiazzando Mateusz Morawiecki. Sotto i governi del partito sovranista Diritto e Giustizia (Pis), giovani donne sono morte di setticemia perché i medici avevano timore di intervenire. Oggi il clima è migliore, ma la fiducia femminile verso Tusk è più flebile. Il passaggio da un governo di estrema destra, ostile all’aborto, a uno liberale ha deluso le aspettative e la legge in materia rimane una delle più restrittive dell’Unione europea. La polarizzazione della società civile si è accompagnata alla mobilitazione di giovani e donne, coloro che in massa hanno votato per Tusk due anni fa. Vari sono i motivi del mancato cambio di passo, dalla difficile coabitazione del premier con l’ex presidente della Repubblica Andrzej Duda, esponente del Pis, all’eterogeneità dei partiti al governo.

«Sebbene il governo sia spesso descritto come liberale, ciò è solo in parte vero. La coalizione è composta da tre alleanze politiche, ciascuna con una propria posizione: la Coalizione Civica, guidata da Tusk, ha fatto campagna per permettere l’aborto legale fino alla dodicesima settimana di gravidanza. Anche la Sinistra sostiene con forza la liberalizzazione, mentre la Terza Via, composta da Polska 2050 e dal Partito Popolare Polacco, ha assunto una posizione più cauta o persino conservatrice», afferma Tronina.

La vittoria alle elezioni presidenziali di Karol Nawrocki, appoggiato dall’estrema destra, contro il candidato liberale ed europeista Rafal Trzaskowski è un duro colpo per il movimento pro-aborto. Dopo Duda, Tusk dovrà fare i conti con un altro capo dello Stato che bloccherà la sua agenda di riforme e la restaurazione dello Stato di diritto.

«Disaccordi politici e la mancanza di una solida maggioranza parlamentare hanno impedito cambiamenti legali significativi. Sono state presentate proposte per depenalizzare l’aborto o ripristinare un accesso legale più ampio, ma non sono ancora state approvate», è il commento di Czerwinski. Amnesty International Poland lavora con organizzazioni come Aborcyjny Dream Team e Federa, che ricevono un numero elevato di richieste quotidiane su come ottenere pillole abortive in sicurezza, come viaggiare all’estero per ricevere cure e quali conseguenze si possono affrontare. «Molte donne sono spaventate e cercano sostegno. Chi aiuta ad accedere all’aborto, come [l’attivista, n.d.r.] Justyna Wydrzyńska, subisce molestie e problemi legali», continua Czerwinski.

Il caso di Izabela, una donna di 30 anni morta per una sepsi nel settembre 2021, è diventato simbolo del costo umano delle restrizioni. «Il suo ultimo messaggio “Non possono fare nulla finché il feto è vivo” ha scioccato il Paese e alimentato le proteste», prosegue Czerwinski. «Alla ventiduesima settimana di gravidanza, fu ricoverata in ospedale dopo aver perso il liquido amniotico. I medici stabilirono che il feto non aveva possibilità di sopravvivenza, ma si rifiutarono di procedere con un aborto finché il battito cardiaco non cessò. Quando alla fine fu effettuato un taglio cesareo, era troppo tardi. Il suo caso evidenzia che sotto l’attuale normativa i dottori sono incerti su dove finiscano i diritti del feto e dove inizino quelli della donna», aggiunge Tronina.

Resta l’opposizione di figure come Karina Bosak, membro del Sejm - la Camera dei deputati polaccae analista legale per Ordo Iuris, think thank cattolico ultraconservatore. Anche se esistono voci diverse, il peso della religione incide nella vita pubblica, soprattutto nel post-Urss: «Dopo la caduta del socialismo nel 1989, la Polonia ha intrapreso una transizione democratica durante la quale la Chiesa cattolica è diventata una forza morale e politica molto influente e ha sostenuto con forza il divieto dell’aborto come parte del ritorno ai valori “tradizionali”», conclude la professoressa.

«Le donne sono costrette a portare avanti gravidanze contro la propria volontà o a cercare l'aborto fuori dal sistema, a volte rischiando la vita»

Tempo d’attesa maternità e collettività nel film di Claudia Brignone

Una volta al mese un gruppo di donne incinte si incontrano al bosco di Capodimonte a Napoli per condividere le proprie esperienze in gravidanza

Teresa si ripara dal caldo sotto una grande magnolia. È al Bosco di Capodimonte, a Napoli. È estate, e fatica a trovare un posto all’ombra.

Teresa è un’ostetrica, ha compiuto settant’anni da poco. Tiene i capelli bianchi spesso avvolti in una treccia ed è sorridente quando si mostra in compagnia. Attorno a lei, disposte in cerchio, una decina di donne. Tutte aspettano un figlio.

È questa una delle scene di Tempo d’attesa, il documentario di Claudia Brignone presentato in concorso al Torino Film Festival 2023 e preselezionato ai David di Donatello 2025, anche se non è arrivato nella cinquina finale.

L’opera racconta un’esperienza intima e rivoluzionaria di maternità condivisa. Il film nasce da un’urgenza personale. Quando Brignone scopre di essere incinta, è sopraffatta dall’ansia: «Non tanto per il dopo, per l’accudimento, ma proprio per il momento del parto», racconta. Inizia così un percorso di ricerca e condivisione che la porta, grazie a una cugina, a incontrare Teresa De Pasca-

le, ostetrica napoletana che da anni accompagna le donne nei parti in casa e che ha fondato l’associazione Terra Prena.

Ogni settimana, Teresa guida cerchi di ascolto per donne in gravidanza nel verde del Bosco di Capodimonte. Non si tratta di semplici incontri, ma di spazi di confronto e fiducia, in cui le future madri possono esprimere dubbi, paure, desideri, senza timore di essere giudicate. Si parla di parto, certo, ma anche di allattamento, scelte terapeutiche, svezzamento, educazione.

«Sono continue le decisioni che bisogna prendere con i bambini piccoli – dice una delle partecipanti nel film – e avere un collettivo ti aiuta a prenderle insieme».

Teresa emerge come figura centrale: non solo ostetrica, ma guida e punto di riferimento. Il suo approccio si fonda su due pilastri: il rispetto profondo per le scelte individuali e l’importanza del sostegno reciproco. «La rete, lo stare insieme, il sentirsi libere – racconta Brignone – è fondamentale»

Teresa non dà solo consigli pratici su parto e accudimento, ma crea una rete tra donne che consente la condivisione delle paure, anche quelle più indicibili. Per quell’ora le neo-madri sono libere di dire tutto quello che vogliono, di confidarsi senza temere il giudizio di chi è seduto accanto a loro.

Da quando Brignone ha partecipato al cerchio, è rimasta in contatto con le altre madri: «Abbiamo un gruppo WhatsApp e, se abbiamo delle difficoltà, le condividiamo tantissimo, è importante. Poi, la rete, il confronto, il sentirti libera, non giudicata dal fatto che tu possa scegliere una cosa piuttosto che un’altra... Ce ne sono continuamente di decisioni così coi bambini piccoli».

Con alcune delle madri sono diventate amiche e continuano a frequentare Teresa. «Oggi – si riferisce al tempo dell’intervista – stiamo andando a casa sua per festeggiarne il compleanno. Abbiamo fatto una torta e passeremo la giornata insieme».

La paura cambia le abitudini delle donne

Sette su dieci hanno paura a tornare a casa da sole la sera. Il primo rapporto Univ-Censis racconta la vita quotidiana di quelle che ogni giorno si sentono insicure

«Le strade quando sei da sola sono diverse». A dirlo è Nicoletta, una ragazza di 27 anni, mentre descrive una sensazione che molte donne conoscono fin troppo bene. «Sono le stesse vie, strade, che fai tutti i giorni, eppure quando sei sola inizi a provare paura», ti guardi intorno, acceleri il passo, tutti gesti che nel tempo diventano abitudini.

È il primo rapporto Univ-Censis, chiamato “La sicurezza fuori casa” a fotografare la realtà che le donne vivono tutti i giorni. Il 67,3% di loro ha paura di rientrare a casa la sera da sola, mentre l’81,8% percepisce un aumento della pericolosità nello spazio pubblico. Nel solo 2024 sono state denunciate più di 6 mila violenze sessuali, in aumento del 34,9% rispetto al 2019.

«Io abito in una zona centrale di Roma, ma la sera quando parcheggio, prima di scendere dalla macchina mi guardo sempre intorno. Non c’è mai nessuno per strada e questo mi agita parecchio», dice Sara non soltanto per raccontare come la paura modifichi la routine ma anche per spiegare con quanta frequenza il timore della violenza sia reale: «Avevo 17 anni, stavo tornando da scuola, c’era un uomo che continuava a seguirmi. Quando sono arrivata al portone di casa, mi ha messo le mani addosso. È scappato solo perché un vicino lo ha visto e ha urlato. Era pieno giorno».

I numeri parlano chiaro. Il 25,6% delle donne ha subìto almeno una molestia nella vita, il 23,1% uno scippo, il 29,5% è stata seguita. Non tutte denunciano. Ma quasi tutte cambiano qualcosa: orari, percorsi, routine. Valeria ricorda la notte degli europei di calcio 2024 a Berlino: «Un gruppo di ragazzi ha iniziato a seguirci. Abbiamo cambiato strada e siamo tornate in hotel. Dopo un po’ abbiamo visto che erano fermi ancora lì».Il 38,1% degli italiani ha rinunciato almeno una volta a uscire per timore di essere aggredito, percentuale che sale al 52,1% tra i giovani. C’è chi compra lo spray al peperoncino, chi invece come Caterina prova a non farsi troppo condizionare: «Se so che sarò da sola a rientrare cerco di organizzarmi di conseguenza, prendo un taxi, propongo un posto vicino casa, faccio in modo di non trovarmi in situazioni di pericolo».

A queste realtà si intrecciano le tante storie di fidanzati, amici e colleghi, che avvertono le difficoltà dell’altra parte e agiscono di conseguenza. «Accompagno spesso le mie amiche – dice Alessandro – perché

52,1%

di Federica Carlino
Paura
La fascia d'età che si sente più al rischio è quella più giovane

81,8%

Percezione La percentuale delle donne intervistate per cui camminare per strada è diventato sempre più pericoloso

se sono più tranquille loro, mi sento meglio. Una volta, tornando da un sottopassaggio buio, mi sono spaventato anch’io. Al ritorno da solo ho fatto il giro largo, ci ho messo più tempo, ma mi sentivo più sicuro». Non è solo questione di pericoli reali, ma anche di indifferenza. «Una volta una donna si è sentita male in mezzo alla strada – racconta –. Mi sono fermato io e un altro ragazzo. Gli altri? Passavano e basta. Come se non fosse affar loro».

Alessandro racconta ancora: «La strada di casa mia è buia e lunga. L’ho sempre percorsa a piedi. Ma da quando mia sorella più piccola ha iniziato a uscire mi sono reso conto che per lei non è lo stesso. Quello che per me era normale, per una ragazza può non esserlo».

A Roma nel 2024 sono stati denunciati 271.033 reati. Le rapine sono aumentate del 51,3%, i borseggi del 68%, i numeri aiutano a capire la portata di un fenomeno, ma non bastano: servono gesti concreti, che sappiano rispondere alle esigenze di tutti, soprattutto di chi si sente più fragile.

«Le donne hanno più paura degli uomini, e hanno ragione. Le violenze sessuali sono in aumento del 34,9% negli ultimi cinque anni. Il 25,6% delle donne intervistate dichiara di aver subito almeno una molestia sessuale»

Con gli occhi di chi vive l'albinismo

Dall’Italia all’Africa, la testimonianza di Marianna e il lavoro di Albinit su stereotipi, barriere architettoniche e superstizioni

In Italia una persona su 17.000 nasce con l’albinismo, ma la statistica non racconta tutto: non dice della fatica di leggere un cartello alla fermata dell’autobus, dell’impossibilità di abbronzarsi senza rischi, delle discriminazioni sociali, delle barriere visive che ostacolano anche le azioni più semplici. Non è solo “avere la pelle bianca”, ma è una malattia genetica rara ed ereditaria, caratterizzata dalla carenza di melanina, il pigmento che colora la cute, i capelli e gli occhi. Eppure, nell’immaginario collettivo, resta spesso confinata all’aspetto fisico.

A cambiare la narrazione ci provano associazioni no profit come Albinit, che dal 2008 promuove consapevolezza, supporto e inclusione per le persone con albinismo e le loro famiglie. Tra le voci che animano oggi il direttivo c’è quella di Marianna, 30 anni, architetta, attivista e curatrice di contenuti social. «Conosco Albinit dal 2012, l’ho scoperta per caso cercando informazioni su internet», racconta. «All’epoca sentivo il bisogno di confrontarmi con qualcuno che stesse vivendo la mia stessa esperienza. Ho una sorella più grande, anche lei albina, ed è stato prezioso crescere insieme e parlarne con lei. Ma desideravo incontrare anche qualcuno fuori dalla mia famiglia ed entrare in contatto con la comunità dell’associazione è stato diverso. È come aver trovato altri fratelli, con cui ho avuto una connessione inaspettata, ma fortissima».

Col tempo, Marianna ha imparato a raccontarsi con chiarezza e forza, maturata passo dopo passo: «Sono cresciuta in un contesto di periferia, nella provincia di Napoli, dove la mentalità non era molto aperta. Quando andavo al liceo mi è capitato che mi prendessero in giro per il mio aspetto, sul fatto che avessi i capelli bianchi e che non potessi abbronzarmi, ma quello che mi colpiva di più erano le battute sgradevoli sui problemi legati alla vista. Le persone albine, infatti, hanno problemi di ipovisione e fotofobia».

Gli ostacoli quotidiani non nascono solo da una mancanza di empatia, ma soprattutto da una scarsa conoscenza della condizione. «C’è ancora un po’ di resistenza. La vera barriera oggi è sociale e riguarda tutto ciò che impedisce a una persona con disabilità sensoriale di muoversi e vivere normalmente» spiega lei.

Per affrontare queste problematiche, Albinit organizza eventi e conferenze che invitano a guardare oltre

gli stereotipi, raccontando storie esemplari come quella dello psichiatra Ettore Guaia, oggi direttore medico di salute mentale giovanile in Australia. Durante la sua infanzia ad Agrigento, ogni anno doveva attraversare l’Italia con la sua famiglia solo per poter ottenere un paio di occhiali su misura a Milano, allora unico posto dove trovare un ottico specializzato.

Ma in alcune aree del mondo la realtà è ben più dura. Dal 2014, le Nazioni Unite hanno istituito il 13 giugno la Giornata Internazionale dell’Albinismo, per accendere i riflettori su una situazione drammatica che riguarda soprattutto l’Africa. In alcuni Paesi subsahariani, l’incidenza della malattia è altissima: in Tanzania si registra un caso ogni 1.400 individui, in alcune zone del Malawi e dello Zimbabwe addirittura uno su 1.000.

Qui l’albinismo non è solo stigma, ma pericolo concreto. A causa di credenze superstiziose, chi ne è affetto è bersaglio di violenze, persecuzioni e, in casi più estremi, omicidi: si ritiene che abbiano poteri magici o che i loro organi portino fortuna. Una pratica atroce, denunciata da organizzazioni come Amnesty International, che ancora oggi resiste in alcune regioni.

Anche in questi contesti, Albinit cerca di intervenire con progetti di cooperazione. Tra i più importanti “Uno sguardo oltre il colore” offre assistenza sanitaria alle comunità in Senegal. Qui, un abitante su 2.000 è albino, e l’aspettativa di vita non supera i 40 anni, soprattutto a causa dei tumori della pelle non trattati.

Fantasmi a metà, la morte «inutile» di Satnam Singh

Jean-René Bilongo e Yvan Sagnet raccontano le condizioni di vita dei lavoratori agricoli in Italia. Il 60% delle cooperative non è in regola

Un contratto può segnare la differenza tra il diritto ad avere un’occupazione e quello alla vita. Ma non per Satnam Singh: lui quel pezzo di carta non ce l’aveva. Dopo un incidente sul lavoro, il capo lo ha abbandonato con il braccio destro mozzato dentro una cassetta per raccogliere la frutta.

Il 17 giugno 2024 il bracciante indiano era stato portato d’urgenza all’ospedale San Camillo di Roma. Un macchinario agricolo avvolgi plastica gli aveva tranciato l’arto e fratturato entrambe le gambe mentre era al lavoro, senza alcun contratto, nell’azienda Lovato, nelle campagne in provincia di Latina. Trentasei ore dopo ha smesso di respirare.

Il titolare della cooperativa, senza chiamare il 118, lo ha trasportato sul furgone e lo ha lasciato davanti la sua abitazione davanti la casa dove abitavano Singh e

la moglie. Ma dopo dodici mesi dalla morte del bracciante, cos’è cambiato? «Nulla. Oltre le promesse e gli impegni pubblicamente assunti, la verità è che non è stato fatto niente» scandisce Jean-René Bilongo, coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto, che cura il Rapporto agromafie e caporalato e ricopre il ruolo di responsabile Politiche migratorie della Federazione lavoratori agro industria (Flai-Cgil Nazionale).

Il settimo rapporto dell’Osservatorio dimostra che nei primi cinquanta giorni dalla morte di Singh, il governo, attraverso l’ispettorato del lavoro, ha condotto una serie di verifiche nelle aziende agricole e ha scoperto che ci sono state quattromila assunzioni. Non si tratta però di posti di lavoro in più, infatti, Bilongo osserva che «le persone lavoravano già in quei posti, ma lo facevano in nero. Per paura di futuri controlli e di possibili cause, le aziende hanno subito assunto». Inoltre, la relazione dice che circa il 60 per cento delle cooperative non è in regola e «questo è un dato che nessuno può contestare perché l’ha appurato il governo stesso».

Anche Jean Pierre Yvan Sagnet, scrittore, attivista camerunense e fondatore della rete No Cap, dice che dopo un anno la situazione «è peggiorata: le modalità di sfruttamento vanno dalla perdita della vita umana al lavoro nero e a tutte quelle forme di irregolarità che le aziende usano per sfruttare i loro dipendenti». Sagnet è arrivato in Italia nel 2008 per studiare Ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico di Torino, ma tre anni dopo si è spostato al sud, in Salento, a Nardò, per lavorare come raccoglitore di pomodori in una masseria. Lì ha dato inizio allo sciopero contro le cattive condizioni di lavoro. Le sue proteste e la morte della bracciante italiana Paola Clemente nelle campagne pugliesi di Andria il 13 luglio 2015 hanno portato all’introduzione del reato contro il caporalato.

La legge 199/2016, come riportato sul sito della Camera dei deputati, introduce «significative modifiche al quadro normativo penale prevedendo specifiche misure di supporto dei lavoratori stagionali in agricoltura». Ed è una norma «straordinaria – dice il coordinatore di Placido Rizzotto - nessun paese europeo ha qualcosa di simile: dal punto di vista della repressione non c’è nulla da eccepire, però il problema che riguarda l’agricoltura è nella prevenzione». Su questo concorda anche Sagnet: «Prima c’era un vuoto giuridico e normativo che non consentiva di arrestare i caporali che si macchiavano di questo tipo di reati, ma sarebbe illusorio pensare che la legge abbia risolto il problema».

I braccianti sono ai margini della società dal punto di vista giuridico, però molto spesso contribuiscono alla sua economia complessiva, ed è per questo che sono dei fantasmi, ma a metà. L’immagine che Bilongo richiama alla mente è quella del Covid-19 perché in quel periodo «abbiamo riservato due applausi: uno ai medici e agli infermieri e l’altro ai lavoratori della terra con le lacrime dell’allora ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Dopo un minuto, ce ne siamo tutti dimenticati. Il paese rifiuta di ammettere che c'è una realtà viva che contribuisce al suo benessere, ma che non ha nessun diritto».

Politica

«Due pacchetti di sigarette» per abbandonare il passato

Gianfranco Fini dagli anni di piombo a Fiuggi, al rapporto con Berlusconi e Meloni che ha ridato «una casa comune alla destra»

La prima tessera nel ’69 a Bologna «per l’anticomunismo» e le immagini dei carri armati sovietici a Praga che «stroncavano il desiderio di libertà di un popolo». E perché nei cinema era uscito Berretti verdi, film filoamericano sulla guerra in Vietnam, con John Wayne protagonista, «un mito per me diciassettenne». Gli extraparlamentari di sinistra facevano i picchetti per impedire che le persone lo vedessero e «a me infastidiva che cercassero di imporre la loro opinione a tutti». Il trasferimento a Roma e la politica prima nella sezione del Fronte della Gioventù (Fdg) di Monte Verde Vecchio e poi quella di Sommacampagna. I primi ruoli come responsabile della formazione per insegnare spirito comunitario e militanza a destra, «anni bellissimi». Un mondo diverso dove «un ragazzo di destra frequentava una ragazza di destra, c’era un forte senso di quello che chiamavamo cameratismo». Poi il militare, la laurea e il praticantato al Secolo d’Italia, il quotidiano del Movimento Sociale Italiano (Msi): «Toccavo il cielo con un dito». Nel giugno ’77 Almirante, segretario del Msi, lo sceglie come capo dei giovani tra una rosa di nomi fatta dall’assemblea giovanile: «Girai l’Italia decine di volte. Erano gli anni di piombo».

Pochi mesi dopo che diventa segretario del Fronte, avviene la strage di Acca Larentia. Cosa è accaduto quella sera? Chi faceva politica come viveva gli anni di piombo?

Arriva la notizia che hanno ucciso Francesco Ciavatta e Franco Bigonzetti, due nostri militanti. Corriamo tutti lì. Il sangue era ancora per terra. Un cameraman, in buona fede, butta la sigaretta. Si spegne nel sangue di uno dei due ragazzi. La nostra reazione fu incendiaria. I carabinieri lanciarono lacrimogeni. Il loro capitano perse la testa, tirò fuori la pistola e sparò ad altezza uomo. Stefano Recchioni, che era di fianco a me, morì sul colpo. Io fui colpito da un candelotto al ginocchio. C’era paura ma tanta rabbia. Non erano i primi che venivano uccisi. Erano anni in cui giravano pistole, eroina, c’erano soggetti provocatori, servizi segreti deviati. Chi li deviava? Era uno stillicidio quotidiano. Si aprivano le indagini ma non si trovava mai il colpevole. Tra noi dicevamo “Lo Stato è il participio passato del verbo essere”. Ci sentivamo stranieri in patria. Lo slogan della sinistra extraparlamentare era “uccidere un fascista non è un reato”. Il clima era avvelenato.

Da poco hanno riaperto le indagini per due militanti del centro sociale Leoncavallo, Fausto e Iaio

È giusto trovare i colpevoli per tutti gli assassinati in quei tragici anni. Da Mancia a Verbano, uno di destra e uno di sinistra. Non c'è ancora una memoria condivisa ma dei momenti condivisi. Penso a Sandro Pertini, presidente della Repubblica e leader della Resistenza che va a trovare Paolo Di Nella, militante del Fdg, in coma perché sprangato da estremisti di sinistra.

Nell’84 Almirante va alla camera ardente di Berlinguer. Quale fu la reazione?

Da segretario giovanile, gestivo il servizio d’ordine interno. Se Almirante si muoveva, chiedevo se avesse bisogno, oltre la scorta della polizia, anche di qualche ragazzo. Muore Berlinguer e chiedo al capo segreteria se ci fosse bisogno. "No, sta a casa”. Ero nella sede di Via Quattro Fontane. Arriva il capo ufficio stampa e mi dice "Almirante è alle Botteghe Oscure da Berlinguer”. Era andato con la sua 112 insieme a Romualdi. I nostri giovani chiesero perché avesse reso omaggio “al capo dei comunisti”. Andai da lui. Mi ero preparato il discorsetto. Mi fermò subito: “Hai visto l’ultimo comizio di Berlinguer? Stava male ma ha voluto finirlo lo stesso. Si è sacrificato per il suo popolo”. Citò poi una frase del poeta Monti: “Oltre il rogo non vive ira nemica”. Lo dissi ai giovani che capirono.

Nell’87 diventa segretario del Msi. Una scelta che sorprese molti. Perché Almirante scelse lei? Qual erano i rapporti con l’ala rautiana?

Almirante, per salute, non se la sentiva più di guidare il partito. Ci aspettavamo un nome poco più giovane di lui. Rauti ci pensava ma le sue posizioni non facevano dire ad Almirante “Da domani sei il segretario”. L’Msi lo avevano fatto i reduci della Repubblica Sociale. Lo slogan del ’46 era Non rinnegare non restaurare Non rinnegavano la loro giovinezza ma accettavano la democrazia. Almirante in privato mi disse che bisogna-

di Alessandro Imperiali

va saltare quella generazione, la destra doveva guardare al futuro più che pensare al passato. I rapporti con i rautiani erano polemici ma Rauti non era un nostalgico. Il suo motto era “andare oltre”, teorizzava lo sfondare a sinistra. Affascinava. In direzione, però, non votavano mai i miei documenti. L’Msi riempiva le piazze ma non aveva potere. Solo 4 comuni con meno di cinquemila abitanti. Eppure, facevamo discussioni di ore su aggettivi per documenti che leggevamo solo noi. Una volta i partiti erano partiti.

Il 27 gennaio 1995 lei dice al congresso di Fiuggi: «Usciamo dalla casa del padre con la certezza di non fare più ritorno». Come ci si arriva e le chiedo se ha un ricordo particolare di quel giorno?

La dissi a braccio. C’erano donne e uomini che conoscevo da 20 anni che piangevano. Finiva una comunità totalizzante. Al tempo stesso c’era gioia per la sfida. Cercavo di capire i pensieri dagli sguardi. La destra diceva: "Abbiamo una cultura di governo, guardiamo avanti, non siamo nostalgici del passato ". Non tutti accettarono. Rauti mi accusò di essere il traditore dell'idea. Ma Alleanza Nazionale nasce nelle urne, prima di Fiuggi. Cade il muro di Berlino e inizia Tangentopoli. L’Msi aveva da sempre due bandiere: l'anticomunismo e la lotta alla partitocrazia. Diventiamo credibili. In più mi candido a Roma. Perdo ma il mio partito al ballottaggio prende il 47%. Altri con la tessera dell’Msi in tasca, vengono scelti dai loro concittadini come sindaci. Non c’è nessuno sdoganamento. Le merci vengono sdoganate, non le idee. Di quel giorno ricordo che ho fumato due pacchetti di sigarette e la pressione psicologica molto molto forte. C’era tutta la stampa internazionale. Il mondo ci guardava.

l'errore che non mi perdono. La natura di Berlusconi era del capo che decide. Per lui comandare e governare erano sinonimi. Nel partito unico si dice “Si fa così perché lo dico io”. Poi i nodi vengono al pettine. Esperienza finita con il famoso "Ma che fai, mi cacci?". Mi ha ascoltato e mi ha cacciato. Rino Formica, socialista, disse: “La politica è sangue e merda”. Berlusconi non accettava la mia contestazione pubblica così plateale. Fui dichiarato incompatibile. Lo seppi dalle agenzie. L’accanimento l’avevo messo in conto.

Meloni è stata la prima donna presidente del Consiglio. Se lo sarebbe mai aspettato?

Nel 2003 va in Israele. Repubblica titola: “Fini: il fascismo è stato il male assoluto”. Lo disse davvero?

No. Scrissi sul libro dello Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, che il fascismo fu complice dello sterminio, cioè del male assoluto. Non smentii, il concetto è equivalente. Andai in Israele dopo lunghi colloqui privati con il rabbino Toaff. La comunità ebraica disse al rabbino capo di Israele: “È sincero, la svolta è autentica”.

Dalla svolta al governo con Berlusconi. Momento migliore e peggiore?

Migliore quando mantenevamo le promesse. Il peggiore quando perdevamo. All'opposizione si doveva, a volte, deporre la spada e usare il fioretto. Noi evitavamo di evocare i comunisti. Berlusconi no, in questo era maestro. Così però li autorizzava a chiamarci “fascisti”.

La nascita del Pdl fu un errore? Non pensa ci fu un accanimento nei suoi confronti?

Dissi a Berlusconi: “Ma che siamo alle comiche finali?”. Poi accettai il Pdl. Lo scioglimento di AN è

Ha fatto un miracolo. Quando fondò, con Ignazio La Russa e Guido Crosetto, Fratelli d'Italia pensai: "Ma dove vanno?”. Invece è stata bravissima. Rifiutò di appoggiare il governo Draghi e il canto delle sirene: “È un governo di unità nazionale". Ha fatto un’opposizione tenace ma consapevole. Il passaggio delle consegne tra Draghi e Meloni è british. Ha il merito di aver ridato una casa comune alla destra.

La scelse lei come vicepresidente della Camera dei deputati?

Era capo dei giovani. Viene eletta alla Camera perché era stata messa in una posizione in lista favorevole. Perdiamo le elezioni ma indichiamo un vicepresidente. I colonnelli si fecero tutti avanti. Io scelsi lei. Era una scelta di rottura. Quando lo comunicai, il mio capo della segreteria disse: "A Gianfrà, so usciti tramortiti”. A me dicevano: "Bell'idea”. Fuori la stanza invece: "Ci ha fregato pure stavolta".

Che ne pensa del dibattito fascismo-antifascimo?

Strumentale. La sinistra ogni volta che perde le elezioni, per fortuna capita spesso, lancia l'allarme democratico. Dopo Fiuggi, continuare a sostenere che la destra sia filofascista o neofascista, è una colossale menzogna.

Il reddito che uccide il vitello grasso

Dalla Germania al Sudafrica, passando per la Silicon Valley: perché il reddito di base non è pigrizia finanziata, ma fiducia nel potenziale umano

Dopo la pandemia, qualcosa si è rotto nel nostro rapporto con il lavoro. Milioni di persone in tutto il mondo hanno lasciato il proprio impiego. Il fenomeno è noto come "le grandi dimissioni” e ha coinvolto soprattutto i settori sottoposti a un logoramento continuo, come sanità, ristorazione e istruzione. Non solo una reazione al burnout, ma un rifiuto storico: il lavoro, così com'è oggi, non vale più la pena.

Questa disaffezione non è un fulmine a ciel sereno. L'antropologo David Graeber l'aveva vista arrivare anni prima, nel 2013, con la sua teoria dei "bullshit jobs", i lavori inutili. Secondo lo studioso, una quota crescente del lavoro contemporaneo non serve a nulla. Ruoli creati solo per giustificare stipendi e gerarchie, per dare l'impressione che tutto funzioni. Lavori di cui persino chi li svolge fatica a vedere l'utilità. Secondo un sondaggio YouGov citato da Graeber, il 37% degli intervistati in Europa occidentale dichiarava che il proprio lavoro non contribuiva in alcun modo al mondo. Non disoccupati, ma impiegati, manager, consulenti: persone pagate per riempire fogli Excel o seguire processi senza scopo.

Questo senso di inutilità ha un impatto devastante sulla salute mentale. È difficile passare la vita facendo qualcosa che non ha valore né per sé né per gli altri. E allora si fa strada una domanda radicale: se milioni di persone lavorano solo per ricevere un reddito, e se questo lavoro è inutile o dannoso, non sarebbe più onesto, più efficace, dare quel reddito a tutti e lasciare che ciascuno scelga come vivere?

Non è un’idea nuova, è stata discussa già da Thomas Paine nel Settecento, da John Stuart Mill nell'Ottocento, da Hayek nel Novecento. È il reddito universale di base (Universal Basic Income, UBI): un trasferimento monetario periodico e incondizionato a tutti i cittadini. Oggi è sostenuto non solo da filosofi ed economisti di scuola marxista come Philippe Van Parijs, ma anche da uomini-simbolo del capitalismo moderno. Elon Musk ha dichiarato: «L’UBI sarà necessario. Il problema più grande non sarà economico, ma psicologico: trovare significato in un mondo in cui il lavoro non è più necessario». Zuckerberg lo vede come una rete di sicurezza. Sam Altman lo finanzia attivamente. L'intelligenza artificiale, dicono, renderà superflui milioni di lavori: il minimo che si possa fare è redistribuire il valore prodotto. L'UBI immaginato dai guru della Silicon Valley è un modo per disinnescare le tensioni sociali senza cambiare nulla nel sistema produttivo.

Ma non è l’unica interpretazione. Il reddito incondizionato è promosso da pensatori progressisti, economisti libertari, imprenditori digitali, ambientalisti e attivisti sociali. Per alcuni è un antidoto alla disoccupazione tecnologica, per altri uno strumento di emancipazione personale. Per Philippe Van Parijs, è il fondamento della “libertà reale”: la possibilità concreta per ciascuno di scegliere la propria vita, non solo in teoria. Alcune autrici femministe lo ritengono uno strumento di uscita da ruoli familistici stereotipati. Il reddito di base, insomma, gode di una trasversalità ideologica ben riassunta dal motto coniato da Andrew Yang, candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 2020: “Né di sinistra, né di destra, avanti”. E insieme alle teorie, fioccano le sperimentazioni sul campo. In Germania, il progetto "Mein Grundeinkommen" ha dato 1.200 euro al mese a 122 persone per tre anni. Nessuno ha smesso di lavorare. Molti hanno cambiato lavoro, si sono formati, hanno migliorato la propria salute mentale. Più della metà ha intrapreso nuovi progetti professionali o educativi, grazie alla sicurezza di base.

A Denver, il programma Denver Basic Income Project ha fornito fino a 12mila dollari all'anno a persone senzatetto. Dopo un anno, il 45% dei partecipanti ha trovato una sistemazione abitativa stabile. Sono emersi miglioramenti anche nella salute mentale, nella stabilità economica e nel reinserimento lavorativo. In Sudafrica, è stato dimostrato che anche 38 dollari al mese, distribuiti in modo universale, possono ridurre la povertà in modo più efficace rispetto a sussidi mirati, anche se più generosi. Simili risultati si sono riscontrati in Namibia, India, Kenya, Brasile, Irlanda, Finlandia e Canada. Tra i benefici più ricorrenti: riduzione della povertà infantile, miglioramento dell’alimentazione, maggiore autonomia femminile, crescita dell’economia locale e benessere psicologico.

L’UBI sembra agire come un moltiplicatore sociale: libera tempo, riduce l’ansia, favorisce la partecipazione civica, la formazione, l’imprenditorialità. Ridà dignità anche ai lavori di cura, storicamente invisibili. E il rischio inflazione? Non è così automatico come si teme. Se è finanziato con le tasse — su patrimoni, profitti, automazione — non aumenta la quantità di denaro in circolo, lo redistribuisce. Ma non mancano i rischi. Se mal progettato, il reddito universale può drenare risorse da altri servizi pubblici e diventare un modo per privatizzare il welfare: ti do soldi, ma poi ti curi da solo. Potrebbe essere un cavallo di Troia per smantellare diritti, se non accompagnato da investimenti in sanità, scuola, trasporti.

Infine, c'è un aspetto culturale. L'UBI rovescia la logica meritocratica: non devi dimostrare di essere povero, produttivo o "meritevole" per avere diritto a una vita dignitosa. Non c'è giudizio, non c'è paternalismo. C'è solo una premessa: la fiducia. Il diritto all'esistenza non si merita, si riconosce. Come nella parabola del figliol prodigo, che torna e trova non il rimprovero, ma l'abbraccio del padre e il vitello grasso. Il sogno del reddito di base è tutto qui: una società che non ha bisogno di controllare, punire, misurare. Ma che sceglie di investire nell’ingegno finalmente libero di chi non deve più preoccuparsi di come mettere il pane in tavola. E ci trova anche il vitello.

L'assurda agonia di Roberta Repetto

Assolti medico e guru del Centro Anidra: per i giudici Roberta Repetto è l’unica responsabile della sua morte, ma la sorella denuncia la mancanza di una legge sulla manipolazione mentale

di Asia Buconi 1

Assolto con formula piena perché «il fatto non sussiste». Dopo un travagliato iter giudiziario, con una pena di grado in grado sempre più lieve, alla fine la corte d'Assise d'Appello di Milano ha sentenziato che il medico bresciano Paolo Oneda non ha colpe per la morte di Roberta Repetto, scomparsa il 9 ottobre 2020 ad appena quarant'anni dopo essere finita nella spirale settaria del "Centro Anidra", un agriturismo immerso nel verde a una manciata di chilometri da Genova.

Proprio lì, tra gli alberi e il cielo azzurro, riportano le testimonianze, avvenivano rapporti sessuali e prove di resistenza fisica, tappe obbligate di un presunto “percorso spirituale”. Ad accompagnare Roberta nella sua personale e inconsapevole discesa verso l'inferno, come un Caronte, c'era il “guru” Paolo Bendinelli, fondatore di quella realtà, santone, anche lui assolto. La donna, che negli anni ha donato al centro molti dei suoi risparmi, si era rivolta a Bendinelli e Oneda anche per togliere un grosso e fastidioso neo che le era comparso sulla schiena.

Una scelta fatale. Perché i due, di fronte alla richiesta di aiuto, avevano deciso di rimuoverlo senza anestesia, su un tavolo da cucina del centro olistico. E Roberta si era fidata. Dopo la rudimentale operazione, stando

a quanto ricostruito dai carabinieri, avevano prescritto alla donna “tisane zuccherate e meditazione”. Per la quarantenne erano cominciati così dolori lancinanti che, secondo il guru, avrebbero dimostrato «il successo dell’operazione chirurgica».

Due anni dopo Roberta è morta all’ospedale San Martino di Genova dove era arrivata per un tumore della pelle in metastasi. La sorella Rita da quel giorno non si dà pace. E oggi ancora di più, perché la legge sentenzia che l'unica responsabile della morte di Roberta è Roberta stessa. E il senso di ingiustizia e di impunità è più grande che mai.

Rita, perché si è arrivati a sentenze del genere?

I giudici hanno preso in considerazione ciò che la difesa ha sostenuto in questi anni, ovvero che tutto sia stata una scelta e una responsabilità di mia sorella. Secondo la loro versione, il medico, Oneda, passato di lì per caso, l'ha aiutata perché aveva male a questo neo. Nelle motivazioni c'è un passaggio che mi preme riprendere, anche se dolorosissimo, che dice che "anche se messa di fronte a una diagnosi" Roberta "non si sarebbe curata". Questo, secondo me, è fuori da ogni commento, cosa ne sanno i giudici

di come avrebbe reagito mia sorella di fronte a una diagnosi certa? Insomma, hanno assolto il medico riconoscendo che ha fatto quell'operazione e sostenendo che mia sorella già avesse le sue idee di medicina alternativa che lui non avrebbe mai potuto cambiare. E per me tutto questo è di una disumanità allucinante.

Quanti soldi ha donato sua sorella al Centro Anidra?

Si tratta di 120mila euro stando alle indagini della Guardia di Finanza. Il prossimo 4 luglio prenderà il via un nuovo processo, il pubblico ministero ha chiesto 1 anno e 6 mesi di reclusione per Maria Teresa Cuzzolin, ex legale rappresentante del Centro Anidra. Io spero che si possa arrivare in fondo, perché mia sorella - secondo la Procura e secondo le perizie dell'accusa - è stata portata a credere che investendo in quel progetto la sua vita sarebbe cambiata. Ma ho i miei dubbi che si possa ottenere qualche tipo di giustizia, anche in questo caso.

Perché?

Perché non essendoci una legge che tutela chi cade vittima di manipolazione mentale, credo che anche questo processo possa finire con un'assoluzione.

Lei dopo la morte di sua sorella ha fondato un'associazione, "la Pulce nell'orecchio", per aiutare chi cade nella rete settaria e le loro famiglie.

Sì, sensibilizzare è importantissimo, lo facciamo anche nelle scuole. Fino a poco tempo fa andavo solo negli istituti secondari di secondo grado, ultimamente sono stata anche dai ragazzi delle medie e delle elementari. Insinuare il dubbio è fondamentale già a quell'età, così come aiutarli a ragionare e a riconoscere un vero amico da qualcuno che non vuole davvero il tuo bene. Imparare quindi l'importanza di pensare con la propria testa. Chiunque di noi nella vita può avere un momento di fragilità e, se in quel momento incontriamo una personalità carismatica che ci fa stare meglio, ci affidiamo. Non perché siamo sciocchi, stupidi o sprovveduti, ma perché la voglia di tornare a stare bene prevale. Ed è importante imparare a conoscere le tecniche di adescamento, il love bombing. Ci sono molti campanelli d'allarme.

A livello politico ci si sta muovendo?

Sì, l'onorevole Stefania Ascari è un sostegno importantissimo, ci sta aiutando molto. Sta cercando di far partire un'indagine conoscitiva sul fenomeno settario, quindi siamo in attesa di istruzioni.

Si è sentita sostenuta dalle istituzioni nella sua battaglia?

Così così. Qualcuno mi ha sostenuto ma forse si poteva fare di più. Ho parlato con tante persone, molti Comuni hanno organizzato convegni che avevano come tema la manipolazione mentale. Questo è importante perché purtroppo c'è molta ignoranza culturale, che era anche la mia prima che accadesse tutto questo. Si pensa sempre che le sette siano composte da persone incappucciate, vestite di nero e che le vittime siano solo sciocche e sprovvedute. Non è così. Quindi parlarne più che si può è importante.

Qual è stato per lei il momento più difficile?

Quando ho sentito dai giudici le parole "il fatto non sussiste". Prima per uno, poi per l'altro. Sono veramente dei colpi al cuore. Spero che queste possano diventare delle sentenze pilota che aiutino a capire che qualcosa in tema di manipolazione mentale va fatto, perché gli imputati continuano a dirsi innocenti, la giustizia

conferma: mia sorella ha fatto tutto da sola. Però io, da sorella, non posso non dire che so benissimo che Roberta non voleva morire, lei voleva vivere. E ha cambiato il suo modo di vivere, di pensare e di percepire la malattia solo quando è entrata in quel posto e ha iniziato a frequentare determinate persone.

Questa convinzione non me la toglierà mai nessuno, come non l'ha tolta alla Procura di Genova e agli esperti del fenomeno che hanno letto tutti gli scritti e ascoltato le testimonianze. Mia sorella non voleva morire, voglio che questo sia chiaro.

«Chiunque di noi nella vita può avere un momento di fragilità e, se in quel momento incontriamo una personalità carismatica che ci fa stare meglio, ci affidiamo»
1. Rita Repetto, sorella di Roberta Repetto
2. Rita Rpetto e i soci de "La pulce nell'orecchio"
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Leoni, il volto progressista di Forza Italia

A 24 anni è il nuovo segretario dei giovani azzurri. Al congresso ha difeso i diritti civili, attirando le critiche di Vannacci e del padre. Incarna una linea più aperta, ma fedele ai valori liberali del partito

Simone Leoni, 24 anni, studente di scienze politiche alla Luiss e militante di Forza Italia dal 2015, è il nuovo segretario nazionale dei giovani azzurri. È stato eletto il 31 maggio, durante il congresso nazionale a Roma. Ha ricevuto uno degli applausi più lunghi tra chi è salito sul palco. Il suo discorso ha acceso il pubblico e fatto partire una polemica che ha coinvolto anche Roberto Vannacci, europarlamentare della Lega e autore del libro Il mondo al contrario. Ma la polemica non si è fermata lì. Leoni ha avuto uno scontro anche con suo padre, Silvio Leoni, che ha criticato apertamente il suo intervento, difendendo le idee di Vannacci. «Mio figlio si è fatto prendere la mano, ha parlato senza capire», ha detto il padre. Simone ha risposto con decisione: «Mio padre è libero di pensarla come vuole, ma io non cambio idea. Difendere i diritti non è una debolezza».

«Non me lo aspettavo», ha detto Leoni. «Certo, nel movimento c’è una sensibilità politica e sociale molto viva, vicina ai temi della salute mentale e, più in generale, ai diritti delle persone. Ma mi sembra di aver detto tutte cose che dovrebbero essere ovvie». Sul palco ha parlato chiaro, attaccando chi diffonde odio per convenienza. «Persone che, invece di guidare un’armata del bene, scelgono la codardia e la discordia. Solo per vendere un libro in più o racimolare un voto. Dicono che chi ha la pelle nera non è italiano, che chi è gay non è normale, che i bambini disabili vanno separati».

Parole forti, indirizzate senza mai nominare Vannacci, che ha replicato accusandolo di cercare visibilità: «Un giovincello sconosciuto che parla di me per finire in prima pagina». Leoni ha risposto rivendicando il senso del suo intervento: «Il mio era un discorso complessivo. Non stiamo parlando di singole rivendicazioni ma del rispetto per le persone. È una questione culturale. La centralità della persona è sempre stato un valore irrinunciabile per un partito liberale, popolare e moderato come Forza Italia. I politici devono fare attenzione a come si esprimono, perché dietro gli schermi ci sono persone vere».

Ha cominciato la militanza a 14 anni e lo racconta con naturalezza: «Ero al liceo. Una professoressa ci faceva leggere i giornali e ci consigliava di informarci. Così sono nati i primi dibattiti. Mi sono candidato come rappresentante di classe e poi d’istituto. A 18 anni ho preso la guida dei giovani a Roma, a 20 nel Lazio, a 22 il settore nazionale organizzazione e ora Segretario Nazionale. In poco tempo, Forza Italia è diventata una seconda famiglia». La sua crescita lo ha portato oggi alla guida nazionale del movimento giovanile, ma Leoni continua a presentarsi come parte di una squadra. «Non abbiamo bisogno di prendere in mano il partito. Con Tajani ci sentiamo già protagonisti. Lui, come Berlusconi prima, ha sempre creduto in noi e ci ha dato spazio. Non servono rivoluzioni. Siamo parte di una realtà che ci valorizza e ci responsabilizza».

Questa fiducia si fonda anche sul lavoro concreto, nei territori. «L’attività locale è la base. La federazione dei giovani esiste da decenni e siamo sempre stati tra la gente. La gavetta si fa nei gazebo, con i banchetti, nelle piazze. Non basta parlare di massimi sistemi. Se non si sta tra le persone non si fa davvero politica». L’impegno, però, non si limita alla struttura del partito. Leoni insiste sulla necessità di formare una nuova classe dirigente. «Il nostro non è un movimento giovanile orientato al carrierismo politico. Vogliamo formare culturalmente e idealmente i futuri medici, avvocati, imprenditori, funzionari pubblici. La politica è solo una parte della società. Il nostro obiettivo è che nei prossimi anni tante persone cresciute con noi e con i nostri valori contribuiscano al bene del Paese».

Tra i temi più a cuore c’è la salute mentale, su cui Leoni ha mostrato grande sensibilità: «Un nostro militante, mesi fa, si è tolto la vita. Il disagio di tanti ragazzi è sottovalutato o non capito. C’è chi soffia su una fragilità profonda, anche se spesso sommersa». Una ferita che vuole trasformare in proposta: sostiene la legge di Forza Italia per introdurre stabilmente lo psicologo nelle scuole. All’Eur, davanti a mille giovani, ha tracciato subito la linea.

«Il primo ordine da domani? Via le cravatte. Scarpe da ginnastica e ritorno nei mercati, nelle piazze, nella vita reale». Più contatto diretto, meno formalità. Più ascolto, meno parole vuote. Il suo stile ha colpito anche fuori dal congresso: il suo profilo Instagram ha guadagnato oltre 5.600 follower in pochi giorni, con un livello di coinvolgimento tra i più alti nel panorama giovanile politico.

Non mancano le critiche. Alcune sue posizioni, come l’apertura alla cittadinanza ai nuovi italiani dopo 10 anni di scuola dell’obbligo o la difesa dei diritti civili, sono viste con sospetto da parte della Lega. Leoni però non sembra preoccupato per i rapporti con gli alleati di governo. «A volte ci punzecchiamo, è normale tra movimenti giovanili. Ma le differenze rafforzano la coalizione. Se fossimo tutti uguali, saremmo un solo partito – e non sarebbe un bene. Il centrodestra vince quando valorizza le sue diversità. La sinistra litiga, noi troviamo una sintesi. E questo governo ne è la prova».

Anche nei talk show, dove ha iniziato a farsi spazio, Leoni affronta il confronto con determinazione. «Mi è capitato di essere trattato con condiscendenza da politici di sinistra. Ma non ne faccio un dramma. L’Italia non è un Paese per giovani. Bisogna farci il callo». Dietro il linguaggio diretto e la postura già da dirigente, c’è però ancora un ragazzo che sogna in grande. Ma senza troppe illusioni. «Spero solo di fare bene quello che sto facendo adesso. Non serve immaginarsi troppo avanti. Le cose, se arrivano, devono arrivare per merito».

Il suo è uno dei primi profili nel centrodestra giovanile a proporre una visione più aperta ai temi sociali, mantenendo al tempo stesso coerenza con i valori tradizionali del partito. Inclusione, attenzione ai diritti civili, centralità della persona, ma anche disciplina, radicamento territoriale e rispetto delle regole interne sono i punti su cui ha costruito il suo percorso.

A lezione da Putin, la narrativa filorussa sui manuali scolastici

Uno studio dell’Istituto Germani ha rilevato errori e narrazioni strategiche del Cremlino su 28 libri di testo di storia e geografia delle scuole medie. Un bias culturale che rischia di forgiare generazioni disinformate

Le prime segnalazioni avevano provocato più di qualche fastidio. Una generica “Regione russa” estesa a Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Paesi Baltici. Kyiv come “culla della cultura russa”, e poi Kharkiv collocata in Donbas, Odesa in Crimea, i nomi delle città ucraine scritti sulle cartine geografiche in grafia russa. Errori divenuti virali sul web, ma che sembravano ancora casi isolati. Quando però le rilevazioni sono aumentate in numero e gravità, la rabbia si è trasformata in preoccupazione, perché non si trattava più di inesattezze, ma di un ecosistema di disinformazione e propaganda filoCremlino nei libri di testo della scuola media italiana.

È ciò che emerge da uno studio di Iryna Kashchey, giornalista ucraina da anni con base a Roma, e Massimiliano Di Pasquale, direttore dell’Osservatorio Ucraina dell’Istituto Gino Germani. I due hanno analizzato ventotto manuali di storia e geografia delle maggiori case editrici negli ultimi quindici anni e riportato i risultati in un paper pubblicato lo scorso maggio. «Abbiamo individuato sette narrazioni di base ricorrenti, tutte tese ad esaltare la Russia e negare dignità agli Stati vicini», ci racconta Di Pasquale, esperto di disinformazione e guerra ibrida. Fra le più odiose, quella di presentare i Paesi come falliti, arretrati, nati quasi per caso dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Kyiv è descritta spesso come la prima capitale del “Regno russo”, nonostante all’epoca della Rus, confederazione di principati slavi orientali dalla composizione etnica eterogenea che ebbe il suo apogeo intorno all’anno Mille nell’attuale capitale ucraina, Mosca non esistesse neppure. Curioso poi il caso della Crimea, ucraina secondo il diritto internazionale ma parte del regime moscovita secondo i libri, “tornata alla Russia” dopo il referendum del 2014 seguito all’occupazione militare: «È citato ovunque, solo alcuni sottolineano che non è riconosciuto a livello internazionale, ma mancano di precisare il motivo». La costruzione del mito sovietico è silente, non è mai affrontato il tema della russificazione: «Dipingere le comunità del Donbas come russe è sbagliato: sono russofone, perché sotto l’Urss hanno dovuto frequentare le scuole in russo. Ma questo non vuol dire che in quella regione sia in atto una guerra civile, come si sostiene».

«Nessuno dei volumi da noi analizzati può essere raccomandato agli studenti», ci dice Kashchey, «al massimo, si può scegliere il livello di propaganda». È stata lei a raccogliere le varie indicazioni dai social e a scoprire altre distorsioni, dando il via all’analisi più ampia. La ricerca richiama l’urgenza di educare al pensiero critico e sensibilizzare le famiglie. Mentre i bambini ucraini che studiano qui sono traumatizzati da queste ricostruzioni faziose, il maggior rischio per i loro coetanei italiani è che nessuno corregga queste narrazioni false che imparano a lezione e che quindi tendano a considerarle veritiere.

«In Europa, a causa della penetrazione della propaganda prima zarista, poi sovietica e putiniana, si sono stratificate convinzioni e bias che influenzano il pensiero occidentale» ci ricorda Iryna. «Per gli autori è molto difficile uscire da questa cornice, perché Nazioni come l’Ucraina non hanno mai potuto raccontare la Storia con la loro voce. L’ha sempre fatto Mosca al loro posto».

Del resto, i manuali d’addestramento delle spie del Kgb sono chiari: l’obiettivo della guerra ibrida è creare una visione del mondo nella mente della vittima che non gli permetta di difendersi. Quegli stessi servizi segreti di cui è stato funzionario e tenente colonnello proprio Vladimir Putin.

Giornalisti ma soprattutto Journalai

Dai consigli sentimentali di Sbarbi alle “leggi sullo spritz” di Zaia, sui social la satira politica dei The Journalai

«Zingari col microfono» trapiantati a Milano, Edoardo, Daniele e Andrea - un romano, un genovese e un toscano - da quasi cinque anni documentano sui social il dietro le quinte della politica italiana. Il tono è irriverente, crudo, spesso dissacrante, il racconto sempre attraverso materiale originale e lavoro sul campo, in giro per l’Italia.

«Siamo tre videogiornalisti su piazza da dodici anni», racconta Edoardo, «la pagina

The Journalai è nata intorno al 2020, nel pieno del Covid, un po' per insofferenza. C'erano video che facevamo, magari brevi spezzoni, che secondo noi avevano valore ma venivano scartati dalle redazioni. Così abbiamo pensato: perché non creare un nostro canale dove mettere tutto e vedere che succede?». Il primo colpo virale arriva con Berlusconi allo stadio, intento a ricordare con una battuta com'è nata la sua passione per il tifo milanista, «da quando aveva i calzoncini corti». Risultato: follower raddoppiati in un giorno e mezzo, da 4.000 a 10.000. Oggi sono quasi 100.000 su Instagram e 35.000 su TikTok. Nessuna sponsorizzazione, nessun piano editoriale. Solo intuito, montaggio e il dono raro di saper porre la domanda sbagliata al momento giusto.

ll libro sbagliato

Il gioco è semplice: consegnano a un politico o a un personaggio pubblico un libro "sbagliato" per osservarne la reazione. Poi gli chiedono una dedica e un suggerimento per il prossimo destinatario, con un altro titolo fuori contesto.

Non sapete nemmeno scherzare

Un collage dei momenti più memorabili della settimana politica. Il meglio del peggio. Il titolo è mutuato dalla celebre frase pronunciata da Silvio Berlusconi durante la trasmissione Servizio Pubblico di Michele Santoro dopo uno scontro con Marco Travaglio.

«Tutto merito del valore dei contenuti», sottolinea Edoardo. Rispetto a molte altre pagine satiriche, The Journalai è alimentata dal lavoro di giornalisti professionisti. «La differenza vera», dice Daniele, «è che noi quella vita lì la viviamo. Non stiamo a casa a ripubblicare un video virale della Ravetto. Noi andiamo lì, facciamo le domande, editiamo il video, lo rendiamo comunicazione. È un lavoro giornalistico che si trasforma in qualcosa che funziona anche sui social».

“Non sapete nemmeno scherzare” è il mantra, una battuta mutuata da Berlusconi e rilanciata come firma identitaria. Perché il diritto di satira è anche un modo per far filtrare l’informazione là dove l’informazione non arriva: «L’ironia è un mezzo per far scoprire un mondo», spiega Daniele. «Magari un ragazzo non sa nemmeno chi sia Salvini, ma vede un video assurdo, si incuriosisce e va a cercare», è una porta d’ingresso. Su Instagram, il 33% dei loro follower ha tra i 25 e i 34 anni, il 18% tra i 33 e i 44, «oltre sono solo i politici che ci guardano».

E a chi si offende? «Qualcuno ci ha scritto. Qualche querela temeraria è arrivata», raccontano, «ma si è sempre risolto tutto e nessuno si è fatto troppo male. Da chi non lo diciamo, abbiamo ricucito di recente». Sgarbi che dispensa consigli sentimentali, Zaia che detta le sue “leggi sullo spritz”, Feltri che fa Feltri e macina centinaia di migliaia di visualizzazioni su TikTok: alcune gag sono diventate veri cult. «La gente ormai segue quasi più il personaggio che il contenuto», osservano. Una delle idee più riuscite? La rubrica del “libro sbagliato”: presentarsi a un politico con un libro totalmente fuori contesto – talvolta provocatorio – per osservarne la reazione, e poi chiedergli di suggerire un altro politico e un'altra lettura da “consegnare”. Un cortocircuito semplice ma geniale.

Oggi The Journalai si muove sui social. «Volano i contenuti più demenziali, ma è tutto relativo. Cosa funziona lo scopriamo anche noi man mano. Fortuna? Non lo sappiamo, ma con pazienza e sacrifici abbiamo trovato la chiave per un nostro spazio nel flusso algoritmico».

Senza casa, senza diritti la sfida di Montesacro contro gli sfratti

A Roma ci sono circa 60 mila persone in attesa di un alloggio. Il Comune ha appena approvato un piano per l'acquisto di oltre 1300 appartamenti, ma dallo scorso anno la giunta del terzo Municipio, Nonna Roma e fondazione Charlemagne hanno messo in campo strumenti innovativi per contrastare l'emergenza abitativa

Alle 8:00 qualcuno mette su il caffè, a mezzogiorno si stende il bucato al sole, alle 20:00 si accende la tv. Ma in centinaia di case a Roma, queste ore non esistono. Perché non esiste più un luogo dove viverle. I Chowdhury (cognome di fantasia) sono sei, una coppia e quattro figli, tutti minorenni. Tre di loro hanno l’autismo, uno in forma molto grave. Il padre si occupava di traslochi. Il lavoro era saltuario, ma almeno c’era, finché non l’ha perso a causa della malattia dei figli. I Chowdhury allora non sono più riusciti a pagare l’affitto del loro appartamento al terzo piano di una palazzina a Fidene, all’estremo nord del III Municipio. Il proprietario ha avviato la causa di sfratto e l’hanno persa.

Li assiste da novembre lo sportello Ada, il servizio di welfare abitativo dell’Agenzia per il diritto all’abitare, che opera dalla fine di ottobre 2024, per ora negli spazi del circolo sociale Lab! Puzzle. Si tratta di una azione di segretariato sociale rivolta a chi ha problemi di natura abitativa. È una delle iniziative introdotte dal Municipio Montesacro per controllare l’emergenza abitativa. La gestione è stata affidata a Nonna Roma, l’associazione che dal 2017 aiuta tantissime famiglie in condizione di povertà. Del progetto fa parte anche la fondazione Charlemagne, che si è proposta di co-finanziarlo con diecimila euro, con i quali è stato anche predisposto un meccanismo di rilevazione dell’emergenza alloggiativa, attraverso la diffusione di questionari anonimi che sono associati a dei punti territoriali precisi. I dati saranno poi pubblicati e consultabili.

«Li seguiamo dalla seconda settimana di apertura dello sportello e lo facciamo ancora – racconta Ferdinando Errichiello, operatore di Ada – ci siamo subito attivati in due direzioni: o trovare un altro posto in affitto, ma senza un reddito era impossibile, o trovare una casa popolare. Abbiamo quindi fatto la richiesta di una assegnazione in deroga di una casa popolare, ma nessuno al Comune ci ha mai risposto». Alla fine, Nonna Roma, tramite lo sportello Ada e altre due cooperative - Spes contra spem e Ape06 - è riuscita a trovare ai Chowdhury una stanza per sei mesi in una casa rifugio. «Con loro

è stato fatto un miracolo, se nella stessa settimana ci fosse capitata un’altra famiglia simile una delle due sarebbe finita in mezzo alla strada – aggiunge Errichiello – la cosa drammatica è che a Roma non esistono più case rifugio. Il centralino S.o.s. di emergenza delle politiche sociali è saturo, così come la Caritas e la comunità di Sant’Egidio. Nella capitale gli strumenti per fare da contrasto all’emergenza abitativa non ci sono più».

È stato per rispondere a questo bisogno crescente che il presidente, Paolo Marchionne, e l’assessore alla Cultura, Luca Blasi, del terzo Municipio hanno deciso di dotarsi di nuovi strumenti per aiutare famiglie e single che non possono permettersi una casa. «Ogni Municipio ha ricevuto un milione di euro dai fondi straordinari per il Giubileo – specifica l’assessore Blasi - noi li abbiamo voluti spendere nell’Agenzia dell’Abitare e nel progetto C.A.S.A 3». Si tratta di una struttura che sarà ultimata nella prima metà del 2026 e che ospiterà gli uffici di Ada, dell’Agenzia per il diritto all’abitare, ma anche cinque appartamenti per accogliere persone sfrattate per un periodo che va dai sei mesi a un anno. «Sono degli alloggi con una cucina condivisa. Uno spazio sorvegliato per evitare che le persone si trovino a dormire in macchina o peggio per strada» dice il presidente Paolo Marchionne. L’idea, quindi, non è solo quella di assistere le famiglie dopo uno sfratto attraverso i servizi sociali, ma di «prevenire alcune di queste situazioni e costruire in maniera più efficace le fasi successive alla perdita dell’alloggio».

E Montesacro sta lavorando per raggiungere questo obiettivo in due direzioni. «Noi abbiamo fatto una scelta molto chiara – aggiunge l’assessore Blasi – come giunta di sinistra non possiamo permettere lo sgombero di persone senza passare da casa a casa, soprattutto quando queste persone si trovano all'interno di appartamenti di enti pubblici che non hanno alcuna destinazione». A metà giugno, l’Agenzia per l’abitare, Blasi e altri attivisti sono riusciti a rinviare lo sfratto di Federica (nome di fantasia) e suo figlio. «Lo sgombero è un momento drammatico e noi dobbiamo essere lì a prenderci cura dei cittadini e, quando possiamo, dobbiamo rinviarlo e trovare soluzioni alternative». Dopo il divorzio, Federica aveva perso anche

l’attività in cui lavorava. Per mantenersi allora ha fatto anche tre lavori contemporaneamente. I soldi, però, sono pochi. Le permettono di sopravvivere, ma non di pagare una casa. Quindi è stata costretta ad occuparne una dell’Inps con il figlio. «Nel terzo Municipio abbiamo tantissimi appartamenti Inps che vengono sgomberati per rimanere mesi, se non anni, vuoti». L’ente ha il mandato di vendere questi alloggi come frutto delle politiche di austerità del 2011, «ma quando lo fa li svende alle aste. Noi vorremmo che il patrimonio degli enti venga utilizzato per l’emergenza alloggiativa, ma è difficile senza leggi nazionali che prevedono questo tipo di destinazione sui beni demaniali - spiega Blasi - non c’è stato alcun governo che ha avuto il coraggio di dire che la casa è un diritto ed è la precondizione per godere a pieno di tutti gli altri, perché senza casa non hai una residenza e senza quella non hai il medico, la scuola e manchi di identità».

L’altra direzione in cui Montesacro si sta muovendo è quella di agire a livello istituzionale. In primo luogo, modificando la delibera 163 che prevede il contributo all’affitto. Ai primi di giugno il consiglio comunale ha «previsto che verrà dato in maniera più congrua, fino a 900 euro al mese e inoltre con la possibilità di averlo prima dello sfratto, se si rispetta un certo livello ISEE, perché in precedenza veniva dato solo a chi era già stato sgomberato» dice Blasi. In secondo luogo, quello che il Municipio sta cercando di fare è un fondo di garanzia per gli affittuari.

«La nostra ambizione sarebbe rendere conveniente, per chi ha appartamenti, affittarli a famiglie in difficoltà che sono transitate per il servizio pubblico» aggiunge Marchionne. «Il problema a Roma è che anche quando si ha un reddito i proprietari di casa chiedono garanzie impossibili e quindi l’idea è che il Municipio sia garante - spiega l’operatore Errichiello - i soldi iniziali ci sono grazie alla fondazione Charlemagne, adesso stiamo parlando con le banche». Il problema della casa è enorme e complesso e non solo a Roma, affrontarlo richiede coraggio e fantasia. Al terzo Municipio ci stanno provando.

«Lo sgombero è un momento drammatico, dobbiamo stare lì a prenderci cura dei cittadini»

Eredità olimpica

L’ex MOI di Torino, tra memorie e degrado, attende da 18 anni una vera rinascita. Oggi si punta su università e ricerca per completare la riqualificazione del quartiere Filadelfia

Ci sono luoghi che restano sospesi, senza una nuova direzione. Non crollano, ma non vivono. E restano lì, per rappresentare cosa sono stati e ciò che potrebbero diventare. È il caso dell’ex MOI nel quartiere Filadelfia di Torino: 90mila metri quadri di ambizioni olimpiche, emergenze sociali e progetti mai realizzati. «Il complesso nasce negli anni ’30 come mercato ortofrutticolo all’ingrosso», racconta Massimiliano Miano, presidente della Circoscrizione 8. Per oltre settant’anni, l’area ha rappresentato un polo nevralgico per il commercio torinese, fino a quando non è stato dismesso nei primi anni 2000.

È con le Olimpiadi invernali del 2006, però, che si presenta l’occasione per trasformare l’area. La zona, infatti, viene scelta per ospitare temporaneamente gli atleti e gli eventi legati alla più importante manifestazione sportiva al mondo. «Le arcate venivano utilizzate per incontri legati al periodo olimpico mentre nel villaggio soggiornavano gli atleti, i delegati e i giornalisti» spiega Miano. Passati i 30 giorni dei Giochi, però, l’area si spegne. Le strutture iniziano lentamente a svuotarsi: «Anno dopo anno sono andate sempre più in decadenza» conferma Miano.

A partire dal 2013, infatti, l’ex villaggio olimpico si trasforma: «Le palazzine sono state occupate abusivamente da 1.200 profughi, tra cui anche richiedenti asilo politici. Non sembrava neanche Torino. Ricordo i consigli comunali aperti, i comitati, le manifestazioni dei cittadini che volevano delle risposte» ricorda Miano.

Per anni, la zona dell’ex MOI è oggetto di dibattito cittadino, cronaca e tensione. Gli episodi di microcriminalità e la difficoltà di convivenza tra residenti storici e nuovi arrivati portano il Comune a elaborare un piano di uscita graduale: niente sgomberi forzati, ma un percorso di accompagnamento sociale verso strutture alternative per gli occupanti. Da cinque anni le palazzine sono state liberate e gli appartamenti ospitano residenze universitarie, studentati e soluzioni di social housing, a prezzi calmierati. Un cambiamento visibile che ha restituito dignità e funzione a un quartiere dimenticato. Le ampie strutture in cemento delle arcate, invece, ancora segnate con lo slogan olimpionico scolorito “Passion lives here, Torino 2006” rimangono mute, in attesa di una riqualificazione da 18 anni. «Il punto dolente che rimane è quello delle arcate. Negli anni viene fatta costantemente una manutenzione per la struttura ma non sono mai state riconvertite in un’altra realtà» racconta il presidente.

Un silenzio pesante per le strutture architettoniche, che diventano simbolo del rapporto irrisolto tra grandi eventi e città, tra investimenti straordinari e quotidianità urbana. Dopo le Olimpiadi, il quartiere Filadelfia ha attraversato una fase di progressivo “addormentamento”, come lo definisce lo stesso Miano.

Il problema è anche legale e culturale: le arcate sono legate alla Soprintendenza come bene di valore storico e architettonico. «Tutti gli spazi che hanno avuto un trascorso di pubblica utilità sono vincolati», spiega Miano. Al momento una parte è di proprietà del Comune di Torino mentre l’altra della fondazione 20 Marzo 2006, l’ente che gestisce gli impianti olimpici. Negli anni vengono ipotizzati diversi progetti, ma nessuno si è mai concretizzato. «In passato era stato fatto un tentativo per trasformarlo in un centro di biotecnologie, con la giunta dell’ex sindaco Fassino». L’università di Torino aveva inizialmente aderito al progetto ma poi si è ritirata per mancanza di fondi.

«Oggi siamo tornati a dialogare con il Politecnico, da cui abbiamo già ottenuto la volontà di partecipare, e l’università torinese. Vogliamo realizzare questo progetto perché nell’area limitrofa del Lingotto nascerà il parco della salute, ricerca e innovazione, con il nuovo distretto ospedaliero e universitario» spiega Miano. Per il presidente è importante ripensare e creare una nuova realtà per le Arcate: «Mancano solo loro per poter dire di aver riqualificato tutto il quartiere».

Infosfera e conflitti

Il ruolo dell’informazione nell’asimmetria contemporanea
di Stefania Da Lozzo

«Vedo tutto, io. È questo il mio problema. Vedo le cose belle e vedo le brutte». Erano le parole di Anna Politkovskaja, tratte dal libro postumo Diario Russo 2003-2005. La sua visione, una critica feroce a chi si nasconde «come il fungo sotto la foglia», parole trasversali che attraversano le epoche. Il massacro di Bucha come gli eccidi di Grozny, le informazioni e le immagini questa volta attraversano il mondo, sono trasmesse dai droni. La guerra, diventa a portata di cellulare, con applicazioni che segnalano bombardamenti e informazioni che viaggiano via social.

La Russia «non ha mai sperimentato istituzioni liberali e democratiche in senso pieno, se non nel caotico periodo della transizione post-sovietica. Questa mancanza di una tradizione si riflette in una leadership autocratica» afferma Vittorio Emanuele Parsi, docente di relazioni internazionali. Una mancanza di tradizione democratica che rende ancora più evidente le differenza con l’Occidente. «Oggi scontiamo il fatto di aver avuto una concezione parziale delle istituzioni liberali» sottolinea lo studioso «questa concezione ha eroso l’ attrattività del modello democratico».

Anne Applebaum in Autocrazie spiega come l’informazione sia diventata una variabile cruciale in questo tipo di conflitti. Il controllo della narrazione diventa terreno di gioco. «Uno studio condotto sulla televisione russa dal 2014 al 2017 ha stabilito che le notizie negative sull’Europa comparivano con una media di 18 volte al giorno». Non solo notizie inventate ma anche quelle vere erano selezionate al fine di «collegare la democrazia alla degenerazione e al caos» afferma l’editorialista di The Atlantic. In un mondo connesso e veloce dove le informazioni hanno copertura globale, il giornalismo deve affrontare nuove sfide ed evolversi assieme alla tecnologia che riempie il nostro tempo. Ciò nonostante, «lo sanno che una penna può fare più male di un’ ascia» cantano i rappers italiani, e forse è ancora così, come si apprende della morte di Victoria Roshchyna, giovane giornalista ucraina catturata a Mariupol mentre documentava la realtà.

Il boom della magia in Italia: la stregoneria diventa anche terapia

Non solo tendenza. Quasi 13 milioni di italiani si sono rivolti a sensitivi o astrologi per lutti o problemi relazionali. Nel cuore esoterico di Torino "il museo della stregoneria" con reperti autentici e una scuola d'occulto riportano la magia a una dimensione profonda

Nessuna insegna appariscente, nessuna vetrina. Solo un portone anonimo, un citofono e un androne come tanti. Da lì si entra in un mondo fuori dal tempo: pareti rosso scuro, odore d’incenso, scaffali colmi di oggetti antichi. Un pendolo oscilla lento tra candele, rune e libri consunti. A guidare i gruppi che arrivano, una donna dai capelli rame come il fuoco. Non siamo in un film né in una rievocazione teatrale: siamo nel cuore di Torino, a pochi passi da Porta Susa, dentro il “Museo della Stregoneria Contemporanea”. Riaperto a febbraio in una nuova sede più ampia, questo spazio non celebra il folklore, ma restituisce dignità a una conoscenza profonda, spesso fraintesa. Un luogo, soprattutto, che spiega perché sempre più persone si rivolgono alla magia piuttosto che alla psicoterapia.

Ad accogliere i visitatori ci sono Norak Odal e Daniela Surleti: studiosi, esoteristi, ma soprattutto custodi di un sapere antico. Fondatori del museo ma anche dell’Accademia Iniziatica di Runologia (AIR) e della Scuola Sophia, due poli formativi che da anni raccolgono chi cerca, studia, si interroga. «Non è una moda, né un gioco», chiarisce Norak, che inizia il suo percorso nel 1994 da scettico. «È stato il mio bisogno di capire, di indagare con metodo, a portarmi fin qui». Da autodidatta a runologo riconosciuto a livello internazionale, oggi Norak collabora con ricercatori in Scandinavia, Irlanda e Sud America.

IL MUSEO

E proprio in questa città dall’anima esoterica nasce il Museo della Stregoneria Contemporanea. un luogo pensato per riportare la magia alle sue radici autentiche. Il percorso guidato, che dura circa 40 minuti, si apre in un salotto ottocentesco, con divani di velluto, tavole ouija, bambole d’epoca e quadri intrisi di mistero. Si prosegue tra radici, infusi e piante essiccate nell’area erboristica, fino a toccare teche sciamaniche, altari pagani e illustrazioni runiche. Al centro spicca la ricostruzione fedele della camera da letto di una strega vissuta nella metta dell’Ottocento, il cui ritratto – firmato dall’artista Carlo Piterà – sorveglia la stanza con silenziosa presenza. La visita si conclude immersi tra cristalli, grimori, specchi neri e bacchette rituali, un crescendo di simboli che raccontano storie profonde e documentate. «Abbiamo raccolto oltre mille reperti autentici in più di vent’anni di ricerche e scambi con altri studiosi», spiega Norak. «Ogni oggetto ha una provenienza certificata: niente è stato acquistato su eBay».

IL BOOM

Non stupisce, allora, che siano soprattutto donne e giovani a varcare la soglia del museo, alla ricerca di un senso profondo. Secondo il rapporto Eurispes 2024, il 26,5% degli italiani crede in oroscopi, tarocchi e pratiche magiche, con la percentuale che tra gli under 35 sfiora il 38%. Più di 13 milioni di persone hanno invece consultato almeno una volta un sensitivo, non per gioco, ma per trovare risposte a ansia, lutti e difficoltà relazionali. «La magia oggi è una nuova forma di terapia», spiega Daniela. «Si muove tra il recupero di antichi saperi e la diffusione, spesso superficiale, di queste conoscenze sui social». Non solo, la magia è inflazionata dai social: «Chiunque si proclama “strega” su TikTok perché legge i tarocchi. Ma essere una strega non è un titolo, è una condizione interiore. Richiede studio, etica, rispetto. Non ci si improvvisa, non è uno show».

LA SCUOLA

E così la stregoneria, per secoli perseguitata, oggi torna sotto una nuova luce. La Scuola Sophia, parte integrante del museo, è diventata un punto di riferimento per chi cerca un approccio serio e approfondito all’esoterismo. «Non promettiamo poteri o formule segrete», spiega Daniela. «Io insegno cristallologia, arti divinatorie antiche e paganesimo, ma non per “fare magia”. L’obiettivo è riscoprire se stessi attraverso linguaggi dimenticati». Dal 2010, quando contava appena 40 iscritti, la scuola è cresciuta fino a raggiungere oggi 200-250 partecipanti all’anno. I

corsi e le conferenze si tengono in tutta Italia, con un’attenzione particolare a Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana. Al Sud, soprattutto nelle zone interne di Sicilia e Sardegna, le tradizioni orali si mantengono vive. «Nelle grandi città, invece, spesso questi saperi si perdono o si riducono a un trend», aggiunge Norak.

Ma in Italia, l’esoterismo resta fuori dalle università. La runologia, ad esempio, è appena accennata nei dipartimenti di lingue germaniche. «Mentre in Francia e nel Nord Europa esistono corsi ufficiali, matrimoni pagani, festività pubbliche – racconta Daniela –. siamo ancora indietro. Ma qualcosa si sta muovendo». Da qui la scelta di fondare un’accademia indipendente, che oggi collabora con antropologi, medici, docenti e studiosi.

In un’Italia confusa e in cerca di senso, la stregoneria smette di essere tabù e torna a parlare di identità, radici, trasformazione. Non sorprende che la figura della stregaun tempo demonizzata - torni a essere una guida.

La sfida di Anita nel deserto della periferia

Il racconto di una generazione stretta tra violenza, ambizione e mancanza di prospettive. Intanto, i reati minorili crescono e cala il dialogo tra giovani, famiglie e istituzioni

Anita ha diciassette anni, i capelli castani che le incorniciano il viso, mentre pensa al futuro il suo sguardo, nascosto dagli occhiali, mostra tanta determinazione adombrata da un velo di disillusione. Immaginare la sua vita tra dieci anni non è semplice, come non lo è prevedere cosa accadrà e quanto il suo cammino la porterà lontana da casa.

Abita nella periferia di Napoli e frequenta il quarto anno di liceo: «Durante le giornate non c'è molto da fare: vado a scuola, torno, mangio. Poi il pomeriggio studio oppure, se esco, è solo per seguire delle lezioni private o per andare dalla psicologa». Il paese in cui vive è piccolo e non ci sono molte attività per i giovani - racconta - l’unico cinema rimasto è stato chiuso tre anni fa. «Quando vedo i miei amici di solito andiamo nella zona del Granatello a Portici che è una città un pochino più grande. Ma proprio lì poco tempo fa c’è stato un episodio di violenza molto preoccupante».

Il caso a cui Anita fa riferimento risale alla sera dell’8 giugno, quando un ragazzo di sedici anni, per un saluto a una sua compagna, è stato aggredito da un gruppo di coetanei e ha riportato lesioni e fratture facciali. Questa è solo l’ultima di tante notizie di cronaca nera che coinvolgono minori. Solo quattro giorni prima i funerali di Martina Carbonaro facevano spegnere i riflettori sul femminicidio della quattordicenne, aggredita e uccisa dall’ex-fidanzato appena maggiorenne. Il mese precedente sulle pagine dei giornali erano riportate le notizie di due aggressioni armate tra minori al centro di Napoli, a distanza di sole ventiquattr’ore.

Nel 2024 gli omicidi commessi da minorenni in Italia sono più che raddoppiati. Dal 4% del totale nel 2023 all’11,8%, con 35 casi su 319, rispetto ai 14 su 340 dell’anno precedente.

Un aumento del 150%, in un contesto in cui gli omicidi totali calano. Crescono, invece, le vittime minoren-

ni dal 4% al 7%. Lo studio è stato portato avanti dalla Criminalpol e discusso al Congresso della Società Italiana di Psichiatria e Psicopatologia Forense lo scorso maggio.

I dati riportati dal Ministero degli Interni avevano già mostrato questo andamento negli anni precedenti. Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2022, l’Italia ha registrato un incremento del 15,34% nelle segnalazioni di minori, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, denunciati o arrestati per reati su tutto il territorio nazionale. Secondo l’analisi, i casi sono passati da 28.196 nel 2010 a 32.522 nel 2022. L’aumento, che fotografa un’evoluzione preoccupante del disagio giovanile, riflette non solo un cambiamento nei comportamenti dei ragazzi, ma anche una crescente avversione alle regole sociali. I reati più frequenti sono legati alla devianza adolescenziale, come furti, danneggiamenti, risse e atti di violenza. Espressione di tensioni profonde e sempre più manifeste.

«Mi sento un po' distaccata dai miei coetanei o anche dalle persone più piccole - dice Anita - direi che non condivido i loro interessi oppure i loro modi di fare. È troppo normalizzato usare certi termini come insulti. Se un bambino di undici anni usa un certo linguaggio come fosse niente, vuol dire che il problema nasce anche dalla famiglia. Passeggiare per strada ed essere insultata, vedere i propri amici discriminati per il loro orientamento sessuale è la base su cui si fonda la violenza di cui sentiamo parlare ogni giorno in tv».

I comportamenti che descrive Anita rientrano nelle dinamiche tipiche della devianza giovanile, spesso connesse alla criminalità minorile. Atteggiamenti che nascono da un bisogno profondo di auto-affermazione e si esprimono con gesti distruttivi o attraverso un forte desiderio di controllo e possesso, quasi a compensare un vuoto identitario e sociale.

Umberto Setola, Direttore Generale ad interim dell'Azienda Consortile dei servizi sociali di Afragola, Cardito, Caivano e Crispano, analizza la situazione dall’interno e individua gli stessi problemi riconosciuti

da Anita: «Le informazioni che prima gli adolescenti riuscivano ad acquisire attraverso la famiglia, oggi, sono delegate all'uso dei cellulari, di Facebook, Instagram, TikTok e degli altri social media. C’è un problema proprio di capacità genitoriale».

Demonizzare internet può sembrare semplice e assolutorio, in realtà manifesta una crescente mancanza di cura nei confronti dei ragazzi e della loro crescita: «È un problema generalizzato che non riguarda soltanto le periferie del sud dell’Italia, ma un'intera generazione. A casa non si parla più. Non si parla di educazione sessuale, non si parla di valori, non si parla delle difficoltà che i ragazzi si trovano ad affrontare e non si elaborano i problemi. La famiglia è distratta dal lavoro, - continua Setola - dalle faccende personali di tutti i giorni e sfugge sempre qualcosa. In questo caso stanno sfuggendo i figli, stiamo perdendo di vista la cura dei nostri figli. Oggi i servizi sociali per essere efficaci non aiutano più il singolo minore in difficoltà, ma l'intero nucleo familiare».

L’aumento dei casi di criminalità minorile non è soltanto un dato statistico, ma il sintomo di una società che fatica a costruire una rete di dialogo e attenzione. Non si tratta di colpe da attribuire, ma di sfide da affrontare con responsabilità collettiva: «Manca fare rete, c'è bisogno di fare un patto educativo. Questo è il problema fondamentale, bisogna aiutare insieme. Non c'è percezione dei servizi attivi sul territorio - spiega Setola - delle potenzialità che noi abbiamo e spesso la dispersione scolastica parte proprio da questo e compromette la crescita e la formazione dei ragazzi», ma non solo.

Anche per chi la scuola riesce a frequentarla, restare nell’ambiente in cui si cresciuti è una scelta insofferente: «Come vedo il mio futuro? In realtà non ne ho un'idea precisa. Non è che mi senta molto speranzosa in generale – dice Anita - soprattutto qui in Italia. Durante l’ultimo referendum solo il 30% degli italiani è andato a votare, già questo dice molto. Se devo immaginarmi tra qualche anno, penso che sarò andata via dal mio paese per iscrivermi all’università in una grande città. Se dovessi pensare al mio lavoro mi sentirei meglio in un altro stato. Adesso pensare di dover prendere questa decisione mi crea ansia, ma continuare a vivere in questo contesto non mi renderebbe felice».

«Passeggiare per strada ed essere insultata, vedere i propri amici discriminati per il loro orientamento sessuale è la base su cui si fonda la violenza di cui sentiamo parlare ogni giorno in tv»

Ambiente

Smart green, il futuro digitale del verde urbano

La gestione delle aree verdi si trasforma in un processo partecipativo, dove tecnologia e cittadinanza collaborano insieme per tutelare la natura

Le probabilità che tra il 2025 e il 2029 le temperature medie della Terra aumentino più di 1,5 C° rispetto ai livelli preindustriali, sono pari al 70%. Questa la previsione contenuta nell’ultimo report della World Meteorological Organization (Wmo), che delinea uno scenario futuro caratterizzato da eventi climatici estremi sempre più frequenti, perdita di biodiversità e innalzamento del livello del mare. Tutti fattori che incideranno negativamente sul benessere e la salute umana.

Tra le soluzioni proposte per combattere il riscaldamento globale, ha assunto subito un ruolo centrale la tutela di boschi, foreste e del verde urbano, che si è rivelato un potente alleato nel mitigare le temperature e migliorare la qualità dell’aria, soprattutto nelle grandi città.

Poiché la sua gestione richiede tempo e risorse economiche, l’utilizzo di tecnologie che rendono più efficiente il monitoraggio delle piante sta facendo la differenza, racconta Paolo Viskanic, Ceo di R3gis. La sua azienda ha sviluppato GreenSpaces, una piattaforma informatica che aiuta le amministrazioni pubbliche a pianificare le attività di cura e manutenzione dei giardini pubblici.

L’idea nasce nei primi anni 2000 quando, dopo aver studiato agraria tropicale e aver lavorato in giro per il mondo, Viskanic torna a Merano, sua città natale, dove viene contattato dall’allora direttore del verde pubblico, Francesco Decembrini: «C’era stato un forte temporale qualche giorno prima e cinque alberi erano caduti distruggendo tre macchine» ricorda.

«Lui sapeva che io lavoravo con banche dati e sistemi GIS, perciò mi chiese di creare uno strumento che gli permettesse di censire e controllare l’alberatura, in modo da poter garantire la sicurezza dei cittadini».

Nasce così il primo catasto degli alberi della città. Il progetto attira subito l’attenzione del comune di Milano con il quale Viskanic sviluppa, già a partire dal 2005, un progetto più ampio che si trasforma poi in GreenSpaces. Oggi la piattaforma permette il monitoraggio in tempo reale dello stato di salute delle piante, fornendo informazioni sui benefici

che producono sull’ambiente, come la quantità di umidità e di CO2 generata e catturata. In alcuni dei comuni che usano il software, gli abitanti possono partecipare alla cura delle aree verdi segnalando problemi o malfunzionamenti degli arredi urbani su una app dedicata. Un esperimento interessante che, se ben guidato, potrebbe portare ad una loro gestione più democratica e a stemperare le tensioni tra amministrazioni comunali e cittadini, negli ultimi anni sempre più numerosi nel denunciare gli abbattimenti indiscriminati delle alberature da parte delle ditte addette alla loro manutenzione.

«C'è molta animosità intorno a questo tema oggi, ma penso si possa fare molto per migliorare la situazione» spiega Viskanic. «Da un lato gli alberi sono esseri viventi, quindi ad un certo punto arrivano alla fine del ciclo di vita e devono essere sostituiti. Dall’altro, le piante più vecchie sono importanti dal punto di vista ecologico, per tutti gli animali che le abitano. È un argomento spinoso ma credo che la tecnologia possa favorire il dialogo tra le parti. E ho l'impressione che molte città italiane siano sulla buona strada».

di Lavinia Monaco

Il troppo caldo soffoca il Mediterraneo

L’habitat marino si sta tropicalizzando a causa del surriscaldamento globale, cambiando radicalmente il mare come lo conosciamo oggi

Sotto la superficie del Mediterraneo che rinfresca i bagnanti in giro per l’Italia si cela un problema: il mare nostrum, come lo conosciamo oggi, sta diventando sempre più caldo e le specie che ci vivono stanno avendo difficoltà ad adattarsi. Talvolta, non riuscendoci. A raccontarlo è il professor Daniele Ventura, ricercatore in eco-biologia marina all’università La Sapienza, che offre un quadro nitido delle trasformazioni in atto nel bacino mediterraneo. Per le comunità costiere italiane, e in particolare per chi vive di pesca e acquacoltura, questa è una realtà tangibile e, in assenza di un cambiamento concreto, drammatica.

Il Mediterraneo si sta scaldando a un ritmo allarmante: circa 0,2 °C per decennio, con proiezioni che parlano di un aumento fino a +1,5 °C entro il 2030. Il mare, inoltre, essendo un bacino chiuso, trattiene il calore. «Si sono registrati 30 °C in superficie, temperature che poi si propagano anche in profondità, causando morie di massa tra organismi sensibili», spiega Ventura.

Le specie autoctone, come le gorgonie rosse o la posidonia oceanica, sono in pericolo. Alcune muoiono per stress termico, altre vengono sostituite da organismi esotici più resistenti, come la Caulerpa taxifolia o la vongola delle Filippine. Questo danneggia anche i servizi ecosistemici, ovvero i vari benefici che gli elementi marini offrono all'uomo. E mentre questi cambiamenti destabilizzano gli ecosistemi, aumentano anche le difficoltà economiche per pescatori e allevatori marittimi.

«Le specie che conoscevamo stanno scomparendo, e alcune, come la vongola verace, sono diventate rarità dai prezzi elevatissimi. A sostituirle, specie aliene come il granchio blu o il pesce scorpione, che spesso sono tossiche o invasive», racconta il professor Ventura. Alcune, però, potrebbero rappresentare nuove opportunità

commerciali per i pescatori italiani: «Il granchio blu, ad esempio, è molto apprezzato in America. Serve un cambio culturale per valorizzarlo anche da noi».

Secondo un report del WWF del 2023, le specie esotiche che si trasferiscono nel Mediterraneo sono sempre di più e l’andamento non accenna a calare. Sono più di 1000 le specie tropicali che sono arrivate e circa il 75% di queste si è stabilito nelle acque del mare nostrum. Il database ClimateFish, dell’Istituto Risorse Biologiche e Biotecnologie Marine, segnala la presenza di oltre 100.000 esemplari di specie immigrate a causa del cambiamento climatico.

E se il futuro sembra già scritto, con una progressiva tropicalizzazione del mare nostrum, Ventura invita a non lasciarsi sopraffare dalla retorica catastrofista. «Non possiamo fermare tutto, ma possiamo conformarci. Alcune specie aliene sono commestibili e potenzialmente commercializzabili. Investiamo su filiere che valorizzino queste risorse anziché sprecare fondi per eradicare ciò che ormai è parte del nostro ecosistema».

Il Mar Mediterraneo che conoscevamo sta cambiando ad un ritmo incessante. Per i pescatori e gli agricoltori del mare italiano, non è solo una sfida ecologica, ma una trasformazione culturale ed economica. E, come sempre, sopravvive chi sa adattarsi.

«Le specie che conoscevamo stanno scomparendo e alcune sono diventate rarità dai prezzi costosissimi»
di Andrea Iazzetta

Nicholas Kohl, il primo capovoga azzurro di Oxford

Dalle rive del lago di Varese alle Olimpiadi di Parigi. Ritratto di un canottiere che rema anche col vento contro

È tutto lì. In quel soffio d’acqua che ti separa dal traguardo. «Se ho remato per 1950 metri, perché mollare agli ultimi 50?». A sentir parlare Nicholas Kohl, canottiere azzurro con un quarto posto ai Giochi olimpici di Parigi, sembra tutto semplice. Occhialini da sole, forza nelle braccia e via, una palata dietro l’altra fino alla fine. «Questo sport mi ha insegnato a non mollare mai. Servono determinazione e senso del ritmo, in quel momento ti giochi tutto ciò per cui ti sei allenato», dice il ventiseienne.

Dentro la voce tranquilla con cui si racconta passano anni di allenamenti: sveglie all’alba, piogge sul lago, inverni lunghi e sogni ostinati. E pensare che il canottaggio nemmeno gli piaceva: «Avevo fatto una lezione di prova a scuola, ma non mi aveva colpito più di tanto. Poi mia mamma mi ha spinto a riprovare». Nella sua testa compare un’immagine: Nicholas, quindici anni dopo, seduto sul primo sedile dell’imbarcazione, unico italiano nella storia a diventare capovoga di Oxford nella Boat Race, storica sfida sul Tamigi contro l’Università di Cambridge. Un onore senza pari. «Per gli

inglesi è come Wimbledon. Anche se abbiamo perso, essere parte di un evento così è stato bellissimo – ricorda – Da qui sono passati molti campioni olimpici». Si dimentica che anche lui lo è. Dopo una laurea in ingegneria ambientale alla Syracuse University, rinuncia al master in Inghilterra per prepararsi ai cinque cerchi di Parigi. «Un anno prima non ero nemmeno vicino all’essere in Nazionale italiana. Ricordo che appena arrivato mi guardavo intorno e pensavo: “Io sto davvero qui, con gli atleti più forti del mondo?”. È stata un’esperienza surreale».

La medaglia, sfiorata con il 4 senza azzurro, ha lasciato un po’ di amaro in bocca. «Brucia, certo, ma abbiamo costruito quella barca in poco tempo. Non abbiamo perso noi, sono gli altri che hanno vinto. È diverso. Sono comunque orgoglioso della stagione passata». E c’è da esserlo, soprattutto quando i risultati arrivano tra un esame e l’altro: «Studiare in America mi ha aiutato. C’è un sistema per cui lo sport è importante tanto quanto la preparazione culturale – spiega l’atleta – I regolamenti assicurano che ci sia il tempo per allenarsi, per i libri e per lo svago. In Italia sarebbe stato molto più difficile conciliare tutto».

Certe emozioni, però, le vivi solo a casa. Nato in Svizzera, da mamma italiana e papà tedesco, è cresciuto a Varese e quello rimane il posto del cuore. «Il luogo più bello dove remare. Sul lago, circondato dalle Alpi. Lì ho vinto la Coppa del Mondo l’anno scorso, davanti alla mia famiglia. È un ricordo che porterò sempre con me».

Il contatto con la natura è il punto fermo del futuro. Al riutilizzo delle acque reflue in agricoltura ha dedicato la tesi del master in Water Science, perché “per cambiare bastano semplici azioni, tempo e pazienza”, come nel canottaggio. «Ai ragazzi che iniziano questo sport dico che i miglioramenti non arrivano in un giorno, ma tu continua a cercarli». È così che si costruisce un atleta, una palata alla volta.

di Isabella Di Natale

Quattro volte scudetto e la città impazzisce

Nell’ultima di campionato, il Napoli batte il Cagliari. La lunga giornata di festeggiamenti

Il grido «Forza Napoli» non ha età: a festeggiare la vittoria della squadra partenopea sono i bambini ancora in braccio ai loro genitori così come i nonni. Quando l’arbitro fischia la fine della partita allo stadio Diego Armando Maradona, persone di tutte le età affollano le strade per celebrare il trionfo degli azzurri.

Il Napoli batte in casa il Cagliari per 2 a 0, otte nendo il primo posto nel campionato di Serie A 2024/2025, e nel capoluogo campano esplode la gioia: le trombette risuonano, il cielo notturno viene illuminato dagli spari di fuochi d’artificio e le grida di giubilo echeggiano la città; anche chi non avesse seguito la partita in diretta riuscirebbe a capire l’esito della sfida del giorno. La vittoria consente alla squadra di calcio partenopea di confermare il posto in vetta alla classifica, un punto sopra all’Inter, rivale nella corsa al titolo, e di aggiudicarsi il quarto scudetto.

La città aveva già deciso che la squadra avrebbe trionfato: ventiquattr’ore prima della partita tra le strade risuonavano le trombette, che si sono solo intensificate con l’avvicinarsi dell’evento. Alcuni impavidi tifosi hanno preparato e attaccato nel pomeriggio di venerdì 23 maggio striscioni e manifesti di celebrazioni con il numero quattro, nonostante fino al novantesimo minuto non fosse ancora certo il trionfo degli azzurri.

Il giorno della partita decisiva, aggirandosi per le strade di Napoli, si vedono gli abitanti vestiti di azzurro, molti indossano una maglia della squadra, ma c’è chi dimostra il suo supporto con indumenti di quel colore.

Alcune magliette riportano il 3 o i nomi dei giocatori dello scorso scudetto, altre sono più recenti: uno dei cognomi che più si legge dietro le schiene azzurre è quello del centrocampista scozzese Scott McTominay, il cui gol in rovesciata al 42’ ha segnato l’1 a 0 contro la squadra sarda ed è stato decisivo per volgere la partita in favore dei partenopei.

Non sono stati novanta minuti di festa, il capoluogo campano ha vissuto un momento di calma durante l’intervallo tra il primo gol dell’Inter e quello del Napoli: le due partite si svolgevano in contemporanea e i nerazzurri hanno centrato la prima rete al 20’. Le trombette hanno smesso di farsi sentire e non ci sono state più esplosioni quando la squadra milanese si è ritrovata in vantaggio nella classifica e i tifosi del Napoli hanno rischiato di dover rinunciare alle celebrazioni che con tanta gioia attendevano.

Il risultato, portato a 2 da un gol di Romelu Lukaku al 51’, incorona gli azzurri campioni d’Italia per la quarta volta, due anni dopo il terzo scudetto e nell’anno che segna i 2500 passati dalla fondazione della città di Napoli e a 99 anni dalla fondazione del Napoli.

L’età dell’oro Così è rinato il tennis italiano

I successi di Sinner, Paolini e gli altri sembrano scontati. Dietro c’è una rivoluzione iniziata

dalla Federazione quasi vent’anni fa

di Lorenzo Pace

Quattro anni fa, sull’erba di Wimbledon, un italiano tornava in finale Slam dopo 45 anni. Era Matteo Berrettini, sconfitto da Novak Djokovic. Due anni e mezzo dopo ci penserà Jannik Sinner a vincere uno dei tornei più importanti al mondo: l’Australian Open. Poi, conquisterà anche l’Us Open e farà il bis a Melbourne. Tre Slam in bacheca: nessun italiano c’era mai riuscito. In mezzo, due volte la Coppa Davis.

Il 2024 è stato anche l’anno di Jasmine Paolini. Finali al Roland Garros e a Wimbledon che, pur perse, hanno portato il tennis femminile ai livelli del quinquennio 2010-2015 (due vittorie Slam con Francesca Schiavone e Flavia Pennetta). In più, le gioie nei doppi: quella più grande alle Olimpiadi di Parigi, con l’oro vinto da Paolini e Sara Errani.

Successi a cui l’Italia non era abituata. Sembrano scontati, ma per raggiungerli è servita una rivoluzione, iniziata vent’anni fa. «Sono stati scardinati molti punti fermi, un lavoro straordinario» dice Giorgio Di Palermo, dirigente della Federazione di Tennis e Padel (Fitp) da più di trent’anni. Che sottolinea: «Il movimento non va giudicato solo dai campioni, ma da quello che è stato fatto per rendere possibili questi risultati». A partire dai campi per far crescere i giovani. Prima c’erano i centri federali nazionali in cui venivano accorpati i migliori talenti,

seguiti da appositi maestri. Realtà situate nel Centro Italia, come Latina, Riano o Tirrenia. Fino a quindici anni fa: «La Federazione ha preso la decisione storica di non avere più un centro tecnico nazionale».

È nata una rete periferica, composta dai Centri provinciali di allenamento (Cpa). «Così siamo in grado di monitorare migliaia di ragazzi, grazie anche ai raduni. A 14 anni poi comincia il loro passaggio a livello regionale». L’obiettivo è far crescere a proprio agio allievi e allenatori, che «non si sentono più minacciati». Oggi i tecnici sono quasi 14.000, più di qualsiasi Paese. Un esempio vincente è la coppia formata da Simone Tartarini e Musetti, arrivato al sesto posto nel ranking mondiale.

Ci sono state modifiche ancora più profonde. Perché prima della formazione dei giovani, c’è il loro reclutamento. Qui si colloca il canale SuperTennis, che «fa vedere ai bambini quanto è figo giocare a tennis». Oppure il progetto “Racchette in classe”, nato nel 2013. I circoli possono proporre dei cicli di lezioni alle scuole durante le ore di educazione fisica. «Ci siamo inseriti fra gli sport riservati alla cultura scolastica».

I tesserati sono più di un milione. Nel 2001, quando si è insediato il presidente della Fitp Angelo Binaghi, erano 130.000. «Era stato preso per

matto, mentre oggi si sta consolidando una macchina vincente. Che lo sarà a prescindere dai trofei, perché i campioni non possono esserci sempre».

Ma la Federazione vuole espandersi ancora. Oltre ad aver confermato le Atp Finals a Torino, ha aggiunto anche le finali della Coppa Davis a Bologna. Per un altro torneo in Italia, invece, si vedrà. Bisognerà attendere che un altro Paese decida di vendere.

«Intanto, pensiamo ai doveri, cioè migliorare l'educazione sportiva in Italia. Perché i tennisti hanno un rapporto settimanale con la sconfitta. Dobbiamo far capire che conta solo come competi». Guardare Sinner dopo aver perso la finale del Roland Garros in cinque ore e mezza.

Un'atleta per il Papa

Portabandiera di atletica

Vaticana e campionessa italiana indoor.

Sara Vargetto gareggia sulla carrozzina e corre con l'aiuto di papà Paolo di Gabriele Ragnini

L’eredità sportiva di Papa Francesco è custodita da una ragazza 16enne di Castelli Romani: una bandiera bianca e gialla, da sventolare a ogni gara. Sara Vargetto se lo ricorda ancora quell’abbraccio, un’udienza ufficiale diventata un momento privato. Una benedizione. «Mi nominò portabandiera di Atletica Vaticana», racconta mentre indica una foto incorniciata. «Nonna e zia mi accompagnarono e scoppiarono a piangere. Fu lui a volermi abbracciare, ci rendiamo conto?». Ora quei colori sfrecciano con lei e la sua carrozzina rosa glitter, decorata da una farfalla sfavillante.

Le ali, però, sono sue. Sara aveva appena diciotto mesi quando le fu diagnosticata l’artrite idiopatica giovanile. Un tormento per ogni muscolo. «Certi giorni cammino, altri uso la carrozzina. A volte mi fa male la mascella e diventa difficile anche mangiare».

Nonostante le sofferenze, c’è un rito a sostenerla prima di ogni gara: «Mi do tre botte sulle spalle, tre sulle ruote e tre sulle cosce. Poi ovviamente il segno della croce». In otto mesi ha affrontato tre interventi: due alle ginocchia, «uno invece mi ha addirittura lasciato le mani chiuse per due settimane. Allenarmi sembrava impossibile». Figuriamoci tornare a gareggiare. Eppure per la

seconda volta è diventata campionessa italiana indoor sui 400 metri nella categoria LS4F, riconosciuta in Italia da soli due anni. «Dopo tre operazioni tante persone avrebbero mollato. Lei non ci ha mai neanche pensato»: papà Paolo racconta le avventure di Sara senza sorrisi compiaciuti e un sovraccarico di orgoglio. La sua ammirazione è nei loro sguardi. «Io lo chiamo solo “Paolo”, non “papà”», precisa Sara. «La nostra relazione è diversa. Ci spingiamo a vicenda». E nell’atletica la loro simbiosi diventa un impulso reciproco. Paolo l’ha avvertito la prima volta quando Sara è scesa in pista: lui non era mai andato a correre

in un’intera vita, «ora faccio le notti a lavoro per accompagnarla la mattina. Ma spesso gareggio anche da solo».

Sara invece sa di avere sempre le spalle coperte. Soprattutto durante le maratone, dove le proprie braccia

non sempre bastano a guidarla. «A Roma facevamo i pacer, cioè quelli che affiancano i corridori», ricorda Paolo. L’immagine più bella, però, è affidata a Sara: «In trenta mi spingevano al traguardo, c’era gente sconosciuta a gridare il mio nome». Anche sulle lunghe distanze Sara ha imparato a essere indipendente. La prima maratona senza Paolo è stata segnata dal Vaticano: era con suor Marie-Théo, compagna di team e di preghiera. «La prima volta mi salutò interrompendo un’intervista, in abito religioso. Sette giorni dopo correva con me in pantaloncini e canotta a Firenze». Oggi Sara si allena allo Stadio dei Marmi, tra statue che hanno testimoniato la storia dell’atletica. «Ti senti protagonista di un film».

Fuori da quella cintura di marmo, però, non ha lo stesso slancio della pista: «Palestre, scuole, mezzi di trasporto pubblici spesso non sono accessibili». Nemmeno il liceo artistico che frequenta a Roma: «Sono sempre sporca di vernice, ma anche lì nei laboratori gli spazi sono stretti. Oppure gli ascensori non funzionano, tutto è più complicato». Non ambisce a «diventare un esempio, non lo sono», vuole solo la libertà di correre. Magari fino a Los Angeles 2028, se la sua categoria verrà ammessa alle Paralimpiadi: «Sarebbe il sogno definitivo, anche perché quella è la città delle stelle». E chissà che lei non possa essere una di loro.

La Chiesa nel flusso globale dei social

La morte di Francesco e l’elezione di Papa Leone XIV raccontate in tempo reale sul web

di Sara Costantini

«La Chiesa deve saper abitare i nuovi linguaggi senza paura. Avviciniamoci ai giovani». Così Papa Francesco si rivolgeva al mondo dei social, diventando il primo pontefice nella storia a usare Twitter, Instagram, Facebook e persino TikTok. Un cambiamento non solo tecnologico, ma culturale. La Chiesa non si è limitata a “stare” online, ma ha imparato a comunicare nel linguaggio della rete, accettandone tempi, toni e forme.

«È stato un salto enorme rispetto al passato» racconta Emanuela che si occupa della comunicazione vaticana. Nel 2013, quando Papa Francesco fu eletto, la notizia viaggiava soprattutto tramite i telegiornali. «L’evento della sua morte e l’elezione di Papa Leone XIV sono stati seguiti da milioni di persone che hanno assistito tutto in diretta sui social, commentando, condividendo e partecipando a un evento storico dai piccoli schermi» aggiunge Emanuela.

I numeri parlano chiaro: nei giorni successivi alla morte di Papa Francesco, sono state registrate oltre 200 milioni di interazioni social, con quasi 10 milioni di contenuti condivisi tra post, video, commenti e reazioni. Dietro tutto questo però, c’è stato un lavoro attento e coordinato, come racconta Emanuela: «Ogni piattaforma

ha il suo linguaggio, ma in questo caso il messaggio era unico». «Abbiamo scelto con cura la fotografia per annunciare la morte del Papa: un’immagine dolce, vera, che lo rappresentasse al meglio. Abbiamo cercato di dire la verità in modo semplice, forte ma lieve».

Il coordinamento, è stato capillare: «Siamo usciti contemporaneamente su tutte le piattaforme: social, web, radio, giornale. C’era sinergia assoluta tra tutte le redazioni». Anche l’Osservatore Romano ha pubblicato un’edizione straordinaria, mentre Radio Vaticana ha ricevuto centinaia di messaggi via WhatsApp: «Non potevamo rispondere a tutti, ma ci siamo sentiti abbracciati e abbiamo abbracciato la nostra comunità».

La scelta dei contenuti visuali è stata curata nei minimi dettagli: «Per ogni cultura cambia la percezione di un’immagine, e abbiamo tenuto conto di questo. Non ci siamo limitati alla foto iconica, ma abbiamo raccontato anche i volti, le comunità, i gesti del Papa nel mondo», aggiunge.

L’attenzione dei media e dei cittadini digitali si è concentrata anche sul conclave che ha portato all’elezione di Papa Leone XIV. L’annuncio dell’“Habemus Papam” ha subito generato un’ondata di reazioni sui

social, totalizzando oltre 19 milioni di interazioni nelle prime sei ore. La preparazione, ha sottolineato Emanuela, è stata decisiva: «Chi fa questo mestiere sa che bisogna giocare d’anticipo», ha detto. «Avevamo già delineato la macchina, e quando è arrivato il momento, tutto ha funzionato come un orologio. Eravamo pronti. Le grafiche, le card, le dirette: tutto era già stato realizzato».

Ora anche Papa Leone XIV sembra voler seguire le orme digitali di Papa Francesco, ha già aperto i profili ufficiali su instagram e X. Per completare il passaggio di testimone, manca solo Tik Tok.

«Abbiamo scelto con cura la fotografia per annunciare la morte del Papa. Volevamo dire la verità in modo semplice, forte ma lieve»

Foto scattate da Sara Costantini

Il futuro è già passato

In pochi anni l'intelligenza artificiale ha cambiato il giornalismo. Ecco cosa è successo in questi due anni, tra esperimenti, errori e questioni irrisolte

di Massimo De Laurentiis

Nel gennaio 2023 la scuola di giornalismo “Massimo Baldini” della Luiss pubblicava un numero del periodico di Zeta, la testata della scuola, realizzato con l’Intelligenza Artificiale. ChatGPT era stato lanciato solo due mesi prima e il titolo di quella pubblicazione, “Esperimento”, rispecchiava la curiosità del momento e lo stato embrionale degli strumenti a disposizione.

Da allora sembrano passati molti più anni di quelli che indica il calendario. Oggi l’IA è ovunque e ha fatto il suo ingresso anche nelle redazioni. Fin dal 2023, l’agenzia americana Associated Press utilizza dei tool di intelligenza artificiale per ottimizzare i passaggi della produzione dei contenuti. Anche il Financial Times ha sviluppato strumenti come “AI Playground”, che aiuta i giornalisti nello sviluppo di idee, nella sintesi o nell’editing dei pezzi.

Ma sull’onda dell’entusiasmo, la corsa all’IA ha portato anche a errori e incidenti. Nell’estate 2023, il gruppo editoriale americano Gannett ha dovuto bloccare un software per la generazione di articoli sportivi, perché i testi scritti dall’IA contenevano errori e frasi assurde. Un altro episodio ha coinvolto Apple News a inizio 2025, quando una funzione sperimentale di notizie flash riassunte dall’AI ha iniziato a mandare agli utenti delle notifiche con informazioni false.

Rispetto a questi esperimenti, oggi l’euforia dei primi tempi si è affievolita, lasciando spazio a un po’ di disillusione ma anche a una maggiore consapevolezza sui punti di forza dell’IA e sui suoi attuali limiti. «Non ci sono buoni dati empirici su quali task sono più automatizzate, ma in generale si tratta di quelle chiaramente definite, che sono più facili da delegare alle tecnologie disponibili», spiega Felix M. Simon, ricercatore del Reuters Institute for the Study of Journalism. Paradossalmente, la scrittura resta uno dei compiti in cui l’IA fatica di più, perché richiede una comprensione e una creatività che le macchine ancora non possiedono.

Secondo il rapporto Journalism and Technology: Trends and Predictions 2025 del Reuters Institute, i miglioramenti dei modelli delle big tech come Google o Microsoft renderanno accessibili anche alle testate più piccole funzioni sempre più avanzate. Un’ applicazione in crescita è quella di strumenti come OpusClip AI, che permettono di trasformare video lunghi in contenuti pronti per TikTok o YouTube Shorts, adattando in automatico formato, sottotitoli ed effetti. Queste funzioni sono sempre più importanti per moltiplicare la diffusione dei contenuti e ottimizzare i flussi di lavoro

redazionali. In un contesto frammentato e multimediale, saper padroneggiare questo vasto arsenale tecnico è ormai parte integrante del lavoro, così come saper valutare criticamente i risultati. «Non è la tecnologia in sé a cambiare le abilità richieste, ma la crescente digitalizzazione del giornalismo che crea una domanda di nuove skills - continua Simon - tra queste le più importanti sono la data literacy e la velocità di apprendimento di nuovi strumenti».

Oltre alle conoscenze tecniche, l’innovazione degli ultimi anni sta trasformando l'intero ecosistema dell’informazione. Molte testate temono che in futuro le notizie vengano cercate sempre più tramite chatbot come ChatGPT o motori conversazionali come Perplexity, riducendo l’audience dei giornali. Un timore già attuale con “AI Overview” di Google, che sintetizza i risultati delle ricerche e, secondo SimilarWeb, sta già erodendo il traffico di molti siti d’informazione.

Un’altra sfida cruciale per il sistema mediatico è rappresentata da misinformazione e deepfake. Anche se mancano ancora dati certi, l’uso dell’IA per generare testi, audio e video sempre più realistici pone un problema all’autorità dei media tradizionali. Il recente lancio di Veo 3, il generatore video di Google, ha impressionato per il suo realismo, ma ha anche sollevato dubbi e preoccupazioni. Il rischio maggiore è il cosiddetto “utile del bugiardo” (liar’s dividend): in un clima generale di sfiducia in cui i contenuti falsi sono indistinguibili da quelli autentici, anche la verità può essere messa in dubbio, a vantaggio di chi agisce in malafede.

«Il liar’s dividend non ha a che fare solo con la tecnologia ma più con la disponibilità del pubblico ad accettare l’affermazione che qualcosa non è autentico perché si fida della persona che dice quella cosa», sostiene Simon. Secondo il ricercatore, per mantenere credibilità e fiducia la strategia migliore è la stessa di sempre: «Fare un’informazione attendibile e di qualità ed essere trasparenti sul processo». Perché il buon giornalismo non dipende dagli strumenti utilizzati, ma sta nella curiosità, preparazione e responsabilità del giornalista. Tutto questo, a prescindere da ogni progresso tecnologico, sarà sempre indispensabile.

ZETA + Per ottenere più informazioni sull'evoluzione dell'intelligenza artificiale leggi il nostro pamphlet in inglese. Un numero speciale in aggiunta al nostro mensile. Puoi trovare il pdf online sulla pagina Zeta Luiss

La comunità Sikh nell’Agro Pontino Cultura

Una presenza radicata nel tessuto agricolo locale segnata da percorsi migratori complessi, condizioni di vulnerabilità sociale e dinamiche di sfruttamento

Lungo la strada litoranea che attraversa le campagne dell’Agro Pontino, un cartello segnala quella che sembra una piccola cittadina. «Benvenuti a Bella Farnia Mare», si legge, con sotto la traduzione in lingua punjabi. Dopo una stretta stradina che conduce al complesso di case, in una piazza si trova il camion della FlaiCgil, il sindacato dei lavoratori agricoli, dove ogni giovedì gli operatori accolgono le richieste dei lavoratori in difficoltà.

«Bella Farnia era un quartiere ricco, dove veniva in vacanza la “Roma bene”» spiega Sonya Kaur Hardeep, che lavora per la Cgil-Flai e opera come traduttrice. Hardeep è nata in Italia da genitori di origine indiana, dallo stato del Punjab. Dallo stesso stato vengono la maggior parte dei lavoratori che vivono a Bella Farnia. Una folla si crea velocemente intorno al camion dove Sonya lavora. Tra i presenti, molti sono arrivati in Italia con un permesso di soggiorno stagionale, giunti legalmente grazie al Decreto Flussi. Quest’ultimo regola l’ingresso di lavoratori stranieri in Italia attraverso quote annuali.

Tuttavia, il decreto si presta a distorsioni: molte aziende, approfittando delle difficoltà del sistema, si affidano a intermediari illegali, come i caporali. Questo avviene anche quando le

quote sono disponibili, poiché il meccanismo favorisce un incontro “a distanza" tra datore e lavoratore, che spesso non si realizza nei fatti, lasciando spazio ad abusi e irregolarità.

I cosiddetti “caporali” chiedono migliaia di euro in cambio di documenti e sfruttano i migranti offrendo lavori precari e sottopagati in condizioni dure e non sicure. I lavoratori sfruttati, non consapevoli dei propri diritti e limitati dalle difficoltà linguistiche, rimangono spesso chiusi in un limbo di illegalità. Molti lavoratori, come Manni Singh, hanno dovuto pagare intorno ai 10 mila euro per venire in Italia. «Sono venuto in Italia per realizzare il mio sogno: dare alla mia famiglia la vita che si merita. Ho preso un prestito, ma una persona ha riempito la mia vita di sofferenza. Mi ha preso 10 lakh e 28 mila rupie e mi ha procurato un visto per soli 9 mesi», spiega il lavoratore. Dopo più di quattro mesi ancora non ha le carte promesse, né il lavoro che aveva sognato.

Tra i lavoratori che hanno vissuto una condizione di sfruttamento c’era anche Satnam Singh, un migrante che il 17 giugno 2024 è stato lasciato morire davanti alla sua abitazione dal datore di lavoro. Un macchinario gli aveva amputato un braccio e il titolare dell’azienda, Lovato, invece di chiamare i soccorsi, ha messo l’arto in una cassetta della frutta e, insieme alla moglie, lo ha portato davanti casa. Il processo contro Lovato è attualmente in corso con l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale. «Non è solo un problema presente nell’Agro Pontino ma è un modello di sfruttamento che avviene in tutta in Italia» spiega Stefano Morea, segretario generale della Flai-Cgil Roma e Lazio. Dopo la morte di Satnam Singh le cose hanno iniziato a cambiare, ma l’immigrazione dei sikh del Punjab all’Agro Pontino permane.

Verso le 7 di sera, il camion dove si trova Sonya inizia a chiudere le sue porte. Andandosene, porta con sé uno dei pochi collegamenti di Bella Farnia con il mondo esterno. Intanto le biciclette arrivano nel quartiere sikh: sono i lavoratori che, dopo una giornata nei campi, fanno ritorno alle loro case.

1. Manni Singh

La rinascita della Love Parade

Cambia il nome, non la sostanza. A Berlino torna l' evento techno che ha fatto ballare milioni di ravers

In principio era la Love Parade. La storica parata stava alla techno berlinese degli anni novanta come il Berghain sta alla Berlino del XXI secolo. Tutti gli appassionati di musica elettronica hanno sognato almeno una volta di tornare indietro nel tempo per vivere l’esperienza di quelle folle oceaniche. Migliaia di giovani e meno giovani che ballano in modo sfrenato. Per strada, sui camion o sui pali della luce. Nessuna misura antiterrorismo, nessun distanziamento sociale, ma soprattutto nessun cellulare in vista. Delle prime edizioni restano poche registrazioni analogiche e le testimonianze di ravers che ormai hanno superato la soglia dei cinquanta. «Era una scena primordiale, non ancora corrotta dalle logiche commerciali», racconta Maxim, classe 1975. «Eravamo liberi di essere noi stessi, senza regole e filtri. Tutto era così puro».

La prima Love Parade è nata quasi per gioco. Era il 1 luglio 1989 e mancavano alcuni mesi alla caduta del Muro. Il DJ Dr. Motte e l’amica Danielle De Picciotto volevano organizzare una manifestazione per la cooperazione tra i popoli, basata sull’amore e sulla musica elettronica. L’idea di registrare l’evento come un corteo è venuta a un’impiegata comunale, Miriam Scheffler. In un’intervista per Zeit ricorda: «Eravamo centocinquanta persone con tre camion per la musica. Arrivati al punto di incontro abbiamo iniziato a ballare sul posto. La polizia, però, ci ha spiegato che ci saremmo dovuti muovere

lungo il percorso designato, per le strade della città. È stata una sensazione unica. L’atmosfera era così rilassata che anche i poliziotti battevano i piedi a tempo».

Dopo quell'edizione improvvisata la Love Parade diventa un appuntamento annuale. Lo slogan è sempre lo stesso: Friede, Freude, Eierkuchen (Pace, amore e pancakes). La curiosità si sparge in fretta nella scena underground europea. Il successo della parata è talmente grande che in altre città si tenterà di emularla: a Zurigo nasce la Street Parade, ad oggi la più grande manifestazione di musica techno al mondo. Dal 1996 la Love Parade si trasferisce nel suo habitat definitivo, il viale principale di Tiergarten, davanti a Brandeburger Tor. È la sua epoca d’oro: nel 1999 i partecipanti sono oltre un milione e mezzo. La Colonna della Vittoria al centro del parco diventa l’icona della scena elettronica mondiale. «Ai piedi del monumento hanno suonato i mostri sacri del genere, come Carl Cox e Sven Väth», racconta Maxim.

A metà anni 2000, però, arriva il declino. L’evento inizia a diventare troppo commerciale, al punto che lo stesso Dr. Motte decide di uscire dall’organizzazione. Poi, la tragedia che ne decreta la fine: nell’edizione del 2010 a Duisburg ventuno giovani muoiono in un tunnel, schiacciati dalla calca. La manifestazione viene messa al bando e mai più riproposta.

Fino al 2021, quando Dr. Motte decide di riprovarci, organizzando una nuova parata adattata ai valori degli anni venti. Più sicura, sostenibile e inclusiva. L’obiettivo principale è promuovere la pace e il rispetto per le diversità. Un’altra battaglia, vinta nel 2024, è il riconoscimento della techno berlinese come patrimonio culturale dell’umanità. Il 12 luglio la Rave the Planet arriverà alla quarta edizione. Maredon, urbanista di Amburgo, non se n’è persa neanche una. «Vengo ogni anno per vedere la mia amica Sylvie suonare. Amo la parata. Attraverso la musica contribuiamo a creare un mondo più gioioso e pacifico». Anche Maxim continua a partecipare, stavolta con moglie e figli: «Non è la Love Parade delle origini. La musica è cambiata, i vestiti sono cambiati. Meno eccentrici, forse. E ci sono più cellulari in vista di quanto mi piaccia», scherza. «Lo spirito, però, è sempre lo stesso. I cuori di migliaia di persone battono all’unisono, al ritmo della techno. In un sistema che ci vuole divisi, i bassi abbattono ogni barriera. Ci scopriamo uniti, nessuno escluso».

Maschi in crisi la commedia del cambiamento

Quattro paesi, una serie e un tema comune: la difficoltà degli uomini ad adattarsi a un mondo dove le donne alzano la voce

di Gizem Daver

Nel 2022, la serie spagnola Machos Alfa è stata un successo su Netflix. A gennaio 2025 è stata trasmessa un adattamento francese Super Mâles, seguito a febbraio da una versione olandese Haantjes.

A maggio è arrivato anche l’adattamento italiano, Maschi Veri su Netflix diretto da Matteo Oleotto che affronta in modo ironico i conflitti vissuti da quattro amici «machos» sugli eventi di un'epoca in cui le donne hanno più voce. Sono Mattia (Maurizio Lastrico), Massimo (Matteo Martari), Riccardo (Francesco Montanari) e Luigi (Pietro Sermonti). Massimo viene licenziato e al suo posto viene assunta una donna, Roberta, interpretata da Anna Favella.

L’attrice si esprime: «È stato molto divertente girare questa serie, innanzitutto perché comunque ero circondata da persone meravigliose e supersimpatiche, quindi già girare una commedia con persone così è tutto più facile». Sulle differenze culturali legate alla trama della serie afferma: «Purtroppo è una tematica che fa parte un po' di diverse culture, per quanto la cultura italiana e la cultura spagnola siano simili, però ovviamente hanno delle tradizioni diverse.

Hanno trovato un modo di parlare di questo aspetto della mascolinità tossica in modo efficace sia in Spagna sia in Italia».

Favella aggiunge: «Mi è capitato di lavorare anche in altri paesi e comunque di affrontare questo argomento anche parallelamente in altri lavori che ho fatto e ho visto che è una tematica che appartiene a tutti. Ovviamente, a seconda della cultura, ha degli sbocchi diversi, però purtroppo non c'è ad oggi un luogo dove la situazione sia un po' più bilanciata, dove la figura dell'uomo e della donna siano paritarie e quindi

ovviamente poi subentra tutto un discorso anche di cultura, di religione, di politica, ma in alcuni paesi è più difficile ancora rispetto all'Italia. Però io sono un po' un’ottimista, spero che il fatto che ogni popolo parli e mostri un aspetto di questo tema possa influenzare in maniera positiva anche altre culture e altri paesi».

A proposito delle critiche ai remake che si ispirano alle serie originali commenta: «Per i remake, è un prodotto creativo, quando è fatto bene apporta anche delle novità e dei dettagli propri del paese a cui si rivolge. Sicuramente io sono per le serie originali, i film originali e le scritture originali. Noi abbiamo degli sceneggiatori e autori bravissimi che sono nascosti, messi in disparte.

Però dall'altra parte nella storia dei film e delle serie tv ci sono stati dei remake a mio avviso che sono stati ancora più carini della serie originale». Favella osserva che, nella realtà come nella serie, gli uomini sembrano fare più fatica ad adattarsi ai cambiamenti della società rispetto alle donne perché sono meno preparati. Per lei, questo

avviene perché le donne da tempo lottano per trovare il proprio posto nel mondo.

«Questa lotta non è per collocare la donna al di sopra dell'uomo, ma per collocare la donna a essere pari all'uomo». L’importanza della collaborazione tra generi è la base del cambiamento. «Per raggiungere la parità di genere, la donna ha bisogno dell'aiuto dell'uomo. Così l'uomo ha bisogno della donna, della presenza della donna, anche per uscire da questo discorso di mascolinità tossica. Questa sinergia tra uomo-donna, tra i vari generi, è un interscambio che può solamente arricchire e che può rafforzare entrambi i generi».

La poesia performativa accende Roma

Intervista a Lorenzo Maragoni, campione italiano e mondiale di Poetry slam

«Se credete di essere dei poeti, siete fuori strada: siete delle persone. Se credete di essere delle persone, siete fuori strada: siete dei poeti!». Lorenzo Maragoni agita le braccia e il ciuffo brizzolato, scandendo i suoi versi con ironia e passione sul palco di un locale notturno romano. Una sola luce è puntata su di lui, mentre incalza il pubblico: «Cosa state aspettando per iniziare a scrivere, a scrivervi addosso, a fare della vostra vita una poesia? Cosa vi serve, una benedizione? Ve la do io!». Il pubblico ride e schiocca le dita, mentre Maragoni benedice tutti in nome di Dante, Petrarca, Patrizia Cavalli e altri grandi della letteratura.

Classe ‘84, originario di Terni, Maragoni è campione italiano (2021) e mondiale (2022) di Poetry slam, un format di eventi nato negli Stati Uniti negli anni ’80. Si tratta di competizioni di poesia in cui diversi autori si alternano in tre manches con tre componimenti diversi.

Le regole: il testo deve essere originale, niente costumi di scena, massimo tre minuti di tempo. Decreta il vincitore una giuria composta da spettatori scelti casualmente dal pubblico, che al termine di ogni esibizione mostrano i propri voti scritti su lavagnette. Niente applausi durante le esibizioni, solo schiocchi di dita. A Roma, la maggior parte degli eventi è organizzata da WOW – Incendi Spontanei, collettivo di cui Maragoni fa parte.

«Tecnicamente è poesia performativa», spiega Maragoni. «Non è pensata per essere detta, ma per essere letta. Già mentre scrivi, immagini come suoneranno i versi e che relazione instaureranno col pubblico». Potrebbe sembrare teatro, ma non lo è. «A teatro interpreti un personaggio. Qui sei te stesso. Incontri il pubblico mettendoti a nudo».

Sul palco si alternano racconti autobiografici, riflessioni politiche, ironie quotidiane e traumi personali. Tutto si regge sulla parola: ritmo, immagini, assonanze e metafore costruiscono una poesia viva, diretta, spesso viscerale. «Capovolge l’idea tradizionale della poesia come solitaria ed elitaria: è orale, popolare, aperta, partecipata». Una sorta di rap addolcito, di poesia di strada, di epica urbana: un filo che connette Omero ai giorni nostri. Il pubblico, soprattutto giovane, cerca autenticità e parole che raccontino il presente senza filtri.

«Ho trovato spettatori attenti, curiosi, pronti ad ascoltare. Mi sono detto: “Ok, questa è casa mia”», ricorda Maragoni, pensando ai suoi inizi nel 2018.

Tra loro, oggi, ci sono tanti ragazzi che aspirano a salire su quel palco. Come Francesco Andriani, appena trentenne: «Ho partecipato a un workshop con Maragoni e da lì ho iniziato a scrivere. A Roma ci sono tanti open mic: è un ambiente stimolante, ti invoglia a provarci».

Emilia, coetanea di Francesco, da circa un anno frequenta assiduamente gli eventi: «Ogni serata è diversa. Ti fa riflettere su temi che nella vita quotidiana non affronti. È un modo per staccare dalla routine e allo stesso tempo lascia spazio a emozioni profonde». A Roma, il Poetry Slam sta accendendo una nuova fiamma culturale tra le giovani generazioni, riportando la poesia al suo antico potere orale e collettivo.

Cultura LXXIX edizione Premio Strega

La cinquina finalista del premio letterario è stata annunciata il 4 giugno 2025. Il titolo vincitore verrà decretato il 3 luglio al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma

a cura di Lavinia Monaco
a cura di Ludovica Esposito
a cura di Giulia Rugolo
a cura di SIlvia Della Penna
a cura di Lavinia Monaco

Cultura Un’estate tra le righe

Sole, mare e relax: gli elementi perfetti per immergersi in nuove storie da divorare sotto l’ombrellone. Cinque libri da non perdere e da mettere in valigia o nello zaino per le vacanze

a cura di Giulia Rugolo

Oroscopo

a cura di Matilde Nardi

Luiss Data Lab

Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione

Partners: ZetaLuiss, MediaFutures, Leveraging Argument Technology for Impartial Fact-checking, Catchy, CNR, Commissione Europea, Social Observatory for Disinformation and Social Media Analysis, Adapt, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School, Parlamento europeo

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Lectures: Marc Hansen, Sree Sreenivasan, Linda Bernstein, Ben Scott, Jeremy Caplan, Francesca Paci, Emiliana De Blasio, Colin Porlezza, Francesco Guerrera, David Gallagher, Claudio Lavanga, Eric Jozsef, Federica Angeli, Paolo Cesarini, Massimo Sideri, Davide Ghiglione

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