Azione 31 del 30 luglio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 30 luglio 2018

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Società e Territorio Un libro racconta gli scavi archeologici compiuti al Castello di Serravalle

Ambiente e Benessere Asteroidi in avvicinamento? Capita che la terra venga colpita da meteoriti piccoli o grandi: il fenomeno è costantemente monitorato

Politica e Economia In Pakistan vince Imran Khan, molto vicino agli islamisti e all’esercito

Cultura e Spettacoli Anche le zitelle non sono più quelle di un tempo, come ci racconta Valeria Palumbo

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Keystone

Il sogno di un teatro sulle Alpi

di Fabio Dozio pagina 24

Storie d’oltreconfine di Alessandro Zanoli Luisa e Luigi avevano pensato di sposarsi quest’anno. Dopo quasi dieci anni di convivenza, avevano deciso che era venuto il momento di dare alla loro relazione una forma solida e tradizionale. In realtà era un po’ un pretesto per festeggiare con gli amici, riunendoli in una giornata diversa dalle altre. Avevano già scelto la location, abiti e ristorante. Poi sono arrivate le elezioni. «Se entra il vigore il reddito di cittadinanza non ci conviene essere sposati». Luisa infatti è attualmente disoccupata. Sta già percependo un sussidio che le permette di sopravvivere e che, comunque, non è molto minore di quanto guadagnava in precedenza, come segretaria in una piccola azienda di Bergamo. Luisa e Luigi sono previdenti e hanno raccolto già informazioni: non si sa dove, in realtà, visto che il proposito elettorale del Movimento 5 Stelle è ben lontano, per ora, dalla possibilità di essere realizzato. Comunque i due amici hanno già capito che il reddito di cittadinanza non sarà cumulabile allo stipendio di lui. Quindi sposarsi, a questo punto, non conviene. Nell’attesa che si chiarisca la situazione legislativa preferiscono prendere tempo.

Un fatto è certo: questa promessa elettorale ha fatto breccia. Nei giorni seguenti alle elezioni italiane si era diffusa la notizia che in vari comuni del Sud Italia molte persone si fossero rivolte agli uffici comunali per iniziare le pratiche di richiesta. Insomma, la precarietà nel mondo del lavoro ha instillato speranze e sta effettivamente influenzando il modo di vedere il proprio futuro di molti cittadini italiani. Non soltanto nel Sud. Nonostante questa impasse strategica, però, Luisa e Luigi non hanno rinunciato all’idea di ristrutturare il proprio appartamento, in vista della loro convivenza. Contando sui loro risparmi hanno pensato di rinnovare la cucina, la camera da letto e persino di sostituire le finestre, per migliorare il profilo energetico dell’abitazione. La cucina l’hanno acquistata in un grande magazzino specializzato, in grado di proporre prezzi veramente concorrenziali. Il montaggio a domicilio è stato curato da un gruppo di immigrati siriani. «Lavorano in squadra e si sono annunciati all’amministrazione delle varie aziende di arredamento» ci spiega Luisa. «Quando un cliente fa un’ordinazione, loro consegnano la merce e allestiscono la cucina. Con il passaparola tra con-

nazionali sono riusciti a creare delle microaziende artigianali: solo in Lombardia sono centinaia, composte da operai di varie nazionalità». La nuova camera da letto, infatti, acquistata in un altro «supermercato dell’abitazione», è consegnata e montata da una squadra di macedoni. «Solo uno di loro parlava l’italiano, e neanche troppo bene» commenta l’amica. «Gli altri seguivano le sue istruzioni, ma tutto è andato perfettamente». Per le finestre c’è voluto un po’ più di lavoro. «Il ragazzo che è venuto a prendere le misure aveva un bell’accento bergamasco. Addirittura buttava là qualche parola in dialetto». Alla fine si è rivelato un albanese, emigrato in Italia a metà degli anni 90, nel periodo di quegli sbarchi drammatici che ancora ricordiamo. Con il suo piccolo gruppo di compatrioti ha messo su una piccola azienda efficientissima. «In una giornata hanno posato tutte le finestre, smaltito quelle vecchie portandole a un connazionale che le riaggiusta e ricicla» commenta Luigi. «Al momento di andare, erano ormai le 8 di sera, gli ho detto “Adesso andrete a riposarvi”. E quello: “Eh no, devo andare a Lecco per fare un preventivo”». Luigi non ha avuto modo di chiedergli cosa ne pensa, lui, del reddito di cittadinanza.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 luglio 2018 • N. 31

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Attualità Migros

M Un’azienda sana è un’azienda efficiente

Intervista A colloquio con Marcel Burkhardt, per discutere di salute

sul posto di lavoro e del Marchio Friendly Workspace®, che è stato riconfermato a Migros Ticino

Promozione Salute Svizzera è una fondazione privata, sostenuta da cantoni e da assicuratori. Ha due sedi, situate negli uffici di Berna e Losanna. Su incarico della Confederazione avvia, coordina e valuta misure di promozione della salute: la sua base legale è fornita dalla Legge federale sull’assicurazione malattie, articolo 19. Obiettivo a lungo termine di Promozione Salute è migliorare lo stato di salute della popolazione con tre campagne chiave: la promozione di un controllo del peso corporeo sano, la riduzione dei fattori che nuocciono alla salute psichica (in particolare lo stress) e, più in generale, la promozione della salute e della prevenzione. Una delle iniziative più concrete è la creazione del marchio Friendly Work Space®, assegnato alle aziende che si impegnano a gestire il rapporto con i propri dipendenti secondo criteri di protezione della salute. In occasione dell’attribuzione a Migros Ticino del Marchio «Friendly Workspace®» abbiamo chiesto a Marcel Burkhardt, responsabile per la Sensibilizzazione & Diffusione di Promozione Salute Svizzera, di spiegarci in cosa consiste il marchio. Marcel Burkhardt, in che modo il label Friendly Work Space® rientra nelle attività di Promozione Salute Svizzera?

Friendly Work Space® è l’unico sigillo svizzero riconosciuto di qualità che attesta una Gestione Salute in azienda (GSA) di successo. La gestione della salute in azienda (GSA) è un compito dirigenziale e si rivela nel comportamento quotidiano dei dirigenti, ad esempio, quando questi ultimi sono in grado di individuare tempestivamente situazioni di lavoro sfavorevoli e di coinvolgere i collaboratori nella ricerca di soluzioni. Tutti i criteri di qualità di Friendly Work Space® vengono promossi dalla Segreteria di Stato dell’economia SECO e dall’Ufficio federale della sanità pubblica UFSP.

Il benessere dei collaboratori è un fattore fondamentale. Come viene assegnato il label? Quali parametri vengono osservati?

Friendly Work Space® viene assegnato alle aziende che adottano un approccio sistematico che consente loro di offrire buone condizioni di lavoro ai propri dipendenti. La salute dei dipendenti è alla base della produttività e della redditività. È una condizione necessaria per il successo a lungo termine dell’azienda.

Cosa viene osservato concretamente, per assegnare il marchio?

Nell’ambito della loro valutazione, gli esperti di promozione della salute in Svizzera esaminano se e come le aziende attuano la gestione della salute nei luoghi di lavoro e come la promozione della salute sia integrata nella politica di gestione. Oltre alla pianificazione sistematica delle misure, sono centrali anche le questioni relative all’interconnessione delle singole misure e alla loro valutazione dopo l’attuazione. Il fatto che i criteri per promuovere la salute dei dipendenti siano diversi, orientati ai bisogni e alle necessità, è premiato. Come è stata per voi l’esperienza con Migros Ticino?

Lo scetticismo che a volte le aziende provano all’inizio del loro lavoro generalmente scompare con la definizione dei criteri di Friendly Work Space®. La collaborazione con Migros Ticino è stata molto piacevole fin dall’inizio. Il management si è impegnato molto per la salute dei dipendenti e dà un importante contributo al suo mantenimento. Tutti gli esponenti hanno affrontato

il progetto con motivazione e hanno istituito un grande sistema di gestione della salute in azienda.

Attualmente Migros Ticino è l’unica azienda certificata nel nostro cantone, dal 2015. Come cercate di estendere la diffusione del label in Ticino? E qual è la situazione negli altri cantoni?

In uno studio pilota condotto tra il 2008 e il 2011, la fondazione ha valutato gli effetti della gestione della salute sulle aziende. È emerso che, le aziende perdono 8000 franchi in meno all’anno di produttività e di dipendenti, hanno 2,6 giorni in meno di assenze all’anno e di dipendenti e il 25% in meno di personale stressato. Lo studio è stato condotto per due anni in otto sedi con oltre 5000 dipendenti, tra cui ABB, GE Svizzera (ex Alstom) e Nestlé. Un buon motivo per le aziende ticinesi di investire nella salute dei propri dipendenti. Visitiamo le aziende e mostriamo loro come possono affrontare il progetto gestione della salute Friendly Work Space®. In Svizzera, 79 aziende, di cui il 40 per cento PMI, hanno già il marchio Friendly Work Space® e sono sempre più numerose. Il marchio esiste appena dal 2009 e circa 300’000 dipendenti lavorano già in un’azienda certificata. Grazie a Migros Ticino speriamo ora che sempre più aziende ticinesi decidano di impostare la propria gestione della salute aziendale in base al sistema Friendly Work Space®, diventando così un’azienda esemplare.

Nuovi diplomati a Migros Ticino

Formazione Quattordici tirocinanti

sono giunti alla fine del loro percorso di apprendistato, mentre si prepara l’esposizione nazionale delle professioni Swiss-Skills, con il sostegno di Migros Nelle scorse settimane si sono conclusi gli esami per gli apprendisti di Migros Ticino con esito molto positivo. Tre giovani hanno anche ricevuto la medaglia di bronzo per aver ottenuto una media finale superiore al 5,2. Nella fotografia, scattata davanti alla filiale di S. Antonino, 9 dei 14 tirocinanti che hanno concluso la formazione. In piedi da sinistra: Elia Patt (do it, OBI), Mattia Salvatore (alimentari, Minusio), Yari Cenci (alimentari, Grancia), Davide Sirianni (logistica, Centrale), Daniele Scardamaglia (consumer eletronics, Taverne). Seduti da sinistra: Nicol Martinoni (profumeria, Locarno), Katarina Micic (alimentari, Biasca), Giovanni Mazzotta (garden, OBI), Fabio Scialpi (consumer eletronics, S. Antonino). Assenti al momento della premiazione: Davide Vannini (casalinghi, Serfontana), Micael Correia Melo (alimentare, Solduno), Giovanni Altamura (logistica, Centrale) e Daniel Estevez (logistica, Centrale). Come negli anni scorsi, malgrado la difficile situazione economica,

Foto di gruppo per i neopromossi.

Per conoscere i gerenti delle filiali Migros Ticino Romina Favale

L’esperienza di Migros Ticino Un commento sul percorso intrapreso e una valutazione di Rosy Croce, responsabile Risorse Umane di Migros Ticino. «Dall’ottenimento del label ad oggi, tutta l’azienda si è arricchita di quei valori e principi favoriti da una gestione della salute strutturata e applicata attraverso criteri di qualità, portando tangibili risultati in ambito organizzativo, a livello di motivazione e di attenzione nei confronti della salute e della sicurezza dei nostri collaboratori. Bisogna ammettere che il progetto è stato impegnativo, tuttavia è stato

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

affrontato con grande impegno ed entusiasmo da parte di tutte le persone coinvolte. Per poter adempiere ai requisiti di qualità richiesti per l’ottenimento del label abbiamo dovuto analizzare quanto già esisteva e ridisegnare il sistema della Gestione della salute in azienda, ottimizzando e revisionando la nostra organizzazione, i processi, gli strumenti e le misure implementate in ambito di gestione dei collaboratori, con un approccio molto più strutturato e volto al miglioramento continuo. Dal Management

al collaboratore, si è oggi più attenti e sensibili ai temi legati alla salute e ad una politica di gestione partecipativa, attraverso una conduzione attenta ai bisogni sia del singolo sia dell’azienda. Per la Cooperativa è un grande piacere poter confermare il riconoscimento del Label Friendly Work Space® ed essere accreditata quale azienda che si distingue nella gestione dei propri collaboratori con un approccio sistematico attento alla gestione della salute, un traguardo ancorato negli obiettivi strategici della Cooperativa».

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Migros Ticino si impegnerà ad offrire un posto di lavoro ai neo diplomati, permettendo loro così, di continuare un processo di crescita grazie agli strumenti di sviluppo professionale messi a disposizione dal Centro di formazione della Cooperativa, e ai piani di carriera proposti internamente. Da ricordare inoltre che a livello nazionale Migros sarà presente a Berna dal 12 al 16 settembre 2018 agli SwissSkills 2018 della BernExpo, padiglione 3.2. Questa sarà l’occasione di conoscere di persona apprendisti, formatori e formatrici professionali delle 40 società di formazione del Gruppo Migros, di confrontarsi con loro e conoscere più da vicino il Gruppo Migros e i suoi apprendistati. A Berna saranno rappresentate in totale 135 professioni, delle quali 75 svolgeranno i propri campionati svizzeri professionali. Nelle manifestazioni previste sono coinvolte 71 associazioni di categoria. Sono previste offerte speciali per le scuole: i biglietti sono disponibili su www.swissskills2018.ch (gratuiti per i giovani sotto i 22 anni).

Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Luogo di lavoro: filiale di Paradiso Data di nascita: 3.4.1974 Animali domestici: due gatti, Jim e Morfeo Hobby: amo tanto camminare in mezzo alla natura (montagna, boschi), pratico yoga e meditazione Aggettivi per descrivermi: affidabile, riflessiva, tenace e socievole Cosa voglio offrire ai clienti: personale competente di cui si possano fidare e un ambiente familiare dove si possano sentire a casa

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 luglio 2018 • N. 31

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Società e Territorio La giustizia riparativa Un nuovo modello concettuale per impostare la punizione dei crimini propone nuove forme di risarcimento verso le vittime pagina 4

Cara mamma, caro papà Un opuscolo curato dall’associazione donnedellaterra cerca di rispondere alle domande legate all’educazione dei figli di famiglie non coniugate pagina 5

Serravalle, mille anni di storia

Archeologia Un volume racconta le vicende

Roberto Porta Un salto nel Ticino del Medioevo per tornare su per giù all’anno Mille. Per scoprire e capire chi fossero i nostri antenati e quale fosse il tipo di vita che conducevano. Un viaggio nel tempo reso possibile dalle tracce archeologiche che per più di sei secoli sono rimaste celate sotto le mura del Castello di Serravalle, situato su una rocca nei pressi di Semione, all’imbocco della Valle di Blenio. È quanto ci permetterà di fare un volume di prossima pubblicazione (edito dall’Accademia di Architettura di Mendrisio e dall’Associazione svizzera dei castelli di Basilea) che riassume i risultati degli scavi archeologici compiuti tra il 2002 e il 2006 da una squadra di specialisti guidati dall’archeologa e storica Silvana Bezzola Rigolini e dal professor Werner Meyer. «Il primo impulso è arrivato dell’Associazione Amici del Castello di Serravalle che si è rivolta all’Accademia di architettura di Mendrisio. Da lì sono stata coinvolta anche io» ci dice l’archeologa ticinese «e abbiamo chiesto il sostegno del Fondo nazionale per la ricerca scientifica, coinvolgendo anche l’università di Basilea e l’Ufficio dei beni culturali. Il progetto nel suo complesso è stato sostenuto da diversi enti pubblici e privati, in particolare dal generoso contributo del Comune di Serravalle e dei comuni della valle di Blenio». Un lavoro che porta dunque il sigillo di ben due università e che anche in questo senso rappresenta una prima storica per il canton Ticino. «È stato particolarmente interessante svolgere queste ricerche, perché il tardo Medioevo in Ticino, per quanto riguarda gli edifici non religiosi, non era mai stato indagato dal punto di vista archeologico in modo sistematico» sottolinea Silvana Bezzola Rigolini: «Abbiamo in particolare scoperto che a Serravalle non c’è un solo castello ma due. Abbiamo infatti ritrovato un primo castello sotto la superficie del terreno, di cui non si aveva alcuna testimonianza materiale. Abbiamo potuto studiare le diverse fasi architettoniche

che hanno portato nei secoli alla realizzazione di queste due stutture». Con un mistero che continua comunque ad essere tale. Non è tuttora possibile stabilire con esattezza il periodo in cui la prima fortezza è stata edificata, anche se diversi indizi lasciano pensare che il sito fosse abitato già attorno all’800/900 dopo Cristo. Venne distrutto una prima volta dopo il 1176 dai Milanesi, che avevano precedentemente sconfitto a Legnano le truppe di Federico Barbarossa. Lo stesso imperatore aveva soggiornato per quattro giorni a Serravalle, affidando poi il castello a famiglie nobili della regione sue alleate. Il maniero fu poi ricostruito dagli stessi Milanesi tra il 1230 e il 1240, anche per poter meglio controllare la via di transito del Lucomagno. «Abbiamo potuto scoprire anche come avvenne la distruzione di questi due castelli» ci spiega la studiosa. «Il secondo, ad esempio, fu attaccato con l’ausilio di balestre e archi. Abbiamo rinvenuto centinaia di punte di freccia. Il castello fu attaccato, saccheggiato, incendiato e poi con l’intervento di una squadra di specialisti fu ulteriormente demolito. Non sappiamo chi lo abbia distrutto con certezza perché non ci sono fonti storiche a supporto di indicazioni precise. Sappiamo però che la leggenda secondo la quale furono gli abitanti stessi della Valle di Blenio non può essere vera, perché solo un esercito potè compiere un tale attacco. I Bleniesi non avevano le forze e i mezzi per farlo, anche se possiamo immaginare che abbiano dato il loro sostegno all’assalto». Gli scavi archeologici non si sono limitati a far luce su queste battaglie militari, hanno anche permesso di portare alla luce migliaia di oggetti legati alla vita quotidiana di chi nei secoli ha abitato quella fortezza. «Abbiamo rinvenuto numerose tipologie di reperti» precisa l’archeologa Bezzola Rigolini: « Ceramica di lusso, ad esempio, proveniente dall’Italia del nord, o i reperti in vetro, provenienti anche dal centro Europa. Per quanto riguarda il primo castello abbiamo trovato alcuni proiettili di trabucco che servirono per distrug-

Ugo Wolf

di uno dei più antichi castelli della Svizzera italiana

gerlo. Si tratta del ritrovamento più a nord in Europa a testimonia dell’utilizzo di questa macchina da guerra proveniente dall’Oriente». Insomma ritrovamenti qualitativamente e quantitativamente rilevanti che per meglio capire il tipo di vita condotto allora, sia all’interno sia all’esterno del maniero. «Grazie allo studio dei reperti possiamo risalire alla loro provenienza. A Serravalle confluivano la cultura lombarda, quella alpina e quella del nord Europa; era proprio un punto di congiungimento tra nord e sud. Il castello era una lussuosa villa dove abitava una famiglia importante, molto agiata, che amministrava la valle e poteva permettersi di importare e godere di oggetti particolarmente preziosi. Abbiamo ritrovato anche decine di migliaia di ossa animali, a dimostrazione del fatto che dentro le mura del castello molto spesso si consumava carne, anche di animali giovani; un altro indizio di benessere economico». Ricchi dentro le mura, poveri in gran parte nel resto

della Valle di Blenio, dove gli abitanti non si potevano di certo permettere i mangiare carne così frequentemente. «Chi abitava nel castello aveva la gestione del territorio e il controllo sui passaggi e sui commerci attraverso il Lucomagno. La popolazione quindi non vedeva pertanto di buon occhio questi signori, che dominavano sulle loro terre». Anche da qui la distruzione definitiva del castello nel 1402. Va detto che per oltre 600 anni le rovine della struttura furono completamente abbandonate. Solo alla fine gli anni 30 del secolo scorso si è gradualmente manifestato un interesse per la riscoperta di questa fortezza, confluito in seguito, e siamo già nel 2006, anche in un progetto di valorizzazione di Serravalle, diretto dall’architetto Nicola Castelletti, accompagnato anche da un crescente interesse pure dal punto di vista turistico, come ci conferma Juri Clericetti, direttore di Bellinzonese e Alto Ticino Turismo. «Ritengo che il Castello di Serra-

valle sia un sito storico-culturale molto interessante e importante per la Valle di Blenio e di conseguenza un complemento della nostra offerta turistica, che va a integrarsi a quella dei tre castelli di Bellinzona» afferma Clericetti. «È un elemento che permette alla città di dialogare con la valle. Ricordo che il castello è parte integrante del circuito culturale della regione, che promuoviamo anche tramite il nostro sito internet, i social media e delle visite guidate organizzate presso le rovine. Senza dimenticare che Serravalle si trova anche lungo i circuiti destinati agli amanti della bicicletta e del rampichino. Insomma una struttura che promuoviamo su più livelli». In altre parole per questo terzo castello del canton Ticino – dopo Bellinzona e Locarno – c’è un futuro tutto da scoprire, per una vicenda storica iniziata ben più di mille anni fa. Informazioni

castello-serravalle.ch


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Società e Territorio

Riparare l’ingiustizia Diritto Un modo diverso di vedere l’intervento sui conflitti

Memoria collettiva: Festa dei vignaioli

che hanno un risvolto penale, creando uno spazio di dialogo e ascolto Lanostrastoria.ch Ci vogliono dieci anni per organizzarla, dieci anni per ricordarla

Laura Di Corcia Che cos’è la giustizia riparativa? Come agisce? Il Dipartimento di Diritto, Economia e Culture dell’Università degli Studi dell’Insubria ha inaugurato nella sede di Como il primo corso di perfezionamento in giustizia riparativa e mediazione umanistica, che verrà avviato il prossimo ottobre. Per l’occasione abbiamo avvicinato la Direttrice scientifica del corso, la docente di diritto Grazia Mannozzi, che ci ha permesso di fare un viaggio in un nuovo paradigma, una rivoluzione silenziosa che sta prendendo sempre più piede a livello internazionale. Il tentativo di una risposta costruttiva a qualcosa di distruttivo. Iniziamo a mettere le coordinate temporali del fenomeno. Dottoressa Mannozzi, da quanto tempo si parla di questo tema? E come ha cambiato l’approccio ai temi della giustizia?

Almeno dalla metà degli anni Settanta. Negli anni è maturato un modo nuovo e una sensibilità profondamente rinnovata verso il tema dei conflitti. Si tratta, in pratica, di una sorta di ripersonalizzazione della dimensione della giustizia, in quanto il reato sempre di meno viene letto come la pura violazione di una norma giuridica e sempre di più è accostato a una violazione dei diritti dell’uomo. Cosa cambia, nel concreto?

Prima i conflitti originati da un reato avevano una sola modalità di gestione, quella penalistica. Essa si basa sull’assunto della ritorsione, della vendetta, del rendere male al male. La vendetta è anche una cosa sensata quando questa viene assunta dallo Stato, perché dà delle risposte che tutelano le vittime. Allontanare, isolare l’autore del reato significa creare immediatamente condizioni di sicurezza per i cittadini, condizioni che però non di rado vengono smentite nel breve o nel lungo termine; spesso il carcere non restituisce alla società un soggetto capace di convivenza pacifica e reimmette nel circuito sociale potenziali criminali. La giustizia riparativa, dal canto suo, insegna che ai conflitti si può guardare in modo diverso, cercando risposte costruttive a eventi distruttivi. Il reato è per definizione un evento distruttivo, ma non per questo la sanzione deve essere tale. La sanzione distruttiva, per esempio, non restituisce niente alle vittime. Ma che cos’è quindi la giustizia riparativa?

Posso iniziare dicendo quello che la giustizia non è. Non è una giustizia buona o buonista. Non promuove il perdono o necessariamente la riconciliazione. La giustizia riparativa è una buona forma di giustizia che ha come primo obiettivo prendersi cura della sofferenza, dell’umiliazione, della solitudine e dei bisogni risarcitori delle vittime. Se la giustizia penale si occupa dell’autore del reato, la giustizia

Lorenzo De Carli

Grazia Mannozzi, ordinaria di Diritto penale all’Università dell’Insubria. (Youtube)

riparativa si occupa prevalentemente delle vittime.

Facciamo un esempio: una persona perde un caro per mano di una terza persona. Che si fa?

Questo è un esempio un po’ estremo e difficile, perché la perdita è irreparabile. È vero però che la giustizia riparativa può lavorare su questo, perché può consentire alle vittime di ottenere qualcosa che ha un valore infinitamente maggiore di un risarcimento. Ovvero un valore simbolico, di riconoscimento dell’esperienza di vittimizzazione. Fino a oggi siamo abituati a monetizzare qualsiasi conflitto, ma la logica del risarcimento pecuniario, che pure ha un senso perché si va a risarcire sia il danno materiale che quello morale, ha un grosso limite. Dà un prezzo a qualcosa che un prezzo non ce l’ha. Secondo la lezione di Kant ci sono cose che hanno un prezzo e cose che hanno una dignità. Alcuni tipi di perdite non sono economicamente apprezzabili perché la loro dignità non è monetizzabile. La giustizia riparativa offre delle soluzioni perché dona alle vittime uno spazio di ascolto e di incontro, eventualmente anche con l’autore del reato. Una dinamica dialogica che consente alle vittime di avvicinarsi ad una verità importante per loro, che spesso non coincide con la verità processuale. Un incontro e un dialogo che non mi immagino semplicissimi.

È difficilissimo per le vittime incontrare l’autore ed è ancora più difficile per l’autore incontrare le vittime, ma ci sono molte persone che invece chiedono questo incontro, perché per esempio possono fare all’autore del reato nello spazio protetto della mediazione tutta una serie di domande che normalmente non sono consentite in ambito processuale, in quanto irrilevanti per l’accertamento della colpevolezza. E invece a volte le vittime hanno bisogno di quelle risposte, per poter voltare pagina, per ripartire da quella esperienza ma collocandola in uno spazio e in un tempo che consente di andare avanti. Non sempre questo incontro è possibile, perché alcuni delitti sono

particolarmente efferati e violenti. Come agisce la giustizia riparativa in questi casi?

Offrendo uno spazio protetto di ascolto, dove le persone possono narrare la loro esperienza di vittimizzazione senza essere giudicate. Che non è poco, perché la prima sensazione che hanno le vittime è quella di una profonda solitudine, nel contesto di una vicenda processuale incerta, dove è possibile che non venga fuori la verità o che emerga una verità lontana da quella veramente vissuta dalle persone. Avere uno spazio di dialogo significa poter dare un volto a un male anonimo e sentirsi riconosciuti nella propria identità di vittime.

Presto diremo addio al diritto penale?

Nel momento in cui siamo è impossibile rinunciarvi. Intanto perché il diritto penale offre, prima ancora che un sistema di sanzioni, un sistema di precetti. Le principali norme incriminatrici si coagulano attorno ai precetti biblici: non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso. Il delitto penale riflette una tavola di valori che costituiscono le condizioni minime della convivenza pacifica. Per poter mediare un conflitto, per poter costruire un gesto di riparazione, bisogna avere come orizzonte quello del precetto, delle regole. Quello che può essere modificato è il tipo di risposta. Ci sono dei percorsi di giustizia riparativa, per esempio nel diritto penale minorile in Italia, che consentono di rinunciare alla pretesa punitiva, perché il soggetto ha posto in essere una serie di condotte riparatorie o antagonistiche dell’offesa che sono di per sé sufficienti per la vittima. Percorsi di giustizia riparativa possono essere attivati nella fase processuale o in fase di esecuzione delle sanzioni: in quel caso vanno proprio in parallelo con il sistema penale. C’è un altro elemento che impedisce di pensare alla giustizia riparativa come paradigma alternativo rispetto al diritto penale: la volontarietà di questi percorsi. Nessuna vittima e nessun autore può essere obbligato a un percorso di giustizia riparativa: non funzionerebbe.

Inserita nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, organizzata solo cinque volte durante un secolo (forse assecondando una cadenza suggerita dalla durata di vita dei ceppi di vite), la Fête des Vignerons, che si svolge a Vevey dal 1797, non è solo l’evento più importante del Canton Vaud: è anche una celebrazione collettiva che stabilisce un legame tra le generazioni che non ha eguali. Nel corso di una vita, a quante edizioni si può immaginare di partecipare? L’ultima si tenne nel 1999, la precedente nel 1977, poi si va indietro al 1955 – la prossima, di cui sarà regista Finzi Pasca, si svolgerà l’anno prossimo; ciò significa che per assistere a quattro edizioni bisogna vivere almeno novant’anni. È inevitabile, dunque, che il ricordo di ogni edizione è strettamente connesso ad una fase della propria vita molto ben isolata: «quand’ero bambino, da giovane, quando divenni genitore, ora che le cose sono lontane e vicine in un tempo». La Festa dei vignaioli è organizzata dalla Confrérie des Vignerons di Vevey allo scopo di premiare il lavoro dei migliori coltivatori di vite. La confraternita, che affonda le sue radici nel medioevo, cominciò a premiare i più bravi vignaioli nel 1772 e alla fine del Settecento vennero impostate le caratteristiche salienti della festa. Corteo pio diventato celebrazione profana, la Festa dei vignaioli valorizza il lavoro delle persone e il ciclo della natura, entrambi personificati con il supporto di allegorie pagane, costumi e simboli giudaico-cristiani. Sfilano le stagioni (con Bacco che rappresenta l’autunno) e i mestieri della terra, affiancati da creature come fauni, baccanti, gransacerdoti e gransacerdotesse. Nel corso dell’ultima edizione parteciparono cinquemila figuranti. Tale e tanto è l’affetto dei vodesi per questo evento, che sul portale di storia partecipativa «notreHistoire.ch»

Manifesto dell’edizione 1955.

sono stati spontaneamente pubblicati numerosi documenti dedicati alla Fête des Vignerons, in particolare fotografie scattate da genitori o nonni, desiderosi di documentare alle nuove generazioni la partecipazione personale ad un evento tanto importante per la collettività. Ad un anno dalla nuova edizione della alla Fête des Vignerons, è stata creata un’estensione di «notreHistoire.ch» esclusivamente dedicata all’evento: fetesdesvignerons.notrehistoire.ch, così da poter dar luogo ad un progetto editoriale omogeneo. Il funzionamento è lo stesso di «lanostraStoria.ch»: chiunque può liberamente consultare tutti i documenti disponibili, mentre gli iscritti ne possono pubblicare di nuovi e commentare quelli già online. Questa nuova piattaforma affianca quella ufficiale della Fête des Vignerons con lo scopo di offrire uno spazio collettivo, dove pubblicare liberamente sia foto o video di famiglia, sia i propri ricordi in forma scritta, realizzando le condizioni per la costruzione di una tangibile memoria collettiva. Questa nuova iniziativa editoriale del progetto nazionale in cui è inserita anche «lanostraStoria.ch» è stata salutata con tale favore, che la stessa Confrérie des Vignerons, dopo alcuni mesi dall’inaugurazione del portale, si è già distinta per il numero e la qualità dei documenti pubblicati, i primi dei quali risalgono al 1833, segno che gli organizzatori della celebre festa hanno già riconosciuto a «notreHistoire.ch» il ruolo di piattaforma online dedicata alla condivisione di emozioni tra generazioni diverse. I vodesi stanno rispondendo con crescente partecipazione a questa iniziativa editoriale, e gli archivi della RTS sono anch’essi presenti con documenti multimediali, i primi dei quali risalgono al 1927. Il successo che sta avendo la piattaforma dedicata alla Fête des Vignerons pone condizioni molto propizie per realizzare un’altra iniziativa in corso di sviluppo: un’analoga piattaforma dedicata al Montreux Jazz Festival. Anche in questo caso, la rete in cui è inserita «lanostraStoria.ch» diventerebbe la piattaforma liberamente disponibile per pubblicare ricordi e documenti personali dedicati ad uno dei più famosi festival di musica non solo Jazz, ma anche rock e pop della Svizzera. Queste iniziative editoriali sopraggiunte dopo dieci anni di attività di «notreHistoire.ch» dichiarano che i tempi sono maturi per un uso del web come luogo di co-costruzione della memoria collettiva, in particolare nelle condizioni offerte da iniziative di servizio pubblico sottratte alla logica del profitto e sostenute dalla convinzione che gli archivi sono beni pubblici. In questa prospettiva, occorrerebbe che sia gli archivi pubblici sia quelli privati aggiornassero i loro statuti, maturando una responsabilità non più solo conservativa ma anche editoriale. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Genitorialità, istruzioni per l’uso

Pubblicazioni L’associazione donnedellaterra propone un libretto di informazioni pratiche per mamme sole

o genitori non coniugati, frutto dell’esperienza di lavoro in campo sociale Stefania Hubmann La paternità, il cognome del figlio, il domicilio, l’autorità parentale, il mantenimento sono alcune questioni che si prestano a dubbi e interrogativi quando un figlio nasce da genitori non coniugati. Un pratico opuscolo, pubblicato dall’associazione donnedellaterra con il patrocinio del Comune di Paradiso e curato dalla presidente Mara Casanova, risponde con un linguaggio accessibile ma preciso alle molteplici domande che una nascita al di fuori del matrimonio può portare con sé. Al centro delle indicazioni, riflesso della legislazione in vigore, un’unica preoccupazione: il benessere del bambino. Il neonato simbolicamente scrive in copertina «Cara Mamma… Caro papà», evidenziando subito la necessità di crescere in un ambiente sano con la presenza e l’accompagnamento di entrambe le figure genitoriali. Ciò non è sempre scontato, semplice o possibile. L’esperienza professionale dell’autrice glielo ha ampiamente dimostrato e l’ha indotta a promuovere questa pubblicazione. Mara Casanova da diciotto anni è segretaria presso l’Autorità Regionale di Protezione (ARP) di Paradiso, attività affiancata per diversi anni dal ruolo di responsabile dei Servizi sociali del medesimo Comune. Ricordiamo che l’ARP è un’autorità civile che si occupa della protezione dei minori e degli adulti. Nel Cantone sono state costituite nel 2001 diciotto Commissioni tutorie regionali, ora Autorità Regionali di Protezione, che esercitano la loro funzione su altrettanti comprensori giurisdizionali. A seguito di alcune aggregazioni comunali le ARP sono oggi sedici; la sede di Paradiso copre il territorio di dieci Comuni.

Nel manualetto si trattano sia i problemi finanziari, sia quelli legati alle relazioni personali I casi gestiti dall’ARP di Paradiso, oltre ad essere in costante aumento, svelano sempre nuove e diverse problematiche. Mara Casanova è al fronte per rispondere a domande telefoniche, indirizzare ai servizi preposti, organizzare e partecipare agli incontri con chi ne fa

Cara mamma... caro papà offre informazioni precise sui dispositivi legali vigenti. (Marka)

richiesta. «Alla fine dello scorso anno – spiega la nostra interlocutrice – ho ricevuto molte chiamate da giovani donne in difficoltà. In attesa di un figlio o neomamme, chiedevano lumi sulle questioni che sono poi diventate i capitoli dell’opuscolo. Ho pensato di riassumere le informazioni principali fornendo indicazioni anche sugli aiuti sociali, sulle sedi dell’Ufficio dell’aiuto e della protezione e su quelle delle ARP». L’iniziativa è stata promossa attraverso l’associazione «donnedellaterra» che Mara Casanova ha fondato due anni or sono. Il suo nome non deve indurre a pensare a un universo esclusivamente femminile. L’obiettivo, precisa la presidente, è di «agire per fronteggiare tristi realtà di degrado, povertà e solitudine che coinvolgono bambini, donne, uomini, famiglie intere. A medio termine vorremmo aprire –possibilmente al di fuori del contesto cittadino caratterizzato da maggiori servizi sociali – una casa di accoglienza per mamme e bambini dove le prime siano sostenute nel loro ruolo e partecipino attivamente alla gestione giornaliera della stessa». Focus di questo progetto, dell’o-

puscolo e dell’impegno quotidiano di Mara Casanova è il bambino, al quale si cerca di garantire un’infanzia serena che gli permetta di crescere con gli strumenti necessari per affrontare la vita adulta. I mezzi a disposizione sono quelli forniti dalla Legge, nello specifico il Codice civile svizzero, la Legge sull’organizzazione e la procedura in materia di protezione del minorenne dell’adulto e la Legge sull’armonizzazione e il coordinamento delle prestazioni sociali (LAPS). I problemi sollevati da giovani mamme, coppie non sposate impreparate alla nascita di un figlio o genitori non coniugati che si separano, concernono soprattutto gli aspetti finanziari e le relazioni personali. Entrambe le questioni sono trattate nella pubblicazione. Lo scopo delle disposizioni legislative spiegate nella medesima e durante gli interventi dell’ARP è quello di garantire i diritti e i doveri di tutte le parti in causa, bambini in primis. Ad esempio il padre ha il diritto di riconoscere il figlio anche se la madre è contraria, l’autorità parentale congiunta è la regola e un genitore può esserne privato solo in casi eccezionali e motivati, il consenso dell’altro genitore

è necessario per cambiare domicilio perché la modifica può avere ripercussioni rilevanti sull’esercizio dell’autorità parentale e sulle relazioni personali con il figlio. Da precisare, inoltre, il ruolo stesso dell’ARP, da non confondere con un servizio di consulenza o mediazione, poiché si tratta di un’autorità preposta a garantire determinati diritti e quindi a prendere misure in ossequio alla Legge. Fra queste, ad esempio, l’istituzione di un diritto di visita sorvegliato e la nomina di un curatore educativo per assicurare e sorvegliare lo svolgimento degli incontri mediando fra la madre e il padre. Il rischio che il figlio diventi merce di scambio fra genitori in lite è purtroppo sempre elevato. L’Autorità Regionale di Protezione svolge il compito che le è stato assegnato dal Legislatore intervenendo in modo drastico solo quando il benessere del bambino è pregiudicato. Mara Casanova: «Grazie a un’ottima rete di collaborazioni instaurata con i servizi presenti sul territorio – nel caso di Paradiso facilitata dalla prossimità fisica dei diversi uffici – è possibile intervenire velocemente con aiuti mirati. Si parte da un’analisi del problema, che in gene-

re non è unico ma piuttosto la somma di un insieme di difficoltà, si valutano le rispettive capacità genitoriali (con il contributo dei servizi preposti) e infine si stabiliscono le priorità nella ricerca di soluzioni di compromesso. Va ribadito che l’obiettivo è di accogliere i genitori e di appianare le divergenze nell’interesse principale del bambino. Quest’ultimo ha bisogno della presenza sia della madre sia del padre. Entrambi devono essere bene informati sui loro doveri, sui loro diritti e sugli aiuti di cui possono beneficiare». La pubblicazione «Cara Mamma… Caro Papà…» è un utile strumento di informazione complementare alla consulenza dell’Autorità Regionale di Protezione. L’intenzione è quella di metterla a disposizione nelle diverse sedi dell’ARP e in luoghi sensibili come gli studi di ginecologi e pediatri o ancora i reparti maternità. Si potrà così cercare di anticipare l’intervento di sostegno per rafforzare i genitori nel loro ruolo a beneficio di tutta la famiglia. Informazioni

info@donnedellaterra.ch

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Rotraut Susanne Berner, Buon compleanno Carletto!, Gribaudo. Da 2 anni Ci voleva questo recupero del coniglio Carletto (Karlchen in originale) della nota illustratrice tedesca Rotraut Susanne Berner: la serie di Carletto, dopo essere uscita anni fa da Emme, era fuori catalogo, ma ora viene fortunatamente riproposta dall’editore Gribaudo. Premio H.C. Andersen 2016, la Berner (nata a Stoccarda nel 1948) ha una lunga carriera dedicata al pubblico della prima infanzia, con piccole storie illustrate o con quei libri che si definiscono tecnicamente Wimmelbücher, ossia albi senza parole, con grandi illustrazioni ricche di dettagli e di vita «brulicante», appunto, dedicati nel suo caso ad esempio alla natura e alle stagioni. Nella serie dedicata al coniglio Carletto, invece, le parole ci sono e il genere, seppur di una semplicità cristallina, è quello narrativo. Ogni libro (in cartonato robusto e con gli angoli stondati) racconta una storia di quotidianità. Nulla è dato per scon-

tato o implicito: la nanna, la spesa, o il compleanno, vengono raccontati con trasparenza a bambini che scoprono il mondo; ma attenzione, non si tratta di semplici storielle descrittive, poiché in ognuna succede qualcosa, c’è azione, ci sono sorprese. Coniugare semplicità estrema e azione narrativa, questa è la maestria dell’autrice. In Buon compleanno Carletto, ad esempio, l’incipit è ad altezza di piccolino, con una sorta di «istruzioni per l’uso» della vita sociale: «Ogni anno Carletto compie gli anni. Sempre lo stesso giorno. Ogni anno si accende una candelina sulla torta di compleanno». Ma poi la storia si sviluppa, gli invitati alla festa

arrivano, e uno dopo l’altro gli portano misteriosi regali. Cosa saranno mai quei dischi blu, quell’asse colorata di rosso, quei bastoni, quel caschetto? La curiosità di Carletto, e quella del piccolo lettore, crescono pagina dopo pagina, fino alla sorpresa finale! Davide Morosinotto, La sfolgorante luce di due stelle rosse, Mondadori. Da 12 anni Se guardi la copertina resti abbagliato dall’immagine di due ragazzi che corrono nella neve, e soprattutto dalla grafica del (bel) titolo, in stile avanguardia russa anni Quaranta. Il nome dell’autore, il sempre più consolidato e premiato Davide Morosinotto, è in fondo, e quasi passa inosservato. E forse proprio così deve essere invitato il lettore: a immergersi, cioè, in una storia di cui sia subito ben chiaro il genere – romanzo storico ambientato nell’Unione Sovietica negli anni nevralgici dell’assedio di Leningrado – e la tecnica narrativa, che è quella del «manoscritto ritrovato», in cui

l’autore riserva a sé solo la breve nota in fondo al libro, e in cui tutta l’avventura è demandata a due quaderni, scritti in forma di diario dai due gemelli protagonisti, Viktor e Nadya. Due dodicenni che, come tanti altri bambini, vengono mandati via da Leningrado, su treni speciali, per salvarsi dall’avanzata nemica. Un imprevisto li affida a due treni differenti, i due si perdono di vista e vivranno ognuno la propria avventura, diversa ma altrettanto intensa, concitata, drammatica. Ecco quindi le due storie, nei due quaderni, scritti in blu da Nadya e in rosso da Viktor. I «quaderni» comprendono

anche volantini, cartine, mappe, disegni, fotografie, cartoline e documenti d’epoca, foglietti di recupero sparsi, tutti riprodotti nel libro, con un effetto grafico multiforme e interessante, che riprende l’idea già apprezzata in un altro romanzo di successo di Morosinotto, Il rinomato catalogo Walker & Dawn. Questo è dunque un romanzo a più forme, ma soprattutto a più voci: non solo per le due voci alternate dei protagonisti, ma anche per quella di un «lettore interno», il colonnello Smirnov del «Commissariato del Popolo per gli affari interni», a cui giungono in mano i due quaderni e che lui legge riempiendoli di appunti e sottolineature, al fine di vagliare se i due ragazzi, «imputati» di reati contro il Regime, debbano essere considerati colpevoli o innocenti. Un espediente narrativo, questo del lettore interno, che rende bene il clima inquietante dell’epoca e che arricchisce questo romanzo, la cui generale complessità, va detto, può rendere in qualche punto difficoltosa la lettura.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Svari(azi)oni sul var Sarà stato il 1983, forse in aprile. Il Vostro Altropologo preferito passava alcuni giorni di pausa dalle fatiche della ricerca al villaggio di Jang, nel Nord del Ghana, presso la missione romano-cattolica di Tuna, Distretto di Wa. Quella sera l’ormai leggendario Padre Bernard Hagen, bavarese certo in gloria, aveva programmato una serata cinematografica aperta a tutti gli abitanti del villaggio. Sul lenzuolo tirato fra due colonnine del portico della missione si proiettava dunque non potrei ricordare quale antico film di Guardie e Ladri: Ad un certo punto si mostrava l’arrivo di un treno inquadrato a partire da laggiù per poi farlo sfilare a tutta birra in piena «ripresa soggettiva» sulla camera appostata sui binari. Ricordo il nervosismo serpeggiante fra l’audience mano a mano che il treno si avvicinava – per poi trasformarsi in panico e fuggi fuggi quasi generale (chi non scappò dalla possibile strage mi disse in sostanza «di non aver capito» cosa stesse succedendo) quando la locomotiva finalmente «sfondò» lo schermo. Ricordo l’ilarità di quel buontempone che era Padre Hagen: «Ah, ah! Zono così primitifi da konfondere il kino kon la realtà – ah,

ah!» . E «primitifi» si pensava di non essere più almeno da quando Marshall McLuhan ed i suoi innumerevoli epigoni provarono a far capire ad un’Occidente televisionato/mediatizzato (ma peraltro non in grado di digerirlo cum granu salis) che «the medium is the message». Che, tradotto in soldoni, vuol dire «quello che si vede in Televisione è la “verità”». Ma «verità» in senso condizionato dalle scelte mediatiche e confezionata ad uso e consumo dell’audience che «più vede e più ci crede» – come recitava già, peraltro e da sempre, il Proverbio a proposito delle attitudini cognitive del popolo bue. E poi era venuto il Sessantotto e tutta quella roba lì a persuadere – ci si illudeva finalmente – che la «realtà» mediatica fosse non solo progettata a tavolino e costruita ad artificio ma fosse anche – e soprattutto – modellata su misura delle aspettative dell’audience espresse per sondaggi e proiezioni statistiche: c’è veramente bisogno della conta elettorale testaper-testa nel tempo dei sondaggi e degli exit-poll, come Davide Casaleggio, sponsor dei Grillini da questa parte delle Alpi domanda anche oggi? Insomma: si riteneva di aver educato un pubblico a

ritenere che quanto visionato, ascoltato, piaciuto e dispiaciuto dai-, sui- e per- i media avrebbe in seconda battuta dovuto essere vagliato dal Tribunale della Ragione di giacobina memoria ed eventualmente spennato – mettiamola così – di eccessi ed inesattezze. Siamo oggi – tempo di bilanci della Coppa del Mondo dello sport più amato al mondo – in grado di svilire il faticoso progresso della ditta McLuhan & Associates nella coscienza collettiva per creare la consapevolezza che – brutalmente – «kuello ke vedi in televisione “è vero”». Entra infatti in scena il VAR (Video Assistant Referee) che mette a posto tutti sui dilemmi fondamentali dell’epoca che ci tocca vivere: «Il calcione che X ha tirato ad Y nella gara Z era calcione da rigore a vantaggio di Y con conseguente espulsione di X – od era invece un amichevole calcetto “tanto per fare la conoscenza” che merita l’espulsione di Y per simulazione di fallo?» – questo il dilemma. Fino al VAR la situazione era come segue: venti/sessantamila paganti dell’audience vedono – e giudicano – l’Arbitro legislare coram populo pollice

recto aut pollice verso se il criminale è X oppure Y. Fischi, urla e minacce, botte sugli spalti e divorzi al rientro a casa dell’uligano, come dice la cognata dell’Altropologo – e poi interminabili discussioni infra-settimanali nei media che di questo mangime si nutrivano. Col VAR in campo la canea pro-X/Y sembra – sembra – essersi calmata, o forse semplicemente perplessa mentre rimugina sul da farsi per poi in futuro, libera nos domine, reagire a modo suo. Allora: il giocatore X abbatte la controparte Y sul filo – plateale – del rigore. Confusione sì/no, rigore mi/mu/ ma – insomma il solito teatrino. Ormai tutti – visto che non possono girarsela a modo loro – fanno il magico quadrato gesto (erede in tal senso del dito mediano): VAR! L’arbitro prende atto della sua mancanza di giudizio («ero distratto», «forse al bar», «pensavo a mia moglie» – chissà cosa?) e indirizza alla canea il magico gesto: habeas VAR! Canea per ora zittita. Arbitro corre dietro paravento VAR (fonti informate mi dicono non si possa per legge zoomare per vedere mediaticamente quanto arbitro vede); Arbitro vede pondera e

decide sulla base di chi lui, la canea, i suoi assistenti e quanti altri sul divano di casa non hanno potuto, voluto o inteso vedere – tanto da far ricorso al VAR. Arbitro decide sulla base di quanto solo lui ha (s)visto ed interpreta l’Oracolo. Arbitro ancor più Onnipotente, dunque. Lui ha visto, Lui decide: e noi, che pure abbiamo visto, zitti e mosca – e la canea è (per il momento) zittita. Perché la Televisione/VAR dice la Verità. E la Verità che conta la decide comunque Uno Solo. Legittimato però non dal consenso di chi ha visto e assente/dissente dal giudizio su cosa sia veramente successo. «Veramente o VARamente»?! Questo, in sostanza, il dilemma Altropologico. Posso o non devo fidarmi che l’Arbitro non abbia, nei minuti blindati del VAR, rivisto la cerimonia della Santa Cresima di Sua Figlia – e/o non malignamo altro? In sostanza, speculare e morale: Altropologicamente parlando, è più «primitivo» chi pensa che la locomotiva al cinema gli arriverà addosso oppure chi pensa che il VAR sia «la Verità»? Così il Vostro, mentre mesto si avvia agli spogliatoi, espulso per un fallaccio non commesso: VARdetto di VAR.

e vissuta in grandi città, questi 10 anni hanno rappresentato un’ avventura che mi ha arricchita tanto. Penso che ognuno deve trovare il suo proprio modo di elaborare il lutto, ma so che lei lo affronterà senza scappare. Mi creda, anche il lutto arricchisce. Con un grande abbraccio e simpatia. / Alice

di saggezza stoica che accetta l’esistente cercando di trarne il meglio per sé e per gli altri. Per una personalità liberata dalle scorie dell’egocentrismo il «tu» rappresenta allora un gesto di uguaglianza e fratellanza. Ma occorrerebbe essere capaci di ricambiarlo perché, a mio avviso, le relazioni paritarie o sono reciproche o non sono. Nella nostra incapacità di rispondere allo stesso modo intravvedo una difesa dell’ «io», una resistenza rispetto al «noi» su cui dovremmo riflettere insieme. Comunque grazie per un intervento vivo e vero che fa procedere il dialogo.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un vero io, un vero tu Cara Silvia, la leggo da sempre con grandissimo interesse e mi ha colpito la lettera della lettrice alla quale ha risposto questa settimana. (Si tratta della lettera con cui la signora Fernanda esprime il proprio disagio per una familiarità linguistica che considera impropria e inopportuna). Anch’io sono nonna, ex donna in carriera e quindi tirata su con una educazione molto stretta. Sicuramente la prima volta che qualcuno mi ha dato del tu sono rimasta a bocca aperta con sguardo a punto interrogativo. Ma a me ha fatto un effetto completamente diverso. Il mio io era cresciuto troppo e adesso è diventato piccolissimo, meglio adeguato ad un mondo che cambia velocissimamente in tutto e per tutto. Sono diventata molto più umile, ma anche ancora più solare. Abito da poco in un quartiere pieno di vicini «stranieri» che tutti danno il tu, ma danno anche sempre un bel saluto con un sorriso, che

preferisco di gran lungo al lei. Va da se che non posso scappare dal fatto che io do ancora del lei, e sarà sempre, ma mi piace anche il tu di oggi. Grazie per la rubrica e le auguro una buona e meravigliosa estate. / Alice Gentile Alice, la sua lettera riprende, in modo positivo, il problema suscitato da un uso del «tu» che non riconosce differenze e gerarchie . Nella mia risposta lo avevo interpretato come sintomo di una società appiattita nella comune banalità. Ma in conclusione auspicavo il sorgere di un ordine diverso. Ora la sua lettera sembra rispondere proprio a quell’invito. E nel modo migliore: non con una ideologia, ma con una testimonianza. Lei ha reagito a un cambiamento, che non è solo linguistico, in modo autoplastico, modificando la sua identità, relativizzando il suo «Io», aprendo la mente e il cuore all’accoglienza dell’al-

tro. Così facendo è diventata più solare sconfiggendo le ombre indotte da una educazione autoritaria e dal narcisismo sollecitato dal successo di una carriera manageriale. Che cosa è accaduto perché si verificasse una simile metamorfosi, lo spiega in una lettera successiva, volta a sostenermi in un momento difficile: la morte di mio marito avvenuta l’11 marzo scorso. Mi dispiace della sua tristezza, scrive, non avevo idea del suo lutto. Quando sono diventata vedova mi sono ritirata in una specie di eremo per elaborare il lutto, e ci sono rimasta per 10 anni, senza vicini, senza una strada di accesso ma ho imparato a cucinare sul fuoco, a fare le provviste per la neve, periodo che rimanevo bloccata. Avevo sempre solo la preoccupazione per i miei 4 cani e 7 gatti, che avessi bisogno di portarli dal veterinario durante la neve. Cresciuta

Cara amica, grazie della sua sentita partecipazione e dell’abbraccio che ricambio di cuore. Lei ha ragione: l’elaborazione del lutto è una vicenda intima e personale che alla fine, percorso il tunnel del dolore, può rivelare esiti positivi. L’importante è restare fedeli a se stessi, esprimere la propria creatività senza accettare passivamente i tempi e i modi indotti dalla tradizione e richiesti dalla società. Il suo itinerario, fondato sull’isolamento, la riduzione all’essenziale e la meditazione, è approdato a una sorta

confronti a nostro favore, almeno sul piano politico ed economico. Mentre, su quello umano, il rapporto sarebbe magari da rovesciare. Certo è che proprio nelle «piccole patrie», nate come reazione al dominio dei grandi poteri, questo patriottismo, più «anti» che «pro», ha trovato il terreno in cui crescere, ma poi, strada facendo, deteriorarsi. Il tema dell’identità si è trasformato in «una fissazione ossessi va», per dirla con Zymunt Baumann che, nel saggio Retrotopia (Laterza), denuncia le insidie di un cammino a ritroso nel tempo. È «il ritorno alle tribù», che va di pari passo con la nostalgia, la riscoperta delle radici, il ripristino delle buone cose di una volta, da condividere fra consimili, chiusi in un guscio privilegiato. E, soprattutto, illusorio. Perché, intanto, le cose vanno in tutt’altra direzione, modificando abitudini e

sentimenti. A cominciare dal patriottismo, tornato di moda, ma in forme fino, a ieri, insospettabili. Uno ieri rivelato, una giornata di luglio, durante la partita Svizzera-Serbia, quando due giocatori della nostra nazionale hanno espresso la loro gioia, con un gesto, per noi incomprensibile: le mani a ventaglio per indicare le ali di un’aquila, simbolo dell’Albania, loro terra d’origine. E, in pari tempo, fieri della cittadinanza elvetica, a cui devono notorietà e soldi. Un caso chiacchierato, ma non isolato. Anzi. La doppia cittadinanza è ormai una situazione legittima, sempre più diffusa. In termini statistici indica una tendenza vincente, addirittura trionfante: Der Siegeszug der Doppelbtirger, come titolava, giorni fa, la «Neue Zürcher Zeitung», un commento dedicato al fenomeno. Sono oltre 900’000, il 17,3% della popolazione, i confederati con

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Patriottismo à la carte Bestia nera del Sessantotto, la parola è ormai riabilitata: il patriottismo, infatti, va alla grande. Definisce sentimenti e comportamenti che hanno ritrovato non soltanto il consenso popolare ma, addirittura, una legittimazione politica, animando partiti e movimenti di successo, sul piano mondiale, Svizzera compresa, e Ticino in particolare. Anche nel nostro Cantone, il patriottismo è in auge, e con caratteristiche proprie, evidentemente ispirate al fenomeno delle «piccole patrie», sia pure in forma moderata, al riparo da derive indipendentiste, tipo Catalogna o Scozia. Sta di fatto che il ticinesismo, a volte, sembra prevalere sull’elvetismo, producendo un patriottismo casalingo, spontaneo, persino simpatico. Esprime un bisogno primario di appartenenza a quel dove, in cui ci si sente a proprio agio e al sicuro, per via naturale. E che, quindi, va

protetto e difeso da minacce e contaminazioni, magari più immaginarie che reali, comunque provenienti da fuori. È , a questo punto, che la purezza di un sentimento istintivo s’incrina. E allora il patriottismo rivela un’altra faccia, astiosa. Cioè, non si ama il luogo d’appartenenza per le sue virtù, bensì in contrapposizione ai vizi altrui. Parliamoci chiaro: ad alimentare l’affetto e la stima per il nostro Cantone e per la Confederazione interviene il disprezzo per ciò che avviene oltre frontiera. Servizi pubblici che non funzionano, territorio trascurato, corruzione diffusa, e via enumerando malefatte e disagi, da cui ci si sente al riparo. Insomma, salta fuori l’inconfessabile sentimento che si chiama «Schadenfreude», la gioia maligna per i guai degli altri. E che, come ticinesi, ricaviamo osservando, da vicino, un’Italia fonte inesauribile di

due passaporti. Fra i quali, cittadini con cariche ufficiali, come diversi ambasciatori. E lo era il nostro Cassis che, candidandosi per Consiglio federale, rinunciò alla cittadinanza italiana. Non si tratta, comunque, di una prerogativa elvetica, introdotta nel 1992, bensì di una regola che vige nella maggior parte dei paesi dell’UE , destinata, intenzionalmente, a creare una nuova concezione di patriottismo: in grado di sottrarre questo sentimento a manipolazioni persino assurde. Nel 1992, all’Expo di Siviglia il padiglione elvetico si presentò con il motto provocatore: «La Svizzera non esiste». Fu un flop totale, il ridicolo può essere micidiale. Adesso, c’è da sperare che, complice la rinascita del patriottismo, non abbia il sopravvento l’immagine autocompiaciuta di una Svizzera-disoli-noi, irrealistica, e ridicola.


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Ambiente e Benessere Da Siena a Radicofani Bighellonando con gli autobus di linea sulle strade secondarie della Toscana

Più brasato che stufato Lo stracotto è una preparazione di carne bovina in umido, caratterizzata da una cottura prolungata

Il potere dell’«erba brucia» Si tratta della pianta più ricca di clorofilla dell’intera flora italiana: è l’ortica

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Animali in viaggio È essenziale: informarsi bene e organizzarsi con sufficiente anticipo pagina 13

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Conoscere il tuo nemico Dallo Spazio Lo studio degli asteroidi può evitare guai sulla Terra Loris Fedele Abbiamo da poco passato l’anniversario di un fatto che ha segnato l’ambiente terrestre. Il 30 giugno 1908, giusto 110 anni or sono, nella Siberia profonda, in vicinanza del fiume Tunguska, un asteroide di grandi dimensioni colpì la Terra devastando una superficie di oltre duemila chilometri quadrati e radendo al suolo tutti gli alberi. Le onde sismiche prodotte dal terremoto generato dall’impatto furono registrate fino a Londra. Si stimò che quella roccia spaziale dovesse avere un diametro di una trentina di metri: tanto basterebbe oggi per cancellare dalla carta geografica un’intera città. L’evento per fortuna non è tanto probabile: complicati calcoli effettuati su basi statistiche indicano che l’impatto con la Terra di un meteorite di grandi dimensioni si potrebbe verificare una volta ogni cento milioni di anni. La probabilità non è comunque uguale a zero per cui, proprio ricordando la Tunguska, ogni anno si tiene nel mondo un «Asteroid Day», il giorno degli asteroidi, nel quale gli scienziati sensibilizzano la popolazione e i governi sull’importanza di studiare questi corpi celesti, potenziali nemici dell’ambiente terrestre. Ci riferiamo qui a corpi di cospicue dimensioni perché ben sapete che il materiale piccolo che arriva dallo spazio quando entra nella nostra atmosfera nel

99% dei casi si infiamma e si distrugge a causa dell’attrito, dando luogo al fenomeno delle stelle cadenti. Ciò non di meno si stima che ogni anno la superficie della Terra venga raggiunta da circa cinquecento meteoriti della dimensione di un pallone di calcio o poco più. I due terzi finiscono nei mari, gli altri impattano col suolo. Cosa succede quando uno di questi corpi finisce nell’acqua? Dipende dalla sua velocità e dalla sua composizione, oltre che dal punto geografico dove avviene l’inabissamento. In un mare poco profondo e ricco di sedimenti il materiale può essere vaporizzato e liberare diversi gas-serra responsabili di variazioni del clima a lungo termine. Se l’urto avviene al largo, in un mare profondo, genera uno tsunami. L’energia delle onde potrebbe dissiparsi durante il percorso prima di raggiungere la costa, limitando i danni. Invece l’impatto sulla terraferma appare immediatamente distruttivo, per il calore sviluppato, il terremoto provocato, l’onda d’urto e i venti violentissimi che genererebbe. Sessantasei milioni di anni or sono un pezzo di minerale metallico del diametro di dieci chilometri impattò su quella che oggi è la penisola dello Yucatan, in Messico, formando un cratere di duecento chilometri, liberando una enorme energia, come una gigantesca esplosione nucleare. I terremoti e il repentino cambiamento del clima che ne

seguirono fecero sparire due terzi delle specie viventi e, come si sa, portarono all’estinzione dei dinosauri. Fortunatamente da allora niente di simile si è ripetuto. Tuttavia i fenomeni continuano a verificarsi e sono studiati. Il più famoso di tutti, in tempi recentissimi, è il caso di Chelyabinsk, in Russia, nei cui cieli il 15 febbraio 2013 esplose a pochi chilometri dal suolo un meteorite che non era bruciato completamente entrando nell’atmosfera. L’onda d’urto danneggiò centinaia di edifici e ferì circa milleduecento persone con la rottura di vetri e finestre. Nella zona si riuscì a recuperare in fondo a un lago un frammento di alcune decine di centimetri pesante trecento chilogrammi. Non so bene con quali sistemi, ma si stabilì che il meteorite aveva diciotto metri di diametro. La sua velocità di entrata nell’atmosfera era stata misurata e fu resa nota: cinquantaduemila chilometri all’ora. Ancora più recente, ma per nulla distruttivo, l’avvenimento del 2 giugno scorso quando si è vista una grande palla di fuoco nel cielo del Sud Africa. Era la fase finale della vita di un asteroide di circa due metri che si stava consumando nell’atmosfera. Gli scienziati lo stavano seguendo da tempo e, giudicandolo non pericoloso, non hanno ritenuto opportuno allarmare la popolazione. Lo avrebbero fatto se il corpo celeste fosse stato superiore ai cinque metri perché in quel caso si stimava potesse generarsi

un’esplosione e un’onda d’urto significativa. Questo è ciò che è stato comunicato da uno dei tanti team che controllano da terra i pericoli spaziali. Anche l’Europa ne possiede uno, stanziato nella sede tedesca dell’Agenzia spaziale europea. Presso l’Esoc di Darmstadt è da tempo operativo l’Ufficio per i detriti spaziali, che si occupa di misurare costantemente gli oggetti di tutte le dimensioni che dopo aver orbitato intorno alla Terra possono ricaderci sopra. Sono soprattutto i prodotti costruiti dall’uomo e mandati nello spazio, in primo luogo i satelliti. Ma c’è anche un team della sicurezza spaziale che tiene d’occhio i meteoriti e gli asteroidi. L’Esa sta già monitorando 740 asteroidi che potrebbero incontrare la Terra e ne sta scoprendo di nuovi. A proposito di questi ultimi, l’Inaf, l’Istituto nazionale italiano di astrofisica, ci ricorda che asteroidi di piccole e medie dimensioni passano ogni mese «vicino» alla Terra. Metto vicino tra virgolette perché il prossimo incontro particolarmente ravvicinato è previsto nel 2027 con un passaggio a 380mila km da noi. Nel 2014 un asteroide di 650 metri di diametro, enorme, uno dei più grandi in circolazione, passò a 1,8 milioni di km dalla Terra. Giornali e scienziati scrissero che ci aveva «sfiorati», e questo ci dice come le distanze cosmiche siano ben diverse da quelle con le quali siamo abituati a confrontarci. Tuttavia

è bene dare al pubblico informazioni corrette sui rischi reali e su cosa si stia facendo: questo è uno dei compiti dell’annuale «Asteroid Day». L’Esa e la Nasa vogliono verificare se si può dirottare un asteroide in rotta di collisione sfruttando l’impatto cinetico di un veicolo-proiettile lanciato dalla Terra. Per questo hanno preparato una missione congiunta (chiamata Aida) che porterà delle sonde a studiare da vicino Didymos, un sistema binario di asteroidi. Conoscere l’esatta composizione di un asteroide è fondamentale per capire come colpirlo efficacemente perché, per esempio, un materiale plastico e poroso e uno monolitico reagiscono diversamente a un urto. Inoltre le caratteristiche fisico-chimiche del bersaglio potrebbero suggerire metodi alternativi per la deviazione dell’orbita. La missione per ragioni economiche è stata per ora congelata dall’Esa, nella seduta ministeriale del 2016. La Nasa dal canto suo ne ha in corso un’altra verso l’asteroide Bennu. Anche i giapponesi hanno in corso la missione Hayabusa per prelevare campioni dell’asteroide Ryugu e riportarli sulla Terra. Concludendo: i nostri potenziali nemici per ora non ci preoccupano, ma bisogna conoscerli meglio, perché se sappiamo come sono fatti, un domani sapremo anche come farli deviare da una improbabile, ma non impossibile, rotta di collisione con la Terra.


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Il più bel dipinto del mondo Viaggiatori d’Occidente Un viaggio in corriera attraverso la Toscana

Paolo Merlini, testo e foto Viaggiare con gli autobus di linea sulle strade secondarie della Toscana è un bighellonare tanto raffinato quanto economico. Girovagando a bassa velocità, da Siena raggiungerò senza fretta Radicofani. Il mio viaggio inizia idealmente di fronte al ciclo Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo, affrescato nel Trecento da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena. È un dipinto molto noto e spesso riprodotto, eppure ogni volta che lo guardo con attenzione scopro qualcosa di nuovo. La scena degli Effetti del buon governo in campagna per esempio raffigura proprio il paesaggio rurale a sud della città: dolci colline punteggiate di casali, borghi, fortilizi, vigne, uliveti e campi dove i contadini preparano la terra per la semina. La strada che attraversa il dipinto e che alcuni viandanti percorrono in sicurezza dovrebbe essere la Cassia, antica consolare romana affiancata dalla via Francigena nel punto in cui costeggia il corso del fiume Orcia. È una partenza ideale ma anche reale perché l’autostazione di via Tozzi è a poche centinaia di metri da Piazza del Campo. Col passo lento dell’autobus mi avvio lungo quella che il poeta Mario Luzi definì «una strada fuori dal tempo», osservando a ogni chilometro che in effetti il paesaggio non è poi molto diverso da quello del Trecento. Il mio piccolo cabotaggio in corriera tocca Pienza, S. Quirico d’Orcia e Bagno Vignoni prima di approdare a Bisarca, dove una navetta in coincidenza risale agevolmente la strada asfaltata, risparmiandomi le terribili svolte di Radicofani, ovvero i nove chilometri di curve in salita del vecchio tracciato, oggi abbandonato, incubo dei viaggiatori al tempo delle diligenze traballanti.

La Val d’Orcia.

Radicofani dall’alto della sua rupe domina quel tratto della via Cassia dove il Monte Amiata segna il confine tra la Val d’Orcia e l’Alta Tuscia. Il borgo medievale sormontato da una possente fortezza era l’ultima propaggine del Granducato di Toscana e qui, dove correva la frontiera con lo Stato Pontificio, trovo la Posta Medicea, edificata per volere di Ferdinando I dei Medici

Siena, un autobus di linea entra in città da Porta Romana.

nel 1584, su progetto dell’architetto Bernardo Buontalenti. Al tempo dei viaggi in diligenza la stazione di posta era una sorta di caravanserraglio, dove dare il cambio ai cavalli stanchi e far riposare i viaggiatori per la notte. Rese di colpo inutili dalla ferrovia, le stazioni di posta andarono in rovina una dopo l’altra. Questa di Radicofani invece alla fine dell’Ottocento divenne una dimora privata e in questo modo si preservò, anche se oggi è chiusa al pubblico in attesa di restauri. L’antica struttura conserva un aspetto austero che il doppio loggiato a sei arcate della facciata non riesce a mitigare. Al piano terra, sopra le enormi cantine, c’erano le stalle, le cucine, le sale da pranzo e le stanze delle guardie; al primo piano due grandi saloni, l’appartamento dei gestori, la chiesetta e gli alloggi per gli ospiti di riguardo; infine al secondo piano altre sale, le stanze per la servitù e le camere per l’ospitalità più semplice. Di fronte all’edificio sorge la monumentale Fontana Medicea, generosa d’acqua ai viandanti. In più di tre secoli d’esercizio, la Posta Medicea ha ospitato i Papi Pio

Un caratteristico paesaggio della Val d’Orcia.

Radicofani - Fontana Medicea con la Rocca sullo sfondo.

VI e Pio VII, i Granduchi Ferdinando I, Cosimo II, Leopoldo II, l’imperatore Giuseppe II d’Austria, Goethe, Giacomo Casanova, il marchese De Sade, il poeta Thomas Gray, Stendhal, Chateaubriand, John Ruskin… Nell’inverno del 1845 Charles Dickens vi sostò per una notte, descrivendola in Pictures from Italy come «una locanda spettrale, fatta per i folletti». A suo dire «in questa locanda di Radicofani, c’è un tale frusciar di vento, un cigolio continuo, un brulichio, un crepitio, un aprirsi di porte, uno scalpiccio per le scale, quale non ho udito in alcun altro posto». È noto che Dickens viaggiava con moglie, cognata, quattro figli piccoli e tre cameriere al seguito e forse questo influiva negativamente sul suo umore… In Toscana le corriere sono infinite come le vie del Signore e così di primo mattino lascio Radicofani col bus per Chiusi. Da qui tre quarti d’ora di treno mi portano ad Arezzo, dove sosto con l’unico intento di rendere omaggio alle mortali spoglie dello scrittore satirico Pietro L’Aretino. La lingua velenosa del suo contemporaneo Paolo Giovio, che pure era un vescovo, compose per lui un celebre epitaffio: «Qui giace l’Aretin,

poeta Tosco: di tutti disse mal fuorché di Cristo, scusandosi col dir: “Non lo conosco”!». Ignorando che l’Aretino, morto nel 1556, è sepolto a Venezia nella Chiesa di San Luca, lo cerco inutilmente nella Basilica di San Francesco, dove però gli affreschi di Piero della Francesca dedicati alle Storie della Vera Croce mi mettono voglia di fare un salto a Sansepolcro. Sempre in bus raggiungo agilmente la «cittadina circondata da mura in un’ampia valle pianeggiante fra le colline» (Aldous Huxley), da dove poi conto di prendere il pullman per Urbino. Anche Huxley, in una primavera d’inizio Novecento, viaggiò su queste strade con un vecchio torpedone di linea, proprio come me oggi (sia pure con mezzi più moderni). Non furono certo dei facili entusiasmi giovanili a fargli definire la Resurrezione di Piero della Francesca, conservata nel Museo civico di Sansepolcro, «il più bel dipinto del mondo». Al termine di un importante restauro durato tre anni l’affresco è tornato ad attirare visitatori e quando arrivo di fronte al Museo civico trovo coda. Inganno il tempo dell’attesa proprio con le impressioni di viaggio di Aldous Huxley, raccolte nel 1925 nel libro Along the Road: Notes and Essays of a Tourist, (1925 Chatto & Windus, pubblicato in italiano nel 1990 da Frassinelli col titolo Lungo la strada: annotazioni di un turista). E proprio poche righe di questo splendido libro salvarono Sansepolcro dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale. Infatti durante le fasi finali del conflitto il capitano alleato Anthony Clarke aveva iniziato a cannoneggiare la cittadina quando improvvisamente ricordò di aver letto di Sansepolcro sul libro di Huxley. E così, non volendo rischiare di distruggere «il più bel dipinto del mondo», fece cessare immediatamente il fuoco. Una storia da raccontare quando vi chiederanno a che cosa servono i libri…


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Ambiente e Benessere

Il sommelier errante Giacomo Casanova

Scelto per voi

Vino nella storia Un viaggio nel Settecento sulle orme del libertino veneziano

amante non solo delle donne ma anche del vino

Davide Comoli «Il secolo della Ragione», «il secolo dei Lumi»… Il Settecento è stato definito in molti modi, quale epoca della divulgazione, della scienza, dei grandi salotti letterari. In quel periodo il nuovo atteggiamento nei confronti della logica produce delle nuove creazioni sociali, conduce a nuovi modi di agire, dà origine a spunti che forniscono avvio alle rivoluzioni. Di sicuro uno dei personaggi più attenti e acuti dell’epoca, colui che forse su tutti può essere considerato uno dei pionieri del moderno mestiere del sommelier, per la sua perizia dell’accostare il cibo al vino, fu Giacomo Casanova (1725-1798). Nella storia della sua vita, si rispecchia tutto il mondo del XVIII sec., tra salotti dell’alta società, palazzi, bordelli e osterie. La sua abilità e la sua disinvoltura, gli permettono di allacciare importanti conoscenze: Luigi XV re di Francia, Federico II di Prussia, la

zarina Caterina II. E proprio in quell’epoca – durante il secolo della cultura illuminista, dove la ragione comincia a prevalere sulle antiche credenze e sta forgiando l’uomo moderno – l’approfondimento del sapere, l’essere colto, l’aver cura per la propria persona, diventano un modo per rendersi amabili. A Casanova, conscio di tutto questo, e grazie alla prestanza fisica, alla perspicace intelligenza e alla simpatia che sapeva trasmettere, viene conferito un fascino irresistibile. Se riuscissimo a raschiare un po’ di quella vernice che ricopre questo personaggio tramandatoci, in un certo senso come esempio negativo, libertino, sfrenato, amorale e avventuriero, troveremo un uomo con il senso dell’onore, delicato, sensibile e riconoscente, ma dal carattere mutevole. Il rispetto per la buona educazione era il suo credo di vita e non era nato per fare l’eremita. Viveva non sempre nel bene, ed era solito sostenere che: «L’amore per la buona tavola e un buon bicchiere di

vino sono pari al piacere che mi regala il sorriso di una bella donna». E proprio grazie al vino dell’epoca cercheremo di capire l’Europa (nel limite del possibile) del Settecento. Curiosando infatti tra i dodici volumi delle sue Memorie e seguendo il suo insaziabile errare ci è possibile compilare una carta dei vini di quel tempo da lui degustati. A Costantinopoli fece conoscenza di Osman, Pascià di Caramania (in realtà si trattava del conte di Bonneval, europeo apostata che aveva abbracciato la religione islamica). Tra le tante bottiglie di vino che il corpulento conte teneva celate dietro le tendine di una libreria, gli fu offerto un ottimo Borgogna bianco. Alla sua partenza, non prima di aver disquisito da buon illuminista su tutti quelli che erano i piaceri della vita (amore, tabacco e vino) ricevette in dono delle bottiglie di Malvasia di Ragusa e di un vino assai raro all’epoca prodotto sull’isola greca di Scoglio, lo Scopolo. Sempre in occasione di questo suo viaggio ricorda con piacere un bicchiere di Refosco prodotto in Istria e un vino di Zante chiamato Generoides. Tornato in Italia, ritrovò i classici sapori dei vini italiani, l’Orvieto e il toscanissimo Chianti, il Montepulciano e il bianco di Montefiascone (Est!Est!!Est!!!). A Napoli gustò un vino chiamato Cerigo, un ottimo Moscato di Samo, ma anche un vino che suscitò il suo disprezzo, un rosso chiamato Schiavone. I vini da dessert che nel Settecento addolcivano le mense europee erano i vini delle Canarie e quelli di Cipro con cui il veneziano consolava molti cuori. A Firenze invece inebriò un’intera famigliola composta da madre, figlio e figlia, con un sostanzioso vino rosso da dessert da lui chiamato Ogliatico o Aleatico, a voi lascio trarre le conclusioni.

Ritratto di Giacomo Casanova. (Dipinto di Raphael Mengs)

Molto in considerazione erano tenuti da Giovanni Casanova i vini spagnoli, il Peralta, il Pedroximenes, bevuto a Valencia, i Malaga, gli Alicante e il buon vino della Mancia. Tra una locanda e l’altra, tra una carrozza e l’altra, l’irrequieto personaggio assetato di vita e di conoscenza, sceglieva spesso compagni di ventura, che a parer suo avessero eletto a scopo di vita l’amore per il cibo e per il bere, Champagne, Borgogna, Bordeaux, Malaga, Grave, ottimo con le ostriche, che esaltavano con il loro bouquet il sapore del vino. Anche i vini provenienti da Capo di Buona Speranza, sia rossi sia bianchi, erano molto rinomati e richiesti in Europa, come quelli bevuti da Casanova ad Amsterdam a casa di un banchiere. Il migliore vino tedesco era quello proveniente dal Reno e Casanova ne gustò di prelibati a Colonia, ma anche quando fu ospite del ghiotto abate di Einsiedeln innaffiando beccacce. Tra gli ungheresi, il prelibato Tokay, mentre tra gli svizzeri, quelli di Neuchâtel, bevuti dal nostro eroe nel suo rifugio a Soletta in compagnia della seducente governante Dubois. Sulle rive del Rodano poté gustare i bianchi dell’Hermitage provenienti da Tain, vini che venivano stagionati nelle botti per quattro anni prima di essere messi in bottiglia e i rossi di Pontac della zona di Graves. In quello che i fratelli Goncourt definirono «il secolo della donna», il miglior alleato del nostro personaggio fu senz’altro il nettare caro a Bacco, soprattutto lo Champagne chiamato Occhio di Pernice, dal caldo colore rosato e leggermente frizzante. Il vino dell’epoca non era soltanto galeotto per i peccatori laici, ma come Casanova scrive: «era protagonista anche nei conventi dove monache e laici fraternizzavano allegramente».

Moët-Chandon Rosé Imperial

Crediamo che lo Champagne sia il vino più famoso al mondo. Ispiratore di poeti, musicisti, pittori e scrittori, questo vino ha reso le feste gioiose e alle volte intriganti, come dimostrato nel pezzo qui di fianco dedicato a Casanova. Il solo pronunciare il suo nome evoca lusso, eleganza e trasgressione. Madame de Pompadour affermava che questo vino era la sola bevanda capace di rendere più bella una donna dopo averne bevuto. Servendo una bottiglia di Champagne o abbinandola a un particolare cibo, spesso si perpetrano autentici delitti. Quando arriva il momento (aggiungiamo a tutte le ore) di aprire la bottiglia, raffreddatela nel classico secchiello preparato con acqua fredda, ghiaccio tritato e sale grosso. Basteranno circa 20 minuti affinché il vostro Champagne raggiunga la temperatura ideale compresa tra gli 8° e i 12° C. Evitate raffreddamenti violenti in freezer e anche di dimenticarvi la bottiglia in frigorifero per mesi. Lo Champagne Rosé che oggi vi proponiamo è un vino più strutturato di un bianco e potete abbinarlo a quasi tutti i pasti, anche a quelli più impegnativi. Vi si chiede solo di osservare un consiglio: provate almeno una volta nella vostra vita un pezzo di Parmigiano Reggiano «asperso» di gocce all’Aceto Balsamico Tradizionale, con un sorso di Champagne: una meraviglia! / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 59.–. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

La morbidezza dello stracotto In questi anni vi ho dato solo quattro ricette di stracotto: quello base, col soffritto; al vino; con le mele; e con il sedano. Ma non l’ho mai definito. Rimedio oggi. Lo stracotto è una preparazione di carne bovina (ma anche, più raramente, di asino o cavallo) in umido, caratterizzata da una cottura prolungata. Nel Centro-Nord dell’Italia si chiama appunto stracotto, nel Sud prende anche il nome ragù, che però nulla c’entra con la carne tagliata a dadini: perché si chiami così non sono mai riuscito a scoprirlo – anche se onestamente non l’ho cercato a fondo. È simile a un brasato, non a uno stufato. La carne, spesso ma non sempre, viene lardellata, per renderla più tenera a fine cottura. Prevede un iniziale soffritto con gli odori canonici (cipolla, scalogni, porri, carote, sedano, aglio ed erbe varie) e burro o olio, poi il soffritto si leva (non tutti lo fanno ma è un errore non farlo, perché se resta la rosolatura non sarà mai ottimale; dovendo rosolare ad alta temperatura si brucerebbero le verdure).

Lo stracotto è una preparazione che valorizza e rende morbide le carni mature Si procede quindi con la rosolatura a fiamma vivace, per qualche minuto, uniformemente, quindi si aggiunge il brodo del soffritto e di altro previsto. In alternativa, si può rosolare direttamente nel grasso la carne, unendo più tardi gli odori e il brodo. In alcune versioni si usa anche il vino, aggiunto poco per volta o tutto insieme: sempre meglio se sobbollito per eliminare la parte alcolica, che in cottura diventa amara. Lo stracotto

presuppone una cottura molto lunga, da quattro a otto ore, a fuoco dolcissimo e unendo liquidi bollenti quando necessario, anche suddivisa a volte in due giornate diverse; è una preparazione che valorizza le carni dure, mature. A fine cottura, la carne deve risultare molto morbida praticamente disfatta: impossibile da affettare. Essa va raccolta con il cucchiaio, caratteristica che suggerisce l’appellativo tipicamente francese di «brasato al cucchiaio», ormai considerato quasi come sinonimo di stracotto. Ecco due ricette, per sei persone. Stracotto ai peperoni. Rosolate in una casseruola con abbondante burro od olio di oliva non extravergine 1 kg di muscolo di bue o manzo. Unite 200 g di soffritto misto a piacere, 1 cucchiaino di senape in polvere, 1 bicchiere di vino bianco secco sobbollito per 3’, 3 mestoli di brodo di carne, 2 acciughe dissalate e spezzettate, una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua e 400 g di peperoni mondati e spezzettati. Portate a lenta ebollizione, coprite, e poi fate cuocere in forno a 160° per 8 ore, unendo poca acqua bollente se asciugasse troppo. Levate alla fine un poco del fondo, frullatelo e rimettetelo nella casseruola. Regolate di sale e di pepe. Servite la carne accompagnata con un purè di patate. Stracotto al curry. Procedete come il precedente stracotto, unendo alla carne, dopo la rosolatura, 500 g di soffritto misto, 1 bicchiere di vino bianco secco sobbollito per 3’, 3 mestoli di brodo di carne e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua. Cuocete in forno a 160° per 8 ore, unendo acqua quando necessario. Alla fine legate con 6 cucchiaiate di pasta al curry, ma anche di più o di meno, con un curry più o meno forte a piacer vostro, stemperate in poca acqua e cuocete per 1 minuto. Regolate di sale, spegnete e legate con un vasetto di buon yogurt intero. Accompagnate con riso pilaf.

CSF (come si fa)

Pxhere

Allan Bay

Pxhere

Gastronomia Una preparazione di carne in umido più simile all’arrosto (al cucchiaio) che non allo stufato

Aringhe, che passione! Vediamo come si fanno quattro ricette, piuttosto canoniche. Aringhe alla Marina. Tagliate a filettini dei filetti di aringa affumicata. Metteteli in una terrina, a strati, alternandoli con cipollotto fresco tagliato a rondelle, buccia di limone tagliata a finissima julienne, poco aceto di mele e peperoncino a piacere, ma abbondate. Alla fine coprite a filo con un buon

olio extravergine d’oliva delicato, ligure o del Garda e lasciate riposare in luogo fresco almeno per 1 settimana, ma anche più tempo. Alla fine prendeteli con un cucchiaino, olio compreso, metteteli su (ottimo) pane tostato e gustateli. Durano a lungo, sempre coperti di olio e sempre in luogo fresco. Ragù di aringhe. Per 4 persone. Spezzettate 3 filetti di aringa dissalati. Fate un soffritto con 2 cipolle, 1 carota, 1 gambo di sedano e burro. Quando il soffitto è pronto, unite le aringhe e prezzemolo tritato e cuocete ancora per 1 minuto. Con questo ragù condite la pasta che più vi aggrada. Tritato e legato con pane grattugiato e 1 uovo diventa un ottimo ripieno per ravioli. Insalata di aringhe, patate e cipolle rosse. Per 4. Spezzettate 3 filetti di aringa dissalati. Affettate sottilmente

2 cipolle rosse, mettetele a mollo in acqua per 1 ora poi scolatele e asciugatele. Tagliate a fette 2 patate bollite. In una ciotola mescolate tutti gli ingredienti. Condite con panna acida, niente sale, non dovrebbe servire, e lasciate riposare per mezza giornata, mescolando di tanto in tanto per amalgamare i sapori. Ceviche di aringhe all’arancio. Per 4. Fate marinare 4 aringhe fresche, diliscate, in poco olio, 1 bicchierino di aceto di mele, 1 arancia spremuta, 1 schizzo di Grand Marnier e bacche di ginepro per almeno 12 ore. Scolatele, asciugatele bene e tagliatele a filetti. Serviteli su sottili fette di arance private della buccia, condite con un’emulsione di olio, aceto di mele, poco succo di arance ed eventualmente poco sale.

Ballando coi gusti Oggi due piatti di pasta ricchi di proteine, che quindi sono del tutto piatti unici. Scrivo «pasta», usate quella che più vi piace.

Pasta con triglie

Pasta con pancetta

Igredienti per 4 persone: 280 g di pasta a piacere · 300 g di filetti di triglia · 150 g

Ingredienti per 4 persone: 280 g di pasta a piacere · 300 g di pancetta in un unico pezzo · 200 g di broccoli · 1 peperoncino piccante · 1 spicchio di aglio · formaggio tipo grana · olio di oliva · sale e pepe.

Mondate bene i filetti di triglia, tagliateli a cubetti e passateli velocemente nella farina. Dissalate i capperi. In una casseruola scaldate l’olio e lo spicchio di aglio, unite le triglie e rimescolate in modo che prendano colore. Levatele e tenetele in caldo. Unite la salsa di pomodoro e i capperi. Insaporite con un po’ di origano e cuocete per 3 minuti. Regolate di sale e di pepe. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata al bollore, scolatela al dente e versatela nel tegame con il sugo; mantecate per 1 minuto, mescolando e unendo un poco dell’acqua di cottura della pasta, unite le triglie, mescolate per 30 secondi e servite.

Lavate, mondate e sminuzzate i broccoli. Tagliate a dadini la pancetta, poi soffriggetela nell’olio insieme al peperoncino tritato e all’aglio. Aggiungete i broccoli e proseguite la cottura per circa 15 minuti, mescolando di tanto in tanto e unendo acqua calda quando necessario. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata al bollore, scolatela al dente e versatela nel tegame con il sugo; mantecate per 2 minuti, mescolando e unendo un poco dell’acqua di cottura della pasta, regolate di sale e servite.

di salsa di pomodoro · 1 cucchiaio di capperi sotto sale · 1 spicchio di aglio · origano · farina, olio di oliva · sale e pepe.


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Ambiente e Benessere

Punge ma è ricca di clorofilla Eliana Bernasconi Poiché cresce facilmente presso i ruderi antichi, l’Ortica fu spesso accompagnata da credenze e leggende che le attribuivano virtù magiche: si riteneva che, gettata nel fuoco del camino, potesse allontanare i fulmini e che possedesse il potere di guarire dalla febbre una persona della quale si fosse pronunciato il nome tenendo in mano una pianta capovolta in una notte di luna piena. Sognare inoltre di essere colpiti dal suo potere urticante era ritenuto un sicuro segno di futuri successi. Non lasciatevi ingannare dal suo umile aspetto: questa pianta nasconde ricchezze incredibili. Il nome deriva dal latino urere, cioè «bruciare», non senza motivo. Come ben sanno coloro che osano sfiorarla senza guanti, il fusto robusto e quadrangolare, le foglie triangolari e seghettate presentano caratteristici peli rigidi, corti e lunghi che a contatto con la pelle producono bruciore e prurito. Non sono urticanti invece i fiori bianco-verdognoli che si presentano raccolti in spighe. I fiori maschili si mostrano eretti e quelli femminili, penduli. In botanica l’ortica è definita pianta dioica, termine che si riferisce alla riproduzione sessuale delle piante, dove gli organi riproduttivi maschili (stami) e quelli femminili (pistilli) si trovano su piante diverse. Della famiglia delle Urticacee, conta 50 generi e 1300 specie diffuse nel mondo; cresce selvatica e può diffondersi ovunque, in ogni condizione climatica o terreno, meglio se abba-

stanza umido e ricco di azoto. La troviamo dunque lungo i fossi, ai margini di campi e boschi, in orti e giardini, ed è una pianta erbacea perenne, infestante, unica. È ritenuta la pianta più ricca di clorofilla dell’intera flora italiana. La biologa Ingrid Pfendtner le ha dedicato un manuale intero, Curare in modo naturale con l’Ortica, Ed. MacroRemainders, dove descrive le sorprendenti qualità di questa pianta sotto il profilo medicinale. L’elenco è lunghissimo, ne citiamo alcune: è depurativa, diuretica, antiinfiammatoria, ricostituente, antireumatica, è ricca di acido folico e ferro, di sali minerali come fosforo, magnesio, silicio, calcio, manganese, potassio; contiene inoltre le vitamine A, C, e K che la rendono rimineralizzante, ricostituente e tonificante. È ricca di flavonoidi e carotenoidi. Nel libro non mancano inoltre dettagliati consigli sulla sua raccolta, sull’essiccazione e sulla conservazione, su come usarla per preparare medicamenti fitoterapici casalinghi, come tinture, infusi, succo fresco, estratti oleosi, nonché composti antiparassitari e fertilizzanti per le piante e la salute degli animali domestici. Castore Durante, medico botanico umbro nato nel 1585 così descriveva l’ortica: «È così notissima pianta che si conosce da ciascuno fino nella notte oscura; le frondi e il seme dell’ortica sono molto digestivi, di modo che sanano le posteme, hanno in sé alcuna parte ventosa, con il che muovono agevolmente à la lussuria… Essa non scal-

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Fitoterapia Chiamata anche «erba brucia», l’ortica è depurativa, diuretica, antiinfiammatoria, ricostituente

da valorosamente ma è composta di molto sottili parti, di fuori calda e pungente mentre nasconde dentro la virtù refrigerativa» e proseguiva elencando una quantità incredibile di «virtù di dentro» e «virtù di fuori». Virtù peraltro convalidate dall’attuale ricerca scientifica che ne ha isolato numerosi composti e dimostrato, tra le altre cose, la sua proprietà di promuovere l’attività diuretica, l’eliminazione dei cloruri e delle scorie in generale.

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Hildegarda di Binghen, la stupefacente monaca e teologa vissuta sulle rive del Reno sotto il regno di Federico Barbarossa, in pieno medioevo, nei suoi scritti, come Herbera sempliciorum, spiegava gli usi delle numerose erbe coltivate nei monasteri anticipando di secoli le conoscenze odierne. Dell’Ortica raccomandava l’olio ricavato dal succo per curare le debolezze di memoria, inoltre, aggiungeva: «Quando è fresca e appena cresciuta

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Bibliografia

Ingrid Pfendtner, Curare in modo naturale con l’Ortica, Editore Macro Remainders, 2004, pagg. 152.

La Ford migliore

Motori Dopo 7 milioni di esemplari venduti,

la Focus si rinnova nella quarta generazione Mario Alberto Cucchi

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dalla terra l’ortica se viene cotta purifica lo stomaco e ne elimina il muco». Ma per Hildegarda la guarigione non era prodotta solo dalla tecnica e dalla medicina, occorreva includere il perdono, la consapevolezza, l’attenzione e l’intenzione del cuore; senza il risveglio e lo stimolo di questi poteri, la guarigione, insisteva, non può verificarsi. Sono peraltro state riconosciute oggi le sue proprietà di attivazione delle funzioni digestive, così come è molto conosciuta l’assunzione dell’infuso di foglie, del decotto di radici e del succo fresco che hanno effetti depurativi, rimineralizzanti, e stimolanti del metabolismo. Per uso esterno sono ottime le frizioni per rinforzare i capelli ed eliminare la forfora. Ed è persino un rimedio tradizionale per le allergie primaverili. Agli inizi del 900 con l’Ortica si producevano tessuti molto simili alla canapa. Il suo utilizzo come alimento non data da oggi. Per raccoglierla basta munirsi di guanti e forbici; dopo un lavaggio e una brevissima cottura il potere urticante sparisce. Ottimi sono la zuppa di ortiche e il risotto verde che si cucinavano nella bassa Lombardia, così come la frittata con le cime fresche, il minestrone o la salsa per il lesso.

Molti di noi vi sono saliti almeno una volta. D’altronde in vent’anni di carriera ha conquistato nel mondo oltre 16 milioni di automobilisti. Solo in Europa ne sono stati venduti 7 milioni di esemplari. Di che auto si tratta? La Ford Focus, che quest’anno è giunta alla quarta generazione (su www. azione.ch, la galleria d’immagini). «La migliore auto che abbiamo mai realizzato»: queste le parole usate da Glen Goold, Global Chief Engineer di Ford, per sintetizzare il rinnovamento che ha mantenuto il successo di questa vettura attraverso gli anni. Quest’ultima edizione è tutta nuova: motorizzazioni, trasmissioni e interni. Il tutto sviluppato su un’inedita piattaforma. La nuova Focus è disponibile sia in versione cinque porte, che station-wagon. D’altronde non tutti amano i SUV. Gli ingombri della carrozzeria sono simili a quelli della versione precedente, ma come per magia l’auto da una parte è più leggera e dall’altra più spaziosa, un risultato ottenuto grazie agli sbalzi ridotti. Il cruscotto è posizionato più avanti, riducendo e abbassando la consolle, mentre il montante è stato arretrato per garantire più «aria» ai passeggeri posteriori. Una Focus più larga e più bassa in cui anche il famoso CX, ovvero il coefficiente aerodinamico, è migliorato. È negli equipaggiamenti tecnologici dedicati al confort di marcia e alla sicurezza attiva e passiva che Focus punta a essere la prima della classe. Prodotta nello stabilimento tedesco di Saarlouis, la quarta generazione della Focus porta in dote un’innovazione in Europa per la Casa dell’ovale

blu, il display Head-Up. Si tratta di un visore a sovrimpressione che consente di tenere sempre gli occhi sulla strada grazie alla proiezione delle informazioni utili sulla superficie interna del parabrezza. Si affiancano nuove tecnologie, come l’Adaptive Cruise Control, che consente all’auto di accelerare e frenare autonomamente seguendo l’auto che la precede, attraverso il controllo adattivo della velocità. Il sistema Stop and Go spegne e riaccende il motore a ogni sosta. Lo Speed Sign Recognition riconosce i segnali stradali, mentre il Lane-Centring riconosce la segnaletica orizzontale, supportando il conducente nella gestione del traffico urbano. A questi si aggiungono il Predictive Curve Light e il Sign-based Light, destinati a illuminare al meglio ogni percorso, di giorno e di notte. Da segnalare le sospensioni attive CCD, abbinabili a tre differenti modalità di guida: Eco, Normal e Sport. Come se non bastasse, l’abitacolo può assomigliare a una sala concerti se si sceglie l’impianto audio Bang and Olufsen. E sotto il cofano? Per il prossimo anno è attesa una versione ibrida super ecologica. Intanto a livello europeo l’offerta motoristica della nuova Focus prevede unità a benzina EcoBoost e diesel EcoBlue già in grado di rispettare i nuovi standard calcolati con la procedura WLTP. Nota di merito per il pluripremiato propulsore EcoBoost di 1000 cc. che ha consumi particolarmente contenuti: soli 4,7 litri per 100 chilometri. I motori sono abbinati di serie al cambio manuale a sei rapporti o alla nuova trasmissione automatica a otto marce. Una vettura compatta con tecnologia da ammiraglia.


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Ambiente e Benessere

Insieme in viaggio

Mondoanimale Come non farsi cogliere impreparati e partire sereni con il proprio animale

Maria Grazia Buletti Ogni anno si ripresenta il tema delle vacanze da trascorrere insieme al nostro animale domestico. Di conseguenza, bisogna valutare come viaggiare in modo che il nostro particolare accompagnatore sia tranquillo e tutto fili liscio. Bisogna inoltre considerare una serie di fattori imprescindibili, a cominciare dalle norme sanitarie del Paese di destinazione così come quelle vigenti per il rientro in Svizzera, unitamente alle regole che impone il mezzo di trasporto da noi scelto, automobile, treno o aereo. La condizione essenziale per non doversi confrontare con qualche spiacevole contrattempo è dunque: informarsi per bene e organizzarsi con sufficiente anticipo. «I preparativi per volare con un animale domestico richiedono un certo tempo e una minima preparazione dell’animale», ci racconta Manuela che, insieme al marito, ha viaggiato dall’Australia a Milano con i loro tre Border Collie Akuna, Torque e Noosa. «Per questioni di peso, i nostri cani hanno dovuto viaggiare in stiva, nelle loro tre gabbie dove per fortuna stanno volentieri, perché sono stati abituati agli spostamenti che facciamo per le gare di agility dog. La loro gabbia è percepita come un luogo tranquillo dove si possono rilassare». Ciononostante, Manuela e il marito si sono prodigati per rendere il viaggio ancora più confortevole. «Oltre a tutta la preparazione sanitaria e di rito, prima della partenza, li abbiamo portati all’aeroporto affinché si abituassero ai rumori degli aerei», racconta Manuela che dice di aver voluto volare sullo stesso aereo

(«per vedere quando li hanno caricati in stiva») e di aver chiesto più volte ai piloti di controllare temperatura, aria e condizioni della stiva nella quale i suoi cani viaggiavano. «Giunti a Milano, abbiamo dovuto ancora attendere qualche ora prima di poterli ricevere, a causa della prassi di controllo veterinario e delle incombenze di sdoganamento, ma poi li abbiamo finalmente riabbracciati». Il viaggio in aereo è, di fatto, quello che bisogna programmare con maggiore attenzione, perché ogni compagnia aerea tratta il trasporto di animali domestici in modo differente, anche se simile. Prendiamo ad esempio la compagnia Swiss con la quale, fatta eccezione per i cani di utilità (come ad esempio i cani per non vedenti), possono volare in cabina insieme ai proprietari i cani e i gatti fino a otto chili di peso (incluso il peso del trasportino che deve avere dimensione massima di 55 x 23 x 40 centimetri). Devono però restare nella loro gabbia durante tutto il volo. All’acquisto del biglietto bisogna annunciarsi per tempo e produrre tutti i documenti di viaggio dell’animale richiesti dal Paese di destinazione. Inoltre, per quanto attiene al viaggio con Swiss, cani e gatti devono essere provvisti di microchip e un passeggero può prendere con sé al massimo due animali per volo. Gli animali che pesano oltre gli otto chili (e per i quali la gabbia superi le misure sopra indicate) viaggiano nella stiva come è stato nel caso dei cani di Manuela. Anche per questi, le dimensioni del box dovrà rispettare le direttive IATA. Manuela ha avuto l’ottima idea di cercare di abituare i suoi cani all’am-

Il peso e le dimensioni stabiliscono se il vostro cane potrà volare in cabina o dovrà stare nella stiva. (Pexels)

biente di volo, così come consigliano i veterinari: è bene che la loro permanenza nel box si riveli un’esperienza positiva e perciò i cani devono disporre di uno spazio sufficiente anche per il contenitore dell’acqua che non dovrà capovolgersi. Bisogna infine considerare che volare con il proprio animale comporta un costo ulteriore a cui sono esenti i cani di assistenza e protezione. I prezzi variano secondo il peso, la dimensione della gabbia e la tratta di volo. Infine, per Swiss, altri animali diversi da cani, gatti, conigli e lepri sono considerati merce. Un po’ più semplice è il viaggio con quattro ruote, anche se non bisogna farsi trovare impreparati sulle norme sanitarie, di quarantena e doganali dei

Giochi Cruciverba Un uomo mette un annuncio sul giornale: «Cerco moglie»… Trova il resto della frase completando il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 10, 2, 8, 4, 2, 3) ORIZZONTALI 1. Contiene molti fogli 5. Lo modellano i bambini 9. Oscuri, tenebrosi 10. Sono presenti... per le feste 11. Fino in fondo... 13. Greco in geometria 14. Strumenti per esplorazioni 16. Segnale internazionale 17. Intrecciano trame e orditi 18. Malattie ereditarie 19. Una Francesca attrice 20. Leone di mare 22. Una Madonna portoghese 24. Vicino al casale 25. Nome femminile 26. Ampio, spazioso 29. Anagramma di ila 30. Penisola dell’Asia orientale 31. Andar col vate... in giro 32. Due di cuori 33. Ricevimento mondano 34. Privi di spessore 36. Precetti 37. Avversione morbosa Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

diterranee dove è presente la Filaria». Il Codice stradale svizzero prescrive solo che nell’abitacolo del veicolo gli animali devono essere trasportati in modo che non disturbino il conducente e non devono costituire un pericolo né una distrazione, e questo Cristiana ce lo ha dimostrato con i suoi cani che viaggiano comodamente nelle loro gabbie. Inoltre, su lunghe tratte, essi necessitano di pause regolari per mangiare un po’, bere, muoversi e fare i propri bisogni. Si raccomanda di evitare di esporli al sole e non bisogna lasciarli mai soli in auto per lungo tempo: «Non dimentichiamo che quando le temperature salgono rischierebbero seriamente di morire». E arriviamo al viaggio in treno: «Il viaggio in ferrovia qui da noi è regolato dall’associazione ch-direct (ndr: l’organizzazione del Servizio diretto dei trasporti pubblici in Svizzera). Anche per il mio cane Cesare che pesa 20 chili (è un meticcio di taglia media) devo acquistare un biglietto e così mi accompagna un po’ ovunque nei miei viaggi in tutta la Svizzera», racconta Aldo che non si separa quasi mai dal suo cagnolone. Noi puntualizziamo solo che per le FFS, i cani sino a 30 cm di altezza al garrese, gatti, conigli, uccelli e altri piccoli animali possono viaggiare nella carrozza passeggeri gratis, ma devono sempre rimanere in una cesta o in una gabbia. Infine ci si può informare sulle offerte per animali: FFS e BLS offrono ad esempio giornaliere e abbonamenti generali per cani, validi in prima e seconda classe, secondo il biglietto del proprietario. A noi non resta che augurare a tutti buon viaggio!

paesi di destinazione e per il rientro in Svizzera. «Abbiamo tre Border Collie e un meticcio che viaggiano spesso con noi in auto o in camper: si trovano molto bene perché sono abituati, sono coscienti di viaggiare e rimangono tranquilli nelle loro gabbie. Questo anche per una questione di sicurezza: li abbiamo subito abituati a viaggiare sereni e al loro posto, dove sono rimasti anche durante il viaggio in traghetto che ci ha portati all’Isola D’Elba; Solo Zeta, un’altra nostra cagnolona, ha viaggiato con noi in cabina», racconta Cristiana che ricorda l’importanza del rispetto delle regole veterinarie: «In Europa le leggi sono chiare: vaccinazioni, antirabbia, antiparassitari nelle Nazioni dove sono necessari, come Italia e le zone me-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1

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23. Antenate 27. Corrisponde a 100 metri quadrati 28. Il re Davide ordinò di ucciderlo 30. Un figlio di Noè 31. Giorni sacri a Giove 33. Le iniziali del compositore Rossini 35. Le iniziali dell’attore Baldwin

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

M. Künzle, E. Walz, A. Cozzetto

Vincitori del concorso Sudoku su «Azione 29», del 16.07.2018 A. Ghezzi, N. Caprara

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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L’hoatzin è chiamato anche «uccello fetente» per il cattivo odore che emana, infatti impiega… Resto della frase: …QUARANTACINQUE ORE PER DIGERIRE.

I vincitori Vincitori del concorso Cruciverba su «Azione 29», del 16.07.2018

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VERTICALI 1. Radici commestibili 2. Andati alla latina 3. Le iniziali dell’attrice Rocca 4. Grave indigenza 5. Vi sale il vincitore 6. A Londra è il numero uno! 7. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 8. Nome di alcuni Papi 10. Compone i cromosomi 12. Profeta dell’Antico Testamento 15. Una volta in latino 16. È un anagramma di «astro» 17. Limiti massimi... 18. Per toglierlo rimani a bocca aperta 19. Fibra tessile sintetica 21. Rasate 22. Marsina

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non

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è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Il nome dei vincitori sarà pubblicato su «Azione». Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 luglio 2018 • N. 31

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Politica e Economia Le date della storia: 1. parte 1869-1873: due metafore di un pianeta rimpicciolito dal progresso tecnologico

Il fenomeno delle migrazioni In questa seconda parte Alfredo Venturi parla della diaspora di ebrei e armeni, due fra gli esempi più significativi di migrazione involontaria pagina 17

Integrazione difficile Ricerche dimostrano la difficoltà per i richiedenti l’asilo di trovare un’occupazione: si preparano nuove soluzioni al problema

Una banca da ripensare Il Gruppo Raiffeisen al centro di complesse vicende che coinvolgono il suo management

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pagina 19 Suonatore di tamburi si esibisce a Rawalpindi davanti a un manifesto elettorale con il volto di Imran Khan. (AFP)

Cronaca di una vittoria annunciata Elezioni farsa in Pakistan Oltre cento i seggi in parlamento per gli islamisti dell’ex campione di cricket

Imran Khan. Più indietro la Pakistan Muslim League, la formazione dell’ex premier Nawaz Sharif

Francesca Marino Hanno cominciato a festeggiare il Naya Pakistan, il Pakistan del cambiamento, non appena i primi risultati di quelle definite «le elezioni più truccate» della storia hanno cominciato a filtrare. Perché, come ampiamente previsto, Imran Khan e il suo Pakistan Tehreek-i-Insaf (PTI) sono i vincitori più o meno indiscussi di questa molto discussa tornata elettorale. Una vittoria annunciata, come si dice. Annunciata nei mesi scorsi dagli sforzi dell’esercito, che questa volta ha deciso di assicurarsi senza possibilità di errore un parlamento e un primo ministro ligi alle regole e alle posizioni politiche dei veri padroni del Paese, i militari. Annunciata dall’emorragia di candidati, comprati a suon di soldoni o di intimidazioni, dai partiti laici al PTI. Annunciata dall’esclusione a vita da tutte le cariche pubbliche e poi dall’arresto dell’ex premier Nawaz Sharif, dalla messa sotto accusa e dall’impossibilità di candidarsi di un buon numero di candidati eccellenti del Pmln di Sharif e dal Ppp dei Bhutto-Zardari. E annunciata dal trionfale ingresso in

politica di jihadi e veri e propri terroristi depennati per l’occasione dalle liste dei terroristi nazionali: Mohammed Hafiz Saeed, sulla cui testa pende una taglia della Cia di dieci milioni di dollari; Mohammed Ahmed Ludhianvi, ideologo della pulizia etnica e religiosa, e Khadim Hussain Rizvi, fautore dell’uso della bomba atomica per liberarsi dai nemici del Paese. I signori suddetti sono tutti entusiasti sostenitori di Imran Khan, meglio noto in Pakistan come Taliban Khan a causa delle sue posizioni in materia di jihadi e di rapporti con gli Usa e con l’Occidente tutto, e entreranno probabilmente nella coalizione di governo. Governo guardato con estrema preoccupazione dall’amministrazione Trump, anzitutto. Gli Usa si sono rifiutati di mandare osservatori in loco per ragioni di sicurezza, ma hanno monitorato da vicino lo svolgimento del voto: e il Dipartimento di Stato si è rifiutato di certificare come «free and fair», e cioè libere e corrette, le elezioni. Più che di elezioni si è trattato difatti di una vera e propria farsa, culminata alla fine nell’espulsione dai seggi elettorali dei rappresentanti di lista dei partiti lai-

ci e da presunti «problemi tecnici» che hanno «forzato» gli scrutatori a contare a mano i voti. Generali e servizi segreti hanno imparato a giocare con le stesse armi dell’Occidente, e lo stanno facendo a modo loro: finita l’era degli impopolari colpi di stato, adoperano l’arma della democrazia con spregiudicatezza estrema. La stampa è di fatto imbavagliata, i rapporti con gli Stati Uniti non sono mai stati peggiori e sono destinati a peggiorare ulteriormente a meno che la virata integralista del parlamento non ottenga gli effetti ripetutamente ottenuti negli anni dall’indimenticato generale Musharraf: ogni volta, cioè, che gli Usa danno un giro di vite a finanziamenti e aiuti di ogni genere, in Pakistan i jihadi riprendono piede. E la paura della bomba in mano ai terroristi costringe la Casa Bianca ad aiutare i generali pakistani a combattere i terroristi da loro stessi creati. Resta da vedere se Trump accetterà di giocare al solito gioco, se farà finta di nulla accettando un parlamento pieno di jihadi e filojihadi o deciderà di far saltare il tavolo una volta per tutte. In fondo, non è importante. Per-

ché come ben sanno cinesi e indiani, di fatto il Naya Pakistan somiglierà in modo impressionante al vecchio Pakistan, visto che è governato dagli stessi padroni. Quelli per cui i terroristi costituiscono un «assetto strategico» fondamentale, quelli che adoperano l’integralismo religioso come mezzo di coercizione primario per terrorizzare privati cittadini e tenerli costantemente sul filo del rasoio: basta un’accusa di blasfemia per essere mandati dritti in galera, e il concetto di blasfemia è molto, molto elastico. Imran Khan, che l’Occidente si ostina a dipingere come membro del jet-set internazionale, educato a Oxford e perciò accettabile come volto nuovo del Paese, è in realtà espressione di quanto di più viziato esiste nella cosiddetta democrazia pakistana: anzitutto è sempre stato, molto convenientemente, un entusiastico sostenitore dell’esercito. Negli anni, è stato folgorato sulla via di Damasco della religione di Stato: o meglio, capito che non avrebbe mai potuto vincere come populista filooccidentale fautore delle libertà democratiche, ha cambiato gli abiti di Savile Row con le tuniche politicamente cor-

rette dei patrioti e ha incominciato ad apparire sui palchi dei comizi elettorali in compagnia di terroristi, integralisti islamici e membri dei servizi segreti militari. Che alle passate elezioni lo hanno messo alla guida del KhyberPakhtunkwa per testare la sua attitudine al comando: o meglio, all’obbedienza. In anni di governo del Pti nulla o quasi è stato fatto in materia di sanità pubblica, scolarizzazione, creazione di nuovi posti di lavoro. In compenso, la polizia è stata potenziata e superpagata, e le madrasa integraliste sono state finanziate con congrui fondi statali. È improbabile, come sostiene l’exambasciatore pakistano in Usa Hussein Haqqani, che «accada un miracolo» e che il burattino si rivolti contro i suoi burattinai. Le polemiche sulla correttezza del voto continueranno per un pezzo, così come i festeggiamenti e i proclami trionfali dei vincitori. Ma a perdere non sono stati né gli Sharif né Bilawal Bhutto, che rappresentavano i principali partiti di opposizione. A perdere, come sempre, è stato il popolo pakistano privato ancora una volta perfino del fantasma di quella democrazia garantita, in teoria, dalla Costituzione.


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Politica e Economia

Un mondo rimpicciolito dal progresso Le date che hanno cambiato la storia – 1. 1869-1873: il Canale di Suez e Jules Verne, la nascita del globalismo

Federico Rampini «Papà portava i libri di Jules Verne da Mosca e ogni sera ce li leggeva ad alta voce. Il giro del mondo in 80 giorni in quella edizione non aveva illustrazioni e fu papà a illustrarlo per noi. Ogni giorno preparava con matita e inchiostro i disegni adatti per la sera stessa. Mi ricordo bene uno dei suoi disegni, rappresentava una dèa buddista fantastica e terribile, con più teste adornate di serpenti. Aspettavamo la sera con impazienza, e salivamo tutti insieme sul tavolo quando veniva il momento in cui papà tirava fuori il disegno per illustrare una scena». Quel papà era Leone Tolstoi, il maestro della letteratura russa, uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. L’episodio raccontato nelle memorie di uno dei suoi figli dà la misura dell’impatto enorme che ebbero i romanzi di Jules Verne e in particolare Il giro del mondo in 80 giorni, alla sua pubblicazione nel 1873. Fu uno straordinario interprete dell’atmosfera di fine Ottocento, i suoi romanzi d’avventure divertenti e godibili erano anche il condensato di un’ideologia potentissima, che segnò la storia dell’Occidente: il positivismo, la fiducia nella scienza, l’ottimismo sul progresso tecnologico. Il giro del mondo in 80 giorni da questo punto di vista raggiunge una vetta di perfezione, perché è una specie di enciclopedia della globalizzazione ante-litteram: un riassunto dello scibile umano di quel tempo riguardo ai trasporti, le nuove vie di comunicazione,

un globo terrestre che si fa sempre più piccolo e che viene concupito dall’intraprendenza e dalla curiosità degli occidentali. È il romanzo che preannuncia a milioni di lettori l’avvento di un’epoca nuova. Costruisce la trama del suo romanzo a partire da tre eventi fondamentali avvenuti a cavallo del 1869 e 1870. Tutti e tre sconvolgono le mappe della storia e quelle della geografia, i tempi di viaggio e di trasporto. Il 10 maggio 1869 negli Stati Uniti viene inaugurata solennemente la linea ferroviaria che unisce le due coste: da quel giorno è possibile andare da New York a San Francisco in treno. Solo in quel momento gli Stati Uniti diventano veramente una nazione unica, nel loro vasto territorio riducono le distanze e gli ostacoli geografici che sembravano insormontabili. Come sottolinea Verne entusiasta, la durata di un viaggio da San Francisco a New York passa di colpo da sei mesi a sette giorni! A pensarci bene, forse è più rivoluzionario quel cambiamento, dell’avvento del jet che riduce lo stesso viaggio a sei ore di volo. Sei mesi dopo, il 17 novembre 1869 dall’altra parte del mondo (in Egitto) viene aperto alla navigazione il canale di Suez, scorciatoia che consente di evitare la circumnavigazione dell’Africa e taglia drasticamente i tempi di viaggio tra Europa, India, Estremo Oriente (in seguito diventerà anche un’arteria strategica per il petrolio del Golfo Persico). Passano solo altri quattro mesi e il 7 marzo 1870 viene completata la ferrovia da Bombay (oggi Mumbai) a

Calcutta (oggi Kolkata): è l’equivalente della transcontinentale americana, questa unisce i due golfi opposti e le due coste del subcontinente indiano, che a quell’epoca appartiene all’Impero britannico. La concatenazione delle grandi opere è irresistibile, l’impatto sulla velocità di trasporto è fenomenale. Un giornale francese dell’epoca, «La Presse», scrive: «Con i mezzi di locomozione di oggi, diventa possibile fare il giro del mondo in ottanta giorni. È il tempo che una volta ci voleva a un aristocratico per viaggiare da Parigi a San Pietroburgo». La storia, avventurosa e ricca di colpi di scena, nasce per gioco in un circolo esclusivo frequentato da gentlemen a Londra. Il protagonista, l’inglese Phileas Fogg, scommette con gli amici del club che sarà in grado di fare il giro del mondo e tornare lì a Londra allo scadere dell’ottantesimo giorno. C’è una bella somma in palio ma non è quello il vero movente della corsa spericolata contro il tempo. C’è la possibilità di descrivere a volo d’uccello i tanti paesi attraversati, le loro civiltà remote, le strane usanze, e Verne lo farà con gusto (scopiazzando libri altrui): ma non è neanche questo il vero tema del romanzo. Il protagonista degli 80 giorni non è curioso dei paesi che attraversa; ben più attento ai paesaggi e alle persone è il suo aiutante, il fido Passepartout. A Fogg in realtà interessa il viaggio in quanto tale, la sua dimensione tecnica, il rispetto degli orari, la sfida della velocità. Moderna Odissea, il cui Ulisse è freddo e razionale: l’unica divinità che

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Un manifesto per lo spettacolo teatrale di Jules Verne a Parigi.

si aggira ne Il giro del mondo in 80 giorni è il dio Progresso. Questo romanzo è stato definito anche un inno alla macchina a vapore. Verne si estasia e si commuove davanti alla locomotiva e al piroscafo. La rivoluzione industriale è un’epopea liberatrice, affranca l’uomo da vincoli ancestrali, lo spazio e il tempo sono alla sua mercè. Lo stesso Verne descrive il suo personaggio Fogg come un «prodotto delle scienze esatte». Il manuale degli orari è la Bibbia di Fogg, che lui consulta in modo maniacale. E fideistico: ha la certezza che non può essere sbagliato. L’età della Ragione, il positivismo, l’atmosfera ottimista che trasuda dalle pagine di Verne, è il frutto di un continuo avanzare verso livelli di efficienza superiori. A me è successo di respirare la stessa eccitazione, la stessa fiducia nel progresso, quando abitavo in Cina (dal 2004 al 2009), un Paese dove il miglioramento materiale è stato spettacolare negli ultimi decenni, ivi compreso nella qualità affidabilità e velocità dei trasporti. Molti cinesi, e altri popoli asiatici, vivono oggi una fase «alla Jules Verne», perché da loro quasi tutto funziona sempre meglio e il mondo si sta aprendo alla loro curiosità, al loro spirito d’intraprendenza, alla loro ambizione. È possibile sognare mondi lontani leggendo un annuario delle ferrovie e dei traghetti, questo accadeva nell’Ottocento a Jules Verne. A lui non sfuggiva la posta in gioco economica. Sulle locomotive e sui piroscafi viaggiano gli uomini d’affari del suo tempo, e le loro merci. Il canale di Suez e le ferrovie intercontinentali danno slancio alla prima globalizzazione del mondo contemporaneo, quella sotto l’egemonia britannica. L’apice di quel mondo coincide con una cerimonia trionfale: il giubileo di diamante della Regina Vittoria, il 60esimo anniversario del suo regno, che viene celebrato nel 1897. Il festeggiamento dell’anziana sovrana è un’esibizione di potenza da parte dell’impero più vasto della storia umana. Marciano per le vie di Londra 64’000 soldati venuti a omaggiare la loro imperatrice da tutti i continenti. La storica Barbara Tuchman ha enumerato puntigliosamente i reparti di quella sfilata, perché contengono un riassunto dell’impero: «Gli ussari canadesi, i lancieri del Galles, la cavalleria leggera di Trinidad, i lancieri con barba e turbante di Khapurthala, del Badnagar e altri Stati indiani, gli Zaptich di Cipro coi loro fez, la polizia del Borneo, gli artiglieri della Giamaica, le forze reali nigeriane, i Sikh, i cinesi di Hong Kong, i malesi da

Singapore, i neri delle Indie orientali, della Guiana britannica e della Sierra Leone». Tutto questo dispiegamento militare è solo una faccia dell’impero britannico, l’altra è il suo globalismo economico. Prefigurando quel che sarà l’impero americano nel secolo successivo, l’Inghilterra è al centro di un sistema dei commerci intercontinentale, apre il suo mercato interno ai prodotti delle colonie, talvolta a scapito dei produttori domestici. Con l’inaugurazione della prima nave dotata di celle frigorifere (la SS Elderslie costruita nel 1884) il mercato britannico comincia ad essere approvvigionato con carne e latticini importati dalla Nuova Zelanda, dall’Australia, dall’Argentina. Quando si apre il Novecento, Londra importa ormai il 60 per cento del suo fabbisogno alimentare e l’80 per cento dei cereali. Il mercato globale è una realtà, di cui Verne è stato il cantore più preveggente. Una magnifica ricostruzione dell’atmosfera di quel tempo è nelle pagine di uno storico di origine austriaca, Philipp Blom. Nel suo libro The Vertigo Years, cioè gli anni delle vertigini, l’atmosfera ottimista della Belle époque si apre con due eventi che hanno luogo proprio in Francia, le due Esposizioni Universali di Parigi che avvengono nel 1889 e poi ancora nel 1900. Della prima ci rimane la Tour Eiffel, quella freccia puntata verso il cielo che fa venire in mente i sogni di esplorazione spaziale dello stesso Verne (Dalla terra alla luna). La seconda Expo di Parigi sembra voler esibire in un luogo solo tutti gli esotismi descritti dal Giro del mondo in 80 giorni. Nel 1900 la capitale francese si trasforma in un parco attrazioni, precursore di EuroDisney o di Las Vegas, all’insegna della globalizzazione. Sulla riva della Senna davanti al palazzo del Trocadero viene allestita una mostra «coloniale», un po’ parco giochi un po’ shopping mall, che mette in scena il mondo unificato dai mezzi di trasporto e dagli imperialismi occidentali. «Era un mondo elegante, innocente, eccitante – scrive Blom – dove il visitatore poteva fare acquisti in un suk del Cairo, ammirare gli artigiani di Algeri, mangiare in un ristorante cinese, visitare una pagoda cambogiana. Gli africani che risiedevano nel padiglione del Congo francese erano particolarmente ben pasciuti e vestiti con eleganza. Non c’era la minima traccia di quel che stava accadendo nella loro terra congolese: il genocidio perpetrato sotto la supervisione personale di Sua Maestà re Leopoldo del Belgio, uno degli ospiti d’onore di quella Expo».


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Politica e Economia

Flussi involontari

Fra i libri di Paolo A. Dossena

Fenomeni migratori – Parte seconda Ebrei e armeni sono fra gli esempi più significativi

di popoli in fuga dalle proprie terre

Marc Chagall, Over Vitebsk, 1914, Art Gallery of Ontario.

Alfredo Venturi Diaspora è una parola greca che significa disseminazione, tradizionalmente viene associata alla storica vicenda della popolazione ebraica costretta a lasciare la sua terra e spargersi nel mondo. Poi fu applicata ad altri esodi forzati, come quello degli armeni cacciati a più riprese dalle loro aree d’insediamento. Sono fra gli esempi più significativi di migrazione involontaria. Il dramma degli ebrei cominciò quasi sei secoli prima di Cristo con la cattività babilonese, resa popolare dalle note verdiane del Nabucco. La superpotenza mesopotamica aveva invaso la Palestina e distrutto Gerusalemme: per gli ebrei la vita era divenuta impossibile e mentre molti di loro cercarono scampo in Egitto alcune migliaia, l’intera classe dirigente, furono deportati a Babilonia. Ci rimasero per il tempo di due generazioni, e quando Babilonia cadde in potere di Ciro il persiano fu loro concesso di tornare in patria e riedificare il tempio che i soldati di Nabucodonosor avevano distrutto. Fu in pratica il secondo esodo, dopo quello leggendario che quasi un millennio prima aveva visto gli ebrei fuggire dall’Egitto sotto la guida del profeta Mosè in cerca della terra promessa. Ma non era che l’inizio: il dualismo esilio-ritorno resterà ricorrente nella cultura ebraica. Nel primo secolo sarà l’impero romano a distruggere il tempio e l’intera Gerusalemme, determinando la nuova diaspora. È una migrazione di tipo particolare, non si sceglie di partire alla ricerca di migliori condizioni di vita ma si è obbligati alla fuga, e una struggente nostalgia nutrirà per sempre l’ossessione del ritorno. Il potere imperiale non vuole che gli ebrei, quel popolo così evoluto e così ribelle, vivano a Gerusalemme dove l’imperatore Adriano intende costruire una nuova città sulle rovine della vecchia e un grande altare dedicato a Giove Capitolino al posto del mitico tempio di Salomone. Le legioni di Roma domano rapidamente la rivolta innescata da questi propositi pagani, e così la diaspora si diffonde nel Medio Oriente, nell’Africa settentrionale, nell’Europa meridionale. Sono presenze raramente stabili, perché soggette all’arbitrio di chi detiene il potere. Per esempio l’ebraismo sefardita

in Spagna, tollerato e anzi incoraggiato dai musulmani, verrà distrutto dai re cattolici dopo la reconquista. Costretti a scegliere fra la conversione e la fuga, molti ebrei cercano scampo in un’adesione fittizia alla nuova fede ma molti altri preferiscono andarsene. Si uniscono alle comunità già presenti in Nord Africa, altri si stabiliscono in Italia, Francia, Germania. Sono generalmente bene accolti, perché la loro perizia mercantile e finanziaria stimola le economie locali.

Relativamente meno numerosa rispetto a quella ebraica ma ugualmente tragica fu la diaspora armena Ma al tempo delle prime crociate comincia a farsi strada in Europa, a cominciare dalla Francia, il fenomeno dell’antisemitismo, in parte incoraggiato da un clero cristiano che agita lo spettro del «popolo deicida», in parte dal fatto che nel Medio Oriente arabizzato gli ebrei vivono in buoni rapporti con il potere: quelli che sono potuti tornare a Gerusalemme godono di autonomia religiosa e in parte amministrativa. Sono dunque, dal punto di vista di chi propugna le cruente spedizioni in Terrasanta, «amici degli infedeli» oltre che infedeli essi stessi. È il tempo delle conversioni forzate, delle prime violenze, dei saccheggi. Verso la fine del quattordicesimo secolo re Carlo VI decreta l’espulsione degli ebrei. Di nuovo in cammino, dunque: si va delineando quell’immagine dell’«ebreo errante» che è destinata a dominare il destino di questo popolo. Alcuni si rifugiano nelle enclave pontificie in terra di Francia, altri si dirigono verso l’Italia, molti di più in Germania. Qui si trovano in una singolare posizione giuridica: fin dai tempi del Barbarossa sono sottoposti, assieme ai loro beni, al diretto dominio imperiale: successivamente ebrei e patrimoni saranno distribuiti fra i principi elettori. Ormai li insegue la maledizione dell’antisemitismo, l’ostilità popolare nei loro confronti si nutre di assurde dicerie, le fake news dell’epoca, come quella che li vuole responsabili delle pestilenze e di

altre calamità. Sono confinati nel ghetto e questo accentua il loro isolamento rispetto alla maggioranza che li ospita, li tollera, a volte li perseguita. Nonostante queste difficoltà, le comunità ebraiche in Germania e nell’Europa orientale tengono viva la loro antica cultura rivestendola di usi locali. Per esempio gli Ashkenaziti, come vengono chiamati da una parola ebraica, Askenaz, che significa Germania, parlano yiddish, una lingua molto simile al tedesco. Hanno spiccato il senso della comunità, sognano il ritorno a Gerusalemme ma devono fare i conti con sentimenti diffusi di ostilità. Considerati sistematicamente responsabili di tutto ciò che non quadra nel mondo, sono il comodo capro espiatorio che paga colpe non sue, attraverso improvvise esplosioni di violenza, i pogrom, una parola russa che significa devastazione. Mentre la diaspora si allarga agli Stati Uniti, dove si forma gradualmente la più numerosa e fiorente comunità ebraica, proprio le persecuzioni subite da questa parte dell’Atlantico danno vita al sionismo: un programma di riscatto politico volto a ricreare in Palestina, nella terra degli avi, uno stato nazionale. Poi cala sugli ebrei d’Europa la notte apocalittica dell’Olocausto, sei milioni di vittime, un pogrom elevato all’ennesima potenza che rilancia il piano sionista. Relativamente più ridotta nei numeri ma ugualmente tragica la diaspora armena, conseguenza diretta del genocidio di cui questo popolo fu vittima nell’impero ottomano. Anche questo dramma ha radici antiche. Fuggiti una prima volta dalla loro terra invasa poco dopo l’anno 1000 gli armeni, di tradizione cristiana, fondarono un loro stato nella Cilicia, sulla parte meridionale dell’Anatolia. Meno di quattro secoli più tardi ne furono sfrattati prima dai Mamelucchi egiziani, quindi dai turchi. Quelli sopravvissuti all’invasione si diressero verso altre parti del Medio Oriente, per esempio fondando a Gerusalemme il quartiere armeno che esiste tuttora, e soprattutto verso l’Europa orientale. La diaspora armena raggiunge il suo apice fra Otto e Novecento, quando la folta minoranza presente nell’impero ottomano è protagonista di ripetute ribellioni contro i soprusi di un potere ostile. La reazione turca è spieta-

ta: un primo massacro ha luogo verso la fine del diciannovesimo secolo, con la conseguenza di una massiccia migrazione verso l’Europa e gli Stati Uniti. Ma il peggio deve ancora venire. È il 1915 quando esplode la grande tragedia di questo popolo. Ai ferri corti con il governo ottomano dei Giovani turchi, che fin dall’inizio della Prima guerra mondiale è ossessionato dall’idea di un’eventuale alleanza della comunità con i nemici russi, gli armeni subiscono una feroce repressione preventiva. Costretti dall’esercito a marciare per allontanarsi dai possibili punti di contatto con i russi, sono oggetto di ripetuti massacri a opera dei soldati turchi e delle milizie curde che li affiancano. Si parla di un milione e mezzo di vittime, i superstiti alimentano una nuova ondata migratoria verso il Medio Oriente, l’Europa e gli Stati Uniti. Eppure la Turchia di oggi, erede del potere ottomano, non vuole sentir parlare di genocidio. Secondo il governo di Ankara l’uso di questo termine è improprio perché non ci fu nessun progetto sistematico di eliminazione della minoranza armena, quelle morti fanno parte del bilancio bellico. Si trattò insomma di improvvisazione: fatto sta che per numero di vittime la sorte degli armeni è seconda soltanto a quella degli ebrei nell’Olocausto. Un altro flusso migratorio tutt’altro che spontaneo è quello che vide centinaia di migliaia di protestanti, dopo la revoca dell’Editto di Nantes nel 1685, fuggire dalla Francia cattolica. Alla fine del secolo precedente re Enrico IV li aveva autorizzati a vivere nel paese finalmente pacificato dopo le guerre di religione. Ma ora Luigi XIV, con l’Editto di Fontainebleau, fa marcia indietro e gli ugonotti francesi si rifugiano nell’Europa protestante: Olanda, Inghilterra, Danimarca, Svizzera e soprattutto Prussia. Le stime del fenomeno oscillano fra i duecentomila e il mezzo milione di esuli. Il governo di Berlino li accoglie a braccia aperte perché si tratta di una comunità operosa, ricca di talenti e competenze, che darà un significativo contributo alla ricostruzione dopo i disastri della guerra dei trent’anni e allo sviluppo del regno destinato a trasformarsi in una delle massime potenze d’Europa.

StAnly Johny, The ISIS Caliphate: From Syria to the Doorsteps of India, Bloomsbury Publishing, 2018 Cos’è l’Isis? L’Isis è morto? Oppure ha semplicemente cambiato natura? Per rispondere a queste domande, bisogna partire dal principio. Tutto comincia nel 2011, con la «primavera araba», l’ondata di proteste che ha attraversato i regimi arabi. Il 29 giugno 2014, Al-Baghdadi, inserendosi in questa guerra civile, annuncia la nascita del califfato, sostenuto da oltre 30’000 combattenti, in grado di condizionare una vasta area come quella a cavallo tra Siria e Iraq. Un’area pari a quella occupata dalla Gran Bretagna. Fin dal suo avvento, l’Isis è visto come una banda di delinquenti. Perfino Al-Qaeda non approva le tattiche scioccanti di Baghdadi, che stabilisce record di violenza senza precedenti. L’Isis suscita orrore perfino tra gli islamisti terroristi. Eppure, il califfato attira nel suo territorio migliaia di combattenti e simpatizzanti da circa 100 paesi diversi (la Tunisia è il principale serbatoio di reclutamento). L’autore, Stanly Johny, direttore di «The Indu», nota rivista sulle relazioni internazionali, è un docente universitario indiano. Si concentra quindi su un aspetto poco noto: molti dei nuovi adepti di Baghdadi arrivano dall’India. Questo dato è la spia del fatto che, con questo afflusso di nuove reclute, l’Isis subisce un primo processo di trasformazione: da fenomeno mediorientale, comincia a globalizzarsi, lanciando attacchi dal Belgio al Bangladesh. La città di Raqqa, capitale dell’Isis in Siria, cade il 17 ottobre 2017. Mosul, l’altro centro chiave del Califfato nell’Iraq settentrionale, era stata perduta il 9 luglio dello stesso anno. «Missione compiuta», secondo Vladimir Putin, che l’11 dicembre 2017 annuncia il ritiro, dopo due anni di campagna militare, della maggior parte delle truppe russe dislocate in Siria. Il Presidente russo considera l’Isis ormai distrutto. Vladimir Putin ha ragione quando parla di completa vittoria militare sul campo. Ma oggi, nel 2018, possiamo dire che l’Isis è stato sconfitto, ma non è morto. Si è infatti trasformato in un fenomeno mondiale, con network e affiliati dal Pakistan all’Afghanistan, e dall’India alla Nigeria, attraverso i quali esercita ancora influenza. Per esempio, Boko Haram ha dichiarato fedeltà all’Isis già nel 2015. Questo gruppo jihadista, nato nel 2002, è composto da almeno 6000 combattenti, e controlla circa 20’000 chilometri quadrati nel nord-est della Nigeria. Sempre nel 2015, un ramo dell’Isis era in grado di dominare una parte della Libia, che l’attacco della Nato del 2011 ha gettato nel caos. E a tutt’oggi, superstiti del califfato sono presenti in città e deserti del Paese. Inoltre, l’Isis può ancora contare, un po’ dappertutto, su cellule autonome, su lupi solitari e su gruppi locali che hanno accolto la sua visione del mondo. Quindi, a dispetto della sconfitta che ha subito nel suo cuore territoriale, l’Isis c’è ancora, e ha trasformato se stesso e la sua ideologia. Accentuando una tendenza evidente fin dalla sua fondazione, nel 2018 l’Isis si è del tutto globalizzato. Questo significa che se è stato distrutto sul campo di battaglia, la minaccia che rappresenta per tutto il mondo non è meno grave di quando era in grado di controllare militarmente il territorio tra Siria e Iraq. Anzi, può darsi che l’Isis stia per iniziare la sua fase più pericolosa.


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Politica e Economia

Pronti per il mercato svizzero

Rifugiati e lavoro In Svizzera, dopo dieci anni, meno della metà dei rifugiati riconosciuti ha trovato un posto:

con una serie iniziative a livello nazionale si vuole favorire la loro integrazione professionale

Luca Beti C’è qualcosa che non funziona nel modello di integrazione professionale di eritrei, afgani, siriani, egiziani o iracheni in Svizzera. A dieci anni dal loro arrivo nel nostro Paese, solo il 48 per cento dei rifugiati riconosciuti ha un posto di lavoro, un tasso che scende addirittura al 25 per cento per chi è ammesso provvisoriamente. Così indica uno studio pubblicato nel 2014 su mandato della Segreteria di Stato della migrazione. Eppure una loro integrazione professionale avrebbe enormi vantaggi; basti pensare alla riduzione dei costi dell’assistenza sociale. Nel 2016 quasi l’86 per cento dei rifugiati beneficiava dell’aiuto sociale. E allora perché è tanto difficile per i rifugiati trovare un posto di lavoro in Svizzera? I motivi sono molteplici. Oltre a non conoscere a sufficienza la lingua del posto, non dispongono delle competenze professionali richieste dal mercato del lavoro. E poi ci sono le barriere culturali, i valori e le norme da rispettare o la mancanza di una rete di contatti; chiavi indispensabili per assicurarsi un impiego.

Un programma del Poli di Zurigo migliorerà l’assegnazione dei casi ai cantoni per favorire l’inserimento sociale È un problema riconosciuto da tempo sia dai cantoni sia dalla Confederazione. Alla fine di aprile hanno quindi presentato un’agenda comune per integrare più rapidamente i rifugiati riconosciuti e quelli ammessi provvisoriamente. È un’integrazione che passerà dalle competenze linguistiche – entro tre anni dovranno possedere conoscenze di base di una lingua nazionale – all’inserimento nel mercato del lavoro – la metà degli adulti dovrà aver trovato un impiego entro sette anni. Ad accompagnarli lungo questo processo su più tappe saranno i cantoni, che dal 2019 riceveranno da parte della

Confederazione una somma forfettaria per l’integrazione di 18’000 franchi per persona; sono 12’000 franchi in più rispetto al sostegno attuale. In totale ciò comporterà uscite maggiori annue per le casse statali di 132 milioni di franchi. Sul lungo termine, così indica la Segreteria di Stato della migrazione, questi investimenti saranno paganti. Per ogni franco speso per facilitare l’integrazione dei rifugiati, gli enti pubblici ne risparmieranno fino a quattro. Aumentando i contributi, il Consiglio federale si aspetta che i cantoni colmino il «Röstigraben» nell’ambito dell’integrazione. Infatti, il tasso di occupazione nel settore dell’asilo non è uguale in tutta la Svizzera. Se un rifugiato viene assegnato al canton Grigioni ha maggiori probabilità di trovare un posto di lavoro – qui sei rifugiati riconosciuti su dieci hanno ottenuto un impiego dopo 4-5 anni – mentre sarà più difficile nei cantoni di frontiera, quali Ticino e Ginevra, dove meno di due rifugiati con il permesso B su dieci sono integrati professionalmente. Così indicano i recenti dati dell’Ufficio federale di statistica. È un «Röstigraben» dovuto a vari fattori. A favorire l’integrazione professionale nei Grigioni c’è, da una parte, il contesto economico con tanti impieghi in settori professionali quali la gastronomia, il turismo o le costruzioni, ma anche i pochi ostacoli per accedere al mercato del lavoro e un tasso di disoccupazione cantonale particolarmente basso. Dall’altra, le autorità grigionesi fanno di tutto per favorirla: svolgono subito un’analisi del potenziale della manodopera proveniente da Paesi extraeuropei. Inoltre, i rifugiati sono accompagnati da uno specialista dal loro arrivo fino al momento in cui hanno raggiunto l’indipendenza economica. È un processo che ha fatto scuola e che la Confederazione intende duplicare in tutti gli altri cantoni, chiamati a realizzare l’agenda dell’integrazione. Oltre a seguire programmi consolidati, la Segreteria di Stato della migrazione si affida alle nuove tecnologie e alla scienza per aiutare i rifugiati a trovare un lavoro. Dal settembre 2018 impiegherà un algoritmo, sviluppato dal

Richiedenti l’asilo partecipano a un piano occupazionale. (Ti-Press)

Politecnico di Zurigo (ETH) in collaborazione con l’Università di Stanford, per assegnare i richiedenti l’asilo ai cantoni. Finora questi ultimi erano distribuiti secondo una chiave di ripartizione quasi casuale che teneva conto del numero di abitanti per cantone, dello stato di salute, dell’età o della nazionalità, anche per evitare la ghettizzazione. Questa chiave di ripartizione è stata però oggetto di varie critiche, poiché non terrebbe in giusta considerazione le probabilità di integrazione sociale e professionale. È già successo che un richiedente l’asilo, che masticava già un po’ di tedesco, sia stato assegnato al canton Ginevra, peggiorando così notevolmente le sue possibilità di trovare uno sbocco occupazionale. L’algoritmo dell’ETH, oltre a rispettare i criteri di distribuzione attuali, individua in quale regione del Paese un richiedente l’asilo ha maggiori chance per ottenere un posto di lavoro. I ricercatori promettono una quota di

successo del 73 per cento. In una prima fase pilota, un campione di mille richiedenti l’asilo sarà attribuito con questo metodo. I primi risultati del test sono attesi tra due o tre anni. Nel frattempo, la SEM non starà alla finestra. Nell’agosto 2018 inizierà il programma pilota «pre-tirocinio d’integrazione». Sull’arco di quattro anni saranno preparati 3600 rifugiati al mondo del lavoro attraverso una formazione pratica e scolastica. La SEM sosterrà ogni posto di pre-tirocinio con un importo annuo di 13mila franchi; cifra non sufficiente però a coprire i costi. Anche i cantoni dovranno aprire i cordoni della borsa. Berna, ad esempio, vi contribuirà con altri 7000 franchi. Gli esperti partono dal presupposto che circa il 70 per cento di chi ha trovato accoglienza in Svizzera ha le carte in regola per trovare un impiego da noi. L’idea base del progetto è di valorizzare le competenze e le esperienze che si sono portati appresso e di fare

leva sul loro desiderio di indipendenza economica e di riconoscimento sociale. Non tutti potranno però sfruttare questo trampolino di lancio. I candidati di età compresa tra i 16 e i 35 anni saranno sottoposti a una sorta di triage grazie a cui le autorità cantonali della formazione professionale dovranno individuare chi offre il potenziale migliore. Per i rifugiati, però, le prove non saranno ancora finite. Il pre-tirocino d’integrazione servirà da palestra per i datori di lavoro per reclutare i loro futuri apprendisti, soprattutto nei settori professionali che registrano una carenza cronica di giovani leve. Finora al progetto hanno aderito 18 cantoni, tra cui anche il Ticino, dove verranno creati 150 posti di pre-tirocinio: 35 nel 2018-2019 e nel 2019-2020; 80 nei due anni scolastici successivi. I campi professionali coinvolti sono l’industria meccanica, la logistica, l’agricoltura, la ristorazione e il lavoro ausiliario nel contesto ospedaliero. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Molte partenze e molte pressioni verso la ristrutturazione Gruppo Raiffeisen La gestione dell’ex-CEO Pierin Vincenz, accusato di comportamenti illeciti,

lascia parecchi strascichi. Se ne va anche il successore Patrick Gisel, ma il percorso di rinnovamento è solo all’inizio

Ignazio Bonoli Le dimissioni (annunciate per la fine dell’anno) del CEO del gruppo Raiffeisen Patrick Gisel sono probabilmente il segnale definitivo all’avvio del vasto progetto di ristrutturazione a cui il terzo gruppo bancario in Svizzera viene sottoposto di questi tempi. Nessuno mette in dubbio l’onestà e la correttezza di Gisel. Tuttavia le pressioni per un abbandono del posto di massimo dirigente sono andate aumentando, da quando l’arresto del suo predecessore Pierin Vincenz ha scatenato una serie di problemi, sfociati dapprima nelle dimissioni di alcuni membri del Consiglio d’amministrazione, a partire dal suo presidente. Ed è appunto a quest’ultimo che si rimprovera l’incapacità di risolvere una situazione scabrosa, nella quale il CEO Vincenz era diventato una specie di padrone assoluto della banca, commettendo anche il grave errore di mischiare affari personali con quelli dell’istituto. A Gisel si rimprovera di aver avuto contatti molto stretti con Vincenz e quindi di essere probabilmente a conoscenza (finora non provata) della situazione che si andava creando. Ne è derivata una vera e propria bufera, più al di fuori della banca che al suo interno. Infatti, già agli inizi di

febbraio, Raiffeisen ha presentato i risultati del 2017, che sono i migliori della sua storia e a quel momento non si prevedevano dimissioni di sorta da parte dei dirigenti. Gisel aveva sostituito Vincenz già nell’ottobre 2015 e aveva poi smentito qualsiasi sospetto di aver avuto conoscenza delle operazioni del suo predecessore. Ma da qualche tempo le pressioni per un abbandono della carica andavano aumentando, soprattutto in vista di una completa ristrutturazione del gruppo, quindi con nuove strutture e nuovi responsabili. Ma anche queste dimissioni rischiano di creare qualche difficoltà a un gruppo che è già alle prese con la sostituzione di membri del Consiglio d’amministrazione (oggi presieduto ad interim da Pascal Gantenbein), compreso il presidente. Un’operazione non da poco se proprio il Consiglio d’amministrazione è accusato di essersi lasciato sfuggire di mano la situazione e quindi non aver esercitato il suo mandato di alta vigilanza sulla gestione della banca. Un comitato ristretto di tre persone è incaricato di preparare le nuove nomine, da proporre all’assemblea dei delegati, convocata per il mese di novembre. La situazione creatasi con Pierin Vincenz – soprattutto tra il 2012 e il 2015 – era veramente intollerabile per un gruppo come Raiffeisen. Va, infatti,

ricordato che Raiffeisen ha una struttura tutta particolare. Intanto – in quanto eccezione a quanto prescrive la legge sulle banche – ha lo statuto di cooperativa, la cui unità centrale è eletta dai delegati delle banche locali, che sono pure delle cooperative. Al momento dell’entrata in vigore della legge sulle banche, vi sono state forti discussioni, perché le autorità politiche federali volevano cambiare la struttura del gruppo. Un primo tentativo portato in assemblea venne seccamente respinto dai delegati. Solo dopo aver ottenuto alcune garanzie, l’assemblea accettò i nuovi statuti. Preminente per le autorità fu la concessione di maggiori poteri, e quindi anche di responsabilità, all’Unione (la centrale con sede a San Gallo) che poté quindi emanare direttive vincolanti e aumentare la sorveglianza sulle singole banche. Un altro aspetto importante è la presenza di associazioni regionali, in costante contatto con la Centrale, ma gelose dell’autonomia delle banche locali. Il lavoro di rinnovamento deve passare attraverso questa struttura e quindi godere di un vasto consenso tra i soci dei singoli istituti e i loro delegati. Si tratta di 21 associazioni (o federazioni) regionali che rappresentano ben 265 banche, di cui fanno parte 1,8 milioni di soci e con 3,7 milioni di clienti.

Patrik Gisel, CEO di Raiffeisen, si è dimesso il 18 luglio scorso. (Keystone)

Su pressioni della FINMA, Patrick Gisel aveva già iniziato lo smantellamento dell’enorme castello costruito da Vincenz. In particolare evidenza tra il pubblico è stata la cessione della banca Notenstein la Roche alla Vontobel. Queste cessioni sono state ben accolte dalle banche locali e dai loro delegati. Migliorata era anche la comunicazione e il contatto della Centrale con le Federazioni regionali. Una decentralizzazione delle strutture è ben vista a questi livelli, ma la trasformazione della Cen-

trale in una società anonima non è ancora gradita. Mentre la FINMA sembra voler approfittare della situazione per spingere nella direzione della SA, almeno per la Centrale, sull’altro fronte si pensa a un rafforzamento delle Federazioni regionali, che rappresentano le banche cooperative locali e sono in fondo i proprietari del gruppo. Si salverebbe così il concetto di cooperativa, con una Centrale che serve le banche locali e non viceversa, come molti temevano. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I giovani tornano a emigrare L’emigrazione è sempre stata un fattore determinante per la demografia ticinese. Come è capitato, per secoli, anche nel caso di altri territori alpini, la terra non ha mai dato abbastanza da vivere alla sua popolazione. E quindi una parte della stessa, per potersi sostenere e assicurare un aiuto economico alle proprie famiglie, era costretta ad emigrare seguendo gli itinerari dell’emigrazione stagionale o di quella definitiva. La situazione per il Ticino cambiò radicalmente all’uscita dalla seconda guerra mondiale quando il Cantone da esportatore diventò importatore di forza lavoro e i ticinesi smisero di emigrare. Ora, se consideriamo i dati fornitici dalla statistica come indicatori di una tendenza in atto, l’emigrazione dei ticinesi ha ricominciato ad aumentare, a tassi significativi. Di quanto sta succedendo in materia di partenze dal

Ticino ci parlano Francesco Giudici, Matteo Bordoli e Danilo Bruno in un interessantissimo articolo apparso nel numero più recente della rivista «Dati» dell’USTAT. La ricerca di questi autori si concentra sul periodo 2012-2016 caratterizzato per l’appunto dall’inversione di tendenza di cui si è già detto. Conviene dapprima precisare che, attualmente, il saldo migratorio, ossia la differenza tra gli arrivi e le partenze, è sempre ancora positivo e oscilla sulle 2000 unità. A partire dal 2013, tuttavia, il saldo migratorio positivo ha cominciato a diminuire e, in tre anni, dal 2013 al 2016, si è ridotto di più della metà per l’effetto combinato di una diminuzione degli arrivi e di un aumento delle partenze. Ma dove vanno i partenti? Sette su dieci delle persone che lasciano il Ticino vanno all’estero, mentre le altre tre scelgono come nuo-

va residenza un altro Cantone elvetico. Si tratta di un fenomeno di emigrazione selettiva. Gli autori di questa ricerca hanno esaminato la composizione della popolazione che ha emigrato nel 2012 e nel 2016. In questi due anni la quota più elevata di migranti (circa il 50%) è costituita da donne e uomini nella classe di età da 20 a 39 anni. Notiamo, per dare la possibilità di un confronto, che, nel totale della popolazione, il peso di questa classe di età è solo pari al 22%. Ed è anche in questa fascia di età che si osserva l’aumento più forte di partenze, tra il 2012 e il 2016. Aggiungiamo che, contrariamente all’emigrazione di un tempo, che riguardava quasi esclusivamente gli uomini, oggi le donne emigrano dal Ticino in misura più o meno equivalente a quella degli uomini. Un altro dato significativo, riguardante la strut-

tura per classi di età dei partenti, è che verso l’estero emigrano praticamente solo le persone in età lavorativa. Nell’emigrazione dal Ticino di oggi i rientri di immigrati che vanno in pensione e tornano al loro paese, sono quindi diventati un’entità trascurabile. Importante è invece però il rientro di persone ancora in età lavorativa. Si tratta non solo di persone immigrate in Ticino nel passato, ma anche di stranieri nati in Svizzera e che rientrano nei paesi di origine dei loro famigliari. Quasi i due terzi delle partenze verso l’estero sono costituite dagli stranieri. Il contingente di svizzeri, nati in Svizzera, che vanno all’estero è più modesto ma cresce rapidamente. Erano 602 nel 2012 e sono saliti a 868 nel 2016. La maggior parte degli emigranti verso l’estero sceglie come destinazione l’Italia. Altre destinazioni significative ma contenute

sono Spagna, Germania e Gran Bretagna. Gli autori hanno stabilito, infine, calcolando tassi migratori per classi di età, che, per quel che riguarda le migrazioni internazionali, sono i giovani dai 20 ai 24 anni quelli che possiedono il tasso di partenze più elevato, mentre per le migrazioni intercantonali il tasso più elevato è nella classe d’età dai 25 ai 29 anni. Questi valori elevati potrebbero corrispondere al fatto che molti giovani svolgono parte dei loro studi universitari all’estero e quando rientrano trovano il loro primo impiego in un altro Cantone svizzero. Aveva quindi ragione Elio Venturelli quando, un paio di anni fa, avvertiva che la caduta del tasso di disoccupazione giovanile in Ticino era da attribuire, in buona parte, all’aumento delle partenze di giovani lavoratori verso mercati del lavoro fuori dal Cantone.

Vittorio Valletta, Cesare Romiti e lui. Così come ha avuto solo tre veri azionisti: Giovanni Agnelli, il Senatore; suo nipote Gianni Agnelli, l’Avvocato; e suo nipote John Elkann. Romiti venerava la memoria di Valletta. Si convinse che il Ragioniere «cit e gram», piccolo e cattivo, gli avesse scritto una lettera dall’aldilà, tramite il sensitivo torinese Rol, piena di consigli per gestire l’azienda («sono andato a controllare la grafia negli archivi Fiat, era proprio la sua!»). Marchionne e Romiti invece antipatizzarono fin da subito: Cesare gli fece arrivare i suoi consigli più prosaicamente attraverso un’intervista al «Corriere», per dire che il sindacato si può battere – come Valletta aveva fatto nel ’55 e lui stesso nell’80 – ma non si può dividere. In ogni caso, nessuno dei tre era un ingegnere, un uomo «di prodotto», alla Dante Giacosa o alla Vittorio Ghidella, che le macchine le creavano. Romiti veniva dall’amministrazione, come Valletta, Marchionne dall’avvocatura; tutti però sono stati uomini di finanza. Ma mentre la Fiat vallettiana prestava i soldi alle banche, quella di Romiti fu legata a doppio filo a Cuccia. Il grande merito di Marchionne è stato restituire alla Fiat autonomia finanziaria.

Anche il suo tratto aveva poco in comune con l’establishment italiano. Diretto, sincero, immediato come chi pensa in inglese, era capace di empatia e di umanità. Duro con i dirigenti intermedi, da uomo del popolo aveva simpatia istintiva per la gente. Per lui la vita e il lavoro coincidevano: non a caso si innamorò della segretaria, come molti protagonisti del Novecento industriale: Vincenzo Lancia, Michele Ferrero, lo stesso Valletta. In politica fu governativo, proprio come i predecessori, badando a non legarsi troppo a un leader o a un partito. Valletta scendeva a Roma in vagone letto ogni mercoledì sera, per andare a trovare Saragat, La Malfa, talora il Papa, sempre l’amante; poi il giovedì passava dall’Avvocato al Grand Hotel, respingeva l’invito a cena, cavava dalla borsa una mela e un temperino, si rifocillava e riprendeva il vagone letto, in tempo per timbrare a Mirafiori il cartellino numero 1 il venerdì mattina. Romiti si trovò a fronteggiare il Pci e la Cgil al massimo storico, e l’ebbe vinta. Per Marchionne l’Italia è stata molto meno cruciale. Con Renzi si scontrò all’inizio, quando gli venne attribuita una frase che un uomo della sua intelligenza non avrebbe mai

detto, «Firenze città piccola e povera» (povera la città di Giotto, Dante e Brunelleschi?). Poi fu amore, nel senso che Renzi si innamorò del suo stile brusco, lo considerò un complice della rottamazione, ignaro che quando i politici perdono il potere i manager guardano oltre. Marchionne l’ha fatto pure con Obama, quando ha riportato uno stabilimento in Michigan dal Messico come prova di apertura a Trump. E comunque la sua energia era tale da consentirgli di seguire anche la Juve, la Ferrari, i giornali, tutto il grappolo di interessi e passioni che ha fatto della Fiat e degli Agnelli non solo il primo gruppo industriale, ma una sorta di dinastia regnante su un Paese diviso e insicuro di sé. Alla fine Marchionne non ha fondato una sua azienda, non si è preso un pezzo dell’impero, non è andato alla Silicon Valley, non è sceso in politica, non ha fatto nulla di ciò che si era detto sul suo conto: ha lavorato tantissimo, forse troppo, sin quasi a morirne. Riposto il pullover, tolti gli occhiali, ravviato il ciuffo sempre più rado degli ultimi mesi, resta la sua lezione. E per chi rimane si spalanca un’altra incognita, un altro cambiamento, un’altra possibilità. La storia italoamericana continua.

alpigiana di Fusio preoccupata per le mucche («Non si possono trasportare le vacche da latte per più di 4 ore. Se si ammalano ne soffre il latte e noi non possiamo più lavorare»), mentre un produttore, anch’egli di Fusio e proprietario di un alpeggio con oltre 100 vacche sotto il passo del Naret, ha invece voluto evidenziare il fatto che in Ticino «contiamo da anni sulle vacche della Svizzera tedesca. Senza di loro niente formaggio d’alpe». E qui è chiaro che i due intervistati si sforzano di presentare queste mucche svizzero-tedesche come vere e proprie «turiste per Käse», ma lo fanno accennando altre implicazioni che potrebbero far passare in secondo piano i disagi dei trasporti sotto il sole. Il «leasing» di mucche confederate sugli alpi ticinesi (e non sono alcune centinaia: si parla di 1500 capi...) sembra una prassi ormai collaudata e v’è da

supporre che controlli, siano rispettati. Qualcuno potrebbe a questo punto porsi qualche domanda riguardo qualità e filiera dei prodotti ricavati dal latte di queste «turiste». Buttandola un po’ sul faceto si potrebbe arrivare a pensare che, leggendo in ristoranti e grotti il tradizionale elenco di proposte che riguardano i formaggi d’alpe, serviti con polenta, o con qualche goccia di miele, oppure in ricca composizione sull’asse di legno, qualche turista svizzero-tedesco possa esigere che nel menù venga menzionato che quel formaggio d’alpe proviene da latte di giovenche di Rohrbachgraben o di Niederbipp, un po’ come avviene per il vino d’origine controllata. Ma, stando a vicenda e dichiarazioni, potrebbero nascere anche ipotesi e illazioni più serie, spingere qualcuno a chiedere se queste «vacanze in Ticino», oltre ad essere pericolose per le soste in colonna

delle mucche, siano conformi a tutte le norme sui trasporti di animali. Addirittura qualche zelante funzionario potrebbe sentirsi autorizzato a chiedere lumi o precisazioni in merito a eventuali sussidi che vengono elargiti per le vacanze di queste mucche, per trasporti o foraggiamento di animali da alpeggio, o magari (si sa che le vie dei sussidi sono infinite) collegati con la salvaguardia di alpeggi, pascoli e prati montani. Insomma, una notiziola di poche righe, potrebbe diventare punto di partenza per l’approdo a tanti interrogativi. Una certezza comunque l’ha già recata: finalmente sappiamo perché durante le nostre gite sugli alpi ticinesi spesso le mucche mostrano di non capire quel che diciamo loro in italiano. Probabilmente sono delle fortunate «turiste per Käse» e conoscono solo il dialetto delle pianure svizzero-tedesche.

In&outlet di Aldo Cazzullo Un uomo di prodotto La scomparsa di Sergio Marchionne in Svizzera ha destato in Italia grande commozione, grandi interrogativi, e anche qualche abbaglio. Marchionne non ha salvato la Fiat come la conoscevamo, Fabbrica italiana automobili Torino. Ha preso atto della sua fine e l’ha trasformata in qualcosa di radicalmente diverso: una multinazionale con sede legale ad Amsterdam e fiscale a Londra, base in America e qualche stabilimento in Italia – oltre ovviamente al polo torinese di cultura industriale –, ora affidati a un manager britannico. Questo atto di distruzione creativa, come diceva lui stesso citando l’amato Schumpeter, non si è limitato all’azienda. Legatissimo a un’Italia immaginaria e immaginata – lo scudetto tricolore, il padre carabiniere, l’Abruzzo delle origini –, Marchionne sentiva ed esprimeva un’estraneità al limite del disprezzo per l’Italia reale, com’era diventata durante la sua assenza. Non stimava Berlusconi e non lo nascose neppure quando era l’uomo più potente d’Italia; rifilò alle principali banche un pacco mica male, mantenendo con Gabetti il controllo dell’azienda alla famiglia; uscì da Confindustria, che ai tempi di Agnelli

era stata una dependance della Fiat. E trovò un segno per raccontare la propria alterità: il maglione scuro al posto della giacca e cravatta dell’establishment, concedendosi anche il vezzo – non per mancargli di rispetto da morto, ma per restituirne la fisicità da vivo – della forfora sulle spalle. Eppure, nonostante la sua rivoluzione e la sua diversità, la forza del destino è tale che pure Marchionne si ritrova inscritto nella saga secolare degli Agnelli e della Fiat. Una simbiosi che dura da 120 anni – un’era siderale nel capitalismo moderno –, su cui talora la sorte è scesa come una mannaia: l’elica dell’idrovolante che colpisce alla nuca Edoardo Agnelli nel mare di Genova (14 luglio 1935); la fine crudele e prematura dell’erede designato, Giovanni Alberto Agnelli (13 dicembre 1997); il volo giù dal viadotto della Torino-Savona di Edoardo junior (15 novembre 2000); la morte improvvisa di Umberto Agnelli, che aveva atteso il potere per tutta la vita e l’aveva perso in poco più di un anno (27 maggio 2004). Marchionne fa parte della stessa storia non solo per la fine inattesa e ingiusta, ma perché in oltre un secolo la Fiat ha avuto soltanto tre grandi manager:

Zig-Zag di Ovidio Biffi Turiste per... Käse Verso fine giugno i media ticinesi hanno ripreso dall’agenzia Ats una notizia abbastanza curiosa, senza prestare troppa attenzione alle implicazioni che essa poteva comportare per il nostro cantone. Eppure gli indizi non mancavano: la notizia proveniva da Uri, cantone vicino e amico (anche se ha abolito l’italiano dalle sue scuole, per cui fra trent’anni per parlare con qualcuno di Erstfeld dovremo usare il dialetto cokney dei sobborghi londinesi...), e riguardava traffici attraverso il San Gottardo, quindi quella via delle genti che da millenni unisce siciliani e norvegesi, perciò anche ticinesi e confederati. Ma quest’ultimo richiamo è ormai relegato al solo mito, visto che nel Terzo millennio i passaggi decisamente sono fuori controllo, come del resto prova la notizia data: le mucche trasportate dalla Svizzera tedesca in Ticino, tra fine maggio e fine giugno,

rischiano addirittura di morire se fa troppo caldo. La denuncia è partita da un articolo del «Blick» sulla decisione della polizia urana di vietare l’uso della strada cantonale, quando sulla A2 ci sono lunghe colonne, agli autocarri che trasportano mucche dalle pianure svizzero-tedesche a estivare (significa «passare l’estate») sugli alpeggi ticinesi; in pratica l’accesso alla galleria del Gottardo da Göschenen rimane «tabù», anche per le mucche. Il divieto costringe ora le autorità urane a cercare altri rimedi se vorranno evitare che le prolungate colonne in autostrada si trasformino in «viaggi dell’orrore» per le mucche confederate. La faccenda, come spesso capita, consente diverse letture. Una potrebbe riguardare anche il nostro cantone dal momento che la notizia riporta anche i pareri di due ticinesi: un’anziana


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Cultura e Spettacoli Il fascino del condominio La residenza Mayerling nasconde un segreto: leggere Bernard Quiriny per scoprirlo

Il ritorno di Amy ed Emily Un nuovo album live per le Indigo Girls in cui si mescolano brani storici e suggestive ambientazioni orchestrali

Arte alpina Giovanni Netzer ha creato una fitta rete artistica che gli è valsa il Premio Wakker 2018 pagina 24

Gli scatti di Berengo Gardin Il grande fotoreporter italiano racconta le sue passioni e il suo legame particolare con il Ticino

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pagina 25 pagina 22 Vecchie zitelle presso un eminente naturalista, caricatura di George Moutard Woodward (17601809). (Keystone)

Risposarmi? Piuttosto m’affogherei Pubblicazioni Nel suo libro più recente la brava Valeria Palumbo ripercorre la storia delle cosiddette «zitelle»

Maria Bettetini «Rimaritarmi eh? Più tosto mi affogherei che sottopormi più ad uomo alcuno». Così risponde Leonora all’amica Adriana che la esorta a cercare un nuovo marito dopo la morte del primo, infatti «è peccato, che voi non vi rimaritate, essendo così giovene e così bella». Siamo nel Cinquecento, a Venezia, sette donne di diversa età si ritrovano a far conversazione tra loro. Parlano di musica, di letteratura, ma anche delle loro vite. Lontano dagli uomini, in santa pace, secondo l’idea ben chiarita da Lucrezia: «se noi vogliamo poi dire il vero, noi non stiamo mai bene se non sole e beata veramente quella donna che può vivere senza la compagnia de verun’uomo». Questi dialoghi sono raccolti da una di loro, Moderata Fonte, pseudonimo di Modesta Pozzo de’ Zorzi, nel libro Il merito delle donne. Il matrimonio è visto come una gabbia che mortifica ogni velleità della donna, esser vedova o non sposata è un primo passo verso la libertà. Potremmo pensare che oggi, forse, qualcuno può percepire l’essere single come una conquista, dopo Sex and the City nessuno si azzarderebbe a negare che le donne da sole si divertono tantissimo e che i dolori vengono tutti dal rapporto coi maschi. Poi qui bisognerebbe chiedersi se le donne tra loro stanno bene proprio perché parlano degli uomini, li maledicono, si consola-

no a vicenda e poi rinfrancate tornano tra le loro braccia. Io perlomeno la penso così, come penso che certa goliardia da spogliatoio sia così appagante per uomini di tutte le età proprio perché vissuta come pausa rispetto alla presenza femminile. Espresso questo illuminante e forse anche banale pensiero, vorrei porre l’attenzione su un altro aspetto in genere poco considerato, ossia il ritorno di figure di donne felici e non sposate in tutte le epoche della storia. Insomma il trionfo delle zitelle dalla mitologia omerica alle suffragette, dalle vestali alle ragazze di Manhattan. Valeria Palumbo, che alla storia delle donne ha dedicato numerosi e godibili libri, percorre per noi una «storia vertiginosa delle zitelle», intitolata proprio Piuttosto m’affogherei (enciclopediadelledonne.it, Milano 2018, pagg. 284, € 16,00), con l’espressione che abbiamo letto sopra appartenere alla giovane vedova veneziana. Ciò che emerge è un’idea di matrimonio come di compravendita: esclusi in pressoché tutte le epoche i matrimoni d’amore, il contratto prevede la cessione da parte della donna di ogni forma di libera disposizione di sé, e l’acquisto da parte dell’uomo del corpo, del tempo, della mente, dei sentimenti della donna. Ben strano contratto, dove è una sola delle due parti che s’arricchisce, mentre l’altra paga – magari con l’aggiunta della dote – e perde.

Gli uomini potrebbero insorgere: anche loro si legano, anche loro danno qualcosa in cambio con il loro corpo, protezione, sicurezza, mantenimento… discorsi troppo contemporanei, la storia che racconta Palumbo è impietosa. E sembra andare in due direzioni opposte, infatti da un lato l’avanzare della storia ha portato avanzamenti anche alla libertà delle donne, per esempio c’è forse una prima laureata nel Quattrocento, di sicuro una prima o seconda a fine Seicento e poi a poco a poco, a partire soprattutto dai primi decenni del Novecento, le università si riempiono di donne. E così in molti altri campi in cui anche le femmine si autodeterminano sempre più. Però c’è anche un retrocedere, per esempio nel diffondersi della necessità di una dote per contrarre matrimonio, nella borghese e ipocrita ricerca di un partito «all’altezza» soprattutto economica, che ha creato il sottobosco delle zitelle intese in senso deteriore, le ragazze povere che si devono mantenere con lavori non certo dirigenziali e che si vestono di grigio, tutte ufficio e gestione dei parenti anziani. Potremmo continuare dicendo dell’esponenziale crescita degli assassinii di donne e della violenza sulle compagne, ma qui avremmo sempre il dubbio legato a ogni forma di delinquenza nella società globalizzata: sono tanti e fanno impressione perché sappiamo che av-

vengono, e lo sappiamo subito, con tutti i particolari più efferati, oppure perché effettivamente se ne compiono di più? Chi un secolo fa avrebbe saputo di ragazze segregate, mogli cadute – ma senza intenzione di cadere – dalla finestra, violenze nell’oscurità di camerette o corridoi scolastici? Espresso ancora un altro pensiero banale ma illuminante, abbandoniamo il sentiero dei dubbi e lasciamoci portare per mano da Valeria Palumbo in questa storia, a tratti divertente a tratti angosciante, delle zitelle. Che poi è sostantivo derivato da «zita», che ancora in molti dialetti significa fidanzata o ragazza da sposare, insomma donna non maritata, senza connotazione maligna. Le prime che incontriamo sono ninfe, amazzoni, dee come Atena o Minerva. Donne potenti, gelose della loro verginità o comunque della gestione del loro corpo, però mitologiche, lontanissime dalla quotidianità della donna greca, indegna anche dell’amore di uno sposo che era più rispettato se si dedicava ai giovinetti piuttosto che alla moglie o alle donne in generale. A Roma, dove le leggi consentono qualche autonomia economica e dove una volta onorata la patria non erano molti gli onori di cui tener conto, troviamo le vestali, che si potevano sposare ma ormai tardi, dopo i trent’anni. Vestale era la madre di Romolo e Remo, violata da Marte e per questo condannata a mo-

rire murata viva. La punizione per lo stupro subìto ha radici lontane. Il medioevo apre alle donne una nuova via di fuga, quel monastero dove si poteva persino imparare a leggere e scrivere, a dipingere, a essere indipendenti dai maschi sotto molti aspetti. Sappiamo di monache coltissime e potenti, tra tutte Ildegarda di Bingen. Prima che le monacazioni forzate fossero garanzia di stabilità economica per le famiglie nobili (cosa che accadde soprattutto dal Seicento), le forme di vita comune tra donne garantivano una certa autonomia: evitavano la prostituzione alle ragazze povere, insegnavano la musica o un mestiere, addirittura racconta Palumbo che quando la Riforma abolì i monasteri, le donne a poco a poco ricostruirono delle comunità religiose. Ma lo scopo è ancora la fuga e la protezione, non è ancora tempo per donne libere e colte. Non lo sarà per tanti secoli: astronomi e matematici che hanno fatto proprie le scoperte di sorelle e colleghe sono vissuti anche nel secolo scorso (dobbiamo ricordare che Einstein arrivò alla relatività grazie ai calcoli della prima moglie?). Nobel rubati, pari grado considerate come segretarie, e ancora nel Duemila si dà del dottore al primo che passa, della signora (o signorina!) a parlamentari e professori femmine. E non sarà certo il cambio di una vocale, da sindaco a sindaca, a cambiare le cose. Ma è un inizio.


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Cultura e Spettacoli

Locarno, risate e molto altro

Festival di Locarno Mancano ormai pochissimi giorni all’inaugurazione della nuova edizione della kermesse

cinematografica, l’ultima per Chatrian, che poi partirà alla volta di Berlino

Nicola Falcinella Un’edizione all’insegna dell’umanesimo. È la chiave che il direttore di Locarno Festival, Carlo Chatrian, ha scelto per la sua ultima volta alla guida della manifestazione ticinese, prima di salire un altro gradino e prendere le redini della prestigiosa Berlinale. Un tema di stretta attualità, in «un’epoca in cui le persone hanno paura di guardare in faccia al prossimo». L’apertura e l’attenzione a ciò che riguarda e appartiene agli esseri umani caratterizzano da sempre il Festival che da mercoledì fino a sabato 11 regala a una platea internazionale l’edizione numero 71.

In concorso quest’anno «solamente» 15 titoli al posto dei soliti 18; la causa: un film della durata di 14 ore Nato in coincidenza con la Dichiarazione universale dei diritti umani, Locarno festeggerà con l’Onu i settant’anni di questa fondamentale tappa. Dopo il cambio di nome, l’inaugurazione del PalaCinema e del GranRex un anno fa, non ci saranno grandi stravolgimenti, continuando in una linea di rinnovamento pur restando nel solco della tradizione. Sono confermate le sezioni (per qualsiasi informazione vedere il sito www.locarnofestival.ch) incentrate sulla Piazza Grande e il Concorso internazionale che assegnerà il Pardo d’oro, cercando di conciliare il gusto del grande pubblico con le scelte dei cinefili più radicali. Sulla carta ce n’è per tutti i palati, compresi i sette documentari della sezione parallela Semaine de la critique.

Chi si aspetta la presenza di celebrità, potrà contare su star d’Oltre oceano del calibro di Meg Ryan (cui sarà assegnato il Leopard Club Award) o Ethan Hawke (ritirerà l’Excellence Award e presenterà in piazza, per la sua regia, Blaze). Autori consacrati sono il francese Bruno Dumont (che riceverà il Pardo d’onore alla carriera e porterà il nuovo Coincoin et les z’inhumains), l’americano Spike Lee (in piazza passerà BlackkKlansman, Gran Prix al Festival di Cannes, commedia grottesca sulla beffa di un poliziotto afroamericano al Ku Klux Klan) e il prolifico coreano Hong Sangsoo, che torna in concorso con Hotel By The River, dopo la vittoria nel 2015 con Right Now, Wrong Then. Oppure cineasti più di nicchia: Como Fernando Pessoa salvou Portugal di Eugene Green, Seducao da carne di Julio Bressane, la riflessione sul ’68 Ora e sempre riprendiamoci la vita di Silvano Agosti e De chaque instant del francese Nicolas Philibert. Oltre al premio all’artista visivo Kyle Cooper, numerosi anche stavolta gli omaggi: Vittorio e Paolo Taviani, Claude Lanzmann, Francis Reusser, Wolf-Eckart Bühler e Pierre Rissient. Naturalmente ci sarà molto da scoprire, con tanti esordienti o emergenti tra i Cineasti del presente o Signs of Life. La retrospettiva, uno dei punti di forza della kermesse, sarà dedicata a un regista americano il cui nome magari non è notissimo, ma ha inciso a fondo sul modo in cui ridiamo, che sia nel genere comico o nella commedia. Leo McCarey esordì a fine anni 20 e fu tra i creatori dell’indimenticabile coppia Stan Laurel e Oliver Hardy. Diresse il capolavoro La guerra lampo dei fratelli Marx, vinse due Oscar per L’orribile verità (nel quale consacrò Cary Grant) e La mia via. Di McCarey sarà, come è consuetudine per lanciare la personale,

Dopo il Pardo, in attesa dell’Orso. (Keystone)

nella serata inaugurale a precedere Les beaux esprits di Vianney Lebasque, il cortometraggio Liberty del 1929, con accompagnamento musicale dal vivo – una prima per la Piazza. Una «comica» che tiene fede al titolo, anarchica e divertente, con Laurel e Hardy nei panni di due evasi che cercano di nascondersi su un grattacielo in costruzione. Il concorso presenterà solo 15 titoli, contro i 18-20 usuali, per via di un’altra scelta fuori dai canoni. L’argentino La Flor di Mariano Llinàs dura quasi 14 ore, con la sua struttura a episodi

che omaggiano ciascuno un genere o un periodo del cinema, e impone una riduzione nel numero dei concorrenti e una programmazione più complicata del solito. La Svizzera è rappresentata da Glaubenberg di Thomas Imbach (I Was a Swiss banker, Mary Queen Of Scots), mentre l’Italia ha Menocchio di Alberto Fasulo (autore di Tir e Genitori). Se la giuria è presieduta dal regista cinese Jia Zhang-ke (Still Life) e comprende lo scrittore Emmanuel Carrère, i registi Tizza Covi e Sean Baker (The Florida

Project) e l’attrice Isabella Ragonese, tra i favoriti ci sono anche il romeno Alice T di Radu Muntean (The Paper Will Be Blue) e Ray & Liz dell’inglese Richard Billingham. Ancora in piazza Le vent tourne di Bettina Oberli, I Feel Good di Benoit Delépine e Gustave Kervern, The Equalizer 2 di Antoine Fuqua con Denzel Washington e Melissa Leo e due italosvizzeri, le commedie L’ospite di Duccio Chiarini e Un nemico che ti vuole bene di Denis Rabaglia con Diego Abatantuono e Sandra Milo.

Tutti i segreti del condominio

Narrativa Nel libro di Bernard Quiriny si racconta la curiosa storia del condominio Mayerling

Mariarosa Mancuso È bello sapere di non essere soli. Bello sapere che, in un romanzo perlomeno, qualcuno legge gli annunci immobiliari per il puro piacere della lettura (a compulsarli quando abbiamo una casa da comprare o da affittare son capaci tutti). Qualcuno che li considera un genere letterario e ne scova le costanti. Il cielo è sempre azzurro, nelle fotografie degli appartamenti in vendita. Unica eccezione: le case senza balconi, riprese di notte con le finestre illuminate. Calore domestico, con un tocco da «finestra sul cortile»: basta per cancellare dalla mente l’estate e la voglia di cenare fuori. In strada, sempre una mamma giovane e bionda con il passeggino (segnala «speranza per un futuro radioso»). Anche una nonna, perché gli anziani rassicurano: ascoltano musica classica, vanno a letto presto, non distruggono le cassette della posta. Fiori sul balcone, vicini che chiacchierano, nessuno con la pelle appena un pochino scura. E poi, siccome siamo in Francia, si parla di «standing». Parola magica che si ritrova in ogni annuncio immobiliare, villa con piscina o studio di 14 metri quadrati (esistono, ci siamo sempre chiesti come fanno con i libri). Abbiamo trovato l’analisi degli annunci immobiliari in L’affare Mayerling di Bernard Quiriny, che già in copertina si dichiara «romanzo con-

dominiale» (edizioni l’Orma, collana astutamente battezzata «Kreuzville», dal quartiere berlinese di Kreuzberg e dal quartiere parigino di Belleville). Un invito irresistibile, forte di un meccanismo narrativo sempre promettente, come sanno i lettori di La vita: istruzio-

ni per l’uso di Georges Perec e di Il condominio di James Ballard. Andando indietro al 1882 c’è Potbouille di Emile Zola, ambientato in un palazzo parigino di rue de Choiseul. Cercando vicino a noi, troviamo Gli ultimi giorni dell’umanità di Niccolò

Letteratura alternativa: annunci di un sito francese.

Ammaniti e Condominio R39 di Fabio Deotto: una palazzina alla periferia milanese abitata da una madre con bambino, un vecchio che non può muoversi, un’attrice fuori di testa compromessa con la politica, una lavoratrice notturna. Ricca la cornice, gustoso il quadro. Il condominio Mayerling è una dimora di pregio («haut standing» nell’annuncio immobiliare) costruita dove un tempo sorgeva una villa con il suo bel parco. Ma si sa come vanno queste cose: i vecchi muoiono, gli eredi non hanno i soldi per mantenere la proprietà, gli speculatori fanno ottime offerte. In pochi mesi piazzano sul terreno 500 metri cubi di cemento, 300 tonnellate d’acciaio, 2000 tra prese e interruttori. Non viene specificato il numero dei rubinetti, ma sono loro i primi a fare i capricci, sputando poca acqua rugginosa in casa della famiglia Lequennec. Nato a Bastogne nel 1978, Bernard Quiriny insegna diritto all’università della Borgogna e finora aveva scritto racconti (sempre pubblicati da L’Orma, editore che ancora ringraziamo per Il Brady di Jacques Thorens: storia di un cinemino di Parigi che pare inventato e invece esiste davvero). Ha parentele – letterarie – con Calvino e con Borges, non mancano di ricordarlo i premi ricevuti. È perfido quanto basta per sbeffeggiare i vizi degli agenti immobiliari (prendono appunti, sostiene, e hanno

licenza di fare domande indiscrete, e ci osservano con la curiosità di un portinaio). E per sbeffeggiare soprattutto i nostri vizi e le nostre manie: ecco perché la satira funziona. «Non si vende una casa, si vende una vita» sosteneva l’ex cronista sportivo diventato agente immobiliare Frank Bascombe nei romanzi di Richard Ford. «Non siamo noi a scegliere la casa, è la casa che sceglie noi» sostiene il narratore in L’affare Mayerling, portando la provocazione all’estremo: l’appartamento invenduto è il più esigente e incontentabile (per questo certi annunci aggiungono «particolare» oppure «solo per amatori», neanche si trattasse di un appuntamento galante). Gli inquilini prendono possesso degli appartamenti e cominciano a comportarsi in maniera strana. Più strana anche rispetto alle dispute tra vicini che conducono un serio dottore – nel Condominio di James Ballard – ad arrostire un cane dopo una guerra tribale. Si direbbe che il palazzotto è stregato, come accade nel magnifico romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House. Altro titolo che starebbe bene nella bibliotechina citata in L’affare Mayerling. Storie che parlano di case, tra cui Le naif locatarie scritto da Paul Guth nel 1956 e premiato dall’Académie Française. Esiste: qualche copia usata si trova su Amazon e non vediamo l’ora che il pacco arrivi.


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Cultura e Spettacoli

Amy ed Emily, perfetto equilibrio

In 24 ore dal campo alla tua Migros.

Musica Le indimenticate Indigo Girls

tornano con un nuovo album live, in cui le atmosfere dei loro brani storici si fondono con ricercate suggestioni orchestrali

Fin dai tempi del glorioso «folk revival» dei primi anni 60, che fece della musica cosiddetta roots («delle radici») un sottogenere alquanto popolare all’interno della scena internazionale e dei palinsesti radiofonici, l’ambito del folk-rock statunitense è sempre stato popolato da miriadi di vere e proprie, misconosciute gemme – ovvero, artisti d’indubbio valore e reputazione, i quali, però, hanno finito per rimanere perlopiù sconosciuti al di fuori dei confini statunitensi. Un po’ come accaduto alle Indigo Girls, interessante duo femminile composto dalle georgiane Emily Saliers e Amy Ray – le quali, oltre a calcare le scene da oltre un trentennio, restano tra le poche artiste ad aver sempre orgogliosamente difeso i diritti delle donne lesbiche, divenendo, nel corso degli anni, vere e proprie icone del movimento LGBT. Il che, purtroppo, non basta a celare il fatto che, al pari di molte altre band della loro generazione, negli ultimi anni le collaudatissime Indigo Girls abbiano finito per smarrire in parte la via, rivelandosi incapaci di mantenere un livello artistico paragonabile a quello di album memorabili come Nomads Indians Saints (1990) e Rites of Passage (1992). Inevitabili débâcle a parte, fin dagli esordi (avvenuti nel 1987 con l’eccellente Strange Fire), la particolare forma di folk-rock prediletta da Amy ed Emily è sempre stata contraddistinta da una cifra stilistica molto personale, definibile come a cavallo tra uno spirito dichiaratamente «da palcoscenico» (con la stessa potenza live, per intenderci, del Neil Young più arrabbiato) e suggestioni di gusto fortemente cantautorale; il tutto potendo, in più, contare sull’inconfondibile caratteristica rappresentata dalle complesse e suggestive armonie vocali intessute dal duo, che vedono il timbro di voce decisamente denso e mascolino della Ray fondersi in modo inaspettatamente magistrale con quello ben più sottile e acuto di Emily – una caratteristica che ha contribuito non poco all’eccellenza live delle «ragazze indaco». Così, tutti coloro che, al pari della sottoscritta, hanno trascorso gli anni del liceo consumando (letteralmente) i nastri dello splendido doppio album dal vivo 1200 Curfews (1995), si sono scoperti ad accogliere con particolare entusiasmo la notizia che, a distanza di tanti anni, Amy ed Emily sarebbero tornate infine a regalare ai propri fan una nuova registrazione dal palco, intitolata semplicemente Live With the University of Colorado Symphony

Orchestra: una fotografia della serie di concerti intrapresa già a partire dal 2012 dalle due artiste, tuttora impegnate a «rinfrescare» il proprio repertorio tramite la collaborazione delle orchestre sinfoniche appartenenti ai diversi stati americani visitati. Nel caso di quest’album, la serata immortalata (anche stavolta su doppio CD) è quella svoltasi a Boulder, appunto in Colorado, nel 2017; e il tentativo di contaminazione stilistica proposto offre così un’esperienza di ascolto allo stesso tempo «diversa» e, tuttavia, rispettosa del materiale originale, dal momento che i brani non sono stati riarrangiati per l’occasione, quanto piuttosto arricchiti tramite l’integrazione del background orchestrale nella propria struttura melodica. E nonostante la miscela non risulti sempre del tutto riuscita (come nel caso del solenne Fugitive, che il trattamento sinfonico finisce per rendere anacronisticamente pomposo), è innegabile che classici intramontabili quali Galileo o il travolgente Chickenman assumano un carattere ancor più epico grazie al sontuoso tappeto sonoro offerto dall’orchestra; lo sottolinea, del resto, anche l’entusiasmo del pubblico, che si produce in cori estemporanei su tutti i pezzi più noti, andando a impreziosire ed enfatizzare ulteriormente l’effetto finale (come accade con l’iconico Closer to Fine). Così, resta difficile trattenere un brivido lungo la schiena davanti a brani struggenti quali Virginia Woolf e Kid Fears – o alla potenza della storica ballata romantica Ghost, immalinconita soltanto dal fatto che la voce di Emily si presenta oggi piuttosto indebolita (almeno se confrontata con quella di Amy, pressoché invariata rispetto al passato). In più, in termini di selezione musicale, la tracklist costituisce uno sforzo ben bilanciato, in quanto combina i grandi capisaldi del periodo d’oro delle Girls (dal brano di apertura, l’indimenticato Woodsong, fino a hit del calibro di Mystery e Power of Two), a pezzi che, essendo tratti da dischi più recenti, appaiono, per quanto interessanti, come meno iconici (si vedano i vigorosi Yoke e Compromise e i più romantici Damo e Love of Our Lives). Il che sottolinea come l’esperimento sinfonico possa, infine, definirsi riuscito: sebbene i fasti del passato siano difficilmente riproducibili, con questo live Amy ed Emily hanno dimostrato di potersi definire, a buon diritto e nonostante la minaccia degli anni, come «ancora sulla breccia» – e, soprattutto, tuttora intenzionate a donare ai fan lo stesso talento ed entusiasmo di un tempo.

Il più recente lavoro delle Indigo Girls.

Da marzo a ottobre le nostre insalate provengono prevalentemente dalla Svizzera o persino da regioni svizzere vicine ai punti vendita. Il tragitto dal campo alla filiale è quindi breve.

Rucola L’immancabile! E a ragione! Con il suo caratteristico sapore leggermente pungente conferisce ad ogni piatto un tocco particolare.

Lattuga Iceberg La star delle insalate. La preferita dagli svizzeri perché si conserva a lungo e allieta il palato con il suo sapore rinfrescante.

Lattuga foglia di quercia rossa Una delle tante varietà di insalata bio in vendita alla Migros. Seduce il palato con il suo aroma nocciolato.

Baby Leaves Insalata mista composta da varietà tenere a foglia sottile dal sapore delicato.

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Benedicta Froelich

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Cultura e Spettacoli

Un visionario nel cuore delle Alpi

Non solo teatro La Fondazione grigionese Origen, diretta da Giovanni Netzer, ha ricevuto il Premio Wakker 2018

per il suo contributo alla rinascita del villaggio alpino di Riom

Fabio Dozio Un bambino di nove anni, in occasione della recita natalizia alle elementari, scrive il suo primo testo teatrale che inizia con Maria che dice «brr… che freddo». Bisogna partire da qui per capire Giovanni Netzer: inventore, promotore, organizzatore, regista, fondatore e direttore di Origen, il festival di teatro, e non solo, che da una quindicina d’anni ha stravolto il panorama culturale dei Grigioni.

Uno dei capisaldi dell’importante lavoro di Giovanni Netzer è costituito dal suo rapporto con il territorio Netzer nasce a Savognin 51 anni fa. Studia a Monaco, teologia dapprima e poi storia dell’arte e teatro. Il giovane ha talento ma, invece di scegliere una carriera in città, torna in valle e mette in piedi il suo progetto. Il punto di partenza è il castello di Riom, un monumento che risale al 1227, fatto costruire dai baroni von Wangen dell’Alto Adige, ma che negli ultimi tempi è rimasto abbandonato. Giovanni lo vede, fin da quando è piccolo, dalla finestra della sua camera e da regista teatrale immagina di trasformare il castello in una sala spettacoli. E così è: fa costruire una struttura mobile in legno all’interno, palcoscenico e platea, e nel 2006 inaugura uno dei teatri più originali delle Alpi. Il rapporto di Netzer con il territorio non è casuale, è uno dei capisaldi della sua opera. Il regista sostiene infatti che il luogo influenzi il lavoro creativo e che anche il clima e il paesaggio permettano di sviluppare linguaggi diversi e nuovi. Origen – termine romancio – parte dal locale e dal passato, per proiettarsi nel globale e nel futuro. Il mondo è un palcoscenico, dice Shakespeare, e Origen si definisce un teatro del mondo. Giovanni è affascinato dai racconti biblici fin da bambino e pensa di diventare prete. La formazione in teologia gli offre un bagaglio utilissimo nelle sue opere teatrali, intessute di riferimenti alla Bibbia, alla liturgia, ai miti, ai rituali, alla storia antica e alle migrazioni. Nel corso degli anni, il direttore di Origen ha messo in scena opere teatrali e liriche e balletti con protagonisti impegnativi: Sansone e Dalila, la Regina di Saba che incontra Re Salomone sul passo del Giulia, il Mito di Babilonia, Noè confrontato con il diluvio universale, Carlomagno, l’Apocalisse e l’Esodo. Come si può facilmente intuire, opere di non facilissima divulgazione. Un registro alto e di grande qualità, ma sempre apprezzato dal pubblico, che nel corso degli anni ha manifestato una fiducia crescente nei confronti del festival culturale. Se i temi sono piuttosto originali, ciò che può sembrare addirittura provocatoria è la scelta dei luoghi. Il castello di Riom è ancora un punto di riferimento, ma nel corso degli anni Origen si è messo in cammino. Sono stati allestiti spettacoli sulla diga di Marmorera, di fronte al lago artificiale, dove anche d’estate non mancano le sere fredde e ventose; quale posto avrebbe potuto essere più indicato per narrare la storia di Noè? E ancora: alla stazione di Zurigo, nella piazza di Riom, in Engadina, sul

Il prolifico Giovanni Netzer, classe 1967. (Keystone)

passo del Giulia. Infine gli spettacoli minori, come la Commedia, una pièce multilingue che ogni anno viene recitata da un gruppo di allievi della scuola Dimitri di Verscio, in quasi tutti i villaggi della regione, nelle piazze o nelle palestre delle scuole. Il sogno di Giovanni Netzer, a proposito di luoghi da scoprire, si è avverato lo scorso anno, quando a fine luglio è stata inaugurata la torre rossa sul passo del Giulia. Il consigliere federale Alain Berset, presente all’inaugurazione, non ha esitato a definirlo un progetto «verrückt». Un progetto pazzo! Forse. Ma coraggioso, tipico dell’intraprendenza dell’artista. La torre ottagonale, alta trenta metri, può ospitare circa

duecento spettatori. Costa tre milioni di franchi ed è un progetto effimero, durerà solo quattro anni. «Se giudicassimo sempre tutto con il metro dei franchi e dei centesimi non arriveremmo da nessuna parte» ha detto Walter Bieler, l’ingegnere che ha curato la costruzione. La torre del Giulia, che merita di essere vista e visitata, fa riferimento alla torre di Babele. «Quello della torre di Babele – dice Giovanni Netzer – è uno dei miti più potenti del mondo occidentale. La metafora della costruzione incompiuta racconta il fallimento della progettualità umana. Origen si cimenta nella costruzione della torre, dando al mito una presenza nella contemporaneità. Si innalza al cielo, ma

La torre dello Julier, sull’omonimo passo, è stata inaugurata nel luglio del 2017. (Keystone)

non lo potrà mai toccare. Essa è un segnale per quei progetti che l’umanità ha davanti a sé e che non devono assolutamente fallire: il cambiamento climatico, la convivenza di diverse culture, la pace mondiale». Anche qui, come negli altri luoghi scelti da Origen, è garantita la relazione tra teatro e territorio, tra cultura e natura. Lo spettacolo inaugurale è l’opera trilingue Apocalisse di Gion Antoni Derungs, dedicato alla decadenza della città di Babilonia e alla fine del mondo. Non è facile, anzi, è impossibile descrivere in un articolo la miriade di attività inventate e proposte da Giovanni Netzer in questi anni. Assieme alle grandi produzioni che abbiamo citato, ci sono innumerevoli piccoli gioielli che hanno arricchito la cultura della valle. Canti gregoriani nella chiesa di Mistail ad Alvaschein, uno degli edifici sacri più antichi della Svizzera; musica da camera nella stalla di Riom, canti popolari in romancio nella Villa Carisch sempre a Riom, danze e balletti. Ed è impressionante come in ogni progetto, in ogni spettacolo, anche in quello più semplice, ci sia la ricerca della perfezione. Il suo direttore è poliedrico e pirotecnico nelle sue creazioni, nella sua ricerca che non si arresta. Quest’anno la Nova Fundaziun Origen ha ricevuto il premio Wakker, il riconoscimento che Heimatschutz dedica di solito, dal 1972, a un comune che si è distinto per uno sviluppo urbanistico di qualità. Origen riceve il premio per quanto sta facendo a Riom, un villaggio del Surses, la vallata del fiume Giulia, che scende dall’omonimo passo (Julier) e che collega Bivio a Tiefencastel. Heimatschutz sottolinea che la fondazione Origen e il suo festival culturale aprono nuove prospettive al patrimonio costruito e, quindi, alla popolazione del villaggio.

Riom è al centro delle attenzioni di Origen da sempre. Prima con il castello, fatto rinascere come teatro, poi la Fondazione ha acquistato Villa Carisch, un’elegante dimora costruita nel 1867 da Lurintg Carisch, cittadino di Riom, che fece fortuna in Francia. La villa è stata la casa di vacanza delle suore di Menzingen dal 1935 al 2011, quando l’ha acquisita la Fondazione. Ora è il cuore di Origen: nella Clavadeira, la stalla fienile, si tengono spettacoli e incontri, nella villa è nato un Café che richiama la tradizione dei pasticceri grigionesi. Ma non basta. La Fondazione, in questi ultimi due anni, si è data da fare per recuperare spazi che erano abbandonati o poco utilizzati. Il ristorante Taratsch, la scuola, la vecchia casa comunale, una casa patrizia disabitata e trasformata in albergo estivo. «L’impegno di Origen a Riom – ha dichiarato Netzer in occasione del premio ricevuto da Heimatschutz – va visto come un messaggio politico e sociale. Dopotutto stiamo parlando dello sviluppo della regione. Limitarsi a pensare a come conservare l’aspetto romantico dei villaggi senza fornire alcuna garanzia economica non funziona. In realtà, non sono nemmeno sicuro che la cultura possa essere una soluzione a lungo termine. Sono tuttavia certo che questi paesini hanno bisogno di nuova linfa vitale, che l’agricoltura non è più in grado di fornire. Si costruisce fuori dagli abitati, mentre le case e le stalle in paese vengono abbandonate». Cultura deriva dal latino coltivare, quindi il passaggio dal mondo agricolo a un’animazione culturale ha qualcosa di naturale. Ancora una volta, Giovanni Netzer esplora nuovi spazi, occupa il vuoto con proposte culturali diversificate, dal teatro alla cucina, che contribuiscono alla rinascita di un villaggio alpino.


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Cultura e Spettacoli

L’ultimo dei comunisti

Incontri A colloquio con il grande reporter italiano Gianni Berengo Gardin, che nel suo curriculum

vanta anche delle radici ticinesi

Ada Cattaneo «La mia vita senza macchina fotografica non so cosa sarebbe stata». Esordisce così Gianni Berengo Gardin, che dalla sua Leica non si separa mai. Tutta un’esistenza dedicata al reportage: «Ho avuto una vita bellissima e lo devo alla fotografia. Facevo quello che desideravo fare e per di più mi pagavano». Nato nel 1930, Berengo Gardin è uno dei più grandi fotografi degli ultimi decenni. Ha un approccio rigoroso alla fotografia, quasi intransigente. Il reportage è il genere che ha sempre prediletto. Abolirebbe per legge i programmi di fotoritocco; li considera un mezzo per compiere truffe, che nessuno ammette. Il digitale non è neppure preso in considerazione: per lui la pellicola è fondamentale, considerato che lavora per conservare ogni scatto. Il suo archivio comprende un milione e ottocentomila immagini. Fra queste, racconta, soltanto quattro sono state costruite a tavolino, mettendo in posa i modelli e costruendo l’immagine così come la richiedeva il committente. Tutto il resto è immortalato dalla vita reale. La sua città d’elezione è Venezia. Ma con la Svizzera ha da sempre avuto un rapporto speciale. «Lugano per me è stato un luogo importantissimo: mia mamma era di Lugano. La mia arteriosclerosi galoppante mi permette di ricordare poco, ma so per certo che i suoi genitori avevano un negozio di ferramenta in Via Nassa. Io ho vissuto tre anni a Lugano e poi ci sono tornato sovente anche in seguito. Qui c’era mio fratello Sergio. E poi le prime macchine fotografiche le comprai proprio a Lugano, nel negozio di Christian Schiefer, lui stesso un fotografo molto bravo. Abitavamo, con la mia famiglia, a Viganello e le mie prime fotografie – brutte fotografie – furono fatte al Parco Ciani. Proprio lì, sul lago. Avevo ventidue anni» Cosa faceva negli anni in Ticino?

Lavoravo alla Romantica, che credo ormai non esista più. Allora era una sorta di stabilimento balneare. Prima cominciai come bagnino alla spiaggia, nel periodo in cui ero studente, verso i diciotto anni. Poi ho lavorato al ristorante, come direttore di sala, anche con l’incarico di sorvegliare le entraîneuse e i loro accompagnatori.

Però i primi anni della sua vita li aveva trascorsi in Liguria.

Sì, sono nato per caso in Liguria, dato che mia mamma gestiva a quell’epoca l’Hotel Imperiale. Era un grande albergo di lusso a Santa Margherita Ligure, dove venivano a soggiornare anche i Savoia. Poi, con la guerra, fu requisito dalle truppe tedesche che lo utilizzarono come sede del loro comando e lo ridussero in condizioni tremende. Dopo la guerra, mia madre decise di abbandonare quel lavoro. Quindi nacqui a Santa Margherita e lì rimasi fini ai sette anni, ma la mia formazione è veneziana. Mio padre era veneziano e fin da piccolo andavo tutti gli anni, d’estate, dalle mie zie al Lido di Venezia. Dopo la guerra, quando papà tornò dall’India, dove era stato prigioniero degli inglesi, ci trasferimmo a Venezia. Ho vissuto lì tanti anni e sono molto legato a quella città. Ripercorrendo quelli che sono stati i luoghi della sua vita, anche Parigi ha avuto un ruolo essenziale: qui ha avuto modo di conoscere alcuni di quei fotografi che poi sarebbero stati i suoi maestri.

Sì, trascorsi alcuni anni in Francia, dal 1954. Ci arrivai un po’ per caso: devo premettere che una volta i genitori erano molto severi, non come avviene adesso. A me non piaceva studiare, anzi odiavo studiare. Poi me ne sarei pentito, ma ormai era fatta. Papà mi disse: «Se studi ti mantengo all’università. Se non vuoi studiare, ti arrangerai da solo». Quindi andai a Parigi, prima lavorando come cameriere e poi in un grande albergo, alla reception. Dopo queste prime esperienze, con Parigi ho sempre mantenuto intensi contatti e la mia formazione fotografica la ricevetti proprio li. È dove ho conosciuto Doisneau, Daniel Masclet e molti altri. Ma il mio vero maestro è stato Willy Ronis. Come lo conobbe?

Frequentavo a Parigi un club di fotografi che si chiamava «Trente et quarante», che accettava sia membri professionisti che amatori. Ogni settimana alcuni fotografi erano invitati a presentare il loro lavoro e qui incontrai Willy Ronis. Ma avevo in realtà già avuto modo di conoscerlo a Venezia, quando lavoravo nel negozio dei miei genitori. Avevano allora un negozio di perle e vetri di Venezia: io lavoravo lì e lui veniva spesso in città a fotografare.

Un celebre scatto di Gianni Berengo Gardin. Fu in quegli anni veneziani, quando lavorava al negozio di famiglia, che passò a occuparsi di fotografia per mestiere e non più solo come amatore?

Sì, in quegli anni. Tutto è in qualche modo legato alla Svizzera. Infatti, la persona che mi convinse era il direttore di una rivista edita a Basilea. Si chiamava «Camera» ed era allora la più importante rivista di fotografia al mondo. Il direttore veniva spesso a Venezia in occasione delle Biennali: l’avevo conosciuto e dopo poco eravamo diventati amici, così gli esposi i miei dubbi sull’idea di abbandonare il negozio, che rendeva bene, per fare invece il fotografo. Non sapevo come sarebbe andata a finire e se ce l’avrei fatta. Lui mi diede molti consigli e insistette perché facessi della fotografia il mio lavoro. Si chiamava Romeo Martinez. Martinez fu determinante per molti altri fotografi. Cartier Bresson disse che era stato il «confessore» di molti fotografi: li conosceva meglio di quanto loro conoscessero sé stessi. Presumo che abbia insistito con lei dopo avere visto le sue foto.

Sì, aveva visto le mie foto. E poi mi disse: «Vedrai che ce la fai». In effetti, così è stato e non è andata male.

Come cominciò a lavorare come professionista?

Non fu difficile perché ero già cono-

sciuto come fotoamatore. Poi ho avuto la fortuna di conoscere grandi personaggi che mi hanno commissionato dei lavori, come Cesare Zavattini e Renzo Piano. Con quest’ultimo ho lavorato quindici anni, per fotografare le sue architetture. Anche per Adriano Olivetti ho lavorato quindici anni. Collaborai anche con Günter Grass: bellissimo è il suo testo per il libro che ho realizzato sugli zingari [La disperata allegria, ndr]. Questi e altri incontri hanno facilitato il mio lavoro, le mie amicizie e la mia formazione. Ma voglio ricordare un altro passaggio in cui la Svizzera fu essenziale: la casa editrice La Guilde du Livre di Losanna mi pubblicò un libro (in cui erano contenuti anche testi di Mario Soldati e Giorgio Bassani) che non ero riuscito in nessun modo a realizzare in Italia, ma a cui tenevo moltissimo. Fu un passaggio importante per la mia affermazione.

Quale fu il rapporto con Zavattini?

Abbiamo fatto due libri insieme: uno di questi era dedicato proprio al suo paese, Luzzara, in Emilia. Ci siamo frequentati a lungo e io amavo il suo lavoro: più che il suo cinema, amavo Zavattini scrittore. L’ambiente culturale che frequentavo con lui, così come con altri autori con cui ho lavorato, è stato determinante per me: anche se a scuola ero un pessimo studente, ho poi imparato molto da questi personaggi.

Invece, per Adriano Olivetti, che lavori svolse?

Ho fotografato tutte le fabbriche, sia le architetture sia le lavorazioni di fabbrica. Si trattava di veri reportage.

Qual è stato il rapporto con la fotografia d’architettura? È un settore a sé, di cui lei si è occupato molto.

Sì. Bisogna dire che ero molto amico di Gabriele Basilico e lui mi ha insegnato a fotografare l’architettura, anche se io non so se è davvero il mio ambito. L’ho fotografata molto, per molti architetti noti e per il Touring Club. Ma io sono un fotografo di reportage: a me interessano l’uomo e le sue attività, oltre all’ambito del sociale, perché la mia formazione politica è comunista. In realtà sono tuttora comunista, probabilmente uno degli ultimi rimasti. Questo mi ha portato a interessarmi al reportage in quanto mezzo per indagare sull’uomo. Tutto il mio lavoro, in fondo, è stato a sfondo sociale. Quando si dice «sociale», si pensa sempre che si debbano affrontare solo le condizioni di chi muore di fame, ma invece tutto è «sociale». Per questo credo che il lavoro più importante fu quello con Franco Basaglia per denunciare la situazione dei pazienti all’interno dei manicomi. Quel reportage e il libro che realizzammo con Giulio Einaudi sarebbe poi servito a fare approvare la Legge Basaglia che permise la riforma degli ospedali psichiatrici.

Giallisti sul giallo

Pubblicazioni I ragionamenti teorici sul giallo di Leonardo Sciascia in una raccolta appena pubblicata Stefano Vassere «Negli anni in cui Sciascia, tra adolescenza e giovinezza, divorava trecento gialli Mondadori, il romanzo poliziesco non godeva di buona stampa in Italia: era considerato letteratura di second’ordine, mero sottobosco rispetto alle realizzazioni della cultura alta, a cui era impossibile accostarlo». Per carità; non che oggi il giallo, il poliziesco e il noir siano diventati ormai letteratura di prima fila. C’è però un dato vistoso e recente: non si fa fatica a trovare scrittori che si siano occupati di indagarne i tratti, con sguardo teorico e complessivo, con l’intenzione di trovarne essenze ed espressioni ricorrenti. Stephen King, P.D. James, Massimo Carlotto, James Ellroy sono i primi nomi che vengono in mente in questa ormai consolidata tradizione critica. E poi, storicamente e ovviamente, Leonardo Sciascia, del quale l’editore Adelphi pubblica ora un’edizione quasi filologica degli scritti sul giallo, disseminati un po’ qua e là e come spesso succede ormai difficil-

mente raggiungibili altrimenti (ce n’è anche uno pubblicato originariamente sul quotidiano «Libera Stampa», alla fine del 1958). Al di là di qualche fastidiosa ripetizione, dovuta all’ortodossia filologica della curatela, che per esempio trascrive a pagina 30 e a pagina 72 lo stesso non breve ragionamento di Giuseppe Prezzolini, l’operazione critica è decisamente interessante. Perché permette per esempio di cogliere la trasformazione tra giallo classico e la complessa costellazione del noir proprio negli anni in cui questo processo ha luogo. Il giallo tradizionale ha uno strumentario ben definito: la trama si sviluppa di preferenza nella campagna preferibilmente inglese e il fatto criminoso è risolto da investigatori tanto eleganti quanto distaccati, senza partecipazione morale alla vicenda: «un romanzo della ragione e della giustizia». Di Sherlock Holmes dice Leonardo Sciascia che «si batte per la giustizia e contro l’errore non per ragioni morali; la sua opera di investigazione si svolge al di là della morale, non ha carattere sentimentale

né esigenza di giustizia; è puro arabesco, puro esercizio di capacità razionali e deduttive». L’estetismo elegante dell’investi-

gazione è poi come polverizzato da un genere che sembra imparentato con il giallo primigenio ma che forse con quest’ultimo condivide solo il crimine come spunto di partenza. Ai geniali ragionatori britannici e comunque europei ecco sostituirsi, proprio negli anni nei quali Sciascia scrive i suoi primi saggi, i poliziotti corrotti e gli investigatori privati maudit delle due coste degli Stati Uniti. Se là la soluzione dell’enigma tendeva a risolvere tutto e a pacificare l’ambiente, qui il marciume spesso le sopravvive. Se là l’ambientazione rimaneva sullo sfondo e fissa come una specie di quinta teatrale, qui il milieu è fondamentale, tanto che non si vede come si possa ambientare una di queste torbide vicende al di fuori delle vecchie e sporche capitali della corruzione e del malaffare, celebrate e consolidate da taluna cinematografia appunto americana. Le città italiane non possono in questo senso né «fare quadro» né «fare ambiente». La difficoltà di ambientare gialli in Italia e l’impossibilità di separare il pretesto del fatto criminoso dalla descrizione di un ben

preciso ambiente hanno peraltro evangelisti importanti: per Alberto Savinio il giallo italiano è «assurdo per ipotesi», è «di seconda mano», manca del «romanticismo criminalesco del giallo anglosassone»; per Vitaliano Brancati abbiamo a che fare con «libri orribilmente mediocri, a portata di tutti»; per Gabriel García Márquez «l’aneddoto è soltanto il pretesto per radiografare il microcosmo sociale». Nella seconda parte di questo libro, che porta una serie di brevi schede sugli autori, c’è spazio per un altro ragionatore, lo svizzero Friedrich Dürrenmatt. Forse non tutti ricordano che La promessa porta un titolo in questo senso significativo: Un requiem per il giallo. E ha ragione, Sciascia, quando pone a pieno titolo il nostro Dürrenmatt tra i più attenti interessati agli stessi contenuti generali del canone. Bibliografia

Leonardo Sciascia, Il metodo Maigret e altri scritti sul giallo, Milano, Adelphi, 2018.


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Idee e acquisti per la settimana

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Evento Il Centro Migros S. Antonino ospita fino all’11 agosto una rassegna dedicata ai prodotti fatti a mano

nel nostro Cantone

Sono ben diciotto i piccoli artigiani locali che, a partire da oggi sull’arco di due settimane, sono ospitati al Centro Migros S. Antonino in occasione della speciale rassegna dedicata all’artigianato ticinese. Organizzata dall’Associazione Artigiani del Ticino in collaborazione con Migros e il nuovo Museo del legno di Cavigliano, la manifestazione vuole porre l’accento e dare risalto all’eccellenza dei prodotti realizzati interamente a mano sul nostro piccolo territorio. «I settori artigianali rappresentati sono quattordici, mentre ogni giorno si possono osservare dal vivo una decina di artigiani intenti ad offrire al pubblico dimostrazioni della loro attività», spiega Roberto Barboni, anima e presidente dell’Associazione Artigiani del Ticino. «Ospite speciale per tutta la durata della manifestazione è inoltre il “Museo del Legno”, realtà inaugurata con successo qualche mese fa a Cavigliano, che ha allestito una selezione della propria Xiloteca e qualche creazione artistica: un’occasione dall’impronta didattica per conoscere alcune specie di alberi dei nostri boschi e per scoprire delle interessanti curiosità sull’affascinante mondo del legno».

Alla rassegna sono ben rappresentate le più svariate attività artigianali del cantone, dalla tornitura del legno alle figure di feltro, dalla fusione del vetro alla pittura su seta, dai lavori in pelle e cuoio agli oggetti creativi con materiali naturali, dai prodotti di lana alla tessitura al telaio, dai gioielli in alluminio e metallo ai saponi artigianali fino ai prodotti di sartoria. «Grazie a questa manifestazione – conclude Roberto Barboni – desideriamo promuovere l’artigianato locale tra la gente; quello che, partendo dalla materia prima e curando tutte le fasi di produzione e promozione, produce oggetti fatti a mano di eccezionale qualità».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 luglio 2018 • N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Le prugne svizzere sono finalmente mature

Attualità Quest’anno la produzione locale ha dato i suoi frutti, il raccolto è abbondante e di qualità

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Come le altre varietà di frutta con nocciolo, anche le prelibate prugne sono ricche di preziose sostanze nutritive quali vitamine, sali minerali e zuccheri naturali. In Svizzera la coltivazione di prugne ha una lunga tradizione, la maggior parte della produzione si concentra nella regione di Basilea e della Valle di Frick. Prediligere frutta di provenienza elvetica, permette di avere la certezza di scegliere un prodotto di qualità, coltivato in modo sostenibile e giunto nel proprio negozio Migros dopo poche ore dalla raccolta. La scorsa settimana, con le varietà precoci «Tegera» e «Cacaks Schöne», è iniziata la raccolta di prugne rossocrociate che saranno in vendita fino all’inizio di ottobre. A maturazione tardiva sono, per esempio, le varietà Fellenberg, Cacaks Fruchtbare, Felsina, Elena e Dabrovice. Secondo l’Associazione Svizzera Frutta, per il 2018 ci si può aspettare un ottimo raccolto, tanto che nella prima metà della stagione si prevede una produzione di oltre 1400 tonnellate di prugne. Le prugne sono deliziose gustate da sole e ottime per preparare confetture, composte, crostate e piatti a base di carne. Inoltre, possono essere essiccate oppure congelate.

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Svizzera in festa

1° Agosto Alla Migros vi aspettano diverse idee per sottolineare l’importante ricorrenza della festa nazionale svizzera

Questo panino a pasta lievitata con bandierina svizzera è perfetto per la ricorrenza del 1° Agosto. Ricco di burro, è ottimo a colazione con della confettura fatta in casa oppure da solo per la merenda dei più piccoli. Panino del 1° Agosto 100 g Fr. 1.20

Chi per il 1° Agosto si concede una bella scampagnata nella natura, sa che nel cestino delle pietanze per il picnic non possono mancare le uova sode. Le sei uova svizzere con decorazione a tema provengono da galline ovaiole allevate all’aperto nel pieno rispetto delle esigenze della specie. Uova svizzere 6 pezzi Fr. 4.90

L’originale portacandele a forma di tradizionale caquelon da fondue al formaggio, rende la tavola della festa nazionale ancora più sfavillante. Al termine della giornata può trasformarsi in un simpatico omaggio da offrire ai vostri commensali. Portacandele caquelon 4 pezzi Fr. 9.80 Nelle maggiori filiali

Un dessert che farà venire l’acquolina in bocca a grandi e piccini, bello da vedere e buono da mangiare. Per le sue caratteristiche, la torta del 1° Agosto ricorda la celebre torta svedese: è preparata con pan di spagna, crema pasticcera, panna e crema di lamponi, infine dulcis in fundo, copertura di marzapane con bandiera rossocrociata. Gli stuzzicadenti con la bandierina svizzera sono un vero must per la tavola del 1° Agosto. Si possono utilizzare per decorare i canapé dell’aperitivo, un bel piatto di affettati misti e bocconcini di formaggio, oppure il goloso dessert di fine pasto. Stuzzicadenti con croce svizzera 40 pezzi Fr. 2.–

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 luglio 2018 • N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Voglia di Street Parade!

Attualità Oltre alla presenza di M-Budget come presenting partner e una Love Mobile, alla Migros trovate

anche diversi accessori originali per entrare nello spirito della più grande festa techno al mondo

Keystone

Gli amanti della musica techno si daranno appuntamento sulle rive del lago di Zurigo il prossimo sabato 11 agosto. Per la ventisettesima volta consecutiva la mega festa accoglierà centinaia di migliaia di appassionati provenienti da tutto il mondo che daranno libero sfogo alla propria voglia di ballare e divertirsi al motto di «Culture of tolerance». Oltre alla tradizionale parata delle 25 Love Mobile con musica a tutto volume tra la folla, sono previsti anche concerti dal vivo, coinvolgenti spettacoli e decine di famosi dj che si susseguiranno alle console fino al giorno dopo… Preparatevi a fare le ore piccole! Se anche a voi piace sfoggiare un look da street parade, nelle filiali Migros di Locarno, S. Antonino, Lugano e Agno troverete diversi accessori per una festa all’insegna del divertimento più sfrenato: costumi, parrucche, fantastici occhiali variopinti, trucchi, immancabili glitter, spray colorati per capelli... e naturalmente l’energy drink M-Budget.

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Ai piace al contempo cremoso, salato e carnoso. Tagliare il formaggio fresco di capra a dadini o a strisce. Rigirare a piac imento in erbe aromatiche o cospargere di pepe macinato grosso lanamente e avvolgere in fette di prosciutto crudo. Questi boccon cini sono per fetti con crostini, pane di segale o pane alla frutta per l’aperitivo oppure nell’insalata o come stuzzichino durante un picnic.


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I amano il pesce alla griglia, in par ticolare il salm one selvatico Sockeye. La sua gustosa carne color ros so intenso è ricca di salutari acidi grassi omega 3 e sul fuoco sviluppa un aroma delizioso. I salmoni vengono pes cati vicino alla costa e arrivano freschi alla Migros.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 luglio 2018 • N. 31

49

Idee e acquisti per la settimana

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Avviso importante: l’allattamento al seno è l’ideale per il suo bambino. Il latte di proseguimento è adatto solo per i bambini a partire dai 6 mesi. Chieda consiglio. *Nelle maggiori filiali

L’allattamento dovrebbe essere opportuno per mamma e bambino

Il latte materno è considerato il miglior «superfood» del mondo. Non tutte le mamme possono però allattare. Sono quindi contente di disporre di prodotti sostitutivi. Il pediatra Raphael Augsburger ci illustra le differenze e mette a tacere i sensi di colpa dei genitori Testo Reto E. Wild

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Raphael Augsburger, specialista in medicina pediatrica e adolescenziale a Urtenen-Schönbühl BE. (Foto Monika Flückiger)

Raphael Augsburger, il latte materno è considerato il miglior «superfood» del mondo. Come mai? Il latte materno fornisce al neonato una composizione ottimale di tutti i nutrienti necessari. Contiene importanti sostanze che rinforzano le difese immunitarie, vitamine, ormoni, enzimi e fattori di crescita. Quantità e composizione si adattano all’età del bambino. Il latte materno è gratuito, subito disponibile e sempre alla giusta temperatura. Nuovi studi evidenziano come il rischio di soffrire nel corso della vita di diabete, allergie, celiachia, adiposità o di infiammazione cronica dell’intestino è inferiore per i bambini a suo tempo allattati al seno. Quali altri vantaggi ci sono? Il legame tra mamma e bambino si rafforza, ciò che influenza lo sviluppo socio-emozionale. E ha ripercussioni positive sullo sviluppo cognitivo. Per quanto tempo allattano le mamme? In Svizzera la maggioranza dei bambini viene svezzata a nove mesi. Idealmente

nei primi sei mesi il neonato dovrebbe essere nutrito unicamente con latte materno. Gli alimenti complementari andrebbero introdotti al più presto alla fine del quarto mese di vita, al più tardi al termine del sesto. In seguito il contenuto di sostanze nutritive del latte materno non è sufficiente a coprire tutte le necessità. In questa fase nel latte materno è in particolare insufficiente il contenuto di ferro. A partire dai sei mesi e fino ai due anni l’allattamento va integrato con alimenti complementari, dice l’Organizzazione mondiale della sanità. È corretto? In realtà l’OMS raccomanda di continuare ad allattare fino all’età di due anni. In alcune regioni del mondo la prevenzione delle infezioni tramite l’allattamento materno è un fattore rilevante. Nei paesi a basso rischio di infezioni mancano i dati circa una possibile prevenzione. Per questo motivo l’associazione professionale nordamericana raccomanda di mantenere l’allattamento al seno in aggiunta agli altri cibi durante il primo anno di vita. Le

associazioni professionali in Europa e in Svizzera raccomandano, dopo l’introduzione dei cibi complementari, di continuare ad allattare fino a che lo desiderano mamma e bambino. Quando sono necessari prodotti sostitutivi del latte? In caso di produzione insufficiente di latte, nel caso in cui il neonato non è sufficientemente sazio e/o in caso di crescita insufficiente. In questi casi il latte artificiale va a sostituire il latte materno. Ci sono tuttavia anche casi medici specifici che portano a un’alimentazione con latte sostitutivo: malattie del neonato, per esempio malattie metaboliche, oppure malattie della mamma, sia che si tratti di infezioni o in caso di assunzione di medicamenti o terapie che possono passare nel latte. I genitori devono sentirsi in colpa per questo? Certamente no. Fondamentalmente l’allattamento al seno dovrebbe essere opportuno per entrambi (mamma e bambino). Se uno dei due non può, il latte prodotto industrialmente offre una

soluzione. Deve tuttavia essere preparato prima dell’uso. Quali sono le differenze tra il latte materno e i prodotti sostitutivi? Gli alimenti industriali per i neonati cercano di avvicinarsi all’originale. In molti aspetti ci riescono, però non in tutti. Il latte materno contiene anticorpi, ormoni, vitamine, enzimi, fattori di crescita, prebiotici e probiotici naturali aggiuntivi, che sono molto importanti per il sistema immunitario del bambino. Per questo motivo oggi ad alcuni sostitutivi del latte prodotti industrialmente vengono aggiunti oligosaccaridi. È aumentata la pressione sociale sulle donne che non allattano? È maggiore rispetto a 30-40 anni fa. Ho però l’impressione che negli ultimi anni la pressione sia nuovamente diminuita. Mi ricordo di mamme che si sentivano male poiché l’allattamento al seno non funzionava. Naturalmente sappiamo che il latte materno è il miglior alimento. Ma se l’allattamento al seno assolutamente non funziona, si può ricorrere ai prodotti sostitutivi del latte.

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Idee e acquisti per la settimana

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