La campagna nazionale di prevenzione contro la violenza punta sul tema dell’uguaglianza
Il 30 novembre siamo chiamati al voto sull’«Iniziativa per il futuro» promossa dalla Gioventù socialista
ATTUALITÀ Pagina 15
Al Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna l’incredibile eredità del vodese Felix Vallotton
CULTURA Pagina 25
Nelle sabbie del Karakalpakstan
La mitica storia dei motel che risorgono in modo nuovo dopo un periodo di decadenza
TEMPO LIBERO Pagina 47
Arriva l’enciclopedia anti-woke
Carlo Silini
Non sono mai stato un fan di Wikipedia, l’enciclopedia collaborativa online in costante evoluzione: l’idea che chiunque possa scrivere una voce a piacimento, indipendentemente dalla propria formazione e competenza, mi ha sempre stranito. Se sono un elettrauto, che titoli ho per scrivere la voce «Kant»? E se sono un filosofo, ha senso che mi occupi dell’articolo sull’«airbag»?
È vero che i controlli wikipediani ci sono, eccome, ma avvengono tramite la comunità e linee guida interne, senza un vero comitato scientifico formale. Nella vecchia poderosa UTET, o nella raffinata Treccani, invece, so che gli articoli sono firmati da esperti e sottoposti a revisione rigorosa.
La qualità informativa delle enciclopedie tradizionali è altissima. Quella di Wikipedia, meno. Gli articoli sono generalmente ben fatti e aggiornati in tempo reale (cosa impossibile per le vecchie enciclopedie). Alcune voci sono eccellenti, altre ampiamente migliorabili:
richiederebbero un’accurata verifica delle fonti, che comunque di solito vengono indicate. Se non c’è consenso, si apre una pagina di discussione. Un meccanismo democratico, non accademico.
Oggi, però, mi trovo a tifare per Wikipedia. Leggo su «Le Monde» che l’enciclopedia online è oggetto di un attacco senza precedenti da parte di Elon Musk, che il 27 ottobre scorso ha lanciato Grokipedia, una nuova enciclopedia interamente generata dall’intelligenza artificiale. Il motivo? Secondo Musk, Wikipedia sarebbe controllata da attivisti di estrema sinistra: la si dovrebbe chiamare «Wokipedia», con la «o», perché sarebbe un vettore dell’ideologia woke, cioè quell’insieme di movimenti dediti all’antirazzismo, alla parità di genere, ai diritti LGBTQ+ e all’inclusione sociale. Sinceramente, non ce n’eravamo accorti. Magari ci siamo imbattuti in voci non troppo accurate, o ben confezionate in una lingua e debolucce in un’altra. Ma che Wikipedia sia diventata il ca-
techismo degli attivisti di cui sopra… dai Elon, raccontalo su Marte.
Non vorremmo si replicasse il caso WikiLeaks, il sito che pubblicava documenti riservati ricevuti da informatori anonimi e che ha rivelato scandali mondiali, come gli abusi dei marines in Iraq o le intercettazioni degli hacker cinesi sui governi occidentali. WikiLeaks è finita nel turbine delle accuse e dei processi. Il suo fondatore, Julian Assange, è tornato libero nel giugno 2024 dopo 14 anni di tribolazioni giudiziarie e detenzione. Le differenze tra Wikipedia e WikiLeaks sono enormi, ma una cosa le accomuna: sono temute dai potenti. Sì, qualche peccato ce l’hanno. La prima, qualche voce tendenziosa tra le 64,3 milioni messe online in oltre 7.100 lingue e dialetti (dato aggiornato a gennaio 2025), sicuramente ce l’ha. Il secondo, con le sue rivelazioni improvvisamente desecretate, a volte ha messo in pericolo persone innocenti. Ma se sono prese di mira dai potenti è per un’altra ragione: perché non possono controllarle, perché mettono in di-
scussione la loro auto-narrazione scintillante. Impossibile addomesticarle e, alla bisogna, epurarle di informazioni scomode e verificabili, come le azioni giudiziarie su Trump o le controversie su Musk. Sono temute per i fatti che presentano, non per le presunte opinioni che veicolerebbero. Uno dei cinque pilastri di Wikipedia è il punto di vista neutrale: se una voce è sbilanciata, viene subito bloccata e corretta. Non si creda che un’enciclopedia scritta dagli algoritmi sia neutrale. L’obiettivo dichiarato di Grokipedia è eliminare bias, propaganda e «woke ideology», utilizzando un motore di analisi della verità che classifica le affermazioni come: vere, parzialmente vere, false, fuori contesto o propaganda. Ma la verità non la inventano le macchine: discende dalla mente del loro creatore. Un programmatore tecno-libertario, conservatore e populista. Ricchissimo, ovviamente. La verità, quando è programmata, smette di essere verità. Diventa opinione travestita da algoritmo.
Clara Valenzani Pagine 40 e 41
Apre giovedì il nuovo Supermercato Migros di Bioggio
Info Migros ◆ Il 20 novembre aprirà in Via Lugano 1 a Bioggio un Supermercato Migros di ultima generazione: la Cooperativa regionale Migros Ticino ha organizzato quattro settimane di sconti, omaggi, concorsi, iniziative e animazioni per i bimbi
Ammodernamento ed espansione della rete di vendita, sempre più sostenibile
L’inaugurazione del nuovo Supermercato Migros Bioggio, situato in una posizione strategica lungo un’importante arteria viaria che sarà presto affiancata dalla nuova rete tram-treno del Luganese, rappresenta un ulteriore passo avanti per Migros Ticino nella modernizzazione della propria rete di vendita e nel radicamento al territorio.
Con un investimento complessivo di oltre 1,8 milioni di franchi, Migros Ticino rafforza la sua presenza nel Sottoceneri, rispondendo alle esigenze della clientela locale e di passaggio.
La nuova filiale si distingue per l’uso di tecnologie avanzate e per il rispetto dei più alti standard di sostenibilità ambientale ed efficienza energetica, in linea con gli ambiziosi obiettivi di Migros. Con una superficie di vendita di 662 metri quadrati, il punto vendita, pur di dimensioni contenute, offre un assortimento ben calibrato per soddisfare le necessità della popolazione di Bioggio, dei lavoratori della zona e dei clienti in transito.
Nel centro saranno presenti anche una farmacia e un esercizio pubblico, ampliando ulteriormente l’offerta di servizi.
Beni e servizi al Supermercato Migros di Bioggio
Il nuovo Supermercato Migros è il secondo in Ticino, dopo Locarno, a essere realizzato con il nuovo concetto nazionale «Papillon», ideato per migliorare l’esperienza d’acquisto della clientela grazie a spazi più accoglienti, luminosi e moderni.
Demotape Clinic
attenzione è stata dedicata ai reparti del fresco, con il reparto Frutta e verdura come fiore all’occhiello, sempre completo e curato. La linea Daily sarà ben rappresentata, offrendo un’ampia scelta di cibi pronti caldi e freddi, bibite di alta qualità e articoli ideali per chi è di passaggio o lavora nella zona. Il reparto non alimentare proporrà una selezione di articoli per la casa, cosmetica e molto altro, calibrata
m4music ◆ Ritorna l’appuntamento con la grande musica da scoprire: avete tempo fino al 21 dicembre
Quest’anno, la Demotape Clinic di m4music è iniziata prima del solito: i nuovi talenti sono invitati a inviare i propri brani dal 5 novembre al 21 dicembre 2025. Fedele alla sua missione di scoprire la nuova scena musicale svizzera, la piattaforma del Percento culturale Migros è alla ricerca di artiste e artisti emergenti in cinque categorie: Pop, Rock , Lyrics&Beats, Electronic e Out of Genre. Durante il festival m4music (20 e 21 marzo 2026), 61 «Selected Artists» presenteranno la loro musica nelle «Live Jury Sessions». La premiazione delle vincitrici e dei vincitori della Demotape
Clinic avrà luogo il 21 marzo 2025. Dal 26 novembre 2025 al 14 gennaio 2026, m4music cerca inoltre giovani gruppi per il «New Jazz Showcase», offrendo loro l’opportunità di esibirsi dal vivo durante il festival.
m4music
m4music, il festival del Percento culturale Migros, si terrà a Zurigo il 20 e il 21 marzo 2026. Cinque palchi ospiteranno oltre 40 spettacoli con artisti e artiste emergenti dalla Svizzera e internazionali. Completano il
programma del festival la Conference, una piattaforma di scambio e catalizzatrice di nuove idee, e la Demotape Clinic, uno dei concorsi per giovani talenti più importanti della Svizzera. Dal 1998 m4music è sinonimo di scoperte musicali e incontri tra scena e pubblico. Numerosi artisti e artiste che si sono esibiti al festival – tra cui Charli XCX, Sophie Hunger o Black Sea Dahu – sono oggi figure centrali della cultura pop internazionale.
Sarah Baumgartner, +41 76 476 12 40, media@m4music.ch
Philipp Schnyder, responsabile del festival m4music, +41 79 631 15 05 philipp.schnyder@mgb.ch
sulle esigenze della clientela locale. Il supermercato sarà dotato di due casse tradizionali (di cui una accessibile a persone con disabilità) e due casse Subito per il self-checkout, ideali per chi desidera una spesa veloce. Saranno disponibili anche il comodo Servizio PickMup per il ritiro degli ordini online e l’apparecchio Migros Photo Service per foto istantanee e fototessere biometriche.
La parete ecologica sarà completa e includerà la zona per il ritiro dei sacchi Migros dedicati alla raccolta delle plastiche miste e Tetra Pak.
Accessibilità
Il nuovo supermercato sarà facilmente raggiungibile sia a piedi sia con i principali mezzi pubblici. Per chi utilizza un mezzo privato, saranno disponibili 34 posti auto interni, tre posti auto esterni e quattro postazioni di ricarica M-Charge per veicoli elettrici.
Iniziative per l’inaugurazione
Per sottolineare questo nuovo significativo intervento nella propria rete di vendita, Migros Ticino ha previsto svariate attività. Nelle prime quattro settimane d’apertura vi sarà un 20% di sconto a rotazione su interi setto-
ri merceologici. Sabato 22 novembre dalle 11.30 alle 14.00, in collaborazione con Vivi Bioggio, risotto con luganiga offerto dalle ore 11.30 alle ore 14.00 e trucca bimbi dalle ore 10.00 alle ore 17.00. Dal 24 al 26 novembre, per ogni CHF 50 di spesa, si riceverà invece in omaggio una fantastica borsa termica dei Nostrani del Ticino. Spicca poi il grande concorso in essere da lunedì primo dicembre a mercoledì 3 dicembre, con in palio tre carte regalo Migros del valore di CHF 1000, 500 e 100! Chiudono questo corposo e speciale pacchetto promozionale le sempre apprezzate degustazioni degli articoli Nostrani del Ticino, previste nelle giornate di venerdì 12 e sabato 13 dicembre.
Orari e contatti
La gestione del supermercato sarà affidata a Giorgio Cassinelli, che guiderà una squadra di 15 collaboratori pronti a garantire un’esperienza d’acquisto piacevole e di qualità, accogliendo i clienti con professionalità e un clima famigliare.
Orari d’apertura
Lunedì – venerdì: 08.00-19.00
Giovedì: 08.00-20.00
Sabato: 08.00-18.30 Tel. 091 821 72 40
Spazio progetti
Sponsoring ◆ A Tenero-Contra un workshop partecipativo per creare una maggiore coesione
Lo Spazio progetti è l’occasione ideale per chi vorrebbe cambiare qualcosa nella propria città, nel proprio quartiere o nel proprio paese per migliorare la convivenza.
Mercoledì 26 novembre 2025 appuntamento presso l’Aula Magna dell’Istituto scolastico di Tenero-Contra per lo Spazio progetti. L’evento è aperto al pubblico e a tutte le persone interessate ed è promosso dal Percento culturale Migros in collaborazione con il Comune di Tenero-Contra.
Nell’ambito dell’evento saranno esposti diversi progetti presentati da gruppi e associazioni di Tenero-Contra, Gordola, Minusio e Mergoscia.
Attraverso dei workshop partecipativi si faranno emergere i vari punti
di vista per portare i progetti a compiere il «passo in avanti» di cui hanno bisogno.
L’evento sarà una occasione di scambio e di messa in rete e offrirà la possibilità di instaurare nuove collaborazioni. Sono benvenute persone di tutte le età, con esperienze e prospettive diverse e con un’apertura verso altri punti di vista. Per motivi organizzativi, occorre iscriversi (v. link sotto)
Dove e quando
Aula Magna Istituto scolastico Tenero; mercoledì 26 novembre 2025, ore 18.00-21.30. Info e contatti: 091 825 38 85 eventi@consultati.ch; valentina.pallucca@consultati.ch Link per iscrizione: https://engagement.migros.ch/it/ percento-culturale/affari-sociali/ spazio-progetti/registrazionetenero
L’evento è gratuito; sarà offerto uno spuntino.
Grande
Il gerente della Migros di Bioggio Giorgio Cassinelli con il suo team. (Oleg Magni)
SOCIETÀ
Una voce per gli Jenisch
In Mamera, podcast di Taty Rossi, si ripercorre la storia della persecuzione del popolo nomade degli Jenisch in Svizzera
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La salute al maschile
Sul testosterone circolano ancora troppi falsi miti, eppure è un ormone fondamentale per il benessere fisico e psichico degli uomini
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Nel mondo dei motori
La tecnologia legata alle automobili sembra viaggiare a due velocità: mettiamo a confronto Volkswagen e Stellantis
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L’uguaglianza protegge dalla violenza
Intervista ◆ È partita pochi giorni fa la prima campagna a livello nazionale per lottare contro la violenza, ne abbiamo parlato con Myriam Proce
L’11 novembre è partita la prima campagna nazionale di prevenzione contro la violenza elaborata dall’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo che verrà ripetuta anche nei prossimi anni a giugno e novembre. Con Myriam Proce, da tre anni coordinatrice istituzionale per la violenza domestica della Divisione giustizia del Canton Ticino, approfondiamo alcuni degli aspetti di un fenomeno che con troppa frequenza continua ad attraversare le cronache.
La campagna di sensibilizzazione pone il suo focus tematico sull’uguaglianza. In che modo questo aspetto rappresenta un punto cruciale su cui puntare per prevenire la violenza?
Il messaggio che la campagna vuole trasmettere è riportato proprio nel titolo: l’uguaglianza previene la violenza. Partendo dal principio che le diverse forme di violenza – nel contesto familiare, ma anche nello spazio pubblico o al lavoro – nascono da un complesso insieme di fattori sociali, culturali e individuali, tra cui stereotipi di genere e disparità di potere caratterizzato dal controllo e talvolta anche dalla dipendenza, la campagna promuove l’uguaglianza quale strumento per prevenire e contrastare la violenza. Ancora oggi, nonostante la crescente sensibilità su questo problema, le cifre sono allarmanti e la tendenza osservata è quella di una violenza che tocca le donne nella misura del 70% e gli uomini per il rimanente 30%. La campagna mira a sensibilizzare l’insieme della popolazione, favorendo innanzitutto il riconoscimento dei primi segnali d’allarme della violenza e incoraggiando quindi la reazione anche attraverso i servizi disponibili sul territorio.
Qual è il suo ruolo nel veicolare la campagna nazionale sul territorio ticinese?
In qualità di coordinatrice istituzionale in ambito di violenza domestica mi occupo della diffusione a livello cantonale della campagna, coinvolgendo professionisti in ambito di polizia, sociale, sanitario, giudiziario, legale, ecc. Insomma, tutti coloro che potrebbero essere di aiuto per le persone che necessitano di un sostegno, affinché questo possa essere messo in atto il più velocemente possibile. In occasione della campagna nazionale sono stati contattati i partners istituzionali e della società civile per collaborare nella diffusione della stessa e quindi garantire la disponibilità delle informazioni in modo capillare sull’insieme del territorio cantonale. La Confederazione ha investito in modo importante per garantire
la diffusione dei messaggi attraverso cartelloni pubblicitari presenti in più punti strategici del nostro Cantone. I diversi dipartimenti coinvolti sul tema sono attivi sia per garantire l’attività di prevenzione, che di protezione e di perseguimento della violenza e collaborano nella diffusione dei messaggi della campagna tramite i propri servizi, gli sportelli e coinvolgendo a loro volta i rispettivi partner esterni. Inoltre ulteriori informazioni si trovano su www.ti.ch/violenza
I dati sulla violenza in Ticino restano allarmanti. Dai casi di femminicidio, alla violenza giovanile a quella domestica. Come vanno contestualizzati?
I dati sono l’espressione di un problema che coinvolge l’insieme della società e richiedono pertanto una risposta globale in cui dev’essere coinvolta la popolazione tutta poiché per contrastare la violenza s’inizia da piccoli gesti quotidiani che ognuno di noi può compiere. Gli omicidi in ambito di violenza domestica rappresentano, infatti, solo la punta dell’iceberg, la forma più estrema della violenza che caratterizza nello specifico il contesto familiare. Un’indagine appena pubblicata dall’Ufficio federale di statistica riporta che nell’ambito della relazione di coppia – in corso o da poco conclusa – le vittime di omicidi tra il 2019 e il 2023 sono quasi esclusiva-
mente donne (93%). La percentuale si abbassa se si tiene conto degli omicidi consumati all’interno di altre relazioni familiari (54% di vittime di sesso femminile e 46% di vittime di sesso maschile). Va ricordato a tal proposito che il Consiglio di Stato per il tramite delle istituzioni attive sul territorio si rivolge all’insieme della popolazione: donne, uomini, bambini, anziani, persone disabili. La violenza domestica non si limita alla coppia, ma riguarda altre relazioni familiari e intime che coinvolgono anche persone più fragili in quanto dipendenti a causa dell’età o di altre specificità dalle cure di altre persone. Tra queste troviamo il maltrattamento e la violenza nei confronti dei bambini e dei giovani, che iniziano con le prime forme di negligenza e trascuratezza, passando a una violenza psicologica, sociale o economica, fino alla violenza fisica e a quella sessuale. Un bambino anche se chiuso nella sua camera o addirittura ancora durante la gravidanza, percepisce la violenza che si consuma nel contesto familiare. Questo influirà sulle sue percezioni, sulla sua salute fisica e psichica, sul suo comportamento sia in famiglia sia fuori casa, ripercuotendosi anche sulle capacità d’inserimento a livello formativo, professionale o sociale.
Uno degli aspetti in tema di violenza domestica riguarda la rinuncia di
molte vittime a denunciare il proprio aggressore…
Non tutte le persone confrontate alla violenza domestica e alla violenza in generale sono disposte a intraprendere il percorso del procedimento penale, ma questo non deve precludere loro l’aiuto. In tal senso è importante sapere che le cure mediche, il sostegno sociale e psicologico, assieme a una serie di altri aiuti, vengono forniti in particolare dal Servizio di aiuto alle vittime del DSS senza alcun obbligo di denuncia; il servizio è sottoposto ad uno specifico segreto d’ufficio volto a garantire l’anonimato delle persone.
Quali azioni prevede la campagna nelle scuole?
Da anni diverse scuole propongono delle attività di sensibilizzazione rivolte agli allievi sia in occasione della campagna mondiale dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere (previsti dal 25 novembre al 10 dicembre, per info: www.16giorni.ch, ndr.) che sull’arco dell’anno scolastico. Alle Elementari viene per esempio promosso sistematicamente il progetto Sono unico e prezioso. Sono molte le iniziative a disposizione delle scuole per promuovere attività di sensibilizzazione e prevenzione appropriate alle diverse età. Tra queste ci sono proposte ludiche rivolte ai più piccoli, percorsi di riflessione, mostre, teatri interattivi, spettacoli, tutti volti a far
riflettere i giovani e quindi a prevenire qualsiasi forma di violenza.
Perché, a quattro anni dall’istituzione del progetto, non è ancora stato reso operativo il numero unico 142 di emergenza per le vittime di violenza domestica? Quali sono i tempi previsti per la sua introduzione? L’introduzione della linea telefonica nazionale ha messo l’insieme dei Cantoni di fronte a sfide importanti con adattamenti dell’offerta già presente o la creazione di nuove soluzioni. I lavori volti a garantire in Ticino l’attivazione della linea telefonica nazionale dedicata alle vittime, che coinvolge in prima linea il Servizio per l’aiuto alle vittime di reati e la centrale d’allarme della polizia cantonale, sono stati coordinati dal Dipartimento della sanità e della socialità. A livello nazionale sarà attivata da maggio 2026: è bene ricordare che non si tratta di una linea d’emergenza – per i soccorsi e interventi d’urgenza i servizi di riferimento restano polizia e ambulanze – ma di un servizio pensato per ascoltare e orientare l’insieme delle persone toccate direttamente o indirettamente dalla violenza e quindi favorirne il sostegno e l’accompagnamento volto a far ritrovare una qualità di vita non più condizionata dalla violenza.
Informazioni www.senza-violenza.ch
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Uno dei manifesti della campagna. La violenza ha molte cause, ma spesso inizia quando ci si impone sulle altre persone. Tutte e tutti noi possiamo fare qualcosa per contrastarla. Chiediamo aiuto se subiamo violenza. Sosteniamo le altre persone. Riflettiamo sul nostro comportamento. (www.senzaviolenza.ch)
Guido Grilli
Appetito per il bollito misto
Attualità ◆ Non c’è niente di meglio di un buon lesso di manzo per stuzzicare palato e spirito durante la stagione più fredda
Il bollito o lesso di manzo è un piatto semplice, molto radicato anche nella nostra tradizione culinaria che, se preparato con la giusta cura e abilità, è una genuina prelibatezza che non delude nessuno. Nato come piatto povero per recuperare i tagli meno nobili, oggi è apprezzato anche nelle cucine più blasonate. Per ottenere un buon lesso i pezzi più indicati del manzo sono il collo, l’aletta, la punta e il piancostato; tagli che, grazie
al loro tessuto connettivo e alla fascia di grasso, durante la cottura lenta e prolungata diventano particolarmente morbidi e saporiti. I tempi di cottura del lesso in pentola sono di almeno due ore. Come alternativa si può utilizzare una pentola a pressione, che riduce fino al 50% la durata della cottura. La carne deve essere aggiunta all’acqua in ebollizione, affinché i pori si chiudano subito e i preziosi e saporiti succhi rimanga-
no all’interno. Per ottenere delle verdure croccanti, quest’ultime andrebbero aggiunte al brodo con la carne una mezz’oretta prima della fine della cottura. Al brodo si possono aggiungere anche delle erbe aromatiche, come foglie d’alloro e chiodi di garofano. Per la prova cottura si può utilizzare una forchetta: se infilzandola si stacca facilmente dalla carne, vuol dire che è pronta. Oppure si può anche utilizzare un termome-
tro da carne, in questo caso la temperatura al cuore dovrebbe essere di almeno 90°C.
Per una buona riuscita…
Per 6 persone servono ca. 1,5 kg di carne per bollito, 1 cipolla, un pizzico di sale e pepe, qualche foglia d’alloro, 600 g di verdure miste come carote, patate, porro e sedano rapa e 2
Premiazione alla nuova Migros Locarno
litri d’acqua. Porta a ebollizione l’acqua e immergi la carne, aggiungendo la cipolla, eventualmente tostata prima leggermente in padella per un aroma più pronunciato. Aggiungi un pizzico di sale e pepe e le foglie d’alloro. Prosegui la cottura a fuoco basso per almeno 2 ore, aggiungendo le verdure trenta minuti prima della fine cottura. Servi la carne tagliata a fette accompagnata dalle verdure, salse varie e mostarda di frutta.
Attualità ◆ Negli scorsi giorni è stato consegnato il premio principale al vincitore del concorso per la riapertura del centro commerciale Migros City Center Lago di Locarno
Riaperto lo scorso 16 ottobre dopo nove mesi di lavori, il nuovo centro commerciale Migros City Center Lago di via Stefano Franscini 31 a Locarno è stato consegnato alla clientela completamente ristrutturato e al passo coi tempi, con un importante occhio di riguardo per i più alti standard di sostenibilità ambientale. Con una superficie di 1900 metri quadrati, il Supermercato Migros al piano 1 si presenta ora con i suoi assortimenti vasti e ben calibrati sia di food che di non food, con un focus particolare sui settori freschezza, come frutta e verdura, prodotti pronti al consumo, panetteria, formaggi e gli apprezzati banchi carne e pesce a servizio. Il pianterreno ospita un Take Away Migros di nuova concezione, accogliente e luminoso, con una vasta proposta di bontà sia calde che fredde e la possibilità di consumo sul posto o aspor-
to. Il centro è completato da altri interessanti commerci, come l’enoteca Vinarte, un chiosco, un parrucchiere, una farmacia e altri negozi.
Un grande concorso per l’inaugurazione
In occasione della riapertura di Migros City Center Lago a Locarno, oltre a diverse attività e offerte rivolte a grandi e piccini, è stato anche organizzato un grande concorso che metteva in palio fino a Fr. 1600.– di carte regalo Migros. A estrazione conclusa, la fortuna ha premiato i tre seguenti vincitori:
1° Premio
(carta regalo Migros da Fr. 1000.–)
a Paolo Vandoni di Minusio
2° Premio
(carta regalo Migros da Fr. 500.–)
a Simone David di Locarno
3° Premio
(carta regalo Migros da Fr. 100.–)
Milena Ferrari di Locarno
Le nostre calorose congratulazioni a tutti i vincitori!
Bollito
Il gerente di Migros Locarno, Bosko Stojcev, consegna la carta regalo da Fr. 1000.– a Paolo Vandoni, vincitore del primo premio.
Jenisch, una storia da raccontare
Podcast ◆ Nella sua ricerca Taty Rossi ripercorre la storia di un popolo che in Svizzera fu lungamente perseguitato
Simona Sala
Che la Svizzera sia assurta agli onori della cronaca più di una volta per questioni non necessariamente destinate a farle onore (soprattutto alla luce del fatto di essere sede di grandi istituzioni come la Croce Rossa) è cosa ormai nota che ha acceso i dibattiti degli ultimi anni. Si è discusso degli affidamenti coatti, dei figli illegittimi sottratti alle madri, delle schedature e, più recentemente anche di abusi in ambito ecclesiastico. Una serie di modalità di controllo – che poi si trasformano in sopraffazione – da parte dello stato e della chiesa che hanno pregiudicato i destini di centinaia di migliaia di cittadine e cittadini svizzeri, come dimostrano le cause e il dibattito pubblico ancora in corso.
Tra il 1926 e il 1973, con l’operazione di Pro Juventute «Kinder der Landstrasse», furono sottratti alle famiglie Jenisch circa 600 bambini
Gli «obiettivi» di chi intendeva in qualche modo correggere quelle che reputava devianze sociali, erano di creare una società libera da realtà considerate scomode, per non dire fastidiose o addirittura moleste, dando seguito a un desiderio di «rieducazione» – che però a volte finiva per trasformarsi in eliminazione.
Fra chi si trovava a essere indesiderato dal «potere», vi erano anche gli Jenisch, nomadi che in Svizzera si spostavano a piedi o a bordo di carrozzoni di legno, affilando coltelli e realizzando cesti (come si può vedere da alcune immagini in rete), per entità secondi ai Rom e ai Sinti. Si calcola che in Svizzera vivano circa 35’000 Jenisch, la cui discendenza è germanica – hanno anche un proprio idioma – a differenza di Sinti e Rom la cui origine è situata in India.
Un po’ come chi viveva in povertà (in Svizzera esisteva la Armenpolizei, polizia dei poveri, ndr), aveva un figlio illegittimo, era divorziato o semplicemente si trovava in difficoltà, anche gli Jenisch – vuoi per il loro nomadismo, vuoi per la loro diversa appartenenza etnica – furono vittime di sottrazione dei propri figli. Ciò avvenne all’interno del programma «Kinder der Landstrasse» (I bambini della strada) lanciato nel 1926 da Alfred Siegfried attraverso Pro Juventute e sostenuto dalla Confederazione secondo una strategia ufficiale molto chiara: «Chi vuole combattere con successo il vagabondaggio, deve cercare di rompere i legami del popolo nomade e, per quanto duro ciò possa sembrare, deve distruggere la comunità famigliare. Un altro modo non c’è» Ed è proprio lì che nasce il recente podcast di Taty Rossi, Mamera (in lingua Jenisch «mamma»), nel quale in sette punta-
te l’autrice ripercorre le vicende umane di chi quella «campagna» la subì, partendo dal desiderio di «raccontare le storie che restano nell’ombra». Al fine di ricostruire un capitolo buio della storia recente del nostro Paese, Taty Rossi si affida da una parte alla testimonianza diretta offerta da Uschi Waser, sottratta alla famiglia d’origine per essere collocata in contesti drammatici e contraddistinti dall’abuso, dove violenza e umiliazione erano spesso all’ordine del giorno, dall’altra a interventi di esperti come il professore e storico Emmanuel Betta, che contestua-
lizza un fenomeno che si ispirava alle teorie di eugenetica molto in voga all’inizio del secolo scorso e adottate un po’ ovunque, o Ermete Gauro, ex presidente della Commissione Cantonale Nomadi in Ticino e Paolo Bernasconi, allora membro del consiglio di Fondazione di Pro Juventute, chiamato a scusarsi pubblicamente nel 1973. Ampio spazio è dedicato anche alla più importante esponente culturale del popolo Jenisch in Svizzera, la poetessa e scrittrice Mariella Mehr, scomparsa nel 2022 e sempre in prima linea nel lungo e faticoso processo di denuncia dell’o-
perazione «Kinder der Landstrasse». Nel suo lavoro Taty Rossi, cresciuta a Milano e di origine eritrea, riesce, con delicatezza e sensibilità, a tracciare dei parallelismi fra quanto avvenuto agli Jenisch in Svizzera e ciò che, quotidianamente ancora oggi, si ritrova a vivere chi ha un background riconoscibile, evidenziando forme di discriminazione più sottili e forse meno strutturate, ma non per questo meno dolorose e umilianti.
Il podcast, prodotto da Associazione REC, offre dunque un viaggio alle nostre latitudini in parte ancora inedito attraverso quello che fu un triste capitolo della storia del Novecento del Paese. Il montaggio di Agnese Làposi, supportato dal sound design di Victor Hugo Fumagalli, in cui si alternano voci di protagonisti ed esperti alle considerazioni dell’autrice su questioni etiche presenti anche ai giorni nostri, stimola la curiosità dell’ascoltatore, che vorrebbe conoscere ancora più a fondo la vicenda di un popolo lungamente maltrattato.
Un approfondimento possibile, una volta terminato l’ascolto, sulle numerose pubblicazioni (disponibili anche in internet) uscite negli anni intorno all’argomento.
Dove e quando Mamera, podcast di Taty Rossi disponibile su tutte le piattaforme di ascolto
MigrosBioggio
La locandina del lavoro di Taty Rossi che ritrae una foto di Uschi Waser da bambina.
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Materiali per la ghirlanda
La base è costituita da una corona di paglia o da spugne per fiori. Il classico verde per la corona dell’Avvento è costituito da rami di abete, ma i fioristi amano anche utilizzare rami di eucalipto. In generale, ognuno può creare la propria corona con i materiali che preferisce. Scorze d’arancia essiccate, bastoncini di cannella, ma anche piccole decorazioni natalizie sono molto apprezzate.
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Strumenti
Cesoie, tronchesi e pistola per colla a caldo: le cesoie sono necessarie per tagliare i rami di abete. Le forbici di casa si rovinerebbero. Il filo di legatura può essere tagliato su misura con le tronchesi. Chi non vuole legare o intrecciare le stecche di cannella o le fette d’arancia, può attaccarle con una pistola per colla a caldo.
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Aggiungere le candele
Il modo più semplice è quello di posizionare le candele su portacandele inseriti nella ghirlanda.
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Attaccare rami e pigne
In una ghirlanda a base di spugna per fiori è facile: basta inserire i rami direttamente nella spugna. Per una maggiore stabilità si può usare il filo di ferro. Questo è utile anche per legare i rami alle corone di paglia. Una pistola per colla a caldo, che fissa perfettamente i singoli materiali alla ghirlanda, è particolarmente utile per i principianti. Lo svantaggio è che non è possibile poi smontare facilmente la ghirlanda per riutilizzare, ad esempio, la base di paglia.
GUIDA
Corona dell’Avvento
Per una corona dell’Avvento senza stress
Dovrebbe durare a lungo e resistere anche con l’aggiunta delle candele. La fiorista Katharina Rogge ci spiega come fare e di cosa si ha bisogno.
Testo: Claudia Schmidt
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Utili trucchetti
Per una corona armoniosa, le candele devono essere della giusta dimensione, cioè non troppo piccole e non troppo grandi. Un esempio: le candele di circa 6 cm di spessore e 15 cm di altezza sono perfette per una ghirlanda di 30 cm di diametro. I principianti non devono tagliare i rami di abete troppo piccoli. I rami piccoli sono più difficili da fissare, mentre quelli più grandi donano un aspetto più armonioso.
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Materiali provenienti dalla natura
Si può usare tutto ciò che cresce in giardino. Tuttavia, è vietato tagliare i rami degli alberi nei boschi e nei parchi. Si può però portare con sé ciò che è caduto a terra. Questo include anche le pigne. Buono a sapersi: nelle riserve naturali non è consentito portare con sé nulla.
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Tempistica
È possibile realizzare una corona in un’ora. È anche possibile creare ghirlande in compagnia, con i bambini o gli amici.
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Testosterone: l’ormone più frainteso
Salute ◆ Sull’ormone che influenza virilità e benessere degli uomini circolano ancora troppi falsi miti
Maria Grazia Buletti
«Mi sentivo sempre stanco, apatico, senza voglia di fare nulla, nemmeno sotto le lenzuola. Il medico mi ha proposto di controllare il testosterone: era basso. Ho iniziato la terapia sostitutiva e dopo qualche settimana ho ritrovato energia e desiderio. Ma ora mi chiedo: ne avevo davvero bisogno o cercavo solo una scusa per sentirmi ancora giovane?».
Sempre più uomini, anche giovani, lamentano stanchezza cronica, calo del desiderio sessuale e perdita di energia. In molti casi il colpevole viene individuato nel «testosterone basso», con un boom di diagnosi e terapie ormonali sostitutive. A livello globale, si stima che fino a un uomo su 5 sopra i 50 anni possa avere livelli di testosterone sotto la norma, ma solo una minoranza ha sintomi tali da richiedere una terapia. Anche in Svizzera cresce l’attenzione verso il cosiddetto «testosterone basso», tra diagnosi vere, aspettative mediche e nuovi business della virilità. È dunque il caso di chiedersi se siamo davvero di fronte a un’epidemia silenziosa o a una sovradiagnosi alimentata da marketing e disinformazione.
Tra sintomi vaghi, aspettative virili e cure non sempre necessarie, con il dottor Paolo Broggini (specialista in urologia e andrologia alla Clinica Sant’Anna di Sorengo) facciamo chiarezza su un tema che riguarda la salute maschile più di quanto si pensi. Lo specialista esordisce spiegando che il testosterone è spesso etichettato come «l’ormone della virilità», ma questa definizione è parziale e, in molti casi, fuorviante: «È vero che si tratta del principale ormone sessuale maschile, essenziale per lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, la libido e la funzione erettile. Tuttavia, il suo ruolo nell’organismo maschile (e in parte anche in quello femminile) è molto più ampio e complesso». Egli ne sottolinea l’importanza per gli uomini: «Non solo per la sfera sessuale, ma anche per il mantenimento della massa muscolare e della forza fisica, per la salute delle ossa (una sua carenza può portare a osteoporosi), per la regolazione del metabolismo lipidico (un basso livello di testosterone è associato a un aumento del colesterolo LDL, quello “cattivo”) e per il benessere cardiovascolare». Ma non è tutto: «Questo ormone ha un impatto anche sulla funzione cognitiva, sulla memoria, sulla capacità di concentrazione e sul tono dell’umore. Non a caso, livelli ridotti possono
essere associati a depressione, irritabilità e mancanza di iniziativa». Broggini puntualizza pure che parliamo di un ormone comunque prodotto anche dalla donna, «seppure in quantità nettamente inferiori, principalmente a livello delle ghiandole surrenali e delle ovaie». In entrambi i sessi, quindi, il testosterone agisce come un regolatore dell’equilibrio psicofisico generale. Tornando alla salute maschile: «Una carenza di testosterone (ipogonadismo) può essere legata al naturale processo di invecchiamento, oppure a condizioni patologiche». Lo specialista indica la sindrome metabolica come una delle cause più frequenti dopo i 50 anni: «È una condizione che colpisce circa il 40% degli over 60, e può manifestarsi attraverso diabete di tipo 2, ipertensione, dislipidemia (colesterolo e trigliceridi elevati), sovrappeso, in particolare addominale». Un’informazione importante, in quanto negli uomini affetti da sindrome metabolica, e soprattutto nei diabetici, si può verificare un calo progressivo del testosterone: «È la cosiddetta LOH (Late-Onset Hypogonadism), ossia ipogonadismo a insorgenza tardiva, i cui sintomi da non ignorare includono calo del desiderio sessuale e disfunzione erettile, stanchezza persistente, difficoltà di concentrazione e perdita di memoria, umore depresso, perdita di motivazione e progettualità, aumento del grasso corporeo e perdita di massa muscolare, dolori articolari o ossei». Lo speciali-
L’APPUNTAMENTO
sta rassicura sul fatto che esistono questionari clinici validanti che aiutano a identificare i soggetti a rischio, «ma è essenziale, in caso di sintomi sospetti, rivolgersi al medico che procederà agli opportuni esami ormonali». Altra opinione diffusa riguarda il fatto che il testosterone rende l’uomo più aggressivo, dominante o eccessivamente sessuale. In realtà, spiega l’andrologo, «non esiste un legame diretto tra alti livelli fisiologici di testosterone e comportamenti aggressivi o ipersessuali. Il benessere psicofisico e le migliori performance sessuali si osservano quando il testosterone si trova entro un range ottimale, ad esempio tra 12 e 18 nmol/L., mentre superare que-
sti valori attraverso supplementazioni improprie non migliora le prestazioni, ma può causare effetti collaterali anche gravi come irritabilità, insonnia, comportamenti impulsivi, desiderio sessuale compulsivo e insoddisfacente, aumento dell’ematocrito (con rischio di trombosi, ictus o infarto), ingrossamento della prostata, dipendenza psicologica e ormonale». L’idea che «più testosterone sia sinonimo di più virilità» è quindi un falso mito: «Proprio come un’automobile non va più veloce se si riempie il serbatoio oltre il limite, anche il corpo funziona meglio solo con i giusti equilibri ormonali». Broggini conferma che il testosterone è naturalmente coinvolto nello svilup-
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Movember: la prevenzione «al maschile»
La salute dell’uomo inizia da adolescenti, con una prevenzione precoce
Rete Sant’Anna, la prima rete di cure integrate in Ticino, propone un calendario di appuntamenti regolari, gratuiti e aperti a tutti sul tema della prevenzione come accompagnamento al paziente nel percorso di c ura: non solo della malattia ma in primis per la conservazione della sua salute, incoraggiando prese a carico sempre più personalizzate e focalizzate al bisogno individuale, per mezzo di un approccio multidisciplinare integrato
Rete Sant’Anna organizza conferenze aperte al pubblico presso la Sala Conferenze della Clinica Sant’Anna di Sorego (Stabile Villa Anna 2). Il prossimo
appuntamento è previsto giovedì 20 novembre alle 18.00 ed è dedicato alla salute dell’uomo e alla prevenzione precoce.
Adolescenza, età adulta e maturità: ogni fase richiede attenzione alla salute maschile, anche quella sessuale. È importante prendersi cura della salute sessuale maschile lungo tutto l’arco della vita: una sfera spesso trascurata, soprattutto dagli uomini, che tendono a evitare la prevenzione: quasi assente nei giovani, ignorata in età adulta per mancanza di tempo e affrontata solo nella terza età, spinti dalla paura della malattia. La conferenza vuole rompere il tabù
e promuovere una nuova consapevolezza sulla salute maschile, e sulla prevenzione a partire dalla sessualità.
I relatori della serata saranno il dr. Paolo Broggini, specialista in Urologia, il dr. Marco Boldini, specialista in Urologia e Urologia operatoria e il dr. Vito Mantini, specialista in Medicina generale.
Segue un rinfresco. Ingresso libero previa registrazione.
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po della massa muscolare, nella forza e nella resistenza fisica perché favorisce la sintesi proteica, il recupero muscolare e contribuisce alla riduzione del grasso corporeo. Tuttavia rende attenti sul fatto che «il suo utilizzo come sostanza dopante nello sport, per aumentare artificialmente la massa muscolare, comporta seri rischi per la salute come alterazioni del sangue e aumento dell’ematocrito, ipertrofia della prostata, disturbi psichici, infarti e aritmie, dipendenza. Inoltre, l’effetto muscolare ottenuto con questi mezzi svanisce dopo la sospensione della terapia, spesso lasciando il fisico in condizioni peggiori rispetto a prima». La prescrizione della terapia sostitutiva con testosterone è sicura ed efficace solo se prescritta correttamente e monitorata dallo specialista qualificato; quindi, la collaborazione tra medico di famiglia e specialista (andrologo o endocrinologo) è fondamentale per garantire una diagnosi corretta e una terapia personalizzata, monitorando eventuali effetti collaterali nel tempo: «È indicata nei casi in cui il testosterone totale è inferiore a 8 nmol/L (circa 230 ng/dL), sono presenti sintomi compatibili (sessuali, cognitivi, metabolici), non vi sono controindicazioni assolute (come tumore della prostata o mammella maschile)». Non si può improvvisare, ammonisce il nostro interlocutore, e prima di iniziare una terapia «è essenziale valutare il testosterone totale (non solo quello “libero”), quello biodisponibile, e una serie di valori del sangue per i rischi cardiovascolari, compreso il PSA (per valutare la prostata) ed eventuali disturbi come l’apnea notturna».
Il testosterone non è quindi un semplice integratore da banco, ma un farmaco potente, da usare solo sotto controllo medico. «Oggi, invece, c’è troppa leggerezza: pazienti che si “dopano” per fini estetici, rischi talvolta sottovalutati, un’opinione pubblica malinformata. Il risultato? Problemi cardiaci, infertilità irreversibile, squilibri psico-fisici», chiosa Broggini che reputa urgente una maggiore sensibilizzazione della medicina di base e della popolazione: «Solo il medico può valutare se e quando iniziare una terapia sostitutiva con testosterone, mettere in pratica un percorso di controllo della medesima e offrire la più aggiornata terapia per quello specifico paziente, senza andare a comprometterne la salute».
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Il testosterone è fondamentale per il benessere fisico dell’uomo ma ha anche un impatto sulla funzione cognitiva, sulla memoria e sull’umore. (Freepik.com)
coltivando verdure
Solo pochi anni fa, la coltivatrice di riso Sophea poteva ancora contare sulla stagione delle piogge. Oggi, tuttavia, la donna è alle prese con periodi di siccità sempre più lunghi e frequenti. Con il riso, che richiede enormi quantità di acqua, non si ottiene ormai più un raccolto sufficiente a sfamare la famiglia tutto l’anno. Ecco perché Sophea e suo marito Romodol – come del resto molte altre persone nel Nord-Ovest della Cambogia – piantano sempre più ortaggi come fagioli, cetrioli e Morning Glory.
«Le nostre risaie sono alla fine del canale idrico», spiega la contadina Sophea Phoeurn, 48 anni, «quindi non abbiamo abbastanza acqua per un secondo raccolto.» Insieme al marito Romodol, coltiva 2,5 ettari di riso Jasmine. Il riso è la principale fonte di reddito per molte famiglie delle province nord-occidentali della Cambogia, ma sta diventando sempre più difficile vivere del raccolto di questa pianta che richiede grandi quantità di acqua.
Tradizionalmente, il riso viene piantato durante la stagione
delle piogge. Se vi è abbastanza acqua, le famiglie contadine possono ottenere un secondo raccolto durante la stagione secca. Ma le condizioni climatiche cambiano e la stagione delle piogge viene sempre più spesso interrotta da periodi di siccità. In molti villaggi, inoltre, il sistema di canali per l’irrigazione dei campi è malridotto e gli agricoltori prelevano l’acqua in base alle loro necessità invece di seguire un piano prestabilito. Di conseguenza, non c’è abbastanza acqua per tutti e i raccolti sono sempre più esigui.
Molte famiglie sono costrette ad abbandonare la loro terra per cercare lavoro altrove, finendo spesso in situazioni ancora più fragili: mendicando per strada o rovistando tra i rifiuti per sopravvivere. Negli ultimi anni, anche Sophea e Romodol hanno vissuto di stenti, cercando di integrare il loro guadagno dalla coltivazione di riso con la vendita di polli.
Ma oggi la situazione della coppia è diversa: «Da tre mesi abbiamo questo orto rigoglioso», dice Sophea, mentre raccoglie velocemente un intero secchio di cetrioli.
«Coltiviamo più di dieci varietà di verdure e le vendiamo nel quartiere.»
Sophea e Romodol hanno approfondito le loro conoscenze nell’ambito di un programma attuato da Caritas Svizzera e HEKS/ACES, in collaborazione con il governo e imprese locali. In vari corsi hanno imparato a produrre fertilizzanti naturali, a riconoscere in tempo le malattie delle piante, a irrigare in modo sostenibile e a gestire una semplice contabilità. Sophea e Romodol sono visibilmente sollevati che la loro situazione stia migliorando: «Oggi non abbiamo più debiti e riusciamo anche a risparmiare un po’».
SÌ a un mondo senza povertà
La Svizzera vanta una lunga tradizione umanitaria. Da sempre, aiutare chi soffre è parte della nostra identità: un valore che si è trasmesso di generazione in generazione, fondato sulla solidarietà e sul senso di responsabilità. Oggi, però, questi valori sono minacciati. Nel 2025, la Svizzera e molti altri Paesi hanno ridotto drasticamente i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, proprio in un momento in cui le crisi si moltiplicano.
Per Caritas Svizzera, l’umanità non è negoziabile. Da quasi 125 anni siamo, insieme alle nostre sostenitrici e ai nostri sostenitori, al fianco delle persone che vivono in povertà e non abbandoniamo nessuno nel momento di grande bisogno. Insieme possiamo fare la differenza nella vita di molte persone. Insieme diciamo Sì a un mondo senza povertà.
Per saperne di più su Sophea e sulla coltivazione di riso in Cambogia: caritas.ch/sophea
La sua donazione per un mondo senza povertà:
IBAN: CH69 0900 0000 6000 7000 4
Donare ora con TWINT
Scansionare il codice QR con l’app TWINT Grazie di cuore!
Sophea e Romodol oggi vivono della coltivazione di verdure, anche grazie al sostegno di Caritas.
Tecnologia automobilistica a due velocità
Motori ◆ Volkswagen celebra il sistema Car2X che informa su ingorghi, incidenti ed emergenze mentre Stellantis investe nella guida autonoma e nei robotaxi
Mario Alberto Cucchi
«Una pietra miliare». Con questa frase il gruppo Volkswagen ha celebrato la duemilionesima vettura prodotta dotata del sistema Car2X. Si tratta di un’implementazione tecnologica del costruttore tedesco dedicata a informare i conducenti di ingorghi, incidenti, lavori stradali e veicoli di emergenza in avvicinamento nelle loro immediate vicinanze. Può indubbiamente aiutare a evitare situazioni critiche. È evidente che più veicoli utilizzano questa tecnologia più efficace diventa il sistema. Come funziona? Le informazioni vengono trasmesse istantaneamente tramite comunicazione dirette tra veicoli o infrastrutture senza la necessità di una rete mobile. Utilizzano il principio dell’intelligenza locale di sciame ovvero di gruppo e possono comunicare in tempo reale. Si parla di millisecondi. L’aumento della densità delle informazioni consente di ricevere avvisi e reazioni tempestive. Può segnalare una coda che si avvicina rapidamente o la presenza di veicoli di emergenza. oppure, ad esempio, se un veicolo dei vigili del fuoco dotato di Car2X si sta avvicinando gli altri utenti della strada possono vedere da quale direzione arriva tramite un avviso corrispondente. Se l’auto è equipaggiata di controllo di velocita adattivo – ACC – può persino ridurre la velocità del
veicolo direttamente. In futuro potrebbero essere equipaggiati con questo sistema anche biciclette, motociclette, camion e autobus.
Effettivamente interessante, ma addirittura definirlo «pietra miliare»? Forse perché la diffusione del sistema raggiunta da Volkswagen lo rende più efficace. Pensate se «soltanto» 20’000 o anche 200’000 mezzi fossero equipaggiati con questo sistema la probabilità di incontrarli per strada e di poterlo utilizzare appieno sarebbe remota. I numeri, dunque, sono importanti. Va, però, detto che il mondo della tecnologia automobilistica sembra viaggiare a due velocità differenti. Volkswagen celebra questo risultato ma a noi sembra che in realtà si stia parlando un po’ del passato. In effetti il sistema non è certo nuovo. E con il passare degli anni è diventato già vecchio anche perché gli altri costruttori di auto nel frattempo non sono stati certo a guardare. Il 28 ottobre il gruppo Stellantis ha annunciato una nuova collaborazione con Uber technology, Nvidia e Foxconn per esplorare insieme lo sviluppo e la futura implementazione di veicoli autonomi di livello quattro (guida senza conducente) per i servizi di robotaxi in tutto il mondo. In parole povere, le auto che guidano da sole con gli umani che si possono sedere anche sul di-
vano posteriore e farsi trasportare. L’accordo sui robotaxi segue l’iniziativa recentemente annunciata tra Stellantis e Pony.AI, leader mondiale nella tecnologia a guida autonoma. Una collaborazione che prevede l’integrazione del software avanzato di guida autonoma di Pony.AI con la piattaforma elettrica a Batteria (BEV) AV-Ready di Stellantis per furgoni di medie dimensioni. Le due aziende prevedono di iniziare la messa su strada dei veicoli di prova sulla base del Peugeot e-Traveler in Lussemburgo nei prossimi mesi, proseguendo poi gradualmente con l’introduzione in altre città europee a partire dal 2026.
I test sono finalizzati alla validazione degli standard di sicurezza, delle prestazioni e della conformità normativa. Questa iniziativa insieme a quella annunciata il 28 ottobre rappresenta un progresso significativo nella strategia globale di Stellantis in materia di robotaxi e pone il gruppo in una posizione strategica per svolgere un ruolo di rilievo nella transizione verso una mobilità autonoma, sicura, efficiente e sostenibile.
La previsione è che i programmi pilota e i test aumentino nei prossimi anni, con l’inizio della produzione previsto per il 2028. Stellantis progetterà, realizzerà e produrrà veicoli
autonomi. Nvidia fornirà il software con incluse le funzionalità di parcheggio e guida basate sull’architettura invidia Drive AGX Hyperion 10. Foxconn collaborerà con Stellantis per l’integrazione di hardware e sistemi. Uber dalla sua gestirà servizi di robotaxi, ampliando la sua flotta con veicoli frutto di questa joint-venture. «La mobilità autonoma apre le porte a nuove scelte di trasporto più convenienti per i clienti – spiega Antonio Filosa CEO di Stellantis – Abbiamo realizzato le piattaforme a AV-Ready per soddisfare la crescente domanda e insieme ai leader nei servizi di intelligenza artificiale e mobilità, miriamo a creare una soluzione che offra mobilità più intelligenti, sicure ed efficiente per tutti». «Siamo entusiasti di lavorare con Stellantis per portare migliaia dei loro veicoli autonomi privi di conducenti in tutto il mondo»
Dichiara Dara Khosrowshahi CEO di Uber. Jensen Huang, fondatore e CEO di NVIDIA spiega che «l’autonomia di livello 4 non è solo una pietra miliare per l’industria automobilistica, ma un salto di qualità nella capacità dell’Intelligenza artificiale. Il veicolo diventa un robot, che vede, percepisce, pianifica e guida con precisione sovrumana». Il futuro è alle porte? Forse, ma intanto noi teniamo stretto il volante.
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ATTUALITÀ
L’ombra nucleare sulla politica globale
Si stanno erodendo i meccanismi di contenimento della corsa agli armamenti costruiti dopo la fine della Guerra fredda
Pagina 16
Tra le onde del caos economico
Intervista a Sergio Rossi, futuro ospite di un ciclo di conferenze al Liceo di Lugano 2 dal titolo «Crisi e i conflitti del presente»
Pagina 17
Focus sulla Norvegia
Le criticità del modello nordico: povertà in aumento e polarizzazione politica mentre la destra avanza
Pagina 19
Tassare gli ultraricchi per salvare il clima?
Svizzera ◆ Il prossimo 30 novembre si voterà sull’iniziativa popolare promossa dalla Gioventù socialista «Per una politica climatica sociale finanziata in modo fiscalmente equo – Iniziativa per il futuro»
Le grandi successioni sono nel mirino dell’iniziativa popolare della Gioventù socialista (GiSo) «Per una politica climatica sociale finanziata in modo fiscalmente equo», detta anche iniziativa «Per il futuro», in votazione il 30 novembre prossimo. Per promettente e positivo che possa sembrare, il titolo di questo progetto costituisce in realtà una proposta fiscale che genera molti interrogativi. Per «combattere la crisi climatica» l’iniziativa chiede infatti l’introduzione di un’imposta federale del 50% sulle successioni e le donazioni per i patrimoni superiori ai 50 milioni di franchi, imposta che si aggiungerebbe a quelle applicate a livello cantonale e comunale. L’intenzione è di ottenere un gettito annuo di 6 miliardi di franchi, due terzi dei quali a favore della Confederazione e un terzo dei Cantoni.
La Confederazione dispone di circa 2 miliardi di franchi all’anno per ridurre a zero le proprie emissioni di CO2 entro il 2050
Il popolo svizzero si era già pronunciato nel 2015 su un’iniziativa delle sinistre che proponeva l’introduzione di un’imposta federale sulle successioni e le donazioni, allora per sostenere l’AVS. Era però stata bocciata con una maggioranza del 71%. Ora, dopo dieci anni, si torna alla carica. Tuttavia, anche questo nuovo tentativo, stavolta per il clima, dovrebbe – secondo i sondaggi – essere respinto da oltre il 60% dei votanti. Per l’approvazione dell’iniziativa occorre la doppia maggioranza di Popolo e Cantoni.
Attualmente la Confederazione dispone di circa 2 miliardi di franchi all’anno per ridurre a un saldo netto pari a zero le proprie emissioni di CO2 entro il 2050, conformemente all’Accordo di Parigi sul clima. Per i promotori dell’iniziativa la Svizzera non fa abbastanza in questo settore. Secondo loro, per il clima il nostro Paese dovrebbe investire circa 11 miliardi di franchi supplementari, al posto di prevedere tagli di bilancio. I fautori affermano poi che i principali responsabili della crisi climatica sono i «super-ricchi», che vanno dunque chiamati alla cassa. Per la presidente del GiSo Mirjam Hostetmann, «le dieci famiglie più ricche in Svizzera producono tante emissioni, quanto il 90% della popolazione nazionale».
Secondo stime dell’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC), sarebbero 2500 i contribuenti in Svizzera che nel 2021 detenevano una sostanza superiore a 50 milioni di franchi. Il loro patrimonio imponibile globale ammonterebbe a cir-
ca 500 miliardi di franchi. Ma come funzionerebbe la tassazione chiesta dall’iniziativa? L’opuscolo informativo sulle votazioni cita l’esempio di una successione/donazione di 200 milioni di franchi. Togliendo l’importo di 50 milioni esente da imposta, i 150 milioni rimanenti verrebbero tassati al 50%. Al fisco dovranno dunque essere versati 75 milioni. Agli eredi resterebbero 125 milioni, ossia i 50 esentasse più l’altra metà. Per il comitato d’iniziativa, questa imposta produrrà un gettito annuo medio di 6 miliardi di franchi. L’AFC lo valuta a 4,3 miliardi. Il gettito effettivo dipenderà però in ampia parte dalle reazioni dei diretti interessati. Se molte persone facoltose dovessero lasciare la Svizzera, la nuova imposta genererà entrate nettamente inferiori, senza dimenticare il conseguente calo delle imposte sul reddito e sulla sostanza. Secondo l’AFC, Confederazione, Cantoni e Comuni registrerebbero una diminuzione del gettito fiscale oscillante tra i 200 milioni e i 3,6 miliardi di franchi, a seconda degli scenari.
Il testo dell’iniziativa non fissa con esattezza la ripartizione dei fondi, né
la loro attribuzione. Il testo esige che le successioni/donazioni vengano imposte dal giorno della votazione, con effetto retroattivo: se una persona facoltosa muore quel giorno, il suo patrimonio sarà sottoposto alla nuova imposta del 50%. Per evitare poi che i super-ricchi lascino la Svizzera per sottrarsi all’imposta (secondo una perizia realizzata per contro dell’AFC, se ne andrebbe il 49%-74% di loro), la Confederazione è invitata a prendere provvedimenti. Ma il progetto in votazione non dice quali.
Sarebbero 2500 i contribuenti in Svizzera che nel 2021 detenevano una sostanza superiore a 50 milioni di franchi
L’iniziativa dei GiSo è sostenuta dalla sinistra, PS e Verdi in primis. È appoggiata anche dal Sindacato dei servizi pubblici, dalle Anziane per il clima e dal Gruppo per una Svizzera senza esercito. Senza gli introiti supplementari generati da questa «imposta per il futuro» – sostengono i fautori del progetto – l’intera popolazione
sarà chiamata a finanziare la lotta contro la crisi climatica e le sue conseguenze. I GiSo sono invece convinti che la loro iniziativa sia la giusta soluzione, appunto perché fa ricadere i costi della crisi climatica solo sui contribuenti facoltosi.
Consiglio federale, Parlamento, partiti borghesi e associazioni economiche respingono l’iniziativa. Per loro, quest’ultima non è la buona soluzione per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015. Il Consiglio federale ricorda che Confederazione e Cantoni già investono circa 2,5 miliardi di franchi all’anno nei settori dell’energia e del clima (decarbonizzazione e riduzione di CO2). Per la ministra delle finanze Karin Keller-Sutter, l’iniziativa non garantisce un finanziamento stabile ed efficace della politica climatica. Crea infatti falsi incentivi sull’impiego dei fondi: a determinare l’entità delle uscite non sarebbero le esigenze effettive della politica climatica, ma l’ammontare del gettito dell’imposta sulle successioni.
Secondo Karin Keller-Sutter, il testo in votazione non rispetta nemmeno il federalismo, che lascia ai Canto-
ni l’autonomia in materia di fiscalità. Visto che l’1% dei super-ricchi versa attualmente circa il 40% delle imposte (oltre 5 miliardi di franchi all’anno), le perdite fiscali provocate dal loro probabile esodo, potrebbero essere compensate solo attraverso tagli massicci o aumenti d’imposte. A pagare il conto sarebbe ancora una volta il ceto medio. Soluzioni estreme come quella proposta dai GiSo «non appartengono al nostro Paese», ha dichiarato il presidente dell’USAM Fabio Regazzi, ricordando che «per tutta la vita si pagano imposte sul patrimonio; ora non è il caso di introdurne un’altra». Per le associazioni economiche, l’iniziativa «Per il futuro» rappresenta un «grave pericolo per tutta la piazza economica svizzera». Non va dimenticato che il patrimonio di molte aziende non è costituito da un grosso volume di contanti, bensì da terreni, edifici, macchinari e know-how. Per pagare la nuova imposta molti imprenditori sarebbero costretti a vendere una o l’intera parte della proprietà, con conseguenze deleterie per i posti di lavoro. Sarebbe questo il futuro che l’iniziativa pretende di salvare?, sostengono i critici.
Alessandro Carli
Il fantasma atomico nella politica mondiale
L’analisi ◆ Si stanno erodendo i meccanismi di contenimento
Giulia Pompili
Le dichiarazioni del presidente americano Donald Trump sulle armi atomiche hanno riacceso il dibattito sulla necessità di una rinnovata deterrenza nucleare, ma soprattutto sullo spettro di una nuova potenziale Guerra fredda con la Russia e la Cina, a pochi mesi dalla scadenza del New Strategic Arms Reduction Treaty (il cosiddetto New START), il trattato sulla riduzione delle armi nucleari firmato da Stati Uniti e Federazione Russa nel 2010. È forse anche per tentare di mostrare un atteggiamento più diplomatico che poco più di una settimana fa il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha negato che Mosca abbia condotto test nucleari sotterranei di nascosto, replicando alle accuse formulate da Trump. In un’intervista trasmessa dai media di Stato, Lavrov ha aperto al dialogo sul tema, dichiarando che la Russia è «pronta a discutere con Washington le preoccupazioni sollevate dai nostri colleghi americani riguardo alla possibilità che stiamo segretamente facendo qualcosa sottoterra».
Le tensioni tra le due principali potenze nucleari globali si sono intensificate dopo che la Russia, a fine ottobre, ha testato almeno due sistemi d’arma a propulsione e capacità nucleare: il missile da crociera Burevestnik e il famigerato drone sottomarino Poseidon. Pochi giorni dopo, il 29 ottobre scorso, e solo un paio d’ore prima
di incontrare il leader cinese Xi Jinping, Trump aveva fatto un annuncio a sorpresa sul suo social Truth, sostenendo di aver ordinato al Pentagono di riprendere i test sulle armi atomiche americane «a causa dei programmi di test di altri Paesi», riferendosi a Russia e Cina. Quello strano e poco chiaro messaggio aveva allarmato diversi funzionari, anche della stessa amministrazione americana. Il giorno dopo, parlando ai giornalisti a bordo dell’Air Force One, Trump aveva detto che «tutti stanno facendo test nucleari. Noi abbiamo smesso anni fa. Ma se gli altri fanno test, credo sia giusto che li facciamo anche noi», lasciando intendere che si trattasse proprio di esperimenti di detonazione. La Russia ha effettuato l’ultimo esperimento di questo tipo nel 1990, mentre gli Stati Uniti nel 1992. La Cina ha effettuato l’ultimo nel 1996, l’anno in cui tutte e tre le potenze nucleari hanno firmato il Trattato sulla messa al bando totale dei test nucleari, che proibiva «qualsiasi esplosione di test con armi nucleari o qualsiasi altra esplosione nucleare». Per tentare di mitigare gli effetti sull’opinione pubblica americana – soprattutto quella dello Stato del Nevada, dove si trova l’ultimo sito di test nucleari del Paese – a inizio novembre il segretario all’Energia degli Stati Uniti, Chris Wright, è stato costretto a spiegare che gli esperimenti previsti non com-
porteranno esplosioni nucleari: «Si tratta di ciò che chiamiamo esplosioni non critiche: si testano le altre parti dell’arma per assicurarsi che funzionino, ma non si provoca alcuna detonazione atomica», ha chiarito. E poi ha aggiunto che gli abitanti del Nevada «non devono temere di vedere un fungo atomico». Il problema è che, secondo diversi analisti, la combinazione di rivalità geopolitiche, instabilità interna e incertezza diplomatica sta via via erodendo i meccanismi di contenimento della corsa agli armamenti costruiti dopo la fine della Guerra fredda. Secondo la Federation of American
Lo preferisci intenso o delicato?
Scientists, la Russia dispone oggi di circa 5500 testate nucleari, gli Stati Uniti di poco più di 5200 e la Cina di circa 600. La Corea del Nord resta l’unico Paese ad aver condotto test nucleari esplosivi dopo gli anni Novanta – l’ultimo dei quali, il settimo, avvenuto nel 2017. Le esplosioni «non critiche» di cui ha parlato il segretario Wright sono esperimenti nucleari che simulano le condizioni di un’esplosione atomica, ma senza mai arrivare a provocarla davvero: non essendo vietate esplicitamente dai trattati, sia gli Stati Uniti sia la Russia ne hanno eseguite diverse negli ultimi decenni. Ma c’è di più. Perché il contesto è
ulteriormente complicato dalla rapida espansione dell’arsenale nucleare cinese, poco conosciuto al grande pubblico ma particolarmente sensibile per i servizi d’intelligence occidentali. Secondo il Center for Strategic and International Studies, Pechino ha quasi raddoppiato il numero di testate negli ultimi cinque anni e potrebbe superare le mille entro il 2030. Il controllo e la trasparenza degli armamenti cinesi, però, sono complicati dalla recente ondata di epurazioni di alti funzionari delle Forze armate condotta da Xi Jinping, soprattutto all’interno della Forza missilistica dell’Esercito popolare di liberazione che sovrintende gli armamenti atomici. Secondo Georgia Cole, analista del programma di sicurezza internazionale di Chatham House, in questo clima «l’imminente scadenza del trattato New START è particolarmente preoccupante, perché non può essere prorogato nuovamente in base ai termini esistenti. Sebbene la Russia abbia sospeso la sua partecipazione al trattato nel 2023, sia Mosca sia Washington hanno continuato a rispettare i limiti numerici centrali relativi alle testate strategiche e ai sistemi di lancio schierati». Adesso, però, i messaggi confusi e poco chiari della Casa Bianca e del Cremlino potrebbero incentivare anche Paesi de facto nucleari ad aumentare il proprio arsenale, rendendo vani decenni di politiche di non proliferazione.
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Viaggio nell’era del disordine economico
L’intervista ◆ Sergio Rossi, futuro ospite di un ciclo di conferenze al Liceo di Lugano 2, parla dei problemi delle Banche centrali Romina Borla
Per natura, donne e uomini cercano di dare un senso al mondo in cui vivono. Senza questa chiave di lettura, dice Elsa Morante, rischierebbero di precipitare nella follia. Per dare voce a questo desiderio di comprensione, la Commissione cultura del Liceo di Lugano 2 propone un ciclo di conferenze dal titolo «Crisi e conflitti del presente, la ricerca della ragione nell'età dell'incertezza» nella Biblioteca dell’istituto, ore 18.15. Tra i relatori anche Sergio Rossi (23 febbraio 2026), professore ordinario di macroeconomia e di economia monetaria all’Università di Friburgo, che abbiamo intervistato (qui la prima puntata).
Che cosa intende quando parla di «disordine economico»? Quali ne sono le cause principali? «Si tratta di un disordine di carattere monetario sul piano internazionale, dove il dollaro statunitense è una promessa di pagamento che permette agli Stati Uniti di vivere oltre le loro possibilità finanziarie, visto che il resto del mondo accetta questa promessa quando vende dei beni, dei servizi o dei titoli finanziari a dei soggetti economici americani. Le cause principali di questo disordine risalgono al 1944, quando i rappresentanti politici di 44 Nazioni firmarono gli accordi di Bretton Woods, istituendo così un regime monetario internazionale al centro del quale fu posto il dollaro statunitense. Questo regime, come spiegò l’economista francese Jacques Rueff negli anni Cinquanta del Novecento, consente agli Stati Uniti di avere un privilegio esorbitante, ossia di acquistare dal resto del mondo senza dare nulla in cambio, poiché i dollari usati per pagare le importazioni statunitensi rimangono nelle banche di quel Paese. I disavanzi commerciali statunitensi sono perciò senza lacrime – come ben disse Rueff –per l’economia americana, visto che si tratta di una posizione contabile senza alcun impatto negativo per la Nazione nel suo insieme».
Perché, secondo lei, la Banca nazionale svizzera «segue manuali sbagliati»?
«In generale tutte le banche centrali, non solo la Banca nazionale svizzera, identificano l’inflazione con l’aumento dei prezzi al consumo, mentre in realtà questo aumento ne è soltanto il sintomo più evidente. In effetti l’inflazione è la perdita di potere d’acquisto della moneta nazionale, che risulta dall’eccessiva concessione di credito da parte delle banche rispetto al volume del reddito nazionale prodotto nel periodo considerato. Non tutti gli aumenti dei prezzi sono infatti dovuti all’inflazione, come si è ben visto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, quando diverse aziende hanno aumentato i loro prezzi di vendita ben oltre l’aumento dei loro costi di produzione. Le banche centrali credono che l’inflazione sia dovuta a un eccesso di domanda nel mercato dei prodotti e, perciò, aumentano i tassi di interesse per ridurre questa domanda, causando un rallentamento delle attività economiche che contribuisce a creare disoccupazione, senza veramente toccare i fattori all’origine dell’aumento dei prezzi al consumo. Questi ultimi sono addirittura spinti ulteriormente al rialzo da tale politica monetaria, perché le aziende che devono pagare dei tassi di interesse maggiori per ottenere dei prestiti bancari trasferiranno sui prezzi di vendita dei loro prodotti questi loro maggiori oneri finanziari».
Qual è il ruolo ideale di una banca centrale? «Come disse un famoso economista americano, la banca centrale e il Tesoro pubblico devono essere considerati come la moglie e il marito in un’economia domestica, vale a dire che devono coordinare le loro scelte per il bene comune di questa economia. Questo significa pure che la banca centrale deve acquistare le obbligazioni emesse dal Tesoro pubblico per coprire i disavanzi del-
lo Stato quando vengono effettuati degli investimenti pubblici. Questi investimenti portano benefici anche alle generazioni future, che dovranno quindi contribuire pagando le imposte. In questo modo lo Stato potrà rimborsare il debito contratto per finanziare tali opere. Inoltre, le scelte di politica monetaria da parte delle banche centrali hanno numerosi effetti distributivi, per quanto riguarda sia il reddito sia la ricchezza, visto che i tassi d’interesse influenzano entrambe queste grandezze, ragione per cui tali scelte devono considerare questi loro effetti nell’economia nazionale, oltre al loro impatto sul clima per i danni ambientali legati ai crediti che le banche concedono alle aziende».
Quali lezioni dovremmo trarre dalla crisi legata a Credit Suisse del 2023?
«La lezione più importante, che però non è stata considerata in alcun modo, è dettata dal fatto che
Abolito il valore locativo:
le banche – diversamente dalle altre istituzioni finanziarie – non necessitano di fondi per concedere dei prestiti. Sono i prestiti bancari a originare i depositi nel sistema bancario, motivo per cui le banche non hanno alcun vincolo di bilancio e, quindi, possono aprire delle linee di credito per tutte le operazioni che ritengono profittevoli per i loro affari. Bisognerebbe perciò suddividere la contabilità bancaria in due dipartimenti, tramite i quali rendere esplicite le concessioni di credito che non formano alcun reddito nell’insieme dell’economia nazionale, in modo da limitarne l’importo ai risparmi che le banche hanno raccolto, evitando così di rigonfiare delle bolle creditizie che possono poi scoppiare e creare danni all’intero sistema economico. Bisognerebbe anche scorporare i rami di attività della banca d’investimento da quelli legati alla concessione di crediti, al fine di evitare un conflitto d’interessi ben evidenzia-
to da un giudice della Corte suprema statunitense, Louis D. Brandeis, nel 1914: i colossi bancari sono su entrambi i lati della medesima transazione finanziaria, visto che consigliano le aziende sul prezzo di vendita delle loro azioni per poi comprare queste azioni al prezzo che hanno loro suggerito».
Ritiene che il sistema bancario svizzero sia sufficientemente regolato per evitare nuove crisi? «L’attuale regolamentazione, in Svizzera come altrove, si limita a vincolare le scelte di carattere finanziario delle banche di importanza sistemica all’accantonamento di fondi propri e di liquidità in base ai crediti concessi da questi istituti. Si dovrebbe invece attuare una regolamentazione di ordine sistemico anziché solo comportamentale: tutte le banche che concedono dei prestiti per attività che non generano reddito nel sistema economico – vale a dire per le transazioni puramente speculative – dovrebbero poterlo fare solo nella misura in cui dispongono dei finanziamenti necessari per farlo e senza dunque abusare della loro capacità di creare denaro dal nulla. Se poi guardiamo alla percentuale di fondi propri delle banche di importanza sistemica, appare evidente che si tratta di una percentuale insufficiente per evitare una crisi di portata strutturale nel caso in cui un istituto di queste dimensioni sia in gravi difficoltà. Chi vuole ottenere un mutuo ipotecario deve avere almeno il 20% di fondi propri, ma una banca di importanza sistemica deve rispettare una percentuale assai inferiore per svolgere delle operazioni molto più rischiose dell’acquisto di una casa».
Le prossime conferenze 25 novembre Gianluca Grossi (giornalista), 9 dicembre Fabrizio Coccetti (fisico ricercatore), 30 marzo 2026 Paolo Caressa (divulgatore scientifico). www.lilu2.ch
La consulenza della Banca Migros ◆ Marcel Müller evidenzia gli aspetti da considerare per non incorrere in svantaggi economici
Per decenni è stata applicata la norma in base a cui chi abita nell’immobile di sua proprietà deve tassare come reddito una locazione fittizia, il valore locativo, deducendo per contro dalle imposte i lavori di manutenzione e gli interessi debitori. Questa regolamentazione presto non varrà più: il 28 settembre 2025, infatti, la Svizzera ha votato a favore dell’abolizione del valore locativo e delle deduzioni fiscali. Anche se il cambio di sistema non avverrà prima del 2028, i proprietari immobiliari dovrebbero cominciare a considerarne subito le conseguenze. Tre temi sono particolarmente importanti:
1. Risanamenti
Fino a questo momento i lavori di manutenzione e i risanamenti potevano essere dedotti dal reddito imponibile. In futuro non vi sarà più
tale possibilità. Chi vuole ancora beneficiare delle deduzioni dovrebbe quindi portare avanti o eventual-
mente anticipare le manutenzioni o i risanamenti energetici previsti prima che entri in vigore il cambio di sistema.
Poiché si prevede un aumento della domanda nel settore edilizio, è consigliabile pianificare tempestivamente i lavori.
Importante: fino al 2050 i cantoni possono continuare a contemplare deduzioni per i risanamenti, a condizione però, tra le altre cose, che gli investimenti siano destinati al risparmio energetico o alla tutela dell’ambiente.
2. Fondo di rinnovazione
Nel caso di una proprietà per piani può essere conveniente aumentare temporaneamente i contributi nel fondo di rinnovazione. Gli importi versati, infatti, sono ancora deducibili dalle imposte fi-
no all’entrata in vigore della nuova regolamentazione.
3. Ipoteche
In futuro non si potranno più dedurre fiscalmente gli interessi debitori.
Per chi acquista una proprietà abitativa per la prima volta è prevista una regolamentazione speciale, in base a cui si potrà continuare a dedurre una parte limitata degli interessi debitori dal reddito imponibile per un periodo di dieci anni. Bisogna inoltre ponderare bene se conviene di più un rimborso anticipato o una riduzione dell’ipoteca. È fondamentale disporre a lungo termine di sufficiente liquidità per mantenere la flessibilità finanziaria.
Se si vincola troppo capitale nell’immobile, vi è il rischio di concentrazione nel mix patrimoniale. Destinando una somma cospicua
al rimborso dell’ipoteca si perde tra l’altro l’opportunità di proventi che potrebbero derivare da investimenti in attività finanziarie. Pertanto, bisogna valutare attentamente se non sia meglio investire altrove i fondi liberi. Per prendere decisioni informate è essenziale avere una visione d’insieme della propria situazione finanziaria e patrimoniale
Domande sulla proprietà abitativa?
La consulenza a 360° della Banca Migros fornisce le risposte:
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Marcel Müller, consulente alla clientela della Banca Migros ed esperto in ipoteche.
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Norvegia, equilibri fragili nel regno del welfare
Prospettive ◆ Sotto la superficie del modello nordico: povertà in aumento e polarizzazione politica mentre la destra avanza
Angelo Ferracuti, testo e foto
L’ascesa del Partito del progresso (FrP) in Norvegia, con il suo profilo populista e anti-immigrazione, si inserisce in una tendenza continentale che vede rafforzarsi le destre radicali in diversi Paesi europei. Allo stesso tempo, la tenuta del centrosinistra norvegese, seppur con una maggioranza risicata e un Governo di minoranza, offre uno spunto di riflessione per le forze socialdemocratiche del Continente, chiamate a confrontarsi con nuove alleanze e crescenti tensioni interne.
Ma scendiamo nei particolari. La larga coalizione di centrosinistra guidata Jonas Gahr Støre (dell’Arbeiderpartiet o Partito laburista) ha vinto le recenti elezioni legislative norvegesi, ma il Partito del progresso di estrema destra populista e anti-immigrazione ha raddoppiato i propri voti rispetto al 2021, passando dall’11 al 23,9 per cento, raggiungendo il suo miglior risultato di sempre. Con una maggioranza risicata di 89 seggi su 169, il leader laburista guiderà un nuovo Governo di minoranza con l’appoggio esterno del Rødt (Partito rosso), del Centre Party (il partito di centro dei contadini), della Sinistra socialista (SV) e dei Verdi. Ma molte questioni nevralgiche dividono lo storico partito socialdemocratico Arbeiderpartiet da quelli del blocco rosso-verde come il Partito socialista di sinistra (SV), che ha ottenuto il 5,6% dei voti, perdendo due punti in percentuale rispetto all’ultima tornata elettorale; divergenze su questioni sociali, ambientali e di politica internazionale. Ne abbiamo parlato con la segretaria nazionale del Partito socialista (SV) Kirsti Bergstø nel suo ufficio allo Stortingsbygninge, l’edificio che ospita il Parlamento monocamerale della Norvegia che si trova sulla Karl Johans gate 22, in quella che chiamano la «strada principale» di Oslo.
L’estrema destra avanza anche in Norvegia ma è già al Governo in Svezia, in Finlandia, mentre in Danimarca ha vinto invece il centrosinistra ma pratica politiche restrittive in ambito migratorio. Che succede in Scandinavia?
Le vittorie delle destre sono un fatto globale, una tendenza che caratterizza gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e molti Paesi europei. La destra è in grado di porre delle domande su temi importanti in cui la gente si riconosce. Problemi come la precarizzazione del mondo del lavoro,
La Giorgia Meloni del Nord
La coalizione di centrodestra norvegese riunisce quattro partiti: Høyre, conservatore e moderato; FrP, populista di destra; Venstre, liberale centrista nonostante il nome («sinistra»); e KrF, democristiano, attento ai valori familiari e religiosi. Alle elezioni parlamentari norvegesi del 2025, il Partito del progresso (FrP) ha registrato un risultato storico, passando dall’11,6% al 23,9% dei voti e raddoppiando i seggi da 21 a 48. Questo exploit ha reso il FrP la seconda forza politica del Paese e ha consacrato la segretaria del partito Sylvi Listhaug come leader indiscussa dell’opposizione di destra. Ex ministra per l’immigrazione e l’integrazione, Listhaug è nota per le sue posizioni radicali contro l’immigrazione e
come quello immobiliare, controllato da grandi concentrazioni economiche esterne alla politica, o quelli legati alle cure mediche, che anche in un Paese ricco come la Norvegia sono diventati un problema per molti. La domanda è giusta, però la risposta della destra, ad esempio quella di creare un mercato libero per la sanità, secondo noi è sbagliata, mentre invece crediamo che si debba rafforzare la parte pubblica. La sinistra secondo noi deve rispondere con politiche sociali ancora più avanzate, magari spingendo sulla forza del sindacato, storicamente molto radicato e capillare qui in Norvegia.
Uno dei nodi più delicati che il nuovo Governo laburista norvegese dovrà affrontare riguarda il rapporto tra il Fondo sovrano (un fondo che serve a garantire stabilità economica e benessere alle generazioni future) – alimentato in larga parte dai proventi del petrolio – e gli investimenti in aziende israeliane che sarebbero coinvolte in viola zioni dei diritti umani a Gaza. La questione è resa ancora più sensi bile dal fatto che una parte signifi cativa della comunità musulmana norvegese, critica nei confronti del la politica israeliana, ha sostenu to il Partito laburista proprio nella speranza di un cambio di rotta su questi temi.
Insieme a molte altre organizzazio ni, anche internazionali, ci stiamo impegnando per ritirare questi inve stimenti nelle società che operano in Israele e hanno contribuito al massa cro dei palestinesi, e la maggioranza del popolo norvegese è d’accordo con noi. Pensiamo che non deve esserci una distanza tra le parole e le azioni. Pur riconoscendo che il Fondo sovra no ha ritirato i contratti con diverse società coinvolte, riteniamo che non sia stato fatto abbastanza. Su questo continueremo a portare avanti la no stra battaglia, sia in Parlamento che nel Paese.
C’è anche la questione ambienta le. Sia voi che Rødt (Partito Rosso), ma anche i Verdi, in cambio di ap poggio chiedete una graduale ridu zione dell’estrazione di petrolio e gas nei mari norvegesi, e lo stop to tale entro il 2040.
La posizione del partito è chiara, de sideriamo che non si facciano nuovi investimenti nella ricerca di ulte riori zone petrolifere, per ridurre le emissioni di gas serra. La produzio
ne continuerà per diversi anni solo nei giacimenti già scoperti, ma deve cambiare la nostra politica industriale ed è necessario creare posti di lavoro alternativi e sostenibili a quelli che si perderanno. Soprattutto nei settori dell’agricoltura e dell’allevamento ittico, che può essere sviluppato lungo
infantile rimane purtroppo decisamente alta.
La povertà infantile negli ultimi anni è scesa, perché ci siamo impegnati a far aumentare le sovvenzioni che vengono date alle famiglie numerose, anche se i rincari di beni alimentari e affitti hanno indebolito e a volte
altri partiti di sinistra, non solo sui temi sociali ma anche su quelli ambientali che per noi sono molto importanti e legati tra di loro.
Quali sono le vostre proposte per il futuro della Norvegia?
Intanto siamo riusciti a far passare una riforma sanitaria legata alle cure odontoiatriche, molto costose qui in Norvegia: adesso tutti i giovani fino a 28 anni di età pagheranno molto meno o potranno addirittura curarsi gratuitamente; naturalmente contiamo di estenderla a tutti i cittadini e cittadine, soprattutto alle persone anziane che sono spesso l’anello debole della catena. Un’altra cosa che siamo riusciti a fare è aumentare le pensioni più basse e quelle di invalidità, oltre a mantenere un doposcuola gratuito per tutti gli studenti norvegesi. Ma dobbiamo impegnarci di più, e lo faremo sul fronte dell’occupazione, perché tutti/e hanno diritto a un lavoro sicuro e dignitoso, ben retribuito, una scuola pubblica efficiente e di qualità, a una ridistri
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l’establishment europeo, che ha definito «tirannia della bontà». Durante il suo mandato ha promosso politiche di rimpatrio volontario che hanno ridotto drasticamente il numero di richiedenti asilo: da 30’000 nel 2015 a circa 2000 nel 2017. Il suo stile diretto, la retorica anti-élite e la difesa dei valori tradizionali le hanno valso il soprannome di «Meloni del Nord», attirando consensi soprattutto tra i giovani uomini. Con il FrP in ascesa e i conservatori in calo, Listhaug incarna una nuova destra norvegese: populista, identitaria e fortemente critica verso L’Ue. Pur non avendo conquistato il Governo, il suo ruolo nell’arena politica è ormai centrale e destinato a influenzare profondamente il dibattito nazionale. / Red.
Le persone anziane sono spesso l’anello debole della catena. (Freepik)
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Zuppe
Calore e bontà
Un piatto di zuppa fumante, una fetta di pane: il pasto invernale è pronto. Sei ricette invernali e consigli su come ravvivare qualsiasi zuppa
Testo: Angela Obrist
Minestra di miso ai germogli
Pranzo o cena alla giapponese? La minestra di miso ai germogli con funghi shiitake, carote, spaghetti cinesi e uova sode è un piatto completo.
Vellutata di funghi
Un benvenuto all’autunno in cucina: funghi freschi ed essiccati caratterizzano la minestra con patate e crostini.
Gulasch in versione rapida
Con dadini di fettine di manzo, insieme a peperoni, patate, cipolle, paprica e chorizo arrosto, si può preparare un gulasch in pochi minuti.
Crema di sedano rapa con senape
Antipasto per 4 persone
1 cipolla
250 g di sedano rapa, pesato mondato
2 cucchiai d’olio d’oliva
40 g di senape
5 dl di brodo di verdura
2,5 dl di panna semigrassa fleur de sel pepe
¼ di mazzetto di prezzemolo
20 g di mandorle
4 cucchiaini di perle di aceto balsamico o aceto balsamico
1. Trita la cipolla. Taglia il sedano rapa a dadini e falli appassire nell’olio con la cipolla.
2. Unisci la senape, bagna con il brodo. Copri e fai cuocere dolcemente per ca. 30 minuti finché il sedano rapa risulta morbido.
3. Aggiungi la panna, porta a bollore e riduci in purea con il frullatore a immersione. Condisci con fleur de sel e pepe. Trita grossolanamente le foglie di prezzemolo.
4. Dimezza le mandorle e tostale brevemente.
5. Distribuisci la crema nei piatti e cospargi con il prezzemolo, le mandorle e le perle di balsamico.
Ricetta
Panna intera Valflora UHT, IP-SUISSE 250 ml Fr. 2.15
Saitaku Simply Japanese Miso Soup Original
Minestra di verdure e lenticchie
Piatto principale per 4 persone
150 g di lenticchie
1 cipolla
200 g di cavolo riccio
400 g di patate resistenti alla cottura
400 g di carote
1 cucchiaio d’olio d’oliva
1 l di brodo vegetale
1 bustina di zafferano
2 cucchiai di succo di limone pepe
1 mazzetto d’erba cipollina
1. Lessa le lenticchie in abbondante acqua per 10 minuti.
2. Trita la cipolla. Taglia il cavolo riccio a bocconi, le patate e le carote a dadi.
3. Fai appassire la cipolla e le verdure nell’olio. Unisci il brodo e lo zafferano. Aggiungi le lenticchie scola e lascia sobbollire coperto per ca. 15 minuti. Condisci con il succo di limone e il pepe.
4. Tagliuzza finemente l’erba cipollina. Servi la minestra e guarniscila con l’erba cipollina.
Come rendere più interessanti le zuppe
Grande potere saziante
Hai voglia di una zuppa più ricca? Allora aggiungi delle celestine già fatte o della frittata avanzata. Si possono anche incorporare delle uova, sbatterle e farle cuocere per qualche minuto oppure fare al volo una frittata e versarla nella zuppa a pezzetti. I cubetti di tofu fritto lasciati a cuocere nella zuppa sono altrettanto adatti.
Più croccantezza
Cospargere la zuppa con cipollotti o germogli tritati. Per più croccantezza, aggiungere noci o semi tostati e tritati come i semi di zucca o le perle per brodo. Oppure puoi preparare dei crostini fatti in casa
Come preparare ottime vellutate
La base
Per la base di una vellutata sono necessarie verdure di stagione o funghi. Pulire le verdure e tagliarle a pezzetti. Soffriggere la cipolla o il porro nel burro o nell’olio, aggiungere le verdure e sfumare con il brodo. Cuocere le verdure fino a renderle morbide e ridurle in purea con un frullatore a immersione. Condire con sale, pepe e spezie a piacere.
Aggiungere della panna
Arricchire la vellutata con un po’ di panna e ridurre nuovamente in purea. Se si preferisce un’opzione a base vegetale, scegliere una crema di cocco, avena o soia. Se si utilizza la panna, non portare la vellutata a ebollizione, altrimenti la panna potrebbe flocculare.
Ancora cremosità
Per dare una bella cremosità alla vellutata aggiungere formaggio fresco. Anche il formaggio fuso, la crème fraiche o il mascarpone vanno bene. Il burro di anacardi ha un effetto simile, mentre la pasta di sesamo tahini è particolarmente indicata per le passate in stile asiatico o orientale.
Tanta cremosità grazie alle patate o ai legumi
Aggiungere alle verdure di base della vellutata patate a pasta molle o legumi come fagioli o ceci. Anche questi ingredienti conferiscono una bella cremosità.
con il pane avanzato. Tagliare il pane a cubetti, tostarlo in una padella con un po’ di burro chiarificato fino a renderlo croccante e servirlo con la zuppa.
A tutto aroma La pasta di miso giapponese rende le zuppe più saporite, non solo quelle asiatiche. È sufficiente mescolare un po’ di pasta nella zuppa prima di servirla, senza portarla più a ebollizione. Misurare con cura la pasta di miso, dato che è relativamente salata. Un po’ di acidità fa bene anche a molte zuppe. Insaporire la zuppa finita con un po’ di aceto o di succo di limone, oppure servirla con spicchi di limone.
Boursin all’aglio e alle erbe aromatiche 150 g Fr. 4.20
Fr. 59.95
Vellutata di radici di prezzemolo ai funghi croccanti
Piatto principale per 4 persone
600 g di radici di prezzemolo
150 g di patate farinose
1 cipolla
2 spicchi d’aglio
150 g di gallinacci
4 cucchiai d’olio d’oliva
1 l di brodo di verdura
1 dl di panna sale pepe
1 mazzetto d’erba cipollina
1 cucchiaio di pangrattato
20 g di gruyère in un pezzo
1. Tagliate a fette sottili le radici di prezzemolo e le patate. Tritate separatamente la cipolla e l’aglio. Recidete i gambi dei funghi. Pulite i funghi e tagliateli a pezzi grandi uguali. Scaldate la metà dell’olio in una pentola dai bordi alti. Rosolate le radici di prezzemolo, le patate e la cipolla per ca. 2 minuti. Unite il brodo, incoperchiate e fate sobbollire per ca. 20 minuti. Aggiungete la panna e frullate. Regolate di sale e pepe.
2. Sminuzzate l’erba cipollina. Rosolate i funghi e l’aglio nell’olio rimasto. Unite il pangrattato e l’erba cipollina e condite con sale e pepe. Servite la vellutata nei piatti e distribuite i funghi croccanti. Condite con il gruyère grattugiato e servite subito.
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Ricetta
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Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Saldo migratorio e politica monetaria: un nodo irrisolto
La discussione attorno all’iniziativa UDC che intende porre un limite alla crescita della popolazione in Svizzera verte attualmente sulla questione se alla stessa occorre (o no) opporre un controprogetto. Alle Camere, lo scorso settembre, la proposta di controprogetto dell’Alleanza del Centro è stata respinta perché la maggioranza dei parlamentari riteneva che l’iniziativa non avrebbe superato la votazione popolare.
Nel corso delle ultime settimane, però, la situazione è cambiata; partiti ed esperti sono oggi alla difficile ricerca di proposte alternative realizzabili. Questo significa che l’UDC di fatto ha ormai vinto la sua più che decennale campagna contro la libera circolazione della manodopera. Infatti, che passi l’iniziativa o che si affermi un possibile controprogetto, quel che è sicuro è che i lavoratori stranieri incontreranno
In&Outlet
serie difficoltà per entrare nella Svizzera di domani. Se dal campo della politica, dove domina il discorso sulle possibili misure restrittive, ci spostiamo verso il mondo degli esperti di economia e mercato del lavoro, vediamo che nel dibattito sulla limitazione dell’immigrazione le proposte al centro dell’attenzione sono diverse. Forse lettori e lettrici si ricorderanno, perché ne abbiamo parlato anche in questa rubrica, che qualche mese fa il prof. Eichenberger dell’università di Friburgo aveva proposto di introdurre un’imposta, o tassa, speciale da far pagare ai nuovi immigrati. Questa proposta non sembra aver suscitato molto interesse, nemmeno negli ambienti universitari dai quali è provenuta.
Nel corso delle ultime settimane la discussione fra esperti ha cambiato direzione. Al centro dell’attenzione ora è la politica monetaria e più precisa-
mente la permanente sottovalutazione del franco rispetto alle divise straniere. Questa discussione risale, in origine, a Boris Zürcher, allora responsabile del mercato del lavoro presso la Seco che, qualche tempo fa, in un’intervista rilasciata al momento del suo pensionamento, aveva suggerito che per limitare l’immigrazione di lavoratori in Svizzera la misura più opportuna sarebbe quella di un’ulteriore rivalutazione del franco. La logica di questa proposta è abbastanza chiara. Se il franco dovesse venire rivalutato, la capacità concorrenziale dell’economia svizzera diminuirebbe. Di conseguenza scenderebbe anche la richiesta di lavoratori da parte delle aziende esportatrici del nostro Paese e quindi anche l’immigrazione di lavoratori dall’estero. La finalità di limitare l’immigrazione sarebbe così raggiunta senza dover mettere in piedi l’ingente apparato buro-
cratico necessario per poter realizzare i fini dell’iniziativa UDC. La possibilità di mettere in atto questa proposta è stata verificata, qualche settimana fa, da Peter Stalder, un economista che ha svolto la sua carriera come ricercatore alle dipendenze della Banca nazionale svizzera. Per Stalder, la proposta di Zürcher aveva senso soltanto qualora tra saldo migratorio internazionale e sviluppo dell’occupazione in Svizzera vi fosse una forte correlazione positiva. Se fosse così, una diminuzione dell’occupazione, provocata dalla rivalutazione del franco, potrebbe determinare una riduzione dell’immigrazione di lavoratori. Ma i calcoli di Stalder hanno dimostrato che, nel corso degli ultimi due decenni, la rivalutazione della nostra divisa non ha avuto un effetto negativo sull’immigrazione.
I lavoratori stranieri hanno continuato ad affluire anche quando il cambio
Dal Bataclan all’Italia, il dolore di una generazione
La Morgue di Parigi è una casetta di mattoni rossi a due piani, tra la colonna della Bastiglia, dove riposano i caduti nei moti del 1830 – quelli raffigurati da Delacroix ne La libertà che guida il popolo – e la Gare de Lyon, la stazione da dove partono i treni per il sud. Il giorno dopo le stragi al Bataclan del 13 novembre 2015 i genitori delle vittime andavano alla Morgue a riconoscere i corpi. Tre psicologi li accoglievano. A volte era possibile ritrovare i lineamenti dei giovani morti, visti nelle fotografie pubblicate in Rete, sul volto delle madri e dei padri condannati a sopravvivere loro. Ricordo un signore africano, papà di uno studente che per pagarsi gli studi faceva le consegne per la Federal Express. La moglie non voleva che parlasse con un cronista, il figlio minore tentò di trascinarlo via; lui però voleva fermare la memoria del figlio, lo confortava il pensiero che persone sconosciute leggessero di lui. Teneva a dire che il fi-
glio consegnava pacchi per vivere ma amava molto i libri e la musica. C’è anche una vittima italiana, come me (nessun cittadino svizzero risulta tra i deceduti). Dal giornale chiedono notizie di lei. Reagisco con po’ di fastidio. Occuparsene è giusto: la presenza di un italiano tra i morti farà sentire più vicina la tragedia di Parigi ai lettori. Certo, su 130 ragazzi uccisi quel venerdì sera, è un miracolo che ci sia una sola persona italiana; l’attacco è avvenuto in un arrondissement frequentato soprattutto da parigini o da stranieri che nella capitale vivevano. Pare che la vittima italiana sia una di loro. Pare che sia una donna. Quanto era sbagliato il mio fastidio. Quanto era importante quella vittima. Man mano che le veniva restituito un volto, una storia, un nome, Valeria Solesin diventava un simbolo. In lei si sono riconosciuti i suoi coetanei, e tanti altri italiani che hanno visto in Valeria una nipote, una figlia, una sorella maggio-
re. A poco a poco si è scoperto che Valeria era una bella persona. Una giovane donna sorridente. Una volontaria. Una ricercatrice. Una delle ragazze cui non si può dire «basta piangere», perché lei non ha piagnucolato: si è messa in gioco, è andata a cercare all’estero quel che l’Italia non le dava; l’ha trovato, l’ha preso e l’ha messo a disposizione degli altri. Nei giorni del dolore, le tv francesi hanno più volte ripreso le parole della madre, Luciana Milani: «Valeria mancherà molto a noi, e anche al suo Paese». Non amo le parole eroe, eroina. Non le uso nemmeno per le donne del Risorgimento e della Resistenza che sarebbero rimaste volentieri a casa loro; ma viene un momento in cui la storia ti obbliga a scegliere, e non tutte fanno la scelta più comoda e meno dolorosa. A Valeria questa scelta non è stata data. Non era scesa in guerra, era andata a un concerto. Senza portare neppure la borsa: un dettaglio che ha reso difficile identificarla.
Quando le piramidi non bastano più
Assisto – quasi impossibile sottrarvisi – alla faraonica inaugurazione del Grande museo egizio (Gem) del Cairo, definito, un po’ alla Jovanotti, «il più grande museo al mondo dedicato alla civiltà dei faraoni». Infatti, come ha spiegato il direttore Ahmed Ghoneim, l’obiettivo è duplice: il nuovo museo dovrà diventare un luogo di incontro e cooperazione tra studiosi, restauratori e istituzioni museali di tutto il pianeta, ma anche e soprattutto uno «hub» culturale e turistico internazionale. A giudicare dagli sforzi profusi anche solo nella presentazione, è chiaro che il Governo egiziano punta a qualcosa che superi il British Museum di Londra (che custodisce uno dei reperti più rappresentativi della civiltà dei faraoni, la Stele di Rosetta) e il Museo egizio di Torino, entrambi sempre più confrontati a non più velate accuse collegate a un colonialismo europeo che contemplava anche co-
lossali appropriazioni di monumenti e furti d’arte. Costato oltre 1 miliardo di dollari, il Gem del Cairo ha le carte in regola per funzionare da richiamo culturale e diventare motore economico e turistico di portata mondiale, tanto da garantire all’Egitto una sorta di ricambio del ruolo sinora ricoperto dalle piramidi e dai templi lungo il Nilo, più che dal vecchio museo esistente nella capitale. E non è certo per caso che la grande costruzione è stata progettata e costruita quasi come una moderna piattaforma a ridosso dei monumenti funerari costruiti per i faraoni. Quasi in contemporanea, a Parigi, uno spettacolo pirotecnico annunciava invece la chiusura del Centro Pompidou (temporanea, ma per un lungo lasso di tempo). Cito questa somiglianza per diversi motivi. Innanzitutto perché il monumentale edificio parigino, creato dal progettista Renzo Piano unitamente ad altri architetti, è anch’esso
un museo voluto oltre trent’anni fa per fornire un richiamo cultural-turistico moderno che nella capitale francese si aggiungesse a quelli ormai antichi del museo del Louvre, della Torre Eiffel e della cattedrale di Notre-Dame. Un secondo motivo è dato dalla decisione di procedere a un rifacimento (il secondo, il primo era avvenuto nel 1997, vent’anni dopo l’inaugurazione). La scelta delle autorità francesi, oltre a essere un segnale forte di continuità per il futuro del turismo parigino, consente di scoprire che il binomio arte-turismo presenta anche lati negativi, legati a usura e inquinamento. L’accoglienza di quotidiane orde di visitatori rende inevitabile costruire o ampliare aeroporti, allargare strade e parcheggi, reperire alloggi, muovere aerei e automezzi causando un «affaticamento» non solo dei siti e degli stessi monumenti ma anche della vivibilità e delle libertà delle popolazioni
del franco peggiorava. Non solo ma, secondo Stalder, per ottenere una riduzione significativa dell’immigrazione la Banca nazionale dovrebbe intervenire in modo così brusco da frenare considerevolmente la crescita dell’economia elvetica. Rivalutare il franco per contenere l’immigrazione non servirebbe dunque a niente. Zürcher ha risposto, di recente, a questa critica. Secondo lui, se l’immigrazione crescesse anche quando l’offerta di posti di lavoro si riduce, allora si dovrebbe costatare una sostituzione di manodopera indigena con manodopera estera, o una riduzione del tasso di attività della popolazione residente. Ora, stando a Zürcher, questo non è mai successo negli ultimi due decenni. In conclusione, quindi, anche la questione se una rivalutazione del franco possa contenere l’immigrazione di lavoratori resta per il momento aperta.
Non aveva alcuna colpa; non aveva alcun merito. Si è trovata nel punto sbagliato, nel momento sbagliato. In questo frammento italiano di una tragedia mondiale – a Parigi, 10 anni fa, sono state uccise persone di 19 Paesi diversi – si è riconosciuta come in uno specchio infranto una generazione con cui l’Europa è stata poco generosa. La generazione del precariato, dei contratti che scadono ogni tre mesi, degli stipendi simbolici. Valeria non si è chiusa in un lamento puerile e sterile, non scriveva offese sui social network contro il mondo intero; lei il mondo l’ha affrontato, l’ha studiato, ha tentato di capirlo, e alla fine non ne è uscita sconfitta. Ricordo il suo funerale. In piazza San Marco. Umidità, vento gelido, acqua alta. Comitive di giapponesi sconcertati. Era dal 1868, quando fu onorato il patriota veneto Daniele Manin morto in esilio a Parigi undici anni prima, che piazza San Marco non ospitava una cerimo-
nia funebre. I gondolieri con le magliette a strisce bianche e blu hanno portato qui Valeria dal municipio di Ca’ Farsetti. I fiorai hanno donato le corone. Il coro della Fenice ha aperto con l’inno di Mameli e la Marsigliese. A mezz’asta le bandiere d’Europa, d’Italia, di Francia, di Venezia. Il presidente della Repubblica, in silenzio. Tiratori scelti sui tetti delle Procuratie. La famiglia Solesin non ha detto una parola cattiva, neppure contro gli assassini. Ha invitato i responsabili delle tre religioni a pregare insieme: ognuno ha pregato secondo la propria fede; certo, pure gli islamici dicono «amen» (anzi «Āmīn»), i salmi sono gli stessi per i cattolici e per gli ebrei, «anche il nostro Dio è comune» ha detto l’imam di Venezia. Il presidente dei musulmani d’Italia ha riconosciuto una cosa molto importante: «Tocca a noi per primi combattere il terrorismo». «Ora dovete farlo davvero», ha aggiunto il rabbino.
autoctone. In altre parole, se la libertà di spostamento è praticamente diventata uno dei diritti dell’umanità, in parallelo l’offerta turistica ha assunto dimensioni insostenibili per i problemi e i danni che causa.
Le insofferenze più forti si registrano in alcune grandi città ricche di patrimoni artistici costrette a combattere l’iperturismo con pedaggi di entrata o limitazioni dei pernottamenti brevi. Anche se sempre più globalizzato (e demonizzato) l’iperturismo non ha però solo effetti negativi. Chi studia il fenomeno e le varie scelte messe in atto dai governanti, tra gli esempi più contrastanti cita il Museo Guggenheim di Bilbao: un edificio che non assomiglia a niente, men che meno a un museo, che praticamente non custodisce opere d’arte ma è esso stesso un’opera d’arte, frutto di un’operazione concepita da americani, trapiantata in Spagna per mostrare
la nuova identità della cultura basca! Eppure, nonostante queste stranezze, il sito progettato dall’architetto Frank O. Gehry funziona alla grande: il polo museale attira milioni di visitatori ed è un elemento importante dello sviluppo socio-economico dell’intera regione basca. Altro caso, ancora in Spagna, a Barcellona, dove la Sagrada Familia, la monumentale basilica dell’architetto Gaudì, dopo oltre 150 anni sta giungendo finalmente a compimento grazie soprattutto alla spinta che ogni anno ha ricevuto da milioni di turisti che la visitavano, benché incompiuta e praticamente spoglia, perché inserita in circuiti culturali che riguardavano le opere del grande architetto spagnolo. Due esempi che, oltre a confutare l’immagine di un turismo moderno legato solo consumo e commercio, confermano come gli stereotipi sovente abbiano effetti inattesi.
di Aldo Cazzullo
di Ovidio Biffi
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CULTURA
La fine dell’innocenza comica
A trent’anni dalla morte di John Candy, il ricordo di un attore che trasformava la bontà in umorismo
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Dai clown ai reality mortali
Quattro nuovi adattamenti per le opere di Stephen King, cronista delle paure travestite da finzione
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Lungo il fiume che scorre
Fabio Pusterla e il figlio Leo in uno spettacolo in divenire, dove il fiume diventa protagonista e simbolo
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Vallotton, talento e sensualità
Nasce una big band di casa Si chiama Lugano Jazz Orchestra, unisce giovani talenti ticinesi e crea repertori ambiziosi
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Mostre ◆ Al Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna si celebra il singolare linguaggio pittorico dell’artista vodese
Elio Schenini
Il lungo percorso attraverso l’opera di Felix Vallotton che il Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna dispiega nelle proprie sale in occasione del centenario dalla morte dell’artista vodese si apre con la veduta ravvicinata di un paio di natiche femminili che con la loro poderosa e sensuale carnalità occupano quasi completamente il primo piano di una tela di piccole dimensioni. Si tratta di uno studio dal vero realizzato intorno al 1884 dall’allora diciannovenne Vallotton che solo due anni prima aveva deciso di abbandonare la città e il contesto famigliare protestante e borghese in cui era nato e cresciuto per intraprendere la carriera di pittore nella capitale francese. Per quanto compiuta in giovanissima età, la sua non era certo una scelta inconsueta, visto che Parigi costituiva una tappa quasi obbligata nel percorso formativo degli artisti romandi, privi, come tutti gli artisti svizzeri, di scuole d’arte in patria.
Iscrittosi all’Académie Julien, in poco tempo il giovane Vallotton aveva acquisito una grande padronanza del linguaggio pittorico, come appare evidente nei soggetti molto più convenzionali che affiancano il già citato Studio di natiche, tra le quali spiccano l’Autoritratto del 1885 e il Ritratto dei genitori del 1886. La grande perizia tecnica unita a un’acuta capacità di caratterizzazione psicologica dimostrata in queste prime prove, ascrivibili al realismo d’impronta accademica allora in auge, gli valsero alcune menzioni d’onore nei Salons ufficiali ma in breve tempo non bastarono più a soddisfare il suo desiderio di conquistare un’autonoma identità artistica. A convincerlo ad andare oltre i risultati raggiunti e a non limitarsi alla minuziosa e pedante descrizione ottica del mondo pur di guadagnarsi il favore del pubblico borghese fu in primo luogo il pittore Charles Maurin, suo insegnante all’Académie Julien.
Oltre ad avvicinarlo al pensiero libertario e anarchico, Maurin ebbe il merito di suggerirgli di cimentarsi con l’incisione su legno, tecnica allora ormai completamente fuori moda. A partire dal 1891 e per circa un decennio Vallotton si dedicò infatti essenzialmente alla xilografia, diventando uno degli illustratori principali della «Revue Blanche», una rivista letteraria che aveva tra i suoi collaboratori esponenti di primo piano della cultura francese del tempo, quali Proust, Apollinaire, Gide e Debussy, e che costituiva il punto di riferimento dei Nabis (i profeti). Furono proprio le xilografie esposte al Salon de la Rose-Croix nel 1892 ad avvicinare Vallotton al gruppo raccolto attorno alla lezione di Paul Gauguin, di cui entrò a fare parte con il soprannome «il Nabis straniero», a sottolineare la sua origine elvetica oltre che una innata riservatezza.
Paul Sérusier, Émile Bernard, Maurice Denis e soprattutto Paul Bonnard e Édouard Vuillard furono gli artisti con cui, in quegli anni, Vallotton condivise, oltre all’ammirazione per l’arte di Gauguin, la scoperta dell’arte giapponese con le sue forme semplificate, i suoi contorni netti e le sue campiture piatte. Grazie a questa scoperta, Vallotton seppe innovare, come riconobbe immediatamente la critica, la tradizione occidentale dell’arte xilografica spalancandola sulla modernità. Per tutti gli anni Novanta dell’Ottocento, Vallotton è stato un artista totalmente immerso nella brulicante vita urbana parigina che descriveva in tutti i suoi aspetti e rituali sulle pagine delle riviste – oltre alla «Revue Blanche», «Le Cris de Paris», «Le Rire», «Le Courrier français», «L’Assiette au beurre» – e nei libri, dai Rassemblements di Octave Uzanne a Poil de Carotte di Jules Renard. Un artista che, abbracciata con convinzione la causa dell’anarchismo, nelle sue illustrazioni denunciava la repressione della libertà e gli abusi di potere, la brutalità
delle forze dell’ordine, l’ipocrisia della morale borghese e le enormi diseguaglianze sociali che caratterizzavano la società francese. La carriera di illustratore di Vallotton culminò con le dieci incisioni che compongono la serie delle Intimités, un capolavoro assoluto dell’arte grafica di quegli anni, in cui la sintesi delle forme raggiungeva un’essenzialità mai vista fino ad allora grazie alla forza avvolgente del nero, dalla cui impenetrabile profondità affiorano gli interni silenziosi e inquieti in cui si svolge il dramma della vita di coppia normalmente celato dal velo del perbenismo. Con questa serie si chiuse di fatto l’attività di illustratore di Vallotton, che da quel momento si dedicò solo sporadicamente all’incisione su legno – lo fece per denunciare gli orrori della Prima guerra mondiale – preferendo concentrare tutta la sua attenzione e il suo tempo sulla pittura. La sintesi grafica raggiunta nella serie delle Intimités si tradusse così sul finire dell’Ottocento in alcuni dipinti d’interni che ne riprendevano i soggetti e le atmo-
sfere ambigue e allusive immergendole in un cromatismo uniforme. Questi dipinti segnano l’inizio della seconda parte della carriera artistica di Vallotton, che a partire da allora rinunciò quasi sempre a sviluppare le proprie composizioni attorno a un nucleo narrativo, preferendo rimanere all’interno di tre generi «statici» dell’arte pittorica: il nudo, il paesaggio e la natura morta. Oltre alla straordinaria capacità di sintesi formale che aveva affinato nei lunghi anni di esercizio dell’arte grafica, alla base delle sue tele vi era anche la conoscenza della pittura naif di Henri Rousseau scoperta nel 1891 al Salon des Independents. La sua Tigre in una tempesta tropicale, aveva scritto ammirato in quell’occasione, è un’opera da vedere assolutamente perché incarna «l’alpha e l’omega» della pittura. Fino alla morte, avvenuta nel 1925, Vallotton, mentre intorno a lui fervevano gli sperimentalismi linguistici delle avanguardie, rimase strenuamente fedele alla figurazione, anticipando in qualche modo esperienze che matureranno molto dopo,
negli anni del Realismo magico. Di questa lunga e prolifica stagione pittorica la mostra di Losanna raccoglie molte delle prove più significative. Tuttavia, percorrendo le sale al secondo piano del museo si ha la sensazione che la pittura di Vallotton corra lungo un crinale sottilissimo e che in molti casi sarebbe bastato veramente poco per scivolare nel kitsch. Ma Vallotton era perfettamente consapevole che per realizzare dei capolavori era necessario correre questo rischio. Guardando i suoi straordinari paesaggi, in cui l’essenzialità delle linee si unisce a un cromatismo acido e vibrante, non si può fare a meno di riconoscere che c’è riuscito molto spesso.
Dove e quando Vallotton Forever. The Retrospective, Losanna, Musée cantonal des Beaux-Arts. Orari: ma-me 10.00-18.00; gio 10.00-20.00; ven e sa 10.00-18.00; lu chiuso. Fino al 15 febbraio 2026. w ww.mcba.ch
Felix Vallotton, Le bain au soir d’été, 1892-1893, Zurich, Kunsthaus Zürich (Fondation Gottfried Keller, Office fédéral de la culture, Berne, 1965; photo: Kunsthaus Zürich)
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L’ultimo gigante buono della commedia Usa
Vite da ridere (o quasi) ◆ John Candy negli anni Ottanta fu simbolo di un’epoca in cui la risata aveva ancora un cuore
Carlo Amatetti
La sua ultima cena, la prepara lui stesso, per la troupe di un film western che nessuno ricorderà. È il 3 marzo 1994, siamo a Durango, in Messico. Dopo aver cucinato per tutti, John Candy chiama i figli a Los Angeles per augurare la buonanotte. Poi si corica nella sua stanza. Non si risveglierà più. Aveva 43 anni, e stava finendo di girare Wagons East!, una commedia che si rivelerà un disastro. Ma, in un certo senso, quella notte muore anche un certo modo di far ridere: gentile, umano, con un cuore grande quanto il corpo che lo conteneva. Con Candy se ne va il volto bonario e disarmante delle commedie anni Ottanta, un’epoca in cui gli attori comici non avevano ancora bisogno di essere cool, ma solo autentici.
Dietro il suo sorriso generoso e l’ironia bonaria, si nascondeva una fragilità che nessuna gag avrebbe mai potuto davvero guarire
John era nato in Canada nel 1950, e aveva conosciuto il dolore molto presto: il padre morì d’infarto quando lui aveva appena cinque anni. Da adolescente sognava una carriera nel football, ma un brutto infortunio al ginocchio gli cambiò il destino. Lo sport rimase però una costante della sua vita: nel 1991 divenne persino comproprietario della squadra di football del cuore, i Toronto Argonauts, insieme, tra gli altri, al campione canadese Wayne Gretzky. Girava spot esilaranti. Ne girò uno persino a Roma, fingendo di avere comprato un abbonamento per le partite… nel Colosseo.
Il palcoscenico, però, era la sua vera arena. Studente alla McMaster University, entra presto nella compa-
gnia The Second City di Toronto, fucina di talenti che aveva già sfornato, tra USA e Canada, geni come Belushi, Aykroyd e Murray. Candy ne diventa l’anima più amata, il gigante gentile sempre elegante, disponibile, generoso. Eppure, già allora, dietro quella figura gioviale, si nascondevano le prime crepe: la tendenza a esagerare con cibo, alcol e sigarette, e una malinconia profonda che riaffiorava nei momenti di solitudine.
Con Second City Television nasce la sua popolarità televisiva, grazie a
personaggi come l’arrogante Johnny LaRue e il codardo Yellowbelly. Poi arrivano Hollywood e la consacrazione. Nei tardi anni Settanta e nei primi Ottanta lo vediamo al fianco di vecchi amici: in 1941 – Allarme a Hollywood di Spielberg, in The Blues Brothers di John Landis, in Stripes –Un plotone di svitati con Bill Murray. In ognuno di quei ruoli, Candy non passa mai inosservato: anche quando appare per pochi minuti, lo spettatore finisce sempre per ricordarsi di lui. La stessa cosa accade con la com-
parsata ne La piccola bottega degli orrori con il fido Rick Moranis o con la sua piccola ma cruciale parte del «canuomo» in Balle Spaziali, in cui recita nella parte del «miglior amico di sé stesso». Ma si distingue anche quando fa da spalla, come con Tom Hanks (Splash – Una sirena a Manhattan) e Richard Pryor (Chi più spende più guadagna). Nel 1987 arriva la svolta con Un biglietto in due (Planes, Trains and Automobiles), al fianco di Steve Martin. Il film di John Hughes, oggi considera-
Contemplando la fioritura di Capo Verde
to un classico del road movie, è la sintesi perfetta del talento di Candy: capace di far ridere e commuovere nello stesso respiro. Il critico Roger Ebert lo definì «un film in cui i due attori non interpretano personaggi, ma loro stessi». John Hughes sarà il regista che lo sfrutterà al meglio, in particolare nel successivo Io e zio Buck – che finalmente gli regalerà un ruolo da protagonista, occasione che sfrutterà superbamente – e Mamma ho perso l’aereo, dove Candy lascia il segno nuovamente ritagliandosi pochi ma incredibili minuti.
Tuttavia, se da una parte i ruoli lo rendono popolare, dall’altra l’industria continua a non offrirgli la piena consacrazione che merita. Alterna capolavori a commediole dimenticabili, successi a delusioni. Troppo buono per Hollywood, troppo umano per un sistema che non perdona debolezze. E il suo corpo comincia a tradirlo: attacchi di panico, obesità, tabacco, un cuore stanco di portare tanto peso. La parabola di Candy si chiude con un tocco nero. Poco prima di morire, aveva accettato di interpretare il protagonista de L’incomparabile Atuk, un film mai realizzato e considerato «maledetto»: prima di lui, anche John Belushi e Sam Kinison erano morti dopo aver letto la sceneggiatura; dopo di lui, toccò a Chris Farley. Un copione che nessuno oserà più girare. John Candy se ne va così, nel sonno, senza scandali né eccessi. Solo, in una stanza d’albergo, lontano dal rumore di Hollywood. Aveva vissuto una vita di risate e di dolcezza, e la sua morte lasciò un vuoto che ancora oggi il cinema non ha colmato. Il suo sorriso resta quello di un uomo che portava il mondo sulle spalle ma sapeva farlo sembrare leggero. Perché John Candy, in fondo, non faceva ridere sul dolore – faceva ridere nonostante il dolore.
Cinema ◆ In Hanami, la regista Denise Fernandes racconta l’isola di Fogo come un luogo di radici e assenze, sospeso tra mito e memoria
Nicola Mazzi
Forse il merito principale di Hanami è quello di portarci in un luogo che il cinema ha esplorato poco: Capo Verde. La regista Denise Fernandes, nata a Lisbona da genitori capoverdiani, cresciuta a Locarno e oggi residente a Lisbona, ambienta il suo primo lungometraggio su una delle dieci isole dell’arcipelago, Fogo, dominata da un vulcano attivo.
È proprio l’isola a imporsi come uno dei protagonisti silenziosi del film. Grazie a una fotografia molto interessante, dai colori vivi ma anche cupi e taglienti, il paesaggio diventa presenza costante e quasi spirituale, un corpo vivo che osserva i personaggi. Colori ancestrali, diremmo, che fanno di Fogo un luogo sospeso tra il reale e il mitico. La stessa Fernandes ha raccontato di come, da bambina, notasse l’assenza di Capo Verde dalle carte geografiche e dai mappamondi, e di come il suo cinema sia nato dal desiderio di «rendere visibile un paese che sembrava non esistere fuori dalle mura di casa mia».
La vicenda ruota intorno a Nana, una ragazza che sceglie di restare
quando tutti intorno a lei desiderano partire. La madre Nia è emigrata in Ticino poco dopo la nascita della figlia, lasciandola crescere con la famiglia del padre. Il legame di Nana con la terra e la comunità dell’isola diventa sempre più profondo, fino al giorno in cui Nia ritorna e deve affrontare le conseguenze del lungo esilio. Premiato al Locarno Film Festival 2024 per la miglior regia emergente nella sezione Cineasti del presente, e
con una menzione per la miglior opera prima, Hanami è un film dal ritmo lento, che cerca deliberatamente di farci entrare nel tempo sospeso delle isole atlantiche. La voce off che racconta la storia di Nana alterna momenti di riflessione a parentesi più leggere, come il ballo o la musica, restituendo il respiro quotidiano della vita su Fogo. È un film che procede per immagini e sensazioni più che per snodi narrativi, e questo è al tem-
po stesso il suo fascino ma anche il suo limite.
Oltre alla fotografia e alla forza dell’ambientazione, infatti, non resta molto altro. Manca un arco narrativo capace di coinvolgere fino in fondo lo spettatore, una tensione che dia profondità emotiva al conflitto tra madre e figlia. È un difetto comune a molti esordi, e in questo caso si percepisce come il riflesso di una regista più interessata a osservare che a raccontare,
Un’immagine tratta dal film Hanani (Alina film)
più attenta alla potenza visiva del paesaggio che all’intensità drammatica della vicenda.
Il titolo, Hanami – parola giapponese che indica la contemplazione dei fiori di ciliegio – aggiunge un tocco poetico e simbolico. In un arcipelago soggetto alla siccità, la fioritura diventa immagine del desiderio e del sogno, di ciò che esiste solo per un attimo e poi scompare.
In definitiva, Hanami è un esordio imperfetto ma abbastanza promettente. Fernandes mostra una mano sicura nel dirigere un cast di non professionisti e un talento visivo già maturo, ma il film resta soprattutto un’esperienza contemplativa, un tentativo di dare forma cinematografica al senso di appartenenza e di sradicamento. Hanami sarà presentato in anteprima, alla presenza della regista, lunedì 24 novembre alle 20.30 al Cinema Lumen di Locarno (prevendite sul sito: lumenlocarno.ch). L’uscita ufficiale nelle sale è invece prevista dal 27 novembre, con proiezioni ad Airolo, al Lumen di Locarno e al Cinema Iride.
John Candy nel ritratto di Leonardo Rodriguez. (L.R.)
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I mille volti di Stephen King
Letteratura filmica ◆ Il 2025 è stato un anno notevole per gli adattamenti cinematografici e televisivi delle opere del noto scrittore americano
Max
Borg
Nella postfazione di Stagioni diverse, raccolta di quattro novelle pubblicata nel 1982, Stephen King racconta di come, dopo il primo successo commerciale con Carrie nel 1974, il suo agente lo avesse messo in guardia circa il rischio di diventare etichettato come autore horror, cosa che effettivamente accadde per via dei successivi Le notti di Salem e Shining. Ironia della sorte, proprio per Stagioni diverse, che evita quasi del tutto il genere, King dovette rassicurare l’agente e l’editore dicendo che una delle quattro novelle, Il metodo di respirazione, era effettivamente una storia dell’orrore (ed è, ad oggi, l’unica delle quattro a non essere stata adattata per il cinema). Celeberrimo anche l’aneddoto della signora anziana che una volta lo rimproverò al supermercato e affermò di preferire storie più ottimiste come quella del film Le ali della libertà (quando King le rispose che era trat to da uno dei suoi testi, lei si rifiutò di credergli).
Dal Maine a Hollywood, quattro nuove trasposizioni filmiche confermano l’instancabile vitalità dell’universo kinghiano, sospeso fra orrore, empatia e critica sociale
In effetti è difficile non cedere alla tentazione di bollare lo scrittore ori ginario del Maine come «semplice» creatore di racconti del brivido, un pregiudizio che ha anche compor tato delle reazioni ostili quando ha vinto dei premi letterari importan ti (in una di quelle occasioni lo di fese il critico cinematografico Roger Ebert, sottolineando la qualità del la prosa di King e quanto fosse evi dente la sua conoscenza delle tecni che di scrittura sulla base del saggio
On Writing: Autobiografia di un me stiere, manuale pratico misto a me morie personali). E va detto che lui stesso alimenta lo stereotipo, in parte con l’aiuto del figlio Joseph che, con lo pseudonimo Joe Hill, segue da an ni con successo le orme paterne (è da poco uscito al cinema Black Phone 2 seguito dell’adattamento di uno dei suoi racconti). Eppure, il suo è un percorso artistico molto variegato, e a dimostrarlo quest’anno ci ha pen sato soprattutto il grande schermo, con ben quattro lungometraggi ba sati su vari scritti di King (di cui due libri inizialmente usciti con la firma di Richard Bachman, perché all’epo ca non era normale che uscisse più di un testo all’anno dello stesso autore). Ad aprire le danze, all’inizio dell’anno, è stato The Monkey, tratto da uno dei racconti più iconici del lo scrittore, solitamente usato come illustrazione di copertina per la rac colta in cui è pubblicato (Scheletri È la storia di una scimmia giocat tolo il cui meccanismo, se attivato, funge sempre da presagio macabro: se si mette a suonare il suo strumen to musicale, qualcuno nelle vicinan ze morirà nel giro di pochi secondi, spesso in modo violento e/o assur do. Nella versione cinematografica è ulteriormente accentuata la com ponente legata allo humour nero, un po’ come nel franchise di Final De stination, e questo per esplicito vo lere del regista Osgood Perkins, la cui visione del cinema è dettata in non piccola parte dalla morte dei ge
un futuro dove il programma televisivo più seguito è un reality, in cui i concorrenti devono rimanere in vita per trenta giorni – vincendo così un montepremi di un miliardo di dollari – mentre vengono braccati da killer professionisti. Se la premessa suona familiare, è perché il romanzo in questione, anch’esso inizialmente attribuito a Bachman, è già stato adattato (molto) liberamente nel 1987, con Arnold Schwarzenegger nel ruolo che quarant’anni dopo è stato assegnato a Glen Powell, nel tentativo di essere più fedeli alla fonte letteraria (ma con il solito estro stilistico di Edgar Wright, regista di opere cult come L’alba dei morti dementi e Baby Driver).
Quattro progetti molto diversi tra loro, come le quattro stagioni del libro del 1982, ma tutti accomunati dalla fedeltà all’essenza dell’opera di King: il gusto del raccontare in
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L’ultimo Fiume
Spettacoli ◆ Un nuovo progetto musicale sperimentale
Olmo Cerri
curato da Fabio e Leo Pusterla
Il colpo d’occhio è impressionante. Un palco che sembra galleggiare come una zattera sul fiume Cassarate. I passanti si fermano stupiti, si affacciano ai parapetti del ponte; perfino le auto rallentano, catturate da quella che pare un’allucinazione collettiva. Su quel palco effimero, destinato a durare solo una notte, Leo e Fabio Pusterla hanno presentato in anteprima il loro ultimo progetto: L’ultimo fiume. La struttura, costruita da un gruppo di studenti dell’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana, sotto la supervisione dell’architetto Martino Pedrozzi, collega simbolicamente due quartieri. Un gesto architettonico, ma anche politico: nella città che ambisce a diventare «capitale della cultura», è davvero necessario costruire un palco sul fiume per dare spazio alla cultura indipendente?
L’ultimo fiume è un progetto audio che si muove tra musica e narrazione, ma è anche un dialogo tra padre e figlio
L’ultimo fiume è un dialogo inedito tra suono e verso, ma anche, e forse soprattutto, tra padre e figlio. Un flusso sonoro che scorre tra i versi tratti dal recente Fiumi Nefrite Vortici (Marcos y Marcos, 2025) di Fabio Pusterla e le sonorità fluide, sperimentali, del figlio Leo. Un progetto audio che si muove sul confine tra musica e narrazione, con l’obiettivo dichiarato di creare un’esperienza immersiva: un viaggio tra suono e parola, dove il testo poetico si intreccia al paesaggio musicale in un gioco alchemico di tensioni, distensioni, rumori e silenzi. «Per me è soprattutto un fiume metaforico, che parla dell’esistenza», racconta Leo Pusterla mentre beviamo un caffè al bar Dante, affacciato sul traffico di Piazza Molino Nuovo, a pochi passi da Safe Port, lo studio casalingo dove il progetto è stato registrato, mixato e masterizzato. Alla domanda su cosa racconti il lavoro, Leo risponde: «È l’ultimo fiume di mia nonna, la madre di mio padre, che è ormai molto anziana. Ci mette dentro una linea del tempo familiare, generazionale, e mi interroga sul senso della vita». Ma L’ultimo fiume è anche una suggestione letteraria: rimanda al Volga di Stalingrado di Vasilij Grossman, fiume carico di significati simbolici che ha ispirato il poeta, tra-
duttore e critico letterario Fabio Pusterla, nella scrittura dei suoi versi. Lavorare con il proprio padre, ammette Leo, non è stato semplice: «Non ne sarei stato capace cinque o sei anni fa. Ma ora mi sento più maturo e più sicuro della mia pratica musicale, e posso confrontarmi con serenità anche con lui». L’idea del progetto è nata durante la pandemia: «Lui leggeva, io improvvisavo. Mi ha impressionato quanto la sua voce fosse musicale. Da lì è nata la voglia di creare qualcosa di più strutturato, un vero e proprio concept album: un unico brano che evolve, come un fiume che dalle montagne scende verso il mare». Alle poesie registrate si è poi sovrapposta la trama sonora costruita da Leo, arricchita dagli interventi di altri musicisti: il pianista Andrea Manzoni, il chitarrista Fabio Pinto, la cantante jazz Eleonora Gioveni, il flautista Cristian Gilardi e il violoncellista Zeno Gabaglio.
L’ultimo fiume è un oggetto difficile da definire. «Abbiamo anche pensato di presentarlo come podcast», spiega Leo, «ma gli algoritmi delle piattaforme non avrebbero premiato file così lunghi. Alla fine abbiamo scelto il vinile, che abbiamo presentato il 31 ottobre al Teatro Sociale di Bellinzona». Una versione sarà disponibile anche in streaming, divisa in «parti lunghe» da circa cinque minuti. «Non ci aspettiamo grandi numeri online. Il nostro pubblico è altrove. Inizieremo un tour nelle librerie, da Roma a Bedigliora, passando per Pavia, Milano e Torino, per portare la musica in luoghi dove di solito non entra. Per questo useremo un dispositivo leggero, dando grande centralità al testo». Durante le performance, infatti, Leo e Fabio si esibiscono da soli: «È un incrocio tra un dj set e un concerto. Usiamo un sintetizzatore e un MPC, il campionatore dei producer hip-hop anni ’90, con cui faccio partire le basi registrate e le modifico live. Ogni volta è una performance diversa»
Come dire che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume: nessuna esecuzione è uguale a un’altra, tutto scorre, tutto cambia. «Ci piace l’idea di portare la poesia in ambienti e davanti a pubblici poco abituati a questo tipo di linguaggio», conclude Leo sorridendo. «L’altra sera, sul Cassarate, è stato bellissimo vedere ragazzi e ragazze di Lugano ascoltare mio padre leggere poesie, una birra in mano, appoggiati al muretto. Non è una scena che si vede spesso».
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Una «All Stars» tutta ticinese
Musica ◆ Nasce la «Lugano Jazz Orchestra»: ne abbiamo parlato con il batterista Giacomo Reggiani
Alessandro Zanoli
Avevamo recensito su queste pagine, lo scorso anno, il sorprendente concerto tenuto all’ex Studio Radio di Besso (fa un po’ effetto dire così…) dalla Nuova Orchestra Radiosa. Si trattava di un’iniziativa molto interessante, promossa dalla RSI per ricordare quella storica formazione musicale «d’epoca». Nello stilare il resoconto della serata, ci eravamo stupiti dalla formidabile qualità musicale degli orchestrali scelti. Si trattava di un manipolo dei nostri migliori giovani jazzisti, «promesse mantenute», potremmo dire, del nostro ecosistema musicale. Giovani che avevamo visto crescere sui palchi dei concerti e delle jam session, partiti per studiare nelle più importanti scuole svizzere, e tornati come professionisti di tutto rispetto. L’impressione che avevamo riportato dall’esibizione era che quel gruppo di musicisti, «costretto» in quel repertorio di intrattenimento mainstream, avesse potuto esprimere solo limitatamente le proprie doti. Ci chiedevamo con interesse cosa avrebbero potuto suonare, invece, se le loro capacità fossero state messe pienamente a frutto e lasciate libere di esprimersi.
A distanza di quasi un anno, ecco che quell’idea trova modo di concretizzarsi, grazie al batterista luganese Giacomo Reggiani, e ad altri colleghi, usciti come lui dalle fila della Scuola di Musica Moderna di Lugano. Ma cominciamo da Reggiani: si-
curamente uno dei batteristi più versatili in attività nel nostro cantone, viene da un curriculum formativo completo, portato a termine alla Scuola di jazz di Losanna e ha militato in varie formazioni a livello nazionale e internazionale. Ha collaborato con praticamente tutti i colleghi e compagni di SMUM, come i fratelli Quinn, Oliver Illi, Roberto Pianca, ma ha acquisito anche esperienza in ambito pop, collaborando con Andrea Bignasca, in particolare in vari concerti all’estero e nella realizzazione del suo album Murder del 2018.
Oggi, diventato docente di musica, raggiunta una situazione di relativo equilibrio economico (cosa non molto facile per i jazzmen) ha deciso di investire le proprie energie in un progetto encomiabile e coraggioso: raccogliere attorno a sé i bravi colleghi conosciuti nelle file della Nuova Radiosa e mettere in piedi un’autentica Big Band, un’orchestra jazz di «quelle vere».
«Ho cominciato a pensarci seriamente un paio d’anni fa. Mi chiedevo se non fosse possibile creare uno spazio musicale in cui far confluire i progetti e le energie di molti musicisti che conoscevo. Parlandone con il trombettista Nolan Quinn ho scoperto che anche lui aveva in mente qualcosa del genere. E quindi pian piano abbiamo iniziato a mettere in moto le idee. Certamente l’esperienza fatta con la Radiosa è servita a capire che ce
la si poteva fare. Il sogno di mettere in piedi una big band si poteva realizzare, e pensando come metterla in piedi ho coinvolto da subito Nolan, Simon, fratello di Nolan e il pianista Oliver Illi». Nel disegno dei due musicisti era proprio inscritta fin dall’inizio l’idea che l’orchestra dovesse servire a concretizzare dei progetti di respiro, magari ambizioso, da poter presentare a un pubblico ampio. «Un altro punto fermo del progetto era che segnasse chiaramente il suo radicamento luganese… E dopo numerosi tentativi siamo arrivati a “Lugano Jazz Orchestra” perché volevamo proprio segnare la sua appartenenza territoriale. Un’or-
chestra che fosse diversa dalle altre big band proprio per questa sua identità che è anche un omaggio alla tradizione jazz che Lugano si porta dietro da tempo. Sarebbe bellissimo, anche se sappiamo che sarà difficile, farla diventare un ensemble sostenuto dalle istituzioni. Sembra un’esagerazione ma in realtà ogni capitale svizzera ed europea ha la propria orchestra di musica moderna, ed è in tempi come questi che bisognerebbe sostenere iniziative che riportano umanità nella nostra società».
Da questo punto di vista il progetto della Lugano Jazz Orchestra è sicuramente ambizioso ma comunque
affascinante, e proprio per questo va capito se può realmente radicarsi nel nostro ecosistema jazzistico. «Mah –spiega Reggiani – io vedo che il nostro cantone ha nel jazz un patrimonio di musicisti molto ricco ma anche molto frammentato. Ognuno porta avanti i propri progetti in modo autonomo. Un altro dei nostri obiettivi in effetti è che la Lugano Jazz Orchestra possa fungere un po’ da rete, possa fare uscire i vari artisti fuori dai propri orticelli. Lo scopo nel lungo periodo è di andare a rinsaldare un vero e proprio polo culturale per le musiche moderne che vedrebbe operare i nostri musicisti per creare un’alternativa a livello regionale. Bisognerebbe creare anche da noi la possibilità concreta di ascoltare musica diversa, più umana e suonata dal vivo».
Le idee di Reggiani e dei suoi compagni si vanno lentamente consolidando attorno ad alcuni punti fermi: «Il concetto di base sarebbe quello di creare un laboratorio di composizione. Ospitare musicisti affermati a cui affidare i repertori. Vorremmo dimostrare che una Big band non deve necessariamente suonare solo swing». Grazie alla proposta di Jazz in Bess, l’organico della Lugano Jazz Band ha potuto dare nei giorni scorsi un primo assaggio delle sue ambizioni. Speriamo veramente che l’esperimento continui e che dia i suoi frutti. I presupposti sono ottimi.
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Un Avvento in miniatura spolverato di neve
Consigli utili per realizzare un calendario come fosse un paesaggio di carta composto da tante pigne quanti sono i giorni che mancano al Natale
Il secolo breve dei motel americani
Dal Milestone Mo-Tel del 1925 alle ristrutturazioni di oggi: ascesa, declino e rinascita di un’idea di viaggio che ha cambiato per sempre il paesaggio statunitense
Le sabbie del tempo nel deserto dell’Uzbekistan
Reportage ◆ Dal preoccupante spettacolo del Lago d’Aral alle rovine dell’Anello d’Oro dell’antica Corasmia, un viaggio oltre Khiva nella terra del Karakalpakstan
«Kizilkum», «sabbie rosse»: dal deserto che attraversa parte di Uzbekistan, Kazakistan e Turkmenistan ci si aspetterebbe una distesa monocolore. Invece la strada che parte da Khiva, uno degli ultimi avamposti uzbeki, rivela ai lati tracce di verde nemmeno troppo rare. Piantagioni di cotone, spiega il tassista: un’industria iniziata dai sovietici, che hanno convogliato l’acqua dei fiumi Amu Darya e Syr Darya in (malfatti) canali per dare vita a un nuovo, fiorente commercio.
Il Karakalpakstan, terra solitaria e sospesa, serba le tracce di vecchie rivolte e rivendicazioni di indipendenza
Avanziamo spediti dal centro della cittadella medievale inoltrandoci verso Nord. Sorpassiamo mandrie di Chevrolet bianche, l’unico marchio che si vede nel Paese a causa dei bas-
si costi di produzione e di rivendita; una rapida sosta pranzo per mangiare la carne che cuoce in un pentolone all’aperto in un parcheggio, osservando gli enormi stinchi che i camerieri servono ai tavoli, e in breve ci ritroviamo nello Stato del Karakalpakstan. Lo annuncia, a caratteri cubitali di colore verde, una struttura di ferro sotto cui passare in macchina.
Il Karakalpakstan è una delle zone più remote e povere dell’Uzbekistan, una repubblica autonoma che ha alle spalle una serie di difficili vicissitudini, di rivolte e di manifestazioni per ottenere l’indipendenza. Qui, il cotone inizia a lasciare il posto a sporadici frutteti, le basse piante che in autunno si rivestono di morbidi batuffoli sono sostituite da cespugli e arbusti che punteggiano il deserto. Questa regione non richiama molti turisti: lo si capisce subito dai negozi sabbiosi da cui non esce nessuno, da quel singolo, solitario frigorifero polveroso che staziona all’esterno di un supermercato, attirando gli invi-
sibili clienti con la promessa di una Coca-Cola gelata, dalle poche persone che camminano sul bordo della strada, dai chilometri percorsi guardando scorrere dal finestrino un paesaggio ripetitivo. Un territorio non di confine ma che sembra già non più uzbeko, con una lingua, il karakalpako, che è infatti più simile a quella del vicino Kazakistan.
Si potrebbe pensare che non abbia senso venire qui, oltrepassare quel portale, quel casello poco controllato. E infatti sono molti i turisti per i quali non vale la pena spingersi fino alle Colonne d’Ercole dell’Asia Centrale. Eppure, gli altri, quelli che vogliono esplorare un angolo fuori dagli itinerari più battuti, possono scegliere tra ben tre motivi per cui intraprendere questo viaggio.
Il Louvre dell’Uzbekistan
Il primo è visitare nel centro urbano di Nukus una roccaforte creativa, un inaspettato baluardo che si erge per difendere l’arte dalle sabbie del deserto: il museo creato da Igor Savitsky. Artista ed etnografo russo, si propose di salvare le opere avanguardiste dei suoi connazionali che il regime stava mettendo al bando, distruggendo o bruciando. Sotto il comunismo, qualsiasi espressione che uscisse dal tracciato e deviasse dal rigore non era permessa; scultura, religione, letteratura, ogni branca della cultura doveva essere uniforme, coesa, non c’era spazio per la fantasia e l’espressione personale. A metà tra uno 007 e un paladino dell’arte, Savitsky dal 1960 nascose ol-
Dalla roccaforte
di Aayaz Qala sul deserto rovente e inospitale si vede una strada solitaria che attraversa
(nonché
Clara Valenzani, testo e foto
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tre 90mila tele raccolte dagli autori o dalle loro famiglie – talvolta non consapevoli di avere un quadro di pregio in soffitta – fondando quello che oggi viene chiamato «il Louvre dell’Uzbekistan» in questo luogo sperduto.
Prima che l’Aral scompaia
Il secondo motivo è una lotta contro il tempo nata dal desiderio di vedere ciò che già è svanito, ciò che sta svanendo e ciò che rimane: il Lago d’Aral, triste protagonista di una delle più grandi catastrofi ecologiche di sempre. Condiviso tra Uzbekistan e Kazakistan, il lago era un bacino pescoso, che dava lavoro a molti cittadini e aveva permesso a Moynaq, un villaggio sulle sue sponde, di diventare un centro di commercio. Ma l’acqua sottratta agli affluenti e dirottata nelle piantagioni di cotone ha privato l’Aral della sua linfa vitale, rendendolo viandante in un Sahara senza oasi. Il raddoppio del disastro ambientale è poi arrivato dalla nuova monocultura che ha prosciugato il terreno e portato allo sfruttamento della manodopera, mentre i pesticidi utilizzati per far crescere le piante, sospinti dal vento, vagano liberi generando tumori e malattie degli occhi; allo stesso tempo, a poco a poco l’Aral è andato rattrappendosi, restringendosi.
L’Aral inaridito si ritira lentamente, lasciando navi arrugginite incagliate su una terra ormai sterile, color ocra, bianco e grigio
Il sale residuo rende la terra ancora più sterile, la fauna si è drasticamente ridotta; le navi sono rimaste in secca, stazionando immobili su una superficie senza onde, arrugginite, con gli scafi in vista che sembrano lische di pesci preistorici. Oggi, la dimensione del lago è meno del 90% di quella originaria, con acque che si ritirano di circa 200 metri l’anno, e si sono formati due bacini distinti: il Grande Aral e il Piccolo Aral, che il Kazakistan sta cercando di preservare, con buoni risultati, grazie alla costruzione di una diga.
L’altopiano tutto intorno, l’Ustyurt Plateau, è una distesa di meravigliosa desolazione: dalla terra arida sorgono enormi, antichi blocchi di roccia le cui forme ricordano cubi, pinnacoli o yurte, le tipiche tende degli abitanti delle steppe. Il suolo du-
ro è venato di bianco, ocra, marroni nelle più disparate tonalità. Andando verso il Caspio kazako l’altopiano si fonde con il deserto del Mangistau, la notte il vento soffia così forte che si teme le tende possano volare via, e il cielo si illumina di lampi, animando questo strano deserto, che minaccia pioggia su terre incolte e si tinge di verde tra le rocce.
L’Anello d’Oro dell’Antica Corasmia
L’ultima, finale attrattiva, è quella delle roccaforti: Elliq-Qala («Cinquanta fortezze»), le rovine di una decina di palazzi ed edifici risalenti anche a 2000 anni or sono che sporgono, sgretolate, come rose del deserto, nella zona sud del Karakalpakstan.
Secondo gli studiosi, queste solitarie sentinelle un tempo proteggevano il confine tra la regione del delta dei fiumi, coltivata, e i territori dei noma-
di, per contrastarne le incursioni e le razzie. Tutta la zona è stata ribattezzata «Anello d’Oro dell’Antica Corasmia», così come veniva chiamato il regno che includeva le circa venti qala scoperte fino ad oggi (ma ce ne sono sicuramente di più).
Sotto il sole del primo pomeriggio l’esplorazione parte da Toprak Qala, un insediamento su una piccola collina di cui rimangono basse mura e pareti, un complesso di templi eretto per volere dei sovrani di Corasmia. La disposizione delle stanze sembra un labi-
rinto, poco più oltre la vista spazia tra sabbie, bassi arbusti e catene montuose all’orizzonte. La calura è quasi insopportabile, anche la breve salita diventa un pellegrinaggio sacro; alcuni turisti si proteggono il collo dal sole implacabile con un fazzoletto bianco di stoffa. Più imponente e a poca distanza, raggiungibile con un rapido tragitto in macchina che fa sospirare di piacere grazie all’aria condizionata, la Kyzyl Qala presenta le mura sopra un’alta base da cui spuntano paletti e bastoni; ci si aggira un po’ spaesati curiosando all’interno della cinta e domandandosi cosa potrebbe essere successo millenni fa sul suolo che si sta calpestando. La qala più imponente e meglio conservata è quella chiamata Ayaz. Percorriamo una strada senza traccia di altre forme di vita. Poco prima di arrivare si intravedono dei cammelli e un paio di yurte in cui è possibile pernottare. Per raggiungere la fortezza ci si inerpica su una collina occupata interamente da alte mura di mattoni crudi color ocra, punteggiata da buchi e finestrelle, i contorni si stagliano irregolari contro il cielo rovente. Una volta in cima si può scendere da uno dei versanti e continuare l’esplorazione verso le colline vicine che ospitano altri forti, per ammirare il paesaggio sgombro dall’alto. Lo sguardo spazia sotto gli occhi schermati da una mano, mentre il sole infierisce e il caldo non accenna a diminuire; qui ci si sente trascinati in un universo lontano.
Oltre le solitarie bicocche
Ai margini del deserto del Kizilkum che si è tramutato nel deserto dei Tartari, vi ritroverete come soldati a guardia di un confine ignoto ai più, a difendere un regno di nessuno da un nemico di buzzatiana memoria che non arriva mai: «Immerso ancora nel sole rosso del tramonto, come uscito da un incantesimo, Giovanni Drogo vide allora un nudo colle e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale colore giallastro: il profilo della Fortezza. Drogo la fissava affascinato, si domandava che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo». E allora, come Drogo, viene anche a noi di domandarci quali segreti nascondano ancora quelle sabbie senza fine.
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Ventiquattro montagne di carta
Crea con noi ◆ Un calendario dell’Avvento che si fa paesaggio con sacchetti innevati, funicolari rosse e luci che accendono l’inverno
Giovanna Grimaldi Leoni
Per affrontare il periodo che precede il Natale, un tempo di attesa e preparazione, ci viene in aiuto la tradizione del calendario dell’Avvento, che nasce proprio per rendere speciale ogni giorno di questa attesa, con una piccola sorpresa quotidiana. In questo progetto realizzeremo un calendario dell’Avvento a forma di paesaggio di montagna, utilizzando materiali semplici. Ogni sacchetto di carta rappresenta una montagna
innevata che nasconde un piccolo dono, un’attività o un messaggio. Il risultato finale è un vero e proprio paesaggio in miniatura, arricchito da rami di pino, pigne e una ghirlanda luminosa per aggiungere magia.
Procedimento
Prendete i sacchetti di carta kraft e piegate la parte superiore a triangolo, in modo da ottenere nella parte
Giochi e passatempi
Cruciverba
Sai dove vive la lucertola azzurra?
Troverai la risposta leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.
(Frase: 4, 3, 10, 2, 5)
alta la forma che ricorda la cima di una montagna. Con una matita bianca, tracciate il contorno della parte che volete dipingere di bianco (la cima innevata). Con un pennello piatto, applicate il colore acrilico bianco, poi tamponate con una spugnetta per ottenere un effetto irregolare, simile alla neve. Lasciate asciugare completamente. Inserite all’interno di ogni sacchetto un piccolo dono, dolcetto, biglietto o messaggio. Chiudete la parte piegata con un pezzetto di nastro adesivo. Stampate il cartamodello per la funicolare e riportate il disegno sul cartoncino rosso. Ritagliate con il taglierino, piegate e incollate le cabine. Inserite sul tetto un cappio creato con lo spago.
Ritagliate piccole bandierine rosse dal cartoncino e scrivete o incollate i numeri da 1 a 24.
Fissatele agli stuzzicadenti ripiegando leggermente il lato corto della bandierina e incollandola intorno allo stuzzichino.
Dipingete su un foglio A3 il fondale. Su una base blu spruzzate o disegnate, con un pennello fine o uno stuzzichino, le stelle. Per un effetto più acceso potete utilizzare acrilici uv o luminescenti.
Procuratevi una scatola di circa 35x45 cm. Potete utilizzare una scatola con il coperchio attaccato, in modo che, una volta aperta, la
ORIZZONTALI
1. Falso e infido
7. Audace
8. Il cardinale del mezzogiorno
9. Il casato di un San Filippo
11. Pronome personale
12. Impegna lo skipper
14. Preposizione articolata
15. Grossa scimmia
20. Lo spagnolo...
22. Due di voi
24. S egmenti di una molecola di DNA o RNA
25. Abitazioni
28. Se ci capovolgete...
29. Nome femminile
30. Un nipote di Topolino
32. Pronome
34. Un eroe mascherato
35. Sdegnato
VERTICALI
1. Suo a Parigi
2. L’utente di un software
3 Personaggio mitologico greco che rappresenta il vento del Nord
4. Bocca in latino
5. Causa cordoglio
6. Non poter vedere qualcuno...
10. lo costruiscono gli Inuit
13. Rapper italiano
16. Dei della mitologia germanica
17. Una parte del dito
18. L e iniziali della cantante Nannini
19. In botanica è noto come mal bianco
21 S epara la laguna dall’alto mare
23. Un anagramma di tori
26. Anche il Morto è agitato
27. Le iniziali dell’imitatrice Aureli
31. È noto quello greco
33. L e iniziali del 33esimo Presidente USA
parte verticale del coperchio funga da sfondo del paesaggio, diventando la base per il cielo della vostra scenografia.
Se non avete una scatola di questo tipo, potete usare la base di una scatola normale inserendo sul retro un rettangolo di cartone rigido per creare lo sfondo.
Disponete i sacchetti all’interno della scatola: i più grandi nella parte posteriore, i più piccoli davanti. Alternate le misure e i toni per rendere il vostro paesaggio più dinamico.
Potete anche prevedere un numero minore di montagne e inserire nella scatola piccoli pacchetti regalo numerati per i giorni mancanti.
Mettete le bandierine sulla cima delle montagne, fissandole, se necessario, con un pezzetto di nastro adesivo. Con lo spago, tirate due linee diagonali sopra le montagne e appendete le funicolari con un piccolo nodo o un gancetto. Potete decorarle con numeri o piccoli disegni. Inserite i rametti di pino e alcune pigne per aggiungere un tocco naturale. Potete anche aggiungere una leggera spolverata di neve finta o glitter per un effetto più luminoso. Infine aggiungete una piccola ghirlanda di lucine led per ottenere un effetto magico nelle ore serali.
• 1 scatola di cartone riciclata (indicativamente 35x45 cm)
• Sacchetti di carta kraft di due dimensioni diverse
• Matita colorata bianca
• Colore acrilico bianco, pennello piatto
• Spugnetta da cucina o da trucco per creare effetto neve
• C artoncino rosso A4
• C artoncino bianco o blu A3
• Stuzzicadenti
• Taglierino, forbice e righello
• Bastoncino di colla
• Filo di cotone bianco o spago
• Rami di pino e pigne naturali per decorare
• Ghirlanda luminosa a led (a batteria)
• Pennarello bianco o numeri stampati per le etichette dei giorni
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage)
Soluzione della settimana precedente PICCOLE CURIOSITÀ – Quanta pelle perdiamo nel corso della nostra vita? Risposta risultante: CIRCA VENTI CHILOGRAMMI
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Viaggiatori d’Occidente
Una luce nella notte
È tempo di anniversari turistici. In Inghilterra si celebrano con grande rilievo i duecento anni dall’inaugurazione della prima linea ferroviaria pubblica, tra Stockton e Darlington. Pochi invece hanno ricordato i cento anni dall’apertura del primo motel, contrazione di Motor Hotel, ovvero un albergo progettato appositamente per gli automobilisti. Era il 12 dicembre 1925 quando due architetti, i fratelli Arthur e Alfred Heineman, inaugurarono il Milestone Mo-Tel di San Luis Obispo, a metà strada tra San Francisco e Los Angeles. Se la ferrovia nell’Ottocento aveva aperto la via del Far West, nel periodo tra le due guerre l’industria automobilistica americana, con Ford in testa, era uscita dalla sua fase sperimentale, promettendo una vettura a ogni famiglia americana. Una sempre più fitta rete di strade cominciò
allora ad affiancare i binari del treno, tra queste la leggendaria Route 66, da Chicago a Santa Monica. Seguirono i distributori di benzina ritratti da Edward Hopper (Gas, 1940) e appunto i motel, semplici edifici dove i guidatori potevano parcheggiare proprio davanti alla propria camera, scrollarsi di dosso la polvere e riposare, senza lunghe deviazioni dal percorso. «Lasceremo la luce accesa per te», era lo slogan efficace di uno di questi alberghi di transito. Da quel momento i motel hanno raccontato sempre nuove pagine della storia americana: il turismo nei grandi parchi nazionali, così come i viaggi della speranza in cerca di lavoro e di futuro durante la Grande depressione degli anni Trenta. I pochi viaggiatori afroamericani utilizzavano motel a loro riservati, segnalati dalla celebre Guida verde, anche ben oltre il 1964
Cammino per Milano
Il
ponte della Ghisolfa
Di corsa, per forza, in un attimo di tregua di traffico, attraverso la strada a doppia corsia quando dopo piazzale Lugano compie un curvone, prima del ponte. Ponte ferroviario da sempre per me legato solo al titolo di un libro di Testori che non ero mai riuscito a finire, se non l’altra notte. Oltrepassato soltanto sulla circolare novantuno strapiena, è percorribile a piedi solo da questo versante, mi sono accorto all’ultimo. Devo trovare l’inquadratura fugace di Rocco e i suoi fratelli (1960), film di Visconti ispirato un po’ dalle storie e i personaggi di Giovanni Testori: Il ponte della Ghisolfa (1958). Intanto, camminando nell’inospitale rivitalizzante, tra rombi di moto, flora non grata, cartacce e cos’altro, con lo sguardo trovo un nespolo giapponese in fiore. Sul ponte, nato nel 1939 per completare la circonvallazione esterna e che nel 1968 ha dato anche il no-
me a un circolo anarchico, sul finire di un pomeriggio della prima decade di novembre, si apre uno squarcio suburbano sospeso. Binari in fuga prospettica, grattacieli, gru, terreni vaghi, campetti di calcio, malinconie, sconforti, sogni infranti. Il toponimo è agreste per via di una curiosa cascina semigotica demolita qui da qualche parte, la Ghisolfa. Al contempo, potrebbe pure essere crasi immaginaria tra Ghisini – le sorelle Ghisini sono le sirenette in ghisa di un ponticello al parco Sempione: flashforward del mio peregrinare alla milanese –e solfa. La casa, ecco, grazie al doppio arco di quella finestra riconosco – riaffiorando nitido il flashback cinematografico – il luogo inquadrato che cerco. Il punto esatto deve essere all’incrocio tra via Mac Mahon e viale Monte Ceneri. Mi avventuro un minimo sulla strada trafficata, qualche passo all’indietro,
Sport in Azione
Recentemente, la Federazione mondiale di football (FIFA), e quella europea (UEFA), hanno respinto la richiesta giunta da più parti, di escludere la Nazionale israeliana, e i club del Paese mediorientale, da qualsiasi manifestazione calcistica. Questo, in virtù del principio di neutralità politica dello sport. C’è qualcosa che non quadra. Mi risulta che lo stesso principio non sia stato applicato quando si è trattato di escludere la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina. Mi è più volte capitato di interrogarmi sul senso di questi veti. Se avessero il potere dissuasivo degli embarghi economici o del divieto di fornitura di armi a Paesi in guerra – fatta salva la dignitosa sopravvivenza delle popolazioni toccate – potrei condividerne l’applicazione. Sono per contro convinto che, in ambito sportivo, riescano a malapena a scalfire l’ego e l’orgoglio nazionale di qualche leader politico. Per contro, hanno il potere di distruggere la carriera di migliaia
quando – sulla carta – il Civil Rights Act vietò la segregazione razziale nei luoghi pubblici. E ancora nel 1968 Martin Luther King Jr. venne assassinato al Lorraine Motel di Memphis. In quegli anni, gli Stati Uniti contano sessantamila motel e le loro coloratissime insegne al neon diventano un’icona della vita americana. Nel famoso romanzo di Vladimir Nabokov, Humbert viaggia attraverso gli Stati Uniti con la dodicenne Lolita e consuma la sua relazione proibita nei motel. Ma proprio la facilità degli incontri clandestini ne rende l’immagine ambigua e trasgressiva. Infine nel film Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, il fittizio Bates Motel entra nell’immaginario collettivo con la celebre scena dell’assassinio della protagonista Marion sotto la doccia, in un’atmosfera di paura, isolamento e alienazione. Negli anni Settanta tuttavia la co-
struzione di oltre diecimila miglia di autostrade completa la rete cambiando completamente il quadro. Molte storiche statali decadono – per esempio la Route 66 viene declassata nel 1985 – e grandi catene dell’ospitalità prendono il posto dei piccoli motel a conduzione familiare. Il loro tempo sembrava concluso e tuttavia, dopo un lento e apparentemente inarrestabile declino, costellato di chiusure, negli ultimi decenni i motel sono stati riscoperti, tra nostalgia per un passato idealizzato e storia dell’architettura.
Alla svolta del millennio, il Congresso ha posto un vincolo di tutela sui motel più famosi; alcuni edifici storici sono stati acquistati, ristrutturati con eleganza e rimessi sul mercato con prezzi per le stanze un tempo impensabili. Infine i circa quindicimila motel rimasti sono stati partico-
larmente apprezzati durante la pandemia per gli spazi aperti, le scale al posto degli ascensori e l’accesso diretto alle camere. Ma già il film Thelma & Louise (1991), raccontando una fuga attraverso il sud degli Stati Uniti con frequenti soste nei motel, era tornato a celebrare il viaggio in auto come percorso di trasformazione e manifesto di emancipazione femminile. Dopo la Seconda guerra mondiale il modello del motel americano si diffuse anche in Europa, insieme alle autostrade e all’automobile per tutti; per esempio, dalle nostre parti, il Motel Gottardo Sud a Quinto. Altri esercizi simili hanno invece evitato di adottare questo nome, pur svolgendo un’attività simile. Ma in Europa ci si è limitati alla funzione pratica di queste strutture, senza sviluppare, come negli Stati Uniti, una cultura della strada, del viaggio, della libertà.
alla cieca, tra i clacson, e di colpo, con quei lampioni chini ancora lì e quella piega lieve in salita del ponte, emerge il fotogramma del film. Un paio di secondi, appena dopo quando uno al bar sputtana a Simone, il maggiore dei cinque fratelli lucani, finito un po’ sulla cattiva strada per il bere e le donne dopo i primi successi sul ring, il posto dove Rocco e Nadia vanno in camporella. «Dalle parti della Ghisolfa» gli dice l’Ivo ( Corrado Pani, più famoso per la storia d’amore con Mina che per i suoi ruoli), a Simone (Renato Salvatori) livido di rabbia e gelosia. Ed è lì, dove sono passato prima, sui prati a ridosso di quelle scarpate ferroviarie che si svolgono la scene più drammatiche del film. Lo stupro di Nadia (Annie Girardot interpreta una donna inquieta che fa la vita) davanti agli occhi della banda del bar e del fratello minore Rocco (un apollineo Alain Delon con occhi
da cucciolo di cane ma personaggio forte e altruista). E i due fratelli emigrati al nord come tanti allora, pugili in erba tra l’altro, che si picchiano a sangue. Nel fotogramma del ponte della Ghisolfa, se in tutto il resto del film si mischiano le carte, Visconti segue le indicazioni date dal tragitto testoriano dell’Enrica che venendo da Mac Mahon svolta a destra, per inoltrarsi nel buio dove più in là ha l’appuntamento con il Raffaele, fratello del marito ubriacone e violento. Solo una delle vite misere raccontate in questo libro di storie a puntate, soap-opera di periferia, affresco popolare stile fotoromanzo. Dove il ponte del titolo appare furtivo all’inizio di questo racconto eponimo: «quando nascondendosi in se stessa scese dal tram e, il tempo di attraversare il viale, si trovò davanti la rampa del ponte che i lampioni illuminavano nella sua curva ampia e solenne».
Mai chiamato da nessuno con il suo vero nome, cavalcavia Bacula – un aviatore – è nominato anche nella prima storia del libro, quando rincasando, passano da lì il Todeschi, presidente della Vigor al volante di una giardinetta, e il Pessina che ha appena vinto una corsa ciclistica lacustre dolente per la caduta dolosa del Consonni che si è rincretinito. E così, decido di vagare per le strade di questa zona, dove nel 1907 sorge uno dei primi caseggiati popolari post campagna, vestigia dell’emigrazione meridionale, oggi dall’atmosfera cairota con tocco di odonomastica elvetico-prealpina. Percorrendo via Monte Generoso sbuco in piazza Prealpi. Nota negli anni novanta per essere il regno della ndranghetista Maria Serraino, meglio nota come Mamma Eroina. Da queste parti abitava anche una costumista sciroccata argentina ossessionata dai film di Bergman.
di atleti che, salvo dichiarate adesioni alle scelte politiche del loro Paese, non hanno alcuna responsabilità specifica.
A scanso di fraintendimenti, preciso che, a mio modo di vedere, le sanzioni che fanno seguito a un flagrante doping di Stato, si giustificano pienamente. Negli ultimi anni ci è caduta la Russia, dopo una lunga indagine condotta dalla WADA (World Anti-Doping Agency). Non nego che il divieto di gareggiare possa aver toccato anche atleti puliti, ma sono altresì convinto che l’esclusione sia stata un segnale forte, affinché un movimento incancrenito e fuorilegge, si mettesse di nuovo in carreggiata.
La storia dello sport è disseminata di contraddizioni. A partire dal muro eretto da alcuni Paesi asiatici nei confronti di Israele negli anni 1950-1970 e che, su proposta del Kuwait, indusse l’Asian Football Confederation a espellere la Nazionale con la stella di Davide dalle sue manifestazio-
ni. Un gesto che, come conseguenza, comportò l’affiliazione di Israele all’UEFA. Credo però che l’apice della contraddizione, anche se sarebbe più opportuno parlare di fondo, lo si stia raggiungendo durante la marcia di avvicinamento ai Giochi Olimpici di Milano-Cortina che si apriranno il prossimo 6 febbraio. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) se ne sta pilatescamente lavando le mani, lasciando la decisione alle singole federazioni. Salvo ripensamenti, sulle nevi della Val di Fiemme, non vedremo il fondista russo Sergey Ustiugov contendere lo scettro di re al norvegese Johannes Klæbo. In compenso, nel pattinaggio di velocità e nello Short Track, lotteranno per le medaglie anche i campioni russi, così come quelli bielorussi, considerati alleati e complici nella guerra in Ucraina. In fondo, il CIO avrebbe tutte le carte per evitare scelte a geometria variabile e porre fine a questa sorta di schizo-
frenia sanzionatoria. Nei suoi statuti si prevede che i Paesi ospitanti garantiscano la partecipazione a tutti, senza alcuna discriminazione di razza, etnia, religione, genere, orientamento sessuale e convinzioni personali. Immagino che sia per queste ragioni che il massimo organo sportivo mondiale si sia imbufalito quando ai recenti mondiali di ginnastica artistica, che si sono svolti a Giacarta, in Indonesia, gli organizzatori hanno negato i visti d’entrata ai rappresentanti della delegazione israeliana.
Stiamo assistendo a una battaglia diplomatica che contribuisce alla perdita di credibilità, non tanto dello sport in quanto fenomeno di massa in grado di dispensare gioia ed emozioni, quanto piuttosto quella delle sue istituzioni.
Riammettere ufficialmente, anche all’ultimo minuto, la Russia, le sue squadre, i suoi atleti, oltre a porli sullo stesso piano di quelli israeliani e a quelli di tutti gli altri Paesi del glo-
bo, significherebbe ridurre vertiginosamente il rischio di potenziali gravi problemi di ordine pubblico. In settembre, la Vuelta di Spagna è stata più volte disturbata da manifestazioni inscenate da attivisti pro Palestina che richiedevano il ritiro dalla corsa della Israel-Premier Tech. L’ultima tappa, quella della consueta passerella madrilena, è stata addirittura tagliata. Pochi giorni dopo, gli organizzatori dei Giri di Emilia e di Lombardia hanno d’intesa concordato con il management della squadra l’esclusione della Israel. Manca un’ottantina di giorni alla cerimonia inaugurale dei Giochi, che andrà in scena nello Stadio Meazza di Milano. Ottanta giorni a disposizione del CIO per ritrovare la bussola, per assumersi delle coraggiose responsabilità e soprattutto per ridurre le possibili cause di spiacevoli incidenti, visto che il conflitto israelo-palestinese pare ancora lontano da una soluzione duratura.
di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
di Claudio Visentin
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