Azione 47 del 18 novembre 2019

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Arte da scoraggiare L’attributo più squalificante, più vergognoso, per un Torinese vecchio stampo, è quello di «artista». Dare a un Torinese dell’artista è peggio che dargli del bandito, quest’ultimo qualche attenuante ce l’ha, è stato abbandonato dai genitori. Ne consegue che un Torinese di buona famiglia che ha la disgrazia di scoprire di avere un temperamento artistico deve tenerlo accuratamente celato, per non incappare nella disistima di parenti e amici. Il Torinese artista si costruisce prima una rispettabile carriera nelle arti liberali, nell’industria, nelle banche, nell’insegnamento e solo in un secondo tempo lascia affiorare in superficie le sue vere tendenze e incomincia a esibirsi. In un primo tempo quasi mai in pubblico, almeno agli inizi testa le reazioni della ristretta cerchia dei parenti e degli amici. La regola vale anche per chi è nato ad Asti: i fratelli Paolo e Giorgio Conte, discendenti di una illustre famiglia di notai, hanno dovuto all’inizio laurearsi in giurisprudenza ed esercitare per

molti anni la professione di avvocati, prima di rivelare al mondo la loro grande bravura di cantautori. Così capita di essere invitati a cena e di fare la piacevole conoscenza con un giudice o un funzionario della prefettura al quale, dopo il caffè, il padrone di casa rivolge il pressante invito di accostarsi al pianoforte. In alternativa si materializza una chitarra. È il momento delle spiegazioni a favore di chi è, ancora per qualche minuto, ignaro del segreto. Il signor giudice compone ed esegue – nel poco tempo libero che gli rimane dopo aver assolto i suoi doveri – graziose canzonette ispirate a episodi che gli sono realmente accaduti. Perché non ci fai sentire. Ho messo un dito nel tritacarne? Oppure Non è colpa mia se è scoppiato il televisore? Interviene un ospite: «No, è più bella quell’altra che fa Non mi dire che non hai messo il freno a mano». Vi mettete all’ascolto pensando che il signor giudice, se anche non è il primo nella classifica dei cantautori, lo è sicuramente, a giudicare dai titoli,

in quella degli sfigati. Scoprite che gli spettatori non devono limitarsi ad ascoltare, applaudire e complimentarsi ma devono essere parte attiva nell’esecuzione. Se va bene, l’intervento si limita a un coretto con degli «Oh, Oh, Oh» da emettere al cenno dell’esecutore. La fantasia degli artisti repressi è diabolica, è probabile che vi venga richiesto di schiacciare a tempo delle perette da clistere cariche di borotalco o di passarvi un pettine sui denti; si porta molto l’azione scenica, tipo strapparsi un pelo dal naso o eseguire flessioni ginniche. I cantautori sono in maggioranza ma non dobbiamo dimenticare i poeti. C’è sempre un vicino di posto che ti domanda in tono zelante: «Conosci le poesie del dottor Bianchi? No? Devi assolutamente convincerlo a leggertene qualcuna». Tu che provi rimorsi cocenti per non avere mai trovato il tempo per leggere la Gerusalemme liberata o Il canzoniere di Umberto Saba, ciò nondimeno preghi il dottor Bianchi, ottimo commercia-

lista, di leggere qualche sua composizione, augurandoti che sia un seguace di Giuseppe Ungaretti, della serie due versi sono pochi ma tre sono troppi. Il dottor Bianchi dapprima si schermisce: «A chi volete che interessino i miei poemetti!». (Poemetti? Andiamo bene!) Gli adulatori insistono: leggici Partita doppia, oppure L’Irpef dell’anima, o meglio ancora Ode al modello 740. Va a finire che il poeta cede alle affettuose insistenze, si alza in piedi, solleva il cuscino dalla sedia sulla quale stava seduto e ne estrae un voluminoso mannello di fogli che teneva lì, pronto per ogni evenienza. Il problema per chi ascolta non è quello di formulare un giudizio sulle poesie – chi se ne frega se sono belle o brutte – ma di non sapere dove posare lo sguardo durante la lettura. Sul bardo che declama no, è troppo vicino, sarebbe come esaminargli le tonsille e a chiudere gli occhi simulando concentrazione c’è il rischio di addormentarsi. Si finisce per guardare nel vuoto simulando un rapi-

mento estetico a condizione di non intercettare lo sguardo di un’altra vittima per non scoppiare a ridere. Al termine della lettura vi toccherà esprimere poche ma sentite parole di lode e di incoraggiamento. Se, esagerando, dite che varrebbe la pena di pubblicarle, il commercialista poeta ribatterà: «Già fatto». Sotto la sua sedia c’è una borsa piena di copie stampate a sue spese, ne estrae una e sul primo foglio bianco scrive una lunghissima dedica nella quale vi elogia come critico finissimo e animo eletto in grado come pochi di capire e apprezzare le sue poesie. Uno s’immagina che a Torino gli studi dei professionisti e dei funzionari siano altrettanti giardini di Armida dove musica e poesia fanno a gara per intrecciare ghirlande. Viene da chiedersi: non sarebbe stato meglio permettere al ragazzo di dare libero sfogo alle sue naturali inclinazioni? Al contrario c’è chi sostiene che l’arte migliora quando è scoraggiata. Se è così aumentiamo la dose di repressione.

poteva essere disgiunta dalla classe (portamento) nè dalla modestia (pudore). Il fornitore della Real Casa, in materia di bellezza, era Dio, niente di meno. Gli occhi denotavano un rapporto diretto con il fornitore supremo: erano pura luce, grazia immacolata e universale. Il corpo non doveva essere mai neppure nominato. La donna bella era statica, aristocratica. Già dal secolo seguente c’è più attenzione al movimento, si parla dell’incedere. Ma le gambe sono sempre sostegno del busto, come il gambo per i fiori, sono occulte putrelle d’alabastro dalla funzione puramente meccanica. Non si vedono, non si nominano. Per vederle dobbiamo aspettare le spiagge. E siamo già al diciannovesimo secolo. Il portamento ora è la schiena diritta della sicurezza borghese. Siamo passati dal corpo nascosto al corpo svelato. E oggi siamo all’ostentazione. Gli occhi, che sono stati luce degli astri e specchio dell’anima, diventano profondità psichica e infine sguardo, e quando ciò accade, la festa dell’ammirazione è finita. La bel-

lezza che, con canoni diversi da un’epoca all’altra, ha fatto della donna l’oggetto del turbamento e poi della sublimazione e poi del desiderio, può sopportare il peso della donna soggetto? La donna che guarda è ancora una donna da guardare? Spesso è vissuta come una minaccia. All’inizio del secolo scorso nasce la «maschietta» con i capelli tagliati corti, snella, il collo scoperto, l’occhio impertinente. Può essere glorificata (senza la collaborazione di Dio), ma può anche essere rimessa al posto suo, punita per la sua imprudente ostentazione di scelte di vita da emancipata. E come si puniscono le donne? Imponendo loro un modello di bellezza a cui cercheranno di adeguarsi con sacrifici e frustrazioni. Quale strumento migliore dell’obbligo d’essere belle per tenerci sotto, schiave delle apparenze, costrette a comprare belletti, a imporci diete, quando non a ricorrere al bisturi, e sempre a rimbecillire di dolore per i guasti dell’età? Prima la bellezza femminile doveva allietare l’uomo, poi doveva spingerlo a procreare, quindi ha

dovuto impedire alle donne di raggiungerlo. Come? Costringendo le ragazza a perdere tempo energia e intelligenza per adeguarsi ai canoni di bellezza del secolo. Mentre suo fratello studiava, lei buttava ore davanti allo specchio. Lui invecchiando migliorava, lei scadeva come merce avariata: la bellezza sfiorisce, l’intelligenza no. La perdita di credibilità del Grande Racconto (la religione, l’ideologia) ci condanna a vivere nel mondo in cui viviamo. La caduta delle trascendenze ci consegna alla dittatura del nostro piacere. Di questo passo con le stampanti 3d e i prodigi di medicina e chirurgia estetica, diventeremo, nel corso di questo secolo, tutti sani e belli e giovaniformi, ma la bellezza, diventata di massa, avrà ancora la funzione di stupirci? Norberta Biasin, croce e delizia della mia prima giovinezza, presto potrà essere costruita in laboratorio. Potranno sfornarne plotoni di Norberte Biasin, tutte belle uguali. Bionde alte slanciate col nasino all’insù e il vitino sottile. Sull’incanto, allora, trionferà la noia.

vano allietato (si fa per dire) la società letteraria italiana. Quell’anno Bompiani propose per il Premio Strega I racconti di Alberto Moravia: ne nacque un pandemonio perché si trattava di una raccolta di racconti già usciti, anche se in realtà il regolamento non vietava la partecipazione di testi editi, purché contenuti in un libro nuovo. Per evitare il caos, Moravia decise nobilmente di ritirarsi lasciando campo libero al Visconte dimezzato di Calvino, il suo favorito: «Penso – scrisse in una lettera al comitato – che i premi andrebbero dati ad autori giovani o per lo meno sconosciuti». Furono gli strali della congregazione del Sant’Uffizio, scandalizzata per la blasfemia di certi racconti e pronta a mandarli all’Indice, a fargli cambiare idea: Moravia partecipò per ripicca e vinse scatenando le invettive di Carlo Emilio Gadda, che concorreva con Il primo libro delle favole. In una lettera all’amico Gianfranco

Contini, Gadda urlò al complotto e non esitò a sparare a zero contro il «rumoroso codazzo degli strombazzatori di sinistra» che sostenevano Moravia, accusato di avere il «cervello… di un autentico deficiente» e silurato come «milionario sinistreggiante an-ario» (con un discutibile gioco verbale sulle sue origini ebraiche, 2). Italo Calvino, nel 1968, scrisse un telegramma agli organizzatori del premio Viareggio, uno dei riconoscimenti più prestigiosi, che gli era stato assegnato per la raccolta di racconti intitolata Ti con zero: «Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome fra vincitori stop. Credete mia amicizia». Erano anni di contestazione «obbligatoria» in cui era consigliabile

tenersi alla larga dalle istituzioni (nel 1964 Sartre aveva detto no al Nobel). Calvino stesso, che aveva già ricevuto il Viareggio una prima volta nel 1957, nella polemica che inevitabilmente seguì al rifiuto scrisse una lettera al direttore del «Tempo» in cui precisava: «Stare al gioco dei premi è un comportamento che i letterati onesti (e ve ne sono) seguono per abitudine, scoraggiamento, malintesa beneducazione, timore dello scandalo o della solitudine…». Più in là però lo stesso Calvino avrebbe accettato il Premio Asti (1970), il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (1972), poi quello della Città di Nizza, il Mondello e altri ancora (3+ alla coerenza). Chissà se vincendo il Nobel avrebbe seguito l’esempio di Sartre… «Che debbo dire dei letterati in genere? – scrisse Moravia quando seppe delle reazioni isteriche di Gadda dopo la sconfitta – Meglio tacere» (6). In effetti, meglio tacere.

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera La noia vincerà l’incanto La bellezza è sempre stata la mia ossessione segreta. La bellezza femminile. Mi affascinava come la fortuna, come il genio. La consideravo fuori dal sistema democratico. Iniquamente distribuita. Irraggiungibile. Il valore che le attribuivo era proporzionale alla sua rarità. Mi ricordo di Norberta Biasin ancora oggi. Al liceo Gioberti, Torino. Norberta era alta e diafana, pelle di alabastro, occhi celesti, lunghi capelli biondi. Arrivava sempre in classe in ritardo. I professori non la sgridavano, la guardavano camminare lenta verso il suo banco, dando a tutti la possibilità di ammirarla. Alle assemblee, alle riunioni, si era negli anni della rivoluzione studentesca, taceva annoiata, eppure tutti erano ai suoi piedi. A me, che non ero bellissima, toccava parlare. Dire la cosa giusta al momento giusto. E dirla bene. Come i maschi. Adesso le belle ragazze sono una maggioranza. Più ci si allontana dalla povertà o dalle guerre, più la razza migliora. Le giovani sono quasi tutte carine, anche se omologate:

capelli piastrati, occhi bistrati, bocche disegnate, vitino e tettone, tacco 12 e jeans incollato al deretano. Ai miei tempi era richiesta la bellezza naturale. O eri bella o eri brutta. Fine. Adesso la bellezza è una app: impari a truccarti, ti compri la mastoplastica additiva, ti tingi i capelli quando sei ancora alle medie. Oggi va la bellezza calcolata, apparecchiata, fasulla. Quale sarà il modello di bellezza del futuro? Ho letto con entusiasmo crescente la Storia della Bellezza, di Jean Vigarello proprio perché, secondo me, la bellezza non ha storia. La bellezza «è», come la poesia, un talento, un dono, non si impara e non si ottiene. Quella che si può raccontare, e Vigarello lo fa in modo magistrale, è la storia del rapporto che tutti noi, animali sociali, abbiamo avuto abbiamo e avremo con la bellezza. I mille tentativi di descriverla, di definirla, di adeguarla, di usarla, di venderla, di insegnarla. Vigarello racconta che nel Rinascimento esisteva soltanto la parte superiore del corpo. Il volto, il collo, il vitino. La bellezza non

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Se i grandi spiriti impazziscono I premi letterari possono indubbiamente cambiare la vita di uno scrittore. Gli scrittori lo sanno e se qualcuno dovesse dire che non gli interessa partecipare e tanto meno vincere, il sospetto è che stia mentendo o che ci sia sotto qualcosa di strano. Sono considerazioni che nascono spontanee dopo la lettura di Visto si premi (Edizioni Santa Caterina, 5+), che racconta a più voci alcuni divertenti (e desolanti) retroscena dei concorsi letterari. Divertenti e desolanti, perché spesso i premi fanno perdere la testa anche agli spiriti migliori, che in certe circostanze offrono il peggio di sé. Qualche esempio. Nel 1959 la Garzanti ha due candidati formidabili allo Strega: Beppe Fenoglio con Primavera di bellezza e Pier Paolo Pasolini con Una vita violenta. È stupefacente leggere i carteggi di quei due giganti. Il primo scrive a Pietro Citati: «i premi letterari non mi tolgono né il sonno né l’appetito. Io non scrivo

per competizione (…), alla radice del mio scrivere c’è una primaria ragione che nessuno conosce all’infuori di me». Bellissima dichiarazione di fede nella scrittura (6), ma il problema è che due cavalli della stessa scuderia editoriale non sono compatibili: uno dovrebbe ritirarsi, e questi, per ordine superiore, deve essere proprio Fenoglio in modo da lasciare spazio a Pasolini. Tuttavia, Fenoglio non ne vuol sapere, Pasolini si infuria (3–) e avvia una «campagna elettorale» promuovendo sé stesso presso i giurati, come in questa (squallidina) lettera del 12 giugno indirizzata al poeta Vittorio Sereni: «Caro Sereni, scusami questo atroce, laconico biglietto tutto bianco: ne sto scrivendo due dozzine… È per chiederti il voto allo Strega… Me lo darai?» (2). Tra i due litiganti, vincerà un defunto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore de Il Gattopardo, romanzo uscito postumo l’anno prima. Già nel 1952 alcune sceneggiate ave-


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