Azione 39 del 22 settembre 2025

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edizione

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

Prevenire le molestie attraverso il teatro fisico, un progetto del settore ricerca dell’Accademia Dimitri

Il 28 settembre si vota su tassazione delle abitazioni secondarie e identificazione elettronica

ATTUALITÀ Pagina 13

La coppia comica perfetta

CULTURA Pagina 21

Negli spazi del Museo Vela la ceramica rivela la sua trasformazione artistica

La Grignetta e il canale Angiolina: dall’ascesa notturna al mistero del Nero, fino all’alba in vetta

TEMPO LIBERO Pagine 34-35

ONU, il frinire del grillo parlante

Negli ultimi tre anni, i momenti vicini al silenzio delle armi sono stati pochissimi. Nel marzo 2022, colloqui diretti in Bielorussia e poi a Istanbul portarono Mosca e Kiev a ragionare su una promettente bozza di trattato, che fallì per i reciproci puntigli di Putin e Zelensky. In Medio Oriente, invece, il 19 gennaio 2025 fu annunciato un accordo in tre fasi tra Israele e Hamas, mediato da Qatar, Stati Uniti, Egitto e Turchia. Anche questo fallì, a causa delle divisioni interne in Israele e del rifiuto di Hamas di rinunciare alla lotta armata. Forse, in quelle due occasioni, si è davvero sfiorata la pace. Per il resto, è stato tutto un bla bla. Ma sperare si spera sempre, di settimana in settimana. Così, da oggi, si apre a New York l’80esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ribattezzata High-Level Week , con un nuovo incontro Trump-Zelensky e discorsi dei leader dei principali fronti caldi del pianeta. Certo, l’ONU metterà in vetrina le crisi in cor-

so, ma è lontanissima dal risolverle. Israele l’accusa di antisemitismo e parzialità (tesi sostenuta anche da Trump). I palestinesi non possono partecipare al summit «per ragioni di sicurezza», come ha spiegato il Dipartimento di Stato americano. In quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza, la Russia ha bloccato tutte le risoluzioni che condannavano l’invasione dell’Ucraina. La Cina si finge neutrale, ma manovra per profilarsi come mediatore globale alternativo. E, da quando sono guidati da un nuovo presidente, gli Stati Uniti si sono ritirati da diverse agenzie ONU, tra cui l’UNESCO, il Consiglio per i Diritti Umani e l’UNRWA, l’agenzia per i rifugiati palestinesi. In mezzo a questi giganti malmostosi, l’Europa ha il peso specifico di un moscerino, figuriamoci la Svizzera. Ditemi voi come si farà, nei giorni a venire, a immaginare la pace fra veti incrociati, veleni e fantasmi.

Mi dispiace molto per il pianeta, ma un pizzico

anche per il leader sovranazionale meno ascoltato del globo: il segretario generale dell’ONU, António Guterres. Campione mondiale, dopo san Giovanni Battista, nella specialità olimpica della vox clamantis in deserto, con le sue commoventi richieste per una «pace giusta», fondata sul rispetto del diritto internazionale e della Carta ONU, e la sua fede incrollabile nel multilateralismo come antidoto al caos geopolitico. Non lo ascolta nessuno, ma ha fegato.

L’ONU non riuscirà a fermare le guerre finché non verrà profondamente riformata. Senza l’accordo delle grandi potenze, ha un potere operativo quasi nullo. I cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito) possono bloccare qualsiasi risoluzione, anche in caso di genocidio o aggressione: l’abbiamo appena visto. E se le tagliano i contributi, come ha fatto l’America di Trump, le sue agenzie umanitarie ne escono azzoppa-

te, con conseguenze strazianti per milioni di persone. Eppure, l’ONU è capace di mettere attorno a un tavolo Paesi democratici e regimi autoritari. Tiene aperti gli scalcagnati canali diplomatici, stila studi indipendenti che a partire dai fatti distinguono le vittime dai carnefici (come l’ultimo su Israele) e i suoi tribunali condannano autori di genocidio o crimini contro l’umanità. Va riformata ora? Magari! Tecnicamente è possibile, politicamente no. Teniamoci stretti, per ora, il suo frinire da grillo parlante, il suo stridere di gesso sulla lavagna che irrita i timpani dei violenti e dischiude qualche speranza alle loro vittime. Se nel suo insieme riesce a fare poco, perché si sabota da sola, che almeno la maggior parte dei suoi Paesi membri (Svizzera inclusa, please), indeboliscano i leader abbruttiti con iniziative forti e coraggiose, smettendo di sostenere con qualsiasi mezzo (armi e affari in particolare) i criminali impuniti e impudenti al potere.

Carlo Amatetti Pagina 23
Carlo Silini

Monte Generoso sempre più «generoso»

Info Migros ◆ Con «Amici del Generoso», il nuovo abbonamento annuale, la montagna diventa casa

Una novità straordinaria per tutti quelli che amano la natura, gli sport all’aria aperta e i momenti di relax. È ora disponibile il nuovo abbonamento annuale «Amici del Generoso», pensato per rendere il Monte Generoso un luogo speciale, vicino e accessibile tutto l’anno, a un prezzo super vantaggioso.

Risalite e discese illimitate con la cremagliera oltre a una serie di imperdibili sconti: scoprite anche voi il Monte Generoso

Grazie a questo abbonamento, il Monte Generoso diventa la destinazione perfetta per ogni occasione: una passeggiata, l’alternativa alla palestra, un pranzo panoramico, un anniversario o un momento di relax, una fuga dalla solita routine immersi nella natura. È una meta ideale per respirare aria pura e condividere momenti indimenticabili con le persone care.

Come ci ha spiegato Carolina Russbach, Head of Marketing, Communication & Digital della FMG, «vogliamo che il Monte Generoso diventi

il luogo speciale dove le famiglie possono vivere esperienze uniche, senza spendere troppo. Con l’abbonamento

"Amici del Generoso″ desideriamo, quindi, offrire a tutti la possibilità di vivere la montagna come un’esten-

Riuniti sotto la tenda

sione della propria quotidianità e alla portata di tutti, dove immergersi nella bellezza, muoversi all’aria aperta e creare momenti di convivialità. Il Monte Generoso deve diventare una seconda casa, ricca di opportunità di

Lo scorso 9 settembre ha avuto luogo una seduta del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino, eccezionalmente nella sala del Consiglio comunale di Agno. All’incontro ha partecipato anche Edith Spillmann,

dal primo luglio 2024 presidente dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros, che sta visitando tutte le cooperative Migros. A conclusione dei lavori i membri del Consiglio di cooperativa

Per le famiglie, infatti, è stata pensata un’alternativa economica al fine di potere trascorrere vacanze e fine settimana all’insegna della scoperta e del benessere.

Gli abbonamenti:

Famiglie: solo 175 CHF (valido per 1 o 2 adulti e fino a 3 o 4 bambini dai 0 ai 15 anni, per un massimo di 5 persone). Entrambi i genitori possono essere indicati sull’abbonamento per una maggiore flessibilità.

• Adulti singoli: 150 CHF

• Adulti combi: CHF 171 per un adulto, incluso anche il trasporto di un cane, una bicicletta o un sacco parapendio.

L’abbonamento include inoltre uno sconto del 10% su food & beverage presso il Fiore di pietra, il Buffet Bellavista e il Camping Monte Generoso.

Come acquistarlo

scoperta e di emozioni. È un’occasione unica da non perdere assolutamente!»

«Amici del Generoso» rappresenta un’opportunità preziosa per tutti coloro che amano la montagna, con un occhio di riguardo alle famiglie.

I membri del Consiglio di cooperativa e del Consiglio di Amministrazione presenti lo scorso 9 settembre ad Agno a Das Zelt con il direttore di Migros Ticino. (Flavia Leuenberger)

e Consiglio di amministrazione sono stati invitati a una serata all’insegna della comicità a Das Zelt, la tenda che sta facendo il giro della Svizzera per festeggiare i 100 anni dalla Fondazione di Migros.

Dal 16 settembre 2025 l’abbonamento è disponibile online in formato PDF o presso la biglietteria di Capolago, con possibilità di ricevere la tessera fisica.

Informazioni www.montegeneroso.ch

25 anni di Migros

Anniversari ◆ L’azienda si congratula e ringrazia

Alberto Ballerini

Venticinque anni sono un quarto di secolo, ma anche la testimonianza di un rapporto di fiducia tra collaboratore e azienda che si rinnova.

A nome di Migros Ticino e della redazione di «Azione» ci congratuliamo con Alberto Ballerini per i suoi 25 anni in azienda e lo ringraziamo per l’impegno di questi anni.

Alberto Ballerini, quale è il suo ruolo all’interno di Migros Ticino?

Attualmente sono responsabile merceologico del reparto latticini e della parte convenience della filiale Migros di Agno.

25 anni sono un quarto di secolo: cosa le piace maggiormente del suo lavoro dopo tutti questi anni?

Mi piace l’idea di essere a contatto con molte persone e di avere la possibilità di aiutare nella scelta dell’acquisto, comunicando e, all’occorrenza, scherzando!

Quali sono le sfide che l’aspettano?

In questo periodo Migros si trova in una fase di evoluzione: sono curioso di vedere i risultati.

lavora per Migros Ticino dal 16 agosto del 2000

Cosa augura a Migros nell’anno dell’anniversario?

Di certo auguro a Migros di riuscire ancora a regalare quei valori che ricordo da quando, piccolino, facevo la spesa con mia mamma.

Cosa rappresenta Migros per lei? Migros mi ha dato la possibilità di saziare la mia curiosità «facendomi prendere» il diploma di impiegato di vendita e permettendomi di approfondire tutto quello che gira attorno alla merceologia, al lato finanziario e al comportamento di gruppo.

Un’occasione imperdibile per le famiglie, il nuovo abbonamento Monte Generoso. (Mara Venco)
Alberto Ballerini

SOCIETÀ

Il cittadino al centro dell’azione politica

Il progetto Demoscan mira a sviluppare nuove forme di partecipazione democratica: ne parliamo con il professor Nenad Stojanović

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Gli scorpioni del Triassico

Un nuovo ritrovamento fossile sul Monte San Giorgio rivela l’antenato degli attuali scorpioni della Svizzera sudalpina

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La salute dell’intestino

La Colite ulcerosa e il Morbo di Crohn sono patologie infiammatorie croniche che richiedono cure specialistiche

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Il teatro fisico aiuta a riconoscere le molestie

Prevenzione ◆ L’iniziativa promossa dal settore ricerca dell’Accademia Dimitri dopo la fase pilota torna nelle scuole con l’obiettivo di sfruttare le risorse del teatro come vettori di empatia e di coscienza di sé

Insinuazioni e commenti equivoci sull’aspetto esteriore, battute sessiste, osservazioni sulle caratteristiche sessuali, sul comportamento e sull’orientamento sessuale di donne e uomini. E ancora: telefonate, email, lettere, SMS o messaggi sgraditi con contenuti sessisti o allusivi, contatti fisici indesiderati. Avances abbinate alla promessa di vantaggi o alla minaccia di svantaggi. Fino alle azioni più gravi: atti sessuali, coazione o violenza carnale. È ampio lo spettro delle molestie verbali, fisiche o psicologiche. Come è possibile contrastare questo fenomeno così diffuso e in crescita? La risposta può apparire inattesa: con il teatro. S’intitola infatti così l’innovativo progetto promosso dal settore ricerca dell’Accademia Dimitri, la scuola affiliata alla SUPSI: Prevenire le molestie attraverso il teatro fisico. L’iniziativa – sperimentata lo scorso anno con successo con circa 160 studenti e studentesse e 40 docenti al Centro professionale tecnico di Trevano, al Dipartimento formazione apprendimento-Alta scuola pedagogica (DFA-ASP) e alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, nonché alla stessa Accademia Dimitri a Verscio e Avegno – ha appena superato con successo la fase pilota e da autunno tornerà nelle scuole appena enumerate per dar luogo a una fase di sviluppo e monitoraggio. Successivamente potrà estendersi ad altre scuole superiori del Cantone e in altri contesti scolastici e formativi. Entriamo nel vivo del progetto, con uno dei suoi promotori, il docente e ricercatore dell’Accademia Dimitri, Mathieu Horeau. «L’obiettivo principale è quello di prevenire le molestie attraverso pratiche di teatro fisico, favorendo la consapevolezza e l’empatia, sviluppando la percezione dei limiti propri e altrui e riconoscendo i segnali di disagio. Secondo la nostra esperienza all’interno dell’Accademia Dimitri, partire dalle pratiche e dal vissuto individuale del corpo è importante. Le nostre tradizioni teatrali sono prevalentemente non verbali, incentrate su corpo e movimento. Nell’approccio esperienziale di questo progetto si cerca di evitare il linguaggio, che si rivela spesso un fattore di divisione. L’obiettivo è di sfruttare le risorse del teatro come vettori di empatia e di coscienza di sé».

Mathieu Horeau, da autunno sarete di nuovo nelle scuole, cosa proporrete?

Sì, il progetto – di cui sono responsabili anche Demis Quadri e Angela Calia – dopo aver ottenuto il finanziamento dall’Ufficio federale per

l’uguaglianza fra donna e uomo e a livello cantonale il riconoscimento dell’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani (Ufag) e di altre associazioni, da novembre proseguirà con nuovi laboratori nei diversi percorsi formativi del CPT di Trevano, intitolati Lo spazio condiviso. Si tratta di una mezza giornata, quattro unità didattiche durante le quali il nostro team di ricercatori e ricercatrici, affiancato sempre da una psicologa professionista, sviluppa da un canto nozioni teoriche e poi pratiche, come ad esempio l’avvicinarsi e l’allontanarsi nello spazio con diversi livelli di velocità fra due partecipanti per riconoscere il tema dell’aggressività. O sperimentare un gesto, come mettere una mano su una spalla a un partecipante seduto al computer, che può stimolare riflessioni sul possibile disagio. L’attività dei workshop è partecipativa, interattiva, esperienziale e non intende essere né moralizzante né giudicante. Fattore cruciale del progetto è di partire dall’esperienza corporea e soggettiva per determinare un ascolto e una comprensione delle proprie sensazioni fisiche e del-

le proprie emozioni, in una cornice specifica di esercizi di gruppo, giochi teatrali, composizioni di movimento e musica, in cui ogni persona partecipante è chiamata ad essere protagonista della propria esperienza e co-protagonista dell’esperienza dell’altro. Il progetto si sviluppa adattandosi di volta in volta ai diversi gruppi di lavoro e alle diverse classi scolastiche, tenendo conto di età, genere, contesto scolastico, differenze. Questo lavoro si dedica appunto allo spazio, più o meno distante, che costantemente condividiamo nei diversi contesti personali, sociali e pubblici, ma che spesso abitiamo distrattamente o con scarsa consapevolezza. Nell’ambito delle molestie, l’elemento «spazio» è un fattore determinante e soggettivo: la percezione di sentire fastidio, invadenza relativamente alla vicinanza di qualcuno può essere molto diversa per ognuno, e i fattori che determinano questa sensazione possono essere altrettanto diversi da persona a persona. Nei laboratori si definiscono spazi di interazione e si forniscono strumenti-gioco, «regole» per scegliere costantemente come utilizzarli ed

elementi per entrare in relazione con il proprio sentire e quello delle altre persone partecipanti. Inoltre sono previsti momenti di dialogo aperto, con domande sempre più attuali e urgenti cui è fondamentale dare voce, riflessioni sull’esperienza compiuta a partire dalle sensazioni provate e dal gioco teatrale sperimentato. Si forniscono insomma strumenti per riconoscere e affrontare situazioni critiche nel contesto della prevenzione delle molestie.

L’iniziativa non ha ancora concluso il suo percorso… Esatto. Adesso si tratta di raccogliere feedback e dati, focalizzandoci sugli aspetti qualitativi e quantitativi del progetto di prevenzione. Ci attende un lavoro di valutazione e riaggiustamento dei percorsi laboratoriali sviluppati nella prima fase pilota. La nostra ambizione è di sviluppare il progetto in modo tale da poter oggettivamente quantificare i progressi sul piano della prevenzione delle molestie. Questo con una prospettiva di studio a livello neuro-scientifico, in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana. Se l’impatto

del progetto si rivelerà soddisfacente potrà passare dall’attuale settore di ricerca dell’Accademia Dimitri a quello dei servizi e diventare così uno strumento di prevenzione, destinato alla formazione di docenti o di figure professionali interessate alla tematica ed essere quindi diffuso in modo più esteso nel mondo della formazione.

Il bilancio finora è comunque promettente?

Le prime reazioni fra chi ha partecipato sono state molto buone. Creare uno spazio dedicato alla prevenzione crea già di per sé un impatto positivo. L’idea è di usare la memoria del corpo per lasciare una traccia duratura sulle nozioni che cerchiamo di trasmettere. Per diversi partecipanti, se prima del laboratorio lo sguardo insistente di un soggetto poteva non avere alcun significato, ecco che dopo il workshop questo gesto è stato colto con la giusta attenzione in termine di possibili molestie e di un potenziale pericolo. E questo ha rappresentato senz’altro un primo esito chiaro e misurabile del nostro progetto di prevenzione.

Nei nuovi laboratori proposti nei percorsi formativi del CPT di Trevano, intitolati Lo spazio condiviso, gli studenti sono invitati a sperimentare gesti, come mettere una mano su una spalla, che possono stimolare riflessioni sul disagio. (Freepik.com)
Guido Grilli

Le prelibatezze dell’autunno

Attualità ◆ Con l’arrivo della nuova stagione, le specialità a base di selvaggina hanno fatto capolino alla tua Migros

Dalle fettine di capriolo alle bistecche di cinghiale, dal filetto e entrecôte di cervo ai salmì cotti o crudi di cervo e caprioli, passando per la carne secca e slinzega di cervo fino ai salametti di cinghiale e cervo

La scelta di specialità di selvaggina proposte nei maggiori supermercati di Migros Ticino si distingue per qualità e varietà, in modo che ognuno possa soddisfare pienamente i propri gusti durante la stagione autunnale. Accanto alle carni, naturalmente non mancano nemmeno i contorni più classici – p. es. spätzli, cavolo rosso, zucca, funghi, castagne glassate - perfetti per esaltare al meglio le tue ricette trasformandole in un’esperienza culinaria unica e indimenticabile.

La carne di selvaggina si caratterizza per il suo sapore gradevole e la sua tenerezza. Inoltre, rispetto ad altre carni, la selvaggina possiede anche interessanti valori nutrizionali: risulta particolarmente povera di grassi ma in compenso è ricca di proteine di buona qualità.

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L’appetito vien… coi funghi

Piatto principale per 4 persone

• 6 00 g di fettine di capriolo

• 3 00 g di funghi misti, ad es. champignon, cardoncelli, gallinacci

• 2 cipolle rosse

• ½ mazzetto di prezzemolo

• 4 cucchiai d’olio d’oliva

• 3 cucchiai di Condimento bianco

• sale • pepe

Preparazione

Monda i funghi e dividili in pezzettini. Taglia le cipolle a spicchi. Trita il prezzemolo.

Scalda la metà dell’olio in una padella e rosola brevemente i funghi a fuoco alto. Aggiungi le cipolle e abbassa la fiamma. Sfuma con il Condimento e lascia ridurre per 2-3 minuti. Condisci con sale e pepe. Togli i funghi dalla padella e mettili da parte.

Scalda il resto dell’olio nella stessa padella e rosola per 2 minuti da entrambi i lati le fettine di carne a fuoco alto poi condiscile con sale e pepe. Aggiungi i funghi e falli saltare brevemente insieme con la carne. Aggiungi un po’ di brodo o salsa arrosto se risulta troppo asciutto. Cospargi di prezzemolo. Servi con purè di patate o patate lesse.

Attualità ◆ Con i funghi freschi si possono preparare un’infinità di ricette. Alcuni consigli sulle varietà attualmente disponibili alla Migros

Considerato il re dei funghi, il porcino o boleto conquista ogni palato grazie al suo caratteristico sapore nocciolato. È un must in risotti, paste e sughi, o come contorno per carni e polenta. È un fungo che cresce in natura, in quanto vive in simbiosi con le radici di determinati alberi.

Fungo tra i più diffusi e coltivati al mondo, lo champignon è disponibili tutto l’anno e si presta bene per le ricette più disparate: dai risotti alle salse, saltato in padella o in insalata, oppure per gustosi ripieni. La varietà marrone ha un sapore più intenso. Si possono consumare anche crudi.

Conosciuto anche con il nome di «finferli» o «chanterelle», il gallinaccio si distingue per il suo sapore leggermente pepato e il caratteristico colore giallo-arancione. Non è adatto al consumo crudo.

per il suo sapore delicatamente speziato e la consistenza carnosa, rimane

1 I funghi devono essere conservati in confezioni traspiranti, altrimenti si deteriorano in fretta.

2 Per lavarli non vanno immersi direttamente nell’acqua, ma eventualmente solo brevemente sotto l’acqua corrente, asciugandoli accuratamente subito dopo.

3

La migliore soluzione per eliminare residui di terra o sporco è quella di utilizzare una speciale spazzola per funghi.

4 I funghi sono ricchi di vitamine, fibre e proteine, ma poveri di calorie.

La ricetta Padellata di fettine di capriolo e funghi
Apprezzato
croccante anche dopo la cottura.
Originario della Cina, questo fungo si piazza al secondo posto tra i più coltivati, dopo lo champignon. Cresce sulla corteccia degli alberi e il suo nome significa «fungo profumato». Ha una polpa soda dal gusto che ricorda l’aglio.

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Attualità ◆ Grazie al nostro nuovo tool dedicato, in pochi clic puoi prenotare il tuo spazio promozionale in oltre venti filiali Migros

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I punti vendita Migros interessati

• Centro S. Antonino

• City Center Lago Locarno

• Centro Agno

• Lugano Centro

• Biasca

• Losone

• Bellinzona

• Bellinzona Nord

• Giubiasco

• Ascona

• C assarate

• Arbedo-Castione

• Mendrisio

• Molino Nuovo

• Tesserete

• Faido

• Maggia

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Riportare il cittadino al centro dell’azione politica

Intervista ◆ Il professor Nenad Stojanović ci spiega il senso e gli obiettivi del progetto Demoscan che mira a sviluppare nuove forme di partecipazione democratica

Aprile 2022. Bellinzona entra ufficialmente a far parte del progetto Demoscan ideato e guidato dall’Università di Ginevra con l’obiettivo di rafforzare la partecipazione delle cittadine e dei cittadini alla vita politica del Paese. Il progetto, da quell’aprile, si è ulteriormente espanso, i risultati sono incoraggianti e attualmente è in corso un sondaggio tra 10’000 cittadini dei cantoni Ticino e Vallese i cui risultati saranno resi pubblici entro la fine di quest’anno. Ciononostante la risposta di molti analisti politici alla domanda «La democrazia o, meglio, la partecipazione dei cittadini alla vita politica così come prevista in democrazia è oggi in crisi?» resta affermativa. Disaffezione e sfiducia della popolazione nei confronti della classe politica che essa stessa ha eletto sono infatti piuttosto evidenti. Eppure basta andare sul sito ch.ch per scoprire che – eccezion fatta per Appenzello interno (-24,2%); Ticino (-1,6%); Vaud (-1,2%) e Vallese (-5,4%) – in tutti gli altri Cantoni i votanti nel 2023, rispetto alle elezioni federali del 2019, sono aumentati al punto che la media dei votanti in Svizzera risulta addirittura progredita passando dal 45,1% di elettori del 2019 al 46,7% del 2023, ovvero +1,6%. Questo, però, è il bicchiere mezzo pieno. Le cifre, pur parlando di una minima ripresa, ci dicono che nel 2023 ha votato meno della metà degli aventi diritto. Ne abbiamo parlato con Nenad Stojanović che è professore associato al Dipartimento di scienze politiche e relazioni internazionali e all’Istituto studi sulla cittadinanza dell’Università di Ginevra oltre che direttore del Polo di ricerca sulle innovazioni democratiche (PIDEM) .

Professor Stojanović, lei che lettura dà di questi dati?

Li leggo cercando di metterli nel loro contesto e il contesto è quello che, da una quarantina d’anni a questa parte, vede una stabilizzazione della media dei cittadini votanti nelle elezioni al Consiglio nazionale: il 46,5% nel 1987, il 46,7% nel 2023. Certo, durante questo periodo ci sono state delle oscillazioni, con punte fra il 42,2 e il 48,5%, ma possiamo dire che l’affluenza è stata grosso modo relativamente stabile. Ma le percentuali decontestualizzate possono trarre in inganno. Mi spiego. Se fissiamo la nostra attenzione sul 46,7% di cittadini che hanno votato alle elezioni federali del 2023 allora sì, ha votato meno del 50% della popolazione, ma se noi inseriamo questa percentuale nel contesto di un anno nel corso del quale il cittadino svizzero è chiamato a votare di regola da tre a quattro volte ecco che la percentuale che ne esce è ben diversa. Sull’arco di una legislatura circa l’80% dei cittadini svizzeri esprime la sua opinione nell’urna almeno una volta. Solo circa il 20% non vota mai. Quando ci si stupisce vedendo che in Belgio la percentuale di votanti è quasi del 90%, non ci si deve dimenticare che in Belgio il voto è obbligatorio e concentra in una sola giornata, ogni quattro anni, le elezioni del parlamento federale, dei parlamenti delle tre regioni e dei parlamenti delle comunità linguistiche. Quindi è naturale che in quella giornata elettorale l’affluenza sia così alta! In Svizzera, invece, abbiamo la fortuna di poter votare più volte ogni an-

no. A dover preoccupare è piuttosto il calo di partecipazione alle elezioni cantonali, fenomeno inquietante in grandi Cantoni come Zurigo (dove a stento si raggiunge il 35%), ma che per il momento risulta ancora contenuto in Ticino.

L’associazione Demoscan, della quale lei è copresidente, si è posta come obiettivo quello di sviluppare nuove forme di partecipazione democratica per ridare al cittadino quella centralità che sta perdendo. Pensa davvero che una miglior interazione tra la base e i suoi rappresentanti possa riequilibrare una situazione che sembra compromessa? Penso che tutto dipenda da dove parte il nostro ragionamento, ovvero se pensiamo che sia ormai troppo tardi o se pensiamo valga la pena individuare dove s’inceppa il meccanismo. Vede, la democrazia è stata una grande rivoluzione che ha sancito il principio che ogni persona umana ha pari dignità degli altri cittadini e delle altre cittadine. Quando nel 1848 fu introdotto in Svizzera il diritto di voto alla maggior parte dei cittadini maschi, analfabeti o professori universitari che fossero, ci furono non poche contestazioni, ma il principio si affermò. Adesso che il diritto di voto è acquisito, tranne che per i minorenni e per i residenti senza la nazionalità svizzera, è ben chiaro che chi crede nell’idea democratica non si senta troppo rappresentato da chi si mette a disposizione dei partiti solo per promuovere i propri interessi. Come evitare che ciò accada? Con Demoscan siamo andati a riscoprire il metodo antico del sorteggio, quello che Aristotele vedeva come uno degli elementi essenziali della democrazia, e l’abbiamo applicato in quei Cantoni, in quelle Città e in quei quartieri nei quali abbiamo proceduto a sperimentare, con assemblee e forum, la partecipazione diretta dei cittadini su temi federali. Sia a Zurigo sia a Sion come ad Araau e Bellinzona ciò che ci ha maggiormente impressionati è stato l’entusiasmo, la soddisfazione e l’impegno delle persone coinvolte. Senza contare che, grazie al sistema del sorteggio, abbiamo trovato tra i partecipanti molte persone che da tempo non votavano più, ma estremamente propositive e informate.

Ma chi gestisce i sorteggi e le proposte operative dei cittadini? Si arriverà all’eliminazione dei partiti? Nessuno pensa di eliminare i partiti. Semplicemente si sta cercando una migliore interazione tra i partiti e i cittadini. Poi, per quel che concerne il progetto Demoscan, è evidentemente necessario prevedere un minimo di staff organizzativo: per le procedure di sorteggio, per la scelta dei partecipanti tra coloro che si mettono a disposizione, per condividere con i politici le proposte dei cittadini. Se vogliamo migliorare la democrazia e la partecipazione democratica penso che quello dello staff organizzativo sia un investimento che va fatto. Sul tema abbiamo già avuto dei colloqui con i parlamentari federali. Alcuni si sono detti interessati e aperti, altri si sono sentiti se non minacciati almeno sminuiti.

«Perché – ci è stato chiesto – vi occupate di queste cose? Quello dei costi

I cittadini coinvolti hanno dimostrato entusiasmo e impegno in assemblee e forum organizzati da Demoscan (Freepik.com)

della salute è un problema che dobbiamo risolvere noi, non i cittadini». Penso sia importante che partiti e politici capiscano che assemblee e forum dei cittadini non hanno come obiettivo l’abolizione del sistema, ma il suo miglioramento.

Lei a cosa attribuisce lo scollamento sempre più evidente tra ciò che la maggioranza dei cittadini sente come problema vero e le priorità fissate dai politici?

Prima di risponderle in modo franco

tengo, anche in questo caso, a contestualizzare la mia risposta che arriva in un Paese, la Svizzera, che rispetto a tutti gli altri Paesi democratici può vantare il più alto livello di fiducia delle persone nelle istituzioni politiche. Certo, potrà dirmi che anche in Svizzera, negli ultimi anni, se consideriamo il Consiglio federale, c’è stata una perdita di fiducia, ma è un’inezia rispetto a quanto registriamo, ad esempio, in Francia o in Italia. Detto questo penso che lo scollamento sia dovuto principalmente al

fatto che una volta elette, molte persone si sentano parte di una specie di club esclusivo, una società nella società dove da cittadino sei passato ad essere onorevole ed onorato: con aperitivi, pranzi, cene, consigli d’amministrazione, regalie di vario genere. Un sistema che intorpidisce le possibilità di soluzioni valide per tutti.

Lei pensa che oggi, nonostante i sentimenti di impotenza che molti cittadini (non solo svizzeri) provano di fronte all’inazione in ambito umanitario (da Gaza al Sudan fino ai migranti lasciati a morire in mare) ci sia spazio per la fiducia in nuovi approcci partecipativi e decisionali?

Lo spazio c’è di sicuro. Consideriamo quali sono le alternative rispetto allo status quo. Rassegnarci a non fare niente? Demandare tutto a proteste di piazza o a iniziative popolari che, proprio per i tempi lunghi che le caratterizzano, sono spesso destinate al naufragio? Oppure provare a percorrere nuove vie che, partendo dal basso, possano ridare forza a una democrazia riportandola ad essere quella forma di governo che ci ha permesso di essere quello che siamo: cittadini liberi, esseri umani? Noi con Demoscan abbiamo scelto questa via.

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241 milioni di anni di scorpioni in Svizzera

Paleontologia ◆ Un nuovo ritrovamento sul Monte San Giorgio rivela l’antenato degli attuali scorpioni della regione sudalpina

Tutto iniziò con i lavori di riqualifica del sito di scavo paleontologico Acqua del Ghiffo sulle pendici occidentali del Monte San Giorgio (UNESCO). Il 13 aprile 2021 Fabio Magnani, preparatore paleontologico al Museo cantonale di storia naturale (MCSN), esaminava una lastra distaccata dall’escavatore. Quel giorno mi inviò una foto chiedendomi «cosa ci vedessi». La risposta la conosceva già: lo scorpione fossile più antico della Svizzera, risalente a 241 milioni di anni fa (Ma). La collaborazione con Wilson Lourenço del Museo di storia naturale di Parigi, portò nel 2022 alla pubblicazione della scoperta. Si trattava non solo di una nuova specie, ma di un nuovo genere e famiglia di scorpioni, i Protochactidae, appartenenti alla superfamiglia Chactoidea, tuttora esistente. Fu battezzato Protochactas furreri, dedicandolo a Heinz Furrer che nel 1997-2004 diresse gli scavi in questo sito. Il fossile, lungo 27 mm, risale al Ladinico (Triassico Medio) ed è contenuto in una lastra di Calcare di Meride aperta in

Viale dei ciliegi

due. Una parte contiene quasi interamente il reperto, eccetto alcuni elementi come le chele, visibili solo nella controparte. Il fossile è conservato al MCSN ma la Fondazione Monte San Giorgio (FMSG) ne ha finanziato la ricostruzione in vita. Questa, affidata al paleoartista Beat Scheffold, è in scala 5:1 (13.5 cm) ed è oggi esposta al Museo dei fossili del Monte San Giorgio a Meride. La stessa ricostruzione è stata usata per produrre il modello digitale in 3D alla base delle esperienze in realtà virtuale e mista Meride Beach e Dragons alive presso lo stesso museo.

Attualmente esistono circa 2000 specie di scorpioni che vivono nelle zone tropicali, subtropicali e temperate di tutti i continenti. Le specie fossili conosciute sono invece solo circa 150, ma è assodato che la conservazione in sistemi terresti è eccezionale a causa della difficile mineralizzazione dello scheletro esterno. Il più antico scorpione conosciuto, Dolichophonus loudonensis, risale al Siluriano Inferiore (435 Ma) dell’attuale Scozia ma non vi è consenso riguardo all’habitat, che poteva anche essere acquatico. I primi scorpioni con i cosiddetti polmoni a libro delle forme attuali e sicuramente terrestri compaiono invece nel Carbonifero Inferiore circa 340 Ma. Questo fa capire come si tratti di uno dei gruppi di predatori di maggior successo e longevità che sia mai vissuto.

Delle 150 specie fossili conosciute, la maggior parte (oltre 80) risale all’era Paleozoica, terminata 252 Ma. Solo 11 specie, Protochactas furreri compresa, sono conosciute dal Triassico (252-201 Ma). Particolarmente interessante è il fatto che Protochactas furreri si distingua nettamente dalle altre specie del Triassico, mentre presenta forti analogie con le famiglie attuali Chactidae e Euscorpiidae di cui, secondo Lourenço, sarebbe un progenitore. Tutte le specie oggi presenti in Svizzera appartengono proprio alla famiglia Euscorpiidae e in particolare

al genere Euscorpius. Il fossile ritrovato sul Monte San Giorgio è la prova che queste specie attuali avrebbero radici vecchie di 241 milioni di anni. Euscorpius è un genere mesofilo, cioè legato a habitat senza estremi di temperatura e aridità. L’areale di distribuzione è limitato al Sud delle Alpi e il Ticino è il cantone con maggiore diffusione di questi aracnidi. Fino al 1999 si riteneva che gli scorpioni svizzeri appartenessero a due sole specie: Euscorpius italicus e E. germanus. Uno studio di genetica molecolare pubblicato quell’anno dall’UNI Berna mostrò che le popolazioni di Euscorpius germanus, diffuso nell’intero arco alpino, rappresentavano in realtà due gruppi geneticamente diversi separati dal Fiume Adige. Poiché Euscorpius germanus fu descritto per la prima volta dal Sudtirolo, que-

● Frances Greenslade Green Mountain Academy Keller (Da 13 anni)

Forza, resilienza, riscatto: è una potente storia di sopravvivenza al femminile, quella che ci propone l’autrice canadese Frances Greenslade, in questo romanzo che idealmente è un seguito del precedente Red Fox Road, ma che è leggibile anche da solo. In Red Fox Road la tredicenne Francie e i suoi genitori sono in viaggio, dalla British Columbia, in Canada, diretti verso il Grand Canyon per un’escursione. Ma un guasto al motore li blocca in mezzo al nulla, e del padre, incamminatosi a cercare soccorso, non si hanno più notizie. Ritroviamo Francie in questo avvincente Green Mountain Academy, che è il nome di una scuola femminile arroccata in montagna dove Francie viene messa perché la sua famiglia, con il padre disperso e la madre in ospedale, è ormai annullata. L’Academy si rivelerà un luogo di possibile rinascita per lei, con nuove amicizie e con la possibilità di vivere immersa nella natura selvaggia, contesto che Francie ama tanto. Ma la natura può essere salvifica o terribile, come è ribadito

in molte opere dell’autrice, e Francie si troverà ad affrontare un’intensa storia di sopravvivenza, dapprima in solitaria, poi con l’aiuto di altre ragazze. Ciò che spinge Francie a quest’avventura estrema nel gelo e nella bufera è la notizia che un piccolo aereo è scomparso nelle vicinanze, e lei si sente in dovere di non abbandonare alle intemperie gli eventuali superstiti. Ma è un imperativo morale che affonda le sue radici nel senso di colpa che Francie non ha ancora risolto, per non aver cercato oltre ogni ragionevolezza il padre scomparso ed essersi fatta trarre in salvo dai soccorsi: «Se avessi attraversato il ruscello quella

notte. Se avessi continuato a cercare papà. Una possibilità di trovarlo c’era». Rischiare la vita per sottrarre alla morte quelle persone le sembra l’unica possibile catarsi, l’unica via verso la propria assoluzione. Ma nessuno si salva da solo, in questo bel romanzo corale, dove ognuno, in un certo senso, salva l’altro. E dopo il buio, il ghiaccio, i crepacci insidiosi, lo smarrimento nella foresta cupa e inospitale potrà sorgere il calore di un interno domestico, il profumo di resina e di buon cibo, e soprattutto una nuova luce nel cuore, grazie al sorriso ritrovato delle persone care.

Pépito Matéo-Irène Bonacina

L’ometto a cui non piaceva nulla Terre di Mezzo (Da 5 anni)

Un apologo forse più utile per gli adulti, perché i bambini non l’hanno ancora perso quel senso di meraviglia e quell’attitudine a nominare il mondo, dando a ogni cosa, anche la più piccola, un senso, è ciò che ci racconta Pépito Mateo, supportato in modo essenziale dalle evocative immagini di Irène Bonacina. Pépito Matéo è un autore e attore bretone, ed è soprattutto un cantastorie (insegna l’arte del

sto nome fu mantenuto per le popolazioni a est dell’Adige fino alla Bulgaria. Per le popolazioni a ovest del fiume, come quelle della Svizzera italiana, e fino alla Val d’Aosta si coniò nel 2000 un nuovo nome: Euscorpius alpha. Sembra che la separazione tra queste due specie, lunghe fino a 3 cm, risalga a 2-3 Ma e che, durante le glaciazioni, esse siano sopravvissute in «refugia» molto localizzati, costituiti dalle vette di montagne mai coperte dai ghiacci. Nel Ticino meridionale la vetta del Monte San Giorgio (1’097 msm) aveva questa caratteristica insieme naturalmente al Monte Generoso, ben più alto (1’704 msm). A queste due specie se ne aggiunge una terza lunga fino a 5 cm, Euscorpius italicus, una forma «antropofila», ciò legata all’uomo e ai suoi manufatti. Probabilmente arrivò 2000 anni fa

provenendo dal Centro Italia quando i Romani introdussero i terrazzamenti per la coltivazione della vite e si moltiplicarono le costruzioni in pietra. Diffusa fino a una quota di ca. 650 m in tutto il Ticino e in Mesolcina, la troviamo spesso all’interno degli edifici, soprattutto d’inverno o prima di un periodo di maltempo. Esistono anche segnalazioni di altre due specie di Euscorpius: Euscorpius flavicaudis e E. carpathicus, entrambe alloctone. La prima è diffusa sul litorale dell’area mediterranea occidentale, la seconda dalla Spagna alla Crimea per salire ai Carpazi orientali. In entrambi i casi, si tratta di specie introdotte accidentalmente dal turismo o dal traffico merci. Queste cinque specie non sono né aggressive né generalmente pericolose per l’uomo. Le più piccole come Euscorpius alpha difficilmente riescono a perforare la pelle umana per iniettarvi una dose di veleno comunque minima. Un’accidentale puntura è paragonabile a quella di una vespa e come in questo caso si manifesta generalmente con dolore e gonfiore. Resta la possibilità di manifestare reazioni allergiche che richiedono in tal caso l’intervento di un medico. Attivi di notte, gli scorpioni si nutrono principalmente di ragni e insetti che individuano grazie a peli sensoriali. La gestazione dura ben 11 mesi e si conclude in agosto con il parto di una ventina di individui vivi. La madre li porta sul dorso per proteggerli (anche dal cannibalismo) fino alla prima muta. In seguito saranno gradualmente lasciati al loro destino. Un percorso complesso ma efficace, di un gruppo di animali che lo ha sviluppato in centinaia di milioni di anni.

Bibliografia

Magnani F. et al. 2022. A new family, genus and species of fossil scorpion from the Meride Limestone (Middle Triassic) of Monte San Giorgio (Switzerland). Faunitaxys, 10(24): 1 – 7.

racconto all’Università Paris VIII) e questa storia, ci dice nei risguardi finali, l’ha ascoltata da un narratore amerindo della tribù degli Houma, il quale sottolineava il fatto che «tutte le mattine i nativi ringraziavano ogni cosa necessaria all’esistenza, in modo che nulla scomparisse sulla Terra». In effetti il racconto parla della capacità di apprezzare, di gioire e di essere grati per ciò che ci circonda, ma parla anche della necessità di chiamare alla vita le cose, di dare loro un nome, un senso, di riconoscerne l’unicità e la sacralità, senza mai darle per scontate. E parla anche di come l’assenza di desiderio, di senso, sia all’origine del

buio della depressione, perché questo Petit homme qui n’aimait rien all’inizio non vuole nulla, non apprezza nulla, non vede il senso in nulla. «Da tempo ormai, tutto gli dava fastidio, ma non avrebbe saputo dire da quando. “A che servirebbe?” borbottava l’ometto…». Gli dava fastidio tutto, a cominciare dal sole, dalle nuvole, dagli alberi, dagli animali, e tutto piano piano cominciò a ritirarsi, a sparire, sparì il sole, sparirono le nuvole, gli alberi, gli animali... Finché l’ometto si ritrovò solo, nella vertigine del buio e del nulla. Allora chiese aiuto, e dal nulla una voce si udì, perché per la prima volta l’ometto aveva cercato un’interlocuzione: «Che ti succede, ometto?». Ed ecco allora sorgere in lui il desiderio, prima fiammella di luce per uscire dal buio. Un desiderio espresso da quel verbo, «vorrei»: «Vorrei vedere una stella brillare […] vorrei che il giorno sorgesse…». Se vuoi il mondo, devi chiamarlo, e l’ometto allora chiamerà alla vita ogni cosa, facendo rinascere il mondo, e facendo rinascere al contempo sé stesso. Una storia delicata e profonda, resa ancora più intensa dalle illustrazioni, che interpretano poeticamente lo sparire e il riapparire del mondo.

di Letizia Bolzani
Protochactas furreri, ricostruzione in vita, in scala 5:1, esposta al Museo dei fossili del Monte San Giorgio di Meride. (Beat Scheffold, FMSG)
Protochactas furreri. (F. Magnani & R. Stockar, MCSN)

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Le malattie infiammatorie dell’intestino

Salute ◆ La Colite ulcerosa e il Morbo di Crohn sono patologie croniche che richiedono cure specialistiche e controlli continui

Nel 2011, a 21 anni, Lisa Ciscato ha iniziato ad avvertire sintomi che inizialmente ha sottovalutato: diarrea frequente, dolori addominali e sanguinamento. Dopo settimane di malessere, affaticamento e perdita di peso si è rivolta al medico: «Dopo il ricovero e la colonscopia, la diagnosi era Colite ulcerosa: una malattia cronica, senza certezza di guarigione e con terapie pesanti». Negli anni, ha provato diverse cure («cortisone, immunosoppressori, biologici»), ma la malattia si è ripresentata ciclicamente, fino ad essere invalidante: «Nel 2021, dopo un lungo periodo di crisi, l’intervento chirurgico: colectomia totale e stomia. Un cambiamento profondo, ma liberatorio. Dopo tre interventi ho riscoperto un nuovo equilibrio fisico e psicologico. Ho imparato ad ascoltare il mio corpo, a gestire l’alimentazione, a prendermi cura di me stessa con consapevolezza».

La Colite ulcerosa è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino che colpisce migliaia di persone in Svizzera e nel mondo. Spesso sottovalutata o confusa con altre patologie intestinali, può compromettere seriamente la qualità della vita, con sintomi come diarrea cronica, dolore addominale, perdita di peso e stanchezza. Malgrado i progressi della medicina, molti aspetti restano ancora poco noti. «In Svizzera, circa 25’000 persone convivono con una malattia infiam-

matoria cronica intestinale (MICI), tra cui la Colite ulcerosa che colpisce circa 1 persona su 500 abitanti; si manifesta frequentemente tra i 25 e i 35 anni, ma può insorgere a qualsiasi età; uomini e donne sono colpiti con la stessa frequenza», afferma la gastroenterologa Cristiana Quattropani. Colite ulcerosa e Morbo di Crohn appartengono alle famiglie delle malattie infiammatorie croniche intestinali: «Il Morbo di Crohn può colpire l’intero apparato digerente, dalla bocca all’ano, interessando tutti gli strati della parete intestinale e spesso formando fistole, evento raro nella Colite ulcerosa. Quest’ultima è limitata al colon, non penetra in profondità ed è trattabile nei casi gravi con la sua rimozione chirurgica. I sintomi tipici sono diarrea con sangue e urgenza, soprattutto se è coinvolto il retto, con forte impatto sulla qualità di vita. Il Crohn, invece, può esordire in modo più subdolo con dolori e malassorbimento, spesso senza diarrea sanguinolenta né urgenza, se il retto non è colpito. Entrambe possono avere manifestazioni extra-intestinali simili». La dottoressa osserva inoltre che la crescita di questi casi dal dopoguerra indica un ruolo importante dei fattori ambientali: «È una malattia multifattoriale causata dall’interazione di fattori genetici, immunologici e ambientali». Secondo la specialista, la predisposizione ereditaria è relativa-

mente bassa: «Se uno dei genitori è affetto, il rischio per i figli è inferiore al 10%». Sistema immunitario intestinale, microbiota e alcuni fattori ambientali contribuiscono allo sviluppo della malattia: «Tipo di parto, uso di farmaci e antibiotici durante l’infanzia, inquinamento, stile di vita urbano e abitudini alimentari. Studi recenti indicano che una buona alimentazione può avere un effetto protettivo e aiuta a prevenire l’insorgenza della malattia nei soggetti predisposti». Colonscopia con biopsie sono la via per una diagnosi in tempi rapidi della diagnosi della Colite ulcerosa, in presenza di sintomi allarmanti come diarrea frequente con sangue e grazie

Dolore addominale, perdita di peso, diarrea cronica e stanchezza sono sintomi da non sottovalutare. (Freepik.com)

alla chiarezza dei sintomi, la diagnosi corretta viene solitamente raggiunta in tempi rapidi: «Importante la valutazione della presenza di sindrome infiammatoria, anemia e carenza di ferro o altre vitamine, indicatori della gravità della malattia». Il trattamento varia in base all’estensione della malattia («retto, colon sinistro o tutto il colon»): «Primo passo: farmaci antinfiammatori (relativamente sicuri e ben tollerati). Il cortisone (non a lungo termine per i suoi effetti collaterali) permette di controllare le fasi acute. Nei casi più difficili si impiegano immunosoppressori, ora sostituiti da farmaci biologici o piccole molecole, disponibili dal 2019 e che agiscono su

diversi livelli del processo infiammatorio». Se la colite è grave e non risponde alle terapie di base, bisogna intervenire con terapie più aggressive o chirurgiche («cortisone ad alto dosaggio endovenoso, in situazioni più rare»). Quando il paziente non reagisce a vari trattamenti: «Per prevenire la disabilità causata dai sintomi è fondamentale mantenere sotto controllo l’infiammazione che, se persiste in modo grave e non controllato per molti anni, può comportare l’aumento del rischio di anomalie cellulari o tumori». Tuttavia, rassicura Quattropani: «Grazie ai progressi nelle terapie, alla prevenzione e alle tecnologie endoscopiche avanzate, oggi il rischio di tumori è meno elevato rispetto al passato, poiché il controllo della malattia è molto migliorato».

La Colite ulcerosa è una malattia cronica che richiede un controllo continuo e influisce profondamente sulla qualità della vita, spesso generando ansie e paure anche in remissione: «È importante prendersi cura sia del corpo che della mente: oltre alle terapie farmacologiche, è fondamentale un supporto psicologico e il coinvolgimento in associazioni o gruppi di supporto». Oggi Lisa alle persone con la stessa diagnosi dice: «Non subite la malattia, ma prendetevi la responsabilità di affrontarla. Il corpo, se aiutato, può davvero sorprenderci».

Giovedi, 2 ottobre 2025

Hotel Unione Bellinzona

A partire dalle 18:30

Serata informativa per pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) e per la popolazione interessata

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ATTUALITÀ

Focus sui caccia della discordia

Accettare o meno i costi aggiuntivi degli F-35 americani? La maggioranza degli svizzeri, dice un sondaggio, li giudica inaccettabili

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I Patti di Locarno

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Sushila Karki, prima donna a ricoprire il ruolo

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In gioco c’è l’imposta sul valore locativo

Svizzera ◆ Il prossimo 28 settembre saremo chiamati a votare su tassazione delle abitazioni secondarie e identificazione elettronica

Attesa da decenni, la soppressione dell’imposizione del valore locativo potrebbe finalmente essere accolta in votazione federale il 28 settembre prossimo. Si tratta di porre fine a un’assurdità fiscale, introdotta a livello federale nel 1934 a titolo di tassa federale di crisi e, nel 1940, quale imposta in favore della difesa nazionale. Il valore locativo è calcolato sulla base dell’importo che si potrebbe ricavare dalla locazione di un immobile ed è pari al 60% circa del valore di mercato. Per le abitazioni primarie tale importo è inferiore al valore di mercato. L’utilizzo dell’alloggio (casa o appartamento) da parte del proprietario è quindi considerato un reddito, che però non percepisce, dato che non esiste. Esso aumenta tuttavia l’imponibile fiscale, sommandosi ai redditi effettivamente percepiti dal contribuente. Tassare un «reddito fantasma» è una vera e propria assurdità fiscale.

Un’abolizione pura e semplice del valore locativo provocherebbe perdite valutate in 1,8 miliardi di franchi

Tutti i tentativi per eliminarla sono finora stati vani. Lo scorso dicembre, dopo sette anni di dibattiti, le Camere federali hanno deciso la soppressione del valore locativo sia per gli alloggi principali che per le residenze secondarie. Ma attenzione: in cambio, dalla dichiarazione fiscale non sarà più possibile dedurre (o solo in parte) gli interessi ipotecari, le spese di manutenzione e di rinnovamento dell’immobile. La soppressione del valore locativo dipende dunque dall’accettazione, da parte di popolo e Cantoni, del «decreto federale concernente l’imposta immobiliare cantonale sulle abitazioni secondarie», su cui saremo chiamati a pronunciarci appunto il 28 settembre, trattandosi di una modifica costituzionale. Un’abolizione pura e semplice del valore locativo, che con l’attuale livello dei tassi ipotecari provocherebbe perdite per Confederazione, Cantoni e Comuni valutate in 1,8 miliardi di franchi, non sarebbe stata «ragionevole» senza una contropartita. Le Camere hanno così approvato la citata imposta speciale sulle residenze secondarie occupate principalmente dai loro proprietari. I Cantoni sarebbero poi liberi di riscuoterla o meno. Il voto sull’imposta cantonale speciale per le residenze secondarie è diventato una sorta di referendum sull’abolizione del valore locativo. Se popolo e Cantoni rifiutano questa modifica costituzionale, respingono anche l’abolizione del valore locativo. Se però l’accettano, quest’ultimo potrà essere soppresso e i Cantoni saranno au-

torizzati a prelevare la citata imposta speciale sulle case di vacanza. A questo punto, v’è da chiedersi se il sistema proposto, con una nuova imposta sulle abitazioni secondarie e la limitata deduzione delle spese di manutenzione e degli interessi ipotecari, miri effettivamente a sgravare i proprietari immobiliari o se sia un semplice cambiamento di tassazione. Di sicuro non è un «regalo» ai proprietari di alloggi.

La riforma dovrebbe comunque giovare a circa l’80% di loro. La soppressione delle deduzioni, invece, interesserebbe meno i proprietari di alloggi recenti, perché hanno poche spese di manutenzione. Approfitterebbero della riforma anche coloro – in genere i pensionati – che hanno già ammortizzato quasi interamente la loro ipoteca, dato che i loro redditi sarebbero sgravati dal valore locativo. I proprie-

Legge sull’Id‑e, più protezione o maggior controllo?

Il 28 settembre si voterà anche sulla legge sul mezzo d’identificazione elettronica e altri mezzi di autenticazione elettronici (Legge sull’Id-e), contro la quale sono stati lanciati tre referendum. L’Id-e era già stato bocciato quattro anni fa, soprattutto perché il compito sarebbe stato affidato a imprese private. Ora, dopo aver tratto i debiti insegnamenti, il tiro è stato corretto: lo sviluppo e la gestione del sistema saranno in mano allo Stato. In caso di approvazione, la Svizzera raggiungerà l’Ue nel 2026 nella messa a punto di un’identità digitale, tutelando la sfera privata. Per Governo e Parlamento la Svizzera ha bisogno di un Id-e per poter partecipare al cambiamento digitale in atto a livello internazionale.

Per i fautori, l’Id-e consente di svolgere operazioni in Internet con autorità e imprese, permettendo agli utenti di sapere esattamente a chi comunicano i loro dati. Secondo i comitati referendari, invece, anche la nuova legge non fornisce sufficienti garanzie di sicurezza. Inoltre, identificatori univoci per ogni Id-e consentiranno di tracciare il comportamento dei cittadini, ciò che viola la loro sfera privata. Nel progetto di legge manca anche una chiara garanzia che l’Id-e rimarrà facoltativo. Per il tema in votazione, che dovrebbe essere accolto, l’aspetto fondamentale è la sicurezza, ma non a danno della privacy. Occorre dunque più protezione o maggior controllo?

tari di immobili vetusti che necessitano un rinnovamento sarebbero invece perdenti: per loro non sarà infatti più possibile dedurre fiscalmente i costi di ristrutturazione. La mancata deduzione di queste spese si rifletterebbe anche sul settore della costruzione, a causa della flessione dei rinnovamenti. Infine, tra i perdenti della riforma dovrebbero figurare anche i proprietari di residenze secondarie, sebbene non si conosca ancora l’ammontare della nuova imposta immobiliare cantonale. Attualmente in Svizzera solo il 36% della popolazione vive in un’abitazione propria. Si tratta di una proporzione tra le più basse in Europa. A questa situazione contribuisce anche il valore locativo, proprio a causa della progressione fiscale che comporta. Risultato: il nostro Paese è composto in stragrande maggioranza di inquilini, mentre molti proprietari sono indebitati fino al collo, appunto per conservare elevate deduzioni fiscali. I precedenti tentativi di sopprimere il valore locativo sono falliti (l’ultimo nel 2012 con una maggioranza del 53%), perché prevedevano ancora troppe deduzioni fiscali. Per il Consiglio federale la soluzione ora posta in votazione dovrebbe farcela, perché «equilibrata». A livello politico, sono soprattutto i partiti borghesi – UDC, il Centro e il PLR – a essere favorevoli a un cambiamento del sistema. Per lo-

ro, quello attuale incoraggia l’indebitamento, perché quasi tutti gli interessi passivi possono essere dedotti dalle imposte. La ministra delle finanze Karin Keller-Sutter sottolinea che la riforma riduce l’indebitamento e contribuisce alla stabilità del sistema finanziario e alla semplificazione di quello fiscale. Per il comitato borghese, la riforma sgraverà l’onere della classe media, in particolare delle giovani famiglie e dei pensionati. Per i contrari – PS, Verdi, alcuni membri del PLR e del Centro – il cambiamento di sistema porterebbe a nuove ineguaglianze nei confronti degli inquilini, favorendo ancora una volta i proprietari. La soppressione delle deduzioni si tradurrebbe in una diminuzione dei lavori di risanamento degli edifici, ciò che è contrario alla politica climatica svizzera, sostengono soprattutto i Verdi. Sarà dunque la volta buona? Secondo l’ultimo sondaggio SSR il progetto dovrebbe essere sostenuto dal 51% degli svizzeri, convinti che il valore locativo sia un’assurdità fiscale da abolire. Invece la mancata soppressione delle deduzioni lascia perplessi e appare ingiusta: gli investimenti per le ristrutturazioni dovrebbero ancora poter essere defalcati. Una volta abolito il valore locativo, si potrà verificare se la soluzione oggi proposta sarà stata veramente «equilibrata».

La nuova imposta sulle abitazioni secondarie si aggiungerebbe alla limitata deduzione delle spese di manutenzione e degli interessi ipotecari. (Keystone)
Alessandro Carli

GUIDA PRATICA

Faccende domestiche

1

Sgombero

Il cambio armadio tra l’estate e l’inverno è il momento ideale per fare un bel repulisti. Ciò che non è stato usato per tutta l’estate può essere smaltito o venduto al negozio di seconda mano.

2

Lavaggio

Prima di riporre i vestiti, è necessario lavarli o portarli in lavanderia. Non bisogna dimenticare di svuotare tutte le tasche. Lasciare asciugare completamente i capi dopo il lavaggio: questo non solo previene i cattivi odori, ma anche lo sviluppo di batteri e muffe.

3

Conservazione

Gli abiti leggeri in maglia e i tessuti elasticizzati perdono rapidamente la loro forma se restano a lungo appesi alle grucce. Anche le camicette tendono a sformarsi sulle spalle. Non vanno dunque appese. I capi delicati in seta o lana dovrebbero essere riposti in sacchetti di carta velina o di cotone, in modo da creare uno strato protettivo tra gli abiti e l’armadio o il contenitore. Molte persone ricorrono ai sacchetti per il sottovuoto per motivi di spazio, ma questi possono causare antiestetiche pieghe a causa della pressione. Le scatole in tessuto sono più adatte perché i vestiti possono respirare al loro interno. Meglio non usare sacchetti di plastica o scatole di cartone quando si conservano i vestiti per più di due mesi, perché attirano l’umidità e potrebbero danneggiare i capi.

Come mettere in naftalina i vestiti estivi in modo corretto

Le temperature si abbassano: è tempo di abiti più caldi. Quelli estivi possono temporaneamente andare in pensione. Come conservarli correttamente

4

Protezione dalle tarme

Testo: Barbara Scherer

Per garantire che gli indumenti rimangano protetti dalle tarme durante lunghi periodi, le trappole per tarme dovrebbero essere posizionate vicino agli indumenti. Anche le alternative naturali, come la lavanda, il legno di

cedro o i chiodi di garofano, tengono lontane le tarme e allo stesso tempo donano ai vestiti una piacevole fragranza. Tuttavia, è importante sostituire regolarmente questi prodotti naturali, poiché con il tempo perdono il loro effetto.

5

Conservazione corretta

Gli indumenti devono essere conservati in un luogo buio, fresco, pulito e asciutto durante l’inverno. Se si conservano i vestiti in cantina, bisogna assicurarsi che l’umidità rimanga al di sotto del 50% per evitare la formazione di muffa.

6

Scarpe

Sandali, ballerine e scarpe da ginnastica leggere vengono ora sostituiti da pesanti scarpe invernali. Le calzature leggere devono essere accuratamente pulite prima di essere riposte nei sacchi di stoffa. Le scarpe di cuoio dovrebbero sempre essere dotate di un tendiscarpe per mantenerne la forma.

Articoli utili
Cestino
Cassetta pieghevole 11,3

Il guaio colossale degli F-35

Esercito

◆ Accettare o meno i costi aggiuntivi dei caccia Usa? Ecco le varianti emerse finora dal Consiglio federale e dai parlamentari

Roberto Porta

È stata un’estate rovente per l’esercito svizzero, messo alle strette dal colossale guaio degli F-35. Al centro della contesa è finita una vicenda che sembrava ormai risolta, quella di questi aerei che la Svizzera ha ordinato negli Stati Uniti. A riaprire le danze è stata la questione del loro costo, il nostro Paese si è sempre detto certo di una cifra: sei miliardi di franchi per l’acquisto di questi aerei, considerati tra i più moderni al mondo. Dallo scorso mese di giugno sappiamo invece che per i 36 jet ordinati oltreoceano la fattura sarà di sicuro più salata, con stime che oscillano parecchio. La variante meno onerosa prevede un aumento di 650 milioni di franchi, lo scenario più doloroso indica costi supplementari che potrebbero raggiungere il miliardo e trecento milioni. Dipenderà in particolare dall’inflazione e dal costo delle materie prime. E c’è chi teme che possa dipendere anche dall’umore ballerino di Donald Trump. In ogni caso una cosa è certa: Berna si è sbagliata, e con Berna si intendono il Governo, il Parlamento e anche i vertici dell’esercito, che hanno sempre giocato la carta del prezzo fisso, relegando nel silenzio chi in questi anni aveva suonato il campanello d’allarme.

Lo scorso mese di giugno dagli Stati Uniti è arrivata la doccia fredda, a detta di Washington il contratto prevede una fattura variabile e al rialzo. Punto e a capo. A poco sono valsi i negoziati che il neo-ministro della difesa Martin Pfister ha condotto con la controparte americana durante l’estate. «È così e dobbiamo accettarlo», ha fatto mestamente sapere il responsabile politico del nostro esercito. Il tema ha investito anche il Parlamento e un primo dibattito era in programma mercoledì scorso al Consiglio degli Stati. Da discutere c’era una mozione della socialista solettese Franziska Roth, che chiedeva di sottoporre al voto popolare la nuova fattura, rivista e corretta dalle autorità a stelle e strisce. La discussione su questa mozione però non c’è stata, in attesa di un rapporto che il Dipartimento della difesa si è impegnato a presentare entro il prossimo mese di novembre. Un’analisi della situazione che dovrà servire da bussola per riuscire a calmare le acque attorno a questo contratto miliardario.

Secondo un sondaggio di «Le Temps», la maggior parte degli svizzeri giudica inaccettabile l’aumento dei costi

Diverse le varianti finora emerse dal Consiglio federale e dai parlamentari che si occupano in modo specifico di sicurezza e esercito. La prima, difesa dallo stesso Martin Pfister, consiste nell’accettare il rincaro e nell’assicurarsi i nuovi velivoli, a partire dal 2027. «Dal punto di vista militare questo acquisto è assolutamente necessario», ha fatto notare il ministro della difesa. «Senza gli F-35 la Svizzera nei prossimi decenni non sarebbe in grado di difendere da sola il proprio spazio aereo». Una variante difesa dal fronte borghese e dai vertici dell’esercito ma su cui si innesta una rivendicazione della sinistra. Per il partito socialista e per i Verdi il credito aggiuntivo andrebbe sottoposto a referendum. Su questo argomento una votazione popolare c’è già stata cinque anni fa, il 27 settembre del 2020. Una chiamata alle urne che spaccò in due il nostro Paese e in cui l’acquisto di nuovi jet da combatti-

mento fu deciso di strettissima misura, dal 50,1 % di chi votò quel giorno, con uno scarto a favore del sì di soli 8515 voti. Uno dei risultati più risicati nella storia della democrazia diretta elvetica. Ed è anche per questo che la sinistra mira ora a giocare di nuovo la carta del voto popolare, consapevole di quanto il consenso attorno a questo acquisto sia tutt’altro che granitico.

A dimostrare questa precarietà è giunto anche, la settimana scorsa, un sondaggio pubblicato dal quotidiano romando «Le Temps». Tra i dati che spiccano maggiormente quello che ri guarda il prezzo d’acquisto, il cui au mento è considerato «inaccettabile» dal 67% degli intervistati. Mentre il 52% ritiene che sia opportuno ritirar si dall’accordo sottoscritto con gli Sta ti uniti e rinunciare del tutto a que sti nuovi caccia. E questa è anche una delle varianti emerse a livello politico, in particolare a sinistra, una sorta di ri torno alla casella di partenza per va lutare anche altre opzioni e altri mo delli, come i Rafale di fabbricazione francese o gli Eurofighter, prodotti in Germania. C’è poi anche una variante meno drastica che consiste nell’acqui stare un numero ridotto di F-35, così da rimanere nel limite dei sei miliardi previsto finora, evitando così anche lo scoglio molto insidioso di una nuova votazione popolare. Un’ipotesi che lo stesso Martin Pfister ritiene plausibi le, anche perché gli Stati Uniti si sono detti disposti ad accettare una soluzio ne di questo tipo. D’altronde l’F-35 è un modello estremamente gettonato, con ordinazioni che rischiano di su perare le capacità di produzione della Lockheed Martin, l’azienda fornitrice con sede nel Maryland, tra i maggio ri leader mondiali nel settore dell’ae ronautica militare. In ogni caso si trat terà di trovare una sorta di quadratura del cerchio, tra gli interessi delle nostre forze aeree e il rigore finanziario che la Confederazione è intenzionata a per seguire nei prossimi anni, per evitare cifre di bilancio in profondo rosso. A causa dell’aggressione all’Ucrai na e della nuova situazione geo-poli tica in Europa, l’esercito ha ottenuto un aumento dei mezzi finanziari a sua disposizione, in tutto 30 miliardi di franchi fino al 2028, 4 miliardi in più del previsto. Ma gli ambiti di interven to sono parecchi, sul piatto della bilan cia non ci sono soltanto i nuovi caccia

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Lo spirito di Locarno compie cento anni

Anniversari ◆ Nel 1925 giunsero nella cittadina sul Verbano i principali ministri degli esteri europei per sancire la volontà di pace

All’indomani della grande guerra del 1914-18, buona parte dell’Europa esce devastata e moralmente stremata. Si è calcolato che il conflitto avrebbe lasciato sul terreno dagli otto ai dieci milioni di morti e non meno di 21 milioni di feriti. A ciò si aggiunsero le vittime di un micidiale ceppo virale, noto come «grippe spagnola».

La guerra era sì terminata tra le potenze dell’Intesa e gli imperi centrali, ma non per questo il Continente aveva raggiunto un nuovo e più stabile equilibrio. Infatti il ridisegno geopolitico prodotto dall’armistizio aveva generato nuovi focolai di tensioni: a ovest l’Alsazia Lorena rimaneva contesa tra la Germania e la Francia. Regione ricca di carbone, nel 1923 fu occupata dalle truppe francesi e belghe. Ad est nascevano nuovi stati, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia, i Paesi baltici, il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. Ma anche qui il Trattato di Versailles poneva le premesse per nuovi conflitti, perché il corridoio di Danzica che divideva in due la Germania sarebbe diventato uno degli argomenti della propaganda nazista, così come i Sudeti in Cecoslovacchia, regione abitata in prevalenza da tedeschi. Ma precedentemente la Russia post-rivoluzionaria era precipitata in una guerra civile, con gli anti-bolscevichi appoggiati dalle potenze occidentali. In Germania e Ungheria sorsero movimenti comunisti che avrebbero

voluto ricalcare il modello bolscevico, come quello spartachista di Rosa Luxemburg, poi represso nel sangue.

In Italia c’era stato il biennio rosso nelle fabbriche del nord, ma nel contempo la fondazione dei primi fasci di combattimento a Milano e la spedizione di Fiume organizzata da reduci e dal vate, il poeta-soldato Gabriele D’Annunzio.

Insomma, una guerra dopo la guerra, come ha definito questo periodo lo storico Robert Gerwarth nel saggio La rabbia dei vinti. D’altra parte Versailles apre il secolo americano: l’Europa non è più l’epicentro dell’ordine mondiale.

La conferenza di Versailles

Alle porte di Parigi si riunirono nel 1919 i rappresentanti delle potenze vincitrici della grande guerra, tra cui i dirigenti dei quattro stati principali: Wilson per gli Stati Unti, Lloyd George per il Regno Unito, Clemenceau per la Francia e Orlando per l’Italia. Fu soprattutto la Francia, sull’onda di un radicato risentimento revanscista, a voler imporre alla Germania un pesante fardello di risarcimenti, le cosiddette riparazioni di guerra. Inoltre le potenze vincitrici imposero alla Germania di ridurre all’essenziale l’esercito, le navi da guerra, e di rinunciare alle colonie.

Un fardello che l’economista ingle-

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se John Maynard Keynes, presente alla conferenza come rappresentante del Tesoro inglese, ritenne inapplicabile, ingiusto e irrealistico, giacché avrebbe piegato l’economia tedesca per decenni e alimentato una nuova ondata di risentimenti anti-francesi, cosa che puntualmente avvenne. Di questa sua esperienza ci ha lasciato un li-

bro diventato celebre e ancora oggi citatissimo: Le conseguenze economiche della pace.

Distensione e riconciliazione

La Svizzera era consapevole di dover contribuire in un modo o nell’altro all’opera di pacificazione nel Continente attraverso i suoi buoni uffici.

Nel 1920 anche questa piccola Repubblica nel cuore dell’Europa aveva deciso, pur tra molti dubbi, di aderire alla Società delle Nazioni, con la riserva di agire sotto uno statuto particolare, noto come neutralità differenziata. Insomma, neutralità non doveva significare disimpegno, ma partecipazione attiva alla ridefinizione della geopolitica continentale. Di qui la scelta di Locarno, retta da un sindaco, Giovan Battista Rusca, che non faceva mistero delle sue convinzioni europeiste. Alla metà di ottobre del 1925 convennero dunque nella cittadina sul Verbano i principali ministri degli esteri: il francese Aristide Briand, il tedesco Gustav Stresemann e l’inglese Austen Chamberlain. Per l’Italia giunse Benito Mussolini, con l’intenzione di contrastare l’eventuale annessione dell’Austria da parte della Germania e di consolidare la frontiera del Brennero.

Cuore del Trattato fu la smilitarizzazione della regione renana, in particolare la rinuncia, da parte della Germania, ad annettersi l’Alsazia-Lorena, la regione che fin dall’Ottocento era sempre stata al centro di una mai sopita contesa. Il trattato prevedeva inoltre l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni, cosa che avvenne nel 1926. Insomma, mai più guerre lungo il Reno tra la Germania e Francia/Belgio, con la Gran Bretagna e l’Italia nella funzione di garanti e di arbitri in caso di controversie (Patto renano).

«Esprit de Locarno» divenne dunque sinonimo di distensione e riconciliazione tra potenze che pochi anni prima si erano scannate nelle trincee. Tutti e tre i protagonisti ricevettero in seguito il Nobel per la pace.

Solamente un’illusione

Sull’importanza del Patto gli storici esprimono pareri divergenti. In molti manuali scolastici il patto di Locar-

no non è neppure citato. Questo perché quella fase di pacificazione è stata giudicata effimera, un’illusione, una luce che si spense ben presto dentro un nuovo groviglio di tensioni. Per altri fu invece un passo necessario, seppure provvisorio, sulle vie della pace in un Continente in cui la guerra aveva lasciato tracce profonde: morti, devastazioni, città distrutte, il diritto internazionale calpestato, com’era stato il caso per il Belgio. Recuperare al concerto delle Nazioni la bellicosa Germania fu fondamentale, anche se poi le cose presero un’altra piega dopo la caduta della Repubblica di Weimar nel gennaio del 1933. Ricorda Ian Kershaw nel suo vasto affresco All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949: «…il miglioramento della situazione internazionale creato dallo “spirito di Locarno” permetteva agli europei di sperare in una pace duratura. I francesi erano soddisfatti: adesso la Gran Bretagna garantiva formalmente la loro sicurezza. Per Briand era questo il guadagno essenziale. La Gran Bretagna salutò con favore la distensione e la limitazione delle sue future responsabilità in Europa alla frontiera del Reno. Per Stresemann, Locarno era una tappa indispensabile verso l’obiettivo di più lungo periodo della rinascita della Germania». In sintesi si può dire che il successo prima e l’eclisse poi di Locarno coincisero con la parabola della Società delle Nazioni. Ma in quel momento non si pensava che l’Europa sarebbe precipitata in una nuova e ancor più terribile catastrofe mondiale.

Tra una guerra e l’altra

Riaccogliere la Germania nel novero delle Nazioni civili dopo le atrocità belliche non era scontato. I vincitori, con in testa la Francia, avevano le loro buone ragioni per escluderla dai Paesi civilizzati e per metterla in ginocchio imponendole pesanti sanzioni. A Versailles era prevalsa la linea inflessibile, punitiva. Ma anche l’Italia era scontenta per come erano state accolte le sue rivendicazioni sull’Istria e la Dalmazia. Superare tutti questi interessi e propositi vendicativi non fu facile e molte questioni rimasero irrisolte sul tavolo delle trattative. Una su tutte: le agitazioni che stavano lacerando la fragile Repubblica di Weimar e che qualche anno dopo avrebbero portato i nazisti al potere.

Nepal, futuro cercasi

Il

punto ◆ La rivolta

dei giovani e il ruolo di India, Cina e Stati Uniti

Si chiama Sushila Karki, ha 73 anni, è stata fino all’altro ieri presidente della Corte Suprema e adesso è entrata di diritto nella storia del Nepal. Ha infatti giurato come prima ministra ad interim, diventando la prima donna a guidare la povera Nazione himalayana: un traguardo che in tempi normali sarebbe stato celebrato come una tappa fondamentale del percorso democratico del Paese ma che è invece stato offuscato dalle circostanze della nomina della leader.

Avvenuta dopo giorni di sanguinosa rivolta che hanno costretto l’ex primo ministro Sharma Oli alle dimissioni, la rivolta, in cui hanno perso la vita decine e decine di persone, e che ha lasciato sul campo centinaia di feriti, faceva seguito a una protesta di massa scatenata dalla decisione del Governo di vietare Facebook, X, YouTube, Instagram e tutte le altre principali piattaforme social. Il divieto, pensato per soffocare il dissenso, ha avuto l’effetto opposto: ha incendiato le piazze e portato per le strade migliaia di giovani. La cosiddetta Generazione Z, che guarda il mondo attraverso lo schermo dei cellulari mentre è costretta a vivere in un Paese dominato da una classe politica in media ottuagenaria, in un clima di corruzione, censura e clientelismo.

La protesta è rapidamente degenerata. Manifestanti che assaltavano il Parlamento, edifici governativi dati

alle fiamme, case di politici devastate. Il Governo ha usato il pugno di ferro: coprifuoco nazionale, l’esercito inviato nelle strade, carri armati a presidiare i quartieri della capitale. Kathmandu, illuminata a giorno dalle fiamme, è diventata un campo di battaglia, mentre i feriti si contavano a decine e poi a centinaia. Il quadro oggi è quello di una città in stato d’assedio. L’esercito ha istituito posti di blocco ovunque, decine di persone sono state arrestate per saccheggi, centinaia di armi sequestrate. Ma tra le macerie c’è anche chi reagisce in altro modo: e si vedono nella capitale schiere di ragazzi con mascherine e guanti, sacchi della spazzatura in mano, che ripuliscono le strade dai resti degli incendi. Una fragile speranza, ma che restituisce un’idea di futuro possibile.

Karki arriva dunque al potere in un contesto che più precario non si può. Come prima donna premier del Nepal rappresenta una rottura in un contesto politico e culturale profondamente patriarcale. È considerata una figura di rigore, famosa per le sue sentenze contro la corruzione, e proprio questo l’ha resa accettabile ai leader della protesta, che hanno riconosciuto la sua credibilità come figura esterna alla classe politica screditata. E tuttavia, la prima donna a guidare un Governo nepalese si trova davanti a un’impresa titanica: riportare la calma nelle strade, dialogare con una generazione che

non vuole compromessi e ricostruire la fiducia in istituzioni che hanno perso ogni credibilità tradendo più volte le aspettative dei cittadini. Soprattutto dei più giovani. A spingere in piazza i ragazzi, difatti, non è stato l’oscuramento dei social media, o almeno non soltanto. In piazza è esplosa la rabbia di una generazione che sfugge a tutte le categorie fino ad oggi conosciute e presenti sulla scena politica del Paese himalayano. I ragazzi che urlano la loro rabbia per strada non sventolano né il libretto rosso di Mao né le bandiere monarchiche, come è accaduto in passato. Non si riconoscono in nessuna categoria ideologica. Non hanno agende politiche di alcun genere ma smartphone. I loro slogan non riguardano un’ideologia, ma la dignità personale: la fine della corruzione, della censura e di un’élite politica che si arricchisce mentre i giovani sopravvivono grazie alle rimesse dall’estero. È una rivolta sociale, guidata da studenti e lavoratori che usano i social come arma e chiedono rispetto. Karki, con la sua credibilità di outsider, ha una chance unica per tentare una mediazione. Ma il suo Governo ad interim nasce fragile e, senza riforme concrete, rischia di passare alla storia soltanto come un gesto simbolico. Mentre Kathmandu brucia, i riflettori dei vicini non restano certo spenti. Il Nepal è piccolo, ma la sua posizione tra India e Cina lo rende strategi-

camente cruciale. L’India guarda con ansia a quello che accade oltre il confine aperto: teme che l’instabilità possa contagiare Bihar e Uttar Pradesh, ma al tempo stesso fiuta l’occasione di riportare Kathmandu nella sua orbita politica. La Cina, che ha investito miliardi in infrastrutture e progetti idroelettrici, teme per i suoi cantieri e diffida profondamente dei movimenti giovanili. Gli Stati Uniti, meno esposti di India e Cina, non hanno in Nepal interessi vitali né urgenti, ma l’instabilità del Paese non li lascia indifferenti.

Washington guarda a Kathmandu soprattutto come a un tassello nella competizione con la Cina. Da questo punto di vista, la crisi può persino trasformarsi in un’opportunità: costringe India e Cina a tenere lo sguardo rivolto alle montagne nepalesi e offre agli Stati Uniti la possibilità di proporsi come garanti di una transizione democratica senza dover correre i rischi di chi è in prima linea.

Per Washington, insomma, il Nepal non è una priorità, ma può diventare una leva utile nella partita indo-pacifica. Tutti sanno che il Nepal non è un semplice puntino sulle mappe: è un cuscinetto, un corridoio, una pedina che può cambiare equilibri. Per questo ciascun attore regionale cerca di tirare il Paese dalla propria parte, mentre la strada interna resta incerta. La nomina di Sushila Karki a prima donna premier del Nepal è di per sé una rottura con il passato. Ma se diventerà o meno una pietra miliare nel rinnovamento democratico dipenderà da ciò che seguirà. Di certo, Katmandu è a un bivio. Può scivolare di nuovo nella stagnazione autoritaria o aprire finalmente un capitolo nuovo. E l’immagine che resta, alla fine, è quella dei ragazzi che raccolgono le macerie a mani nude: la generazione che ha incendiato le piazze ora prova a pulire le strade. Da quel gesto, fragile e potente, potrebbe ripartire il futuro del Paese.

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Volontari ripuliscono le macerie dopo le proteste. (Keystone)
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Il Mercato e la Piazza

Attenzione al debito pubblico

Il 31 dicembre 2025 scade il termine per il raggiungimento del pareggio nel conto economico del Cantone che era stato fissato dal cosiddetto Decreto Morisoli. Non è cosa da poco. La finalità del decreto era infatti stata approvata dal Gran Consiglio nel 2021 e dalla maggioranza degli elettori in votazione popolare nel 2022. È facile oggi, a pochi mesi dalla scadenza, profetizzare che il pareggio nel conto economico quest’anno non sarà raggiunto. Infatti, a fine agosto, il Cantone prevedeva, per il 2025, un deficit vicino ai 50 milioni di franchi. Stando al Piano finanziario, il pareggio non sarà raggiunto nemmeno l’anno prossimo, né nei due anni successivi. Del resto, che la finalità del pareggio non sarebbe stata raggiunta, Morisoli l’aveva già anticipato lo scorso anno con un’iniziativa parlamentare che ne rimandava l’attuazione di due anni,

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alla fine del 2027, dimostrando così di essere in grado di valutare quanto grandi siano oggi, per il nostro Cantone, gli sforzi che occorrerà fare per riassestare il suo conto economico. Il pareggio del conto economico non è però un obiettivo impossibile da ottenere, lo dimostra l’evoluzione delle finanze dell’ultimo secolo. In effetti nei 100 conti economici del periodo tra il 1925 e il 2024 deficit ed eccedenza positiva si tengono la mano: il conto di esercizio si è chiuso 52 volte in deficit e 48 in attivo. Ancora più interessante è il fatto che il rapporto tra esercizi con eccedenze attive e esercizi con deficit è uguale sia per il periodo 1925-1974 che per i cinquant’anni successivi: sempre 26 esercizi passivi contro 24 esercizi attivi. Nel lungo termine vi è dunque un’alternanza di situazioni finanziarie deficitarie, con situazioni finanziarie in attivo. Non si tratta naturalmente

di una legge, ma di dati che emergono dall’esperienza di un secolo di storia delle finanze cantonali. Si tratta di dati che ci consentono di affermare che i responsabili delle finanze cantonali che si sono succeduti alla testa del Dipartimento delle finanze negli ultimi 100 anni, da Giuseppe Ciani a Christian Vitta, hanno sempre perseguito la finalità del pareggio del conto economico, anche se alcuni di loro non sono riusciti ad ottenerla durante la loro permanenza in Governo. Perché non sono stati capaci di conseguirla? Perché durante il loro periodo di permanenza in Governo le entrate dello Stato sono aumentate in misura minore delle uscite. Siccome l’evoluzione delle entrate è strettamente correlata con quella del Prodotto interno lordo, il Cantone si trova in deficit quando le sue spese aumentano più rapidamente del rit-

Trump e la tensione che pervade l’America

La storia americana sembra davvero aver preso una piega terribile. Donald Trump è sfuggito alla morte nell’estate scorsa, e ha riconquistato la Casa Bianca. Charlie Kirk, suo sostenitore, quasi sconosciuto in Europa ma molto popolare in America, è stato assassinato. Il presidente degli Usa manda l’esercito a presidiare le città governate dai democratici, e accusa gli avversari di fomentare l’odio. Il vecchio Bernie Sanders ha pronunciato parole di condanna ferma per l’omicidio di Kirk. Come dargli torto? L’omicidio è sempre il delitto più terribile che si possa commettere. L’omicidio politico è, se possibile, ancora più grave, perché si uccide un uomo per ucciderne le idee, che semmai finiscono per esserne rafforzate. Proprio quello che accadrà con l’assassinio di Kirk; tanto più che una parte della cultura «woke» che lui intendeva combattere sta reagendo esattamente secondo lo schema dei suoi avversari: se non rallegrando-

Zig-Zag

si, giustificando la violenza. In effetti fa impressione il video in cui Kirk dice che vale la pena pagare il prezzo di qualche assassinio pur di garantire agli americani il diritto di portare armi... In ogni caso quelli che la pensano come Kirk sono da oggi ancora più convinti e motivati. Per combattere quelle idee occorre essere fermi sia nella denuncia della violenza, da qualunque parte arrivi. La violenza politica non porta mai risultati. Soprattutto se esercitata in nome di quei diritti di libertà e di uguaglianza che vanno difesi, non di certo con le armi. Se poi davvero il killer ha inciso «Bella ciao» sulla pallottola, è vergognoso che abbia commesso un crimine in nome di un’idea e di una canzone che in Europa ha sempre celebrato la liberazione, la democrazia, la pace, la libertà, e quindi la fine della guerra, della dittatura, dell’oppressione, della violenza. La situazione è surreale. A destra hanno accostato Charlie Kirk a

Martin Luther King. Ma King era il leader del movimento per i diritti civili dei neri, uno dei capi più importanti della politica americana del Novecento. Portò 250 mila persone a Washington e disse: «I have a dream». Era il 28 agosto 1963. Meno di tre mesi dopo veniva assassinato a Dallas, Texas, il presidente Kennedy. L’anno dopo il suo successore Lyndon Johnson fece approvare il «Civil Rights Act», che poneva fine alla segregazione, e osservò: «Ci siamo giocati il sud». Johnson era texano. La sua intuizione era giusta. Il sud si spostò a destra.

L’assassinio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968, chiuse una stagione. King era un leader non violento, sosteneva la causa dell’integrazione. I radicali – non Malcolm X, che era stato ammazzato tre anni prima – approfittarono della sua morte per sostenere che la non violenza e l’integrazione erano impossibili. Seguirono anni di rivolte, di duri scontri e di vittorie

Saremo scalpellini del nostro futuro?

Scendo raramente in città. L’ultimo richiamo è stato quello dell’Angelo barbiere che ha la pazienza di «farmi sembrare» il detective Gibbs, perlomeno nel taglio dei capelli. Andando da lui ho scoperto che con l’estate se n’è andata anche la sede dell’ex-Credito Svizzero di via Vegezzi. Guardo la facciata spoglia e le vetrine incartate e cerco di superare il momento di tristezza che mi piomba addosso riandando al passato di quei muri: al mitico «Bankverein» che custodiva (leggenda metropolitana) la tonnellata d’oro dei Marzotto e al mai emulato Bar Lugano dove banchieri e bancari iniziavano la «movida» che poi sfociava in Piazza della Riforma. Nei pensieri arriva però anche la spirale che si innesta non appena locali di importanti edifici dei centri cittadini rimangono vuoti per più mesi: anche negozi o locali pubblici contigui o vis-à-vis a quelli chiusi vengono pe-

nalizzati. Nelle grandi città poi, può scattare un effetto domino che progressivamente interessa interi quartieri generando nuovi flussi pedonali e spostamenti di affittuari verso altri poli, condizionando pesantemente scelte imprenditoriali e investimenti immobiliari. Abbiamo fatto talmente il callo alle riapparizioni di questi ingombranti e desolanti vuoti urbani, che non ci accorgiamo nemmeno più di essere portati a minimizzare di riflesso altre singole e lodevoli iniziative, a trascurare il coraggio di chi – come la banca privata ginevrina Gonet, forte della sua secolare tradizione e inserita in un importante gruppo finanziario – sceglie di insediarsi a Lugano nonostante questo clima. Il pessimismo avvertito in via Vigezzi mi ripiomba addosso nei giorni successivi seguendo una quasi surreale serie di «sogni» innescati dai media su progetti e proposte urbane della cit-

mo con il quale cresce il Pil. In questi casi il Cantone spende più di quanto potrebbe spendere e, di conseguenza, si indebita. Purtroppo, negli ultimi 30 anni, il debito pubblico del nostro Cantone è aumentato molto rapidamente: da 360 milioni nel 1990 è salito, nel 2024, a 2600 milioni, con un tasso di crescita annuale medio pari a circa il 6%. Di conseguenza è cresciuto anche il rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo. I dati a disposizione consentono solo di fare una stima grossolana di questa evoluzione. Stando alla stessa l’incidenza del debito pubblico nel Pil del Cantone sarebbe salita, dal 1990 al 2024, dal 4,5 al 6,9%. Se teniamo presente che l’Unione europea ha fissato per questo rapporto, nel trattato di Maastricht, un limite pari al 60% non ci sarebbe quindi niente di cui preoccuparsi. Per avere un’idea più precisa della realtà dell’in-

debitamento pubblico andrebbero però aggiunti, alle percentuali di cui sopra, quella del debito pubblico dei Comuni ticinesi nonché la quota-parte del Ticino nel debito pubblico della Svizzera. Arriveremmo probabilmente a un valore del rapporto vicino al 20%. Una situazione in un certo senso «tranquilla». Esistono però due motivi per preoccuparsi. Il primo è dato dal fatto che il debito pubblico cantonale cresce più rapidamente del Pil, il che significa che il valore del rapporto di cui sopra tenderà ad aumentare. Il secondo è che questo aumento incrementa la somma degli interessi passivi nel conto di esercizio del Cantone. In Ticino il debito pubblico del Cantone si raddoppia attualmente ogni 12 anni. Ogni 12 anni, con tassi di interesse costanti, si raddoppia anche il montante degli interessi passivi. Non ci vorrà molto perché sorpassino i 100 milioni.

elettorali della destra. Il clima di tensione e di violenza politica quasi sempre genera svolte d’ordine. Ed è possibile che accada così anche adesso. Di sicuro Trump ci spera. Lui ha bisogno della tensione. Ha bisogno del nemico. La sua leadership segna un cambiamento anche antropologico nella destra americana. Il suo modello non è mai stato Bush, Reagan, Nixon o Eisenhower. Il suo modello è Hulk Hogan, il re del wrestling; non a caso Hogan è stato un grande sostenitore di Trump, sino alla morte, avvenuta nel luglio scorso. Ho seguito molti comizi di Trump (più che comizi si trattava di show), in cui ripeteva da una parte che l’America non è mai stata tanto forte, ricca, potente nella storia... Eppure l’America è in pericolo: deve essere protetta. Tutta la sua politica va letta come un’alternanza tra orgoglio e paura, tra senso di superiorità e allarme per l’impoverimento della classe media, la perdita di sovranità a favore

del mondo globale. Sentimenti estranei all’élite che studia, viaggia, compete con l’estero, ma vivi nelle classi popolari, in particolare i bianchi. Uno dei passatempi del presidente americano è sedurre le donne degli amici. Un giorno, in viaggio sull’aereo privato con un miliardario e una modella, propose di scendere ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. Seccato, l’amico rispose che ad Atlantic City non c’era niente da vedere: solo «white trash», spazzatura bianca. «Cosa vuol dire white trash?» chiese la modella. «Sono quelli come me – rispose Trump – solo che loro sono poveri». Quanto può durare una leadership che si basa sulla tensione? Molto, se questa tensione viene di continuo alimentata. Compito che spesso tocca all’erede designato, il vicepresidente J.D. Vance. Mentre i democratici appaiono in grande difficoltà, divisi tra radicali, riformisti e privi di un leader emergente.

tà sul Ceresio. Sia detto subito: poco o niente di ufficiale, progetti più privati e personali che pubblici, comunque supportati da evidenti posizioni politiche oltre che da mirabolanti «rendering». Al «sogno» di un teatro con la T maiuscola (solito parallelepipedo aggiunto al complesso del Lac) fa seguito la proposta di un diritto di superficie per l’ex padiglione Conza, che consenta a iniziative private di collaborare nel realizzare il «sogno» del futuro polo turistico, mandando in pensione il Palacongressi. Diritti di superficie? Subito la cucina mediatica sforna il «sogno» di un mega-parco talmente verde e grande da sdoganare anche un nuovo grattacielo. Altra precisazione: quello di affidare i «sogni» del proprio futuro all’edilizia e a progetti immobiliari non è solo un vezzo di Lugano. Anche la capitale ci prova ballando tra la riqualifica e valorizzazione delle ex-officine FFS e il nuo-

vo ospedale delle Semine, con sosta all’immancabile polo sportivo. Anche altri centri abbinano riconversioni di immobili e zone dismesse con progetti ambiziosi che spesso ravvivano rivalità, soprattutto laddove i sogni solleticano concorrenze. La lista dei grandi edifici vuoti (privati e pubblici), che ormai servono praticamente solo a suggerire, chiedere, lanciare periodici nuovi «sogni», esiste da decenni ed è lunghissima: va dall’Alto Ticino sino al Mendrisiotto, comprende i sempiterni ex-sanatori in montagna, tocca ex-officine, arriva a ex-banche e centri commerciali moderni ma già dismessi o mai avviati, tutti in attesa di riconversioni, decisioni politiche o progetti immobiliari, tutti con la speranza di ritrovare investimenti attesi da troppo tempo, quindi sempre più riconducibili a benessere che si sfarina, a casse pubbliche che languono, a coraggio politico che manca.

Dieci anni fa in questa stessa rubrica avevo parlato di una lunga intervista, apparsa sul «Tages Anzeiger», di Ludwig Hasler, filosofo e pubblicista svizzero-tedesco. Nell’intervista egli evocava un apologo incentrato sulle risposte di tre scalpellini, impegnati cento anni fa a rompere sassi: alla domanda su cosa stessero facendo, «Io spacco pietre» dice il primo; «Io mi guadagno il pane» risponde il secondo; «Io contribuisco a edificare una magnifica nuova cattedrale nella nostra città» è la risposta del terzo. Temo che quel terzetto stia diventando una rappresentazione dei ritardi, delle debolezze e dei «sogni» della nostra classe politica. Sembra dirci che, nonostante siano passati cento anni, il Ticino dovrà continuare a picchiare sui sassi per spaccarli e per guadagnare il pane, prima di diventare scalpellino di nuove cattedrali, cioè del proprio futuro.

di Angelo Rossi
di Aldo Cazzullo
di Ovidio Biffi

Addolcisci il tuo autunno

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CULTURA

Poi Laurel incontrò Hardy

A torte in faccia, seppero diventare Stanlio e Ollio: mitiche icone di una comicità infantile e gentile

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Da Parma a San Pietroburgo

In un podcast Paolo Nori unisce vita quotidiana, grandi romanzi e aneddoti curiosi legati alla Russia

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In memoria di Simoncelli Da Via dei Platani fino a Visite notturne, la sua scrittura ha dato voce a presenze fuggevoli e amate

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Le nuove sfide di un’arte millenaria

Donetta Vintage a Corzoneso Alla Casa Rotonda, immagini inedite del Rubertùn e il lavoro di recupero di Alberto Flammer

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Mostre ◆ Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto una collettiva mette in luce come la ceramica contemporanea svizzera sappia fondere memoria antica e linguaggi innovativi

Alessia Brughera

La storia della ceramica affonda le sue radici nelle prime civiltà umane. Materiale semplice e duttile, l’argilla è stata uno dei primi elementi che hanno dato vita a oggetti di uso quotidiano nonché una delle più antiche forme di espressione artistica.

Dopo aver accompagnato per secoli e secoli le vicende dell’uomo, negli ultimi tempi la ceramica è stata spesso confinata nella sfera dell’utilità pratica piuttosto che includerla in un ambito prettamente creativo. Eppure negli ultimi anni essa sta vivendo una nuova primavera all’interno dell’universo dell’arte, diventando protagonista del mercato e di numerose mostre allestite in gallerie private e in spazi pubblici. Il risveglio dell’interesse nei suoi confronti e della sua legittimazione come linguaggio artistico autonomo può essere ricondotto al bisogno di tangibilità, in contrapposizione all’inesorabile dilagare della produzione digitale e tecnologica. Proprio l’incontro tra questa tecnica ancestrale e le necessità del presente, dunque, ha dato origine a una dimensione espressiva in cui l’esperienza tattile riconquista il ruolo perduto nel nostro vivere quotidiano.

La ceramica è divenuta così una delle risposte umanistiche più significative per arginare l’invasione della virtualità, trasformandosi da pratica artigianale intrisa di un sapere tradizionale considerato desueto a medium privilegiato per numerosi artisti desiderosi di recuperarne l’arcaica valenza estetica opportunamente aggiornata alla temperie odierna. Non a caso uno degli storici dell’arte più stimati, il tedesco Hans Belting, scomparso due anni fa, aveva individuato nella fisicità dell’argilla una sorta di «resistenza ontologica» all’evanescenza del contemporaneo.

A questa ricerca di concretezza si aggiunge anche la diffusa esigenza tra gli artisti di oggi di connettersi alla natura, instaurando con essa una profonda unione sensoriale. Il legame tra la ceramica e la madre terra è intrinseco e la conversione dell’argilla in una forma d’arte per mano dell’uomo racchiude la bellezza e la potenza di un contatto primordiale con il suolo che celebra il creato e le sue infinite potenzialità.

La ceramica contemporanea, in virtù della sua capacità di ricongiungere l’individuo alla materialità del mondo attraverso un atto trasformativo, reinventa così un’arte millenaria, mescolando pensiero e manualità, riprendendo gesti mai dimenticati che appartengono all’alba dell’umanità e plasmando nuove immagini che raccontano le nostre origini.

Quanto l’arte della ceramica sia un affascinante terreno di sperimentazione all’insegna del connubio tra storia e innovazione lo dimostra la rassegna

allestita negli spazi del Museo Vincenzo Vela di Ligornetto, un’esposizione pensata proprio per documentare la fertilità espressiva di questo medium che ben si presta a declinarsi in forme, tecniche e significati inediti.

La mostra è nata in collaborazione con swissceramics, Associazione Svizzera della Ceramica fondata nel 1959 con l’obiettivo di riunire i professionisti del mestiere provenienti da tutto il territorio elvetico, e accoglie i lavori di venticinque ceramiste e ceramisti selezionati da una giuria composta da cinque membri, tra cui il curatore della rassegna Hanspeter Dähler. Lasciati liberi di esplorare i contenuti a loro più congeniali, gli artisti (per la maggioranza donne) hanno dato vita a opere ispirate ora alle fogge embrionali della ceramica ora alla figura umana o ai modelli dell’architettura, interpretando con un piglio vivido e perspicace non solo alcune delle questioni più stringenti dell’epoca contemporanea, come la sostenibilità ambientale, il consumismo e la relazione

tra uomo e natura, ma anche tematiche riguardanti la valenza metaforica e la dimensione poetica degli oggetti, il legame fra realtà e simbolo, il portato della memoria e del ricordo, nonché le componenti specifiche del lessico artistico, come la materia, la forma, il colore e la superficie. Tra i lavori che denotano una profonda riflessione sul nostro rapporto con la natura risulta interessante quello di Piera Buchli: esponendo le sue opere alla pioggia prima della cottura, l’artista ha lasciato che la loro superficie venisse plasmata dalla diversa intensità delle gocce, in un intreccio silenzioso ma intenso tra esecuzione scultorea e ambiente circostante. Emblematiche poi di un approccio al fare arte comune a tutti i ceramisti presenti in mostra, molto attenti alla riduzione dell’impatto umano sull’ecosistema, sono le creazioni di Sonia Décaillet, che ha realizzato alcuni recipienti utilizzando i resti di argilla, ingobbio e smalto accumulati per anni; residui, questi, che hanno dato vita a nuovi

Simona Bellini, La luce della vita, 20222024, paper porcellana; legno, tubi di ferro, luci Led. (Simona Sala)

oggetti dall’impasto «impuro» carico però di memorie e di emozioni.

Pregna di lirismo e della potenza vivificante della luce è l’installazione di Simona Bellini, un inno alle meraviglie del creato e ai ritmi imperturbabili della natura, mentre intrisa di ironia nei confronti della società odierna è Copper bag di Maude Schneider, duplicato in ceramica di uno degli oggetti simbolo del consumismo sfrenato. Fra le tendenze della ceramica contemporanea si scopre anche che permane ancora la tradizionale rappresentazione plastica di figure umane. È il caso di Doris Althaus, che nella sua opera dal titolo Storytelling effigia a tutto tondo due personaggi femminili racchiudendo mistero, sentimento e una certa austerità di stampo classicista.

Un altro tema, quello dei luoghi e degli spazi che fanno parte della nostra vita e che spesso sono indissolubilmente legati a ricordi ed esperienze, è trattato, tra gli altri, dai lavori di Lea Georg, le cui composizioni, ogni volta

ricostruite in strutture sempre diverse, fanno riflettere sui paesaggi urbani in costante trasformazione. Attente invece agli elementi essenziali dell’opera d’arte sono le creazioni di Laurin Schaub, Angela Burkhardt-Guallini, Suzy Balkert e Margareta Daepp, tutte artiste che si muovono in ambito minimalista, assemblando le forme attraverso piccole unità, esplorando le tensioni tra equilibrio e dinamismo degli oggetti o giocando con figure e ornamenti elementari che danno origine a combinazioni dall’armonia dal sapore orientaleggiante.

In parallelo alla mostra collettiva, Ligornetto ospita una rassegna di Valentina Pini, artista ticinese che condivide con il gruppo di ceramisti l’assidua sperimentazione della materia, nel suo caso il silicone, la cera, i pigmenti e le sostanze organiche. Caratteristica della ricerca di Pini è difatti l’indagine della fisicità dei materiali, della loro dimensione simbolica e della loro attitudine alla trasformazione al fine di generare nuovi sensi e significati. Tra le fotografie, le sculture e le installazioni radunate per l’esposizione, l’opera dell’artista che più coinvolge lo spettatore e che più dialoga con la collezione del museo è Der Ritter, un video ispirato al monumentale modello in gesso di Vincenzo Vela che raffigura Carlo II, duca di Brunswick, eccentrico personaggio storico con l’ossessione per il potere e per l’immortalità. Pini si confronta con questa scultura realizzando un filmato che mostra una marionetta, esplicitamente riferita al duca e alla sua statua equestre, collocata su un cavallo stilizzato i cui movimenti rigidi sono accompagnati da una colonna sonora acustica che amplifica la scena farsesca: il fantoccio diventa così una caricatura delle ambizioni di dominio e di gloria imperitura, sollevando riflessioni sulla transitorietà, sulla memoria e sull’inconsistenza delle brame umane.

Dove e quando Swissceramics. Uno sguardo sulla ceramica svizzera contemporanea. Museo Vincenzo Vela, Ligornetto. Fino all’11 gennaio 2026. Orari: da martedì a venerdì: giugno-settembre 10-18, ottobre-gennaio 10-17; sabato e domenica 10.00-18.00; lunedì chiuso. www.museo-vela.ch Visite guidate pubbliche: mostra Swissceramics: domenica 28 settembre 2025 ore 11.00 con Hanspeter Dähler in lingua francese; mostra Valentina Pini: domenica 19 ottobre 2025 ore 11.00 con Raphael Gygax in lingua francese.

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La lenta comicità che conquistò il mondo

Vite da ridere (o quasi) ◆ Stan Laurel e Oliver Hardy sono considerati la coppia comica per eccellenza: nonostante le loro fragilità, cambiarono il cinema per sempre

Nei primi anni Venti, quando il cinema muto viveva il suo momento di massimo splendore, Stan Laurel e Oliver Hardy non erano ancora «Stanlio e Ollio», o meglio «Mr Laurel & Mr Hardy» (usando i loro veri nomi avevano sperato di legare indissolubilmente a sé il doppio artistico). Uno era un inglese mingherlino, figlio di un impresario teatrale, con un talento mimico affinato nei music-hall e nella compagnia di Fred Karno, la stessa in cui era esploso Charlie Chaplin, di cui Stan diventerà presto il sostituto di scena (si dirà in seguito che Chaplin ne temeva a tal punto il talento che, nonostante condividessero tutto nelle tournée, quando andò a cercare fortuna a Hollywood, nonostante le promesse, non lo richiamò mai a lavorare con lui).

L’altro era un ragazzo della Georgia, robusto e appassionato di canto e golf, che aveva trovato nel cinema comico una via per trasformare la propria mole in una risorsa espressiva. Due destini paralleli, che si sarebbero incrociati quasi per caso negli studi di Hal Roach, per dare vita alla coppia comica più amata di tutti i tempi.

La loro è una storia di amicizia e di arte comica che per anni ha nascosto dietro le risate, le gag e le torte in faccia, vite attraversate da fragilità, ostacoli e malinconie

Il loro debutto ufficiale come duo risale al 1927 con Putting Pants on Philip, ma è con The Battle of the Century che la coppia imprime al cinema una delle sue immagini immortali: la più grande battaglia di torte in faccia mai vista. Non era solo una gag, ma la dichiarazione d’intenti di due comici che stavano inventando un nuovo ritmo per la risata, lento e compassato, lontano dalla frenesia delle comiche slapstick Una lentezza che diventò il loro marchio di fabbrica e che permise loro di attraversare senza traumi la rivoluzione del sonoro.

Perché Stanlio e Ollio sopravvissero dove altri giganti – come Buster Keaton – crollarono? La risposta sta nella natura stessa della loro comicità: non dipendeva dalle parole, ma dai gesti, dalle pause, dalle espressioni. Il celebre «camera look», lo sguardo in

camera di Ollio, il pianto inconsolabile di Stanlio, le reazioni a scoppio ritardato, i piccoli riti gestuali: tutto contribuiva a creare un universo comico coerente e riconoscibile, in cui il sonoro aggiungeva solo una nuova tavolozza.

La loro prima prova «parlata», Unaccustomed As We Are (1929), ne è la prova lampante: le parole non stravolgono nulla, semplicemente si incastrano in un ritmo già perfetto. Ma con un quid in più, in effetti: contrariamente a molte altre star del cinema muto, le voci di Stan e Oliver corrispondevano alla psicologia dei loro personaggi, da baritono con forte accento britannico quella di Stan, melodiosamente tenorile con inflessioni da gentiluomo del Sud quella di Oliver (l’opposto di quelle dei doppiatori italiani!).

La coppia, amatissima dal pubblico, era in realtà anche un prodigio di

equilibrio umano. Stan era l’instancabile architetto delle gag, un perfezionista che passava ore in sala di montaggio o nelle riunioni con i gag-man; Oliver – ricreando in questo un rapporto pressoché identico con la successiva coppia comica Lewis e Martin – era più interessato al golf che al lavoro, trovava nel partner la guida ideale. La loro amicizia fu il segreto della loro longevità artistica: mai un litigio serio (qui la vera grande differenza relazionale con Lewis & Martin…), mai un tradimento reciproco. Quando Hal Roach cercò di dividerli, licenziando Stan, o quando Hollywood cambiò pelle, i due rimasero uniti.

Eppure non mancarono le difficoltà. I rapporti con i produttori furono spesso burrascosi (soprattutto tra Stan e Roach), il loro rapporto con le donne divenne sfibrante con effetti negativi sul loro lavoro (sette matrimo-

ni con cinque donne per Stan e «solo» tre matrimoni, per Ollio, con conseguenti tensioni e fiumi di denaro in mantenimento) negli anni Quaranta che segnarono il declino della loro carriera cinematografica. Ma proprio allora Stanlio e Ollio si reinventarono come teatranti, trovando in Europa un pubblico entusiasta che li accolse come eroi.

Nel 1932 e poi nel Dopoguerra, le folle li seguirono ovunque: segno che i due clown non appartenevano solo a un’epoca, ma a una dimensione universale della risata. Soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, quando i due si ritenevano ormai acqua passata, scoprire durante le tournée teatrali quanto fossero in realtà ancora amati, li rinfrancò non poco. Non solo: furono proprio le tournée a trasformarli da ottimi compagni di lavoro in amici per la pelle.

Gli ultimi anni furono però più malinconici: malattie, difficoltà produttive e l’ultimo film, Atollo K, che non rese giustizia al loro talento (usando un eufemismo). Oliver morì nel 1957, dopo una lunga malattia; Stan lo seguì otto anni dopo. Ma fino alla fine continuò a ricevere fan a casa sua, rispondendo al telefono a chiunque lo chiamasse, come si fa con un vecchio amico.

Oggi Stanlio e Ollio restano un patrimonio dell’umanità, tramandato dalla televisione e riscoperto dalle nuove generazioni. La loro comicità infantile e gentile, fatta di dignità maldestra e di sconfitte esilaranti, continua a parlare a un pubblico di tutte le età. La loro vera eredità, però, va oltre le risate: è la storia di un’amicizia che ha resistito a tutto, e che ha trasformato due uomini pieni di fragilità nei due comici più amati della storia.

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Stanlio e Ollio. (Leonardo Rodriguez)
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Ma i russi a cosa servono?

Podcast ◆ Le riflessioni da ascoltare di Paolo Nori

Qualche anno fa, durante un corso di scrittura che aveva tenuto a Lugano, Paolo Nori ci raccontò che ci sono due cose capaci di farlo piangere: la letteratura russa e le partite del Parma. Di calcio, però, in questo podcast non si parla. Il cuore del racconto sta nel legame profondo, affettivo e quasi viscerale che l’autore intrattiene con la grande tradizione letteraria russa e la sua capacità di descrivere il quotidiano fuori dall’ordinario.

Sei episodi che si muovono da un quartiere dell’Emilia fino alla Prospettiva Nevskij, passando per Gogol’, Tolstoj e altre storie

A cosa servono i russi? È questa la domanda, insieme provocatoria e affettuosa, da cui prende avvio un viaggio sonoro in sei tappe, che parte idealmente da Casalecchio di Reno, dove Nori vive, e arriva fino alla Prospettiva Nevskij, nel cuore di San Pietroburgo. Un itinerario narrativo che mescola autobiografia, citazioni e riflessioni, con la leggerezza e l’intensità che caratterizzano la scrittura dell’autore.

La risposta a quella domanda iniziale, se mai ce ne fosse una, arriva solo nell’ultima puntata, negli ultimissimi quattro secondi. Ma non è un buon motivo per saltare direttamente alla fine. Anzi: è nelle digressioni, nei percorsi laterali, nei salti logici e affettivi che si nasconde il vero senso del racconto. Molti ricordi vengono dalle esperienze vissute dall’autore: per esempio il ricordo della visita al ponte di San Pietroburgo dove al protagonista di Gogol’ venne rubato il famoso cappotto, oppure del canale dove Bezuchov, in Guerra e pace, gettò un gendarme con un orso legato alla schiena. I racconti di questi viaggi si intrecciano con una serie di aneddoti sorprendenti: lo sapevate, ad esempio, che l’insalata russa in Russia si chiama «insalata Olivier», dal nome del cuoco belga che la inventò?

Laureato in letteratura russa, Paolo Nori è autore di numerosi romanzi e saggi. Accanto alla scrittura narrativa, ha coltivato con passione il lavoro di traduttore e curatore. È spesso ospite nella Svizzera italiana: nel 2019 ha curato per Marcos y Marcos la raccolta Repertorio dei matti del Canton Ticino, coordinando una ventina di autori locali chiamati a delineare una galleria di personaggi eccentrici, al limite tra realtà e invenzione, che restituisce un ritratto non convenzionale del nostro cantone. Non è la prima volta che Nori si cimenta con la narrazione audio, un mezzo che rappresenta quasi una naturale estensione dei suoi «pubblici discorsi»: lunghe e appassionate dissertazioni sui temi più disparati. Già nel 2023 aveva realizzato una serie audio (da recuperare!): Due volte che sono morto. In quel podcast raccon-

Berninger, onesto

Musica ◆ Un antidoto alla musica

Benedicta Froelich

Nell’ambito della scena del cosiddetto «alternative rock» angloamericano, sono in pochi a poter vantare l’alto profilo dei The National, formazione originaria di Cincinnati (Ohio), che da ben 25 anni si distingue per la costante raffinatezza e qualità del suo repertorio. Caratteristiche che sembrano estendersi anche al lavoro solista del frontman, il 54enne Matt Berninger, il quale, dopo l’eccellente esordio di Serpentine Prison (2020), torna oggi sulle scene con un secondo lavoro a proprio nome: Get Sunk, appena dato alle stampe dalla Concord Records. Un album che, in effetti, riprende i temi da sempre cari all’artista, come, del resto, alla formazione da lui capitanata; su tutti, il più ricorrente resta quello della disillusione e perdita di fiducia nei confronti di qualsiasi possibilità di gratificazione emotiva – in altre parole, della lacerante consapevolezza di come l’esperienza del vivere da «adulti» possa essere sufficiente a spezzare qualsivoglia sogno giovanile. Un sentimento molto evidente fin dalla traccia d’apertura del CD, la sognante Inland Ocean – pezzo onirico ed evocativo che, insieme all’allusivo lento No Love, sembra ricordarci come la solitudine sia, infine, il destino ultimo di ognuno di noi.

tava i due gravi incidenti di cui è stato vittima, a quattordici anni di distanza l’uno dall’altro.

A cosa servono i russi? esce in un periodo difficile, in cui, a causa dell’aggressione all’Ucraina, tutto quello che riguarda la Russia è visto con una certa preoccupazione e diffidenza. Un atteggiamento che a volte ha finito con lo sconfinare nel surreale, come quando, a pochi giorni all’inizio del conflitto, il corso di letteratura di Paolo Nori dedicato a Dostoevskij, all’Università Bicocca di Milano, fu cancellato. «A me se penso a questa guerra mi viene da piangere» dice, senza remore, l’autore. E allora chiudo così questa breve recensione: con queste parole tristi che mi sembrano un vero «finale alla russa», lontanissimo da quel lieto fine al quale ci ha abituato la cinematografia americana.

Così, ecco che perfino un brano ritmato come il singolo apripista Bonnet of Pins appare pervaso da un senso palpabile di dolente malinconia e ineluttabile sconfitta; lo stesso che ricorre anche nel dolente recitativo di Nowhe-

re Special e, soprattutto, nel cadenzato ottimismo di Frozen Oranges – racconto a tratti un po’ sconnesso di un surreale sabato trascorso in Indiana nel tentativo di sfuggire a pensieri apparentemente poco piacevoli. Del resto, nell’universo di Matt, perfino l’amore finisce per rappresentare poco più di un’illusione, destinata a infrangersi davanti alla dura realtà del vivere quotidiano: bastano infatti poche frasi strazianti («c’è un limite al dolore che puoi sopportare ogni giorno»), per fare della ballata Little by Little una perfetta allegoria dell’effetto destabilizzante che la continua mancanza di soddisfazioni può avere su un uomo non più giovane. Eppure, allo stesso tempo, nel cantato disilluso di Berninger è possibile scorgere anche qualcos’altro: un anelito di speranza, una sorta di silenziosa, coraggiosa determinazione a mantenere una qualche forma di fiducia nella possibilità di un domani migliore, di un tempo in cui la sofferenza possa attenuarsi. Lo si avverte chiaramente negli incisi quasi baldanzosi del brano di chiusura, Times of Difficulty («quando guardi le stelle, vedi nulla? Somigliano forse a ciò che ti aspettavi?»). E qui, in fondo, sta la grandezza compositiva di Matt – nel riuscire a combinare in modo magistrale le contrastanti sensazioni ed emozioni del cinquantenne medio: dalla disillusione e stanchezza che il tran-tran quotidiano spesso porta con sé, al dolore lancinante causato dalla fine di una relazione troppo a lungo favoleggiata, fino alla dolente rassegnazione di chi, sebbene ormai esausto, sa di non poter far altro che continuare a vivere, giorno dopo giorno.

Un risultato senz’altro notevole in un momento in cui molta della musica quotidianamente propinata dalle stazioni radio suona come un prodotto asettico e «prefabbricato», disgiunto da qualsiasi autentico vissuto o sentimento umano; al punto che l’onesto, quasi lacerante intimismo di Berninger diventa una vera boccata d’aria fresca per chiunque ami quel buon cantautorato definibile come «provvisto di un’anima».

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Matt Berninger. (Wikipedia/ A. Witchger, 2019)
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Il coro dei morti-vivi

Poesia ◆ La voce di Stefano Simoncelli, scomparso di recente, ha intrecciato la vita quotidiana al richiamo ostinato delle presenze assenti

Stefano Simoncelli ci ha lasciati il 20 maggio scorso, ed è come se d’un colpo fosse divenuto egli stesso quelle ombre fuggevoli e sempre ritornanti nelle sue pagine; alle molte lettrici o lettori, potrebbe prima o poi rivelarsi con quella sua espressione agrodolce, dietro lo sbattere di uno stipite mosso dal vento o nel gioco d’ombre in una stanza remota.

Tutta la scrittura di questo grande poeta, compreso il suo ultimo libro, Visite notturne, sempre edito da Pequod, è una poesia che sempre parte dall’ hic et nunc. Dal momento, con i suoi dolori, le lacerazioni, gli stupori, quella metafisica che dentro sempre vi si insinua. Ecco allora che questo verso, assolve a ciò che ogni scrittura dovrebbe: scuotere.

E Simoncelli, si è sempre messo a nudo, nelle relazioni anzitutto con certe figure esemplari, per lo più semplici, oramai scomparse, che sembrano ancora camminare nelle vie di ogni giorno, accennare quasi a un saluto: «Ogni tanto, specialmente all’alba, / si presenta un distinto signore / con un cappello di feltro / […] / e che rimane sempre lì, davanti al cancello, / come se non trovasse il coraggio di entrare. / “Babbo… babbo” mi sento che farfuglio / andandogli incontro nell’attimo esatto / in cui mi volta le spalle, dà un calcio / di sinistro alla ghiaia e scompare». È del 1981 la prima raccolta, Via dei Platani, edita da Guanda; presentazione e postfazione di due grandi del Novecento, Giovanni Raboni e Franco Fortini; nel 1989 esce con Poesie d’avventura, da Gremese, nella collana Gli Spilli diretta da Enzo Siciliano. La sua attività poi si inabissa per un lungo periodo, quasi vent’anni, per riemergere nel 2004 con la raccolta, Giocavo all’ala e poi in stretta sequenza La rissa degli angeli e Terza copia del gelo Ma quel silenzio così lungo, a pensarlo ora, somigliava a un foglio bianco, sì, ma non vuoto, incubava difatti nei suoi spazi, il tempo della scrittura a venire. E certo, il titolo che raccoglie nella penultima raccolta, Sotto falso nome, la prima parte delle poesie è molto indicativo: Radio silenzio. Qui lo strumento per antonomasia di collegamento tra voci, diviene medium di raccordo di strane frequenze, ne escono solo interferenze, monosillabi irriconoscibili, che tendono difatti al silenzio. Ecco, per paradosso, le parole di Simoncelli hanno sempre trasmesso l’approssimarsi al silenzio definitivo, dentro quel loro grande attaccamento per l’attimo. Ed è in questa dimensione altra, inconoscibile, che nei libri sembra tornare come una ossessione, che risiedono le figure a lui più care. Ondeggiano per un attimo sulla soglia del visibile, attraverso oggetti impensabili, come telefonini squillanti, odori perduranti, chioschi dismessi, sogni notturni. Mondi adiacenti al nostro, che su questo a intermittenza si aprono: «La mia data di scadenza, / è trascorsa da tempo, / ma ho un impegno” /[…] / “Che impegno?” mi hai chiesto / accomodandoti scarmigliata / su una sedia della cucina /[…] / “Un libro” ho risposto / aggiustandoti con un dito / una ciocca ribelle sulla fronte / “l’ultimo, dove sei viva e ti parlo”». Ebbene questo autore, ha composto per molta parte della sua parabola letteraria, dei breviari, sì, ma laici e – richiamando il titolo di una raccolta uscita nel 2020 per Pequod, A beneficio degli assenti – micro-storie che oscillano tra il veridico e l’onirico. Stral-

ci di visioni, che sembrano appartenere per forza e profondità, non più alla storia di uno, ma a quella di una intera collettività. Ecco tutti gli scomparsi, percorrono una traiettoria circolare, sembrano provenire dall’antro di Euridice, si rendono da lì appena visibili, accennano a gesti familiari, un poco riconoscibili, avendo dell’aspetto di un tempo qualche carattere, tornano poco dopo, nella cavità nera da dove sono venuti. E certo l’autore, negli anni, annotò con dovizia di particolari nel suo taccuino, tutte le ombre che, come un viavai da quella grotta, uscivano ed entravano: padri, madri, conoscenti di un momento, conosciuti da una vita, ma ciò che davvero rimischiava le carte nei libri, era proprio l’esser egli stesso divenuto negli anni, una quasi ombra, un richiedente ostinatamente asilo a quel mondo che non è più dei vivi.

Ma ecco l’ultima Euridice di Simoncelli, Patrizia, moglie da sempre amata e andatasene troppo presto, sembra prendere sempre più piede; inizia già nel penultimo libro Sotto falso nome, a dar scossoni forti, sino a palesarsi chiaramente nell’ultimo, Visite notturne. E duole riprendere ancor

più, quell’attimo dove tutto è iniziato, la rivisitazione dell’ultimo momento mortale di lei e di tutto ciò che attorno sembrava mantenere quel grado di intollerabile normalità: «[…] / Risento le mie grida/che rimbombavano per le camere, / le suppliche, il suo silenzio immobile, / gli scuri frustati da un vento funesto / che si accaniva dal mare, i beccheggi / delle barche che sembravano lamenti, / la neve prima dell’alba e poco altro. / Quando finirà questo momento?».

Le pagine di Stefano Simoncelli sono state quindi questo continuo crocevia tra vivi e morti, dove i morti parevano più vivi dei vivi; tutti sembravano ricamminare in lunga schiera vociante, rilluminare la gran via rattristata della nostra opaca contemporaneità. E allora è difficile non avvicinare questo poeta, per forza di visione, a quella grande tradizione romagnola del Novecento, non solo poetico-letteraria. Stefano è tornato, sì, nel lume di Patrizia ma non certo il suo variegatissimo coro di morti vivi, che rimarranno lì nei suoi mirabili versi, a restituirci, per paradosso, quella passione che fuoriesce dal mondo, sempre alla ricerca della sfuggente felicità.

La partitura instabile

Romanzi ◆ Garner costruisce in Piccoli preludi un tessuto narrativo di crepe e improvvisi lampi

Laura Marzi

Piccoli preludi della scrittrice australiana Helen Garner è un romanzo quanto meno inconsueto e lo è per diverse ragioni, prima di tutto per la scrittura: da una parte troviamo la meraviglia di alcune immagini, e dall’altra un approccio sperimentale alla letteratura. La storia narra di una famiglia composta da Dexter e Athena, entrambi da poco quarantenni, età in cui «non puoi più fare del male a nessuno, e nessuno può più farti del male» come sostiene a un certo punto il padre di Dexter, sebbene l’intero romanzo servirà a confutare questa affermazione.

La coppia ha due figli: Arthur e Billy, quest’ultimo affetto da un grave ritardo mentale. Nella loro casa sempre in disordine e con il bagno in giardino, con le mura piene di crepe, zeppa di elettrodomestici vecchi che andrebbero rimpiazzati, vige una certa armonia, parola chiave della storia. Piccoli preludi, infatti, riprende il titolo dell’opera di Bach che Athena cerca di suonare al pianoforte tutti i giorni, pur consapevole dei propri limiti. Dexter, al contrario, grande conoscitore di musica classica e di opera, canta sempre e lo fa benissimo, mentre Billy lancia urla acute e protratte, inconsapevole di quello che gli accade intorno.

L’armonia di questa famiglia come tante, che cercano di arrangiarsi e di riassestarsi dopo le piccole e grandi crisi quotidiane, viene messa a repentaglio dalla ricomparsa, nella vita di Dexter, di Elizabeth, amica del college, e di sua sorella minore Vicki. Il problema, però, non sarà che fra i due ex compagni di università rinasca un sentimento o un’attrazione sessuale, no: è nella vita di Athena che la presenza di queste due donne innesca un desiderio di cambiamento. Non è tuttavia un romanzo come ce ne sono tanti, che parla di sentimenti, di frustrazioni, di madri che a un certo punto vogliono fare di più che lavare e stendere i panni mentre gli altri sono a scuola o al lavoro. Piccoli preludi è tutt’altro e la sua eccentricità è dovuta interamente alla capacità di scrittura di Helen Garner: «Vicki aveva le dita talmente fredde che sembravano biglie in fila dentro le scarpe» oppure «sentì una chitarra suonare qualcosa, con la stessa naturalezza dell’acqua quando tracima dal bordo di una bacinella». Originalità delle immagini, ma anche il costante tentativo da parte della scrittrice di spiazzare chi legge, attraverso delle direzioni impreviste della storia che raccontano di come le cose avrebbero potuto andare o di come i protagonisti avrebbero voluto che andassero, anche se talvolta i loro desideri sono terrificanti. Il punto di vista della narrazione, poi, cambia costantemente via via che in scena entrano nuovi personaggi, dando vita così a una partitura in cui, in effetti, suonano insieme diverse voci e strumenti.

La sperimentazione stilistica di Garner, però, non impedisce a chi legge di seguire lo svolgersi della storia e di identificarsi con le visioni del mondo dei protagonisti: «Le grandi passioni sono ridicole, ma quanto è catartico averle provate».

Bibliografia

Helen Garner, Piccoli preludi Nottetempo, pp. 123.

Stefano Simoncelli. (MarcoRotaTrad)
presen ta
Pablo Creti
da Andrea Sala
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Immagine usata per la copertina di Piccoli preludi. (Nottetempo)

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«Mi piace regalare un bel libro per neonati. Uno personalizzato pronto o uno con le pagine da riempire e che serva poi da album dei ricordi.

Prima però chiedo ai genitori se hanno già un libro del genere, in modo da non regalare un doppione»

«Per il bebè regalo dei bei panni di mussola, perché non se ne hanno mai abbastanza. Ai genitori invece regalo il mio tempo: faccio dei buoni con offerte di aiuto. Per esempio, pulire la casa, fare la spesa, cucinare la cena»

Edita Dizdar(40), redattrice, madre di una figlia (8) e di un figlio (10)

per questo ora li regalo ai futuri genitori. Ad esempio, dei buoni per il wellness, per il ristorante o per ordinare dei pasti»

9)

LIFESTYLE

Regali

Bebè in arrivo: cosa regalare?

Cosa regalare a dei futuri genitori? Qualcosa per il bebè che però magari hanno già? O meglio qualcosa per loro, per non farli sentire dimenticati? Una raccolta di idee della redazione

«Io regalo cinque confezioni di pannolini. Servono sempre. Prima comunque chiedo la taglia giusta, in modo che calzino bene»

«Mi piace regalare un pacchetto di prodotti per la mamma. Con creme, tisana per l’allattamento, una borraccia carina (perché bisogna bere molto), un blush (perchè il viso sia sempre luminoso) e degli snack»

Lisa Stutz (31), redattrice, da un mese madrina di un bimbo

«Ai futuri genitori regalo sempre un flacone di sapone di fiele. Non sarà un omaggio di lusso, ma è efficace. Perché rimuove anche le macchie più grandi e sgradevoli»

consigli:

chiedere ai genitori cos’altro serve. Se si regalano dei capi di abbigliamento per bebè, conviene lavarli prima a casa, così potranno essere usati subito.

«Mi piace regalare una lampada notturna dalla luce soffusa. Una che di notte si possa accendere senza abbagliare quando si allatta o se il bebè si sveglia»

«Io regalo ai genitori un menu di tre portate composto da una bevanda analcolica pronta (in lattina) e delle noci, pasta con un vasetto di sugo fatto in casa e un raffinato dessert Sélection; il tutto presentato in un bel pacchetto. Ci scrivo: «Tre portate con un bebè? E che problema c’è!»

Testo: Dinah Leuenberger
Dinah Leuenberger (35), redattrice, madrina di un bambino di un anno e zia di una bambina di un anno
Kian Ramezani (48), redattore, padre di due figli (11 e
Roland Linder (63), produttore, padre di un figlio adulto e nonno
Thomas Blumer (48), responsabile social media, padre di due figlie (12 e 14 anni)
Heidi Bacchilega (57), redattrice, madre di due figli (21 e 23)
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Il trio di Corzoneso

Fotografia – 1 ◆ Donetta Vintage mette in dialogo le immagini originali del bleniese con le reinterpretazioni di Flammer e le stampe digitali di Spinelli

La mostra Donetta Vintage alla Casa Rotonda di Corzoneso-Casserio, oltre a offrirci alcune immagini (quasi) sconosciute del Rubertùn, vuole sottolineare tre importanti anniversari.

Donetta Vintage conferma come l’opera del Rubertùn continui a generare nuove prospettive e inattesi racconti visivi

Dapprima i 160 anni dalla nascita del fotografo bleniese (Biasca, 6 giugno 1865); poi i 125 anni dall’inizio della sua tormentata avventura artistica, avviata grazie allo scultore Dionigi Sorgesa, nativo anch’egli di Corzoneso, il quale a Roberto Donetta affittava una rudimentale apparecchiatura fotografica per 5 franchi l’anno prima di emigrare a Nizza, dove –pare – fu poi ucciso da un rivale in amore. Infine i 20 anni dall’apertura ufficiale della Casa Rotonda (2 luglio 2005), che diede un impulso decisivo alla ri/scoperta dell’opera donettiana, già avviata qualche tempo prima con esposizioni (Il Ticino e i suoi fotografi, Museo Cantonale d’Arte, 1987), con i saggi di Alberto Nessi (Fermare il tempo), e con diversi servizi giornalistici: di Luca Patocchi (Come una biografia , 2000) e, tra gli

altri, di Antonio Mariotti (La fatica di fotografare, La fotografia ritrovata), quest’ultimo poi divenuto genius loci delle attività legate alla Casa-Museo di Casserio.

Donetta Vintage è altresì un omaggio al compianto Alberto Flammer (1938-2023): il fotografo locarnese, con un lavurà basctard – come ci ripeté varie volte – fu in grado di riprodurre le foto di Donetta dalle lastre ritrovate per caso nella sua ultima dimora di Casserio, da Mariarosa Buzzini, e miracolosamente sopravvissute dopo oltre mezzo secolo di oblio. «Flammer si rinchiude nella sua camera oscura per intere giornate e si china sulle lastre alla ricerca della massima nitidezza: una chimera infida e sfuggente a causa della bassa sensibilità delle emulsioni utilizzate da Donetta, della scarsa luminosità dei suoi obiettivi, delle infiltrazioni di luce nei suoi apparecchi di legno e dei lunghi tempi di esposizione cui era costretto e che non facilitavano certo l’immobilità assoluta dei suoi soggetti, nonostante le sue spesso burbere raccomandazioni». Così leggiamo nel Catalogo che accompagnava l’esposizione Fieno ombra cenere (Casserio, 2011) il cui titolo proveniva da un racconto di Alberto Nessi, grande estimatore del Rubertùn

In quella occasione, Flammer vol-

Indagare il quotidiano

Fotografia – 2 ◆ L’argentino Santiago Carrera espone alla Galleria Doppia V di Lugano

Ida Moresco

Quella di Santiago Carrera, classe 1982, è una lunga indagine sulla prospettiva. Il fotografo argentino, di nuovo ospite alla Galleria Doppia V di Lugano, nel suo lavoro più recente presenta quelli che potremmo chiamare tre filoni narrativi, o nuclei, accomunati da una proposta di sguardo inedita.

Carrera agisce nel segno della continuità, poiché già in passato si è occupato di una ri-lettura della natura morta, congelando la frutta e disponendola in uno stato di sospensione (Natura sospesa, 2019), o del corpo ri-visto e rivisitato, una volta attraverso donne misteriose e castigate, con i capelli a far loro da maschera, altre attraverso corpi femminili immersi in acqua, ripresi dall’alto, in uno stato di trance o torpore (o peggio), altre ancora immortalan-

le per così dire strafare e inseguì l’idea di isolare alcuni dettagli delle immagini originali di Donetta: ha prodotto degli impeccabili ingrandimenti su carta baritata, li ha sbianchiti rendendo di nuovo sensibili i sali d’argento anneriti durante il processo di sviluppo, per poi effettuare un viraggio attraverso una soluzione di solfuro di sodio. «Una personalissima rilettura dalla quale – annota ancora Mariotti – emergono alcune porzioni scelte in maniera arbitraria ma ben ragionata da un collega che conosce perfettamente l’opera del loro autore».

Dei vari dittici, purtroppo, sono

andate perse le stampe flammeriane dei dettagli. Per ricostituirli nella loro unità si è dunque dovuto ricorrere all’attento lavoro di stampa – questa volta realizzato in digitale, ma si tratta pur sempre d’un lavurà basctard! – del collega fotografo Stefano Spinelli (nome ben noto ai lettori di «Azione»).

Accanto ai sorprendenti dittici –con i dettagli nei quali è facile notare la maestria di Flammer e l’accuratezza del suo lavoro – ecco alcune cartoline postali realizzate da Donetta, un’altra sua infelice avventura finanziaria: ne fece stampare un numero iperbolico che restò in buona parte

invenduto, nonostante una di queste fu pubblicata dal settimanale «Illustré», all’epoca popolarissima rivista diffusa in tutta la Svizzera. Sono ormai numerose le mostre di Corzoneso dedicate al padrone di Casa Donetta, ma sembra che il Rubertùn abbia sempre modo di sorprendere il visitatore.

Dove e quando  Donetta Vintage, Casa Rotonda di Corzoneso-Casserio. Sabato e domenica 14.00-17.00 o su appuntamento allo 091 871 12 63. Fino al 12 ottobre. Informazioni: archiviodonetta.ch/la-casa-rotonda

do moltitudini indistinguibili che affollano una spiaggia (Fotografie, 2016).

Alla frutta Santiago ritorna, in un certo modo esaltandone l’assenza: in Still Life le composizioni nere (grazie all’acrilico nero opaco), nella loro negazione di luce, presentano sempre uno o più frutti nel loro colore originale. Uno schizzo di vitalità che emerge prepotente dall’immagine, grazie anche a un’allusione vagamente sessuale.

Lo sguardo si amplia in Mi metro cuadrado de cielo, nucleo realizzato a Buenos Aires, in cui Carrera si dedica a un per sua natura impossibile metro quadrato di cielo, riproponendolo dopo averlo sottoposto a filtri vari. Il risultato provoca straniamento (ricordandoci i lavori di James Turrell), poiché testimonia l’affascinante tentativo di inquadrare ciò che non è inquadrabile, e che, soprattutto, appartenendo a tutti, non appartiene a nessuno.

Il terzo nucleo, che completa la mostra, è dedicato a un quotidiano locale (le immagini sono state realizzate in Valle Maggia e a Olivone), che però, di nuovo, non viene lasciato al suo stato naturale, bensì stravolto e ridisegnato attraverso l’uso di filtri, permeando il soggetto delle immagini di una dimensione onirica, in qualche modo anch’essa sospesa.

Dove e quando

Santiago Carrera, Fotografie Lugano, Galleria Doppia V (Via Moncucco 3). Orari: lu-ve 9-12 / 14-17. Fino 17 ottobre 2025. www.galleriadoppiav.com

Un esempio del lavoro di Flammer: dall’originale
Santiago Carrera, SERIE STILL LIFE, #2 / 2025.

GUIDA PRATICA

Cosa succede in caso di sovradosaggio?

L’assunzione a lungo termine di dosi estremamente elevate di alcuni micronutrienti può causare gravi problemi di salute, tra cui nausea, mal di testa, prurito, ma anche insufficienza d’organo o un tasso di mortalità più elevato.

Internet è pieno di prodotti a prezzi vantaggiosi. Cosa ne pensa?

Molto di ciò che viene offerto e acquistato su Internet perché più economico può essere davvero pericoloso e portare all’avvelenamento perché non c’è alcun controllo di qualità. Sconsiglio di ordinare online integratori alimentari a basso costo. Ci sono anche molte controversie sull’opportunità di assumere micronutrienti. Posso assicurarle che ha perfettamente senso ed è particolarmente importante per i gruppi a rischio.

Particolarmente importanti in inverno

In inverno ci servono queste vitamine

Con l’inizio della stagione fredda aumenta il fabbisogno di alcuni micronutrienti. Un’esperta ci spiega cosa sono e come riconoscere i prodotti validi

Testo: Edita Dizdar

Mette Berger, quando si parla di vitamine, micronutrienti, oligoelementi, cosa si intende esattamente?

Micronutrienti è il termine generico per indicare vitamine e oligoelementi. Nel linguaggio comune, questi termini sono spesso usati in modo errato e descritti solo come vitamine.

Ha senso assumere integratori alimentari durante la stagione fredda?

Sì, quando fa più freddo abbiamo bisogno degli stessi micronutrienti come in tutto il resto dell’anno. Il problema, tuttavia, è che alcuni tipi di frutta e verdura non sono disponibili o sono molto più costosi e molte persone non possono permetterseli. Quindi gli integratori alimentari hanno senso.

Chi dovrebbe assumerli?

Principalmente le persone che soffrono di malnutrizione. Si tratta di gruppi a rischio che comprendono bambini, adolescenti, vegani, donne in gravidanza e anziani.

Perché queste persone appartengono ai gruppi a rischio?

Secondo la Caritas, in Svizzera 1,4 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà e di queste 800’000 sono bambini: consumano una quantità troppo esigua di frutta e verdura e di alimenti ricchi di ferro. Inoltre, gli adolescenti hanno spesso una dieta squilibrata, indipendentemente dalle

loro condizioni economiche. Le persone vegane possono andare incontro a malnutrizione: non mangiando nessun prodotto di origine animale. Le donne in gravidanza devono assumere una quantità di micronutrienti sufficiente per due persone, il che non è sempre possibile. Anche gli anziani spesso mangiano troppo poco, sia in termini di quantità che di frequenza, e non arrivano ad assumere 1500 chilocalorie al giorno, non riuscendo quindi a soddisfare il loro normale fabbisogno.

Non è possibile coprire tutto il nostro fabbisogno tramite l’alimentazione?

Se si presta davvero attenzione e non si hanno problemi finanziari, allora sì. Se si appartiene a uno dei gruppi a rischio, è più difficile anche se si è onnivori. Le principali carenze sono la vitamina D, lo iodio, il ferro e lo zinco.

Come vanno assunti gli integratori alimentari?

Se si appartiene a un gruppo a rischio, si può assumere un preparato multi-micronutriente una settimana al mese per tutto l’anno. Questi integratori sono anche conosciuti colloquialmente come multivitaminici e non è necessario acquistare il prodotto più costoso. Se non si appartiene a un gruppo a rischio, è sufficiente assumerli per una settimana al mese durante la stagione fredda.

Supporto benefico

Vitamina D Alcune ricerche dimostrano che anche alle altitudini più elevate in Svizzera non si riceve abbastanza luce solare e quindi non si ha abbastanza vitamina D nel corpo. Questa carenza è molto comune nel nostro Paese. 800-1000 microgrammi al giorno sono essenziali.

Vitamina C

Cento milligrammi al giorno è il fabbisogno normale. Un'arancia ne contiene circa 80 milligrammi e basta aggiungere un kiwi per coprire il fabbisogno. Chi non mangia questi cibi, può assumere 500 milligrammi di vitamina C una volta alla settimana. Dosi elevate, invece, non hanno convinto la ricerca.

Zinco

Questo oligoelemento è molto importante tutto l'anno, ma soprattutto in inverno. Le ricerche mostrano che quasi il 20% della popolazione svizzera non ne assume abbastanza. Le fonti sono gli alimenti di origine animale, come carne, frutti di mare, uova o latticini. Anche noci e semi, legumi, prodotti integrali e verdure come spinaci, cavoli o funghi apportano zinco.

Iodio

In Svizzera i livelli sono molto bassi ed è per questo che lo iodio deve essere aggiunto al sale da cucina: è consigliabile consumare solo sale iodato, poiché una carenza di iodio può essere estremamente dannosa per la salute.

Acidi grassi omega-3

Questi grassi sono essenziali per la difesa e il metabolismo dell'organismo, ma in Svizzera non ne assumiamo a sufficienza con il cibo. Mezzo grammo di acidi grassi omega 3 al giorno corrisponde al fabbisogno normale, tuttavia ampi studi hanno dimostrato che un grammo ha un effetto molto positivo. Si trovano, tra l'altro, nel pesce grasso, nelle alghe, nelle noci o nell'olio di colza.

Mette Berger
Mette Berger è professoressa emerita all’Università di Losanna. È medico ed esperta in terapia intensiva e nutrizione clinica. La sua ricerca sui micronutrienti è riconosciuta a livello internazionale.
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Accessori scolastici fai-da-te

Un tutorial per giovani e appassionati di cucito creativo che vogliono trasformare stoffe e vecchi jeans in set unici e personalizzati per un ritorno a scuola tutto colorato

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Nino Schurter lascia la scena a Lenzerheide Il campione grigionese di Tersnaus, dieci volte campione del mondo e oro olimpico a Rio, chiude una carriera ventennale che lo ha reso il più grande biker della storia

La notte della Grignetta

Montagne ◆ Cronaca di una scalata sul canale Angiolina con imprevisti, passaggi ghiacciati, racconti popolari e l’incontro con un alpinista avvolto nel mistero

Jacek Pulawski, testo e foto

La Grigna meridionale è una delle montagne più importanti delle Prealpi lombare. Sorge sopra Lecco, con i suoi 2184 m. s.l.m., tra la Vallassina e il lago di Como. Assieme a sua sorella più grande, la Grigna settentrionale, forma il famoso gruppo delle Grigne che, attraverso i numerosi social, continua ad affascinare la comunità alpinistica internazionale. Due montagne create dalla stessa mano, ma in netta opposizione tra loro.

Più bassa di 250 m, la Grignetta mostra una fisionomia dettagliata e tagliente, richiamando l’aspetto di un corallo morto di color grigio. Scolpendola con accuratezza, il tempo ha dato vita a un gotico mondo calcareo di torri, guglie e creste. Il suo inconfondibile appeal ha catturato l’attenzione di leggendari delinquenti di montagna quali Riccardo Cassin, Carlo Mauri o Walter Bonatti, guadagnandosi una reputazione di un’elegante, ma selettiva cortigiana delle Alpi. Un parco di divertimenti ideale in cui ogni alpinista trova la sua giostra preferita senza dover necessariamente ambire di arrivare in vetta.

I preparativi

Le numerose vie di salita si disperdono in gole, torrioni e pareti talvolta diramandosi nelle varianti più o meno complesse. Ho scelto di iniziare la mia stagione alpinistica proprio dalla «sagrada famiglia» di Lecco, optando per la via direttissima con la variante del canale Angiolina.

In compagnia di Matteo, un giovane militare italiano, ci ritroviamo al posteggio ai Piani dei Resinelli nei pressi di Ballabio. Mentre il GPS fa scoccare le tre di notte, ci consultiamo sul materiale di salita, rimuovendo così i ferri che non saranno necessari. A farne le spese sono i ramponi e la mia piccozza. Una grave imprudenza, considerando il fatto che stavamo per affrontare un canalone dopo tre giorni di intense nevicate. Circostanza non prevista a causa di un errore che mi trascinavo dal giorno precedente, quando, pianificando la scalata, avevo consultato i bollettini di montagna concentrati soprattutto sui versanti nord e privi di indicazioni sul canale Angiolina. Quel mio

approccio superficiale alla pianificazione avrebbe avuto pesanti conseguenze sull’ordine di marcia, iniziato poco dopo le 3.00.

Dal bosco alla roccia

Muniti di fanalini, procediamo lungo uno scivoloso sentiero del bosco che ci conduce alla base della Grigna Meridionale, dove comincia la vera sfida di questa uscita notturna. Io e Matteo ci concentriamo sul rumore dei nostri scarponi che battono sul sentiero diventato sempre più roccioso e stretto.

La via direttissima non è tra le più difficili per chi ama le avventure sulla roccia. Classificato con un T4 (itinerario alpino impegnativo), richiede nozioni di arrampicata di scala I/II, mentre la via è attrezzata di catene e scalette di acciaio lungo i passaggi più esposti. Necessita tuttavia di un passo sicuro, il mantenimento di un baricentro basso e una testa che rifiuta le vertigini.

La mancanza di luce rende questo itinerario più piccante, ma non

per forza molto più difficoltoso. L’unico pericolo consiste nel fatto che, trattandosi di un sentiero marcato in modo arbitrario, esiste la possibilità di deviare lungo traiettorie più appetitose ma letali.

La luce dei fanali ha il difetto di proiettare delle lunghe ombre sul campo visivo, di avere un’errata percezione di profondità e di alterare la

comprensione del rilievo della roccia. Per affrontare i vari problemi che la montagna non risparmia mai a nessuno ci affidiamo all’esperienza, secondo il pericolo che ognuno di noi valuta in modo soggettivo. Io e il mio partner di arrampicata, discutiamo le nostre scelte prima di compiere qualsiasi manovra, per scegliere sempre una soluzione che ci sembra la più ra-

Non sarebbe la prima volta che degli alpinisti
lo incontrano:
lo chiamano «Il Nero»
è uno spirito libero che vaga per la Grignetta, senza trovare pace.
Pagina 39

zionale, ma anche quella che ci permette di tornare indietro senza esporci a inutili rischi.

Su per il caminetto Pagani

Arrivati al caminetto Pagani, uno stretto cunicolo tra le pareti rocciose, cominciamo la nostra arrampicata che ci condurrà al Canale Angiolina. Molti anni or sono, secondo un racconto popolare, un giovane pastore si innamorò di una ragazza di un villaggio nemico. Passava attraverso questo caminetto per evitare di essere visto da occhi indiscreti. Una sera, sorpreso dal temporale, precipitò nel vuoto. Si dice che nelle notti nebbiose si possa ancora udire la sua voce chiamare l’amata tra gli anfratti del sentiero. Mi godo questa roccia facile da addomesticare e piacevole al tatto. Ormai siamo nel cuore della montagna, nelle sue viscere regna il silenzio. A farsi sentire sono i frammenti di roccia che cedono sotto i nostri piedi per sparire nel precipizio. Il frastuono causato dai loro rimbalzi crea una suggestiva eco che si ripete tra i numerosi torrioni, torri e pilastri di roccia che ci circondano.

Il canale Angiolina

«Sbucati» dal caminetto, davanti a noi comincia il canale Angiolina che si presenta tutto innevato: è la parte più insidiosa del tracciato. Classificato come EEA (escursionisti esperti attrezzati), si sviluppa tra il sentiero della direttissima e il sentiero Cecilia, offrendo un percorso che alterna tratti di arrampicata su roccia e passaggi con catene fisse. Sono queste ultime che, riflettendo la luce dei nostri fanalini, ci aiutano a ritrovare la strada su un percorso completamente ricoperto di ghiaccio e neve in via di scioglimento.

Entrambi sprovvisti di ramponi e attrezzati di una sola piccozza avanziamo verso il sentiero Cecilia, posta sulla cresta che ci condurrà in vetta. È lì, a poche centinaia di metri, ma per raggiungerla ci servirà tanta immaginazione e forza. Sfogliando la documentazione cartacea sulla Grigna Meridionale non ho trovato molte informazioni sul canale. In termini di pendenza presenta tratti variabili, ma non ho trovato dati sull’inclinazione massima.

Le informazioni sul rilievo che acquisisco costituiscono per me una sorta di GPS interno, un dettaglio che mi

rende più sicuro. Con il senno di poi credo che dipenda dalla via di fuga del canale che si intraprende. Noi abbiamo scelto la via più ripida ma anche quella più decorata di rocce sulle quali possiamo riprendere il fiato.

Così a forza di pugni e calci ho scavato dei solchi sui quali saliamo con agio, mentre Matteo, munito della sola piccozza, assicura una mia eventuale scivolata a valle. È uno di quei momenti nei quali si cerca di dare ascolto alla parte ottimistica della ragione e di evitare di guardarsi alle spalle. Dopotutto non avremmo mai intrapreso la via del canale se la consistenza della neve non fosse stata ideale per un’avanzata senza i ferri del mestiere.

Le scalate in montagna sono un gioco di pressioni e attriti. Curando i due aspetti possiamo ridurre al minimo i rischi soggettivi e procedere con la necessaria sicurezza. All’uscita del canalone scatto una fotografia a Matteo. È molto mossa, ma rende l’idea della tensione che abbiamo provato nella parte superiore del tracciato. Nell’immagine, pur mostrando un tratto «camminabile», il mio giovane partner non si azzarda ad assumere una postura retta, tenendosi pronto per un eventuale frenata di emergenza. Probabilmente non aveva ancora assimilato quel frangente verticale lungo un centinaio di metri.

Il Nero della Grignetta

Alzo lo sguardo, e vedo un’alta sagoma nera che sta scendendo verso di noi a passo di corsa. È la prima anima che incontriamo da quando siamo partiti. Il ritmo e l’eleganza con cui supera gli speroni di roccia sono invidiabili. Uno spirito libero che non aspetta nemmeno l’alba, e di cui la somiglianza sembra calzare la leggenda dell’alpinista della Grignetta. Si tratterebbe di un giovane alpinista chiamato Nero per via del colore del suo abbigliamento: un cappuccio scuro, una giacca nera consumata dal tempo e gli scarponi logori. Vaga per la montagna in solitaria, muovendosi tra i canaloni e i torrioni con un’abilità sovrumana.

La gente del tempo lo intravedeva tra il tramonto e l’alba, quando nessuno osava a salire sulla montagna. Alcuni dicono che fosse stato un grande alpinista, scomparso qualche anno prima in un incidente invernale tra le guglie della Grignetta. Altri giurano che fu un giovane disperato fuggito dopo un amore finito male. I racconti popolari concordano sul fatto che Ne-

ro non sia più un uomo, ma un fantasma errante, condannato a scalare all’infinito le vie della montagna e, incapace di trovare riposo.

Lo si riconosce da lontano: una figura scura, snella che si arrampica su pareti impossibili senza corda, né paura. Quando lo si chiama non si volta. Quando lo si avvicina, scompare dietro un crestone. Molti alpinisti raccontano di averlo visto, soprattutto quelli che si avventurano di notte, come noi. Una presenza che nelle notti

buie e senza luna, guida i delinquenti di montagna smarriti, indicando loro la via del ritorno con l’ausilio di una piccola lanterna.

Riprendendo il respiro dopo la scalata del canale Angiolina, io e Matteo di lanterne non ne vediamo. Di fronte a noi, a pochi passi di distanza, è il fanalino dello sconosciuto a illuminare i nostri volti. Ci ha osservato sin dall’entrata nel canale e adesso rimane immobile a fissarci negli occhi.

«Dimenticate le vostre ansie. La neve

del canale non si è mai staccata e, se vi sbrigate, riuscirete a raggiungere la vetta per godervi l’alba… io devo continuare», ci dice.

Resto lì a guardarli entrambi. Contemplo la corsa di Matteo per anticipare il sorgere del Sole e la falcata a valle dello sconosciuto che scompare pochi attimi dopo. Ed è subito alba…

Informazioni

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Il cioccolato senza fronzoli.

Astuccio e portapenne coordinati

Crea con noi ◆ Un set per l’avvio della scuola nato da jeans e stoffe di recupero, facile da realizzare con un pizzico di creatività e tanta voglia di personalizzare il banco della propria aula

Con l’inizio del nuovo anno scolastico cresce la voglia di accessori di cartoleria colorati e originali. Questo tutorial è pensato proprio per i giovani – e non solo – che amano personalizzare il proprio materiale scolastico e allo stesso tempo desiderano avvicinarsi al cucito creativo. Realizzeremo insieme un porta taccuino e un portapenne coordinato, due progetti semplici e utili che permettono di riutilizzare avanzi di stoffa e jeans di riciclo, trasformandoli in accessori unici e fatti a mano.

Procedimento per l’astuccio porta taccuino (pensato per un taccuino A5)

Per iniziare, tagliate due rettangoli di cotone da 20x30 cm ciascuno. Potete scegliere la stessa fantasia oppure due fantasie diverse, purché stiano bene tra loro. Preparate poi una striscia di jeans lunga il doppio dei rettangoli fantasia meno un centimetro, dal momento che si tratta di un unico pezzo e non perderemo margini di cucitura.

Posizionate la striscia di jeans sul tavolo con il lato dritto rivolto verso

Giochi e passatempi

Cruciverba

Come si chiama la preghiera rituale islamica? E quanto si ripete? Lo scoprirai leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.

(Frase: 5 – 6, 5, 2, 6)

ORIZZONTALI

1. C aro...

6. Vi regnarono gli Huan

10. Con tale... è identico

11. Nutrimento

12. Uccello marino

13. Vigore, forza

14. Tre di cinque sorelle...

15. Impertinente in inglese

16. Le iniziali di Torricelli

17. Le iniziali dell’attore Argentero

18. Intriso per frittelle

19. Ar ti occulte

20. Pesce dalle carni pregiate

22. Lo sono alcuni gas

23. Poli alfabetici

24. La sua capitale è Addis Abeba

VERTICALI

1. Regna in un tugurio

2. Dorata

3. Mitico re di Tebe padr e di Edipo

4. Fa i cross

5. Pronome personale

6. Abbracciano la vita

l’alto. Appoggiate il primo rettangolo di cotone sul lato corto sinistro, diritto contro diritto, inserendo a metà del lato l’elastico piegato a metà e rivolto verso l’interno. Fissate con gli spilli e cucite a macchina. Ripetete lo stesso procedimento anche dall’altro lato, cucendo il secondo rettangolo di cotone al jeans, questa volta senza inserire nulla. Una volta cuciti i due lati, aprite le cuciture e stiratele per appiattirle bene. A questo punto piegate la stoffa in modo che le due cuciture combacino perfettamente, sempre dritto contro dritto, e fermate con gli spilli. Cucite i tre lati rimasti aperti, avendo cura di lasciare una piccola apertura su uno dei lati lunghi di jeans che servirà per risvoltare il lavoro. Terminata questa fase, risvoltate l’astuccio e, con l’aiuto di una bacchetta, sistemate bene tutti gli angoli. Chiudete l’apertura con una cucitura a mano, eseguendo piccoli punti nascosti, e date una passata di ferro da stiro per rifinire meglio la forma. Ora non resta che inserire la parte di jeans dentro la parte colorata in cotone, in modo da formare la tasca. Provate a inserire il quaderno per verificare la misura, piegate la parte superiore e segnate il punto esatto in cui cucire il bottone. Infine, cucitelo a mano: il vostro porta block notes è pronto per essere usato.

Procedimento per il portapenne

Per realizzare il portapenne coordinato utilizzate le stesse stoffe impiegate per l’astuccio. Tagliate tre rettangoli da 8x17 cm ciascuno. Prendete il rettangolo del tessuto che volete usare per il taschino, piegatelo a metà con il lato bello rivolto verso l’esterno e appoggiatelo sopra al rettangolo scelto come fronte del portapenne. A questo punto inserite l’elastico che servirà per fissare il portapenne al taccuino. Le due estremità devono essere posizionate al centro dei lati corti del rettangolo. Una volta sistemato, coprite il tutto con il terzo rettangolo, appoggiandolo diritto contro diritto sopra agli altri strati. Fissate con gli spilli e cucite lungo tutto il perimetro, avendo cura che l’elastico resti ben fermo nella posizione corretta. Ricordatevi di lasciare un’apertura per il risvolto, preferibilmente nella parte superiore laterale, dove non si trova la tasca. Terminata la cucitura, risvoltate il portapenne aiutandovi con una bacchetta per sistemare bene gli angoli, quindi stiratelo. Chiudete l’apertura rimasta con piccoli punti nascosti a mano ed ecco pronto il vostro portapenne abbinato, pratico da fissare al block notes. Il vostro set è pronto per essere sfoggiato sui banchi di scuola! Due accessori pratici, originali e fatti a

Materiale

• 2 rettangoli di cotone fantasia abbinata da 20 x 30 cm

• 1 striscia di jeans lunga 20 x 59 cm

• 1 elastico (circa 8 cm)

• 1 bottone grande

• Ago e spilli

• Macchina da cucire + filo coordinato

• Forbici da tessuto o cutter

• Bacchetta di legno o bacchetta cinese (per risvoltare gli angoli)

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage)

mano che vi accompagneranno nelle lezioni e nello studio, con la soddisfazione di averli creati voi stessi. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

7. Andata per Cicerone

8. Le iniziali del filosofo Tommaseo

9. Parte dal ventricolo sinistro del cuore

11. Disputa sindacale

13. Feriti, offesi

15. Contenta, s oddisfatta

16. Articolo spagnolo

18. Cortile interno

19. Si spostano con i monti

21. Noto quello musqué

23. Preposizione articolata

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente Nel 1817, in Francia, venne istallata la prima versione …

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Una sferzata di collagene per ossa e muscoli

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I tessuti del nostro corpo, come la pelle, le ossa e le articolazioni, sono costituiti in gran parte da collagene.

Nel caffè, nei ullati o nel muesli: la polvere insapore e inodore si adatta a qualsiasi routine quotidiana.

Le proteine contribuiscono alla crescita della massa muscolare e al mantenimento di ossa normali. Il collagene è una proteina. Un’alimentazione variata ed equilibrata e uno stile di vita sano sono importanti per la nostra salute.

Il Ticino di fronte alla soglia del turismo sostenibile

I buoni dati sul turismo estivo nel nostro cantone sono stati accolti con visibile soddisfazione. Nell’eterna altalena tra entusiasmo e delusione, oggi è un giorno sereno. E forse potremmo approfittarne per qualche riflessione a più ampio raggio, senza il pungolo dell’urgenza. Per esempio, raramente ci chiediamo quanto turismo sia la giusta misura per noi, quanto dovrebbe bastarci. Partiamo da qualche dato. Già ora il settore turistico ticinese contribuisce per circa il 10% al prodotto interno lordo e si traduce nel 12% dell’occupazione. Sono cifre molto più alte della media nazionale, dal momento che in Svizzera il turismo rappresenta solo il 3% circa del PIL. Certo qualcuno, specie tra gli operatori, potrebbe obiettare che il turismo non è mai troppo. Perché dovremmo mettere dei limiti alla sua espansione? Sembra un punto di vista ineccepibi-

le, ma diversi studi di economisti suggeriscono invece che affidarsi principalmente al turismo per sostenere la crescita non sia una buona idea. Vediamo perché. Lasciamo da parte per un momento l’intrinseca vulnerabilità del turismo, la sua dipendenza da crisi sanitarie o attacchi terroristici. Restiamo ai soli aspetti economici. Per cominciare ‒sostengono questi ricercatori ‒ il turismo sfrutta il clima, il paesaggio, le bellezze naturali e i monumenti allo stesso modo in cui altri Paesi sfruttano i giacimenti di petrolio o i terreni coltivabili; risorse già esistenti e in quantità comunque finite. Certo è sempre possibile pensare e proporre nuove esperienze, ma nei fatti l’abitudine prevale, insieme a una certa pigrizia nello sviluppo di altri settori (la cosiddetta «maledizione delle risorse naturali»). E se è vero che il tu-

Cammino per Milano

rismo crea molti posti di lavoro, spesso questi sono stagionali, poco qualificati e mal pagati. Non a caso il settore turistico cantonale deve reclutare stranieri di varia provenienza, perché i locali sono poco interessati a queste mansioni. È difficile poi aumentare la produttività in una professione di servizio: un cameriere servirà sempre lo stesso numero di avventori, una guida non può estendere oltre un certo limite le dimensioni del gruppo, alberghi e ristoranti hanno un numero definito di stanze e tavoli.

Come ha scritto recisamente la giornalista economica Mariasole Lisciandro, «affinché un settore sia davvero decisivo per l’economia di un Paese bisogna valutarne le potenzialità di crescere e di portare sviluppo, cioè se attrae investimenti, stimola l’innovazione, e se crea posti di lavoro ben retribuiti e vantaggi per la società nel

suo complesso. Il turismo questo non lo fa». Non per nulla, continua, alla testa dello sviluppo turistico europeo troviamo Croazia, Portogallo, Spagna e Italia. Al contrario, i Paesi più ricchi e avanzati del continente (Francia, Germania, Danimarca e la stessa Svizzera) non puntano sul turismo, oltre un certo limite, e preferiscono investire su settori ad alta produttività; nel caso della Confederazione in particolare banche, farmaceutica, meccanica di precisione.

Come se non bastasse, il turismo è un’attività con un forte impatto sui territori, come abbiamo imparato in questi anni di Overtourism. La vicina Como, da molti invidiata senza troppe ragioni, lo mostra bene: inquinamento, aumento del costo della vita e degli affitti, trasformazione del centro storico, congestione nei luoghi più popolari.

Se gli economisti sconsigliano dunque di scommettere tutto sul turismo, non bisogna tuttavia esagerare nelle critiche. Se mantenuto nei giusti termini, il turismo resta un’attività importante per l’economia e la società. È un ottimo settore complementare e fonte di diversificazione. E anche al di là dei profitti, è un momento di apertura al mondo, di incontro con l’altro, di reciproca scoperta, di celebrazione della bellezza. Basta saper riconoscere e accettare i suoi limiti naturali. Ora io penso che questa soglia materiale e psicologica noi in Ticino l’abbiamo raggiunta da tempo (e forse anche superata). Invece di inseguire improbabili sogni di uno sviluppo illimitato, lavoriamo sui dettagli, perfezioniamo la nostra offerta senza l’ossessione di un segno più davanti ai numeri degli arrivi. A volte la scelta giusta è non fare nulla.

Una mattina di fine estate camminando su via Manzoni, quando devo, volto lo sguardo nello slargo e lo affondo fino a pescare, ancora una volta, seminascosto, il grigio-rosato del marmo di Candoglia. Lo stesso del Duomo. Già solo per questa scelta, il cubo-scalinata progettato nel 1988 da Aldo Rossi (1931-1997), ormai nostro compagno di viaggio nella metropoli dura ma con il cuore in mano, meriterebbe rispetto. E invece, purtroppo. Perdipiù l’utilizzo del marmo di Candoglia, le cui cave vidi in vespa tempo fa – all’inizio della Val d’Ossola, in occasione di una visita all’olmo di Mergozzo – è una rarità-eccezione: una legge del 1927 ne sancisce l’uso esclusivo per il Duomo. Simbolo di Milano a dieci minuti neanche a piedi da qui e il cui modellino in legno campeggiava nello studio di Aldo Rossi in via Maddalena uno (sette minuti dal Duomo), dove, immorta-

lato in alcuni scatti di Luigi Ghirri proprio nel periodo di quest’opera, si nota anche l’amore (condiviso) per l’azzurro carta da zucchero. Avanzando sulla piazzetta-slargo, verso il monumento coperto in parte dalle fronde dei gelsi – elementi del progetto come nel cimitero di Rozzano – e per metà dai dehors invasivi dell’Emporio Armani, emerge meglio il rosino etereo del marmo. Tagliato in conci rettangolari di cinquanta centimetri per venticinque, la grazia timidissima del rosa dei nove gradini – alti un metro – che risalta tra le venature di varie sfumature di grigio, prende il sopravvento come sempre. Poi l’effetto rosa marmo di Candoglia svanisce e si torna nella realtà. Sul primo scalino, nonostante la puzza di piscio, sono sedute due vecchiette con vestiti a fiori. Le scale del monumento a Pertini – presidente socialista della Repubblica italiana

Sport in Azione

dal 1978 al 1985, ex partigiano, al confino per anni sull’isola di Santo Stefano, Ponza, Ventotene, la cui immagine fissa, per me, è lui felice alla finale dei mondiali tra la folla del Bernabeu – guardano via Montenapoleone. Via dello shopping di lusso da dove qualcuno, ogni tanto, arriva stravolto con la moglie e figli, vestiti tutti come scemi spendendo un capitale, zavorrati di borse che appoggiano sulle scale del monumento a Pertini. «Il pisciatoio Pertini» come lo chiamano alcuni milanesi, mi disse, durante una delle mie ricognizioni serali, una voce sul campo. Osteggiato sin dal principio – come emerge dalle parole di Aldo Rossi trovate tra I quaderni azzurri (1999): «È strano che io non riesca a comunicare la gioia del suo significato e sia invece inteso come opera fredda ecc. per non dire il peggio» – è stato persino oggetto di una petizione anni fa per rimuoverlo.

Nino Schurter: il più grande di sempre

Roger Federer è destinato a condividere con Rafael Nadal e Novak Djokovic il titolo di re del tennis. Ogni appassionato, secondo i suoi parametri tecnici e soprattutto affettivi, cercherà di stabilire il suo personalissimo podio. Di regola, due sovrani non regnano contemporaneamente. Le altre icone dello sport svizzero del passato non potranno mai fregiarsi dell’appellativo «il più grande o la più grande di sempre». Nelle loro discipline, qualcuno è riuscito a conquistare un bottino decisamente pingue, ma non sufficiente. Ad eccezione dell’orientista Simone Niggli-Luder, autentica regina del suo sport. In futuro, ce la potrebbe forse fare Marco Odermatt, a condizione che riesca a dominare la scena sciistica almeno per altre quattro o cinque stagioni. Il titolo di Monarca assoluto, l’ha per contro conquistato Nino Schurter, il più straordinario Biker della storia. Dieci volte campione del mondo in-

dividuale, oltre ai sei ori a squadre. Tre volte sul podio olimpico, in crescendo: bronzo a Pechino nel 2008, argento a Londra nel 2012, oro a Rio de Janeiro nel 2016. Nove coppe del mondo, con 36 gare vinte. Tutto il resto sono briciole. Come ad esempio il secondo titolo europeo conquistato nel 2020 sull’affascinante tracciato del Monte Ceneri. Nino è, per ora, inarrivabile. Ieri, a Lenzerheide, sulla pista grigionese che sente molto sua, ha fatto la riverenza e ha ufficialmente lasciato il mondo delle competizioni. Un universo autentico, schietto, lontanissimo dallo «star system» del ciclismo su strada, per non parlare di calcio, tennis, o altro. Ventidue anni fa lo avevamo ammirato per la prima volta. Fra gli juniores, aveva conquistato l’argento iridato nell’edizione disputata sul Monte Tamaro. Bravino, pensavamo. Farà una buona carriera. Colui che lo ave-

va preceduto, il ceco Jaroslav Kulhavý, sembrava il suo incubo. Gli negherà in seguito l’oro ai Mondiali di Champery, nel 2011, e soprattutto quello dei Giochi di Londra, al termine di una volata nata male, che Nino, ne sono più che convinto, avrebbe vinto nove volte su dieci. Da quel giorno, la parabola del nostro asso è stata un continuo e costante viaggio nella leggenda. Demoliti i record del precedente monarca, il francese Julien Absalon, Nino ha dominato la scena anche quando si sono messi in gioco stradisti e ciclocrossisti di grande spessore come Peter Sagan e Mathieu Van der Poel. Solo nelle due ultime stagioni, ha sofferto la presenza del minuscolo ed esplosivo britannico Tom Pidcock. Ciò nonostante, l’aura del 39enne campione romancio di Tersnaus non è stata minimamente scalfita.

Ci mancherà. Alla nostalgia dovremo aggiungere anche un pizzico di

Ma non perdiamoci in queste polemiche inutili, focalizziamo piuttosto l’attenzione sulla presenza delle scale che fa scattare l’assonanza con il monumento-fontana a Segrate visitato quindici giorni fa. E ventuno gradini c’erano anche per l’irrealizzato monumento alla Resistenza a Cuneo del 1962. Un elemento che contiene, va da sé, l’invito a vivere il monumento, farne parte, salirci sopra come faccio adesso. «L’attitudine al monumento abitato» come scrive Claudia Tinazzi in Aldo Rossi e Milano (2017). In cima, uno scempio, spazzatura, resti di un pasto, bottiglie vuote di birra sarda: forse un bivacco. Spero almeno sia un letto di fortuna per qualche barbone come si deve. Qui, come nel favoloso cubo con finestra-fessura che avrebbe incorniciato i campi di battaglia a cui era dedicato, c’è una feritoia dove guardare. Fronde d’albero, macchine, cartello della fermata Montenapoleo-

ne del metrò che tra l’altro è mecenate dell’opera inaugurata nel 1990. Scendo per ammirare l’acqua sgorgare da un triangolo. Altro elemento-corrispondenza con Segrate. Il triangolo è innestato nel cubo di otto metri per lato tutto in marmo di Candoglia. E la luce settembrina, qui nel lato fontana, ne accarezza e accoglie il rosato lieve tipo alba. Oltre i gelsi, pensati dall’architetto-designer milanese perché scomparsi dal paesaggio, pure i lampioni, particolari, sono parte del progetto. In origine erano di un bel verde gioco poi Giorgio Armani, morto di recente e su tutte le prime pagine del mondo e a cui non è mai piaciuto il monumento-fontana II di Aldo Rossi, li ha fatti ridipingere in un grigio topo. Nel rosa marmo di Candoglia più tenue del rosa Tiepolo, ritrovo, un po’, per gli occhi, una via di fuga. E mi siedo sul primo gradino.

rimpianto, per non aver celebrato sufficientemente le emozioni che ci ha donato in oltre vent’anni di trionfi. I suoi successi, al di là di un’innata e necessaria predisposizione fisica, non sono figli del caso. Nino è da sempre un combattente maniacale. Da bambino, dopo un brevissimo periodo in cui il calcio sembrava aver preso il sopravvento sulla bici, aveva virato decisamente verso le due ruote. Si dice che inseguisse il postino in salita per superarlo a tutti i costi. Si narra che durante una fase di team building, alla prima esperienza con l’arco, fece subito centro. «Con lui non si vince neppure alle biglie» sentenziarono gli altri. Del resto, Schurter si metteva in gioco ovunque e sempre. Anche par vedere chi era il più rapido nel caricare il bagaglio sul pullman della squadra. Compagni e avversari li voleva e li doveva battere. Era il suo mantra. In compenso, dicono, e non stento a cre-

derlo, è sempre stato un amico leale e generoso. Pronto a cucinare pasta al sugo per tutti. Pronto soprattutto a dispensare suggerimenti e consigli. Ne sa qualcosa il nostro Filippo Colombo, che dalla scorsa stagione gareggia nella sua stessa squadra diretta da Thomas Frischknecht. Nino è entrato nei nostri cuori perché appartiene alla categoria dei campioni semplici, che non si nascondono dietro una maschera. Poco propenso alla spettacolarizzazione della sua non sempre agevole esistenza, lo spettacolo lo offriva in sella alla sua MTB; di poche parole, ma di sostanza; sempre sorridente, anche quando l’esito della corsa non lo aveva premiato; sempre disponibile nei confronti dei media e dei fans. Credo che aver potuto vivere la sua straordinaria carriera sia stato un privilegio, per entrambe le categorie. Per questa ragione il minimo che mi sento di dirgli è: grazie Nino.

di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf

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