Hyperion di Meta è solo l’inizio: ecco come i data center ridisegnano le mappe energetiche del mondo
Razzismo e misoginia tra gli agenti? La parola a Christophe Cerinotti della Polizia cantonale
ATTUALITÀ Pagina 15
La Francia in cortocircuito
CULTURA Pagina 19
Alla Fondazione Marguerite Arp di Solduno si ripercorre il sodalizio tra Hans Arp e El Lissitzky
L’anteprima del documentario Skate Borders inaugura il nuovo e atteso Skatepark di Mendrisio
TEMPO LIBERO Pagina 29
Migros Ticino forma i nostri giovani
Mattia Keller
Nel mese di luglio, tutte e 16 le apprendiste e gli apprendisti del terzo anno di Migros Ticino, attivi in 8 professioni diverse, hanno superato con successo gli esami finali. Uno di loro ha ricevuto la medaglia d’argento per aver ottenuto una media finale di 5.7, mentre altri quattro hanno conseguito quella di bronzo con una media di 5.3. A tutti loro rivolgo le mie più vive congratulazioni per aver raggiunto un traguardo importante: ce l’avete fatta! Siamo orgogliosi di voi e vi auguriamo il meglio per il vostro futuro personale e professionale. Non vi nascondo che è un piacere vedere questi giovani adulti crescere. Questo risultato è frutto del loro impegno e della loro passione, ma anche della dedizione di Migros Ticino nel formare le nuove leve di domani. Come unico grande dettagliante domiciliato in Ticino, nel 2022 abbiamo scelto di investire maggiormente nel futuro della nostra gioventù, rafforzando la formazione professionale in generale e l’apprendistato
in particolare. Oggi siamo orgogliosamente il principale formatore privato di apprendisti nel Cantone Ticino. Con l’avvio dell’anno scolastico 2025-2026 raggiungeremo la nostra «velocità di crociera», con circa 70 apprendisti in azienda. Quando c’è di mezzo Migros si pensa inevitabilmente al personale dei supermercati, ma la nostra offerta formativa va ben oltre: impiegato o assistente del commercio al dettaglio (supermercato), impiegato o addetto alla logistica, impiegato di commercio (con maturità integrata), autista di veicoli pesanti, meccanico di autoveicoli, cuoco o addetto di cucina, impiegato nella gastronomia standardizzata, operatore per la promozione dell’attività fisica e della salute (Activ Fitness). Un bel ventaglio di opportunità per chi si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro e mette il piede nella porta del grande universo Migros. Formare i giovani significa credere nel potenziale del nostro territorio e contribuire attiva-
mente alla sua crescita. Ma perché lo facciamo? Vien voglia di dire: «Tipico di Migros». Infatti, la nostra ragion d’essere recita: «Ci impegniamo quotidianamente e con passione per la qualità della vita della popolazione e per la società». Non deve dunque sorprendere se Migros Ticino si impegna con tanto vigore nella formazione professionale. Prendersi carico della formazione dei nostri giovani dovrebbe essere un dovere per tutti. Prendo spunto dall’editoriale del n. 30 di «Azione». Sembra che la società sia sempre meno tollerante verso gli schiamazzi e la voglia di cambiamento, spesso legati a bambini e giovani, specialmente d’estate. In un Ticino confrontato con un saldo negativo delle nascite (il numero di nati nel nostro Cantone nel 2024 è stato il più basso degli ultimi 40 anni), con una popolazione che invecchia e con un’immigrazione molto più debole rispetto al resto della Svizzera, le tematiche che orbitano attorno a giovani e giova-
nissimi ci riguardano tutti. Il problema è serio, sia da un punto di vista sociale sia economico. A Migros Ticino il tema sta molto a cuore, e il crescente numero di apprendiste e apprendisti in azienda ne è la prova. Oserei dire che siamo in controtendenza, per il bene della nostra società. Da qualche settimana è iniziato il nuovo anno scolastico. Un nuovo capitolo di vita si apre, soprattutto per gli apprendisti del primo anno. È un grande cambiamento per 25 giovani che stanno cominciando la loro avventura professionale in Migros Ticino. Tutti loro devono impegnarsi e acclimatarsi, mentre noi li accompagniamo con professionalità e dedizione. Inoltre, a breve ci saranno interessanti novità per l’apprendistato: le condizioni di lavoro verranno unificate all’interno del Gruppo Migros, piacevolmente migliorate e adattate ai bisogni delle nostre giovani colleghe e dei nostri giovani colleghi. Insieme, costruiamo il futuro!
Paola Peduzzi Pagina 13
Il denaro contante sarà presto obsoleto?
Incontri ◆ Martin Schlegel, presidente della Banca nazionale svizzera da ottobre 2024, spiega perché sono necessarie nuove banconote, cosa possono aspettarsi i risparmiatori e perché gli ostacoli per l’introduzione di tassi di interesse negativi sono forti
Christian Dorer
Signor Schlegel, la sua firma è apposta su milioni di banconote svizzere. Che effetto fa?
È una cosa molto speciale. Da un lato ne sono felice, ma dall’altro mi rende ancora più consapevole della responsabilità che deriva dal mio lavoro.
Come spiega ai suoi tre figli cosa fa come presidente della Banca nazionale?
Spiego loro che mi assicuro che i prezzi in Svizzera rimangano il più possibile stabili e che il nostro denaro mantenga quindi il suo valore, in modo che l’economia possa svilupparsi bene.
Conflitti commerciali, indebolimento dell’economia globale, franco forte: che ruolo svolge la Banca nazionale svizzera in tutto questo?
L’affidabilità è particolarmente importante in tempi di incertezza. L’incertezza è un veleno per l’economia: le aziende investono meno e assumono meno persone. Per questo è ancora più importante che possano contare su una politica monetaria stabile.
Questo le conferisce un’enorme influenza come presidente della Banca nazionale. Superiore a quella del Consiglio federale, dicono alcuni. Io la vedo diversamente. Il nostro mandato è la stabilità dei prezzi, per il quale abbiamo uno strumento chiaro: la politica monetaria. Il Consiglio federale ha un mandato molto più ampio e più strumenti, quindi non è paragonabile.
Le nuove banconote svizzere dovrebbero arrivare nei portafogli dei cittadini a partire dal 2030. Il concorso, in cui il pubblico poteva valutare le proposte, è durato fino a ieri. Ha già qualche preferenza? Ci sono molti disegni bellissimi. Per noi era importante vedere cosa piaceva alle persone. Il tema è «la Svizzera, varietà in rilievo», dalle valli alle montagne.
Paesaggi idilliaci al posto di personalità importanti che potrebbero dividere l’opinione pubblica: è tipico della Svizzera?
Abbiamo scelto questo tema perché offre ai designer un ampio margine di creatività e perché i motivi sono immediatamente riconoscibili dagli abitanti della Svizzera. All’inizio del prossimo anno vedremo quali bozzetti saranno poi sviluppati per la realizzazione delle nostre nuove banconote.
L’introduzione dell’ultima serie è terminata nel 2019. Perché abbiamo bisogno di nuove banconote?
Le banconote sono altamente tecnologiche: filigrane, variazioni di colore, effetti UV. Tutto ciò rende più difficile la contraffazione. Sostituia-
mo la serie ogni 15 anni circa per essere sempre un passo avanti rispetto ai contraffattori. Si tratta di una gara in cui la Banca nazionale dev’essere in vantaggio. Le nuove banconote saranno emesse non prima dell’inizio degli anni 2030.
Quindi il contante attuale non è sicuro?
Eccome! Le nostre banconote sono ancora molto sicure. In Svizzera sono rari i falsi di buona fattura; di solito si tratta di copie mal fatte. La nuova serie rafforza la sicurezza e rappresenta anche un chiaro impegno nei confronti del contante.
Il contante non è considerato obsoleto?
Circa un terzo di tutti i pagamenti viene ancora effettuato in contanti. Secondo i sondaggi, oltre il 90% degli svizzeri vorrebbe poter pagare in questo modo anche in futuro. Per molti il denaro contante fa parte della vita quotidiana. Ma ovviamente è necessario utilizzarlo per poterne garantire il futuro a lungo termine.
In circolazione ci sono circa 500 milioni di banconote svizzere, cioè
55 per persona. Dove sono tutti i soldi?
Non lo sappiamo. Il contante viene utilizzato in modo anonimo. Le banconote sono utilizzate per i pagamenti e come riserva di valore.
Se il contante ci dà sicurezza nella vita di tutti i giorni, cosa fa la Banca nazionale per garantire che il nostro denaro mantenga il suo valore?
Lo strumento più importante è il tasso guida. L’abbiamo ridotto a zero in giugno. Ciò significa che i prestiti stanno diventando più convenienti per le aziende e i privati e che gli investimenti stanno aumentando. Questo stimolerà gradualmente l’economia e manterrà la stabilità dei prezzi.
Allo stesso tempo, i risparmiatori sono direttamente colpiti: chiunque abbia denaro in un conto di risparmio difficilmente guadagnerà interessi. Non è ingiusto?
La politica dei tassi d’interesse ha sempre due facce. I risparmiatori e i mutuatari sono colpiti in modo diverso. Con il tasso guida come strumento principale, la Banca nazionale
assicura prezzi stabili e uno sviluppo economico favorevole. E questo è di beneficio a tutti.
Presto potrebbero venire introdotti tassi di interesse negativi?
Siamo consapevoli che i tassi di interesse negativi possono avere effetti collaterali indesiderati, per esempio per i risparmiatori e le casse pensione. Gli ostacoli per una loro reintroduzione sono elevati.
Tra i tassi di interesse a zero e quelli negativi il passo è breve. La Banca nazionale ha sparato tutte le sue cartucce troppo presto?
In politica monetaria bisogna prendere le decisioni in modo tempestivo. Altrimenti poi bisogna intervenire più massicciamente. Dobbiamo agire con lungimiranza e per tempo per mantenere i prezzi stabili.
Molti risparmiatori sono infastiditi dalla rapidità con cui le banche tagliano i tassi di interesse, ma indugiano a lungo prima di alzarli. Voi della Banca nazionale potete fare pressione?
No, le banche decidono da sole. La concorrenza dovrebbe garantire che
le offerte rimangano eque: chiunque non sia soddisfatto può cambiare banca.
Lei ha parlato di inflazione. Cosa dobbiamo aspettarci?
Secondo le nostre previsioni di giugno, i prezzi aumenteranno dello 0,2% quest’anno, dello 0,5% l’anno prossimo e dello 0,7% l’anno successivo. I prezzi degli acquisti, gli affitti e il costo della vita rimarranno quindi sostanzialmente stabili.
Tuttavia, molte persone hanno l’impressione di avere meno soldi a fine mese, ad esempio a causa dell’aumento dei premi della cassa malati.
I premi non fanno parte del paniere di beni, ma i costi sanitari sì. In questo ambito i prezzi sono stabili o in leggero calo. I premi aumentano perché si richiedono più prestazioni e più farmaci. Tutte le famiglie se ne rendono conto nel loro bilancio.
Il franco è forte, mentre l’euro e il dollaro si sono indeboliti. Andrà avanti così per sempre?
I tassi di cambio sono quasi impossibili da prevedere. Il franco si è apprezzato in primavera, soprattutto nei confronti del dollaro. Ma se si considera che i prezzi e quindi i costi per le aziende aumentano molto più rapidamente in altri Paesi, l’apprezzamento non è così grande in termini reali come sembra a prima vista.
Che impatto avranno i dazi statunitensi?
Inizialmente creeranno molta incertezza. Molte aziende investiranno meno e ciò avrà un impatto negativo sull’economia. Naturalmente singole aziende potranno essere gravemente colpite dai dazi doganali. Resta da vedere quanto sarà grande l’impatto complessivo.
Abbiamo parlato molto di soldi, di tassi di interesse e di franchi. Veniamo a lei: aveva solo 27 anni e aveva appena finito l’università quando ha iniziato a lavorare alla Banca nazionale. Perché non è entrato nel settore privato?
La Banca nazionale è un datore di lavoro da sogno! In qualità di economista, si può fare la differenza. Se facciamo un buon lavoro, aiutiamo la popolazione svizzera. Questo è sempre stato importante per me.
Spesso viene descritto come una persona con un grande senso dell’umorismo. Il suo lavoro è probabilmente uno dei più seri. Come si conciliano questi due elementi? Certo, il denaro è una questione seria, ma siamo anche esseri umani. L’umorismo e, soprattutto, una buona squadra aiutano a padroneggiare meglio argomenti complessi. Soprattutto in tempi turbolenti come quelli attuali.
Martin Schlegel (49) è il presidente della Banca nazionale svizzera. (Kilian J. Kessler)
Il lupo, dal clamore alla convivenza
In Ticino la presenza del predatore continua a far discutere per il difficile equilibrio tra gestione dei branchi e protezione delle greggi
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Il settembre dell’Automotive
Tre gli appuntamenti che segnano la fine dell’estate: il Gran Premio di Monza, il Salone di Monaco e la Mostra del cinema di Venezia
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La valorizzazione dei Monti di Rima
In Val Lavizzara sopra Broglio c’è una vasta area con 170 edifici raggruppati in vari nuclei, un territorio tutto da scoprire tra le caraa
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Titani sempre più affamati di energia
Nel cuore della digitalizzazione ◆ Dai deserti americani alle Alpi svizzere, i data center stanno ridisegnando le mappe energetiche del mondo. E Hyperion è solo l’inizio
Fabio Meliciani
Nel cuore della Louisiana, Meta sta costruendo qualcosa che somiglia più a un mito che a un’infrastruttura digitale: si chiama Hyperion e sarà uno dei più grandi data center mai realizzati. Destinato a raggiungere, dopo il 2030, la potenza di 5 gigawatt – più di una centrale nucleare – i suoi consumi saranno superiori a quelli di quattro milioni di abitazioni. Una fabbrica di dati pensata per sostenere l’intelligenza artificiale di nuova generazione. Data center di queste dimensioni rappresentano il simbolo di un equilibrio fragile tra ambizioni tecnologiche e sostenibilità: richiedono infrastrutture energetiche proprie, stabili e sicure. Meta presenta Hyperion come un modello virtuoso di sostenibilità basato su fonti rinnovabili e mitigazione dell’impatto ambientale, ma servirà un monitoraggio attento e valutazioni di impatto a lungo termine, che considerino le complessità del sistema energetico statunitense e le risorse idriche coinvolte, fondamentali per il raffreddamento. Nel frattempo, le altre big tech, Google, Amazon e Microsoft, non stanno a guardare.
Meta sta costruendo
Hyperion, un data center destinato a raggiungere la potenza di 5 gigawatt, più di una centrale nucleare
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), entro il 2026 il consumo globale dei data center potrebbe superare i 1000 terawattora, più del fabbisogno annuo del Giappone. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Pensiamo solo all’uso incontrollato e quotidiano che facciamo dei nuovi strumenti di AI: «Una singola interrogazione complessa di ChatGPT consuma molto più di una ricerca tradizionale – usiamo questi strumenti senza renderci conto dell’impatto ambientale», osserva Marina Natalucci, direttrice dell’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano. Eppure, nonostante questa crescita, i data center restano ai più infrastrutture invisibili. «C’è scarsissima consapevolezza – continua Natalucci – il digitale appare immateriale, eppure è estremamente fisico. Ogni volta che mandiamo un messaggio, guardiamo un video in streaming, inviamo una mail, accediamo a un’app, lasciamo una traccia da qualche parte in un data center ». «Il data center è il cuore della digitalizzazione», sottolinea Sergio Milesi, presidente dell’Associazione Svizzera dei Data Center. «Chi dice ’ho il mio portatile, non mi serve il cloud’ non sa che anche quel portatile, per accedere ai dati, si connette a un data center. So-
no infrastrutture critiche come le autostrade o le centrali elettriche. Senza, la società digitale si ferma».
«Il mercato si sta distribuendo –spiega Natalucci – avremo un’architettura mista, con grandi e piccoli centri integrati». Marco Bettiol, economista dell’Università di Padova, descrive il quadro in evoluzione: «Passiamo dagli hyperscaler, grandi operatori con enormi data center, ai modelli edge, più piccoli e vicini alla domanda. Questi ultimi saranno una parte cruciale della nuova rete distribuita, connessi alle antenne del 5G, per elaborare localmente e restituire risposte in tempo reale, fondamentali nel caso di applicazioni sensibili alla velocità di risposta, come le auto a guida autonoma». Questa nuova geografia del digitale impone delle scelte. La Svizzera, pur lontana dai riflettori dei progetti titanici americani, si sta ritagliando un ruolo di rilievo. La sua posizione geografica, la stabilità politica, la legislazione favorevole alla protezione dei dati e la qualità del sistema formativo la rendono attraente per governi e imprese. «Come Associazione vogliamo far capire che la Svizzera è un buon luogo per installare queste infrastrut-
ture», afferma Milesi. La recente riunione dell’Associazione Svizzera dei Data Center in Ticino ha segnato un passaggio simbolico: «Nel 2012 c’erano solo piccoli spazi privati», ricorda Nicola Moresi, imprenditore e fondatore nel 2012 del primo data center pubblico della Svizzera italiana. «Oggi, solo nella nostra struttura, a parità di superficie, la quantità di dati è cresciuta di dieci volte». E a crescere sono anche i consumi: «Quando abbiamo iniziato, un rack, un armadio con server, di un metro quadrato assorbiva circa 8 kW; oggi può arrivare a 800. L’equivalente di centinaia di asciugacapelli accesi insieme».
In Svizzera, ci sono 115 data center concentrati nelle grandi aree urbane e consumano il 4% dell’elettricità nazionale; secondo le stime di InfraWatt, il loro consumo energetico potrebbe raggiungere i 2,7 e 3,5 TWh entro il 2026, corrispondenti a una quota tra il 4,7% e il 6,1% del fabbisogno energetico nazionale. Oggi, a livello europeo, secondo IEA (L’agenzia internazionale dell’energia) i data center assorbono il 2-3% dell’elettricità totale, questa quota potrebbe salire al 5-6% entro il 2030, con un consumo annuo tra i
150 e i 160 TWh. Il motore di tutto questo? L’espansione dell’AI e del cloud computing Sul fronte normativo, la direttiva UE 2023/1791 obbliga – dal 2024 – tutti i data center sopra i 500 kW a dichiarare pubblicamente i consumi, a migliorare il proprio indice PUE (Power Usage Effectiveness), e adottare sistemi di recupero del calore. Il PUE misura l’efficienza energetica: più il valore è vicino a 1, più l’energia è usata direttamente per i server. La Svizzera, pur fuori dall’UE, si muove nella stessa direzione con certificazioni (come la Swiss Data Center Efficiency Association) e progetti di teleriscaldamento. Dietro questa crescita si nasconde una sfida tecnologica, ma soprattutto politica e sociale: quale mondo vogliamo? A quale costo? L’energia non è solo una voce di spesa, è una condizione abilitante. Se salta la corrente, il cloud si ferma, e con esso pezzi importanti della nostra società. Ecco perché in Svizzera – ma anche in Europa – si investe sempre più in resilienza: linee ridondanti, doppi generatori, backup energetici e tecnologie per il raffreddamento ad alta efficienza.
Con la ricerca di sistemi sempre più
efficienti crescono anche le sperimentazioni su modelli di economia circolare, sul riuso di acqua e calore. In Svizzera, alcuni esempi concreti mostrano come il calore prodotto dai server possa diventare un elemento virtuoso della transizione energetica. Sergio Milesi sottolinea con chiarezza il potenziale di questo approccio: «Abbiamo attualmente due progetti realizzati nella regione di Zurigo, dove coi data center riscaldiamo 5000 case». In altri casi il calore in eccesso è messo a disposizione dell’industria locale. «A San Gallo, per esempio, un data center trasferisce il calore di scarto a un produttore di formaggio», racconta Milesi. «Il produttore non paga nulla per l’energia ricevuta: è una situazione win-win». Ma c’è un’altra dimensione spesso trascurata: quella nascosta nel ciclo di vita dell’ hardware. «Nelle nostre analisi, abbiamo applicato il Life Cycle Assessment ai data center», spiega Bettiol. «Oltre all’energia operativa, abbiamo stimato quella incorporata nella produzione, nei trasporti, nella logistica. Una quota enorme e spesso ignorata». Google stima che il 70% delle proprie emissioni derivi da queste fonti indirette: 14 milioni di tonnellate di CO₂ l’anno, pari all’energia consumata da 2,6 milioni di europei. «Purtroppo i produttori non sono ancora obbligati a dichiarare i consumi legati per esempio alla fabbricazione dei chip», denuncia Bettiol. Nello stesso modo, anche la Swiss Data Center Efficiency Association studia indicatori di efficienza basati non solo sul consumo elettrico, ma anche sul consumo di acqua, sul calore e sulla capacità di riutilizzo. L’obiettivo? Fare della Svizzera un laboratorio di efficienza digitale. «Serve trasparenza – conclude Bettiol – bisogna incentivare gli operatori a dichiarare i consumi, e allo stesso tempo coinvolgere i cittadini. Oggi non abbiamo strumenti per misurare il nostro inquinamento digitale, mentre possiamo misurare per esempio il tempo d’uso del nostro smartphone». Hyperion è davvero l’inizio di una nuova era? Forse sì. Ma il futuro dei data center non è scritto. Gli Stati Uniti puntano su mega-infrastrutture energivore, e in un mondo globale i servizi che usiamo dipendono anche da queste infrastrutture. L’Europa – e la Svizzera – dal canto loro possono scegliere e promuovere un’altra via: quella della trasparenza, dell’efficienza, della consapevolezza. Ma il vero nodo non è solo tecnologico o ambientale: è politico e culturale, perché la questione energetica dei data center è anche un problema di equità: chi controlla i flussi di dati, controlla una parte importante delle nostre vite, e l’infrastruttura su cui si regge questa nuova economia non può restare invisibile e nelle mani di pochi.
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Breve storia e origini del tofu
Nato in Cina più di 2000 anni fa, il tofu è da sempre un pilastro dell’alimentazione asiatica. Preparato con semi di soia, acqua e un coagulante naturale, nel tempo ha conquistato il Giappone, la Corea e gran parte del Sud-Est asiatico, diventando un alimento versatile e prezioso per le sue qualità nutrizionali.
Negli ultimi decenni ha fatto la sua comparsa anche sulle tavole europee, apprezzato sia da chi segue una dieta vegetariana o vegana, sia da chi cerca alternative leggere e salutari alle proteine animali.
Intervista a Pablo Wydler, titolare di Tigusto SA: il cuore del tofu ticinese
Come è nata l’idea di produrre tofu in Ticino e quali sono stati i primi passi della vostra attività?
L’idea nacque dal fondatore Pierluigi Zanchi che, nel 1988, in un piccolo laboratorio di Muralto ebbe la visione di produrre il primo tofu in Ticino. All’epoca il tofu era ancora poco conosciuto alle nostre latitudini e ci volle un pizzico di sana follia unito a una chiara visione per intraprendere questo percorso. Portare sulle tavole ticinesi un prodotto come il tofu, alla fine degli anni 80, non era affatto scontato. Tuttavia, la convinzione che fosse importante sia dal punto di vista nutriziona-
Il tofu nostrano: una storia ticinese di visione, gusto e salute
Attualità ◆ Gli amanti di questo prezioso nutriente alla Migros trovano il tofu di produzione locale, realizzato in modo sostenibile dalla Tigusto SA di Cugnasco-Gerra
le che ecologico spinse a proseguire con determinazione.
Come per ogni attività pionieristica, furono necessari molta promozione e tanta sensibilizzazione per avvicinare i consumatori. Con corsi di cucina, sia per privati che per cuochi professionisti, si iniziò a far conoscere le qualità e la versatilità di questo magnifico alimento.
Dopo i primi anni a Muralto, Tigusto si trasferì a Gerra Piano in uno spazio più grande, che permise di aumentare la produzione di tofu e di introdurre nuovi prodotti come seitan, tempeh, salse e condimenti. Nel 2002 nacque ufficialmente Tigusto SA, un laboratorio di artigianato alimentare specializzato nella trasformazione di prodotti vegetali con un forte orientamento alle materie prime regionali.
Quali sono i tratti distintivi della lavorazione artigianale del tofu Tigusto? Il nostro tofu nasce come un piccolo miracolo artigianale, seguendo un processo simile a quello del formag-
estratto
del sale marino – si forma la cagliata, che viene pressata in panetti rettangolari. Ogni passaggio è seguito con estrema cura: dal seme al pro-
«In cucina con il tofu: la versatilità che sorprende»
Cucinare con il tofu è un piccolo viaggio nel gusto e nella creatività. Non è solo un ingrediente, ma un compagno silenzioso della cucina, capace di assorbire profumi e aromi e di trasformarsi in mille sfumature di sapore. Immaginate di iniziare la giornata con un tofu marinato in erbe fresche, servito freddo e accompagnato da verdure croccanti: la semplicità di un antipasto leggero che già stimola il palato e invita alla scoperta. Quando si passa al primo piatto, il tofu non si fa trovare impreparato. In un curry giallo, diventa morbido e avvolgente, lasciando che le spezie danzino intorno a ogni boccone; oppure, saltato velocemente in wok con gli spaghetti, si fa croccan-
te, regalando contrasti di consistenze che rendono il piatto sorprendente e moderno.
Nei panini o nello street food, il tofu si trasforma ancora. Grigliato e accompagnato da salse colorate e verdure di stagione, diventa protagonista di burger vegetali che conquistano anche i più scettici. E se cercate un pasto completo, basta aggiungere qualche dadino di tofu a un couscous mediterraneo o preparare polpette al forno: nutriente, gustoso e perfetto da condividere.
Anche le zuppe trovano in lui un alleato prezioso: nella classica zuppa di miso giapponese, il tofu fresco si fonde con il brodo caldo, diventando comfort food puro, capace di scal-
dare il cuore nei giorni più freddi. E persino nei dolci, il tofu sorprende: trasformato in mousse al cioccolato, regala una consistenza cremosa e delicata, dimostrando che la cucina vegetale può essere elegante e golosa allo stesso tempo. Il segreto, come dice Pablo Wydler, è che il tofu non è insapore. È silenzioso, discreto, ma pronto a raccontare storie di aromi e di spezie, a trasformare un pasto ordinario in un’esperienza sensoriale. Basta un pizzico di curiosità per scoprire il modo migliore di gustarlo e, chissà, forse trovare un nuovo ingrediente preferito per la vostra cucina. ◆
Nicola Mastaglio, coach nutrizionale
dotto finale, tutto deve trasmettere freschezza, qualità e autenticità. Non è solo tofu, è un pezzo di Ticino nel piatto.
Per produrre il tofu utilizzate materie prime locali?
Per noi, la territorialità è fondamentale. Usiamo soia biologica coltivata sul Piano di Magadino, a pochi chilometri dal laboratorio. Il clima caldo del Ticino conferisce caratteristiche uniche ai nostri prodotti. Ogni panetto è quindi al 100% nostrano. Ma non ci fermiamo alla soia: valorizziamo anche altri prodotti locali, come i pomodori ticinesi. Vogliamo creare un legame concreto tra la nostra cucina e il territorio, sostenendo l’agricoltura locale e offrendo prodotti autentici e genuini.
Ci sono curiosità o aneddoti particolari legati alla vostra esperienza? Dopo 37 anni di guida di Pierluigi Zanchi, nell’aprile 2025 la direzione dell’azienda è passata al sottoscritto. La filosofia, però, non è cambiata: continuiamo a credere nella sostenibilità, nella qualità e nel valore sociale del nostro lavoro. Un esempio concreto? Consegniamo i nostri prodotti con un furgone elettrico alimentato dal nostro impianto fotovoltaico, e compensiamo al 100% le emissioni di CO₂ con MyClimate. Per noi, il tofu non è solo cibo: è anche un piccolo gesto per un mondo più sostenibile.
Quali sono i principali benefici del tofu per la nostra salute? Il tofu è un vero alleato del corpo: fonte di proteine vegetali di alta qualità, privo di colesterolo e povero di grassi saturi. È ricco di calcio, ferro e magnesio, con basso indice glicemico, e sostiene cuore, ossa e metabolismo. Oggi è persino inserito nella piramide alimentare ed è raccomandato dalla Società Svizzera di Nutrizione. Mangiare tofu non è solo gustoso, è una scelta consapevole per il benessere.
Partecipa al grande concorso dei Nostrani del Ticino
Attualità ◆ Con un po’ di fortuna, puoi aggiudicarti fantastici premi
In concomitanza con la terza rassegna annuale dedicata ai Nostrani del Ticino, in corso ancora per tutta la settimana corrente, Migros Ticino ha lanciato anche un grande concorso per vincere fantastici premi. Il premio principale consiste nientemeno che in un’autovettura elettrica BYD Dolphin Surf del valore di CHF 25’000, vettura dal design moderno e sportivo particolarmente apprezzata per la sua versatilità e praticità. Ma non finisce qui: tra tutti i partecipanti verranno anche estratti 50 bellissimi zaini brandizzati con l’inconfondibile grafica dei Nostrani del Ticino. Come partecipare? Semplicissimo. Acquista un articolo con il nuovo brand Nostrani del Ticino della Migros, scansiona il codice QR presente sulla confezione e verrai reindirizzato direttamente alla pagina dove inserire i tuoi dati personali e quelli dello scontrino. Buona fortuna!
gio. I semi di soia vengono ammollati, macinati a pietra, bolliti e filtrati fino a ottenere il latte di soia. Poi, grazie al nigari – un
Pablo Wydler
Sirio
Tofu del Ticino Bio per 100 g Fr. 2.20
Prodotti di casa nostra.
Tutto l’assortimento di ravioli Nostrani per es. al brasato, 250 g, 5.50 invece di 6.90 (100 g = 2.20)
5.60 invece di 7.50 25%
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Pormaggini freschi, aha! per 100 g
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Lupo: né mostro, né favola
Ticino ◆ Dal clamore alla convivenza, cosa racconta il ritorno nei nostri boschi del predatore più discusso delle Alpi?
Maria Grazia Buletti
Secondo i dati aggiornati al mese di luglio di quest’anno, il Dipartimento del territorio indica che i casi di predazioni nelle greggi da parte dei lupi erano 17 nel 2022, 11 nel 2023, e sono passati dai 19 del 2024 ai 23 del 2025, ai quali oggi vanno aggiunti 16 episodi ancora in fase di analisi, per un probabile totale di 39. Per rapporto alle predazioni di quest’anno, viene indicato pure che «in 14 casi gli animali attaccati erano non protetti e in sette non proteggibili». Durante l’estate, non si è parlato d’altro: avvistamenti ravvicinati, predazioni su greggi, branchi osservati nei pressi di zone abitate. Il lupo è tornato, e la sua presenza fa rumore. Quando un animale diventa notizia per la sua semplice esistenza, è lecito chiedersi se stiamo davvero affrontando il tema con gli strumenti giusti. Tra timori e recriminazioni, si può facilmente perdere la prospettiva ed è ora di chiedersi cosa significhi convivere con il lupo. Leggendo la situazione nel modo più oggettivo possibile, la prima domanda è: il lupo non è più una notizia, ma un vicino di casa? Dal clamore alla convivenza, cosa dice davvero il ritorno del predatore più discusso delle Alpi?
Nel 2025 in Ticino è accertata la presenza di 6 branchi: Onsernone, Val Colla, Carvina, Lepontino, Gridone e Madom
«Il suo ritorno era annunciato da tempo, considerando che dopo l’estinzione locale avvenuta nel secolo scorso, il lupo è risalito spontaneamente dall’Appennino e dalle Alpi occidentali. In Ticino, la sua presenza stabile si registra da circa un decennio, ma è solo negli ultimi anni che la sua visibilità è aumentata». È la conferma del biologo Gabriele Cozzi, collaboratore scientifico dell’Ufficio della caccia e della pesca da noi interpellato, secondo il quale: «Non è certo una sorpresa perché il monitoraggio della sua espansione ha chiaramente mostrato che il ritorno del lupo sulle Alpi era atteso da anni. Oggi, tra branchi, coppie stabili e individui in dispersione è presente su tutto il territorio Cantonale». A conferma, i dati statistici: «Nel 2025 in Ticino è accertata la presenza di 6 branchi: Onsernone, Val Colla, Carvina, Lepontino, Gridone e Madom. Quest’ultimo identificato a metà 2025. Inoltre, sono presenti 5 coppie stabili, due in più rispetto al 2024». Cozzi puntualizza: «Ad eccezione dei branchi Lepontino e Madom, si tratta di branchi transfrontalieri e, di conseguenza, non sempre presenti sul nostro territorio e più difficili da monitorare. Agli individui adulti che compongono i branchi, si aggiungono i 10 adulti delle cinque coppie citate, per un totale stimabile di circa 26 – 28 lupi adulti stabili».
Né mostro, né favola, il lupo (Canis lupus italicus) è un predatore sociale intelligente e opportunista. Vive in branchi con una gerarchia precisa, si nutre soprattutto di ungulati selvatici (come cervi e caprioli), ma non disdegna pecore e capre se accessibili. Ed è proprio questo il nodo più sensibile: la convivenza con l’attività pastorizia. Il biologo ammette che il rischio per gli allevamenti è reale: «Esistono anche misure efficaci per ridurlo drasticamente. Cani da protezione, recinzioni elettrificate, sorveglianza attiva: sono strumenti già disponibili e spesso finanziabili, anche se non sempre
Decisa
la regolazione proattiva di tre branchi in Ticino
Il Consiglio di Stato ha deciso a inizio settembre di adottare una regolazione proattiva dei branchi di lupi in Ticino (sulla base della modifica dell’Ordinanza federale sulla caccia entrata in vigore il 1° febbraio 2025).
Una decisione basata sull’analisi della situazione lupo 2025 del Cantone Ticino elaborata dall’Ufficio della caccia e della pesca (UCP). Con l’obiettivo di regolazione preventiva per ridurre i danni agli allevatori, per il periodo tra settembre 2025 e gennaio 2026 saranno quindi regolati i branchi Bedretto, Madom e Carvina. In particolare, il Consiglio di Stato ha fatto sapere in un comunicato, che quest’ultimo sarà totalmente «rimosso».
applicabili». D’altra parte, fra le testimonianze di alcuni allevatori citiamo quella di Marco Turchetti, di Preonzo, rilasciata al «CdT La Domenica» dell’11 maggio 2025, che evidenzia l’impossibilità pratica, spesso riscontrata, di usare recinzioni o riparo notturno: «A gennaio ho venduto tutte le pecore che mi erano rimaste (…) Ci sono tre lupi stanziali sui monti, sarebbe un suicidio tornarci su con gli animali. Mettere un recinto sarebbe impossibile… le pecore non sono fatte per stare in uno spazio ristretto…». Turchetti era l’ultimo allevatore che caricava ancora gli alpeggi di Preonzo (Lèis, Gariss, Cusale, Moroscetto).
Il problema, però, non è solo tecnico. È anche culturale, spiega sempre il biologo Cozzi che, pur riconoscendo le difficoltà legate a conformazione del territorio e lupo, invita al dialogo nell’ottica di una presenza, quella del predatore, che è a tutti gli effetti parte della natura e dell’ecosistema: «Il lupo divide l’opinione pubblica come pochi altri animali. È simbolo di libertà e wilderness per alcuni, minaccia ancestrale per altri. E sui social, le emozioni spesso prendono il posto della statistica». Dunque, senza ignorare le difficoltà, egli invita alla pacatezza e alla concretezza, e sottolinea che la gestione del lupo sul territorio merita dialogo e conoscenza scevra di pregiudizio, per quanto possibile: «Sappiamo che il lupo ha un impatto sull’equilibrio dell’ecosistema, ad esempio, nel controllo degli ungulati (durante tutto l’anno e anche nelle zone in cui la caccia, che comunque ha un impatto maggiore, non può intervenire) e di conseguenza nel ringiova-
nimento del bosco. Nella ricerca della convivenza col lupo, bisogna trovare giusto equilibrio e compromesso tra gestione (anche letale, laddove ve ne sia l’esigenza e la legge lo permette) e protezione delle greggi per diminuirne l’impatto e le perdite nell’attività di allevamento. Ben consci che zero perdite non saranno mai raggiungibili, sia da una parte che dall’altra».
«Gli allevatori mantengono la volontà di trovare soluzioni, ma oggi molti sono al limite della sopportazione: la realtà sul terreno è spesso drammatica»
Un equilibrio non ancora raggiunto, secondo il biologo, ma ben oltre la sopportazione a parere del presidente dell’Associazione protezione del territorio dai grandi predatori Armando Donati, che porta la voce degli allevatori e il termometro del loro sentire: «I lupi sono oramai talmente tanti che in Ticino non abbiamo più un solo territorio dove gli allevatori possono dire: “Ecco, lì posso portarvi le mie bestie e, con la protezione possibile, posso assumermi il rischio minimo di una predazione da parte sua”. Fino al 2000 vi erano zone considerate ancora abbastanza sicure; oggi, fra lupi e branchi dal Mendrisiotto alla Valle Bedretto, non c’è più un solo posto sicuro». Non siamo i primi a chiederci come conviverci, questione di cui Cozzi dà una lettura attingendo all’esperienza dei nostri vicini di casa: «Dobbiamo cercare di raccoglie-
re informazioni dalle esperienze fatte da Paesi e Regioni che convivono col lupo da diverso tempo e adattare le strategie da essi usate alle peculiarità delle nostre realtà. Allo stesso tempo, cerchiamo di sviluppare metodi di convivenza alternativi che siano scientificamente validi e replicabili. Esistono i conflitti, ma vanno gestiti con pragmatismo. Dove le misure preventive sono applicate in modo sistematico, le perdite calano e la tensione pure».
La chiave rimane nell’equilibrio fra prevenzione e regolazione: tra attuabili misure di protezione e azioni di controllo, anche di abbattimento, coscienti che la misura è labile: «Nella gestione della convivenza tra attività umane e lupo serve visione, non vendetta». Dunque, il ritorno del lupo ci obbliga a interrogarci non solo su di lui, ma su come vogliamo abitare la montagna. Vogliamo una natura addomesticata, sicura e silenziosa? O siamo pronti a condividere spazi con una fauna selvatica che torna a popolare le valli? La convivenza non sarà sempre facile, ma chiediamoci se è possibile. Secondo Donati, la situazione rimane molto incerta e i problemi reali toccano l’allevamento, il caricamento degli alpi e la produzione casearia: «Gli allevatori mantengono la volontà di trovare soluzioni, anche se difficili da individuare. Alcuni mi raccontano che caricano l’alpe da oltre 50 anni, con passione, ogni giugno. Ma oggi, molti sono al limite della sopportazione, e non si sentono affatto sostenuti: la realtà sul terreno è spesso drammatica». Nel distretto della Valmaggia, che rappresenta circa un quinto del territorio cantonale, oggi rimane un solo alpe caricato a ovini, con appena 40 capi. «Questo è il segno – prosegue Donati – che la convivenza, per come oggi viene proposta, non funziona: sarà forse possibile solo quando tutti gli alpi saranno abbandonati, e non resteranno che i lupi a regolare la fauna selvatica». Egli cita anche un episodio recente: «All’alpe Robiei, i caprai se ne sono andati: stressati dagli avvistamenti continui, hanno chiesto di scaricare già all’inizio di agosto. Sa cosa significa? È un fallimento. Lo scorso maggio ho dovuto vendere anch’io le mie pecore, dopo cinquant’anni. Una sofferenza grande, non solo per me, ma anche per i miei figli e nipoti: avrebbero voluto dare un’altra estate alle nostre pecore, nel loro ambiente naturale. Ma con quello che sta succedendo in questa stagione alpestre, credo sia stata una scelta inevitabile». Intanto, pur sempre rispettoso e cosciente delle difficoltà emerse, Cozzi interpreta la presenza del lupo nella ricerca di un equilibrio: «La convivenza non sarà sempre facile, ma è possibile». Una coabitazione che rimane una sfida in una natura complessa, con equilibri non sempre comprensibili.
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Settembre, dal Salone di Monaco al red carpet
Motori ◆ Il Gran Premio di Monza, il Salone Internazionale dell’auto di Monaco e la Mostra del cinema di Venezia: appuntamenti imperdibili per il mondo dell’Automotive
Mario Alberto Cucchi
Storicamente sono due gli eventi che decretano la fine dell’estate e sentenziano la ripresa dei lavori del mondo Automotive: il Gran Premio di Formula 1 di Monza (7 settembre) e da qualche anno e il Salone Internazionale dell’auto di Monaco di Baviera in Germania, IAA (8-12 settembre).
Il Gran premio d’Italia ha decretato la vittoria di Verstappen davanti a Norris e Piastri ma ha anche sentenziato il «fuori forma» di Ferrari che puntava al podio nel GP di casa ma che invece è rimasta giù, nonostante un buon quarto posto di Charles Leclerc e un sesto posto di Hamilton. Sempre più in pompa magna il Salone tedesco dove le novità sono state davvero molte. Tra tutte una segna un nuovo percorso che verrà seguito dagli altri. Ci riferiamo alla nuova BMW iX3, il primo modello della Neue Klasse. Una vettura definitiva, non un prototipo, che offre un’anticipazione del grande salto tecnologico compiuto dalla casa bavarese in numerosi ambiti strategici: mobilità elettrica, sistemi di visualizzazione e comando, digitalizzazione, connettività, design, sostenibilità e apertura tecnologica. Per la prima volta al salone IAA Mobility, Bmw ha presentato la ricarica bidirezionale disponibile per l’appunto su iX3. Una tecnologia che consente all’auto, con l’energia immagazzinata
nella sua batteria ad alta tensione, di alimentare la rete elettrica domestica del cliente (vehicle to Home – V2H) o la rete pubblica (vehicle to grid – V2G). Arriverà nelle concessionarie a inizio 2026 a un prezzo di circa 70’000 chf e con la sua batteria da 108 kWh promette fino a 800 chilometri di autonomia. Grazie a un’architettura a 800 volt permette di caricare le batterie da una colonnina in corrente continua sino a 400 KW. Sempre che la si trovi… Ecco allora che l’auto può passare dal 10 all’80% di carica in circa 20 minuti. Ma soprattutto a questa potenza bastano 10 minuti per caricare circa 350 km di autonomia. Tanta ma davvero tanta elettronica per questo modello che dotato di due motori per un totale di 470 cavalli di potenza eroga una coppia massima di ben 645 Newton metro. Il tutto è gestito da una centralina di ultima generazione che ha una capacità di calcolo 20 volte più potente rispetto a quelle attuali. Novità nella novità la nuova Bmw iX3 non si basa su una piattaforma nativa elettrica ovvero dedicata esclusivamente alle auto che utilizzano le batterie. Anzi lo stesso pianale sarà utilizzato dai motori endotermici e questo ufficializza, se ve ne fosse bisogno, che gli automobilisti li vogliono ancora a prescindere da qualsiasi considerazione ambientalistica. Se
globalmente parlando l’elettrico per quanto riguarda l’automotive è ormai una realtà matura in termini di autonomia, prestazioni, tempi di ricarica e perché no anche costi che oramai sono al pari di quelli del termico, non ha però conquistato ancora il cuore di molti automobilisti. Da tempo si parla dell’idrogeno come alternativa e ora si sta passando dalle parole ai fatti. Il Gruppo tedesco preme sul pedale dell’acceleratore. I centri di competenza di Monaco e Steyr stanno già sviluppando i primi prototipi della terza generazione del sistema di propulsione. I manager tedeschi sostengono che si prepara una nuova era della mobilità sostenibile: a parti-
re dal 2028 verrà avviata la produzione in serie dei sistemi a celle di combustibile. Uno dei principali progressi attuali è il design compatto che ha ridotto l’ingombro del sistema di circa il 25% consentendo una configurazione più snella e leggera. Ecco allora che l’idrogeno secondo Bmw potrebbe diventare una realtà per una propulsione a zero emissioni.
D’altra parte anche i cugini di Audi sembrano di fronte a un cambio di direzione che si è palesato durante la presentazione settembrina della loro nuova concept car. Un modello che anticipa le prossime scelte stilistiche della casa di Ingolstadt. Mentre veniva svelato al mondo, il CEO del brand
tedesco Gernot Döllner, ha ammesso che alcune delle scelte recenti del marchio non hanno funzionato. Ha semplicemente detto che si può e si deve fare meglio. Un gesto che merita più attenzione della concept stessa. Un atto di coraggio: riconoscere che si è sbagliato strada e cambiarla. Si riferiva alla scelta di Audi di avere una mobilità esclusivamente elettrica? Probabile…
Le auto sono state protagoniste anche della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che si è tenuta dal 27 agosto al 6 settembre. Se Lexus ha accompagnato con le sue auto tutte le star sul Red Carpet, BYD ha attuato una strategia più sottile, occupandosi di product placement. Ovvero ha pagato perché all’interno di un film si utilizzassero le sue vetture. Ci riferiamo al film di Paolo Sorrentino in cui il Presidente della Repubblica interpretato da Toni Servillo sale su un’auto cinese. Un modo per legittimare una scelta che ad oggi se fatta realmente desterebbe scalpore. Da tempo il Presidente della Repubblica italiano così come quello tedesco e quello francese usano esclusivamente mezzi di brand nazionali. Ecco allora che il product placement di BYD vuol portare alla normalizzazione dello straordinario attraverso il cinema. Potrebbe essere una strategia vincente.
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L’Audi Concept C è un manifesto di design che anticipa le prossime scelte stilistiche della casa di Ingolstadt
A Rima tra caraa, torbe e cisterne
Territorio ◆ Circa 44 ettari e oltre 170 edifici raggruppati in vari nuclei: la valorizzazione dei Monti di Rima permette di scoprire un ricco paesaggio
Elia Stampanoni
Siamo in Vallemaggia e più precisamente in Lavizzara. Sopra Broglio e Prato incontriamo i Monti di Rima, raggiungibili a piedi con una camminata di un’oretta superando circa 300 metri di dislivello. I due pianori, situati ad un’altitudine attorno ai mille metri, occupano una superficie di circa 44 ettari, dove troviamo oltre 170 edifici, tra cui stalle o cascine ora ristrutturate, un oratorio, diverse torbe e alcune cisterne, oltre ad altri manufatti d’interesse come pozzi, pile, terrazzamenti e muretti.
Le caraa, ossia i sentieri costeggiati da muretti di pietra, sono state al centro dei primi progetti di recupero e valorizzazione dell’area, promossi dall’Associazione Monti di Rima a partire dal 2015 (vedi box sotto). Una di queste caraa, così ideate per impedire al bestiame di uscire nei prati e nei campi durante gli spostamenti, la s’incontra giungendo a Rima, poco prima di sbucare nel pianoro nei pressi dell’oratorio. Il reticolo s’estende poi sul territorio, imprimendo al monte il suo aspetto caratteristico e affascinante, con i vari gruppi di edifici collegati da questi sentieri, i cui muri sono stati in buona parte rifatti nell’ambito del progetto. Le vie ripristinate sono distribuite su una lunghezza complessiva di circa 1’450 metri (il totale è di cir-
terreni boscati, che s’aggiungono al rifacimento di alcuni terrazzamenti, alla piantumazione di alberi e ad altri restauri effettuati su edifici o manufatti. Rima non è infatti «solo» sassi o erba e per scoprirlo l’associazione propone tre differenti itinerari che vanno a toccare i maggiori punti d’interesse. Il sentiero A, detto delle caraa, tocca la maggior parte dei nuclei e unisce 33 oggetti in circa un chilometro. Il percorso B, invece, si spinge a sud verso il nucleo dei Pianesc, mentre il C va a nord e, proprio in fondo a Rima di Prato, oltre i nuclei, raggiunge una caratteristica fontana.
Torbe o torbign
Il problema dell’acqua e Casa Tonini
ti interventi che ne hanno impedito l’inselvatichimento.
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Si tratta per esempio della bonifica di circa 60’000 m 2 di prati destinati allo sfalcio e di 24’000 m 2 di
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ca due chilometri, ma alcuni tratti non sono attualmente percorribili in quanto invasi dalla vegetazione), mentre attorno a dominare sono prati e pascoli, pure oggetto di importan-
Assieme alle caraa, particolari di Rima sono senz’altro le torbe, con i loro funghi che impedivano ai roditori di arrampicarsi e danneggiare le scorte immagazzinate, principalmente le provviste di cereali destinate all’autoapprovvigionamento. C’è per esempio la torba Dellamaria, risalente con ogni probabilità al 1667 (è la data scritta su una pietra ai lati dell’entrata) e che era anticamente usata anche come abitazione. Un edificio che a partire dal 1970 ha subito un forte degrado ma nell’autunno 2021, nell’ambito del progetto, è stato sottoposto a un restauro conservativo delle parti rimaste. Oltre alle tipiche torbe con i funghi, a Rima s’incontrano pure diversi altri piccoli edifici adibiti ad uno scopo analogo, con la parte superiore in legno che serviva da granaio. Il più piccolo è il «torbign du Cinto» con delle travi squadrate sovrapposte ermeticamente che, secondo l’analisi dendrocronologica, fu edificato tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo.
Oltre agli edifici tipici del passato rurale, in parte trasformati in abitazioni secondarie (anche grazie alla realizzazione della strada forestale nel 1969 che ha agevolato i lavori), si trovano a Rima anche alcune case o chalet più moderni costruiti (o restaurati) prima del 1972, quando non vi era nessuna regolamentazione edilizia o pianificatoria. Dal 1980 il nucleo principale di Rima di Broglio è invece protetto e sottostà a un piano regolatore specifico che prevede tra l’altro l’obbligo della copertura dei tetti in piode. Oggi i monti si animano quindi di nuovo, soprattutto nei mesi caldi o nei fine settimana, mentre in altri periodi regna una tranquillità quasi surreale, dove a dominare sono i rumori della natura.
La valorizzazione dei Monti
L’importante lavoro di salvaguardia e di ripristino degli edifici e dei manufatti originali, così come il recupero dei terreni agricoli, è stato possibile grazie all’Associazione Monti di Rima, fondata nel 2013. Oltre ad essere proprietaria di due edifici rurali (la casa Tonini e la torba Dellamaria), dal 2015 l’associazione ha realizzato le prime due fasi del progetto, a cui ha contribuito anche la Cooperativa Migros Ticino con il Percento culturale. Oltre al ripristino delle caraa, sono stati effettuati il rifacimento dei muri di due zone terrazzate, la bonifica di terreni da sfalcio e boscati, così come il restauro di due cisterne.
Rima è stato per secoli un monte senz’acqua, dato che la particolare morfologia della montagna inghiotte l’acqua meteorica. Non ci sono sorgenti o ruscelli ma, anche qui, l’essere umano ha saputo trovare delle soluzioni. L’approvvigionamento idrico era infatti garantito da una roggia che scendeva dall’alpe Brunescio, da gocciolamenti temporanei di rocce affioranti oppure dalla raccolta d’acqua piovana. Pioggia che veniva accumulata in grandi vasche monolitiche che s’incontrano e si notano tuttora lungo i tragitti, oppure in pozzi scavati nel terreno, come la cisterna del Cisternomm. Si tratta di un grande serbatoio scavato nel terreno, costruito nel 1862 dal patriziato e capace di contenere fino a 118’000 litri d’acqua, proveniente dalla roggia e dai gocciolamenti. Precedentemente denominato «Al pozz», questo luogo è stato per anni un punto strategico per Rima, dato che qui gli agricoltori accompagnavano, lungo le caraa , le mucche a bere. In seguito vennero costruite altre cisterne private, mentre a partire dal 1937 Rima ha il suo acquedotto che capta l’acqua da sorgenti dell’alpe Brunescio. Nei vari nuclei vivevano, infatti, in passato circa 50 famiglie, che qui sostavano per buona parte dell’anno, come leggiamo nell’approfondita documentazione disponibile sul sito dell’associazione. Tra la fine del 1500 e la metà 1600 Rima era abitata tutto l’anno e una triste conferma arriva dall’attestata valanga del 19 gennaio 1667, la quale provocò la morte di 15 persone. Una tragedia ricordata nella Casa Tonini, una delle più antiche case del monte e oggi conservata nel suo aspetto originario. Donata all’associazione dall’ultimo proprietario Renato Tonini, l’edificio ospita al suo interno una piccola esposizione, «testimonianza della vita e del lavoro di un tempo». La casa è senza comignolo, con una sola piccola finestra al primo piano e una piccola loggia coperta dal tetto sporgente. Si presume che il pianterreno fosse usato come abitazione, con il fuoco acceso nell’angolo e il fumo che usciva da un pertugio e dalla porta, mentre il locale al primo piano era la camera per tutta la famiglia e oggi in mostra ci sono ancora un letto, un lettino e altri oggetti della civiltà contadina.
Tra il 2022 e il 2023, nell’ambito di una terza fase, sono state ultimate le tipologie di interventi già eseguiti, con l’aggiunta del risanamento del «torbign du Cinto», della realizzazione di un querceto da adibire a pascolo alberato e della conservazione delle amarene tipiche di Rima, per cui è stata effettuata la piantumazione di una dozzina di giovani piante innestate. Il tutto nell’obiettivo generale di recuperare, salvaguardare e promuovere il territorio e il paesaggio dei monti di Rima.
La pila du Bram è una vasca monolitica con una capacità di circa 2400 litri, originariamente addossata al lato nord di una delle case di Rima serviva a raccogliere l’acqua piovana. (E.Stampanoni)
Le parole dei figli
«Lo sai che mio zio è il presidente dell’Accademia della Crusca? +10 Aura». Lo zio in questione è Paolo D’Achille, linguista di 70 anni, alla guida – dall’aprile 2023 – di uno dei massimi punti di riferimento al mondo per lo studio della lingua italiana. Intervistato da «Il Messaggero», D’Achille ha citato questo messaggio che la nipotina ha mandato a un’amica. Una frase che fotografa bene quella che, secondo lui, è la parola giovanile del 2025. Già, ma che cosa vuol dire aura ne Le parole dei figli? E, ancora, cosa significa guadagnare punti-aura? Aura deriva dal latino e, in letteratura e poesia, ricorda il dizionario Treccani, è usata come sinonimo di aria: c’è il Foscolo di Dei Sepolcri «Te beata, gridai, per le felici aure pregne di vita, e pe’ lavacri che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!»; e il Boccaccio del Decameron «Rinfrescati sempre da una au-
Terre Rare
Dolenti note
Continuiamo la nostra riflessione sulle vacanze digitali parlando di un’altra esperienza personale che ci sembra degna di nota. Nel vero senso della parola. Telefoniamo per verificare la disponibilità di camere in una struttura già visitata in passato. Telefoniamo direttamente, perché la proprietaria in occasione della nostra visita ci aveva detto, testualmente: «La prossima volta, non passate attraverso gli aggregatori di offerte online. Chiamateci, così risparmiamo i costi di provvigione e possiamo farvi un prezzo migliore». Lasciando da parte l’aspetto paradossale della richiesta (perché ti metti su una piattaforma di ricerca se poi cerchi di aggirarla?) telefoniamo perché il posto era curioso, singolare, e vorremmo farlo conoscere ad amici, con cui condividiamo il viaggio. La risposta dall’altra parte del filo (si potrà dire ancora così?) è
ra soave». Per la Gen Z, invece, il riferimento è il celebre manga giapponese (poi diventato anche anime) Dragon Ball, in cui Son Goku – dalla sua infanzia all’età adulta – va alla ricerca delle sette sfere del drago che esaudiscono ogni desiderio e combatte i cattivi grazie a spettacolari arti marziali. L’aura, in quel mondo, è l’energia visibile che si sprigiona intorno al corpo del protagonista durante l’allenamento o nei combattimenti, raffigurata con fiammate o scariche elettriche. È l’espressione del ki, ossia la forza vitale interiore che ogni guerriero impara a controllare e liberare. Anche in un altro manga-anime famosissimo, Naruto, l’aura gioca un ruolo chiave: il protagonista è un giovane ninja che sogna di diventare il più forte del villaggio. Nel suo corpo è sigillata una creatura potentissima, la Volpe a Nove Code, che gli dona un’energia speciale
chiamata chakra, visibile come un’aura rossa durante le battaglie più intense. In entrambi i casi, l’aura è la manifestazione dell’energia interiore di un personaggio: compare nei momenti di massima concentrazione, rabbia o determinazione. È il riflesso visibile della forza emotiva e spirituale. Funge, in qualche modo, da specchio dell’anima. Nei videogiochi, l’aura è spesso rappresentata come un alone luminoso che circonda il personaggio, segnalando un potenziamento (di forza, velocità o difesa). Ispirati da manga e anime, per la Gen Z aura è diventato un modo per descrivere carisma, stile e personalità. Spesso viene associata a un’immagine cool e trendy, specialmente su TikTok. L’aura indica una particolare vibrazione, un’energia positiva o un’influenza che una persona emana, rendendola attraente o interessante. Rispecchia l’ideale
di Simona Ravizza
di cool: spiccare senza sforzo, con stile, controllo e personalità, soprattutto agli occhi dei coetanei. Tutto deve avvenire in modo naturale, senza ostentazione.
Così su TikTok si è diffusa l’attribuzione di punti aura: ciascuno può guadagnarli o perderli in base alle proprie azioni. Un successo personale o un gesto azzeccato che aumenta la coolness (cioè il carisma spontaneo) equivale a un guadagno di aura; una caduta di stile, invece, a una perdita. Poi c’è l’aura farming, da to farm (coltivare): fare qualcosa appositamente per accrescere la propria aura. Ma deve essere qualcosa di disinvolto e non pretenzioso. In sintesi: fare qualcosa di figo con aria indifferente. Secondo la parapsicologia, che studia l’aura come capacità di una persona di emanare energia sottile, quest’ultima può essere potenziata attraverso pratiche co-
me la meditazione e il controllo della respirazione. Più banalmente, per i ragazzi della Gen Z sono gesti come quello del motociclista spagnolo Marc Márquez che, dopo aver vinto il Gran Premio di Germania, si è alzato in piedi sulla moto ed è esploso in un piccolo balletto. Il gesto è ispirato a un bambino indonesiano di 11 anni, Rayyan Arkan Dikha, che durante la tradizionale gara di canoe Pacu Jalur si muove in punta di piedi in cima alla prua della barca roteando le mani e allungando le braccia come se stesse guidando lui. I suoi movimenti – un mix di danza, rituale e carisma naturale – sono stati imitati in tutto il mondo anche da altri grandi nomi dello sport come il giocatore di football americano Travis Kelce, il pilota di Formula 1 Alex Albon, il Paris Saint-Germain e la Nazionale italiana di calcio femminile.
raggelante, degna forse della rubrica del nostro Mozzi. «Ah ma lei è quello che l’altra volta ci ha dato sette nella valutazione! Non si vergogna? Lo sa che tutti ci danno sempre dieci? Così ci ha abbassato la media. Ma le sembra giusto? Come si può essere così poco riconoscenti?». Inutile continuare a discutere. Dopo un tentativo improvvisato di giustificazione, per nostra legittima difesa riattacchiamo. Stavamo per fare una nuova prenotazione: era il caso di lamentarsi per una nota data magari con superficialità ma comunque tanto concretamente positiva da spingerci a tornare in quella struttura?
E riflettendo sull’episodio, apparentemente così marginale, ci è venuto da mettere in discussione tutto il meccanismo della valutazione. Innanzitutto su che basi si fonda? Cosa significano davvero quei numeri?
Approdi e derive
Un amico, esperto professionista nel marketing digitale ci ha detto: «Ha ragione la signora. Nel mondo delle valutazioni online, tutto quello che è sotto il sette vale come giudizio negativo. La domanda implicita per quelle note è “con che probabilità consiglierebbe a qualcuno questa struttura?". La probabilità comincia a diventare reale solo sopra l’otto, o addirittura il nove. Il sette finisce per essere quindi un’opzione bassa, poco rilevante, quasi nemmeno sufficienza. Una raccomandazione poco raccomandabile, insomma». Non siamo d’accordo. Saremo all’antica ma per noi, nelle valutazioni, la scala di valori si basa ancora sui parametri scolastici. Il sei (cioè il dieci) si dà all’eccellenza vera. A Buckingham Palace, magari. Da lì si può solo scendere. La soddisfazione del cliente si misura sulla qualità globale dell’of-
La vita morale che non ti aspetti
Quest’estate la nostra famiglia si è allargata. Da Foggia sono arrivate due gattine, salvate dall’associazione AnimaLeale che con grande amore e professionalità si occupa di dare una nuova vita ad animali in difficoltà. Prima abbiamo accolto Milly, la mamma, una bella micia spaventata e ancora sofferente e, dopo qualche tempo, è arrivata la sua piccola, Moka, dolce e fragile creatura dagli occhi pieni di malinconia. Non so se si siano riconosciute, ma dopo qualche giorno di mosse sospettose, le due hanno iniziato una convivenza affettuosa e soprattutto gioiosa, di una gioia contagiosa che ha riempito la casa.
Osservare il loro muoversi felpato, in esplorazione attenta di ogni oggetto e di ogni angolo della casa, alla scoperta dei luoghi da subito preferiti, è stato come reinventare insieme a loro i nostri sguardi sugli spazi fin troppo consueti, con una luce nuova, inattesa e divertita. Il divano rosa, ad
esempio, meta silenziosa e trascurata di sprofondamenti serali assonnati, si è trasformato in un giardino vivace, luogo prediletto per danze fantasiose. Nuove atmosfere, nuove percezioni del nostro abitare.
Così mi è venuto da pensare che la fisica quantistica potrebbe avere qualche cosa da dirci anche a proposito dei nostri piccoli gesti quotidiani, ricordandoci che la presenza dell’osservatore modifica sempre l’oggetto osservato. In effetti, per meglio comprendere questa verità spesso rimossa in nome di una presunta e rassicurante stabilità del nostro mondo, sarebbe bastato pensare alla rivoluzione scientifica del Seicento che ci ricorda come il mondo in realtà possa diventare un altro proprio a partire dal nostro sguardo.
Vederle poi interagire, cercando di decifrare i loro svariati rituali di lotta e di abbracci, sempre attente alla presenza dell’altra, anche nel condividere cibo e topolini giocattolo, è stata
fin dall’inizio un’esperienza che mi ha fatto molto riflettere. Fanno riflettere queste forme così semplici e armoniose di vivere e convivere, così diverse dalle nostre forme di convivenza, a volte problematiche quando non addirittura infelici. La delicatezza e la leggerezza del loro muoversi, attente a tutto ciò che le circonda, sta riempiendo la casa di nuove atmosfere e i miei risvegli di nuovi pensieri. Mi viene spesso da pensare con un certo disagio a tante rappresentazioni negative degli animali, profondamente radicate nella nostra cultura e ancora presenti nel nostro linguaggio. «Quella persona è un animale», oppure «questi sono comportamenti animaleschi», e ancora altre esclamazioni sprezzanti della vita animale, volte a stigmatizzare comportamenti umani volgari, aggressivi, e comunque riprovevoli, perché «dai, siamo uomini, non animali!».
Il filosofo Thomas Hobbes sosteneva che l’uomo è un lupo per l’altro uo-
ferta. Non basta che in bagno ci siano asciugamani antichi in lino ricamato, è più positivo che ad esempio il prezzo del pernottamento non sia esagerato, fuori scala: dovevamo ricordare alla signora che, comunque, per arrivare al suo B&B (scelto da noi la prima volta in una situazione quasi d’emergenza) si arriva con una strada impervia di montagna, 10 km di curve su fondo abbastanza dissestato? Che il pane tostato della colazione, pur fatto in casa, era chiaramente quello avanzato dalla cena del giorno prima? Che l’agibilità della struttura era, nella sua singolare e suggestiva antichità restaurata, abbastanza precario, quasi a rischio di infortunio per la ristrettezza dei corridoi e la ripidezza delle scale? Che il parcheggio per le auto era un prato in mezzo alla vigna, su uno sterrato che si prestava come minimo a un incontro
con i cinghiali? Come riassumere tutto questo in una nota? Come valutare tutte le strutture in cui quelle caratteristiche sono decisamente migliori? Come hanno fatto gli altri a dare dieci, in queste condizioni? L’hanno dato per affetto, non dopo una valutazione razionale. La signora è effettivamente simpatica e cordiale e sa accogliere gli ospiti (sull’accoglienza telefonica, non ci siamo, comunque). Ma allora, che senso ha, quella scala di valori? Dice: «struttura valida» o «ti voglio bene»? Questo dilemma è tutt’ora irrisolto, per noi. L’unica soluzione che ci è venuta in mente, d’impulso, è stata cancellare tutte le note che avevamo dato fino ad oggi sull’aggregatore online. O non abbiamo capito noi o sono sbagliate loro. Ma la prossima volta ci risparmieremo rimproveri inutili e potremo muoverci liberamente per il mondo.
mo e solo uno stato forte può tenere sotto controllo la nostra natura bellicosa. Jean Jacques Rousseau era invece convinto che l’uomo per natura è buono ed è la vita sociale, la cultura, che lo corrompe.
Il rapporto tra natura e cultura è un bel tema, forse irrisolvibile, e forse proprio perché la natura stessa è sempre una natura pensata dentro una cultura. Così, sono andata a cercare nella mia biblioteca un saggio di Mark Bekoff e Jessica Pierce, un etologo e una filosofa, dedicato alla vita morale degli animali. Giustizia selvaggia è un libro di qualche anno fa che avevo amato molto e che è divenuto un classico per il suo approccio rivoluzionario nei confronti di tanti pregiudizi culturali. Con un vastissimo panorama di esempi di interazioni sociali tra animali di diverse specie (da quella tra una gatta che si prende cura di un cane sordo e cieco, al pianto inarrestabile di un gorilla per la morte del
suo piccolo, alle cure di una femmina di elefante verso un’altra ferita da un maschio violento) gli autori mostrano la presenza di comportamenti morali basati sul senso della giustizia, dell’empatia, del perdono, della fiducia e dell’altruismo reciproco. Le loro ricerche svelano «ricchi mondi interiori, un repertorio emozionale pieno di sfumature e un elevato grado di intelligenza e di adattabilità». Nella sua lucida prefazione il famoso etologo Danilo Mainardi sostiene che la scoperta di atteggiamenti definiti dagli autori come morali ci permette di percepire un sentimento di parentela e di condivisione che avevamo perduto nei confronti delle altre specie. Un invito a superare tanti pregiudizi, frutto avvelenato di quell’antropocentrismo con cui guardiamo a tutta la natura che ci circonda, chiamandocene fuori e distruggendo così il sentimento di una comune appartenenza.
di Alessandro Zanoli
di Lina Bertola
camera dei bambini (esclusi gli articoli già ridotti, l’assortimento
nuove ordinazioni. Fino a esaurimento dello stock.
ATTUALITÀ
La République in cortocircuito
La Francia è in rivolta mentre Macron cerca di correre ai ripari insieme al nuovo premier Lecornu
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Labubu e soft power cinese L’enorme successo dei pupazzi dal sorriso inquietante e cosa significa per Pechino
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Agenti razzisti e misogini?
Dopo i fatti di Losanna, intervista a Christophe Cerinotti della Polizia cantonale ticinese
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Il linguaggio politico È spesso banale e manipolatorio secondo l’esperto di comunicazione Pier Paolo Pedrini
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Quell’Ucraina senza prospettive
L’analisi ◆ Anche se la «guerra infinita» terminasse, Kiev non avrebbe la forza di rialzarsi da sola, come uscire dal pantano?
La guerra di Ucraina non finirà nemmeno quando la si dichiarerà finita. Troppo profonde le diffidenze reciproche, troppo esistenziali le poste in gioco, specie ma non solo per gli ucraini che rischiano di vedere il loro Paese cancellato dalla carta geografica o ridotto a moncherino. Soprattutto, non esiste una chiara definizione di vittoria o di sconfitta da nessuna delle due parti. Come spesso accade, si comincia un conflitto per motivazioni vaghe che poi vengono adattate agli eventi. È come se invece di tirare la freccia per colpire il bersaglio, la si tirasse senza bersaglio e poi lo si sistemasse dove la freccia ha colpito. In guerra l’unica certezza è il dominio della propaganda sulla realtà, della comunicazione a effetto sugli obiettivi concreti. C’è però un aspetto che spesso sfugge oggi che siamo tutti malati di tecnicismi. In attesa che i conflitti li combattano i robot, l’uomo resta al centro della lotta. In senso fisico ma anche e soprattutto psicologico. La motivazione del combattente è decisiva. Se non sai per che cosa stai combattendo, prima o poi smetti di sparare. È questo,
oggi, il vantaggio relativo dei russi sugli ucraini. Non è detto che lo sia anche domani. Ma certo nello stadio attuale gli obiettivi russi appaiono meno oscuri di quelli ucraini. E soprattutto meno ardui da raggiungere. Il 30 agosto il capo di Stato maggiore delle Forze armate russe, generale Valerij Gerasimov, ha fatto il punto sulla guerra. Lo ha fatto ostentando alle sue spalle una mappa dell’Ucraina che attribuiva alla Russia non solo la Crimea, il Donbass e le regioni di Zaporijjia e Kherson, ma anche quelle di Mikolayiv e Odessa. Stando a quella carta, dunque, l’Ucraina residua perderebbe qualsiasi accesso al mare e finirebbe per diventare quel che Putin vuole per la sicurezza della Russia: un suo cuscinetto di protezione contro la Nato. Riedizione aggiornata della «Nuova Russia» di Caterina II. Recupero di una porzione strategica dell’impero zarista. È probabile che quando si arriverà a un cessate-il-fuoco questo obiettivo non sarà centrato, mentre potrebbe esserlo in una fase successiva, giusto il principio che la partita resterà comunque aperta.
Per quale Ucraina combattano invece gli ucraini è meno chiaro. In teoria, per il recupero dei confini del 1991, quelli ereditati dall’epoca sovietica, Crimea e Donbass inclusi. Zelensky è il primo a sapere che si tratta di un obiettivo ormai impossibile. Tanto da lasciar filtrare la disponibilità ad accettare la perdita del Donbass e della Crimea, anche perché se per miracolo i russi fossero costretti a sgombrare entrambi questi territori Kiev dovrebbe amministrare una popolazione quasi interamente russofona e russofila. Ragionamento che, rovesciato, sconsiglierebbe i russi dall’annettere i territori dell’Ucraina centrale, settentrionale e occidentale, dove il radicamento nazionale ucraino è tradizionalmente forte. Ciò obbligherebbe Mosca a stanziare in modo permanente centinaia di migliaia di uomini nell’Ucraina residua e potenzialmente ribelle.
La situazione attuale sul terreno, con le Forze armate russe che stanno aggirando l’ultima linea di difesa ucraina, permetterebbe in teoria a Putin di puntare addirittura su Kiev.
Ma i rischi sarebbero troppo alti, almeno in questa fase. Sia per la resistenza che opporrebbero molti ucraini agli invasori, sia perché non si potrebbe escludere l’intervento diretto se non della Nato almeno di alcuni suoi Paesi «volenterosi».
L’allargamento del conflitto è oggi molto improbabile, oltre che totalmente irrazionale, perché da uno scontro diretto Russia-Nato, destinato a elevarsi al grado atomico, ci si può aspettare un’apocalisse totale. Ma nella mancanza di chiarezza sugli obiettivi di guerra e nel caos che regna al grado globale, nulla si può escludere in modo definitivo.
Il recente abbattimento di alcuni droni russi in territorio polacco è un segnale da prendere sul serio proprio in questa prospettiva. Anche se molti aspetti di quell’evento restano da chiarire, la possibilità che si inneschi una spirale non voluta di azioni e reazioni tale da finire fuori controllo è abbastanza alta. A quel punto il massacro in corso da tre anni e mezzo scadrebbe a prologo di qualcosa di terribile che preferiamo non immaginare.
In una prospettiva di medio periodo, anche immaginando che la tregua cominci ora, il problema è come tenere in piedi un Paese che dall’indipendenza a oggi ha perso perché in diaspora o uccisi dai russi circa metà dei suoi 52 milioni di abitanti originari. E che dipende totalmente sotto il profilo finanziario, militare ed economico dall’estero. Dai Paesi euroatlantici, ma anche dalla Russia. È inimmaginabile che un’Ucraina residua, posta sulla nuova cortina di acciaio fra Est e Ovest, possa ricostruirsi sulla base delle sue scarse forze, a prescindere dai commerci con la Russia. Soprattutto per quanto riguarda l’energia. Questo ci porta alla questione delle questioni: stabilizzare quella parte di Europa non è possibile che attraverso un patto di sicurezza fra Russia, Bielorussia e Paesi Nato. Niente di meno visibile oggi. Ma l’alternativa è una guerra senza fine, magari scaduta a guerriglia, che significherebbe crisi permanente per tutti. «Vincitori» russi compresi. Le virgolette per ricordarci che di vincitore effettivo per ora se ne vede uno solo: la Cina.
Persone in una stazione della metropolitana di Kiev utilizzata come rifugio antiaereo durante un attacco russo. (Keystone)
Lucio Caracciolo
Da
già ridotti.
Francia, squadra che perde non si cambia
L’analisi ◆ Il futuro Governo, con a capo il nuovo premier Sébastien Lecornu, ha tempo fino al 15 ottobre per presentare la manovra finanziaria; intanto continuano le proteste di Bloquons tout
Paola Peduzzi
Hanno gridato forte «Macron dimettiti» per le strade delle città francesi, mentre «bloccavano tutto», secondo il mandato del grande boicottaggio che si è tenuto in Francia il 10 settembre e che è stato sostenuto da circa 200 mila persone in tutto il Paese. «Macron vattene», «Macron dimettiti», «Macron sei finito», ma no, il presidente francese non se ne va, non si sente finito, non scioglie il Parlamento (il termine francese è «dissolve», che dà meglio l'idea dell'umore prevalente), non concede nulla: ora ha un nuovo primo ministro, Sébastien Lecornu, un fedelissimo evidentemente ben disposto al sacrificio, e tira dritto. Non si può certo dire che le cose vadano bene, alla leadership della Francia, anzi: è andato tutto male, ma è quel male previsto e prevedibile che acciacca di meno. L'ex primo ministro François Bayrou era spacciato e lo sapeva: l'8 settembre è stato sfiduciato dall'Assemblea nazionale, dopo aver voluto fare – con leggerezza sacrificale – una conta sulla manovra finanziaria austera che non piaceva a nessuno. Ma Bayrou ha utilizzato quell'ultima occasione per fare un discorso bellissimo, in cui ha detto: i francesi possono anche illudersi che abbattere i Governi sia la soluzione, ma non possono ignorare la realtà, che è fatta di debito, disugua-
glianza, produttività ferma, cinquantuno anni di conti pubblici non in pareggio. Si rivolgeva ai deputati attorno a lui che vedono nell'instabilità permanente la loro grande occasione, alimentando un cannibalismo che sta divorando il sistema francese; e si rivolgeva a chi si apprestava a bloccare la Francia, il movimento Bloquons tout e i suoi sostenitori nell'estrema destra e nell'estrema sinistra. C'è un che di paradossale nel voler fermare un Paese che è già impantanato e nel rivendicare questo «fermi tutti» come una proposta alternativa, quando si sa che la salvezza, per la Francia ma pure per molti altri Paesi, è una spinta forte a correre più veloce. Bayrou ha parlato con la libertà di chi sa che la sua parentesi è presto chiusa, ma senza quel tono rivendicativo e rabbioso che di solito contraddistingue questi saluti. La rabbia e la rivendicazione, in una settimana di scombussolamento, sono state cose di piazza, non di palazzo. Mentre i cortei e i blocchi prevalentemente pacifici venivano dirottati dalle frange più violente – ci sono stati oltre 500 arresti, le forze dell'ordine molto allertate sono state decisive – la politica si è data una disciplina, per necessità: Bayrou è stato sfiduciato e nel giro di ventiquattro ore Macron ha designato il successore.
Lecornu ha 39 anni e ne dimostra molti di più, viene dalla destra gollista ma è uno dei pochi sopravvissuti del macronismo degli inizi, quello della rivoluzione politica nella Francia bipartitica, ed è molto ascoltato da Macron. Anzi, il presidente lo voleva già nove mesi fa, quando poi fu invece selezionato Bayrou, e quindi nelle poche ore di interrogativi e toto-premier era proprio il nome di Lecornu il più citato. Ma nel Paese delle contraddizioni il più probabile era anche il più contestato, perché il ministro della Difesa rappresenta la continuità con una formula che si è mostra-
I nostri medici salvano vite.
suo testamento, anche.
ta vieppiù fallimentare. Il leader della destra estrema Jordan Bardella ha sintetizzato alla perfezione il senso della contestazione: «Squadra che perde non si cambia», ha detto, e in effetti ci si aspettava che Macron rinunciasse all'asse più a destra della sua coalizione centrista e aprisse a sinistra (Bardella si sarebbe lamentato comunque, è il suo mandato), proprio perché gli ultimi quattro Governi in due anni erano pieni di esponenti di destra, e non sono sopravvissuti. Ma i negoziati a sinistra, per i macroniani, languono, sono deformati dalla presenza dei radicali di Jean-Luc Mélenchon, non arrivano
mai al punto. E Macron, al punto, ci deve arrivare e lo deve fare in fretta, perché altrimenti la sua strategia di sopravvivenza non può funzionare. Il futuro Governo avrà tempo fino al 15 ottobre per presentare la manovra finanziaria, in modo da poterla approvare entro la fine dell'anno, ma intanto ci sono gli attivisti di Bloquons tout (si sono dati un nuovo appuntamento, venerdì mattina quando il giornale andava in stampa la data non era ancora stata annunciata) e il 18 settembre lo sciopero generale dei sindacati, che si annuncia politicamente ben più pesante dei «bloccatori». Nel frattempo Lecornu deve essere confermato dall'Assemblea nazionale e ovviamente questo è il problema più grande, perché se Macron ha scelto la continuità, lo stesso faranno i suoi oppositori che già minacciano mozioni di sfiducia. Con un unico barlume di speranza proprio a sinistra, dove c'è un malumore evidente ma dove resiste qualche sacca di razionalità e pragmatismo. E dove ci possono essere alcune ricompense, che sia qualche nomina nel Governo o qualche concessione sul budget. Come spesso accade nelle relazioni personali, anche tra Macron e la sinistra succede che ci siano solo dispetti e promesse non mantenute, e poi arriva il giorno in cui ci si salva insieme.
Sì, desidero ricevere per posta una copia della mia guida ai legati e all’eredità.
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Sébastien
Macron e sullo sfondo Lecornu. (Keystone)
Labubu: un esempio del soft power cinese
Prospettive ◆ L’enorme successo dei pupazzi dal sorriso inquietante, ideati dall’illustratore di Hong Kong Kasing Lung, segnerebbe la transizione del Paese asiatico da «fabbrica mondiale» a «centro creativo globale»
Giulia Pompili
Alla Mostra del Cinema di Venezia Charly Defrancesco, marito dello stilista statunitense Marc Jacobs, ha osato un Labubu come cravatta. Mentre qualche tempo fa è diventato virale sui social americani un video dell’attore Liam Neeson in cui un giornalista gli mostrava la foto del pupazzetto del momento, lui lo guardava interdetto e diceva: «Si mangia?». Secondo gli analisti di fenomeni di mercato non c’è niente che rappresenti di più la viralità di un prodotto dei Labubu, e quindi il complesso (e a tratti imprevedibile) meccanismo che c’è dietro il successo di un bene che acquista valore per la sua repentina diffusione. Ma nel caso dei Labubu c’è anche dell’altro: l’economia si unisce alla politica, alla diplomazia e al soft power. Ma una cosa che sembra impossibile da ignorare, una mania globale che si riconosce ovunque, in realtà – e lo dimostra il video con Liam Neeson – è famosa soltanto per un breve periodo, specie sui social network e nelle comunità di appassionati.
Pop Mart è l’azienda di giocattoli cinese che, in termini di fatturato, ambisce a competere con la danese Lego
Dei Labubu si parla anche in Europa da circa un anno, da quando cioè Lisa, membro delle Blackpink – band sudcoreana tra le più seguite al mondo – ha pubblicato sul suo profilo Instagram la fotografia di un mostriciattolo di peluche dal sorriso inquietante che era attaccato alla sua borsetta. Ma per capire l’origine dei bizzarri pupazzi bisogna tornare indietro di dieci anni. Nel 2015 l’illustratore di Hong Kong Kasing Lung, cresciuto tra l’ex colonia inglese e i Paesi Bassi, presenta per la prima volta alcune creature fantastiche nella sua serie di libri illustrati The Monsters ispirati al folklore nordico. Li chiama Labubu, e li disegna come una specie di elfo mostruoso con orecchie appuntite, denti aguzzi e un sorriso che si riferisce all’estetica asiatica delle cose «carine e strane» (in inglese si definiscono cute but creepy). Poi nella vita di Lung è arrivata Pop Mart, l’azienda produttrice di giocattoli cinese che, in termini di
fatturato, ambisce a competere con la danese Lego. Quella di Pop Mart è una storia nella storia dei Labubu, due destini imprenditoriali che s’intrecciano: fondata nel 2010 da Wang Ning come piccolo negozio di articoli pop-cult alla moda per ragazzi, a un certo punto, ispirata dai gashapon giapponesi, cioè dalle macchinette che vendono pupazzetti, Pop Mart inizia a creare i suoi roboshop, dove vende accessori e giocattoli a sorpresa in collezioni uniche, disegnate dai migliori designer in circolazione. Non solo a prezzi accessibili: nel 2021, in piena pandemia, Pop Mart firma la collaborazione con gli eredi dell’artista americano Keith Haring: il risultato è una bambola ispirata all’estetica di Haring venduta anche a 1500 dollari. E del resto un anno prima era arrivato il successo e l’internazionalizzazione, con il listing nella
Borsa di Hong Kong che ha fruttato 676 milioni di dollari e una valutazione iniziale di circa 7 miliardi. Nel 2024 la linea Labubu da sola ha portato nelle casse di Pop Mart 418 milioni di dollari, grazie ai negozi fisici e a roboshop sparsi in tutto il mondo. Il giro d’affari è talmente esteso che ci ha messo sopra gli occhi pure la criminalità. Di recente un Dipartimento di polizia della California del sud ha annunciato di aver recuperato un cargo di pupazzetti Labubu per un valore di circa 30 mila dollari che erano stati rubati in un magazzino probabilmente da due dipendenti minorenni. Mentre il Governo inglese ha emesso un avviso sulle versioni fake dei pupazzi –li chiamano Lafufu – dopo che erano stati sequestrati migliaia di falsi in giro per il Regno Unito. Rispetto ai 2040 dollari che può costare un Labubu sul sito di Pop Mart nella sua versione
base (però ce ne sono alcuni da centinaia di dollari), i falsari riescono a farne versioni simili da rivendere a non più di 4 dollari. Con costi per la sicurezza altissimi. «I falsi semplicemente non valgono il rischio», perché «sono realizzati male e non sono stati sottoposti agli stessi standard e controlli degli originali», ha fatto sapere in un comunicato il consiglio comunale della cittadina di Hull. Nonostante i Labubu siano diventati nel giro di poco un pezzo importante della politica di promozione della Repubblica popolare cinese, un mezzo di soft power che Pechino non era mai riuscita a ottenere né con il cinema né con la musica, la gran parte dei falsari dei Labubu lavora e produce i pupazzi fake per lo più dentro al territorio cinese. E questo naturalmente è un fenomeno che le autorità stanno in tutti i modi cercando di reprimere.
Perché qualche mese fa era stato il «Quotidiano del popolo», cioè l’organo ufficiale della propaganda del Partito comunista cinese, a dire che il successo dei Labubu segnala «un più ampio cambiamento nel ruolo della Cina sulla scena globale», e a occuparsi dei mostri di peluche era stato perfino «Qiushi», la rivista di punta del Comitato centrale del Partito comunista cinese, dove si leggeva che «Il successo dei Labubu segna la transizione della Cina da “fabbrica mondiale” a “centro creativo globale”», un destino che forse il suo creatore Kasing Lung non avrebbe mai immaginato. Per decenni, ha scritto in una lunga analisi il «South China Morning Post», «la Cina ha prodotto la maggior parte dei giocattoli del mondo, compresi i must-have del passato come i Beanie Babies (inventati negli Usa), i Tamagotchi (Giappone) o i Fidget Spinner (Usa). Ma questo è uno dei suoi primi grandi successi globali creati internamente, con il 40 per cento delle vendite all’estero».
L’America non è stata immune dalla febbre per i Labubu, e le tensioni commerciali fra Stati Uniti e Cina sono un problema: Pop Mart, come la maggior parte dell’industria dei giocattoli, sarebbe certamente colpita dai dazi reciproci fra Washington e Pechino se la tregua commerciale non dovesse durare fino a novembre prossimo. Pop Mart ha rassicurato i suoi clienti americani sul fatto che assorbirà il prezzo dei dazi senza pesare sulle tasche dei consumatori, ma sarà vero? Del resto, il fenomeno improvviso e globale Labubu ha fatto riflettere gli economisti anche su un altro punto: l’analista e accademico David Lang ha detto al «New York Post» che «quando assistiamo a questo tipo di mania in un clima economico incerto, in cui la fiducia dei consumatori è nella migliore delle ipotesi disomogenea e carica di ansia, è difficile non guardare alla cosa e riflettere sulla sua razionalità». Chi sceglie un Labubu raro, di fascia medio alta, piuttosto che una borsa firmata o un fine settimana fuori, sta facendo una scelta razionale oppure sta soltanto cambiando le regole del mercato e del lusso? Il futuro, e la durata della moda dei Labubu, ci darà la risposta.
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Razzismo e misoginia tra gli agenti?
Svizzera ◆ Dopo i fatti di Losanna, intervista al responsabile della formazione della Polizia cantonale ticinese Christophe
Pietro Bernaschina
È stata una fine d’agosto esplosiva quella che si è vissuta nel Canton Vaud. Losanna trasformata in un teatro di guerriglia urbana. Cassonetti dati alle fiamme, fuochi d’artificio lanciati contro la polizia. Due notti di violenza dopo la morte di Marvin, un diciassettenne svizzero d’origine africana che fuggiva dalla polizia su uno scooter rubato. Una morte che si inscrive in un clima di sospetto nei confronti degli agenti: a maggio un uomo di origine africana, arrestato per spaccio, era morto nei locali della polizia. L’ultimo di una triste serie di interventi terminati con un decesso. Nel 2021 Nzoy (origine sudafricana), nel 2018 Mike Ben Peter (nigeriano), nel 2017 Lamin Fatty (gambiano) e nel 2016 Hervé (congolese).
Gli aspiranti agenti, spiega Cerinotti, sono valutati anche per il loro rapporto verso le minoranze, le altre culture ed etnie
Per una assurda coincidenza temporale, il sospetto di razzismo che aleggia sulla polizia losannese si trasforma in ben altro all’indomani della morte di Marvin. Il Municipio rivela di essere venuto a conoscenza di due chat di Whatsapp nelle quali una cinquantina di agenti, circa il 10% del corpo, si scambiava foto e messaggi dai contenuti razzisti, omofobi, sessisti ecc. In otto sono sospesi, gli altri sarebbero stati dei membri silenti dei gruppi. Silenti anche verso i superiori ai quali non hanno denunciato questi contenuti. Il sindaco Grégoire Junod parla di razzismo sistematico all’interno della polizia e annuncia riforme drastiche. I fatti di Losanna valicano immediatamente i confini vodesi e romandi interrogando la Svizzera tutta sul rapporto dei propri agenti di polizia con la complessità della società contemporanea, con temi e situazioni sensibili.
«Un buon poliziotto non si misura solamente da come applica la legge, ma anche da come rispetta le persone», ci dice il responsabile della formazione in seno alla Polizia cantonale ticinese, Christophe Cerinotti. Un principio che guida la scuola per gli aspiranti agenti, che già in fase di selezione – ci spiega l'ufficiale – sono valutati anche per il loro rapporto verso le minoranze, le altre culture ed etnie: «Durante la fase di selezione i candidati devono affrontare dei test psicologici e, se vengono ravvisate delle criticità, devono affrontare uno step supplementare alla presenza di due psicologi. L'inidoneità psicologica è prevista anche per casi di questo tipo, che potrebbero emergere dalle interviste». Nei due anni di formazione i temi dei diritti fondamentali, dell'etica e della deontologia professionale, così come della gestione della diversità culturale, sociale o religiosa, sono parte integrante di formativi specifici.
«Gli agenti in formazione hanno in particolare una mezza giornata dedicata all'interculturalità con degli esperti e un'altra dedicata alla profilazione razziale e ai suoi pericoli, oltre alle 150 ore di diritto. Etica e deontologia professionale sono materie che vengono trattate direttamente dal nostro comandante. L'obiettivo è sviluppare le conoscenze e la sensibilità per agire in modo imparziale». Al di là della Sarine, però, ci si interroga se allungare la scuola di po-
lizia per permettere di approfondire ulteriormente queste problematiche.
Per Cerinotti tutto è perfettibile, ma bisogna ricordare che fino al 2019 la formazione si espletava su un solo anno, che oggi è la stessa a livello federale, e che in altri Paesi, come negli Stati Uniti, alcuni agenti vengono messi sulle strade dopo undici settimane di accademia.
Un altro interrogativo rilanciato in queste settimane è quello della «diversità» dentro le fila della polizia. A questo proposito, Cerinotti ci ricorda innanzitutto che la professione è limitata ai cittadini svizzeri, sono pochissimi infatti i Cantoni che hanno aperto anche a residenti in possesso di un permesso C. In Ticino, in ogni caso, ci sono poliziotti con un passato migratorio, sono spesso di seconda generazione e per lo più sono originari di Paesi vicini, alcuni provengono dall'ex-Jugoslavia. Nessuno da Paesi più lontani, «ci sarebbero utili per dialogare più facilmente con certe etnie, ma non è il caso», chiosa il capitano. Discorso diverso, invece, per quanto riguarda la presenza femminile: «C'è stato un incremento negli ultimi anni ed ora ci assestiamo attorno al 20% degli aspiranti».
«Abbiamo un codice deontologico nel quale si insiste sull’importanza di segnalare i comportamenti non conformi»
Le chat fra i poliziotti vodesi, lo abbiamo detto, non sono state denunciate ai superiori. Colpa di un'interpretazione sbagliata dello spirito di corpo afferma qualcuno, e il Municipio di Losanna ha infatti annunciato la volontà di creare delle figure esterne alle quali gli agenti potranno rivolgersi per parlare in totale riservatezza di eventuali scorrettezze. Un tema che la polizia cantonale ticinese gestisce invece al suo interno. «Abbiamo un codice deontologico nel quale si insiste sulla responsabilità individuale e sull'importanza di segnalare i comportamenti non conformi», afferma il nostro interlocutore. «Si invitano con decisione le per-
sone a denunciare i comportamenti che non sono adeguati. Ogni anno, poi, il comando fa un rapporto all'intero corpo e in questa occasione è sta-
ta più volte sottolineata l’importanza del rispetto del codice deontologico».
Il capitano Cerinotti ci assicura: la porta degli ufficiali e persino quella
del comandante sono sempre aperte per chi vuole denunciare ciò che non trova corretto, «da parte nostra siamo sempre aperti al dialogo». La polizia cantonale ticinese, come altri corpi in Svizzera, si è dunque attivata per far fronte a un problema che non è nuovo e non è limitato soltanto a Losanna. Senza risalire troppo lontano nel tempo, nell'estate del 2024 era stata la polizia basilese a finire sotto i riflettori per un rapporto che denunciava fra l'altro atti di razzismo e sessismo. Segno che il grado di vigilanza deve essere sempre molto elevato e in questo senso sarebbe opportuno che queste tematiche non venissero affrontate unicamente all'inizio della carriera di un agente. «È sicuramente bene ricordare alle persone che hanno concluso da qualche anno la scuola di polizia che ci sono temi delicati come questi», osserva l’intervistato. «La formazione continua è un tema che consideriamo con grande attenzione e che tocca ogni agente su tutto l’arco della sua carriera professionale. Nonostante i turni e gli effettivi da garantire, ci impegniamo a offrire opportunità compatibili con l’organizzazione attuale. Temi come quello discusso in questa sede sono stati più volte ripresi e trattati a più livelli. Siamo convinti che si tratti di un percorso di crescita importante, ben radicato nella nostra organizzazione».
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Cerinotti
Disordini a Losanna dopo la morte di Marvin. (Keystone)
Come prelevare l’avere della cassa pensioni
La consulenza della Banca Migros ◆ Per decidere se è più opportuno percepire una rendita vitalizia e quando invece è più indicato un prelievo unico del capitale, o una combinazione dei due, occorre considerare cinque fattori
Jörg Marquardt
L’avere nella cassa pensioni è un pilastro importante della previdenza per la vecchiaia, dice l’esperta Jeannette Schaller. La decisione di prelevarlo sotto forma di rendita, capitale o in combinazione, è unica e irreversibile, ecco perché deve essere ben ponderata e pianificata, preferibilmente con il supporto di una consulenza finanziaria professionale. Chi preferisce percepire una rendita non deve fare nulla. Se invece si decide di prelevare il capitale, occorre farne richiesta fino a tre anni prima. Gli assicurati dovrebbero pertanto chiarire per tempo il termine di notifica presso la propria cassa pensioni. La scelta della forma di prelievo più adatta – continua la nostra interlocutrice – dipende dai seguenti fattori:
1. Responsabilità
Nel caso della rendita vitalizia, è la cassa pensioni a essere responsabile dell’avere di vecchiaia: questa gestisce il denaro e lo investe per ottenere un rendimento stabile correndo solo rischi minimi. La cassa pensioni deve però corrispondere la rendita alla beneficiaria o al beneficiario per tutta la vita, anche quando l’importo risparmiato nella cassa pensioni si è in realtà esaurito.
In caso di prelievo del capitale, la responsabilità passa alla persona assicurata. Questa deve quindi fare in modo da non esaurire troppo in fretta il denaro. Allo stesso tempo può
investirlo individualmente e sfruttare l’opportunità di ottenere un rendimento più elevato. Quando tuttavia vi sono condizioni di mercato sfavorevoli, si corre il rischio di perdita.
2. Flessibilità
La rendita offre prevedibilità e sicurezza, poiché si può contare su un reddito mensile fisso. Però la persona assicurata non può influire sulle decisioni d’investimento della cassa pensioni.
Il prelievo di capitale consente flessibilità finanziaria: oltre che per fare investimenti, il capitale può essere utilizzato anche per l’ammortamento di un’ipoteca o per versare anticipi sull’eredità.
3. Famiglia
Di una rendita vitalizia beneficiano anche le persone che vivono nella stessa economia domestica. Dopo il decesso, i coniugi percepiscono di norma una rendita per superstiti
(spesso il 60% della rendita), i figli generalmente il 20%, se hanno meno di 18 anni o sono in formazione. Prelevando il capitale viene meno la copertura automatica della o del coniuge: il capitale non utilizzato confluisce nella massa ereditaria e può quindi essere lasciato in eredità. Chi non ha impegni finanziari può predisporre che dopo il decesso il patrimonio vada, per esempio, a fratelli, amici o a organizzazioni. Quando si percepisce una rendita, dopo il decesso il resto del capitale rimane nella cassa pensioni.
4. Reddito
L’importo della rendita è fisso, dipende dall’importo versato e dall’aliquota di conversione applicata dalla cassa pensioni. Il valore del reddito diminuisce costantemente perché non è prevista la compensazione automatica del rincaro.
Chi preleva l’avere come capitale può definire individualmente l’ammontare del prelievo. Investendo il capitale vi è la possibilità di conseguire un rendimento che supera il tasso di inflazione.
5. Imposte
La rendita è tassata ogni anno al 100% come reddito. Al prelievo di capitale si applica invece un’imposizione ridotta una tantum, separata dal resto del reddito. Da un punto di vista puramente fiscale, quindi, il prelievo di capitale è generalmente più interessante. Nella scelta tra rendita e capitale andrebbero però considerati anche gli altri quattro fattori.
CONSIGLIO
Combinazione di rendita e capitale
Il prelievo degli averi della CP non è una scelta rigida tra un’opzione e l’altra. Gli assicurati possono riscuotere solo una parte dell’avere come rendita e farsi versare il resto sotto forma di capitale. In questo caso la rendita serve a garantire il sostentamento fino in età avanzata, mentre il capitale prelevato può essere utilizzato o investito per soddisfare desideri particolari. Tutti gli assicurati hanno il diritto di prelevare come capitale almeno il 25% del loro avere di vecchiaia obbligatorio. Per la scelta del tipo di prelievo bisogna tenere conto della situazione finanziaria e personale complessiva, nonché della propria propensione al rischio. A tale scopo è utile avvalersi di una pianificazione finanziaria completa.
Jeannette Schaller è responsabile
Pianificazione finanziaria presso la Banca Migros.
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Linguaggio politico: è banale e manipolatorio
Il punto ◆ La parola all’esperto di comunicazione Pier Paolo Pedrini che ha analizzato slogan e manifesti elettorali non solo ticinesi
Romina Borla
Come comunicano i leader politici ticinesi, e non solo? Quali strategie adottano per conquistare l’elettorato? Dall’analisi fatta in Slogan e campagne elettorali (Carocci) di Pier Paolo Pedrini, consulente e docente di comunicazione, non emergono dati incoraggianti. Tutti/e – afferma l’autore – ripetono più o meno gli stessi concetti con i medesimi termini, «riconducibili a quanto si deve dire in determinate circostanze; parole d’ordine e frasi ad effetto che erano già conosciute dalla propaganda della guerra, poi dalla pubblicità e che vengono espresse con l’aiuto di stratagemmi retorici teorizzati dai classici». Per dimostrarlo Pedrini presenta una carrellata di immagini di candidati contemporanei confrontata con quelle utilizzate negli ultimi 50 anni da politici carismatici (de Gaulle, Giscard d’Estaing, Chirac, Reagan e Trump, Kohl e Merkel, Berlusconi e Meloni, Putin e Zelensky), evidenziando schemi che si ripetono nel linguaggio e nella presentazione scenica.
«Sebbene tutti i partiti ripetano che la comunicazione è importante – dice l’autore – molti dei loro manifesti evidenziano una scarsa preparazione comunicativa. Il linguaggio risulta scontato, talvolta semplicemente copiato da altri, da chi in passato ha avuto successo (uno su tutti il “Yes we can” di Obama che tra l’altro ricorda molto “Sì se puede”, ovvero “Sì possiamo”, lo slogan con cui Gonzalo Sánchez de Lozada ha vinto le Presidenziali boliviane del 2002). Spesso chi viene rappresentato non riconosce il valore significativo del linguaggio per la comunicazione della sua identità. Vince la celebrazione del vecchio. Con poche, interessanti, eccezioni. La politica si rifà a modelli studiati dalla teoria della persuasione (come le sei regole di Robert Cialdini ovvero reciprocità, impegno e coerenza, riprova sociale, simpatia, autorità e scarsità) e dalla pubblicità. Forse per pigrizia, o forse per paura di sbagliare, i candidati aderiscono volentieri a formule stranote».
«Vendete i nostri candidati nel modo in cui il mondo degli affari vende i suoi prodotti», si diceva negli anni Cinquanta
Già negli anni Cinquanta la politica americana comincia ad essere profondamente influenzata dalle tecniche di marketing e pubblicità; la tv diventa un mezzo centrale per raggiungere gli elettori. «Vendete i nostri candidati nel modo in cui il mondo degli affari vende i suoi prodotti» è una frase, spesso attribuita ad Eisenhower, che riflette bene lo spirito dell’epoca. Uno spirito che favorisce appunto la personalizzazione del candidato (i politici diventano un «brand» da promuovere con un’immagine curata come quella di un prodotto commerciale), l’uso di tecniche per solleticare le emozioni di chi vota, influenzandone così le decisioni, la spettacolarizzazione della politica che diventa anche intrattenimento, la personalizzazione dei messaggi per gruppi specifici di elettori… Ed è così ancora oggi.
Spiega Pedrini: «Lo stile comunicativo dei leader politici si basa sulla semplificazione e sulla manipolazione: “so cosa vuoi sentirti dire e te lo dico”. Il linguaggio dev’essere semplice perché deve presentare la soluzione ai problemi più sentiti dalla gente ed essere capito da tutti. Dev’essere an-
che vago, perché così è più facile che ognuno pensi si stia parlando del suo problema». Da qui arrivano la genericità e spesso la banalità degli aggettivi scelti (uno su tutti è «concreto», detto da chiunque, il Centro si è definito «il Partito della concretezza») e degli avverbi (come «insieme», che rimanda all’inclusione e che numerosi partiti usano). Parole che vengono racchiuse in formule e ripetute in modo uguale da candidati di ogni appartenenza politica e di ogni Nazione. A questo proposito – osserva l’intervistato – è significativo evidenziare che l’esortazione «insieme ce la faremo», usata da molti candidati e politici affermati (anche Cassis l’ha ripetuta nei suoi auguri di Natale), era già stata scelta da Helmuth Kohl negli anni Ottanta del Novecento.
«Le formule impiegate – spiega Pedrini – ruotano perlopiù attorno alla celebrazione di valori universali e a concetti di cambiamento (“Dobbiamo cambiare”, diceva Marina Masoni, e con lei tanti altri), coerenza, coraggio, fare (“+ fatti – bla bla” della Lega, “fare bene”, “fare meglio”, “c’è da fare”). Qui spesso il candidato ha le maniche della camicia rimboccate. Senza dimenticare forza, futuro e giustizia (a me è piaciuto “Voto Tuto Rossi perché è giusto”, come a dire “se volete giustizia eleggete persone che la incarnino”). Si mescolano caratteristiche del proprio carattere (impegno, passione, determinazione) con il proprio programma (sicurezza, speranza), alternando la razionalità all’emozione. Parole e concetti che hanno un’eco positiva nella mente umana». I politici sfruttano l’emozione di elettori ed elettrici. Da quando la tv è diventata il mezzo principale di informazione, il loro linguaggio e il modo di presentarsi sono cambiati (ora sono i social a dominare ma la logica è uguale). «Si mostrano segnali di vicinanza con i cittadini (“Io sto dalla tua parte”, lo slogan di un candidato ticinese), si sceglie un linguaggio comprensibile che crea legami affettivi fingendo di essere normali cittadini (sono “Uno di voi” dicono in parecchi). C’è chi come slogan ha scelto “Non sono un politico. Sono un cittadino” e anche Trump, meno modestamente, ha eccitato il suo pubblico dicendo “Non sono un politico. Sono una star”». L’importante è allontanarsi da un certo modello precedente, connotato come freddo e distante dai problemi delle persone comuni. I/le leader inoltre cercano di essere attraenti e curano l’aspetto fisico.
«Oltre i molti che fanno diete, ricordo che Mitterand si è fatto limare i denti – dice Pedrini – Berlusconi ha optato per lifting e trapianti di capelli, Dilma Rousseff si è sottoposta a numerosi interventi di chirurgia estetica, altri si adattano alla moda con vestiti, accessori e occhiali. Più si mette l’accento sulla personalità e più si afferma l’imperativo di ottimizzare la propria immagine per mostrarsi moderni e vicini
La riuscitissima campagna di Barack Obama del 2008 è stata costruita attorno a «Sì possiamo», «Cambiamento» (Change) e «Speranza» (Hope), tre concetti che ritornano in continuazione. (Keystone)
interlocutore – mentre centro e destra sono più concentrati sul “fare”. E questo non è un fenomeno solo ticinese. Da comunicatore preferisco i manifesti dei partiti di sinistra, con grafica coerente: c’è un forte richiamo al partito e sembra che il candidato abbia scelto quale valore promuovere. Mentre quelli di centro e di destra lasciano libera espressione in tutto, e il logo del partito è secondario. In questo sono molto moderni».
Per quello che riguarda l’intelligenza artificiale? «Mah, penso al suo pesante uso nelle elezioni in India e negli Stati Uniti. L’IA uniforma e rende tutti i candidati e i loro messaggi ancora più uguali. Essendo abituata ad attingere da tonnellate di campagne precedenti, per ora non sembra sfornare nulla di originale».
agli elettori, più si usa Photoshop per ritoccare i manifesti». Gli slogan abbondano di cuori e dichiarazioni d’amore. La seduzione trionfa e oggi più che mai si vota più una persona che piace e che ispira fiducia piuttosto che un partito o un programma.
Ci sono differenze tra slogan di destra e di sinistra? «Dai messaggi analizzati, la sinistra si rifà maggiormente a valori assoluti – risponde il nostro
I candidati possono utilizzare il libro come una specie di manuale, conclude Pedrini, per capire cos’è già stato fatto o detto, al fine di creare qualcosa di nuovo che li distingua dai concorrenti e comunichi la loro personalità. «Nello stesso tempo ho voluto mettere gli elettori sull’attenti: nulla è improvvisato e neanche sincero. I manifesti riportano quello che è meglio dire e cercano di “vendere” al meglio qualcuno, qualcosa. Aveva ragione Ronald Reagan a pensare che “La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. E io ho scoperto che talvolta assomiglia molto alla prima”».
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Casa Pessina in dieci anni di fotografia Lo spazio espositivo di Ligornetto celebra il proprio anniversario con una rassegna che attraversa generazioni e linguaggi
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La commedia umana secondo Benni Di Benni resteranno sulla pagina i personaggi memorabili che ridono dei potenti e rivelano la fragilità della gente comune
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Filosofia e pulsioni carnali Together, esordio alla regia di Michael Shanks, trasforma l’immaginario platonico in un’indagine sull’amore e sul corpo
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Tutti gli «ismi» dell’arte in una stanza
Mostre ◆ La collaborazione tra Hans Arp e El Lissitzky (che soggiornò in Ticino negli anni Venti) alla Fondazione Arp
Il centro di gravità di questa mostra ricca di documentazione e allestita nella bella sala espositiva della Fondazione Marguerite Arp di Solduno è la pubblicazione Die Kunstismen: un’impresa editoriale in tre lingue che ambiva a raccontare a un pubblico internazionale la parabola dei movimenti delle avanguardie storiche nel decennio 1914-1924, cercando di storicizzarle, pur vivendole ancora «in diretta; nelle intenzioni degli autori e promotori del progetto – Hans Arp e El Lissitzky – il volumetto avrebbe dovuto essere «la fossa comune di tutti gli “ ismi ” dell’arte» e chiudere così un capitolo, ricavandone però principi ancora validi per il futuro.
Die Kunstismen può essere letto anche come la storia dell’incontro fra le personalità di El Lissitzky e Hans Arp
Ma Die Kunstismen è anche la storia di incontro e un sodalizio (seppur di breve durata) tra due personalità completamente opposte: quella di Hans Arp, il poeta e l’artista che a Weimar, nel 1922, in occasione del Congresso internazionale dei costruttivisti e dadaisti, conosce El Lissitzky, architetto, geniale grafico e «costruttore di libri» (come si autodefiniva lui stesso), considerato il più importante mediatore del costruttivismo russo-sovietico in Europa in contatto con numerose personalità delle avanguardie europee: da Malevich a Schwitters, da LeCorbusier a Theo van Doesburg, da Moholy-Nagy a Hannah Höch, famosa dadaista tedesca, poco nota a sud delle Alpi. E molti sono anche i nomi degli artisti presenti in mostra, sia con le opere originali citate negli «ismi», sia con opere «gemelle», molte delle quali appartenenti alla collezione della Fondazione Arp, di cui l’esposizione diventa così anche specchio. Ma la mostra restituisce anche la storia di un Ticino che negli anni tra le due guerre si è ritrovato molte volte al centro di una rete di scambi e di contatti di rilevanza internazionale. Le ricerche d’archivio confermano che la genesi e la realizzazione dei Kunstismen risale all’estate del 1924 in Leventina. Tra il 15 luglio e il 16 agosto le famiglie Arp e El Lissitzky trascorrono le vacanze estive a Villa Croce, ad Ambrì, dove «tutti lavorano di mattina e un po’ anche di pomeriggio», come racconta la stessa Sophie Tauber-Arp in una lettera (e per inciso, gli attuali proprietari di Villa Croce sono assidui frequentatori della Fondazione).
Ma perché proprio Ambrì? Sono i problemi di salute dell’architetto e grafico russo, che soffre di tubercolosi polmonare, a portarlo a sud delle Alpi; indirizzato dapprima al rinomato
sanatorio di Agra, poi per mancanza di posti ricoverato all’ospedale di Locarno e subito dopo in una clinica di Orselina (come attestano le cartoline e le lettere riprodotte nella ricca e agile pubblicazione che accompagna la mostra). Decisivo è stato l’incontro con Alfonso Franzoni, medico in prima linea nella lotta alla tubercolosi, che si rivelerà essere anche un buon amico: «Dopo tre ore di attesa si rivela un medico molto coscienzioso e una bravissima persona», scrive alla moglie Sophie Küppers, nel febbraio del 2024.
In questi mesi di ospedale El Lissitzky continua a lavorare senza sosta: realizza lo storico numero 8-9 della rivista dada «Merz» di Kurt Schwitters, cura una traduzione in tedesco degli scritti dell’artista russo Malevic, si occupa della grafica pubblicitaria di prodotti Pelikan. Alla fine della primavera il medico suggerisce il trasferimento in montagna; per l’occasione lo raggiunge da Hannover anche la moglie, la storica dell’arte e collezionista Sophie Küppers. A metà luglio arrivano anche gli Arp che avevano aderito al progetto degli «ismi dell’arte» con entusiasmo («Kurt Schwitters era quasi inaccessibile per questa proposta, Arp invece fuoco e fiamme»).
Un progetto che vede la sua concreta realizzazione a Villa Croce: la stesura dei testi da parte di Arp, la selezione di artisti e delle opere, la ricerca del materiale fotografico che passa attraverso la mediazione di Tristan Tzara. E mentre tra le due Sophie c’è reciproca stima, i rapporti tra i mariti con il tempo degenerano, fino alla rottura, tanto che il contratto con l’editore di Zurigo porta la firma del solo El Lissitzky.
Per questa rassegna degli «ismi» Arp e El Lissitzky selezionano 15 movimenti – dal Dadaismo al Suprematismo, dal Purismo al Cubismo, per un totale di 13 Paesi e 60 artisti, che non sempre hanno gradito la loro collocazione, come nel caso di Paul Klee, liquidato come «espressionista».
Tra le pagine di questa rassegna critica delle avanguardie figurano anche i due autori: El Lissitzky è nella sezione Prounismo, una sua personale e originale interpretazione dello stile suprematista, mentre Arp è presente nella sezione Astrattismo, ma anche tra gli artisti Dada, con una fotografia che ritrae il suo torso sovrastato da un rilievo in legno, realizzato quasi certamente ad Ambrì.
La mostra non solo documenta il progetto, ma lo amplifica, con qualche variante che ne integra idealmente le intenzioni; sono state esposte due opere singolari del surrealista Max Ernst, come il suggestivo L’oiseau en cage, restaurato per l’occasione, che completa così la lista degli «ismi». Ma è stata l’occasione anche per le dovu-
te rettifiche, come nel caso di Sophie Taeuber, rappresentata con una «marionetta» – scelta imposta da El Lissitzky – ma di cui oggi si espone anche l’opera scelta in origine da Arp, che riteneva molto più significativo uno dei suoi «arazzi». Infine, ci sono le aggiunte che completano questa panoramica sulle Avanguardie, giustificate dal valore delle opere in collezione, come il sorprendente portfolio grafico Kleine Welten del 1922 di Kandinsky. Alla sua uscita Die Kunstismen desta poco interesse o viene frainteso dalla critica; di lì a qualche anno gli si riconosce però una «freschezza tipografica» e delle qualità formali che lo
rendono molto attuale. Con la guerra e l’avvento del nazionalsocialismo il libro scompare dal catalogo dell’editore, mentre riscuote più successo negli Stati Uniti. Intanto a partire dagli anni Trenta in Svizzera si comincia a raccogliere l’eredità del costruttivista El Lissitzky: la nuova tecnica della «foto-pittura», i suoi rivoluzionari progetti grafici – come la rivista che si legge simultaneamente dai quattro lati – le sue opere, che sono comprate dai collezionisti ed esposte in importanti musei. E non si può fare a meno di pensare allo stile della grafica svizzera rinomato a livello internazionale e alla grafica di Max Bill, Max Hu-
ber fino a Bruno Monguzzi, che porta ancora i segni del costruttivismo rigoroso e rivoluzionario di El Lissitzky. Tutto racchiuso nella grande «kappa» disegnata sulla copertina, una «kappa» che invece Arp si diverte a decostruire e a riassemblare, con un intervento che trasforma il libro anche in un’opera d’arte d’avanguardia. Dove e quando Lissitzky, Arp e gli Ismi dell’arte, 1925, mostra a cura di Simona Martinoli, Solduno, Fondazione Marguerite Arp. Orari: do 14.00-18.00. Fino al 2 novembre. fondazionearp.ch
Emanuela Burgazzoli
Copertina del volume Die Kunstismen, Les Ismes de l’art, The Isms of art, a cura di El Lissitzky e Hans Arp, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich, München, Leipzig, 1925
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Quali alimenti sono rischiosi?
Occorre prestare particolare attenzione agli alimenti crudi come le ostriche, i frutti di mare e il pesce in generale. Ma anche la carne cruda e il latte non sono sempre sicuri. Si raccomanda inoltre prudenza con la verdura cruda e la frutta, che potrebbero essere state lavate con acqua contaminata, e questo vale anche per l’insalata.
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In quali situazioni l’acqua del rubinetto è rischiosa?
In alcuni Paesi non è consigliabile bere direttamente l’acqua del rubinetto. È necessario farla bollire prima, oppure evitarla del tutto e bere esclusivamente acqua in bottiglia. Bisogna anche fare attenzione ai cubetti di ghiaccio: se sono stati fatti con acqua di rubinetto non bollita, è meglio non toccarli.
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Qual è la regola d’oro?
In inglese si dice: «Boil it, cook it, peel it or forget it», ovvero «fallo bollire, friggilo, sbuccialo o dimenticalo!». Attenendosi a questo principio, è possibile evitare i problemi con i cibi più rischiosi.
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C’è qualche particolare accortezza da seguire a titolo preventivo?
Esistono diverse caratteristiche che possono essere indice di una buona sicurezza alimentare, ad esempio una superficie di lavoro pulita e ordinata su una bancarella. Anche l’afflusso di gente è un segnale importante: se un ristorante o uno stand gastronomico è molto frequentato, ciò può indicare una buona qualità e igiene. Tuttavia, la popolazione locale è generalmente abituata al cibo, i turisti (ancora) no, quindi occorre comunque prestare attenzione anche in questo caso. Inoltre, prima di mangiare, bisogna sempre lavarsi accuratamente le mani e strofinarle con un disinfettante.
GUIDA PRATICA
Ristorarsi in viaggio
Cosa mangiare in viaggio? Cosa no?
I Paesi lontani sono un paradiso per i buongustai: dietro ogni angolo, nuovi piatti entusiasmanti aspettano di essere assaggiati. A cosa fare attenzione per non rovinarsi lo stomaco e l’umore
Testo: Dinah Leuenberger
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Come preparare lo stomaco per il viaggio?
In realtà non è possibile preparare lo stomaco a nuovi tipi di cibo. Di solito ci vogliono alcuni giorni per abituarsi ai nuovi ingredienti e metodi di preparazione. È quindi consigliabile intro-
durre gradualmente i nuovi alimenti e, anche nel caso del cibo piccante, iniziare con piccole quantità. Come spuntino e per le emergenze è consigliabile avere sempre con sé una razione di snack, come i Blévita, le barrette Farmer o la frutta secca.
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Una grappa dopo i pasti uccide i batteri: è ancora valida questa credenza?
L’idea che una grappa dopo i pasti uccida i batteri è ancora diffusa, tuttavia questo effetto non è stato scientificamente provato. L’alcol deve essere consumato solo con moderazione, soprattutto quando fa molto caldo.
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Cosa fare se lo stomaco continua a fare i capricci?
In caso di diarrea lieve, è necessario bere acqua pulita, consumare sale e zucchero ed evitare il sole. Anche la banana è molto consigliata grazie al suo elevato contenuto di potassio, che viene perso durante la diarrea. In caso di forti dolori addominali, sangue nelle feci o vomito, o se la situazione non migliora dopo due o tre giorni, è necessario consultare un medico o chiamare una hotline in Svizzera.
Fotografia ◆ A Ligornetto, Casa Pessina festeggia il decennale con una mostra che unisce memoria storica e nuove sperimentazioni
Gian Franco Ragno
Quest’anno si festeggiano i dieci anni di uno spazio espositivo per molti versi unico nel Canton Ticino, Casa Pessina di Ligornetto, oggi quartiere di Mendrisio. Donazione dello scultore operante a cavallo del secolo scorso e la prima metà del Novecento Apollonio Pessina (1879-1958), l’edificio è stato ristrutturato nel 2003 aggiungendo un’ala in cemento armato. A poca distanza dal più grande museo nazionale di Vincenzo Vela, Casa Pessina si è programmaticamente votata, dal 2015, a un’arte più giovane, la fotografia, riservando la sala moderna a esposizioni personali di operatori presenti sul territorio – e producendo sempre un piccolo opuscolo monografico.
Da Giovanni Luisoni a Nelly Rodriguez, passando per Gian Paolo Minelli e Piritta Martikainen, nel percorso che attraversa memoria, sperimentazione e nuove forme di visione
Sottolineerei che il terreno era fertile: il Mendrisiotto ha una grande tradizione e ha sempre guardato con attenzione alla disciplina con la storica galleria ConsArc di Chiasso (1989), la Biennale dell’Immagine (1992), la Fondazione Rolla (2010) e prima ancora Borgovico 33 (2002-2008). Inserita nel mese della fotografia svizzera, l’esposizione attuale prende in questa occasione tutto lo spazio delle sale, dialogando anche con la scultura di Pessina.
Gli autori sono numerosi, ben ventuno: come giustamente riassunto nel comunicato stampa è «una mappa eterogenea e vitale» del panorama attuale, che ci costringe a fornire solo un breve cenno su ognuno dei partecipanti.
Partiamo, senza un ordine definito,
dalla presenza della memoria storica e visiva del territorio degli ultimi decenni, ovvero Giovanni Luisoni (1944), colui che ha preso il testimone da Gino Pedroli (1898-1986), cronachista di un Mendrisiotto ormai lontano. Si passa a figure più affermate e storiche della fotografia ticinese – ovvero con più esposizioni personali e collettive in Svizzera e all’estero. Si incontrano nelle sale Reto Albertalli (1979), noto fotoreporter di impronta umanitaria, e Gian Paolo Minelli (1968), chiassese ma argentino d’adozione, laddove sviluppa molti dei suoi progetti, e anche Piritta Martikainen (1978), finlandese d’origine e ticinese d’adozione, che da parte sua propone scorci di un mondo magico e incantato.
Provenienti da videoarte e sperimentazione sono presenti due lavori fotografici di Aline D’Auria (1982) e Roberto Mucchiut (1960), ai quali si aggiunge, anch’egli abitualmente videoartista, Tommaso Donati (1988), qui con un frammento di un suo progetto, assai intimo e lirico, dal titolo Teresa. Usano il mezzo fotografico per progetti dal sapore concettuale Anna Meschiari (1987) e Cosimo Filippini (1979) mentre appaiono più legati alla sperimentazione e alle forme che nascono autonomamente rispetto alla realtà esterna Daniela Droz (1982), e, per quanto riguarda il progetto esposto recentemente a Ligornetto, Tonatiuh Ambrosetti (1980). Ritroviamo nelle sale anche operatori a largo raggio che rispondono alle esigenze del territorio come Stefano Spinelli (1963) e Simone Mengani (1978), ma che al tempo stesso portano avanti progetti personali. Ritrattisti di musicisti jazz come Stefano Galli (1966) e indagini sociali come quella sui figli degli emigranti ticinesi negli Stati Uniti da parte di Flavia Leuenberger (1985), o coloro che usano la macchina fotografica come intima memoria, del proprio percorso al
contempo personale e professionale, come Andrea Basileo (1990) e Nelly Rodriguez (1981) con risultati lievemente enigmatici.
Non mancano infine quei fotografi più legati a tematiche del paesaggio, di stampo cosiddetto topografico: il locarnese Giuseppe Chietera (1966)
e il comasco Fabio Tasca (1965) che espongono regolarmente in coppia, ai quali aggiungerei Simon Brazzola (1977), il quale raggiunge risultati che trascendono la stessa identità del territorio. Concludo con l’accenno a due delicatissime polaroid di Alek Lindus (1965-2015), artista scomparsa prematuramente.
Come abbiamo già sottolineato in queste pagine, la programmazione di Casa Pessina è stata condotta, per tutto quest’ultimo decennio, con misura, serietà e continuità. Altra nota di plauso, il fatto che alcune opere siano entrate ed entreranno nella collezione del Museo d’Arte di Mendrisio, dando sostegno e ulteriore motivazione ai partecipanti.
Si è stati capaci, in questo caso, di ascoltare le esigenze della comunità artistica, desiderosa di spazi d’espressione, ricordando che – per quanto riguarda questo mezzo, la fotografia –non mancano certo gli interpreti, o gli aspiranti tali.
Dove e quando 10 anni di fotografia a Casa Pessina, Ligornetto, Casa Pessina. Fino al 5 ottobre 2025. Sabato e domenica 14.00–18.00. Ingresso libero.
In memoriam ◆ Dall’uomo invisibile al barista al Dottor Niù e a Margherita Dolcevita, le indimenticabili creature dello scrittore bolognese
Carlo Silini
Più ci penso, meno riesco a decidere quale sia il mio personaggio preferito tra i numerosissimi creati dalla fantasia straripante e dalla penna sopraffina di Stefano Benni, lo scrittore e umorista bolognese scomparso la scorsa settimana, a 78 anni, dopo una lunga malattia.
Ho un debole personalissimo per l’Uomo Invisibile al Barista, frequentatore del suo esilarante Bar Sport (Arnoldo Mondadori Editore, 1976). Privo di un nome preciso, è un cliente timido – più o meno come me – che entra nel bar, si avvicina al bancone con un soldino in mano, si aggrappa speranzoso al bordo cercando di attirare l’attenzione del barista, che però non lo vede mai e continua a servire tutti gli altri, anche quelli arrivati dopo, ignorandolo sistematicamente. Non voglio ricamarci sopra trattati sull’invisibilità sociale o sulla superficialità dei rapporti umani: è irresistibile perché incarna una sensazione di irrilevanza che prima o poi ognuno di noi prova nella vita.
Benni, del resto, è un maestro nel raccontare il senso delle cose e delle persone già mentre le descrive. Nella raccolta La grammatica di Dio (Feltrinelli, 2007), per esempio, presenta un tizio che vive su un minuscolo granello di polvere e si considera il sovrano assoluto dell’universo. Anche «l’Uomo
che possedeva un granello di polvere» non ha un nome proprio, e quindi puoi metterci dentro il capoufficio col delirio d’onnipotenza, il vicino narciso, il politico tronfio, il dittatore e tutti i palloni gonfiati che ci ammorbano col proprio ego.
Come l’Egoarca Mussolardi, tiranno di Gladonia ne La compagnia dei Celestini (Feltrinelli, 1993), storia di tre bambini che fuggono dall’orfanotrofio dei Padri Zopiloti per partecipare al Campionato Mondiale di Pallastrada. Mussolardi è un uomo vuoto: parla con sicurezza finché legge le frasi scritte sul suo ventaglio, ma quando il ventaglio si rompe, comincia a parlare a vanvera. La Pallastrada è una poetica metafora della lotta per la libertà, della resistenza contro la stupidità del potere e della creatività contro gli stereotipi. Leggi, e non puoi fare a meno di sentirti anche tu un Celestino dodicenne e sgarrupato in fuga dall’omologazione.
Perché, ridendo e scherzando, senza neppure rendercene conto, ogni giorno rischiamo di essere plasmati da uno stampino sociale che ci fa tutti uguali. Grazie anche a guru della new economy e della modernità come il Dottor Niù – storpiatura ironica dell’inglese new (Dottor Niù. Corsivi diabolici per tragedie evitabili, Feltrinelli, 2001) – un signore che circola con occhiali scuri e capelli rasati, ha il fi-
Al di là della parola
Eventi ◆ Poschiavo diventa crocevia di voci, idiomi e narrazioni contemporanee
«Ogni lingua è una visione del mondo, un modo di segmentare l’universo, di attribuire valori e rapporti», scriveva Italo Calvino nelle Lezioni americane. A Poschiavo, dal 3 al 5 ottobre, un intero festival prende sul serio quell’affermazione e la trasforma in pratica condivisa: Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo invita a tirar fuori la lingua, nel senso più libero e plurale del termine. La quinta edizione della rassegna letteraria dei Grigioni porta in valle scrittrici e scrittori che abitano più idiomi, li mescolano o li reinventano. Voci che non temono di scivolare da un codice all’altro, di reinventare le regole, di tradursi e reinventarsi per cercare nuove forme di dire. Un laboratorio a cielo aperto dove il linguaggio non è barriera, ma materia viva. Il via ufficiale avrà luogo venerdì 3 ottobre con Chansons d’amour et d’exil, concerto di Elina Duni e Rob Luft: un duo che intreccia jazz e radici balcaniche, soglie sonore capaci di suggerire subito l’idea di confine come possibilità. Da sabato mattina, la Casa Torre si trasformerà in un cro-
sico di un quarantenne ma in realtà è molto più vecchio. La sua new profession è nata insieme alla new way of life, ma state tranquilli: per i suoi pregiatissimi servizi chiede old fashion money, soldi alla vecchia maniera.
Imperdibile è anche l’Uomo Puntuale, protagonista dell’omonimo racconto in L’ultima lacrima (Feltrinelli, 1994): un signore ossessionato dalla puntualità, che vive in un mondo perennemente in ritardo. La sua vita è un inferno di solitudini immeritate, e la sua frustrazione lo porta alla distruzione.
Dolcissima è invece Margherita Dolcevita (Margherita Dolcevita, Feltrinelli, 2005), quindicenne con qualche chilo in più, piena di ironia, intelligenza e fantasia. Ha un difetto cardiaco che le impedisce di affaticarsi, ma questo non le toglie la voglia di vivere e di raccontare il mondo con uno sguardo acuto e poetico.
Formidabili, infine, i sessanta topi ammaestrati dell’equipaggio della minuscola astronave giapponese Zuikaku, che si ammutinano contro il loro generale e lo scagliano nello spazio in Terra! (Feltrinelli, 1983), mentre si allontanano da un mondo post-apocalittico devastato da quattro guerre mondiali, con il pianeta avvolto da una cortina di ghiaccio e oscurato da un inverno nucleare.
Non si dimenticano i personaggi di Benni – e qui ce ne sono solo alcuni – perché fanno ridere e piangere allo stesso tempo. La sua scrittura unica, ironica e surreale mescola sapientemente la lezione di autori come Italo Calvino per la costruzione di mondi immaginari, Dario Fo (con cui collaborò) per la teatralità dei dialoghi, Gianni Rodari per l’inventiva linguistica, Daniel Pennac (di cui era grande amico) per l’umorismo tenero e intelligente, e Fabrizio De André per l’amore degli ultimi e dei marginali. I suoi giochi di parole, i neologismi e le situazioni grottesche trasformano il quotidiano in qualcosa di irresistibilmente comico e universale.
È gente assurda, ma profondamente simile a ognuno di noi: chiacchiera al bar, racconta amori impossibili, si perde in discussioni infinite sul calcio,
la politica, il meteo, le donne, i cappuccini e il cinema. Mostra in che misura la vita di tutti i giorni mescoli il reale con l’assurdo. Chissà in quale dei suoi personaggi si identificava lui, che era soprannominato «Lupo» perché da ragazzo l’avevano trovato a ululare alla luna insieme ai suoi sette cani, e che di sé diceva assai poco. Anzi, si ingegnava a far perdere le tracce sostenendo di avere almeno dodici biografie diverse, tutte in parte inventate. A ben vedere, poteva starci anche Benni, senza sfigurare, nella lunga trafila dei memorabili personaggi che si è inventato. A causa della malattia, da tempo non calcava più la scena pubblica. Era come sparito. Senza però rinunciare al suo spirito: «Non ho voglia di bilanci. Chiedimelo di nuovo fra settant’anni», aveva detto, sfuggente, al suo settantesimo compleanno.
cevia di incontri. Ci saranno, tra gli altri, Prisca Agustoni e Gianna Olinda Cadonau, in dialogo sulle scritture che oscillano fra romancio, francese, tedesco, italiano e portoghese. Nel pomeriggio, la scena toccherà a Joseph Incardona e Luca Brunoni, narratori che hanno saputo reinventarsi passando da una lingua all’altra, seguiti dalla voce romancia di Viola Cadruvi e dal poeta ivoriano-svizzero Henri Michel Yéré. Sabato sera l’attesa si concentra su Kim de l’Horizon, figura di primo piano della nuova scena europea, che presenterà il romanzo Perché sono da sempre un corso d’acqua (Blutbuch) –da «Azione» recensito, intervistando anche l’autore, il 9 gennaio del 2023 (v. www.azione.ch: «Sangue, gender e storie di vita») – già premiato e tradotto in numerose lingue.
Domenica 5 ottobre sarà il turno di Elvira Dones, autrice che attraversa l’albanese e l’italiano con pari intensità. Seguiranno le letture di Viceversa letteratura con Ruth Gantert, Ralph Tharayil e Mariann Bühler, quindi l’incontro con Eugène Meiltz. A chiudere, Disgust, performance bilingue di Flurina Badel: un monologo che interroga il rapporto con una lingua minoritaria in un mondo che tende all’omologazione.
Non mancano i laboratori per bambine e bambini dai 5 ai 12 anni, né un evento a «sorpresa» che guiderà il pubblico tra le vie del borgo con letture multilingue. Il festival è sostenuto da diverse istituzioni pubbliche e private, tra cui il Percento culturale Migros. / Red.
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Stefano Benni alla Fiera del Libro di Helsinki nel 2004. (Anneli Salo)
VITA
Cura dei capelli
Finalmente di nuovo dei bei capelli
Capelli fragili dopo le vacanze o subito sporchi? Il parrucchiere delle star Martin Dürrenmatt dà consigli sui problemi più comuni dei capelli
Nuovo design
Contro i capelli indomabili
I miei capelli sono grassi
Uno dei problemi più noti e probabilmente più fastidiosi a livello dei capelli è la cute grassa. Secondo il parrucchiere ed esperto di capelli Martin Dürrenmatt, ciò ha a che fare con una sovrapproduzione delle ghiandole sebacee e sudoripare del cuoio capelluto. «Esistono diversi tipi di shampoo, lozioni per capelli e prodotti in polvere appositamente studiati per ridurre la produzione di sebo». Ma poiché il problema viene dall’interno, è difficile trattarlo dall’esterno. Secondo Dürrenmatt, alla fine la soluzione è spesso una sola: lavare i capelli più di frequente.
Ho i capelli molto secchi
La soluzione è idratare. Per questo esistono balsami e maschere, prodotti che però le persone con capelli fini e sottili non dovrebbero applicare direttamente sulle radici perché questo appesantisce la base dei capelli. «Chi ha i capelli molto spessi o ricci, può invece applicare le maschere idratanti anche sull’attaccatura», spiega Dürrenmatt. Chi ha i capelli molto secchi, deve anche assicurarsi di bere a sufficienza. Molte persone confondono i capelli secchi con quelli danneggiati, quindi per sicurezza è meglio consultare prima il proprio parrucchiere.
I miei capelli sono sempre più sottili
Le persone anziane, in particolare, lottano contro il diradamento dei capelli. In questo caso possono essere d’aiuto i prodotti rinforzanti e volumizzanti. È inoltre fondamentale proteggere sempre i capelli con uno spray termico prima dell’asciugatura. Se i capelli non si stanno semplicemente assottigliando, ma cadono, si tratta di perdita dei capelli. Ciò può essere dovuto a una predisposizione genetica, a cambiamenti ormonali o a una carenza di sostanze nutritive. «Chiunque soffra di calvizie
«Contro i capelli fragili, la cura inizia già prima delle vacanze»
Martin Dürrenmatt
circolare, ad esempio, dovrebbe rivolgersi a un dermatologo», afferma Dürrenmatt. Altrimenti, l’esperto di capelli consiglia prodotti con estratto di semi d’uva e lana di pecora, che sarebbero in grado di stimolare l’apporto di ossigeno alle radici dei capelli favorendone la crescita.
Doppie punte
Le doppie punte sono solitamente una conseguenza dei capelli danneggiati, ad esempio a causa di troppe colorazioni o eccessivo calore. Il primo passo è quindi quello di scoprire la causa. Se si asciugano i capelli col phon o si stirano con la piastra, bisogna sempre usare una protezione termica. «Esistono anche sieri che sigillano le estremità dei capelli proteggendo così le punte», afferma l’esperto di capelli Dürrenmatt. Se nessuna cura si rivela efficace, occorre tagliare le punte.
Ho la forfora
La secchezza del cuoio capelluto provoca la forfora. Molte persone non solo ritengono antiestetiche queste scaglie bianche visibili sui vestiti e sui capelli, ma spesso avvertono anche prurito alla testa. In questo caso possono essere d’aiuto lozioni per il cuoio capelluto e shampoo antiforfora. «Se la pelle del corpo è secca, la trattiamo con lozioni idratanti, e lo stesso vale per il cuoio capelluto», spiega Dürrenmatt. Anche speciali scrub per il cuoio capelluto possono aiutare a rimuovere le scaglie. Chi non riesce a liberarsi della forfora nonostante abbia provato tutti questi rimedi dovrebbe consultare un dottore, perché potrebbe essere necessario ricorrere a prodotti medici.
I miei capelli sono fragili dopo le vacanze
«In questo caso la cura andrebbe iniziata già prima delle vacanze», dice Dürrenmatt. I balsami leave-in con protezione dai raggi UV e dal calore sono un must, in quanto aiutano a prevenire la fragilità dei capelli dovuta al sole, al calore e all’acqua di mare. Se invece è già troppo tardi, possono essere d’aiuto le maschere idratanti per capelli. «È importante rispettare il tempo di applicazione consigliato, in modo che i principi attivi possano dispiegarsi», afferma l’esperto. Se non si riesce a migliorare la situazione, l’unica alternativa è andare dal parrucchiere.
I capelli sono crespi Capelli crespi e indisciplinati: questo problema si presenta di solito nella stagione fredda. Infatti, quando fuori è umido e freddo, soprattutto i capelli sottili tendono a diventare crespi. Questo perché assorbono l’umidità dall’ambiente e si arricciano. «In questo caso sono d’aiuto le lacche speciali, che proteggono i capelli come una mantella antipioggia», dice Dürrenmatt.
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Testo: Barbara Scherer
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La caverna di Platone rivisitata dal body horror
Cinema ◆ Together, esordio alla regia di Michael Shanks, indaga il mito delle due metà e l’innamoramento come forza trasformativa
Sebastiano Caroni
Al pari di Titane (Palma d’oro, 2021) e The Substance (Premio alla miglior sceneggiatura a Cannes, 2024), anche Together rappresenta bene le recenti evoluzioni di un filone specifico, quello del body horror, che sembra interessare sempre di più sia il pubblico sia la critica. Il film Together – visto di recente in Piazza Grande a Locarno – propone, infatti, un’analisi della nostra società senza rinunciare all’originalità di un discorso estetico e tematico che è davvero notevole, considerando che l’australiano Michael Shanks è un regista esordiente.
Di questo film, ciò che impressiona è, in particolare, la capacità di Shanks di esplorare soluzioni narrative che, all’interno del body horror, risultano decisamente innovative e aprono nuovi orizzonti espressivi. Together è, inoltre, un film filosofico sotto più punti di vista. È un film che fa riflettere, che esprime un messaggio, che interroga la realtà. Ma è filosofico anche perché attinge, direttamente o indirettamente, a idee, approcci, teorie, autori o scuole di pensiero appartenenti alla filosofia. Ma c’è di più: si direbbe, infatti, che Shanks abbia letto attentamente il Simposio di Platone prima di realizzare Together, sdoganando una serie di allusioni e rimandi dotti, mai fuori luogo, alla filosofia e alla Grecia classica.
Con Together, il body horror si conferma uno dei generi più vivaci e innovativi del cinema contemporaneo
Il film si apre su uno squarcio domestico: è sera, Tim e Millie hanno appena terminato un trasloco e battezzano la loro nuova dimora in mezzo al bosco con una festa tra amici. I due giovani, si capisce subito, non sono perfetti. Come altre coppie che si avviano sulla strada della convivenza, cercano i giusti compromessi fra vita professionale, passioni personali e la vita a due. Ma a metterli a dura prova sono soprattutto delle esperienze che, giorno dopo giorno, cominciano a permeare la loro nuova vita di una dimensione inquietante. Ed è qui che si innesta un primo riferimento a Platone, e più in particolare al mito delle due metà – narrato da Aristofane nel Simposio – secondo il quale gli esseri umani erano, in origine, sfere perfette con due teste, quattro braccia e quattro gambe. Avendo imprudentemente sfidato gli dei, Zeus li punisce dividendoli a metà: inaugurando, di fatto, la condizione umana attuale, ma lasciandoci altresì in eredità la nostalgia della metà perduta, la fantomatica anima gemella.
La capacità degli attori Dave Franco e Alison Brie di dare espressività agli stravolgimenti che li investono fa di Together un body horror non solo nei contenuti – nella sua capacità di trasformare il corpo nel luogo dell’inquietudine e dell’inquietante –, ma anche in virtù dei modi in cui i personaggi esternano, con le espressioni del viso e il linguaggio del corpo, le esperienze laceranti che abitano le loro carni, mettendo in atto un’espressività attoriale capace di spingersi là ove il dolore e il piacere si fondono e si confondono.
In un mondo in cui l’individua-
lismo è portato all’eccesso, giocare sulla necessità della coppia è quasi un atto rivoluzionario. E, come se ciò non bastasse, Together ribalta l’estetica convenzionale del body horror,
conferendo al filone un volto profondamente umano.
Per dirla con il regista, Together «è un film sul potere trasformativo dell’innamoramento». Il mito delle
due metà, tuttavia, non è il solo collegamento con Platone. La vita di coppia dei due protagonisti, e le pulsioni che li attraggono l’uno all’altra, subiscono, infatti, una drastica quanto irreversibile impennata quando, in modo inaspettato, si ritrovano in una caverna: un luogo decisamente platonico. Anche se, ironicamente, il «potere trasformativo dell’innamoramento» di cui parla Shanks riguarda non tanto l’innamoramento casto a cui l’aggettivo «platonico» si riferisce oggi, quanto l’aspetto squisitamente carnale della faccenda. Il film fa pensare, inoltre, a Il bacio, famoso – quasi quanto L’urlo – dipinto che Edvard Munch realizzò nel 1897. Il bacio raffigura due innamorati in atteggiamento intimo, mentre avvinghiati si baciano nella penombra di una stanza. L’attrazione e la passione che li muove è così intensa
che le due figure praticamente si fondono l’una nell’altra, fino a diventare quasi indistinte: un’immagine simbolo del desiderio di unione totale, ma anche un monito della possibilità di perdere sé stessi.
Together è, in fondo, un film sulle effusioni, sulle pulsioni che ci muovono gli uni verso gli altri ma è anche, al tempo stesso, un film sulle emozioni e sulla forza trascinante dell’innamoramento. Qui l’horror non è mai fine a sé stesso, tanto che anche le contorsioni del corpo, stilemi collaudati del body horror, sembrano sfidare la legge tacita secondo cui di una persona ci si innamora solo una volta, veramente. Allora, forse, quando il ritorno di fiamma è tanto più amplificato quanto inquietante, non ci resta altro che abbandonarci alla forza delle pulsioni. O, per dirla in termini filosofici – e Shanks con la filosofia ormai ci prende gusto –, non resta che abbandonarsi alla dialettica delle effusioni: lasciando che, dalle opposizioni, nasca la sintesi. Il film di Shanks ci ricorda anche che, in fondo, il cinema ci scava dentro e smuove le nostre pulsioni. Come quando, immerso in storie che trasudano emozioni e passioni, provi la sensazione strana che il tuo mondo interiore diventi una questione di polpastrelli, di muscoli che si rilassano, di difese che si allentano. Non è certo un caso se la settima arte, grazie al potere immersivo che la avvicina all’esperienza onirica, sin dall’inizio sia stata definita una «fabbrica dei sogni». E non è un segreto se le storie risultano tanto più coinvolgenti quanto più fanno leva sulle nostre emozioni. E di storie così il cinema è pieno.
Dopo aver suscitato pareri entusiastici al Sundance Film Festival lo scorso gennaio, ed essersi fatto notare nella suggestiva cornice di Piazza Grande al Locarno Film Festival di quest’anno, Together arriverà nelle sale, in italiano, dopo il 1. ottobre.
Sabato 20 settembre
immagini tratte dal film.
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Battibecchi
Quattro pizze per una poesia
Suona il telefono. Rispondo. «Buonasera due margherite una quattro stagioni una prosciutto e funghi passo io quando?», dice una voce femminile un po’ spiccia. «Segni nome Leonida».
«Buonasera», dico. «Mi dispiace, Leonida, ma lei ha sbagliato numero». «Come, non è il tre sette nove quindici otto trecentoventidue?», dice Leonida. «Ha dimenticato il sei finale», dico. «Senza il sei è il mio numero, con il sei è la pizzeria».
«E lei come lo sa», dice Leonida, «qual è il numero che sto cercando io?».
«Perché ogni sera c’è qualcuno che sbaglia», dico, «e alla fine ho imparato». «Ha imparato cosa?», dice Leonida. «Il numero giusto della pizzeria per asporto “da Max”», dico. «Ah», dice Leonida. «Quindi sono in tanti a sbagliarsi?».
«Siamo per natura fallibili», dico. «E talvolta, quando si ha fame, non si fa troppa attenzione ai particolari».
Xenia
«Lei è un uomo profondo», dice Leonida.
«Sono un palombaro dell’anima», dico. «Che fa, mi prende in giro?», dice Leonida.
«Ma no», dico, «stavo solo scherzando. Pensavo a Corrado Govoni». «Govoni quello delle passamanerie in via Gozzano?», dice Leonida. «No, il poeta Corrado Govoni», dico. «Che scrisse una poesia intitolata appunto Il palombaro».
«E come fa?», dice Leonida. «“Palombaro, becchino mascherato che ruba cadaveri d’annegati, uomo pneumatico, assassino ermetico”», dico.
«Ma questa non è mica poesia!», dice Leonida. «Questo è un film horror!».
«E come dovrebbe essere, secondo lei», dico, «una vera poesia?».
«Posso recitargliene una, se vuole», dice Leonida.
«Indovino: una poesia sua?», dico. «Naturalmente», dice Leonida.
«Mi dica», dico.
«“Sorge il sole; poi tramonta e la luna lo rimpiazza; Io, qui, sola nel mio letto, se non vieni vengo pazza”», dice Leonida.
«Mmmm», dico.
«“Mmmm”, cosa?», dice Leonida. «Questa poesia me ne ricorda un’altra», dico.
«Non ho mica copiato!», dice Leonida. «Per carità!», dico. «Ci sono certi temi che, nella poesia, sono eterni, ed eternamente ritornano».
«Eh già», dice Leonida.
«Così è», dico.
«E, senta», dice Leonida, «qual è la poesia che secondo lei somiglia alla mia?».
«“Δέδυκε
», dico.
«Suona bene», dice Leonida. «Cos’è, tedesco?».
«Greco antico», dico.
«E… vuol dire?», dice Leonida.
Karim e la stagione dei crisantemi
La parola Egitto evoca in me immagini di sabbie e sole. La striscia azzurra del Nilo tra sponde fertili, e intorno il grande vuoto del deserto. Le vignette del sussidiario delle elementari, con le Piramidi e la Sfinge hanno segnato per sempre il mio immaginario. Gli studi adulti, la letteratura alessandrina, la conoscenza delle battaglie della Seconda guerra mondiale non lo hanno davvero mutato. Egitto è ancora il dio Rah.
Nei geroglifici e nei papiri dei musei, dèi e figurine dalle sembianze umane talvolta tengono in mano un fiore di loto. Tuttavia mai avrei associato gli egiziani ai fiori. Invece oggi è un’endiadi. Quasi tutti i fiorai della mia città, Roma, sono egiziani. Non so come è accaduto, né perché. Quando me ne sono accorta, era già successo. Nella mia famiglia, era tradizione visitare le tombe dei nostri morti. Non
Pop Cult
siamo credenti, mio padre era addirittura ateo. Così l’unica religione che praticavamo era quella romana dei Lari e dei Penati. Li onoravamo, tutti gli anni, per i Morti. Tombe modeste, loculi per ossa incassati nei muri dei cimiteri cittadini. Gli antenati al Verano; i nonni, gli zii, e poi mio padre a Prima Porta, sulla via Flaminia, lungo il Tevere. Comprare i fiori era dunque un rito quasi sacro. Avevamo il nostro chiosco. Per qualche arcana cabala, fra dozzine di banchi identici avevamo scelto il numero 18. Lo gestiva una coppia di romani – ogni anno più stanchi. Compravamo rose, garofani, gerbere, girasoli. Raramente, orchidee. Ma i vasi erano piccoli, e per giunta li rubavano spesso: non potevamo mai sapere se ne avremmo trovato uno, sulla tomba, e quindi eravamo acquirenti parsimoniosi. Il fioraio ci metteva un timbro
sulla tessera fedeltà, ma le nostre visite erano troppo sporadiche perché riuscissimo a maturare lo sconto. Karim comparve – muto e solerte –alle spalle del sor Pietro. Ormai era lui a prendere i fiori dai vasi, scorciare i gambi, fasciare il mazzo col cellophane e annodare il fiocco del nastro. Scuro, capelli lisci tagliati all’antica, età indefinibile. Ogni anno, ci scambiavo qualche parola. Era venuto in Italia da solo, ma munito dell’indirizzo di un cugino. Fioraio, gli aveva trovato il posto al banco 18. Quando il sor Pietro andò in pensione, lo rilevò. Ho fatto fatica a imparare i nomi – peonia, petunia, pervinca, ancora adesso mi confondo, ammise, ridendo. Veniva da un villaggio di polvere, ai lati di una strada che portava nel nulla. Karim era contadino, ma di famiglia numerosa, non c’era abbastanza terra per tutti. Aveva lavorato come
«“La luna è tramontata, e anche le Pleiadi; è mezzanotte, il tempo passa, e io dormo sola”», dico.
«In effetti», dice Leonida. «È di Saffo», dico. «Più di duemila anni fa». «Duemila anni», dice Leonida. «Ed erano già così avanti. Ma…».
«Ma?», dico.
«Ma. Diciamo che…», dice Leonida, «in effetti la mia poesia, all’inizio, era un po’ più ardita».
«In che senso?», dico.
«Potrei tornare alla prima stesura», dice Leonida.
«Non mi tenga sulle spine», dico. «Nella prima stesura, quella di getto», dice Leonida, «perché sa, io, le poesie, le scrivo di getto, avevo scritto: “se non scopo”».
«Ehilà!», dico. «Che ardimento».
«Comunque», dice Leonida, «capisco che lei se ne intende, di poesia».
«In realtà il mio campo è la prosa», dico. «La prosa?», dice Leonida.
di Melania Mazzucco
«Mi occupo di romanzi», dico. «Allora deve assolutamente venire a cena con noi», dice Leonida. «Con voi?», dico. «Sì! Sono qui con le mie tre amiche, e tutte e tre hanno scritto un romanzo», dice Leonida. «Tutte e tre?», dico. «Sì», dice Leonida. «Il mio campo invece è la poesia». «La poesia è difficile», dico. «Non lo dica a me. Allora, ci raggiunge?», dice la voce femminile. «Va bene», dico, «vi raggiungo». «E che pizza vuole?», dice Leonida. «Verdure senza mozzarella», dico. «Va bene. Le do l’indirizzo», dice Leonida. «Il campanello è Leonida Foulard».
Prendo nota dell’indirizzo. Metto giù il telefono. Un momento dopo risuona. «Buonasera vorrei due margherite una quattro stagioni una prosciutto e funghi una verdure senza mozzarella passo io quando?», dice Leonida.
manovale al Cairo, ma poi conoscenti del villaggio e quel lontano cugino che tornava l’estate raccontando meraviglie dell’Italia lo avevano convinto. Era emigrato pure lui. Mai avrebbe immaginato di occuparsi di fiori. Alla moglie, che aveva scelto fra le ragazze del paese, ed era andato a prendere senza quasi conoscerla, non aveva raccontato del banco al cimitero – ma di un chiosco in strada, che vendeva rose per gli innamorati, pure di notte.
Nei nostri cimiteri ci sono solo lapidi. Sono giardini di pietra. Però aveva imparato ad amarli, i fiori. I colori, il profumo, la morbidezza dei petali, anche il carattere. Alcuni soffrono il freddo, altri il caldo. Altri dormono con la testa china… Guadagnava discretamente, anche se ormai gli affari sono diminuiti perché la gente non ci viene più, a trovarli, i morti. I fi-
La rivincita della gentilezza: il «caso» Frank Caprio
Nell’arco delle ultime settimane, una delle notizie maggiormente rilanciate dai principali social network internazionali è stata quella relativa alla morte per malattia dell’ottantottenne Frank Caprio, amatissimo giudice italoamericano protagonista di Caught in Providence, un reality show trasmesso da vari canali TV statunitensi a partire dal 1988 e poi divenuto, dal 2017 a oggi, un vero e proprio fenomeno «virale» su YouTube. Fin qui, nulla di strano: dopotutto, viviamo in un’epoca in cui i protagonisti dei programmi televisivi sono spesso osannati dal grande pubblico. Tuttavia, nel caso del Giudice Caprio, l’incredibile stima e affetto che gli spettatori gli hanno tributato fino alla morte (avvenuta il 20 agosto scorso, a causa di una riacutizzazione del cancro al pancreas di cui aveva già sofferto), rappresentano un feno-
meno quantomeno atipico, dal momento che milioni di persone in tutto il mondo, indipendentemente da razza, lingua, cultura, ceto sociale o credo religioso, hanno deciso di elevare quest’uomo gentile, e perfino umile, a vero e proprio modello di virtù: un esempio da seguire, quasi una sorta di «guru laico» in grado di fare breccia nel cuore delle persone al punto da meritare un funerale di stato nella natìa Rhode Island. La spiegazione, in realtà, è semplice quanto intrigante: per i milioni di persone che negli anni hanno seguito le sue avventure, Frank Caprio ha rappresentato l’incarnazione stessa della gentilezza e della compassione, giungendo a rivestire i panni del mentore ideale. Dal suo seggio di giudice nell’aula del tribunale di Providence, scenario di ogni puntata del reality, Caprio ha infatti assistito al
passaggio di un incredibile campionario umano: centinaia di persone, di tutte le età ed estrazioni sociali, che si trovavano a presentarsi davanti a lui come imputati per innumerevoli violazioni minori, soprattutto relative al codice della strada. Di fatto, il miracolo si riproponeva con ognuno di loro, poiché, con rara sensibilità ed empatia, il Giudice sembrava in grado di «radiografare» all’istante chiunque si trovasse di fronte, riuscendo nella non semplice impresa di afferrare, in appena pochi minuti di conversazione, quali fossero le reali circostanze –personali, psicologiche, economiche – del malcapitato di turno, nonché le difficoltà con cui questi doveva quotidianamente combattere.
In tal modo, il giudizio finale risultava invariabilmente soffuso di grande comprensione e delicatezza – al punto che riesce davvero difficile riporta-
re alla mente anche solo un imputato che sia mai stato duramente punito o redarguito da Caprio. E sebbene ciò si possa in parte attribuire alla selettiva «magia della televisione», è altrettanto vero che la particolare forma di giustizia amministrata dal Giudice ha lasciato un segno profondo sulla psiche di moltissimi spettatori, fungendo da ispirazione per innumerevoli aspiranti emuli, letteralmente formatisi alla «scuola della compassione» di Frank Caprio. Un insegnamento che ha attecchito con inaspettata forza nella mente e nel cuore di una considerevole fetta di umanità, la quale lo scorso agosto si è stretta, sia fisicamente sia virtualmente, intorno alla famiglia Caprio per l’ultimo saluto a un uomo che ha avuto un effetto tanto profondo sulle vite di molti. In fondo, questo non fa che dimostrare come il lascito di Frank non con-
gli non ci vogliono lavorare, al banco (caldo, freddo, noia); alla figlia femmina non lo consente e la tiene chiusa – come la moglie, del resto, che ancora non parla italiano ed esce solo con lui, la sera.
Il momento più triste della giornata? Quando spazza le foglie e butta i fiori gualciti, che nessuno comprerà più. Il più bello? I giorni feriali d’inverno, quando sta solo dietro la cassa, nel silenzio. I fiori sono stranieri pure loro. Gliel’ha detto una volta il grossista, al Mercato dei Fiori, dove andavano all’alba a caricare la merce. Vengono tutti da un’altra parte. I tulipani non sono olandesi, pure se adesso sono il simbolo di quel Paese. I crisantemi sono originari dell’Asia, pure se li coltivano in Liguria. «E qual è il fiore che viene dall’Egitto?» gli chiedo una volta. Lui ci pensa su, poi risponde, sorridendo: mia moglie.
sista soltanto nel messaggio da lui trasmesso a parole – ovvero, nel suo invito a essere sempre gentili e compassionevoli verso gli altri –, quanto piuttosto nel fatto che, per tutta la vita, il Giudice abbia vissuto questi precetti fino in fondo, incarnandoli con tale sincerità da poter offrire un esempio davvero autentico e costruttivo a tutti i suoi ammiratori. Soprattutto, l’innegabile amore che ha circondato, e tuttora circonda, quest’uomo sembra suggerire che qualcosa stia davvero cambiando, nelle priorità di una società occidentale per molti versi piuttosto fredda e distaccata. Sì, perché forse la gentilezza e la compassione possono davvero tornare a rappresentare qualcosa di irrinunciabile: un valore assoluto, che sia la misura non solo di un singolo uomo, ma anche dell’intera società che lo contiene e rappresenta.
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TEMPO LIBERO
Amori e intrighi medievali a Gradara Le torri del castello che appartenne ai Malatesta, ancora raccontano la storia di Paolo e Francesca di cui conservano la memoria
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Sfiziosi, comodi e soffici
Così gli avanzi di pasta per pizza o di pasta già pronta per pinsa si trasformano in panini alla mortadella
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Note, immagini e deviazioni
Dal clarinetto di Russel Procope ai giochi da tavolo, l’improvvisazione jazz, la curiosità del viaggio e il piacere di perdersi
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Dal mito di Thrashin’ alle rampe di Mendrisio
Adrenalina ◆ Lo skateboard ticinese ha da oggi un nuovo spazio di svago Al Macello, inaugurato mentre esce il documentario RSI
Skate Borders con le voci di chi, dagli anni Ottanta a oggi, ha trasformato strade e corrimani in spazi di libertà
Thrashin’ – Corsa al massacro. Chi ha già qualche capello grigio, forse questo titolo se lo ricorderà. In qualche soffitta, anche ticinese, una copia di quel film del 1986 a cura di David Winters ci sarà ancora. E forse in diversi, alle nostre latitudini, avranno iniziato a skateare in un vago tentativo di impersonare Corey Webster. Perché, in fondo, è proprio negli anni immediatamente successivi all’uscita di quel film che anche in Ticino ha iniziato a prendere piede la «tavola a rotelle». Dunque ben prima che lo skateboard venisse ammesso nel bouquet delle discipline olimpiche (cosa avvenuta a Tokyo nel 2021).
Dopo Mendrisio e Lugano, il documentario RSI Skate Borders sarà proiettato al Graffiskate di Locarno, il 27 e 28 settembre, per raccontare trent’anni di skateboard ticinese
Lo skateboard non è però solo e unicamente competizione e medaglie. È, prima ancora di tutto questo, una forma di espressione. Di libertà e di creatività, che si manifesta attraverso una serie di combinazioni «che ti fanno anche correre parecchi brividi lungo la schiena», assicura Mattia, mesolcinese oggi 41enne, che negli anni Novanta ha scoperto la sua passione per questo sport: «Proprio in questi giorni mi è capitato fra le mani uno scontrino di uno dei mei primissimi acquisti legati allo skateboard: portava la data del 1996. A quell’epoca avevo 11-12 anni. A spingermi su questa strada era stato un compagno di qualche anno più vecchio di me con cui frequentavo la palestra per gli allenamenti di basket. Così, dopo un corso di una settimana di basket, son tornato a casa dicendo ai miei genitori che… volevo uno skateboard». Ma a quel tempo non c’erano ancora parchi dedicati: «Ogni piazza, ogni spigolo o corrimano poteva rappresentare un potenziale spot. A Roveredo, c’era ad esempio la vecchia lavanderia, anche se ogni volta dovevamo mettere in conto le proteste della gente di lì: se ci andava bene, solo a (male)parole, se ci andava male, anche con qualche sputo».
Mattia è anche uno dei molti testimonial protagonista del documentario Skate Borders – Storie di Skater nella Svizzera italiana (nato da un’idea di Pablo Creti, diretto da Nick Rusconi e prodotto da Andrea Sala) realizzato dalla RSI e proposto in anteprima durante l’inaugurazione dello Skatepark di Mendrisio, che ha avuto luogo lo scorso 5 settembre. Struttura, quella nata nell’area di svago Al Macello,
a cui gli appassionati di questo sport hanno anelato e che hanno atteso per oltre un decennio e che finalmente proprio hanno potuto provare in prima persona. Il nuovo documentario RSI offre uno spaccato del Ticino su rotelle dell’ultimo trentennio, narrato dalla voce di parecchi dei protagonisti di quella scena. In Skate Borders c’è anche Lara, ventisettenne luganese praticamente… cresciuta con la tavola sotto i piedi: «Anche se ora ho dovuto forzatamente lasciarla da parte, dopo il mio terzo infortunio al ginocchio, capitato un anno e mezzo fa circa. Colpa dello skate, ovviamente. Spesse volte, dopo una caduta o un infortunio, mi sono detta “Basta, adesso smetto”. Purtroppo, o per fortuna, alle parole non ho però mai fatto seguire i fatti. Sono cresciuta proprio di fronte allo Skatepark di Lugano, quindi per me andarci nel tempo libero era qualcosa di naturale». Prima gli allenamenti di pallanuoto a Trevano e poi lo shopping con la mamma. Sempre passando davanti allo Skatepark di Lugano, che Kevin fin da piccolo guardava con occhi sognanti. Finché… «Finché un gior-
no, stanco di vederlo semplicemente sfilare via dal finestrino dell’auto, in quello Skatepark ci sono entrato. È subito scattata la scintilla; anche ora, da ventisettenne, quell’entrata la varco appena posso. Lo skate non è solo uno sport: rappresenta uno stile di vita, un modo di socializzare. Col mio gruppo, i Warriors, abbiamo portato avanti diversi progetti, trovando uno spazio tutto nostro nella scena underground di Lugano: siamo un po’ come una grande famiglia». «Ho cominciato ad andare in skate a 11-12 anni» racconta Samuele, oggi 33enne. «Vicino a dove abitavo c’era un ragazzo un po’ più grande di me che ci andava, e ne ero affascinato. Vedendo la mia brama, il portinaio del palazzo mi ha allora proposto di riordinare il ripostiglio delle bici in cambio di una tavola che tanto mi piaceva. Quello stesso giorno, appena rincasato, la prima cosa che ho fatto è stata riordinare il sottoscala. Ed eccomi qui…». Samuele è un momò DOC, e dunque attendeva con ansia la realizzazione dello Skatepark di Mendrisio: «È il coronamento di un sogno per il quale abbiamo lottato per anni, di cui potremo beneficiare noi ma an-
che le generazioni di skater che seguiranno la nostra». Yari, classe 1979, è quello che si potrebbe definire, e così infatti si definisce lui stesso, «uno della generazione di mezzo. Approdato al mondo dello skateboard dopo il primo boom, ma prima che in Ticino aprisse il primo Skatepark. Thrashin’ ? Eccome se lo ricordo! Per gli amanti del genere rappresentava un cult: ha ispirato parecchi giovani. Me compreso. La nostra generazione è stata la prima in cui i più bravi potevano contare sulle sponsorizzazioni e che ha visto nascere competizioni internazionali e riviste specializzate. Io con lo skate mi sono divertito e ho anche girato il mondo. Lo skateboard ha un denominatore comune, che è la libertà, e tante forme per esprimerla. Inizialmente, anche per forza di cose, quando non c’erano ancora le infrastrutture, questa libertà si manifestava con il core, che in parole semplici consisteva nello skateare in strada, su muretti o corrimano, scappando da chi cercava di fermarti. Poi è arrivata la parte più competitiva, con i contest e i vari campionati, Olimpiadi comprese». Nico, invece, è una sorta di… ex
della tavola: «I miei anni d’oro sono quelli compresi tra il 1995 e il 2002, suppergiù. Io sono mesolcinese, ma per coltivare la mia passione su rotelle mi spostavo spesso nel Locarnese. A quei tempi di strutture specifiche in Ticino non ve n’erano: era tutto molto street. Poi, con gli anni, le cose, e anche le mentalità, sono cambiate. Nel Locarnese è ad esempio arrivato lo Skatepark alla Siberia, sorta di precursore di tutto, benché fosse un’installazione solo stagionale. E con l’apertura dello Skatepark di Lugano l’intero movimento ha guadagnato popolarità». La citata apertura dello Skatepark di Mendrisio, dovrebbe dare ulteriore slancio al… Ticino delle rotelle.
Informazioni
Per chi se lo fosse perso, Skate Borders – Storie di Skater nella Svizzera italiana, creato per una distribuzione esclusivamente digitale, dopo le proiezioni a Mendrisio e Lugano, verrà riproposto a Locarno (Graffiskate, 27-28 settembre, Largo Zorzi); mentre è già sin d’ora fruibile sulla piattaforma Play RSI.
Un’immagine tratta dal documentario Skate Borders. (RSI)
Moreno Invernizzi
Con Paolo e Francesca al Castello di Gradara
Itinerario ◆ Dalla riviera adriatica all’entroterra marchigiano, la rocca dei Malatesta custodisce ancora l’eco della tragica vicenda che trasformò il borgo fortificato in un simbolo di passione amorosa narrata anche da Dante
Eliana Bernasconi
Dalle spiagge di oggi alle mura della storia. I vacanzieri, di anno in anno, tornano puntuali lungo la Riviera adriatica, fra Cesenatico o Riccione, Cattolica, Pesaro, dove fino a settembre inoltrato li attende la sabbia finissima, chilometri di passeggiate in riva al mare e lungo i viali pedonali ricchi di attrazioni. Ma è sufficiente allontanarsi di poco nell’entroterra, quando il terreno pianeggiante si fa ondulato e collinare, tra Emilia, Romagna e le Marche, per scoprire che il tempo rallenta e che il passato, ancora presente, riaffiora.
A partire dal Medioevo qui si susseguirono le dominazioni per il possesso dei territori. Si combattevano fra loro le grandi signorie dei Malatesta, degli Sforza, dei Borgia, dei Della Rovere, e del Papato. Nel mezzo di questo scenario, si fa testimone il Catello di Gradara, posto tra la provincia di Pesaro e Urbino, nelle Marche. Si tratta di un grande edificio carico di passato, che risalirebbe ai primi due secoli del Medioevo, e domina il piccolo borgo sottostante. La costruzione è a forma di quadrilatero ed è difesa da potenti torri angolari, lunghe torri merlate e ponti levatoi, tipici dell’architettura militare medioevale. Due alte cinte murarie la circondano e la racchiudono in un lungo percorso sopraelevato di almeno 750 metri, chiamato «il Camminamento», all’epoca costantemente vigilato da soldati armati, che dall’alto potevano intercettare ogni minimo segnale di allarme, dato che il dominio del castello e del relativo territorio era ambito ed ebbe molti padroni.
Oltre le mura del castello, passaggi acciottolati e sale affrescate svelano il passato e le avventure dei signori di Gradara
Passato il portone della torre d’entrata, il terreno acciottolato, un tempo percorso dagli zoccoli dei cavalli, porta alla «Rocca» sul fondo, che fu la grandiosa abitazione privata del potente casato dei Malatesta, signori di Rimini, di Cesena e Pesaro. I maschi di questa grande famiglia occupavano gran parte del loro tempo combattendo come mercenari, accumulando ricchezze per annettersi terreni altrove, a Napoli o in altri luoghi della penisola.
Il Castello di Gradara, nel tempo, visse assedi, battaglie, vicissitudini drammatiche varie, ma la fama che
riguarda quanto avvenne tra le sue mura nel tredicesimo secolo, quando appunto vi abitavano i Malatesta, di racconto in racconto, ha attraversato la narrazione popolare giungendo intatta ai nostri giorni.
Erano numerosi i fratelli Malatesta, eredi diretti. Tra loro Giovanni, detto Gianciotto, notevolmente brutto e sciancato, chiamato per questo «il gobbo» era probabilmente il fratello maggiore, tra gli altri vi era invece Paolo, bello e di animo gentile, amante delle lettere. Disponiamo di una sola fonte certa per documentare gli avvenimenti che stiamo narrando: la registrazione del matrimonio che si celebrò nel 1275 tra Gianciotto e la giovane fanciulla Francesca, della nobile casata dei De Polenta della vicina Ravenna; i matrimoni a quei tempi si decidevano a priori, dato che servivano anche a stabilizzare alleanze, consolidare ricchezze. Gianciotto divenne Podestà della città di Pesaro. Tuttavia pare che una legge proibisse alla moglie di risiedere nello stesso luogo del marito. Francesca, per gran parte del tempo lontana da Giovanni, era però vicino a Paolo, il cognato. È il racconto popolare a informarci della passione amorosa che travolse i due, Paolo e Francesca, e sul quale si moltiplicano le versioni, anche fantasiose. Una di queste, per esempio, dice di un altro fratello Malatesta, spietato e crudele, pure innamorato di Francesca che, respinto, racconta al fratello della relazione fra i due. Giangiotto finge di partire in battaglia ma torna improvvisamente e sorprende gli amanti.
Il più commovente resoconto di questo amorevole tradimento porta la firma di Dante Alighieri, che gli dedica una parte del Canto V dell’Inferno della Divina Commedia, che si svolge nel secondo girone dove vengono puniti i lussuriosi. È qui che Francesca parla al poeta con parole indimenticabili: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte» (Francesca racconta che l’amore, che nasce spontaneo
nei cuori nobili, accese Paolo per la sua bellezza e costrinse anche lei a ricambiarlo con forza irresistibile, ma quel legame, che ancora non l’abbandona, li
condusse insieme alla morte). E poco dopo ricorda l’istante fatale in cui nacque la loro passione: «Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto
come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. / …Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante». (Il testo dice che leggendo per passatempo la storia d’amore di Lancillotto e Ginevra, lei, Francesca, e Paolo si lasciarono vincere dalla passione fino a baciarsi, diventando il libro stesso complice del loro innamoramento; davanti a questo ricordo, Dante si commuove profondamente) Dante, commosso dal loro destino, confessa: «E caddi come corpo morto cade».
La Rocca, la lussuosa reggia di Gradara, che al tempo dei fatti narrati apparteneva ai Malatesta, fu abitata poi lungo i secoli fino al 1893 dai discendenti degli ultimi possessori. Fra le centinaia di turisti che la visitano forse pochi hanno letto Dante, ma attraversando la decina di sale mirabilmente conservate e affrescate da artisti del passato, tra suppellettili, camini e armi originali dell’epoca, ancora oggi giungono con il fiato sospeso nella camera dedicata Francesca, e sostano commossi. È qui, si racconta loro, che Giovanni Malatesta sorprende insieme i due amanti: folle di gelosia per il doppio tradimento e per la proprietà della donna che sfugge al suo dominio, li uccide, consegnandoli per sempre alla memoria collettiva. Simboli di eterno amore.
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Bellinzona, mercoledì, 24 settembre
dalle 13 alle 16
Autorimessa Nepple SA, Viale Stefano Franscini 30, 6500 Bellinzona
Iscrizione al 044 866 22 79
Si prega di inviare i prospetti a:
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La stanza di Francesca, all’interno del Castello di Gradara.
La torre d’entrata del Castello di Gradara. (Eliana Bernasconi)
L’aperitivo italiano
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Ricetta della settimana - Puccia (piccolo pasto)
Ingredienti
Ingredienti per 2 persone
450 g circa di avanzi di pasta per pizza fatta in casa o pasta per pinsa già pronta (vedi suggerimento)
farina per impastare e spolverare
2 c di pesto, ad es. pesto al basilico o pesto rosso
4 c d’olio d’oliva
100 g di mortadella
15 g circa di rucola
2 mini burrate sale
pepe
Smokey Chili (peperoncino affumicato in fiocchi)
Preparazione
1. Formate una pagnotta con la pasta. Avvolgetela con la pellicola trasparente e lasciatela lievitare in frigo per una notte (tralasciare questo passaggio con la pasta per pinsa già pronta).
2. Il giorno della preparazione, foderate la teglia con la carta da forno e spolveratela con poca farina. Formate delle pagnotte di pasta di circa 220 g l’una e adagiatele sulla teglia. Spolverate con farina. Coprite con la pellicola trasparente e un panno da cucina. Lasciate lievitare per almeno 3 ore a temperatura ambiente.
3. Scaldate il forno statico a 250 °C (calore superiore e inferiore). Premete leggermente al centro delle pagnotte in modo da formare un bordo. Cuocete nella metà inferiore del forno per 13-14 minuti, finché le pagnotte sono di colore marrone chiaro. Sfornate e lasciate raffreddare leggermente.
4. Mescolate il pesto con l’olio d’oliva. Intagliate i panini e spalmateli con un po’ di pesto. Farcite con la mortadella e la rucola. Adagiate una burrata in ogni panino e strappatela. Irrorate con il pesto avanzato. Condite con sale, pepe e il peperoncino a fiocchi, poi servite.
Consigli utili: invece della pasta per pizza fatta in casa potete usare la pasta per pinsa già pronta. La pasta per pinsa non deve lievitare ancora per una notte, basta lasciarla lievitare per circa 4 ore. Può anche essere usata subito. La pasta per pizza già pronta in vendita nei negozi non è adatta per preparare la puccia.
Per la variante vegetariana, usate fette di pomodoro invece della mortadella o del prosciutto.
Preparazione: circa 35 minuti; lievitazione: 3-4 ore; cottura in forno: 13-15 minuti; raffreddamento: circa 10 minuti.
Per porzione: circa 31 g di proteine, 55 g di grassi, 105 g di carboidrati, 1060 kcal.
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Piccola guida per smarrire la strada
Colpo critico ◆ Improvvisare, divagare, perdersi: dal repertorio jazz ai road movie da tavolo, il desiderio di vitalità si misura nel coraggio di abbandonare la strada maestra
Andrea Fazioli
Russel Procope suonava il clarinetto nell’orchestra di Duke Ellington. Era una vita in viaggio, da una città all’altra, da un continente all’altro. Cominciò nel 1945 e rimase al suo posto per tre decenni, fedele all’eleganza del jazz. Ogni sera Ellington salutava il pubblico: I love you madly, diceva, vi amo alla follia. E poi via, tutti a interpretare i grandi classici del repertorio. In un’intervista Procope disse: «Può darsi che abbiate l’impressione che ogni sera suoni lo stesso assolo nel pezzo The Mooche Ma ogni giorno cambio solo una frase, solo un pochino. Per me è sempre fresco».
Il filosofo Arnold Davidson, riportando questa frase di Procope, osserva che «mantenere la freschezza dell’improvvisazione è una sfida interiore, una lotta con sé stessi che mira a sradicare la rigidezza del sé e a proteggerci da una fissità senza vitalità» (Esercizi spirituali della musica. Improvvisazione e creazione, Mimesis, 2020). Questa è la ragione che ci spinge non solo a suonare, ma pure a scrivere, a dipingere, a viaggiare, a scegliere la strada più lunga per tornare a casa o a scambiare due parole con uno sconosciuto incontrato in treno. La «fissità senza vitalità» è la morte, lo spegnimento di ogni desiderio. A tenerci in vita, nel senso più
spirituale dell’espressione, è invece la curiosità per il mondo.
Anche il gioco è un modo per restare in movimento, fin da bambini. La «fissità» di chi non riesce più a giocare è l’emblema della tristezza; questa è la vera vecchiaia, non l’età anagrafica. L’attività ludica ci insegna due grandi lezioni: prima ci dà le regole, la strada da seguire, e poi ci fa capire che per vincere la partita (o per finire la storia) è necessario perdersi, improvvisare, balzare fuori dalla via più scontata.
Questo si vede molto bene in un gioco narrativo come Ribbon Drive, creato da Avery Alder e pubblicato in italiano da Narrattiva nel 2024. Prima di cominciare ogni partecipante deve preparare una lista di musiche (ci si può mettere d’accordo sul genere). Poi, mentre si ascoltano i brani, si creano i personaggi, guidati da una serie di domande. Chi siamo, dove stiamo andando e perché? Come ci siamo incontrati? Che cosa ci aspettiamo da questo viaggio?
Ribbon Drive evoca l’atmosfera dei road movie ed è ispirato direttamente a film come Wristcutters. Una storia d’amore (2006) o Ogni cosa è illuminata (2005), che sono entrambi tratti da opere letterarie. L’autore stesso riferisce queste e molte altre ispirazioni, a partire da classici come Cuore sel-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Nel 1817, in Francia, venne istallata la prima versione…
Scopri il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.
(Frase: 9, 5, 8, 5)
ORIZZONTALI
1. Mia in latino
3. Rumore assordante
9. Se ci… capovolgete
10. Chi l’ha buona sta bene
11. Preposizione articolata
12. Nome femminile
14. Abbattuti, sconfortati
15. Cibele lo mutò in pino
16. Non valido
17. Otre…rovesciato
18. Caratterizzavano Salvador Dalì
19. Animale mezzo aquila e mezzo leone
21. Dio sbuffante
22. Simbolo chimico del rutenio
23. Aggettivo possessivo
24. Il cardinale del mezzogiorno
25. Percorso sportivo senza penalità
VERTICALI
1. Un numero
2. Ninfa greca della montagna
3. Sono soggetti a confisca
4. Misura agraria di superficie
vaggio (1990) o Thelma e Louise (1991). Il gioco è preciso nell’indicare come costruire i tratti caratteristici dei protagonisti, così come nel suggerire il momento in cui inserire ostacoli e deviazioni. Nello stesso tempo lascia spazio all’improvvisazione, perché in sostanza si tratta di riunirsi intorno a un tavolo per inventare una storia con la guida della musica. È impossibile non perdersi, ed è questo il bello. A chi ama giochi più strutturati,
ma non per questo meno fantasiosi, suggerisco di provare Disc Cover, un raffinato party game cooperativo creato nel 2022 da Roberto Fraga e Juan Manuel Rivero per l’editore Blue Orange. Anche qui si tratta di scegliere a turno dei brani musicali. La scatola contiene cento immagini che riproducono la copertina di cento dischi immaginari. Sono piccole opere d’arte, create da settantatré artisti di ventisei nazioni diverse. Di volta in
volta giocatori, da tre a otto, scelgono la copertina che più si abbina secondo il loro gusto e il loro intuito alla canzone che stanno ascoltando. Più le scelte dei partecipanti coincideranno, più sarà alto il punteggio finale. Disc Cover ha una meccanica basica, ma è congegnato con cura e non manca mai di suscitare un’atmosfera calorosa. I giocatori si guardano, cercando d’indovinare i pensieri degli altri, mentre i pensieri divagano seguendo l’intreccio di fili musicali. Sia Ribbon Drive sia Disc Cover sono giochi essenziali: proprio per questo consentono un’esperienza profonda. Come scrive ancora Arnold Davidson, a dare sostanza e corpo all’inventiva non sono i virtuosismi, bensì la capacità di fare «delle cose assolutamente semplici». Nelle migliori improvvisazioni «ogni singola nota rivela un mondo, un’impronta individuale». Provate ad ascoltare la tromba di Miles Davis in Night of Tunisia (The Musings of Miles, Prestige, 1955). Vi verrà subito voglia di perdervi sulle piste di Ribbon Drive o di cercare fra le illustrazioni di Disc Cover l’immagine segreta dietro la musica. Non ci sarà un punto di arrivo, perché non è previsto, ma proverete il brivido di cominciare di nuovo a ogni frase, a ogni svolta della strada.
5. Qui a Napoli 6. Nome maschile 7. Nei… in certi casi 8. Un ingrediente della maionese
10. Classe sociale 13. Topo francese
Stantio, avariato 16. Un composto delle calze 18. Mallo di noce in francese
Resuscitò Lazzaro 20. Con il crudo di chi è sincero 22. Un libro della
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
della settimana precedente LO SAPEVI CHE… – I
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku cliccando sull’icona «Concorsi», homepage in alto a destra Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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Hit della settimana
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1.50 Mango Spagna/Brasile, il pezzo
1.40
1.50 Mozzarella Alfredo 150 g, (100 g = 1.00)
3.60
Treccia al burro IP-SUISSE
500 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.72)
1.85
Cetrioli
Svizzera / Paesi Bassi, il pezzo
Latte intero pastorizzato Migros Bio 1 litro, (100 ml = 0.19)
1.40 Fiocchi d'avena integrali M-Classic rustici, 1 kg
2.25
Fettine di pollo M-Classic Svizzera, per 100 g, in self-service
4.50 Salmone selvatico Sockeye M-Classic, MSC pesca, Pacifico nordorientale, per 100 g, in self-service
3.95 Capsule di caffè Espresso M-Classic 20 capsule, (100 g = 3.80)
1.95 Japonais M-Classic
g, (100 g = 1.70)
4.95 Olio di colza svizzero M-Classic 1 litro, (100 ml = 0.50)
Concentrato di pomodoro M-Classic 200 g, (100 g = 0.48)
7.50 Patate fritte M-Classic
= 0.50)
2.95
7.95
invece di 10.55
Borsa vitaminica da riempire con frutta a nocciolo (bio e Demeter esclusi), mele Gala, Golden, Elstar, Cox Orange, pere Conference, Svizzera, almeno 3,4 kg, (1 kg = 2.34) 24%
Uva bianca senza semi Migros Bio Italia/Spagna, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.59) 25%
invece di 3.95
Banane Fairtrade, Migros Bio Perù/Colombia/Ecuador, al kg 33%
1.95 invece di 2.95
3.95
Cavolfiore Ticino, al kg
Ticino
33%
4.95
3.60
CONSIGLIO FRESCHEZZA
In Svizzera le prugne piacciono più delle susine. Per quanto riguarda la conservazione, i frutti maturi si conservano al meglio in frigorifero. Gli esemplari più duri maturano a temperatura ambiente in un sacchetto di carta entro due o tre giorni.
4.75
invece di 5.95
Pomodori a grappolo Migros Bio Svizzera/Spagna, vaschetta da 600 g, (100 g = 0.79) 20%
1.30 invece di 1.65 Extra sweet cherry Svizzera, per 100 g 21%
Una delizia a crudo nell'insalata, bollito o cotto
Prugne Germania / Paesi Bassi / Svizzera, vaschetta da 1,5 kg, (1 kg = 3.30)
Il gusto della qualità
Migros Ticino
Buon appetito!
5.50 invece di 7.20
Bratwurst dell'Olma di San Gallo IGP Svizzera, 2 x 2 pezzi, 2 x 320 g, (100 g = 0.86)
3.95
7.50 invece di 9.75 Cervelas M-Classic Svizzera/Germania, 5 x 2 pezzi, 5 x 200 g, (100 g = 0.75)
2.80
20x
Chorizo piccante M-Classic Svizzera, 150 g, in self-service, (100 g = 1.97)
3.50 Bastoncini di selvaggina Migros Svizzera / Nuova Zelanda, 50 g, (100 g = 7.00)
Il pesce è servito!
9.95
invece di 13.50
6.95
invece di 8.35
Filetti di salmone con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Norvegia, 380 g, in self-service, (100 g = 1.83) 16%
Salmone affumicato dell'Atlantico Migros, ASC d'allevamento, Norvegia, 300 g, in self-service, (100 g = 3.32) 26% sostenibile
7.95
invece di 10.50
Filetti di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 375 g, in self-service, (100 g = 2.12) 24%
2.85
invece di 4.42
Gamberi crudi e sgusciati M-Classic, ASC d'allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service 35%
CONSIGLIO DEGLI ESPERTI
12.70
invece di 15.90
Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 720 g, (100 g = 0.88)
Il merluzzo viene cotto solo brevemente, quindi rimane bello succoso. Trovi altri consigli e informazioni al banco del pesce, dove tutto il pesce viene anche sfilettato, marinato e messo sottovuoto a seconda dei tuoi desideri.
Good mooood food Formaggi
20%
invece di 23.80
Fondue Swiss Style moitié-moitié
2 x 800 g, (100 g = 1.19)
1.20 invece di 1.55
Emmentaler dolce circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 22% 19.–
Cremosità e delicatezza,senza alcol
600 g, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 2.83) 20x
Fondue pronta Emmi Luzerner
Formaggio per raclette a fette aromatizzato e gusti assortiti, Raccard disponibile in diversi gusti (al naturale escl.), per es. gusti assortiti, IP-SUISSE, 900 g, 18.80 invece di 23.50, prodotto confezionato, (100 g = 2.09)
Grana Padano Da Emilio disponibile in diverse varietà, per es. formaggio grattugiato, 120 g, 2.59 invece di 3.05, (100 g = 2.16)
2.40 invece di 3.–
Tilsiter alla panna Migros Bio circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 20%
1.55 invece di 1.95
Prodotti freschi e pronti
Delizie subito pronte
conf. da 3 20%
Pasta Anna's Best, refrigerata
fiori al limone e formaggio fresco o spätzli all'uovo, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85, (100 g = 1.57)
5.90
Focaccia all'alsaziana Flam'Fine raclette o chorizo, 2 pezzi, 360 g, (100 g = 1.64)
conf. da 2 20%
Cornatur
scaloppina al limone e pepe o scaloppina caprese, per es. scaloppina al limone e pepe, 2 x 220 g, 7.90 invece di 9.90, (100 g = 1.80)
Tutti i sushi refrigerati e tutte le specialità giapponesi refrigerate (articoli fatti in casa esclusi), per es. Smoked Salmon Wrap, 240 g, 6.– invece di 7.50, (100 g = 2.50)
Per il corpo e l’anima
4.40 invece di 6.30
con ripieno di lamponi e ribes rosso Petit Bonheur in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g, (100 g = 1.05)
Hercules Bio, forno di pietra
400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.95)
Risparmia oggi, gusta domani
Tutte le capsule Café Royal incl. CoffeeB per es. Lungo, 10 capsule, 3.15 invece di 4.50, (100 g = 5.94)
5.90
di 8.85
di pomodoro al basilico Agnesi 3 x 400 g, (100 g = 0.49)
Una delizia come condimento per insalate, per affinare salseo come marinata per carne e pesce
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i tipi di caffè istantaneo Nescafé per es. Gold De Luxe, in vasetto, 100 g, 6.27 invece di 8.95, (100 g = 6.27) a partire da 2 pezzi 30%
Funghi, gallinacci, Pholiota nameko e orecchie di Giuda
33%
l'assortimento Ponti e Giacobazzi per es. aceto balsamico di Modena Ponti, 500 ml, 3.36 invece di 4.80, (100 ml = 0.67)
Funghi misti o funghi prataioli, M-Classic per es. funghi misti, 3 x 200 g, 8.20 invece di 12.30, (100 g = 1.37)
l'assortimento di sottaceti e di antipasti, Condy per es. cetriolini, 290 g, 2.36 invece
2.95, (100 g = 0.81) a partire da 2 pezzi 20%
Tutto
di
conf. da 3
Tutto
a partire da 2 pezzi
a partire da 2 pezzi 33%
Spugnole e funghi porcini secchi, M-Classic per es. funghi porcini, 100 g, 6.– invece di 8.95, (100 g = 6.00)
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i tè Tetley per es. tè nero English Breakfast, 25 bustine, 2.07 invece di 2.95, (100 g = 4.14)
a partire da 2 pezzi 20%
Tutte le miscele per dolci e i dessert in polvere, Homemade (Cup Lovers esclusi), per es. Brownies, 490 g, 4.96 invece di 6.20, (100 g = 1.01)
Legumi M-Classic fagioli rossi Kidney, fagioli borlotti e ceci, per es. fagioli kidney, 3 x 306 g, 2.75 invece di 3.45, (100 g = 0.30) conf. da 3 20%
Bontà pronta in un attimo e come fatta in casa
a partire da 2 pezzi 30%
Tutto l'assortimento Knorr per es. brodo di verdure, barattolo da 228 g, 7.04 invece di 8.80, (100 g = 3.09)
Spicchi di mango Sun Queen essiccati, 200 g, 3.52 invece di 4.40, (100 g = 1.76) a partire da 2 pezzi
Tutto l'assortimento Happy Hour
prodotto surgelato, per es. cornetti al prosciutto M-Classic, 12 pezzi, 504 g, 4.76 invece di 6.80, (100 g = 0.94)
conf. da 2 30%
Lasagne La Trattoria
prodotto surgelato, verdi o alla bolognese, per es. verdi, 2 x 600 g, 7.25 invece di 10.40, (100 g = 0.60)
di 22.–Mini
prodotto surgelato, in conf. speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg, (100 g = 1.38)
pizze Piccolinis Buitoni
Dolci e cioccolato
Voglia di qualcosa di dolce?
conf. da 3 32%
5.95
invece di 8.85
Petit Beurre M-Classic
Chocolat au Lait o Chocolat Noir, 3 x 150 g, (100 g = 1.32)
–.60 di riduzione
Tutti i biscotti Créa d'Or per es. pizzelle, 100 g, 2.50 invece di 3.10, (100 g = 2.50)
4.95
Knoppers Big Spender in conf. speciale, 15 pezzi, 375 g, (100 g = 1.32)
conf. da 6 33%
Tavolette di cioccolato Frey
Giandor, al latte e alle nocciole o al latte finissimo, 6 x 100 g, per es. Giandor, 9.95 invece di 15.–, (100 g = 1.66)
50%
9.75
invece di 19.50
conf. da 5 20%
Palline di cioccolato Frey in conf. speciale, assortite, al latte finissimo o Giandor, 750 g, (100 g = 1.30)
8.–
invece di 10.–
Toffifee 5 x 125 g, (100 g = 1.28)
Cioccolato Villars
al latte e fondente, 4 x 30 g e 20 x 10 g, per es. fondente, 4 x 30 g, 3.16 invece di 3.95, (100 g = 2.63) 20%
Panpepato ricoperto di cioccolato al latte
Risparmiare e dissetarsi Bevande
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Dolcetti al cioccolato al latte Migros
250 g, (100 g = 1.18)
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Stelle, cuori, brezel di panpepato Migros al cioccolato fondente o al cioccolato al latte, 500 g, (100 g = 0.79)
Come decorazione e piccolo peccato di gola
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Folletti di panpepato Migros
glassato, 250 g, (100 g = 1.58)
Succhi di frutta Sun Queen, Fairtrade arancia o multivitaminico, 6 x 1 litro, per es. arancia, 13.97 invece di 19.95, (100 ml = 0.23)
conf. da 6 30%
Tutto l'assortimento Valais in confezioni multiple e in bottiglie singole, (bottiglie di vetro escluse), per es. acqua minerale naturale, 6 x 1,5 litri, 4.48 invece di 6.40, (100 ml = 0.05)
Tutti i prodotti da forno per l'aperitivo Gran Pavesi e Roberto per es. sfoglie classiche Gran Pavesi, 180 g, 2.20 invece di 2.70, (100 g = 1.22) a partire da 2 pezzi –.50 di riduzione
Per prendersi cura di sé a tutti i
Tutto l'assortimento Kneipp (confezioni multiple, tè e tisane e confezioni da viaggio esclusi), per es. balsamo doccia cura-pelle ai fiori di mandorlo, 200 ml, 3.71 invece di 4.95, (100 ml = 1.86)
Tutte le testine di ricambio per spazzolini elettrici Philips per es. Sonicare Pro Results, 2 pezzi, 17.56 invece di 21.95, (1 pz. = 8.78)
Tutto l'assortimento di ovatta (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. dischetti d'ovatta Beauty & Co., 80 pezzi, 1.56 invece di 1.95, (100 pz. = 1.95)
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Deodoranti Axe per es. spray Africa, 2 x 150 ml, (100 ml = 3.17)
Prodotti per la doccia Axe per es. Africa, 3 x 250 ml, 7.85 invece di 10.50, (100 ml = 1.05)
4.95 Deodorante Nivea Derma Control 72h per es. roll-on Defend 72h, 50 ml, (10 ml = 0.99)
3.80 Docciaschiuma trattante Nivea Derma Control Defend o Control Restore 250 ml, (100 ml = 1.52) 20x
peeling trattante Nivea
a partire da 2 pezzi
Il marchio di cosmetici naturali certificati Sante viene prodotto in Germania da oltre 30 anni. L’approccio olistico del marchio comprende un’attenta selezione di ingredienti con estratti pregiati provenienti dalle coltivazioni biologiche dell’azienda, materiali di confezionamento sostenibili e processi di produzione rispettosi dell’ambiente nel sito di produzione a zero emissioni di CO₂.
Per un bucato profumato e una cucina attrezzatissima
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Fatti col cuore per i più piccoli
Tutti gli omogeneizzati Hipp bio, per es. biscotti per bebè mela-banana, 190 g, 1.68 invece di 2.10, (100 g = 0.88)
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Omogeneizzati Holle Bio per es. mela e prugna Demeter, 190 g, 2.50, in vendita nelle maggiori filiali, (100 g = 1.32)
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Snack Hipp per es. barretta del drago guava-aronia con pezzetti croccanti, bio, 30 g, 1.50, in vendita nelle maggiori filiali, (10 g = 0.50)
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Bombe da bagno a forma di animali Milette per es. Dino, 130 g, 2.75, (100 g = 2.12)
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Gel doccia, slime per vasca da bagno o lozione corpo Milette per es. gel doccia, 250 ml, 2.70, (100 ml = 1.08)
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disponibile in verde, rosa o azzurro, 50 ml, (10 ml = 0.30)
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Bombe da bagno Milette per es. Toy, 180 g, 2.95, (100 g = 1.64)
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Candele profumate Home vaniglia, arancia o legno di sandalo, 3 x 6 pezzi
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Candele a effetto brinato, a immersione e lumini da 4 ore, Home in confezioni multiple, per es. a effetto brinato, 8 x 14 cm, in bordeaux, arancione o crema, 3 pezzi, 13.35 invece di 17.85
Candele profumate in vaso di vetro Home vaniglia, arancia o legno di sandalo
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Minirose disponibili in diversi colori, mazzo da 14, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo
Tutto l'assortimento Exelcat e Dreamies per es. delizia in salsa Exelcat con pollo, anatra, pollame e tacchino, 24 x 85 g, 11.17 invece di 15.95, (100 g = 0.55) a partire da 3 pezzi 30%
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