Azione 25 del 20 giugno 2022

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Anno LXXXV 20 giugno 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Clickandstop.ch è il nuovo sportello nazionale per segnalare materiale pedocriminale in rete

Sono molti i punti di contatto fra la moda, lo stile, e gli spazi informali che tendiamo ad abitare

Le voci sulle dimissioni di papa Francesco, i viaggi in forse e il bilancio sul suo pontificato

La grande carestia che uccise milioni di ucraini raccontata nel romanzo di Ulas Samchuck

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Votazione Migros, non solo alcolici

In Germania, il modello ecosostenibile fa comunità

Mattia Keller, direttore di Migros Ticino

Luigi Baldelli – Pagina 9

Migros ha vinto, indipendentemente dal risultato. Il voto delle sue socie e dei suoi soci è l’espressione più chiara e impressionante del nostro valore più forte: la cultura democratica. Il risultato delle tre votazioni non è una sorpresa. Ciò che mi fa più piacere è però la partecipazione al voto, che è stata sopra la media. Questo dimostra che le radici Migros nella società della Svizzera italiana sono profonde e possiamo esserne tutti felici. Da subito ci adopereremo per attuare le decisioni prese dalla base della Cooperativa. In sostanza, le nostre socie e nostri i soci ci hanno comunicato che sono soddisfatti dell’operato di Migros nella nostra regione: hanno infatti, a larghissima maggioranza, approvato i conti dell’esercizio 2021, cosa per la quale io li ringrazio di cuore a nome di tutto il personale. Essi desiderano altresì che la Cooperativa evolva, rendendo la comunicazione con loro ancor più semplice e dinamica. L’introduzione del voto, dell’ammissione e della corrispondenza in forma elettronica soddisfa anche i bisogni dei più giovani e affini al mondo digitale. I votanti non vogliono invece che le bevande alcoliche entrino nell’assortimento delle nostre filiali a marca Migros. Questo dimostra che i nostri clienti sono soddisfatti di noi, così come siamo. In tempi di grandi cambiamenti, questo è un impegno a mantenere una caratteristica tradizionale di

Migros. Per noi era importante, per il futuro, sentire il polso della situazione tra le socie e i soci di Migros Ticino: il messaggio è arrivato forte e chiaro. Se posso permettermi una riflessione a caldo, in un territorio vitivinicolo di grande pregio come il nostro, l’unico perdente in questo contesto è forse il mondo dei produttori locali, che avrebbe trovato in Migros Ticino un partner forte e molto attento alle realtà regionali. Spesso sono proprio queste realtà a primeggiare in termini di qualità e gusto ma a faticare nell’imporsi su scala nazionale. Infatti, con la linea dei Nostrani del Ticino, fatta da oltre 50 produttori locali e più di 300 gustosi prodotti a km zero certificati, Migros Ticino oltre a dimostrare da molto tempo il suo amore e l’attaccamento alla propria terra, esporta la nostra cultura gastronomica in altre regioni della Svizzera. Personalmente non vedo l’ora di provare la nuova birra senz’alcol Migros «NON». Prodotta in Svizzera, andrà a completare la nostra gamma nazionale e regionale di bevande analcoliche. Ma quali alternative hanno i nostri clienti per acquistare alcolici? Ci sono diverse opzioni: ad esempio, a partire da fine estate, i nuovi supermercati di prossimità VOI (il primo aprirà a Viganello il 1° di settembre 2022), oppure già sin d’ora presso le enoteche Vinarte, da Denner o nei negozi Migrolino e sul portale online migros.ch.

RISULTATI VOTAZIONE GENERALE 2022 22’615 soci hanno votato (partecipazione al voto 22,5%) 1. Approvo i conti annuali 2021, do scarico al Consiglio di amministrazione e accetto la proposta per l’impiego del risultato di bilancio? SI:

21’226

NO: 00’594

97,3% 02,7%

2. Approvo la modifica dello statuto della Cooperativa e desidero permettere il voto, l’ammissione e la corrispondenza con i suoi soci anche in forma elettronica? La modifica entrerà in vigore il 1° gennaio 2023. SI:

17’850

81,6%

04’036 18,4% Il NO: Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli

3. Approvo la modifica dello statuto della Cooperativa e desidero permettere la vendita di alcolici nelle filiali di Migros Ticino? La modifica entrerà in vigore il 1° luglio 2022. SI:

09’972

44,7%

NO: 12’312

55,3%

Esito della procedura elettorale. Ufficio di revisione per un mandato di due anni (2022-2023): Ernst & Young, Lugano. Sant’Antonino, 20 giugno 2022 Il Consiglio di amministrazione


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Socie e soci hanno deciso: Migros Ticino niente alcol nelle filiali Migros punta sull’idrogeno Votazioni 2022 ◆ Le socie e i soci Migros hanno fatto una scelta chiara: in tutte le dieci cooperative regionali, con il loro voto hanno deciso che nei supermercati Migros si continui a escludere le bevande alcoliche dall’offerta

Migros Ticino punta dritto sull’idrogeno. La cooperativa regionale ha fatto i passi necessari per poter assicurare al nostro territorio la prima stazione di rifornimento di idrogeno che sorgerà sull’areale Migros di Sant’Antonino, nei pressi della stazione di servizio Migrol. Il futuristico progetto si sposa appieno con la filosofia verde di generazione M e rientra nella proficua collaborazione tra Migros Ticino, l’Azienda cantonale dei rifiuti e l’Azienda elettrica ticinese, con l’obiettivo finale di ridurre le emissioni di CO2 del traffico pesante. Sfruttando la vicinanza strategica al grande termovalorizzatore di Giubiasco, accanto al quale partirà il nuovo progetto di produzione di idrogeno promosso dall’azienda cantonale dei rifiuti dell’azienda elettrica ticinese, Migros Ticino ha deciso di fare la propria parte per assicurare

Introduzione dell’alcol nei supermercati

NeuchâtelFriborgo SI 26.9 NO 73.1

Vaud SI 31.0 NO 69.0

Ginevra SI 35.2 NO 64.8

Fino al 4 giugno 2022, le socie e i soci delle cooperative Migros hanno avuto la possibilità di votare «OUI» o «NON». Con «OUI» ci si esprimeva per la revoca del divieto della vendita di alcolici in Migros, con «NON» per il mantenimento dello status quo. Ora sono arrivati i risultati. I Supermercati Migros, i Ristoranti Migros e i Take Away Migros di tutte le dieci cooperative regionali continueranno anche in futuro a non avere alcolici nella propria offerta. In tutte le regioni le socie e i soci si sono espressi per il mantenimento del divieto di vendere alcolici in vigore dal 1928 e sancito negli statuti. Per una modifica di tale prassi sarebbe stata necessaria una maggioranza pari ad almeno due terzi dei votanti (66,67%). La votazione ha destato grande interesse. Alle votazioni hanno preso parte più di 630’000 socie e soci: un numero mai raggiunto prima. Ciò corrisponde a un’affluenza del 29 percento. «Sono cifre che dimostrano in modo impressionante il grande attaccamento della popolazione a Migros e ai suoi valori democratici», afferma

Basilea SI 23.9 NO 76.1

Aare SI 20.1 NO 79.9

Vallese SI 39.7 NO 60.3

Lucerna SI 25.3 NO 74.7

Zurigo SI 19.7 NO 80.3

Svizzera Orientale SI 23.7% NO 76.3% Ticino SI 44.7% NO 55.3%

Ursula Nold, Presidente dell’Amministrazione della Federazione delle cooperative Migros (FCM). «Il risultato non sorprende perché tutti i sondaggi indicavano chiaramente un no. Il quorum richiesto per una modifica statutaria, pari ai due terzi, era molto alto. Ha vinto la democrazia Migros e io sono felice che le socie e i soci abbiano preso una decisione chiara e concorde a livello dell’intera Svizzera», afferma Ursula Nold. Marianne Meyer, Presidente dell’Assemblea dei delegati della FCM, rileva che «L’impulso a rimettere radicalmente in discussione il divieto di vendita di alcolici nei negozi è venuto dalla base dell’Assemblea dei delegati e non dal management. E adesso le nostre socie e i nostri soci hanno preso una decisione inequivocabile. Una cosa del genere è possibile solo nella Comunità Migros». Come già annunciato in relazione al possibile esito della votazione, in tutte le regioni ci sarà comunque un cambiamento nell’assortimento di filiali, ristoranti e take away di Migros. È infatti previsto che dal 2023 vi ver-

Energia ◆ La prima stazione di rifornimento di idrogeno a Sant’Antonino

il successo dell’iniziativa, richiedendo e ottenendo le necessarie licenze cantonali per la posa di serbatoi di stoccaggio per alimentare una futura stazione di rifornimento per autoveicoli pesanti. Quest’ultima, che sarà aperta al pubblico e usufruibile oltre che dalla logistica di Migros Ticino anche da attori terzi, si occuperà di distribuire al cliente finale il prezioso gas sostenibile a chilometro zero. La nuova struttura dovrebbe entrare in funzione entro i primi mesi del 2023. Allo stesso tempo l’azienda ha deciso coerentemente di rendere ancor più sostenibile la sua flotta, inserendo due moderni mezzi pesanti a idrogeno, che a breve calcheranno le nostre strade: questi camion percorreranno circa 70’000 km all’anno, permettendo di risparmiare oltre 22’000 litri di diesel e riducendo le emissioni di CO2 di quasi 65 tonnellate.

rà offerta la birra analcolica Migros «NON». «Già oggi offriamo un’ampia varietà di bevande analcoliche alternative, ad esempio per aperitivi sfiziosi. «Una volta arrivata nei negozi, la birra analcolica Migros sarà un simbolo visibile della democrazia Migros». Oltre che sulla questione degli alcolici, come ogni anno le socie e i soci hanno votato anche sul bilancio annuale e sull’impiego dell’utile di bilancio della propria cooperativa. Inoltre, si sono espressi su una modifica degli statuti per l’esercizio digitale dei diritti di socio e quindi sulla futura possibilità di votare online nella propria cooperativa. Per Ursula Nold i risultati del voto mostrano che «Migros resta Migros. Col voto sugli alcolici, le socie e i soci hanno rivendicato il proprio attaccamento a un tratto distintivo tradizionale. Ma con il sì alle votazioni online hanno al contempo dato un chiaro segnale sulla necessità che Migros continui a progredire e a evolversi, cosa che da sempre è nella sua natura». Annuncio gratuito SPINAS CIVIL VOICES

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SOCIETÀ ●

Giovani in difficoltà Uno Spazio Esplorativo per ri-motivare e re-inserire: è l’idea dell’Associazione L’ORA

Promenade Favorita Il Municipio di Lugano ha presentato un’idea di «passeggiata» che non piace a tutti

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Ricerca oncologica Si continuano a esplorare i benefici indotti dall’immunoterapia come arma contro molti tipi di tumore

Fallacie e paradossi Una nuova serie di articoli dedicati agli errori argomentativi e alle pecche di certe opinioni comuni

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Segnalare per proteggere Internet

È nato clickandstop.ch, lo sportello nazionale dove segnalare materiale pedocriminale online in modo anonimo

Alessandra Ostini Sutto

Immagini, video, testi e livestream: la diffusione e il consumo in rete di contenuti pedocriminali sono aumentati notevolmente negli ultimi anni, anche in Svizzera. E se chi crea e diffonde tali contenuti compie un reato penale, chi ne è suo malgrado protagonista subisce una violazione della sua integrità e dignità, con conseguenze che possono essere traumatizzanti per tutta la vita, anche in considerazione del fatto che, come noto, internet non dimentica.

Per contribuire ad arginare questo problema, nel mese di aprile è stato lanciato clickandstop.ch, uno «sportello» virtuale di segnalazione contro la violenza sessuale su bambini e adolescenti. Obiettivo dichiarato delle organizzazioni sostenitrici, la Fondazione Protezione dell’infanzia Svizzera e la Fondazione Guido Fluri, è assicurarsi che questi contenuti abusivi siano cancellati dalla rete il più velocemente ed efficacemente possibile. Ma facciamo un passo indietro. Con «contenuto pedocriminale» si definisce un «atto o rappresentazione sessuale che coinvolge bambini e adolescenti di età inferiore ai 18 anni, in foto, video, fumetti o illustrazioni». Una definizione piuttosto ampia per la giurisprudenza: anche le rappresentazioni provocatorie possono essere rilevanti per il diritto penale, mentre è irrilevante che la vittima riconosca il riferimento sessuale della rappresentazione. Nel linguaggio comune, invece di «contenuto pedocriminale», capita di sentir parlare di «pornografia infantile», espressione da evitare in quanto inappropriata e banalizzante. La pornografia si svolge infatti tra adulti e con il mutuo consenso; se sono coinvolti bambini o adolescenti, si tratta sempre di violenza sessuale. A riprova di quanto affermato, anche nella lingua inglese Child Sexual Abuse Material ha soppiantato child pornography. Tornando agli aspetti legali, dicevamo che la fabbricazione e diffusione di un contenuto pedocriminale è un crimine perseguibile d’ufficio. Ciò significa che la polizia deve automaticamente aprire un procedimento penale se viene a conoscenza di un tale reato. Oltre alla fabbricazione e la diffusione, vi sono altri atti commessi in relazione a contenuti pedosessuali che possono essere punibili secondo il diritto penale. Tra questi la visualizzazione, lo scaricamento e il salvataggio

Keystone

Mentre il numero di immagini di abusi su bambini in rete cresce, sono pochissimi i casi che vengono portati all’azione penale attraverso la segnalazione diretta

di tali materiali tramite screenshot. Di questo deve essere consapevole anche chi volesse segnalare dei contenuti a clickandstop.ch. Per non incappare in azioni illegali, è infatti consentito solo riportare l’indirizzo internet. Chiarire questi aspetti è importante perché, come affermato in occasione della presentazione della piattaforma da Yvonne Feri, consigliera nazionale e presidente del consiglio di fondazione di Protezione dell’infanzia Svizzera, «è ancora un tabù che la violenza sessualizzata sia diffusa anche nella nostra società». Mentre il numero di immagini di abusi su bambini in rete cresce, pochissimi sono i casi che vengono portati all’azione penale attraverso la segnalazione diretta. «Tale situazione è inaccettabile, perché trascura la protezione delle vittime. Nella lotta contro la pedocriminalità, dobbiamo finalmente raggiungere lo stesso livello degli altri paesi», ha affermato l’imprenditore Guido Fluri nell’occasione appena citata. Ed è proprio questo il motivo per cui la fondazione che porta il suo nome si è unita a Protezione dell’infanzia Svizzera per creare un servizio di segnalazione a bassa soglia che finora mancava. «Il nuovo servizio ha lo scopo di facilitare la segnalazione

e contribuire così a una sempre maggiore rimozione di rappresentazioni di abusi su minori in internet – continua Feri – lo sportello fornisce poi informazioni e consulenze e veicola programmi di prevenzione, così che la protezione dei bambini dallo sfruttamento sessuale sia migliorata a diversi livelli». Ma come funziona concretamente il servizio? In modo molto semplice, la piattaforma consente agli interessati – genitori, insegnanti, professionisti specializzati e anche a bambini e giovani – di segnalare siti contenenti rappresentazioni di violenza sessuale contro minori o comunque che ritengono sospetti da questo punto di vista. Il modulo di segnalazione si compila in pochi click, in modo anonimo e senza fornire alcun indirizzo e-mail, il che garantisce l’approccio a bassa soglia di cui parlavamo. Dopodiché la segnalazione viene trasmessa all’Ufficio federale di polizia. Se verrà constatato un contenuto rilevante dal punto di vista penale, la pagina dovrà essere bloccata e rimossa e ci saranno conseguenze penali per autori e distributori del materiale. In questo modo, la segnalazione avrà contribuito alla protezione dei bambini e alla prevenzione di ulteriori crimini. Ciò

però non è purtroppo sufficiente. In rete vi sono infatti altri ambiti in cui i più giovani necessitano di un’accresciuta protezione; quelli, per esempio, delle sextortion, quando foto e video intimi sono usati per ricattare qualcuno, o dei cybergrooming, quando cioè degli adulti si servono dei social network per conoscere dei ragazzi e stabilire con loro un rapporto di fiducia che, nel peggiore dei casi, può essere preludio di una violenza sessuale. In casi come questi uno dei mezzi per proteggere i giovani è informarli sui pericoli di internet in modo adeguato all’età e farli vivere in un ambiente caratterizzato dalla fiducia. Un altro mezzo è la consulenza. Clickandstop.ch – che mira ad affrontare globalmente la problematica della pedocriminalità – offre sia informazioni sia consulenze professionali, gratuite e anonime, per bambini e adolescenti, come pure per chiunque abbia una preoccupazione concernente questa tematica. Esperti di diritto, psicologia e lavoro sociale, forniscono questi servizi per telefono, chat o modulo di contatto. Se necessario, accompagnano gli utenti nei passi successivi o li indirizzano verso altri servizi, di consulenza e di aiuto, con i quali clickandstop.ch colla-

bora. La piattaforma propone poi varie offerte di prevenzione. Il progetto comune di Protezione dell’infanzia svizzera e della fondazione Guido Fluri si occupa infatti anche dell’organizzazione di interventi di questo tipo per scuole, associazioni, organizzazioni di assistenza e per il tempo libero, oltre a fornire informazioni sui servizi di terapia per persone con tendenze pedofile. Con questo tipo di azioni, gli enti responsabili intendono fornire il loro contributo alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul delicato tema della violenza sessuale contro bambini e adolescenti, in modo da creare un clima sociale in cui le giovani vittime cerchino più facilmente aiuto. «La nostra società non dovrebbe poi condannare la violenza sessuale solo a parole. Segnalando su clickandstop.ch se ci si è imbattuti in contenuti pedocriminali oppure non lasciando perdere un caso sospetto nel proprio ambiente si dimostra il necessario coraggio civile», continua Fluri. In caso di dubbio su come reagire in una tale situazione, come visto, ci si può tranquillamente far consigliare, in modo anonimo e competente, dagli esperti che collaborano con questa importante iniziativa.


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MONDO MIGROS

Quando il formaggio è «ubriaco» ◆

Un nuovo formaggio «massaggiato» al Merlot entra a far parte della linea Nostrani del Ticino

AdvAgency.ch/Däwis Pulga

Novità

Dall’intraprendenza e dalla grande passione casearia che contraddistingue la maggiore azienda casearia ticinese, la LATI di S. Antonino, nasce uno stuzzicante formaggio che farà la gioia degli amanti dei gusti decisi e aromatici, al Furmacc Ciócch. Questa specialità a pasta semidura, grassa, prodotta al 100% con latte di mucca ticinese, si caratterizza per la sua crosta affinata al vino Merlot, il prodotto principe della produzione vitivinicola del

nostro cantone. Dopo la fase di produzione da parte degli esperti casari della LATI, le forme di formaggio vengono trasferite per la stagionatura in cantina, dove sono «massaggiate» delicatamente con del buon vino Merlot per la durata di 6 mesi. Questo particolare procedimento permette di ottenere una crosta dall’inconfondibile colorazione scura, con una pasta compatta che spazia dal colore bianco al giallo paglierino, mentre il sapore risul-

ta aromatico, leggermente piccante, piacevole e decisamente particolare che delizierà anche il palato dei buongustai più esigenti. Si ritiene che l’affinamento del formaggio nel vino o nelle vinacce abbia origini antiche, soprattutto tra le usanze contadine venete. Un tempo infatti gli oli che servivano a trattare la crosta erano molto cari e di non facile reperibilità, di conseguenza si ripiegava su quello che nel periodo della vendemmia era dispo-

Furmacc Ciócch 100 g Fr. 2.85 In vendita a libero servizio nelle maggiori filiali Migros

nibile in abbondanza. Un’altra credenza narra invece che il formaggio nacque quasi per caso durante la Prima guerra mondiale, quando i contadini nascondevano le forme di formaggio nel mosto di vino per evitare che i soldati le potessero rubare. Una volta tolto dai tini, ci si rese però conto che il formaggio aveva acquisito un gusto particolarmente invitante, diventando di fatto un nuovo metodo di stagionatura ancora in voga oggigiorno.

Il Tomino al cartoccio pronto da grigliare ◆

Impossibile resistere a questa specialità che si scioglie deliziosamente senza sporcare la griglia

AdvAgency.ch/Däwis Pulga

Attualità

Il tomino è un formaggio a pasta molle, a breve stagionatura, apprezzato non solo freddo quale complemento di un ricco tagliere di formaggi misti, ma durante l’estate viene spesso gustato scaldato alla griglia, dove si scioglie in maniera sublime conquistando tutti i palati grazie al suo delicato sapore di latte. Per evitare che durante la cottura il formaggio fuso possa incrostarsi alla griglia e coli sul fuoco, ecco una soluzione comoda e di sicuro successo direttamente dall’azienda LATI di S. Antonino: il tomino già avvolto in un’apposita carta da cottura. Questa deliziosa specialità pronta al consumo si mette direttamente sulla griglia, senza esporla alla fiamma diretta, e si cuoce a fuoco medio-basso per una quindicina di minuti. La carta resiste al massimo 30 minuti a 190°C. In alternativa il formaggio può essere anche preparato nel forno tradizionale preriscaldato (15 minuti a 160°C), oppure nel microonde (250 W per ca. 3 minuti).

Tomino al cartoccio 2 x 100 g Fr. 4.50 In vendita fino a esaurimento dello stock


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MONDO MIGROS

Estate in bellezza

Spuntini alla frutta 100% naturali

Novità ◆ Il noto marchio Deborah Milano presenta due nuovi prodotti per distinguersi durante la bella stagione Mascara Volume Aqua Wash Formula Pura di Deborah Milano Fr. 19.90 Red Touch Comfort Mat Lipstick di Deborah Milano Fr. 14.90 In vendita nelle filiali Migros di Locarno, Lugano, S. Antonino, Serfontana, Agno Uno e Bellinzona (solo Formula Pura)

Deborah Milano, azienda attiva da oltre 50 anni nel settore beauty, lancia due straordinarie novità per tutte coloro che vogliono distinguersi durante l’estate. Il Mascara Volume Aqua Wash è un prodotto che assicura una performance straordinaria e uno struccaggio semplice e veloce. Senza siliconi, fragranze e petrolati, è arricchito con ingredienti naturali quali l’estratto di gemme di tiglio biologico, la polvere di bambù e il burro

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ti dai bambini e non solo, gli spuntini BEAR ti regalano inoltre delle bellissime carte da collezionare raffiguranti tanti affascinanti animali del nostro pianeta. Rotoloni alla frutta BEAR mela o fragola 100 g Fr. 3.80 In vendita nelle maggiori filiali Migros

ti rosa fino ai colori più intensi fucsia e rosso vivo, possiede una texture leggera e impalpabile, resistente fino a 18 ore. L’applicatore a forma di petalo permette una stesura precisa in modo semplice e veloce. Dimostrazione prodotti Deborah Milano

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SOCIETÀ

Uno Spazio per ritrovare la motivazione

Socialità ◆ L’Associazione L’ORA ha da poco inaugurato lo Spazio Esplorativo per sostenere i giovani in difficoltà e accompagnarli in un reinserimento scolastico, professionale e sociale Guido Grilli

«(…) Ché la diritta via era smarrita…». Anche il sommo Dante durante il suo viaggio si era ritrovato in una selva oscura, eppure affidandosi a valide guide era riuscito ad avanzare e a superare questo e altri ostacoli. Ma come guidare e aiutare i numerosi giovani in difficoltà, confrontati con un periodo di smarrimento che li ha allontanati da un diploma o da una formazione professionale? L’Associazione L’ORA si prefigge di rispondere ai bisogni di giovani tra i 15 e i 25 anni e di colmare i loro «vuoti». Come? Uno dei suoi campi d’azione si chiama Spazio Esplorativo, «uno spazio d’ascolto, sostegno e accompagnamento che offre attività di ri-motivazione e re-inserimento sociale, scolastico e professionale per tutti quei giovani che vivono situazioni di disagio personale e familiare, in rottura con il mondo formativo e lavorativo o usciti dal circuito sociale». Spazio Esplorativo è situato a Lugano e offre gratuitamente aiuto a tutti i giovani che frequentano e vivono la Città, senza limiti di accesso e la necessità di essere domiciliati o residenti. La sede, inaugurata il 1° giugno a Molino Nuovo – uno dei quartieri più popolati di Lugano – si trova in via Bagutti 14, al primo piano, dove sono allestiti diversi spazi, fra cui un laboratorio informatico e digitale. Spazi ideati per accogliere i giovani nell’arco dell’intera settimana dove si svolge una parte dei progetti socio-educativi.

Spazio Esplorativo prevede dei percorsi educativi e motivazionali della durata di 6-9 mesi con un’équipe multidisciplinare Ne parliamo con le fondatrici, Lorena Grassi, direttrice pedagogica e Ramona Sinigaglia, direttrice strategica. Perché avete avvertito l’esigenza di creare l’Associazione L’ORA? I servizi predisposti sul territorio non erano sufficienti? Risponde Ramona Sinigaglia: «L’Associazone L’ORA nasce alla fine del 2019 proprio per l’esigenza di dotarci di una forma giuridica, come ente no-profit, che ci permettesse di promuovere due progetti che stavano raccogliendo interesse e sostegno dalle diverse autorità

cantonali e comunali. Il sodalizio è nato dunque per promuovere progetti che esistevano già. Parlo del progetto rivolto ai giovani, denominato Spazio Esplorativo e quello rivolto a nuclei famigliari, “Una famiglia per una famiglia”, progetto, quest’ultimo, che ha ottenuto il riconoscimento federale, in quanto modello d’intervento con un elevato valore innovativo. Due progetti sorti dopo un lavoro di approfondimento teorico e di ricerca sul campo che con Lorenza abbiamo portato avanti per oltre un anno e che ha messo in luce la necessità di intervenire in maniera differenziata e tempestiva sia con i giovani sia con le famiglie». «Spazio Esplorativo – continua Ramona Sinigaglia – vuole essere un aiuto concreto per tutti quei giovani che vivono un momento di difficoltà, esclusi o autoesclusi dal sistema scolastico, che faticano a trovare una loro strada e rischiano di entrare nei circuiti assistenziali. Dai dati forniti dalla Divisione della formazione professionale si evidenzia come, dal 2008 al 2018 in Ticino, circa 400 giovani ogni anno escono dai circuiti formativi e spariscono dai radar. Vi è quindi la necessità di intervenire in modo complementare e sinergico, con i servizi e gli aiuti sociali attivi in Ticino nel sostegno e reinserimento di giovani in difficoltà». Come riuscite ad agganciare i giovani che faticano a portare avanti un loro percorso scolastico o formativo? «Ad oggi sono circa una decina i giovani segnalati a Spazio Esplorativo» – fa sapere Lorenza Grassi. «La collaborazione con la rete formale e informale che ruota attorno a loro è indispensabile per evidenziare situazioni di disagio e poter intervenire tempestivamente nell’offrire loro sostegno. Oltre a ciò i social media sono una modalità proattiva ed efficace per entrare nell’universo dei giovani e avvicinare coloro che più ne necessitano, al fine di rimettersi in moto dopo un periodo di smarrimento o di isolamento sociale. Prima di promuovere un cambiamento occorre far nascere la motivazione nel percorrerlo, per questo è necessario innanzitutto risvegliare nei giovani una nuova determinazione e l’energia per passare da una condizione di chiusura, passività e inattività a una

Allo Spazio Esplorativo si «riallenano» anche le competenze relazionali all’interno di un gruppo di pari e con figure adulte. (Shutterstock)

situazione di apertura, propositività e partecipazione. In tal senso Spazio Esplorativo garantisce un tempo e uno spazio in cui questi giovani possono, oltre che acquisire nuove conoscenze e rinforzare quelle già esistenti, avvicinarsi al mondo adulto e alle richieste che lo stesso sottopone loro in un contesto di crescita, maturazione, inserimento lavorativo e ruolo attivo, partecipe e responsabile. Questo permette di conoscere e ingaggiare il giovane, rimotivandolo nell’essere attivo e nel sentirsi parte di un sistema, andando a scoprire e a lavorare sulle proprie capacità e difficoltà, quali ad esempio, il senso di appartenenza al gruppo, lo sviluppo del pensiero strategico e organizzativo». Ma quali iniziative concrete mettete in campo? «Proponiamo una serie di attività “motivazionali”: attività “leggere”, di ordine sportivo, ri-creativo e culturale. Fra le proposte abbiamo l’arrampicata svolta da un educatore e monitore. Il confronto e lo scambio di gruppo che s’instaurano all’interno di queste attività – evidenziano le nostre interlocutrici – favoriscono un dialogo costante tra pari su temi diversi e inerenti al contesto sociale o al mondo del lavoro e

permette agli operatori di promuovere nei partecipanti nuove competenze emotive, intellettuali, relazionali e strutturali importanti per un loro inserimento socioprofessionale. In questo modo si attiva nel giovane una maggiore consapevolezza di sé e dei propri bisogni/desideri, nonché una preparazione più mirata al mondo formativo e professionale che egli intende intraprendere. Più nello specifico, Spazio Esplorativo prevede dei percorsi educativi e motivazionali, della durata di 6-9 mesi, per giovani senza occupazione, con difficoltà personali, familiari e spesso di origine straniera, che necessitano di un tempo di avvicinamento e maturazione che consenta loro di ri-creare le basi necessarie a un pieno e stabile reinserimento socioprofessionale. Grazie a un approccio sistemico e a un’équipe multidisciplinare si può intervenire in maniera globale e allargata sulle varie aree di malessere dei giovani, indagando la sfera personale, relazionale e familiare, ma anche tematiche più sensibili come la cura di sé e del proprio corpo, le proprie credenze, la propria origine e la propria personale visione della vita: tutti elementi che direttamen-

te o indirettamente possono creare dei “blocchi” evolutivi nella definizione della propria identità adulta e nella costruzione di una carriera scolastica e lavorativa. La metodologia d’intervento è divisa principalmente su due livelli: da una parte le attività di gruppo a carattere educativo, occupazionale e sociale che permettono ai partecipanti di riallenare varie competenze personali, relazionali e strutturali e di confrontarsi in maniera costruttiva all’interno di un gruppo di pari e con figure adulte. Dall’altra, delle regolari consulenze individuali mirate e specifiche, basate sui bisogni del singolo, allo scopo di elaborare esperienze ed eventuali vissuti difficili o dolorosi e acquisire i giusti strumenti intellettuali, emotivi e pratico-organizzativi per occupare in maniera positiva il proprio posto nel mondo e nella società. Infine, viene offerta a questi giovani la possibilità di un career coaching quale supporto esterno individuale, volto a garantire loro un sostegno a medio-lungo termine per un reinserimento stabile e duraturo». informazioni www.associazionelora.ch. Annuncio pubblicitario

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La promenade della discordia Lugano

A fine maggio si è conclusa la consultazione sulla proposta della Città di creare una «Promenade Favorita» a Castagnola

Fabio Dozio

C’era una volta una ridente Città di lago che acquistò una bellissima villa barocca circondata da un parco rigoglioso che nascondeva altri bellissimi edifici. Un posto incantevole, quasi incantato, con un viale a bordo lago che sembrava sospeso tra terra e acqua… Poteva cominciare così la storia di Villa Favorita a Lugano Castagnola, messa in vendita una ventina di anni fa dai proprietari, la famiglia Thyssen-Bornemisza. Invece no, le favole non si addicono alla città sul Ceresio. I cittadini di Lugano, assieme a migliaia di turisti, rimangono fuori dai cancelli del parco, estromessi per sempre. La villa poteva essere acquistata per una manciata di milioni di franchi, 47 secondo una stima degli esperti immobiliari della Fidinam, una somma ragguardevole, ma contenuta se si considera l’enorme prestigio e la potenzialità dell’oggetto. Un’occasione persa. L’acquisto è svanito e nel frattempo la Villa è passata nelle mani di altri privati, la famiglia Invernizzi. Il Municipio ha presentato nelle scorse settimane la variante di Piano Regolatore che prevede una «Promenade Favorita», un passaggio pedonale dal Ponte del diavolo fino alla scalinata degli Oleandri (in sostanza dall’inizio alla fine del parco della villa) che passa sulle strade, via Riviera prima, dove transitano 8500 macchine al giorno, e via Cortivo più avanti. Come si è arrivati a questa proposta? La storia del rapporto fra autorità cantonali e comunali e proprietari della Villa ha ormai una ventina di anni. Risale al settembre del 2004 la mozione inoltrata dal consigliere comunale Martino Rossi per il Partito socialista: «La Città acquista e valorizza Villa Favorita». La mozione è scomparsa nei cassetti fino al 2013, contravvenendo alla regola che prescrive di evadere l’atto nel giro di due anni, quando il Consiglio comunale l’ha parzialmente accolta. Rinunciando all’idea di acquistare il comparto, era rimasta sul tavolo la sola proposta di «conseguire l’obiettivo della pubblica fruizione del viale a lago e di parte del parco (mappale 291), come pure di un collegamento con via Cortivo». Questa decisione del legislativo cittadino, vincolante per il Municipio, era il frutto di un compromesso concertato in commissione. La passeggiata a lago si sarebbe interrotta prima di raggiungere Villa Favorita, garantendo quindi la riservatezza ai proprietari davanti all’edificio principale. Il Municipio di allora così commentava: «questa soluzione, che si considera attuabile con uno sforzo sostenibile per la Città, garantirebbe, oltre alla messa a disposizione pubblica di una pregiata area a lago e allo sviluppo della rete dei percorsi pedonali a lago, la fattiva tutela di gran parte del parco». Nel 2014 anche il Cantone è intervenuto per garantire la salvaguardia dell’area, istituendo una «zona di pianificazione cantonale»: «È bene segnalare e ribadire che il complesso è senza dubbio uno dei beni culturali di maggiore pregio e importanza del nostro Cantone: la sua corretta conservazione e tutela risulta quindi essere tra gli obbiettivi prioritari del Governo. (…) Va altresì ricordato che il Comune di Lugano ha palesato un evidente interesse a ottenere la fruibilità pubblica del Parco, come pure – possibilmente – ad acquisirlo, almeno in parte. Ciò è stato manifestato anche recentemente dalla decisione del Legislativo cittadino con cui è stato so-

stenuto l’indirizzo del Municipio di approfondire le possibilità di acquisto e uso del parco». Questa, per sommi capi, la situazione fino a qualche anno fa, quando Città e Cantone avevano assunto l’impegno di garantire un’utilizzazione pubblica di parte del parco, in particolare della passeggiata sulla riva del lago. Come mai l’attuale Municipio ha deciso di sconfessare la sua precedente decisione e di rinunciare a qualsiasi uso pubblico di Villa Favorita? La Città ha avanzato una serie di proposte ai proprietari della Villa, ma questi non hanno accettato di prendere in considerazione la fruizione pubblica di parte del parco. Quindi l’autorità comunale ha rinunciato a far valere l’interesse pubblico della cittadinanza, come prescriveva il Legislativo. Nel Rapporto sulla variante di PR appena pubblicato si spiega: «L’apertura della passeggiata a lago interna al comparto di Villa Favorita e la fruizione pubblica permanente del Parco sarebbe unicamente possibile con un esproprio formale e/o materiale e quindi con un acquisto e un’assunzione dei costi di gestione del Parco o con l’iscrizione di un diritto di passo pubblico, strategie onerose, ritenute inadatte, prestando maggiormente il fianco a confronti litigiosi piuttosto che a soluzioni consensuali, e non sostenibili in questa fase finanziaria dalla Città di Lugano». Il Municipio ha ottenuto un contentino dai proprietari: l’uso pubblico dello sperone di roccia accanto al Ponte del diavolo e della lingua di parco, circa 70 metri, all’entrata ovest. In compenso, addio passeggiata a lago. In sostituzione si propone la «Promenade Favorita», definizione pomposa, che si presenta come un marciapiede allargato sulla trafficatissima via Riviera e sull’ombrosa via Cortivo. Il lago si può solo immaginarlo, lì sotto. Per l’economista Martino Rossi, che sognava quasi vent’anni fa di rendere pubblico tutto il comparto, la Promenade è «una mistificazione e anche una provocazione». Rossi invita anche a un utile esercizio di memoria storica: nel 1912 il Municipio di allora, della piccola Lugano, acquistò, con procedura di esproprio, Villa Ciani e il suo parco, che ancora oggi è uno dei pochi gioielli cittadini. Una critica severa e giuridicamente autorevole la esprime Adriano Censi, avvocato ed ex Presidente della Commissione cantonale beni culturali. Nella sua lettera del 23 maggio al Municipio Censi non fa sconti. «La variante proposta disattende integralmente la decisione del Consiglio comunale. (…) È clamorosamente disattesa una scelta e un indirizzo politico e democratico, chiaramente scelto, e quale mozione va ricordato che per l’autorità esecutiva è un atto vincolante al quale dev’essere dato seguito». L’avvocato luganese sottolinea pure che «gli intendimenti del nuovo Piano Regolatore contrastano addirittura con la Legge federale sulla pianificazione che impone di tenere libere le rive dei laghi e dei fiumi e agevolarne il pubblico accesso e percorso». Censi ricorda al Municipio che i nuovi proprietari sapevano o dovevano sapere che esisteva un vincolo, deciso dal Consiglio comunale, per quanto attiene la passeggiata a lago. Stoccata finale: «Timori di espropriazione materiale sono infondati e le argomentazioni di paure in tal senso da parte della Città dimostrano la carente conoscenza della giurisprudenza in materia».

Villa Favorita. (CdT - Chiara Zocchetti)

Anche i Cittadini per il territorio del Luganese hanno partecipato alla consultazione indetta dal Municipio. «La proposta di Piano Regolatore formulata dal Municipio non è accettabile perché l’obiettivo di realizzare una passeggiata lungo il lago da Lugano a Gandria è completamente mancato». Sembra incredibile – affermano i Cittadini – «ma non c’è nessuna testimonianza, valutazione materiale o giuridica che sostenga o spieghi l’abdicazione dell’Autorità alla rinuncia del fine perseguito». Ricordando che l’interesse pubblico per realizzare la passeggiata sulla riva si basa sulla Legge federale, sulla Legge sullo sviluppo territoriale, sul Piano direttore canto-

nale e sul Programma di agglomerato del Luganese (PAL3), l’Associazione invita a correggere il progetto di «Promenade Favorita». Si propone di allestire una perizia che valuti le conseguenze finanziarie dell’operazione e fa un deciso passo avanti: la passeggiata pedonale in riva al lago deve partire dal cancello ovest del parco di Villa Favorita e terminare alla scalinata degli Oleandri. Un percorso completo, dunque, lungo gli 800 metri della riva. Per capire la fattibilità del cammino sul lago, per i municipali luganesi può essere istruttiva una passeggiata fuori porta, a Losanna, per percorrere il Sentier des Rives du Lac, tra Ouchy e Pully, che passa davanti

alla casa che fu del generale Guisan. Ridare al pubblico, agli abitanti di Lugano, del Ticino e ai turisti la possibilità di percorrere il viale a lago è un’occasione unica e preziosa. «Il mezzo chilometro che dovete fare dal cancello alla Pinacoteca, il lungo viale alberato a cipressi che costeggia il lago a poco a poco vi porta lontani dal frastuono e dai soliti pensieri, l’animo si raccoglie: il verde l’acqua le statue i nani con la fisarmonica, le montagne, ogni cosa concorre, giungete in stato di grazia all’ingresso della galleria»: sono parole dello scrittore Piero Bianconi, pronunciate a Radio Monteceneri in occasione dell’apertura della galleria d’arte della Collezione Thyssen-Bornemisza, nel 1949*. Come detto, la consultazione si è conclusa a fine maggio. Il Municipio ha ricevuto una trentina di osservazioni, per lo più critiche. Potrà correggere il compito, prima di confrontarsi con il Legislativo. Se non lo farà, significa rinunciare all’uso pubblico del viale sulla riva del lago. Una scelta che non rispetta il volere del Consiglio comunale. Consiglio che, se coerente, rimanderà al mittente, al Municipio, la proposta di «Promenade Favorita», una passeggiata inquinata, senza il lago, ma ricca di tossico CO2. Nota * Citato in: Storia della Villa Favorita, Il Cantonetto, dicembre 2021. Annuncio pubblicitario

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Le nuove frontiere della ricerca oncologica Medicina

Presente e futuro della lotta ai tumori stanno anche nell’immunoterapia oncologica

Maria Grazia Buletti

Nel 1891, il chirurgo newyorkese Coley descrive per la prima volta una relazione fra infezione e regressione del cancro, antesignana dell’immunoterapia oncologica: «Un suo paziente con un sarcoma (ndr: tumore maligno molto aggressivo) sviluppa una severa infezione. Il chirurgo realizza che, guarita l’infezione, il sarcoma si è ridotto molto. Comprendendo il nesso fra l’infiammazione molto severa e la riduzione del sarcoma, egli usa per altri pazienti una miscela contenente tossine filtrate da batteri morti. Questo modo empirico e rudimentale in uso a quel tempo ha però funzionato in qualcuno di loro». A raccontare questo aneddoto sulle origini di quella che poi si sarebbe sviluppata come l’odierna immunoterapia oncologica è la professoressa Silke Gillessen, direttore medico e scientifico dello IOSI, che illustra l’evoluzione dell’attuale ricerca, che sta dimostrando sempre meglio come il sistema immunitario, adeguatamente modulato, può essere riattivato e rappresentare così una promettente arma contro molti tipi di tumore.

Alcune terapie si limitano a potenziare il sistema immunitario in generale, altre lo armano contro un preciso tipo di cancro «È un tipo di cura che utilizza lo stesso sistema immunitario del paziente, o certe sue componenti, per combattere malattie come il cancro». Così esordisce il responsabile medico della Ricerca IOSI Anastasios Stathis che spiega: «Si cerca di stimolare il sistema immunitario per attaccare il tumore riconosciuto come qualcosa di estraneo». Anche se, puntualizza Gillessen: «Non dobbiamo dimenticare che il tumore è comunque pure parte del nostro corpo: si sviluppa da una nostra cellula che ha in qualche modo evaso il controllo del nostro sistema immunitario, e non è come un virus che arriva effettivamente dall’esterno». Ciò complica un po’ la situazione, ma permette di comprendere che tutto ruota attorno al nostro sistema immunitario nel cui mondo ci accompagna Stathis: «È un ingranaggio complesso fatto di organi e cellule “speciali” che, lavorando di concerto, difendono il nostro organismo da

tutte le minacce interne ed esterne. Le cellule immunitarie, diverse e con differenti funzioni, concorrono a proteggere il corpo dagli agenti patogeni, ma sono anche in parte in grado di impedire la diffusione di un tumore». Tipico il caso di un microrganismo esterno (virus, batteri) che penetra nel corpo creando focolai infettivi: «Allora, le nostre difese insorgono immediatamente, innescando un processo infiammatorio che ha lo scopo di rendere inospitale al “nemico” l’area o l’organo in cui si è intrufolato». Per analogia, lo stesso può succedere con le cellule cancerose: «Un sistema immunitario efficiente intercetta l’anomalia delle cellule tumorali e le distrugge prima che possano moltiplicarsi». Tuttavia, spiega Gillessen: «Non sempre il nostro meccanismo di difesa è in grado di riconoscere le differenze tra cellule sane e quelle cancerose che quindi possono proliferare indisturbate». L’immunoterapia oncologica si situa proprio in questo meccanismo e, per avere la meglio sulle cellule neoplastiche (note per la caratteristica di riprodursi molto velocemente a spese delle cellule sane), le strategie immunoterapiche attualmente in uso puntano a potenziare il sistema di difesa rendendolo più “attivo” nello scovare ed eliminare le cellule tumorali». Ma le terapie non funzionano tutte allo stesso modo con le diverse forme tumorali: «Mentre alcune terapie si limitano a potenziare il sistema immunitario in generale, altre lo armano (fornendo istruzioni ad alcune componenti specifiche del sistema di difesa del corpo) per uccidere specificatamente le cellule cancerose di un certo tipo di cancro». Ampio il ventaglio dell’immunoterapia oncologica, a cominciare dagli anticorpi monoclonali: «Si tratta di una terapia mirata e personalizzata, che usa proteine prodotte in laboratorio, strutturate in modo da attaccare e distruggere specifiche parti delle cellule cancerose». Stathis aggiunge: «Lo scopo della ricerca è quello di creare in laboratorio anticorpi in grado di intercettare gli antigeni delle cellule cancerose, in modo da superare il fatto che, per il momento, l’immunoterapia con anticorpi monoclonali è efficace solo contro alcune neoplasie». Passiamo alla terapia con gli inibitori dei checkpoint immunologici che Stathis così sintetizza: «Questi farmaci sbloccano so-

La professoressa Silke Gillessen, direttore medico e scientifico dello IOSI e (sotto) il dottor Anastasios Stathis, responsabile medico della Ricerca IOSI. (Stefano Spinelli)

stanzialmente i freni (checkpoint) del sistema immunitario, permettendo il riconoscimento e l’attacco delle cellule tumorali». Un’importante competenza del sistema difensivo dell’organismo è infatti quella di distinguere le cellule anomale da quelle

sane, e quindi aggredire solo le prime. «Il problema di queste specifiche cellule è che devono essere attivate per dare l’attacco e spesso le cellule tumorali sfruttano questi “freni” immunitari per evitare di essere assalite». Una terapia, ribadisce Gillessen, che fun-

ziona per diverse forme tumorali in fase avanzata: «Tra cui il melanoma, il carcinoma polmonare, la neoplasia del rene e della vescica e il linfoma di Hodgkin, mentre per altri tumori non funziona bene, anche se non sappiamo ancora il perché». La terapia CAR-T, invece, è molto efficace per alcune neoplasie del sangue, mentre: «Ad oggi, non trova indicazione standard per i tumori solidi, sebbene avremo presto dati da alcune sperimentazioni in corso». Si tratta comunque di una tecnica che unisce la terapia immunitaria con quella mirata: «Consiste nel prelevare cellule immunitarie del paziente (linfociti T) e nel modificarle per renderle in grado di riconoscere quelle tumorali per poi attaccarle». Un ventaglio complesso che comprende pure il campo dei vaccini anticancro come «scopo preventivo primario importante» per fornire all’organismo di una persona sana gli strumenti per attaccare agenti patogeni in grado di favorire la crescita di certi tipi di tumore (ndr: argomento che sarà sviluppato in un secondo approfondimento). Cosa certa è che il Dipartimento di ricerca dello IOSI è un’eccellenza nel portare avanti questi studi sulle nuove immunoterapie. «In Ticino, la ricerca clinica si muove fra nuovi metodi e nuovi farmaci, ed è lanciata verso opportunità che non sono, per ora, ad appannaggio di molti altri centri», conclude Gillessen. Annuncio pubblicitario

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Vivere bene, vivere verde

Ambiente ◆ Viaggio a Vauban, quartiere ecosostenibile della città di Friburgo che privilegia un modo di vivere inclusivo e partecipativo Luigi Baldelli, testo e foto

Friburgo in Brisgovia è soprannominata «La Perla della Foresta Nera» e fa di tutto per rimanere bella e pura come la gemma a cui viene accostata. Basta ricordare che dal 1992 Friburgo ha diminuito le emissioni nocive del 14% e vuole arrivare al 40% entro il 2030. In più in questa cittadina di circa 230mila abitanti ci sono tre quartieri modello per la sostenibilità ambientale: Vauban, Rieselfeld e Sonnenschiff. Vauban, ex centro di caserme militari, è stato il primo a prendere la strada dell’ecologia, contro l’inquinamento, a favore dell’energia pulita e riduzione dei consumi. Questo grazie agli incentivi da parte dello Stato e dell’organo federale. E anche grazie all’università di Friburgo, un’eccellenza per la ricerca sulle energie rinnovabili. A Vauban, dove vivono più di 5000 persone in circa 2000 appartamenti in case basse e colorate, ci sono pochi parcheggi e si è incentivato il car sharing, tutti i tetti delle abitazioni sono ricoperti di pannelli fotovoltaici, gli spazi verdi e i parchi sono ovunque. Le abitazioni sono costruite con materiali ecosostenibili, sono case così dette «passive», cioè producono più energia di quanta ne serve loro e addirittura viene riutilizzata l’acqua piovana. Va sottolineato che Vauban non è un quartiere centrale, anzi, si trova in periferia. Gli abitanti hanno collaborato attivamente alla progettazione imponendo una «via verde», ecosostenibile e un’architettura che permettesse alla popolazione di vivere in modo inclusivo e partecipativo. Non volevano assolutamente che diventasse il classico quartiere ghetto periferico. Miravano a un’alta qualità della vita. Un esperimento iniziato nel 2006 e perfettamente riuscito. «Vedi – mi dice Thomas mentre siamo affacciati al terrazzo della sua casa – da quando vivo qui ho rinunciato all’auto, mi muovo con i mezzi pubblici, i negozi sono tutti vicini e il mio livello della vita è decisamente migliorato. È un quartiere a misura d’uomo e sono orgoglioso e profondamente convinto che vivendo in maniera ecosostenibile sto contribuendo, nel mio piccolo, alla salvaguardia del pianeta». Guardandolo dall’alto il quartiere è circondato da verdi colline, le case sono basse e colorate e i tetti ricoperti di pannelli fotovoltaici riflettono i raggi del sole. Le auto sono parcheggiate solo lungo la strada principale, dove il limite di velocità è di 7 km orari, mentre nelle stradine che si ramificano ai lati lo spazio viene lasciato libero per permettere ai bambini di giocare. I parcheggi per le biciclette sono ovunque. Perché qui tutto è stato pensato per il pedone e il ciclista. Una mamma traina un piccolo carrettino di legno con dentro 4 bambini, vanno verso uno dei tanti spazi verdi che sono punti di ritrovo delle famiglie e specchio di come il quartiere non sia solo un grande esempio di sostenibilità ambientale, ma anche modello di integrazione sociale e culturale dove si possono vedere uomini, donne e bambini di tutte le etnie ed estrazioni sociali. Anche i piccoli supermercati presenti hanno adottato la filosofia del vivere sano: quasi esclusivamente alimenti bio ed equo solidali. Intanto una delegazione di cinesi sta facendo una visita al quartiere, per studiarne meglio il modello sostenibile e magari replicarlo. Sono frequenti le visite di studenti di architettura, scienziati, ricercatori o semplici curiosi che vogliono studiare e comprendere meglio uno

stile di vita improntato al benessere ecologico e sociale. Mentre cammino lungo uno dei percorsi pedonali, mi arrivano le voci di una festa di compleanno. Diverse famiglie sono riunite nel giardino e condividono lo spazio verde. I bambini a piedi scalzi corrono liberi e sereni, si rotolano per terra. «Per noi è importante che i nostri figli abbiano un contatto fisico con la natura che li circonda, devono toccare la terra, l’erba, le piante. E imparare sin da piccoli che si può vivere bene rispettando il pianeta», mi spiegano Annelene e Nik, una giovane coppia che vive qui da più di tre anni, mentre il loro neonato gattona sul prato. Seguendo la ciclabile si

arriva alla periferia del quartiere dove ci sono piccole fattorie oltre le quali iniziano i boschi. L’essere umano è immerso in un totale stile di vita naturale che va dall’energia all’ecologia, alla convivenza sociale e anche al culto della bellezza estetica del luogo. Perché Vauban è veramente bello, un quartiere dove l’uomo e l’ecologia sono protagonisti, con i viali alberati, gli spazi verdi comuni, le case dai colori dell’arcobaleno. Certamente tutto questo non sarebbe stato possibile se oltre alla volontà degli abitanti non ci fosse stata anche una volontà politica a livello comunale. Seduto al tavolo, fuori del ristorante nella piazza del quartiere, la mia guida mi

presenta Alex, un architetto profondamente ecologista che ha costruito la sua casa su un lotto di terreno che aveva acquistato qui a Vauban. Una costruzione che rispecchia i canoni di eco sostenibilità. Mentre sorseggia la sua birra mi racconta la sua visione presente e futura delle città: «I quartieri eco-sostenibili sono un esempio e un modello di abitazione. Stanno sempre di più entrando nei programmi delle amministrazioni comunali. In questo modo si salvano aree altrimenti destinate all’abbandono o all’edilizia selvaggia e si va in direzione di creare luoghi che sfruttano tutte le tecnologie che permettono di vivere bene con un basso impatto ambientale». Devo dire

che ammiro molto il suo ottimismo e nello stesso tempo penso ad altre città, europee o mondiali che sono lontane da questo sistema che ha alla base il rispetto per il pianeta. Perché questo di Vauban è uno stile di vita dove si intersecano non solo il rispetto per la natura e l’ambiente, ma ci sono anche forti valori economici, sociali e culturali. E certamente, tutti questi ingredienti insieme portano verso un cambiamento nel vedere il futuro: non più una crescita senza limiti, ma una crescita consapevole. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Il pozzo avvelenato Fallacie e paradossi

Come difendersi da un falso argomento

L’assuefazione al serraglio dei battibecchi digitali e televisivi mortifica la capacità di discernere tra sensato e insensato. Il proliferare di fallacie e falsi argomenti nel dibattito pubblico partecipa così al trionfo della retorica sulla ragione, tanto più che il senso viene a volte deliberatamente sacrificato a favore dell’effetto sulla platea. Ma se le armi della logica cedono troppo il passo alla logica delle armi (retoriche), rischiamo tutti di fondare sempre più spesso le nostre opinioni su argomenti fallaci. Certo, nessuno è immune da errori di ragionamento. Anche Hegel diceva che la logica non è tutto, anche se tutto è logica. Tutti quando parliamo usiamo argomenti efficaci e inefficaci, buoni e cattivi. Il fatto è che queste categorie non sempre sono sovrapponibili: un argomento perfettamente logico può essere del tutto inefficace mentre la più incurante illogicità può essere molto persuasiva. Capire le fallacie è utile per valutare ciò che viene detto e svela anche qualcosa su chi lo dice e sulle sue intenzioni. Non solo infatti i fini non giustificano i mezzi, ma sono spesso proprio i mezzi utilizzati a dirci qualcosa sui fini. Una delle fallacie che vediamo più spesso all’opera, soprattutto nelle arene politiche, è quella nota come avvelenamento del pozzo. Si tratta di un argomento ad hominem, si verifica cioè quando si colpisce la gamba

del giocatore anziché la palla. Si tratta di un modo di argomentare tanto diffuso da non essere nemmeno più percepito come fallace. Anzi, come ha sottolineato l’esperta di logica Franca D’Agostini, è ormai da tempo divenuto un abito retorico-argomentativo condiviso. Il nome della fallacia del pozzo trae origine dalla strategia militare della terra bruciata. Si tratta di una pratica attuata per secoli dagli eserciti in ritirata, che per non lasciare risorse agli inseguitori avvelenavano tutti i pozzi d’acqua che incontravano lungo il cammino. In questo modo, con un piccolissimo sforzo, si potevano infliggere al nemico danni enormi. La stessa spietata efficacia si ha quando, in un dibattito, si smentisce la tesi dell’avversario appellandosi, in modo diretto o indiretto, a una sua caratteristica. Chi classifica le fallacie chiama questo modo di procedere argomento ad hominem circostanziale. Ancora peggio è quando l’attacco, anziché circoscritto, è generalizzato. È ciò che avviene quando si delegittima a priori l’avversario, o un gruppo di avversari, non per confutare un singolo argomento ma per screditare tutto ciò che dice o dicono. Con tale strategia, detta ad personam, si intende eliminare una volta per tutte l’interlocutore, avvelenare insomma tutta l’acqua del suo pozzo. Per esempio si potrebbe dire: «Siccome sei calvo, non

puoi fare il tricologo», oppure «Se non sei mai stato in Russia o in Ucraina, ciò che dici sulla guerra è falso» o ancora «Se non ospiti un migrante a casa tua, le tue tesi sull’immigrazione non hanno valore». Nel caso in cui l’avversario è per qualche ragione inattaccabile, magari perché legittimato a parlare in quanto esperto, si agisce allora per via indiretta, associandolo, magari per una supposta comunione d’intenti o di prospettive, ad altri personaggi poco o meno rispettabili. Per quanto inconsistenti logicamente, simili argomenti sono spesso percepiti come validi e appaiono come modi legittimi per confutare le tesi altrui, le quali in realtà non vengono nemmeno sfiorate. Vediamo all’opera la forza persuasiva di questo modo di argomentare anche nei processi, quando si scredita una testimonianza elencando le malefatte del testimone. È vero che è difficile credere a un disonesto cronico, ma è anche vero che a rigor di logica questo non è un giudizio sulle sue parole, ma un pregiudizio sulla sua persona. In tali contesti è allora utile far notare la fallacia, ma fuori dai tribunali, quando lo scopo non è la ricerca della verità ma la vittoria sull’interlocutore, bisogna tenere conto che a volte persino la logica più raffinata può essere disarmata dalla peggiore retorica. Ma non dobbiamo scoraggiarci, in fondo, la logica non è tutto… Oltre

Cattan2011

Manuel Guidi

a Hegel, questo lo sapeva bene anche il suo acerrimo rivale Schopenhauer, che a differenza sua teneva logica e dialettica ben separate sostenendo che l’arte di dibattere non avesse nulla a che fare con la verità. Così, se Hegel elevava la dialettica fino alle vette della filosofia, Schopenhauer la riportava giù nelle paludi della «naturale prepotenza umana». Sul tema scrisse anche un famoso prontuario di eristica, ossia l’arte dell’argomentazione perniciosa, composto di trentotto stratagemmi utili a chiunque volesse uscire vincitore da ogni possibile disputa. Alla tecnica del pozzo sono dedicati il sedicesimo stratagemma, in cui ne raccomanda l’uso circostanziale; il trentasettesimo, in cui consiglia di mascherarla come argomentazione oggettiva; e l’ultimo, in cui esorta, se messi all’angolo, a insultare l’avversario. Se poi ci si dovesse difendere da questo tipo di attacchi, la soluzione suggerita è semplicissima: poiché «ciò

che importa non è la verità, ma la vittoria» se l’avversario «avanza un argumentum ad hominem, sarà sufficiente infirmarlo con un altro ad hominem». Se qualcuno avvelena il nostro pozzo dovremmo quindi avvelenare a nostra volta il suo. Alla fine però, così facendo non solo l’acqua dei pozzi ma tutta l’acqua dei fiumi sarà avvelenata e questo spianerà la strada a una moltitudine di nuove fallacie. E allora, come possiamo difenderci dai falsi argomenti che appestano il dibattito pubblico? Nella tradizione, il loro successo è spiegato con il principio di ignoranza, ossia, e questa era anche l’obiezione di Aristotele contro i sofisti, le fallacie fanno presa soprattutto su chi non conosce le regole logiche e le insidie del linguaggio. L’unico antidoto ai veleni dell’eloquenza è quindi sempre lo stesso, quello del motto illuminista: sapere aude! Bisogna avere il coraggio di conoscere e di servirsi del proprio raziocinio. Annuncio pubblicitario

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Anno LXXXV 20 giugno 2022

SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

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azione – Cooperativa Migros Ticino

di Lina Bertola

Scuola in vacanza?

Sono iniziate le vacanze scolastiche, felice momento per tanti giovani. La vacanza è un tempo sospeso in cui accogliere altre atmosfere; un tempo in cui diventa più facile sperimentare quell’altrove che è sempre in attesa nei nostri giorni. Questo altrove non ha bisogno della distanza di città esotiche o di mari lontani: questo altrove può abitare la vicinanza, può annunciarsi come presenza silenziosa dentro spazi familiari, mentre passeggio in giardino, o nel bosco, o tra le pagine di un libro. C’è sempre un mondo possibile sulla soglia del nostro vivere e di questo mondo altro, il tempo della vacanza può rivelarsi il luogo dell’accoglienza e dell’ospitalità. Vacanza dunque come sospensione e come occasione per nuove aperture, per lasciarci sorprendere dall’inatteso. La parola «vacanza» custodisce tuttavia una specie di alter ego, nasconde un suo rovescio, un suo volto assai meno luminoso. Così oggi, salutati bambini e studenti, vorrei rivolgermi a un’altra

vacanza, per nulla piacevole e assai problematica, che da tempo si sta profilando all’orizzonte. Penso alla vacanza della scuola, ovvero, in senso letterale, a una scuola di cui è sempre più vacante il posto nella società. La scuola va in vacanza quando non riesce più a occupare il territorio della progettualità che è costitutivo di tutta la sua storia. Certo, come istituzione è stata sempre anche espressione della società, ma con una postura critica e con quella progettualità che ne costituisce appunto l’essenza, ovvero ciò per cui scuola è davvero scuola. Perché la conoscenza, da sempre, rende più liberi di pensare, di immaginare, di andare oltre. L’esperienza della conoscenza apre i nostri sguardi sulla realtà per accoglierla, ma anche per trasformarla e per orientarla verso nuovi possibili scenari. Questo è il significato più profondo dell’educarsi, di quel viaggio verso sé stessi, di quel divenire ciò che siamo.

Oggi questo intreccio tra reale e ideale si sta tristemente spegnendo e la scuola appare sempre più a rimorchio dei bisogni della società, in particolare delle esigenze di un’economia che della società è il linguaggio dominante. Così, l’esperienza della conoscenza, vissuta nella lentezza e nella bellezza del suo essere pura finalità, nell’incontro con sé stessi, con gli altri e con il mondo, viene ridotta e tradita dalle mille richieste di competenze spendibili nel mercato della vita. La scuola, ovviamente, ha il compito di formare giovani che possano inserirsi nella società; ma non è certo la strada migliore quella di costruire dall’esterno identità efficienti e performanti che rispondano, bene e in fretta, alle richieste dell’economia. Laddove c’è davvero scuola, ciò che conta è quel tempo non misurabile che sa nutrire il proprio mondo interiore e che riesce a farlo sbocciare. Affinché ciò accada ci deve però essere anche il

desiderio politico di far crescere persone che pensino con la propria testa. Quando assistiamo alla valorizzazione della conoscenza e della cultura soprattutto come esibizione, come fiore all’occhiello per promuovere imprese di ogni genere, può anche nascere qualche dubbio. La scuola va in vacanza, insomma, quando non sa più essere, per dirla con Edgar Morin, quella zattera all’avamposto della trasformazione. Quel luogo da cui imparare a navigare nella vita accogliendo anche il valore di tutto ciò che sta fuori dalle gabbie dell’utile. Quel luogo da cui imparare anche a resistere a derive di ogni genere, ben visibili nel nostro mondo. Mi rendo conto che questa visione del valore della scuola appare oggi un po’ controfattuale, non corrispondente alla realtà esistente. La ripropongo qui con convinzione proprio per evitare le solite concessioni al disincanto, alla logica riduttiva dei dati di fatto di cui

dovremmo, lucidamente e saggiamente, prendere atto. Ho voluto richiamare il valore di una realtà inattuale perché proprio ciò che è inattuale ci ricorda che c’è sempre un altro mondo possibile, magari anche un po’ migliore. D’altra parte, di questi valori ancora sempre profumano le aule; sono valori custoditi e coltivati, nonostante tutto, nel vissuto di tanti Maestri. Maestri che non di rado sono a disagio per la mancanza di riconoscimento della gratuità e della bellezza della conoscenza che esprimono con amorevole cura; a disagio per la difficoltà di trovare risonanze negli sguardi degli allievi, abitati da un mondo che della scuola ha travisato e impoverito il senso. Così, la figura centrale del Maestro rischia di essere sempre più depotenziata, quasi in dissolvenza sullo sfondo di belle aule tecnologicamente arredate, con lavagne dernier cri. Se lasceremo che ciò accada, la scuola potrà allora raccontare la sua definitiva vacanza.

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

«Tu chi sei su Instagram?» ◆

Il musicista che ho appena intervistato vuole condividere con me il selfie che ha scattato per l’occasione. Per lui è essenziale che i suoi fan sappiano quello che fa in ogni momento della giornata, che possano partecipare e magari diffondere ad altri le sue attività, anche minime, svolte durante i suoi spostamenti per il mondo. «Te lo mando. Tu chi sei su Instagram?». Imbarazzo del cronista, che non ricorda il suo «nome su Instagram» e lo confonde con quello su Twitter (Parentesi: il cronista in questione è uno di quelli timidi ma anche un po’ sospettosi che in tempi lontani aveva accettato i consigli di altri utenti sospettosi: non mettere mai il tuo vero nome sugli account dei social. Adesso si ritrova con una pletora difficilmente gestibile di pseudonimi fantasiosi e scombinati). Sguardo di leggera riprovazione dell’artista, come a dire: «Ma com’è

possibile? Non ricordi i nomi dei tuoi account?». L’occasione però è ottima per un rilancio: gli chiedo subito quanto tempo prende, a un professionista dello spettacolo, questa attività sui social. «Moltissimo. Mi alzo alle 6.30 comincio subito da Facebook. Lì metto le cose principali. Poi passo ad Instagram, dove le cose vanno un po’ più in fretta perché il caricamento è più immediato». Chi scrive non ha avuto cuore di chiedergli se nella lista degli aggiornamenti quotidiani rientrano anche Twitter e TikTok, ma la cosa alla fine non ha molta importanza. Il musicista continua a raccontare che la sua giornata è un costante «pendolo» dalla pratica musicale alla dimensione dei social, che gli lascia poi magari soltanto alla sera qualche momento tranquillo: da dedicare alle chiacchiere con amici sparsi in ogni parte del mondo (via videochiamata, naturalmente).

La nutrizionista

Che ci sconcerta un po’, è osservare la quantità di tempo che hanno preso nella vita di un artista queste strategie di comunicazione, che, come ci conferma l’interessato stesso, sono diventate parte effettiva della sua attività professionale. È stato sempre così? Cioè, l’attività di comunicazione per un professionista dello spettacolo è da sempre una componente così importante della sua routine quotidiana? Ovviamente no, viene da rispondere, visto che le nuove tecnologie e le nuove piattaforme sono diventate parte della scena mediatica solo di recente. Oppure sì: da sempre gli artisti devono aver avuto un occhio attento alla loro vita fuori dalle scene, cercando ogni possibilità per mettersi in mostra e per far conoscere la loro attività e la loro bravura. Sono solo diverse le tecniche, ma l’attitudine è la stessa. Di fatto, e pensandoci un momento,

il grande cambiamento sembra determinato più che dalle necessità dell’artista in sé, dalla spettacolarizzazione della vita quotidiana di tutti noi. In un certo senso, siamo diventati tutti delle star, che ogni giorno si mettono in mostra in miliardi di post autopromozionali sui social media. È un vero dilagare incontrollato: vi è capitato per caso di scorrere la finestrella di ricerca del vostro Instagram, quella creata automaticamente dai post entrati in ordine cronologico? Quante centinaia di facce di illustri sconosciuti occorre scrollare prima di trovare quello di un/una vera artista? (A parte forse Billie Eilish che sembra trascorra più tempo lì dentro che nella vita reale). A questa stregua, i primi a soffrire del meccanismo sono proprio gli operatori dello spettacolo, quelli veri, quelli che hanno bisogno dell’esposizione mediatica per campare… Il loro sforzo di apparire, visto in

questa prospettiva, ha qualcosa di disperato. Per mantenersi sulla cresta dell’onda sono proprio loro a dover «surfare» per primi, a dover dare segni di vita e a sventolare la bandierina del «Ehi sono qui! Guardami!». E se una volta bastava loro magari riuscire a piazzare un’intervista sul giornale giusto, a passare per qualche minuto nella trasmissione televisiva di successo, oggi invece devono preoccuparsi di bucare ogni possibile canale informativo, di mettere fuori la manina e fare ciao da quanti più smartphone possibili. Una vita difficile. Chissà quando trovano il tempo di suonare davvero? Il discorso si può allargare poi ad altre categorie di utenti, magari istituzionali o economico-finanziari. Ma la domanda rimane: il dubbio è che più tempo si dedica all’attività digitale, meno ne rimanga per quella analogica, concreta. Sempre che esista ancora.

di Laura Botticelli

Quello strano sapore dolce del latte senza lattosio ◆

Gentile signora Botticelli, ho letto con molto interesse la sua spiegazione sui vari tipi di latte in commercio. Anche la mia domanda verte in parte sul latte, meglio sui prodotti senza lattosio. Da poco abbiamo scoperto l’intolleranza al lattosio di mia mamma e da allora per lei acquistiamo i prodotti senza lattosio. Li assaggio e trovo che alcuni, come lo yogurt al naturale, risultino particolarmente dolci, stucchevoli. Dopo varie prove, abbiamo finalmente trovato una marca meno dolciastra. Ma spesso questi prodotti hanno un gusto alterato o forse lo consideriamo tale perché siamo abituati a mangiare quelli «normali». Con la cottura questo gusto dolciastro va perso. O così ci sembra. È una nostra percezione o è reale la tendenza al dolciastro dei prodotti crudi senza lattosio? Se sì, perché? / Fernanda Gentile signora Fernanda, la ringrazio molto per avermi letta e per la do-

manda. Cercherò di soddisfare la sua curiosità iniziando da una premessa un po’ «ampia» che spero mi permetterà di essere però più chiara. Il lattosio, a livello chimico, è un disaccaride, uno zucchero composto da una molecola di galattosio e una di glucosio. Per dirla molto semplicemente, la deve immaginare come una piccola catenina composta da solo due perline. È presente nel latte di tutti i mammiferi (mucca, capra, pecora eccetera) e anche nei suoi derivati in percentuali diverse a seconda del metodo di preparazione. Più il prodotto latteo caseario è fresco e più ne contiene, al contrario più è stagionato e meno ne conserva. Lo si può trovare però anche come ingrediente di altri alimenti preparati, come biscotti, torte ma anche nel prosciutto cotto, in alcuni polpettoni già pronti e via elencando. È quindi mol-

to importante leggere le etichette degli alimenti. L’intolleranza al lattosio può essere di origine genetica e, dunque, comparire già dall’infanzia, oppure manifestarsi in età adulta. Si verifica se a livello intestinale si ha un’insufficienza o una carenza di lattasi, che è l’enzima responsabile della scomposizione del lattosio. Se si consumano alimenti contenenti lattosio, quindi, l’intestino non riesce a digerirlo correttamente e si possono avere come effetti collaterali diarrea, gonfiore, flatulenza, nausea e crampi, che possono essere fastidiosi, dolorosi e anche imbarazzanti. Per fortuna l’industria alimentare ha fatto molti passi avanti e negli anni ha sviluppato diversi prodotti caseari senza lattosio. Come? Producono latte senza lattosio aggiungendo lattasi al normale latte vaccino. La

lattasi, proprio quell’enzima di cui ho parlato sopra, è prodotta naturalmente da persone che tollerano i latticini e serve a scomporre il lattosio nel corpo. In questo caso l’enzima viene aggiunto al latte e rompe il lattosio nei due zuccheri semplici, glucosio e galattosio rendendolo quindi senza lattosio. È come se lo digerisse fuori dall’intestino, in maniera tale che la persona intollerante lo possa bere tranquillamente perché lo trova già scomposto e assimilabile così da non soffrire poi degli sgradevoli effetti collaterali. Per rispondere quindi alla sua domanda sulla percezione dei prodotti crudi posso dirle che sulla nostra lingua abbiamo le papille gustative che ci permettono di percepire il gusto del dolce. Nel latte senza lattosio abbiamo visto che non è più presente il disaccaride ma i suoi due zuccheri

più semplici, il glucosio e il galattosio. Essi stimolano di più i recettori del dolce e quindi risultano appunto come più dolci degli zuccheri complessi. Il prodotto finale senza lattosio ha per questo un sapore più dolce del latte normale. Devo dire anche che questo non cambia il valore nutrizionale del latte, che rimane intatto e che la differenza di sapore è lieve. Avete fatto bene a cercare una marca a voi più gradevole, magari potete tenere a mente la differenza di gusto se utilizzate del latte senza lattosio al posto del latte normale per delle ricette di cucina. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch


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azione – Cooperativa Migros Ticino 15

TEMPO LIBERO ●

Monemvasia, oltre il castello La cittadina arroccata sul mare è raggiungibile solo da un corridoio che unisce il paese alla terraferma

Il Simposio del Magnifico Filo conduttore di tutto il poemetto è il vino, che serve per canzonare la vita dei fiorentini dell’epoca

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Quando la leisure fa tendenza

Tra il ludico e il dilettevole ◆ Un trend decisamente in tema vede anche la trasformazione di capi firmati da grandi nomi in prodotti economicamente alla portata di tutti Sebastiano Caroni

Rimanendo fedeli alle intenzioni che animano queste pagine, abbiamo fatto del tempo libero uno dei fili conduttori dei nostri contributi, per poi ritrovarci confrontati a domande sul senso e sulla centralità che l’espressione «tempo libero» assume ai giorni nostri. In più di un’occasione, abbiamo avuto modo di rimarcare come oggigiorno il tempo libero sia oggetto di ridefinizioni che, conferendogli un carattere particolarmente fluido, lo rendono più affascinante, ma anche più sfuggente ed elusivo. In un precedente contributo, per esempio, abbiamo osservato alcune importanti tendenze – tipiche di aziende come Google e Netflix – di promuovere apertamente intrecci, convergenze, e intersezioni fra svago e lavoro, instaurando così oasi di creatività e spensieratezza all’interno della tipica giornata lavorativa. In questo contributo esploreremo alcuni punti di contatto fra la moda, lo stile, e il tempo libero. Lo stile è un elemento importante, e non è un caso se una delle categorie che vengono utilizzate dall’industria dell’abbigliamento per creare e diffondere i propri prodotti è proprio quella del «tempo libero». L’abbigliamento associato a questa categoria è generalmente comodo e informale, e in ciò si differenzia dagli abiti che si indossano nelle

occasioni più formali, che tendono a essere più eleganti, ma spesso anche meno comodi. Sfogliando i giornali, mi imbatto in un articolo che vanta il fatto che il pigiama stia diventando un abito da sfoggiare in occasione di serate chic, inaugurando un’importante transizione dallo sleepwear (abbigliamento da notte) allo streetwear (abbigliamento da strada). La tendenza, peraltro ampiamente documentata in un articolo apparso sul sito italiano di «Vanityfair» nel 2020, avrebbe conquistato personaggi dello spettacolo come Rihanna, Selena Gomez, o Victoria Beckham, che si sono fatte fotografare con il pigiama riqualificato. La rivoluzione, o meglio, la trasgressione che sottende questo impiego inedito del pigiama sta nel portare un abito che di solito è confinato nella sfera domestica, al tempo e ai ritmi dell’intimità personale, in un contesto aperto e pubblico. Altro trend decisamente in linea con il nostro tema, e ampiamente diffuso dai siti di moda specializzati, è quello della cosiddetta leisure capsule, espressione inglese che indica delle linee di abbigliamento, create dai marchi più popolari, pensate appositamente per il tempo libero (leisure in inglese che significa proprio relax, tempo libero). Come ci informa il sito teamworld.

it, «nell’ambiente della moda, la prima capsule collection ha visto la luce nel 2004» (tra gli ideatori, anche lo stilista e fotografo tedesco Karl Lagerfeld). Le capsule collection, prosegue il sito, «nascono dall’esigenza di restare sempre al passo con il continuo cambiamento della moda, e di rendere prodotti firmati da grandi nomi economicamente alla portata di tutti». Altro fenomeno rilevante, sempre legato al binomio abbigliamento-tempo libero, è quello associato al termine athleisure. Il vocabolo, un neologismo coniato negli ambienti modaioli, deriva dalla convergenza dei termini inglesi athletic e leisure. L’etichetta rimanda a uno stile di abbigliamento molto versatile e particolarmente in auge negli ultimi anni, che incoraggia combinazioni di abiti, calzature, o accessori sportivi, o semplicemente comodi e informali. Ne dà notizia il sito thismarketerslife.it affermando, molto eloquentemente, che «tutto è cominciato con i leggings. I leggings hanno fatto quello che le t-shirt non erano ancora riuscite a fare: sdoganare definitivamente l’abbigliamento sportivo ed elevarlo ad abbigliamento per tutti i giorni, lavoro, scuola, spesa, eccetera». Ciò che si può evincere da queste parole è che, sull’arco degli ultimi decenni, l’abbigliamento comodo e informale si

è diffuso in modo significativo, segno inequivocabile che il tempo libero, e l’abbigliamento sportivo-informale che lo caratterizzano, piacciono. Ad alimentare i trend che abbiamo riportato qui hanno contribuito molti fattori, non da ultimo la popolarità di alcune figure pubbliche che hanno prestato la loro immagine a noti marchi della moda e dello sportswear. Uno degli ambasciatori mediatici in questo ambito è sicuramente stato Micheal Jordan, l’atleta che, negli anni Novanta, cambiò letteralmente il gioco del basket. Alcuni suoi tratti caratteristici, dalla lingua fuori mentre giocava, all’eleganza delle movenze, a quel suo modo di portare i pantaloncini fin quasi sotto il ginocchio, diventarono ben presto i nuovi sintagmi attraverso cui prese forma una nuova estetica del basket e dello streetwear. Forse fu proprio quel suo stare a metà strada fra cielo e terra, mentre gli avversari si arrendevano alla forza di gravità, a renderlo un mito vivente. La stella di Jordan fu così folgorante che, anche a distanza di anni dal suo ritiro, la sua linea di scarpe e di abbigliamento sportivo targata Nike continua a essere fra le più vendute e desiderate dai giovani, che riconoscono nel simbolo iconico dell’uomo che vola le loro aspirazioni e i loro sogni.

È quindi naturale, in un certo senso, che nel descrivere le molte sfumature del tempo libero, ci si imbatta nel binomio moda-tempo libero; anche perché è la moda stessa, attraverso il manifestarsi dei suoi trend stagionali, a suggerirci il carattere fluido, sfuggente, ed elusivo della realtà. Luogo simbolo di questi incontri, transizioni, e intrecci fra tempo libero e moda è sicuramente la strada, che per definizione permette, sotto la spinta delle nuove generazioni, la diffusione trasversale delle nuove tendenze che seguono canali come la musica, il cinema, e l’abbigliamento. Del resto, come afferma Patrizia Calefato nel libro La moda e il corpo (Carocci, 2021), «la strada è il luogo dove il gusto sperimenta l’atmosfera del tempo, è la zona d’incrocio tra culture e tensioni, è lo spazio fisico e metaforico entro cui la città acquisisce il suo senso in virtù di pratiche sociali condivise». Perché la strada è, forse e soprattutto, il luogo che meglio manifesta il fascino che l’esperienza del tempo libero esercita sul nostro immaginario. L’avevano capito, già diversi anni fa, Charles Baudelaire e Walter Benjamin, quando descrivevano il flâneur, figura che forse più di altre incarna l’estetica e il fascino discreto del tempo libero.


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TEMPO LIBERO

Nella terra della Malvasia Reportage

Tra le mura della fortezza medievale Monemvasia, un importante castello del Peloponneso

Simona Dalla Valle, testo e foto

«Mia signora Monemvasià, mia nave di pietra. Hai mille fiocchi e mille vele. Sei immobile e mi fai navigare in tutto il mondo». Con queste parole Ghiannis Ritsos si rivolgeva a Monemvasia, la sua città natale, sede di una delle più importanti fortezze medievali della Grecia. La «nave di pietra» a cui si rivolgeva il poeta è un’imponente roccia calcarea staccatasi dalla terraferma nel 375 d.C. a causa di un terremoto, sito di un suggestivo borgo di vicoli e di una potente fortezza medievale. L’arrivo a Monemvasia provoca meraviglia e stupore. Guidando da Neapolis lungo la strada costiera, all’altezza della spiaggia di Ambelakia si inizia a intravedere uno spuntone roccioso alto qualche centinaio di metri, più imponente e suggestivo mano a mano che ci si avvicina. Se si decide di pernottare nella città vecchia occorre abbandonare l’auto lungo l’unica striscia di terra che colma il divario tra l’isola rocciosa e la parte più moderna, detta Gefyra, situata sulla costa della Laconia. Fino al XIX secolo la strada consisteva in una struttura dotata di un ponte levatoio in legno che era sollevato in caso di attacco nemico. Il nome della città deriva dal greco Μόνη Έμβασις, che significa «unico accesso». Varcata la piccola porta che conduce all’interno del paese non vi sono veicoli; solo pedoni e muli possono circolare sulle (scivolosissime) strade lastricate e un tempo calpestate da Veneziani e Ottomani. Tutt’intorno locande, botteghe, piccole gallerie d’arte e qualche manciata di chiese. La città e la fortezza furono fondate nel 583 da greci in cerca di rifugio dall’invasione degli Àvari, popolazione di origine slava, durante il regno dell’imperatore bizantino Mauricius. Dal X secolo la città divenne un importante centro commerciale e marittimo. La fortezza resistette alle invasioni arabe e normanne nel 1147; al suo interno si coltivavano campi di mais che sfamavano fino a trenta uomini. Guglielmo II di Villehardouin, principe di Acaia, la conquistò nel 1248, dopo tre anni di assedio; ma nel 1259 Guglielmo fu catturato dai Greci e tre anni dopo il castello fu restituito a Michele VIII Paleologo come parte del suo riscatto. Monemvasia rimase parte dell’impero bizantino fino al 1460 e in seguito fu dominata in modo alternato da Veneziani e Ottomani. I primi anni fu soggetta alla protezione di Papa Pio II. Ma nel 1464 gli abitanti reputarono il Papa incapace di proteggerli, ammettendo una guarnigione veneziana. La «roccia» fu governata dai Veneziani fino al trattato del 1540, che costò alla Repubblica Nafplio e Monemvasia, gli ultimi due possedimenti sulla Grecia continentale. Gli Ottomani governarono la città fino alla breve ripresa veneziana del 1690, quando il castello fu consegnato alle truppe del doge Francesco Morosini, e poi di nuovo dal 1715 al 1821. Durante il dominio ottomano Monemvasia era nota come Menekşe («Viola» in turco). Il secondo periodo di dominio ottomano durò fino al 1821, anno in cui il castello fu ceduto al principe Alexandros Kantakouzinos, plenipotenziario di Dimitrios Ypsilantis. Monemvasia divenne parte del nuovo stato greco nel 1828. Lo sviluppo urbano di Monemvasia fu determinato dalla conformazione del terreno. La città-castello

Vista dall’alto della città bassa di Monemvasia, con l’antico percorso fortificato detto voltes; al centro, Haghia Sophia; sotto, vista della rocca da Gefyra; una via della città alta.

comprendeva gli insediamenti abitativi della città superiore e inferiore insieme all’area di Gefyra. Le due parti della città erano collegate da un tortuoso percorso fortificato noto come voltes. La città superiore era costruita su un altopiano in pendenza, natu-

ralmente fortificato e inaccessibile via terra, e copriva la superficie di circa 120 stremma (120mila mq). Durante il periodo bizantino era il centro amministrativo e militare della città-castello dove risiedeva la classe dirigente e la nobiltà. Nel periodo

della prima dominazione veneziana, la città alta fu gradualmente abbandonata. Durante il secondo periodo del dominio ottomano, questa era la parte della città riservata esclusivamente ai funzionari e dignitari turchi. Dopo l’istituzione del moderno Stato

greco sotto il governo di Kapodistrias, alcuni degli edifici esistenti furono riparati per servire come prigione e quartieri della guarnigione. La città bassa fungeva da centro commerciale con le sue officine, i negozi e le case dei mercanti e dei marinai. Oltre alle case, si hanno testimonianze di 27 chiese che, secondo le fonti scritte, erano chiese parrocchiali, katholikons del monastero, cappelle e chiese familiari. L’edificio meglio conservato è la chiesa di Hagia Sophia, arroccata su una scogliera a picco sul mare. Costruita nel XII secolo con una cupola ottagonale, presenta un nartece sul lato occidentale e una cisterna su quello meridionale. Fonti scritte confermano che la chiesa era dedicata a Panagia Hodegetria, la Vergine Maria che guida il cammino, e dopo la guerra d’indipendenza greca del 1821 fu ri-dedicata alla saggezza di Dio perché considerata una replica fedele della Hagia Sophia di Costantinopoli. Durante la dominazione veneziana l’edificio fungeva da chiesa cattolica, mentre fu convertito dagli Ottomani in una moschea musulmana conosciuta come Moschea di Fethiye o di Solimano. Il criterio fondamentale per la scelta del sito su cui fondare una città in epoca bizantina era l’acqua. La mancanza di fonti d’acqua naturali a Monemvasia impose la creazione di un sistema di approvvigionamento idrico altamente organizzato, con la costruzione di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, le cui pareti erano rivestite di malta idraulica allo scopo di renderle impermeabili. Vi erano inoltre cisterne private costruite al livello inferiore delle case. Una curiosità: il nome italiano di Monemvasia è Malvasia, e il paese è il luogo di origine dell’omonimo vino dolce. I commercianti della zona commerciarono il vino dal XII secolo con il nome di Monemvasio, Monemvasioti o Monemvasia, e i veneziani lo vendettero in Occidente con il nome Malvasia. Il periodo d’oro si concluse con l’occupazione turca di Monemvasia, che portò alla distruzione di tutti i vigneti della penisola. In Europa, tuttavia, il nome continuò a essere usato per vari vitigni non correlati. Lo stesso William Shakespeare menzionò il vino in diversi drammi tra cui il Richard III, dove il Duca di Clarence viene annegato in un malmsey-butt – una botte di Malvasia. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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Anno LXXXV 20 giugno 2022

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La parodia enologica di Lorenzo il Magnifico Vino nella storia

Nel suo Simposio molti i riferimenti alla bevanda cara a Bacco

Davide Comoli

Il 1400 è per Firenze un’epoca di straordinario splendore culturale e artistico. È la Firenze che – nell’arco di sessant’anni, tra l’insediamento alla Signoria della città di Cosimo de’ Medici (1389-1464) e la morte di suo nipote Lorenzo il Magnifico (1449-1492) – vede costituirsi in città la più alta concentrazione di «geni» che mai si è vista nella storia della civiltà occidentale. Tra le sue vie impreziosite dalla più elegante architettura che abbia mai onorato una città, non sarebbe stato infrequente incontrare Donatello, il giovane Michelangelo, Leonardo da Vinci, l’enciclopedico Pico della Mirandola, Sandro Botticelli o magari, tenendosi alla larga, il cupo fra’ Girolamo Savonarola. Tra costoro, l’artista che è sempre al fianco di Lorenzo de’ Medici e in larga misura lo influenza è senza dubbio alcuno Angelo Ambrogini, detto il Poliziano (Montepulciano 1454-Firenze 1494). Nulla ci è pervenuto che ci faccia avere idea se il Poliziano sia stato un’amante della bevanda sacra a Bacco, ma il vino compare con una certa frequenza nella sua poesia. Gli studi biografici sulla vita di Lorenzo de’ Medici, ascrivono la stesura del Simposio (componimento gradevole e poco conosciuto, dove il vino è cantato in parodia) tra gli anni 1466-1467. Il vino è il filo conduttore di tutto il poemetto ed è la materia prima che serve per canzonare e rivelare gli aspetti meno ufficiali della vita dei fiorentini dell’epoca. I primi biografi di Loren-

zo parlano di una stesura a getto quando aveva 18 anni, il che dimostra la sua precoce vena letteraria. Attraverso questo poemetto a tema enoico, affiorano così molti aspetti dell’immagine del vino nella Firenze del 1400. In quest’opera molti sono i versi che richiamano le espressioni usate da Dante e Petrarca. Il collegamento con Dante è evidente fin dall’esordio della parodia enologica del Magnifico, dato il celebre inizio della Divina Commedia: «Nel mezzo di cammin di nostra vita», infatti, il Simposio si apre con «Nel tempo ch’ogni fronda lascia il verde, Bacco per le ville e in ogni via si vede a torno andar». Così come Dante trova guide che lo accompagnano nel suo viaggio (Virgilio e Beatrice), anche Lorenzo si avvale dei suoi due mentori: Bartolo Tebaldi e Nastagio Vespucci, sommi… mangiatori e bevitori. Lorenzo, nel poema, si trova in una fitta calca di persone. Tutti procedono nella stesse direzione e di gran fretta. Ma dove vanno? Questa è la domanda rivolta a Bartolino (Bartolo), la risposta è semplice, si recano di fretta a ponte Rifredi a bere vino appena spillato dalla botte dell’oste Giarnesse. In questa lesta corsa davanti a Lorenzo sfilano tutti i beoni fiorentini attratti dall’irresistibile profumo di vino. Da questo originale catalogo di ubriaconi fiorentini del XV sec., abbiamo scelto di riproporre alcuni caratteristici personaggi che compongono l’originale processione.

Lorenzo il Magnifico incontra Michelangelo; affresco di Ottavio Vannini (1585-1643) a Palazzo Pitti, Firenze. (www.palazzomediciriccardi.it)

Il primo ama talmente il vino da essere conosciuto con il nome «Acinuzzo». Il secondo ubriacone che estrapoliamo dalla processione (cap. VIII) è anche a suo modo un personaggio storico, si tratta del grasso piovano Arlotto, prete della campagna mugellana, le cui burle proverbiali ci sono state tramandate da un anonimo contemporaneo di Lorenzo nei Motti e facezie del piovano Arlotto. (Arlotto significa ingordo). L’Arlotto ha sempre con sé la fiasca per il vino e nel Simposio così viene descritto «Quest’è il piovan Arlotto e non gli tocca il nom indarno né fu posto a vento (a caso) sì come secchia è molle (bagnato di vino). Costui non s’ingi-

nocchia al Sacramento (all’Eucarestia) quando si leva, se non v’è buon vino, perché non crede che Dio venga dentro». È quantomeno intrigante l’immagine di Dio data qui, il quale potrebbe rifiutare sdegnato il sangue di Cristo se questo implica un vino dalle caratteristiche scadenti. Tra i tanti, la Malvasia è un vino che piace molto a un altro personaggio, Antonio del Vantaggio, un oste che beve più vino di quanto ne vende. Sperpera denaro in ogni taverna di Firenze e, dato che nella sua bottega non riesce a tenere la preziosa Malvasia, va a berla dal collega Candiotto, un taverniere che prende il nome da Candia, rinomata per le sue Malvasie. E Lo-

renzo così lo descrisse «Costui taverna fa, ma ne fa male ch’egli ha bevuto tanto in capo all’anno, che non gli resta mai in capitale. El Fico el Buco e le Bertucce el sauro e perché Malvagia non ha n bottega al Candiotto ancora fa spesso danno». Nel Simposio si trovano altri divertenti modi di dire «El vin gli fa puzzo» (il vino gli fa schifo), «Per sé e un compagno uccide» (tracanna per due), «Beve sol col naso una vendemmia» e chi «Al tornar un baril frode» (perché prima di rientrare tra le mura della città ha ingerito tanto vino da far passare di frode l’equivalente di un barile), «Come el cammel ha soma egli» (tanto pieno di vino). L’arguto piovano Arlotto e Lorenzo il Magnifico condividono una speciale considerazione per l’acino d’uva e il primo si meraviglia che il buon Dio non abbia fornito maggior protezione «Per quale ragione al chicco d’uva è data tanta poca difesa, che ogni piccola goccia lo offende, e lo sciupa, è un frutto così prezioso che puoi vedere il liquore nobile che produce e quale nutrimento da». Forse non tutti conoscono il Simposio del Magnifico, ma di certo tutti conoscono la Canzona di Bacco che esalta la giovinezza, l’amore e il vino, così all’improvviso anche a noi capita di canticchiare quasi come un’invocazione «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza». Annuncio pubblicitario

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TEMPO LIBERO

Dall’Ottocento a oggi Gastronomia

Tra le molte mode ve ne sono alcune che restano, trasformandosi in piatti tradizionali no» e spiegarne a fondo il perché è difficilissimo. A questo punto vediamo, in grande sintesi, alcune recenti mode che oramai si sono imposte. Come nell’Ottocento l’origine del nuovo era francese, oggi invece le novità arrivano dall’Asia Orientale: succede. Anzitutto: la scoperta del crudo, per il pesce prima, per la carne e altro dopo. È una moda figlia di… frigoriferi e freezer. Prima della loro invenzione gli ingredienti, mal conservati, dovevano essere cotti per sanificarli. Oggi, che sono ben conservati, non è più necessario. Altra moda: tagliare a pezzi sottili gli ingredienti e saltarli rapidamente. È figlia del wok cinese, divenuta negli anni parte di moltissimi piatti di tutte le tradizioni, arricchiti e alleggeriti, seguendo questa tecnica. La ragione per cui si è affermata questa tecnica è più che spiegabile perché nei ristoranti ha un food cost (ovvero guadagno) favoloso e a casa fa guadagnare tempo. La terza moda: i poke, del quale ho dato molte ricette negli ultimi due anni (la prima nel novembre del 2020). È un piatto di origine hawaiana come si può evincere dal nome. In quelle belle isole è un piatto a base di pesce diliscato variamente condito e nappato con salse e basta. Migrando, si è aggiunto del riso bianco a grana lunga, sul quale veniva appoggiato il pesce. Oggi, ha una base di qualsiasi amido, guarnita con pesce ma anche altre proteine, crudi o poco cotti, nappato con salse. In sintesi, è l’epitome del piatto unico. Quarta moda: la marinatura. Nella nostra tradizione si marinava solo la selvaggina, in Asia Orientale e ora da noi (più nei ristoranti, meno a casa), non tutto ma di tutto. È utile per accelerare i tempi di cottura. Quinta: la gioia del mescolare ingredienti, anche carne e pesce, senza limiti; questa è la moda che io più amo, e che molto ha inciso nella cucina di alta gamma.

Come si fa?

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La parola moda non piace ai più, che preferiscono invece e di gran lunga dichiarare con orgoglio che, loro, non seguono le mode. Io non sono d’accordo. Trovo la parola moda del tutto neutra: è semplicemente la constatazione di una realtà che riguarda tutti. La definizione esatta è: aspetto e comportamento di una comunità sociale secondo il gusto particolare del momento. Nulla di strano. Due esempi: di tutti i membri della camera britannica dei Lord sono stati fatti quadri e poi foto. Bene, nel 1800 tondo il 90 per cento non aveva la barba e il 10 percento l’aveva. Esattamente un secolo dopo, nel 1900, il 90 per cento l’aveva e il 10 percento no. Solo qualche grande antropologo potrebbe spiegare la genesi di questa moda, a noi non resta che notarla. Altro esempio: lo stile rococò, in voga fra il 1700 o un po’ dopo e il 1780, è uno stile ornamentale che fu di gran successo in Francia, ricco di elementi ispirati… alla Cina, chissà perché e percome; non è infatti del tutto noto, nonostante la ricerca di molti storici dell’arte. Però moda fu. Anche la cucina è soggetta alle mode. In linea di massima, c’è sempre una ragione profonda che giustifica il fatto che una tradizione venga arricchita da stimoli esterni, mentre magari un’altra no, pur essendo di uguale intensità gli stimoli. Quindi, ad esempio, che la patata, domesticata 10mila anni or sono nelle Ande, abbia avuto successo, in Europa, prima nel mondo nordico che nel mondo mediterraneo è «logico», dato che era una coltura estremamente produttiva in quei climi. Oppure la moda del servizio all’italiana detto anche all’americana, con il cibo che arriva già impiattato dalla cucina, fu figlia del fatto che questa procedura razionalizzava e di molto il servizio nei ristoranti, diminuendo i costi. Però esistono mode che «accado-

Pixabay.com

Allan Bay

Oggi vediamo come si fanno due ricette a base di quinoa, che è una pianta erbacea della famiglia di spinaci e barbabietole, ma i cui semi, opportunamente lavorati, sembrano e sono considerati un cereale, quindi viene definita un quasi cereale.

Ecco la cottura di base: sciacquate la quinoa e lessatela in un tegame nel doppio del suo peso di brodo vegetale bollente e (poco) salato fino a quando non avrà assorbito tutto il brodo. Fuori dal fuoco aggiungete un filo di olio. È un mantra della cucina vegana, anche se alla fine è altrettanto cereale di tutti gli altri. Arancine di riso e quinoa (ingredienti per 4 persone). Mescolate in una ciotola 250 g di quinoa cotta e altrettanto riso lessato. Unite 100 g di ragù, 40 g di piselli lessati e 80 g di mozzarella tagliata a cubetti fatti scolare per 20 minuti in un colino. Regolate di sale e di pepe, amalgamate il composto e formate le aran-

cine, poi raffreddatele in frigorifero per un’ora. Trascorso il tempo, passatele in latte e poi nel pane grattugiato e friggetele in olio di semi ben caldo, scolatele su carta per fritti. Servitele calde. Involtini di quinoa e melanzane alla piastra (per 4 persone). Ricavate da 2 melanzane grosse 12 fette sottili. Grigliate le fette di melanzana uniformemente sulla bistecchiera ben calda. Adagiatele su un piatto e conditele con un filo di olio, un cucchiaino di origano in polvere, sale e pepe. Farcitele con 300 di quinoa appena cotta e formate gli involtini. Serviteli irrorati con sugo di pomodoro leggermente scaldato.

Ballando coi gusti

Oggi vi propongo due polpette, ghiotte tanto da piacere a tutti.

Polpette di merluzzo allo yogurt

Polpettine di carni miste al peperoncino

Ingredienti per 4 persone: 350 g di polpa di merluzzo – 150 g di mollica di pane – yogurt intero – senape – 1 uovo – prezzemolo tritato – noce moscata – 1 bicchiere di latte – 50 g di burro morbido – olio per friggere – sale.

Ingredienti per 4 persone: 100 g di polpa macinata di manzo – 100 g di polpa macinata di maiale – 100 g di polpa macinata di vitello – 100 g di mollica di pane – farina bianca – 1 uovo – 1 cucchiaio di cipolla tritata – 1 spicchio di aglio pelato e tritato – triplo concentrato di pomodoro – ½ cucchiaino di peperoncino in polvere – 1 cucchiaino di semi di cumino – 1 bicchiere di latte – olio per friggere – sale.

Spezzettate il pane, mettetelo in una ciotola con il latte tiepido e lasciatelo assorbire. Cuocete il pesce per 4 minuti al vapore. Frullate a intermittenza la polpa di pesce con il pane ben strizzato e il burro morbido. Versate il composto nella ciotola, regolate di sale e di prezzemolo, unite l’uovo leggermente battuto e la noce moscata. Impastate e formate delle polpette di forma ovale, schiacciatele leggermente. Friggetele in una padella con olio su entrambi i lati. Ponetele su un piatto da portata caldo e servitele, accompagnando con un’emulsione di yogurt e senape e se volete con patate novelle cotte al vapore.

In una ciotola mettete le tre carni e mescolatele. Unite la cipolla, l’aglio, il pane bagnato nel latte e strizzato, l’uovo, una buona presa di sale, 1 punta di concentrato stemperata in poca acqua e le spezie. Impastate fino a ottenere un impasto compatto. Formate delle polpettine ovali e infarinatele leggermente. In una padella scaldate l’olio e friggete le polpettine, poi scolatele su carta per fritti. Servitele con patate lesse condite con olio, sale, aceto e prezzemolo tritato.


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La collana trasformista Crea con noi

Scampoli di stoffa e bottoni colorati danno vita a un accessorio vivace che si indossa anche come bracciale

Giovanna Grimaldi Leoni

Resti di stoffa e bottoni sono i protagonisti di questo nuovo tutorial che vi permetterà di ri-utilizzarli per creare una collana tessile trasformista che può essere indossata anche come bracciale o fascia per

Procedimento Prendendo un bicchiere come misura ricavate dai resti di stoffa almeno 16 cerchi. Potete utilizzare le stoffe che preferite ma abbiate cura che non siano di quelle che sfilacciano troppo e non siano troppo spesse. Piegate i vostri tondi a metà, quindi prendete il primo semicerchio e con ago e filo cucite la parte tonda a punto filza, tirate bene il filo in modo che il semicerchio si arricci formando un petalo e proseguite infilando allo stesso modo tutti i semicerchi. Fate in modo che i «petali» così formati si alternino una volta a sinistra e una volta a destra del filo (vedi fotografia). Una volta uniti tutti i petali, annodate il filo in modo che i petali restino ben stretti tra loro. Ora cucite al centro della fascia così creata una serie di bottoni di colore e misura diversi utilizzando un filo che crei un bel contrasto. Fissate la fascia così creata e decorata alla fettuccia. Io ho utilizzato 120cm di fettuccia color jeans leggermente elastica, in modo da poterla annodare dietro il collo creando un fiocco, ma regolate la lunghezza della collana e il posizionamento della decorazione secondo il vostro gusto personale e la vostra fisicità. Potete compiere questa operazione davanti a uno specchio in modo da valutare dove volete che la collana vada a posarsi. Rifinite i due lembi della fettuccia

capelli. I colori sono quelli vivaci e brillanti della bella stagione ma potete crearla nei toni che più preferite per arricchire e completare con originalità anche i vostri outfit più semplici.

Giochi e passatempi Cruciverba

«Mario, stanotte ho fatto scintille!» – «Amore focoso?» Trova la risposta dell’amico leggendo, a cruciverba risolto, le lettere evidenziate. (Frase: 9, 2, 7, 8)

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33. Catasta di legna per... condannati 34. Punto cardinale 36. Chicco succoso 37. Diligente, scrupoloso VERTICALI 1. Insufficiente 2. Oscilla nella bussola 3. Nocciolo di prugna 4. Che dà letizia, gradevole 5. Gli auguri che si fanno di solito 6. Scorre... perfido 7. Con altri diventa noi 8. Figlio di Zeus 10. Timorati di Dio 12. Se le dà lo spocchioso 15. Sono delle miscredenti

cucendo un ulteriore semicerchio andando a formare un piccolo petalo da ambo i lati. Aggiungete a piacere altri dettagli, bottoni o charms. La vostra collana è pronta per essere sfoggiata e trasformata all’occasione in bracciale avvolgendola intorno al polso o in fascia per capelli, per look sempre originali e all’insegna del colore. Buon divertimento! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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• Resti di stoffa • Bottoni • Filo da cucito e ago • Un pezzo di fettuccia • Forbici (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

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ORIZZONTALI 1. Inquietudine, apprensione 5. Merletto 9. Cambia nome a mezzanotte 10. Coppia 11. Apparire senza aprire 13. Simbolo chimico del cobalto 14. D’estate ha macchie bianche 16. Per... a Londra 17. Piccolo a Parigi 18. Tutt’altro che valorosi 19. Trasmette caratteri ereditari 20. Modello perfetto 22. Processione 24. C’è quello botanico 25. Proteggono le mani degli spadaccini 26. Un frutto 29. Navigatore d’altri tempi 30. Sicuri 31. Nel volume e nel fascicolo 32. Iniziali della figlia di Gino Paoli

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Materiale

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16. Respiro 17. Un anagramma di prese 18. Un appellativo della madre di Gesù 19. Ghiotta 21. «Di cui» a Parigi 22. L’Ultima... opera di Leonardo da Vinci 23. Compose l’Iliade e l’Odissea 27. Misura agraria di superficie 28. Nome maschile 30. Si ripete brindando 31. Si contano a scopa... 33. Lettera dell’alfabeto greco 35. Le iniziali del compositore Respighi

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Soluzione della settimana precedente L’altro ponte sospeso più lungo del mondo insieme a quello dei Dardanelli si trova: IN GIAPPONE ed è lungo circa: QUATTRO CHILOMETRI.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Ascoltare l’oceano

L’ultimo numero di una popolare guida turistica è dedicato… all’oceano (The Passenger, Oceano, pp. 192, € 19,50). Curioso ma utile. Per cominciare colma una lacuna nelle nostre conoscenze: abbiamo mappe infinitamente più dettagliate della superficie lunare che dei fondali oceanici. E poi, come ogni guida, anche questa vuole ispirare viaggi futuri. L’oceano copre il 70 per cento della superficie del nostro pianeta tanto che, considerate da un diverso punto di vista, le masse terrestri appaiono come isole sparse nella distesa delle acque. Oltretutto questo terzo scarso di mondo all’asciutto è ulteriormente diviso in circa duecento Stati che, come in questi giorni, si contendono con le armi lembi di territorio. Vista dall’oceano, la guerra è un’attività davvero stravagante. Ma sugli oceani non succede mai nulla, direte voi, a parte il regola-

re succedersi delle onde. Tanto per cominciare le onde non sono affatto banali. Secondo leggi fisiche ancora piuttosto misteriose si sollevano, cambiano colore, si ripiegano su sé stesse; e una piccola increspatura in mezzo al nulla può trasformarsi in un maroso che si abbatte sulla costa a migliaia di miglia di distanza, con forza distruttiva. Ovunque siate, il novanta per cento dei prodotti di uso quotidiano intorno a voi è stato trasportato per mare, su gigantesche navi cargo: gli apparecchi elettronici (Cina, Giappone), i vestiti (Pakistan, Sri Lanka), così come il caffè o la frutta (Sud America)… Per garantire questi servizi quasi due milioni di persone lavorano sulle navi mercantili ma sono solo una parte del popolo del mare; ne fanno parte anche pescatori (legali e di frodo), lavoratori offshore sulle piattaforme petrolifere (un mestiere in-

Passeggiate svizzere

grato ma ben pagato), oltre a un numero insospettabile di vagabondi del mare, gente che ha mollato tutto, casa e carriera, per una vita in barca a vela, semplice e avventurosa. L’oceano nasconde pericoli. Nel 2021 ancora centocinquanta navi sono state attaccate dai pirati e, nonostante la navigazione satellitare e dettagliatissime previsioni meteo, nell’ultimo decennio oltre ottocento imbarcazioni sono andate a fondo. Lontano dai nostri occhi e dai nostri pensieri, l’oceano si misura con difficoltà crescenti. La plastica è ovunque. La pesca eccessiva mette a rischio l’esistenza di numerose comunità costiere; secondo la FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) circa il novanta per cento degli stock ittici marini del mondo sono completamente sfruttati, sovrasfruttati o esauriti.

L’oceano è fondamentale per combattere il cambiamento climatico, perché regola il clima e immagazzina grandi quantità di carbonio. Ma da qualche tempo, nelle sue parti meno profonde, l’acqua sta diventando sempre più calda e acida. Questo danneggia soprattutto le barriere coralline, che sono l’habitat di un quarto di tutte le specie marine. Molto si deciderà nei prossimi dieci anni, non a caso proclamati Decennio del mare dall’Unesco. Ma prima di ogni azione serve una consapevolezza nuova. Per questo un viaggio, reale o immaginario, sulle distese liquide dell’oceano è forse davvero necessario, nella prospettiva di una conversione profonda verso un mondo più sostenibile. Il simbolo di questa nuova intesa tra l’uomo e il mare potrebbero essere le balene. Per secoli sono state cacciate con feroce determinazione per il

prezioso olio ricavato dal loro grasso. Ma questi giganteschi animali sono molto più di una fonte di materia prima. Nuovi studi ne sottolineano l’intelligenza (seppure di un tipo diverso dalla nostra), la capacità di provare emozioni, di stabilire e mantenere legami sociali. In alcuni casi le balene hanno dato prova di empatia, di comprensione dei sentimenti altrui. Inoltre negli abissi oscuri la vista è inutile, mentre il suono viaggia cinque volte più veloce rispetto all’aria. Per questo le balene hanno un cervello predisposto all’ascolto: niente rimane nascosto al loro potente sonar e grazie all’eco sono in grado di vedere anche attraverso gli oggetti solidi, di distinguere le strutture interne. Imitare le balene e sviluppare una nuova capacità di ascolto degli oceani: forse è proprio questo che ci manca.

di Oliver Scharpf

Il mausoleo Maurice Sandoz a Chardonne ◆

Sopra Saint-Saphorin, tra i vigneti, al bordo dell’autostrada, sorge un assurdo tempietto greco-romano. Ex ottocentesco pavillon-rimessa per barche di una villa a Losanna riconvertito in mausoleo nel 1958, questo tempietto con vista mozzafiato sul Lemano è avvolto dalla maledizione di un’isoletta napoletana. Suicidatosi saltando giù dalla finestra di una clinica psichiatrica, lì, per sua volontà, riposa Maurice Sandoz (1892-1958): autore non conosciutissimo di raccontini misteriosi stile Edgar Allan Poe, collezionista di automi musicali, compositore, figlio del fondatore della famosa industria chimico-farmaceutica. L’assurdità e il mistero di questo posto mi motivano a salire di buon passo, in mezzo ai ripidi vigneti del Lavaux. Non proprio una passeggiata rintracciarlo senza nessuna indicazione. Il punto di riferimento, se volete avventurarvi anche

voi, magari, un giorno, alla sua ricerca, è il Chemin d’Ogoz. A un certo punto di questa stradina sul territorio del comune di Chardonne, scorgerete delle inusuali conifere, a fianco delle quali, protetto da una siepe di cipresso, c’è il mausoleo Maurice Sandoz (551 m) al quale mi avvicino a metà giugno, verso sera. Costruito nel 1813 per Henry Andrew de Cerjat (1758-1835), colonnello del sesto reggimento inglese dei Dragoni, e sua moglie Susan, come insolita rimessa per barche in stile neoclassico, sfoggia quattro colonne con capitelli ionici che guardano l’autostrada A9. Disegnato da Henri Perregaux (1785-1850), figlio dell’architetto del pollaio neogotico del parc du Désert a Losanna, in pericolo per via dell’allargamento di una strada, lo compra l’autore di Souvenirs fantastiques (1936) e Trois histoires bizarres (1939) il cui nome – inciso su un mo-

Sport in Azione

saico così così che riempie l’arco dove entravano le barche – si legge a malapena. Per rimontarlo, con lo stesso scopo, nella sua dimora a Tour-dePeilz. Progetto irrealizzato finché nel 1955, cambio di rotta: depositato lì per anni, viene trasportato qui e rimontato, pezzo per pezzo, in vista di una nuova vocazione funeraria. Orientato in origine con le colonne verso il lago, Jack Cornaz (18861974), architetto locale fuori dal coro incaricato della sua ricostruzione, lo gira. Alla morte di Maurice Sandoz, il fratello, scultore animalier, si occupa di far deporre le ceneri e tutto il resto. Mi arrampico sopra e sbircio dentro le vetrate. Sul pavimento, un lungo epitaffio-poema crea un tramite tra il visitatore e il defunto attraverso l’invocazione a farsi sedurre dal paesaggio e termina così: «presta ai miei occhi di morto le tue lacrime di vi-

vente». Due uccelli in ferro battuto si baciano con il becco. In un altro mosaico senza infamia e senza lode, si notano maschere teatrali, ampolle da laboratorio, microscopio, cetra; simboleggiano banalmente alcuni interessi di Maurice Sandoz. Proprietario, per poco, della villa maledetta sull’isolotto tufaceo la Gaiola, di fronte a Posillipo. Oggi in rovina, tutti i suoi proprietari, forse per un maleficio risalente ai riti negromantici di Virgilio o per il sadico Pollione che dava in pasto alle murene i suoi servi maldestri, hanno fatto una brutta fine. Come il diciannove novembre 1926, quando una notte di tempesta, Hélène, la bellissima convivente del medico tedesco Otto Brumbach, finisce in mare e muore annegata. Al mattino ritrovano il corpo del medico misteriosamente avvolto in un tappeto, un colpo di rivoltella alla tempia. Il barone Lan-

gheim, durante il suo periodo a Villa Jella come alcuni l’hanno ribattezzata, sperpera tutti i suoi averi al gioco e finisce sul lastrico. Gianni Agnelli, dopo alcuni affari andati male, si libera della villa che passa al miliardario Paul Getty, il cui nipote viene da lì a poco rapito. Nel 1978, la villa e l’isola passano a Gianpasquale Grappone, detto Ninì, la cui compagnia di assicurazioni crolla e lui finisce in carcere travolto dai debiti. Lo stesso giorno della messa all’asta della villa e dell’isola, la moglie Pasqualina muore in un incidente stradale schiantandosi contro un albero. All’ombra di un pino silvestre, una signora grassa, su uno dei due tavolini da picnic tipo area di sosta, da sola, si mangia di tutto. Al tramonto, seduto sul margine del tempietto, nonostante il brusìo autostradale, sono travolto dalla quiete emanata da questa prospettiva lemanica.

di Giancarlo Dionisio

Io miro, tu tiri, egli s’ira? ◆

In realtà ignoro se Domenico Giambonini si irò per l’imbarazzante silenzio dei media cantonali. Nel 1920 ad Anversa, fu il primo ticinese a conquistare una medaglia olimpica, con la pistola a tiro rapido a squadre. Tarcisio Bullo nella sua ricerca Ticino olimpico scrive: «non riesco a spiegarmi come mai di questo suo exploit non si trovi traccia da nessuna parte, se non in alcune pubblicazioni straniere e nel bollettino dei tiratori svizzeri». Segni dei tempi, che tuttavia non impedirono a Giambonini di arrivare serenamente fino al 1956, quando si spense a Bellinzona all’età di 88 anni. Oggi non sfugge nulla. Grazie a videocamere di sorveglianza, media tradizionali e social, occhi indiscreti, e nasi lunghi si sa tutto, di tutti. Sappiamo ad esempio che il tiro è una disciplina sportiva con profonde radici nel territorio nazionale e canto-

nale. Che prima dell’impresa di Noè Ponti, lo scorso anno a Tokyo, l’ultima medaglia ticinese ai Giochi estivi era finita al collo di un tiratore, il malcantonese Michel Ansermet, nel 2000 a Sydney. Sappiamo che un altro adepto di questo sport potrebbe presto ricucire il filo della storia. O per lo meno lo speriamo. Si chiama Jason Solari. Ha 22 anni e vive a Malvaglia. Tira da una dozzina di anni – lui pure con la pistola ad aria compressa – e manifesta una buona dose di consapevolezza. «Per sparare bene servono lavoro, motivazione, ma anche talento». Non sa in che cosa consista il talento, ma sa che sin dalle prime sessioni di tiro ha capito, e gli hanno fatto capire, che lui aveva qualcosa in più rispetto a molti altri. Da quest’anno è inserito nel Progetto olimpico – promosso da Aiuto Sport Ticino e patrocinato da AIL – che

sostiene un piccolo gruppo di atleti di casa nostra, con la chiara e dichiarata ambizione di partecipare ai prossimi Giochi di Parigi nel 2024. Dai risultati si intuisce che per Jason l’obiettivo partecipazione è solo un primo step. Come è accaduto e accade per Noè Ponti, Ajla Del Ponte e Filippo Colombo i risultati parlano. Jason è salito sul podio ai Giochi olimpici giovanili del 2018; è giunto 4° ai recenti Europei assoluti; 2° poche settimane fa in un Meeting internazionale. Quando gli fai notare che, in fondo, a Rio de Janeiro, nel 2016, sul podio olimpico ci è salita la 47enne Heidi Diethelm Gerber, il ragazzo della valle di Blenio replica: «D’accordo, ma se posso preferirei centrare l’obiettivo al primo tentativo. Non si sa mai, fallisci una volta, fallisci due, poi voglia e motivazione vanno a farsi benedire». In un ambito in cui il denaro non

scorre con la copiosità del calcio o del tennis, mantenere alti il desiderio e la voglia di mettersi quotidianamente in gioco è una carta fondamentale. Non è stato facile lo scorso anno, quando la pandemia ha condizionato lo svolgimento di allenamenti e gare. Jason Solari confessa di aver sentito una forte pressione su di sé. Swisshooting, grazie ai suoi risultati giovanili e in virtù del suo talento, gli aveva proposto un contratto da professionista al 50 per cento, che Jason integrava col suo impiego di metalcostruttore a Malvaglia. Non voleva deludere chi gli aveva dimostrato fiducia. «All’inizio non è stato semplice. I buoni risultati non si sono visti subito. Mi allenavo cinque volte alla settimana, tra stand di tiro e palestra. E spesso trascorrevo delle settimane di preparazione intensiva a Macolin sotto la guida di Mauro Biasca. Poi

piano piano ho cominciato a centrare il bersaglio e mi sono tranquillizzato». Il ruolo del tecnico ticinese è stato fondamentale nella crescita del ragazzo, che non ha mai avuto modelli illustri. Nella sua vita non ci sono mai stati un Cristiano Ronaldo o un Roger Federer a disegnare un percorso ideale. Buone guide, sì. «Quando partecipo alle gare osservo i miei avversari, soprattutto quelli più esperti, e cerco di carpirne i segreti». Mancano tre anni ai Giochi Olimpici di Parigi. Il meccanismo di selezione è piuttosto complesso. L’asticella è alta. Ma lui ne parla con grande serenità. Segreto dopo segreto, colpo su colpo, con umiltà e dedizione, Jason riuscirà a coronare il suo sogno. Glielo auguriamo, con la consapevolezza che la sua presenza nella Ville Lumière potrebbe regalarci anche qualche graditissima ed emozionante sorpresa.


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Anno LXXXV 20 giugno 2022

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ATTUALITÀ ●

Israelianità da tradire Nella società ebraica si alzano voci che promuovono la consapevolezza della tragedia palestinese

Il tonfo della Lega in Italia Salvini esce sconfitto dalle amministrative, per ora il Pd è il primo partito del paese

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Standard non più adeguati Gli investimenti sostenibili sono una nebulosa, in Germania il caso DWS fa discutere

Riforme in bilico Sulla revisione dell’AVS si vota il 25 settembre, le legge sul secondo pilastro alle Camere è in forse

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Un altro papa dimissionario? Il punto

I crescenti problemi di salute mettono in dubbio i viaggi apostolici previsti quest’anno e per Bergoglio è tempo di bilanci

Sempre più spesso si trova ad annullare impegni. Raramente ormai può presiedere celebrazioni, mentre l’infiammazione al ginocchio lo costringe sovente a presentarsi davanti ai fedeli o ai potenti della Terra seduto su una sedia a rotelle. Dopo il gesto shock inaugurato da Ratzinger nel 2013, anche per papa Francesco si sta avvicinando l’ora delle dimissioni? La domanda aleggia ormai apertamente in Vaticano, alimentata anche da una serie di decisioni un po’ sorprendenti adottate dal pontefice negli ultimi tempi. Due in particolare: quella di convocare per la fine di agosto un concistoro per la creazione di ben 21 nuovi cardinali di cui 16 elettori in un ipotetico conclave. E poi l’annuncio che proprio in quei giorni si recherà in pellegrinaggio alla basilica di Collemaggio a L’Aquila, il luogo dove è sepolto Celestino V, il primo papa della storia ad aver scelto di dimettersi dal suo incarico, con quello che Dante definì il «gran rifiuto». Davvero – dunque – il pontificato dell’ormai ottantacinquenne Francesco ha imboccato la dirittura d’arrivo? Bergoglio è un papa che ha abituato il mondo a scelte controcorrente. Da settimane ogni mercoledì nelle sue udienze generali dedica le catechesi all’età della vecchiaia, contestando apertamente la «logica dello scarto» applicata al mondo degli anziani. Con premesse di questo genere, appare un po’ improbabile che si lasci spaventare dalla prospettiva di dover governare la Chiesa da una sedia a rotelle. Certo, i suoi problemi di salute si sono fatti più evidenti. Un anno fa – il 4 luglio 2021 – ha subito un intervento chirurgico al Policlinico Gemelli per una stenosi diverticolare del sigma che aveva comportato la rimozione di una parte del colon. Un intervento riuscito, ma che aveva fatto registrare anche alcune difficoltà legate all’anestesia. Anche per questo, nonostante i problemi si trascinino ormai da tempo, in questo periodo l’ipotesi di un intervento al ginocchio non è stata mai realmente presa in considerazione in Vaticano. I benefici delle terapie in corso non si vedono. Al contrario, negli ultimi tempi il pontefice è sempre più spesso costretto a utilizzare la sedia a rotelle, che ha ribattezzato la nuova sedia gestatoria. Il problema vero sono, però, i viaggi che per un pontefice global del XXI secolo non sono affatto un elemento accessorio. Già dover rimanere bloccato per 16 mesi a causa della pandemia era stato vissuto con fastidio da Bergoglio. E questo 2022 nella sua agenda avrebbe dovuto essere un anno segnato da molte visite apostoliche di grande spessore. Invece è

Shutterstock

Giorgio Bernardelli

potuto andare solo a Malta il 2 e 3 aprile. E quella breve trasferta di poche ore si è rivelata per lui comunque faticosissima e probabilmente anche dannosa per la sua salute.

Il pontefice si è speso molto sulla questione della guerra in Ucraina, cercando in tutti i modi di tenere aperto almeno un canale di comunicazione con Mosca Fino all’ultimo Francesco ha cercato lo stesso di tenere fede all’impegno a cui teneva di più in questo 2022, il viaggio in Sud Sudan e nella Repubblica democratica del Congo, due Paesi africani insanguinati da lunghi conflitti. Alla fine, però, ha dovuto gettare la spugna, ascoltando il consiglio dei medici. Decisione peraltro accolta con non poco disappunto a Juba e a Kinshasa, dove parecchie spese per i preparativi erano già state effettuate. E anche per questo motivo Francesco ha chiesto scusa pubblicamente alle popolazioni locali parlando al termine dell’Angelus domeni-

ca 12 giugno in piazza San Pietro e ribadendo la sua volontà di compiere comunque questa visita appena possibile. In forte dubbio c’è poi anche un altro viaggio «sensibile», quello che doveva portarlo in Canada a fine luglio per chiedere perdono alle popolazioni indigene che subirono violenze e morti nel vergognoso sistema delle scuole residenziali cattoliche. Per non parlare di altri appuntamenti, come la visita in Kazakistan prevista per settembre (dove forse avrebbe potuto aver luogo anche l’incontro con il patriarca russo Kirill, oggi nell’occhio del ciclone per il sostegno alla guerra di Putin). Mentre anche l’Indonesia, il più popoloso Stato a maggioranza islamica del mondo, aveva invitato il pontefice a presenziare in autunno a un summit interreligioso che sta organizzando nell’ambito della sua presidenza di turno del G20. Dall’entourage di Francesco si continua a ribadire fiducia nelle cure mediche a cui il papa si sta sottoponendo. Ma la domanda rimane: se non dovessero avere successo, è immaginabile un pontefice che resti a

lungo da papa regnante su una sedia a rotelle? Per ora una risposta probabilmente non ce l’ha nemmeno Francesco. Al di là delle suggestioni evocate dal previsto omaggio a Celestino V, l’aria che tira in Vaticano non è quella di un conclave imminente. Anche perché all’orizzonte c’è nell’autunno 2023 la conclusione a Roma del percorso sinodale, una grande consultazione sulla Chiesa di domani che Francesco ha avviato nel 2021 e vuole diventi una precisa indicazione di metodo per il cattolicesimo del futuro. Sarebbe dunque sorprendente se decidesse di farsi da parte prima di questa scadenza. In più negli ultimi mesi il papa argentino si è speso molto sulla questione della guerra in Ucraina, cercando in tutti i modi di tenere aperto almeno un canale di comunicazione con Mosca per una mediazione che fermi le armi. E nonostante i pochi segnali incoraggianti raccolti, Bergoglio non sembra avere alcuna intenzione di desistere. Contro l’ipotesi di dimissioni imminenti gioca, infine, anche la presenza in Vaticano del papa emerito Benedetto XVI: dopo secoli in

cui nessun pontefice aveva osato fare un passo indietro, la prospettiva di ben due successori di Pietro a riposo per raggiunti limiti di età appare alquanto improbabile. Resta vero, comunque, che – al di là del fatto che duri ancora pochi mesi, qualche anno o chissà quanto – per il pontificato di Francesco è arrivato il momento in cui si tirano le somme. Il 5 giugno scorso, per esempio, è entrata in vigore la sua Riforma della Curia romana, uno dei principali compiti per il quale gli altri cardinali lo avevano eletto nel conclave del 2013. Bergoglio l’ha realizzata snellendo le strutture, ma soprattutto sdoganando l’idea di un rapporto più stretto e costante tra il Vaticano e le Chiese di tutto il mondo, con uno spazio maggiore anche per l’ascolto delle voci del «popolo di Dio» che non è fatto solo da preti e cardinali. Una delle frasi che ama ripetere più spesso è che il compito dei cristiani non è «occupare spazi» ma «aprire processi». Alla fine sarà probabilmente esaminandosi solo su questo che deciderà quando sarà giunto il momento per passare la mano.


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ATTUALITÀ

«È tempo di tradire l’israelianità»

Prospettive ◆ Nella società ebraica si alzano voci che promuovono la consapevolezza della «Nakba», la tragedia palestinese. La testimonianza di Yuli Novak, già direttrice esecutiva di Breaking the silence Sarah Parenzo

Morto lo scrittore Abraham Yehoshua (v. pag. 37), da sempre in prima linea nella lotta contro l’occupazione israeliana, il mondo si interroga su chi porterà avanti la battaglia contro i soprusi nel confronti dei palestinesi. Ma tra gli ebrei israeliani i giovani attivisti non mancano e, sebbene non godano della fama internazionale dello scrittore, sono politicamente più radicali, determinati e molto preparati culturalmente e dal punto di vista accademico. Lo scorso 29 maggio, in occasione della Giornata di Gerusalemme, migliaia di nazionalisti israeliani hanno sfilato attraverso le aree musulmane della città vecchia di Gerusalemme, nella cosiddetta Marcia delle bandiere, una delle peggiori manifestazioni del «fascismo israeliano» che celebra la riunificazione nel 1967 della città sotto sovranità ebraica. La provocatoria manifestazione seguiva, a distanza di poche settimane, la commemorazione delle vittime della Shoah, quella dei caduti di guerra e delle vittime del terrorismo, la celebrazione del giorno dell’Indipendenza. Una sequenza non casuale e molto suggestiva che ogni primavera fa abilmente leva sulla tragedia della Shoah attribuendovi l’ingrato compito di legittimare l’agenda politica e militare israeliana da oltre settant’anni. Già da tempo, tuttavia, eminenti voci di accademici si ergono per imporre l’attenzione sul tassello mancante della sequenza: la Nakba, ovvero la catastrofe palestinese che ha avuto inizio nel 1948 e si protrae ancora oggi a causa dell’ingrata occupazione israeliana. Come scrive tra gli altri lo storico Yair Auron nel suo La Shoah, la rinascita e la Nakbah, nel corso di tre generazioni la società ebraica ha coltivato miti fondanti che collegano Shoah e rinascita, plasmando di conseguenza la coscienza collettiva.

Breaking the silence è divenuta l’obiettivo di una vasta campagna di delegittimazione che ha visto coinvolti i media israeliani, alti ministri del governo e i servizi segreti Se lo Stato cerca di impedire che tali buchi neri della storia facciano capolino nel discorso pubblico, preziose Ong come B’Tselem, Breaking the silence e Zochrot da anni si prodigano instancabilmente al fine di integrare nella narrativa israeliana il riconoscimento della Nakba come tragedia direttamente collegata agli eventi del ’48. Non c’è purtroppo da stupirsi se le medesime organizzazioni vengono osteggiate con violenza e i loro membri molestati. Questo è anche il caso dell’attivista Yuli Novak, dal 2012 al 2017 direttrice esecutiva di Breaking

L’accordo sul gas e Draghi

Il Cairo ◆ L’Ue mira a ridurre la dipendenza energetica dalla Russia

La Marcia delle bandiere, Gerusalemme. (Shutterstock)

the silence, l’organizzazione di soldati che hanno scelto di parlare di ciò che hanno visto e fatto mentre prestavano servizio nell’esercito israeliano. Nel corso del suo mandato l’associazione è divenuta l’obiettivo di una vasta campagna di delegittimazione che ha visto coinvolti i media israeliani, alti ministri del governo e persino i temuti servizi segreti dello Shabak, solitamente riservati a presunti terroristi. In un toccante memoir uscito in ebraico all’inizio di quest’anno con il titolo Who do you think you are, Novak racconta l’esperienza delle minacce ricevute, della privacy violata, dell’angoscia e del prezzo psicofisico pagato da lei e dalla sua famiglia. Accolta dalla critica come «un pugno nello stomaco», più che sull’agenda politica la testimonianza di Novak fa leva sulla drammatica esperienza umana da lei elaborata nel corso di un lungo viaggio all’estero: «È la storia di un paese che mi ha trasformata nel suo nemico, e devo trovare il modo di mettere fine a questa battaglia. In questa storia io esco perdente, tra le altre cose, perché mi hanno condotta a entrare in conflitto con me stessa. E questa, a quanto pare, è un’ottima ricetta per la disgregazione dell’animo e per lo smembramento della lotta politica». Tornata in Israele «per cercare una via di accesso a quella che una volta era una casa», lo scorso 3 maggio Novak ha tenuto il discorso principale alla cerimonia congiunta, israelo-palestinese, per il Giorno del caduti, patrocinata dal forum delle famiglie di ambo le parti che hanno perso un parente nel conflitto. La cerimonia, che si è svolta a Tel Aviv in un luogo tenuto segreto, è stata trasmessa in streaming e visualizzata in tutto il mondo. Ecco cos’ha detto Novak. «Essere israeliana significa crescere con la sirena e con i brividi che l’accompagnano. Da bambina ti sforzi più che altro di soffocare davanti a es-

sa una risata di imbarazzo. Ma abbastanza presto impari e, quando suona, tutto accade automaticamente: il corpo si tende, il cuore si stringe, gli occhi si chiudono per un minuto. Allora i volti, i nomi, le foto ti scorrono in testa, e con gli anni sai già esattamente come ricordarteli tutti. Ma essere israeliana non significa solo ricordare questa morte, ma anche onorarla. (…) La storia della nostra israelianità è una storia di sopravvivenza e sacrificio. E separazione. È una storia di “noi e loro”, dove le linee di ripartizione sono sempre chiare: noi siamo sempre la villa nella giungla e loro sono sempre i barbari che arrivano. E loro sono così tanti, mentre noi così pochi. La storia israeliana è la storia di una minoranza perseguitata, sempre sola nello spazio. (…) La storia israeliana è una storia di vita nella paura. Essere israeliana significa aver paura: di guerre, di bombe, di attentati. Aver paura degli arabi che commettono attentati. Aver paura degli arabi. Aver paura dell’arabo, aver paura delle arabicità. E la tragicità della storia non fa che diventare più profonda e complicata. Perché la nostra risposta alla solitudine e alla paura è una vita di spada: armare sempre più giovani, costruire sempre più mura, acquistare altri aeroplani. Nella storia d’Israele la potenza è nel mondo militare e la forza è semplicemente forza. Oggi, la Giornata dei caduti, è quella che meglio incarna questa israelianità: quella militare, quella che combatte (...). Questo giorno è così noi, che ogni tentativo di riformularlo, di collocare il ricordo in una narrativa diversa – persino un tentativo semplice, ingenuo, di osservare il lutto insieme – minaccia l’ordine politico e identitario israeliano. E noi, qui, uomini e donne che cerchiamo di proporre un’esperienza di memoria diversa, veniamo etichettati come “traditori”. E a ragione. La volontà di tradire la storia israeliana è quella che consen-

te a questa serata di avere luogo, già da 17 anni. Proprio in questo giorno, nel giorno più difficile per commetterlo, il tradimento – nell’accezione profonda, intrinseca, trasformativa e positiva del termine – ci consente di sederci qui insieme e sentire, accanto al dolore, anche un senso di orgoglio. Perché non si tratta di tradire noi stessi, ma solo la narrativa nella quale siamo cresciuti. (...) E anche questo è davvero solo l’inizio. Per sfuggire veramente dalla trappola dell’israelianità dovremo decidere, con coraggio, di sostenere questo tradimento anche oltre a questo giorno. (...) Proprio in questo giorno, di fronte alla morte incomprensibile, abbiamo l’opportunità di ammettere che, benché siamo tutti vittime della stessa realtà, noi, gli israeliani, siamo al potere e ci preoccupiamo di mantenerla viva. E, benché in questo gioco sanguinoso, tutti perdiamo alla grande, c’è anche chi perde molto più degli altri. Proprio questo è il giorno in cui ammettere che l’apartheid e la separazione sono impressi nel profondo della nostra coscienza, definiscono chi siamo e limitano quello che potremmo essere. Ammettere che nonostante desidereremmo piangere la morte israeliana e palestinese come se fossero equivalenti, semplicemente non siamo in grado di farlo. E che si può supporre che anche nella prossima guerra, esattamente come in quella precedente, quando il numero di bambini palestinesi che avremo ucciso sarà salito, come per un crudele maleficio, il dolore di nuovo svanirà. E quando qualcuno chiederà di ricordare che, nonostante tutto, si tratta di esseri umani, anch’egli verrà chiamato traditore. Ed ecco un altro tradimento di cui andare orgogliosi: il tradimento dell’indifferenza che l’israelianità ci impone. Solo quando saremo pronte a tradire, davvero tradire, questa storia, potremo anche cominciare a sognare nuovamente la pace».

La settimana scorsa Israele, Egitto e Unione europea hanno firmato – durante una conferenza regionale al Cairo – un accordo sull’esportazione di gas naturale. L’intesa, ha dichiarato il Ministero dell’energia di Tel Aviv, permetterà per la prima volta «significative» esportazioni di gas israeliano verso l’Ue. Il gas dovrebbe essere inviato negli impianti di liquefazione in Egitto e da lì imbarcato verso i mercati europei. La «storica» intesa – ha sottolineato al Cairo Ursula von der Leyen – rientra nei piani europei di ridurre la dipendenza dalla forniture di gas russo: «Stiamo diversificando completamente la nostra fornitura di energia staccandoci dai carburanti fossili russi e andando verso altri fornitori affidabili». La presidente della Commissione Ue ha inoltre evidenziato: «Stiamo costruendo un’infrastruttura» che deve essere pronta anche per il «trasporto dell’energia pulita del domani», ossia l’idrogeno. Il Forum del gas del Mediterraneo orientale, nell’ambito del quale è stato firmato l’accordo, è uno strumento di dialogo fra Italia, Egitto, Grecia, Cipro, Israele, Giordania e Autorità palestinese, che ha l’obiettivo di valorizzare le risorse di gas recentemente scoperte nel bacino del Levante ed è aperto alla partecipazione di altri Paesi presenti nell’area. E settimana scorsa è arrivato in Medio Oriente anche Mario Draghi. La visita, dai ritmi serrati, è iniziata a Tel Aviv e Gerusalemme e si è conclusa in Palestina. Molti i temi caldi sul tavolo, quello del gas appunto, ma anche la guerra in Ucraina e la crisi del grano: «Dobbiamo creare con la massima urgenza dei corridoi sicuri per il trasporto del grano ucraino; tra poche settimane il nuovo raccolto sarà pronto e a quel punto potrebbe essere impossibile conservarlo». Era dal 2015 che un presidente del Consiglio italiano non visitava lo stato ebraico. / Red.

Ursula von der Leyen. (Shutterstock)

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ATTUALITÀ

Matteo Salvini, il grande sconfitto Amministrative

Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni sorpassa la Lega Nord, mentre il Pd risulta il primo partito del paese

Alfio Caruso

In attesa che i ballottaggi del 26 giugno stabiliscano definitivamente i vincitori, c’è già uno sconfitto nelle elezioni amministrative italiane del 12: Matteo Salvini. Il leader della Lega ha subito una notevole batosta nel referendum per cambiare la giustizia, che s’accompagnava alla contesa per eleggere sindaci e consigli comunali riguardante 10 milioni d’italiani. L’ha votato soltanto il 20 per cento del corpo elettorale. È il peggior risultato di sempre in un istituto, che mostra la corda e sul quale si ragiona per ridurre il quorum (50,01 per cento). Salvini ci aveva puntato per accreditarsi un ruolo da protagonista convincendo i radicali, Berlusconi e l’ex mattatore Renzi a seguirlo. L’esito è stato disastroso. In quei due milioni di votanti i leghisti ascendono a meno di un terzo; insomma Salvini è stato abbandonato anche dai suoi al termine di un periodo assai controverso. Dal 34 per cento toccato nelle Europee del 2019 si sono susseguite scelte cervellotiche. Per inseguire l’affermazione personale Salvini ha finito con il ritrovarsi isolato perfino nel partito. La stessa scelta pseudo pacifista nell’invasione putiniana dell’Ucraina, oltre a isolarlo all’interno del Parlamento, è evoluta nel mancato viaggio a Mosca con il perfido annuncio dell’ambasciata russa di aver anticipato i rubli necessari. Il fallimento del referendum non rappresenta per Salvini l’unica cattiva notizia della tornata elettorale. Quasi ovunque si registra il sorpasso di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni nei confronti della Lega, con Forza Italia totalmente fuori dai giochi. Perfino nei piccoli comuni del profondo Nord, abituale bacino del consenso leghista, Meloni è stata premiata dall’essere la sola opposizione alla Camera e al Senato. Costituisce l’annuncio dei mesi turbolenti in vista delle elezioni nazionali della prossima primavera. Salvini non sembra disponibile ad accettare la leadership di Meloni e gode del sotterraneo sostegno di Silvio Berlusconi. Tuttavia anche stavolta le urne hanno confermato che il centrodestra vince se è unito; in caso contrario concede un atout straordinario al centrosinistra, attualmente minoritario nel Paese. Si spiega quindi il tentativo di Enrico Letta, segretario del Pd, di attrarre nella propria orbita i settori più moderati di Forza Italia, preoccupati per il calo delle percentuali, figlio pure del progressivo appannamento di Berlusconi, costretto a fare i conti con l’età (86 anni). Il Pd risulta il primo partito, ma il progetto «campo largo» di Letta, cioè l’alleanza con il M5S dell’ex premier Conte, mostra la corda per la situazione deficitaria dei pentastellati. In parecchi dei 971 comuni nei quali si è votato, il M5S non si è presentato; dove l’ha fatto, quasi mai ha toccato il 10 per cento (nel 2018 aveva superato il 33 per cento), anzi è spesso finito dietro il movimento centrista Azione, il cui leader Carlo Calenda si propone ai democratici quale alternativa al M5S, con i quali rigetta ogni accordo. Per Conte, sempre più orfano di sé stesso presidente del Consiglio, è comunque giunta una buona notizia: il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso contro la sua elezione a presidente del Movimento. Adesso deve trovare il modo di rinvigorire la creatura politica fondata tredici anni addietro dal teatrante Beppe Grillo. Sulla carta l’impresa pare disperata.

Il leader della Lega ha subito una batosta anche nel referendum per cambiare la giustizia. (Shutterstock)

Per Letta costituisce un problema ulteriore dentro una fase già di per sé molto delicata. Benché abbia costruito l’attuale primazia del Pd, da lui preso in una condizione catatonica, il suo futuro si gioca sull’esito del suffragio 2023: non gli basterebbe guidare il partito più votato, conterà esclusivamente l’incarico di formare il governo. E il sistema in vigore lo penalizza giacché premia le coalizioni: da qui lo sforzo di varare una riforma proporzionalista, su cui Letta spera di attrarre anche il Salvini voglioso di sottrarsi alla leadership di Meloni. Senza dire che il proporzionale potrebbe consentire alle numerose formazioni centriste di avere un peso determinante nella composizione di una maggioranza con l’adozione di formule ritenute al momento impensabili. Mai dimenticare che in Italia sono state varate le «convergenze parallele», il «governo della non sfiducia», la «politica dell’attenzione». Sull’insieme di progetti e di aspirazioni pendono, però, tante variabili. Dai sussulti dell’economia con l’inflazione e il costo del denaro galoppante, dopo l’annuncio della Bce sul rialzo dei tassi, al proseguimento della guerra in Ucraina con l’impennata delle bollette energetiche e la crisi delle materie prime. È bastato il semplice annuncio delle prossime difficoltà per scatenare l’istinto anti-euro, anti-europeo e anti-atlantico di Salvini, mentre Meloni ha usato toni appena appena più contenuti. Loro due sono convinti di parlare alla pancia del Paese, ma a Parigi, a Berlino, a Madrid, a Washington come reagiranno dinanzi a simili posizioni? L’Italia ha fin qui ospitato l’ala più filo-russa, e assai trasversale, del Vecchio Continente. Le tesi, e soprattutto le pretese, di Putin hanno trovato un ascolto molto partecipato. Si sono mossi anche i servizi segreti per appurare se si trattava di opinioni in libertà o se fossero a tassametro. Il sospetto è che dietro le mille critiche a Mario Draghi e al suo netto schierarsi in difesa dell’Occidente non ci fosse l’esclusiva manifestazione di un pensiero contrario. Eppure, proprio Draghi viene evocato quale possibile terminale di

quanti, e non sono pochi, ritengano la sua figura la sola in grado di condurre la Nazione negli anni procellosi che si prospettano. Ma Draghi non ha un partito, non intende par-

tecipare alle elezioni, non si schiera. Potrebbe soltanto ascoltare un grido di dolore come più o meno ha fatto l’anno scorso. A sinistra ne sarebbero lieti, al contrario Salvini e Melo-

ni minacciano di scendere in piazza e alzare barricate contro quello che definiscono il governo dei poteri forti, come se potesse esistere un potere debole. Di sicuro non ci annoieremo. Annuncio pubblicitario

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Rivedere gli investimenti sostenibili Economia verde

Gli standard per giudicare un investimento sostenibile non sono più adeguati alle esigenze di oggi

Marzio Minoli

Lo scorso 31 maggio, negli uffici della DWS di Francoforte, una delle maggiori società di gestione patrimoniale tedesca, di proprietà di Deutsche Bank, è successo qualche cosa che, senza esagerare, potrebbe essere definito epocale. Infatti le autorità federali di supervisione finanziaria, la BaFin (equivalente della svizzera FINMA) coadiuvate dalle forze di polizia hanno interrogato per tutta la mattina impiegati e dirigenti a seguito delle accuse di frode lanciate da una ex-dirigente della società, Desiree Fixler. Le accuse sono partite dagli Stati Uniti, dove la SEC, l’autorità di vigilanza sui mercati, ha iniziato un’indagine per lo stesso motivo. Ma qual è questo motivo, e perché l’irruzione (a sorpresa, bene sottolinearlo) negli uffici di DWS sarebbe epocale? Presto detto. Secondo le accuse di Desiree Fixler, la società di gestione avrebbe mentito affermando, nel rapporto di gestione 2020, che più della metà degli investimenti eseguiti dalla società, che gestisce globalmente 900 miliardi di dollari, sono stati fatti seguendo i criteri ESG (Environmental, Social and corporate Governance) ovvero gli standard di sostenibilità riconosciuti internazionalmente. L’accusa è dunque quella di «greenwashing». Epocale in quanto è la prima volta che viene intrapresa un’azione così decisa da parte delle autorità per verificare il rispetto dei parametri ESG da parte di chi propone investimenti sostenibili. Ora le indagini proseguono e sapremo effettivamente se le accuse della ex-dirigente DWS risulteranno fondate o meno. Ma oltre a questo, la cosa importante è che si è aperto un ampio dibattito sul marchio ESG, il quale,

per inciso, significa «environmental, social and governance criteria». Un marchio utilizzato la prima volta nel 2004 dall’ONU, quando il mondo era molto diverso. Inoltre, parlare di criteri ambientali riferiti agli investimenti non è mai stato centrale per le aziende. Fino al 2018 solo nell’1% dei casi il termine ESG è stato menzionato nelle conferenze trimestrali a commento dei risultati. Poi, nei tre anni seguenti è successo di tutto, ed ecco che le tematiche ambientali sono state citate nel 25% dei casi. Anche perché gli investimenti con il marchio ESG sono cresciuti del 53% nel 2021, arrivando a 2’700 miliardi di dollari. A questo punto però nasce un problema. Un fondo di investimento che vuole fregiarsi del marchio ESG non può, o deve ridurre al minimo, ad esempio, gli investimenti in aziende produttrici di armi, oppure in aziende attive nel campo dei combustibili fossili. La guerra in Ucraina però ha messo sul tavolo un problema pratico, ovvero la dipendenza dal gas russo da parte di molti paesi soprattutto europei. Paesi molto importanti, come Germania e Italia. Dunque si deve trovare una soluzione per evitare questa dipendenza dalla Russia, ed ecco che vengono riesumati i combustibili fossili, in quanto quelli rinnovabili non bastano ancora a soddisfare i bisogni quotidiani dell’economia e nemmeno quelli del vivere quotidiano delle persone. Quindi se un fondo decide di investire in aziende attive nel fossile, le quali stanno generando utili su utili, si può ancora considerare eticamente scorretto, in base ai parametri ESG?

Asoka Wöhrmann, CEO di DWS, si è dimesso immediatamente dopo l’apertura dell’inchiesta. (Keystone)

Altro esempio le armi. Da più parti si lanciano allarmi sulla necessità di accelerare gli acquisti di armi. Il discorso quindi non cambia. Il fondo che decide di acquistare titoli di aziende produttrici di armi, lo può fare? Oppure perde il marchio ESG? In fondo, sia per l’energia, sia per le armi, si sta parlando di sicurezza nazionale, di necessità impellenti. Si può ancora parlare di scelte etiche? O meglio, possiamo permetterci di fare scelte etiche (limitatamente agli investimenti) in un momento come questo? Ecco quindi che il marchio ESG viene messo in discussione. E non è cosa da poco. La E a volte è in conflitto con la S e forse anche con la G. Difficile soddisfare tutte le condizioni necessarie che si richiedono. Se le indagini a DWS dovessero evidenziare una sovraesposizione in aziende attive nel fossile o nelle armi, ci sareb-

be un’effettiva violazione delle regole? Certo, alle condizioni attuali. Ma in un eventuale processo, reggerebbero queste accuse di fronte all’evidenza dei fatti, ovvero che fossile e armi oggi sono, per necessità, attività eticamente accettate, vista la situazione internazionale? In altre parole, le «ambizioni verdi e pacifiste» delle nazioni sono ancora compatibili con le esigenze di sicurezza nazionale? Per molti no. A questi dubbi si aggiunge anche un altro elemento. Chi deve verificare se i criteri ESG sono rispettati? Ci sono delle agenzie di rating specializzate in questo. Ebbene, uno studio del MIT assieme all’Università di Zurigo, ha evidenziato che le sei maggiori agenzie di rating hanno una correlazione nelle loro valutazioni che va dallo 0,38 allo 0,71. Se la correlazione fosse 1 significherebbe che tutte sono d’accordo nelle valutazioni. A titolo di paragone, le classiche agenzie di

rating creditizio, come Standard and Poor o Moody’s, hanno una correlazione di 0,92. In parole semplici, chi deve controllare non è sempre concorde di quali siano i parametri da tenere in considerazione. Probabilmente siamo alla fine dell’epoca ESG, così come la conosciamo ora. Oggi si chiede di scorporare questa sigla. Mettere sotto lo stesso cappello ambiente, sociale e buon governo non funziona più. Gli investimenti sostenibili sono il futuro, ma per essere trasparenti e onesti bisogna cambiare il modo di concepire cosa significa «sostenibili». Ma le parole di Mark Branson, l’ex direttore della FINMA ora a capo della BaFin, sono chiare: «Visto quello che succede sul piano internazionale, abbiamo deciso di sospendere, per il momento, la direttiva sugli investimenti sostenibili». L’etica insomma può attendere, la sicurezza nazionale no.

Corsa a ostacoli per salvare le riforme

Assicurazioni vecchiaia ◆ Sulla revisione dell’AVS si vota il 25 settembre, la nuova legge sulle casse pensioni è in bilico, in parlamento Ignazio Bonoli

Il Consiglio federale ha deciso di indire la votazione popolare sulla riforma dell’AVS il prossimo 25 settembre. Toccherà, quindi, al popolo decidere se è d’accordo con le Camere federali che hanno votato a maggioranza questa riforma, oppure di accettare le tesi dei referendisti che rinviano il tutto a una nuova discussione, che tenga conto delle loro critiche. Come noto, il pomo della discordia è dovuto a tre fattori principali: in primo luogo l’aumento dell’età di pensionamento delle donne a 65 anni; in secondo luogo i supplementi di rendita decisi per i primi nove anni di applicazione della nuova regola; infine, l’aumento dell’IVA, che dovrebbe portare ogni anno 1,5 miliardi di franchi nelle casse dell’AVS. Il tema posto in votazione è particolarmente importante, non solo per l’adeguamento della previdenza vecchiaia in sé, ma anche – e soprattutto – a causa delle prospettive future per il primo pilastro della previdenza. Infatti, la solidità finanziaria di questo pilastro è ormai garantita soltanto per pochi anni. Non solo, ma anche sul piano puramente politico, dato che questa legislatura non permetterebbe nessuna riforma importante e darebbe quindi un segnale importante per le prossime discussioni sul tema. Con-

tro la riforma, voluta dal Consiglio federale e da un’ampia costellazione di centro e di destra, combattono decisamente sia la sinistra e i sindacati, sia i Verdi. L’esito della votazione potrebbe quindi essere determinante anche per l’assetto politico delle Camere federali nel prossimo quadriennio. Non a caso il voto sull’AVS è stato definito la decisione più importante dell’anno, se non della stessa legislatura. Con molta attenzione sono perciò stati seguiti i dati più recenti, pubblicati dall’Ufficio federale delle assicurazioni a metà maggio. Il documento mette in evidenza le prospettive finanziarie dell’AVS fino al 2032. Esso pone in primo piano le differenze fra entrate e uscite, sottolineando come questa differenza (a favore delle entrate) andrà costantemente diminuendo. Senza il supporto finanziario deciso dal popolo nel 2019, nella votazione sul pacchetto detto «sociale e fiscale», i conti dell’AVS sarebbero stati deficitari già nel 2021. Il pacchetto ha anche corretto (per il momento) la tendenza a non coprire le spese di ripartizione. In cifre l’aumento delle entrate è stato di 2 miliardi di franchi, il che ha permesso un saldo positivo di 0,9 miliardi franchi nella ripartizione. Nel 2032, secondo le prospettive elaborate dall’Ufficio delle assicurazioni

sociali, tale disavanzo potrebbe salire a 2,7 miliardi se la riforma in votazione venisse accettata. In caso contrario il disavanzo potrebbe avvicinarsi ai 5 miliardi di franchi. Queste cifre si basano sulle differenze annuali tra entrate e uscite dell’AVS e non tengono conto dei redditi dei capitali investiti. Attualmente si valuta un reddito da investimenti fra 1 e 1,3 miliardi di franchi. L’AVS, in questi anni, soffrirà anche dell’arrivo, fra il numero di pensionati, dei beneficiari di rendite nati negli anni del «baby boom». Si tratta della crescita demografica più forte registrata in Svizzera e che fa aumentare il numero di pensionati in misura superiore alla crescita del numero di persone in età lavorativa. Lo prevedono tutti gli scenari elaborati fino al 2050. Questo enorme spostamento tra beneficiari di rendite e contribuenti è appena cominciato. Negli ultimi 25 anni l’aumento è salito da 24 a 30 beneficiari ogni 100 contribuenti. Ma già questa evoluzione ha provocato maggiori necessità finanziarie per l’AVS. Si è rimediato con un aumento dell’IVA e dei contributi sui salari, nonché con l’aumento dell’età di pensionamento delle donne da 62 a 64 anni. Ora però la tendenza si è accelerata. Lo scenario medio dell’UFAS prevede un aumen-

to dai 30 attuali a 45 pensionati per 100 contribuenti. D’altro canto le prospettive demografiche non permettono illusioni. Per rallentare la tendenza si dovrebbe pensare a un rallentamento dell’invecchiamento o a un maggior arrivo di stranieri. Anche la riforma della legge sulle casse pensioni si sta trascinando, alle Camere federali, nonostante l’accordo fra ambienti padronali e sindacali, poi fatto proprio dal Consiglio federale nel suo messaggio. Durante le sedute di gruppo delle Camere federali si è vista nascere la possibilità che un’alleanza destra/sinistra possa bruscamente interrompere gli sforzi per trovare una soluzione concordata. Al centro del dibattito è sorta la domanda a sapere come si possa garantire il livello delle prestazioni, anche qui con un aumento della speranza di vita e rendimenti finanziari in dubbio. Si teme un nuovo finanziamento trasversale durante 15 anni, con una parte dei nuovi pensionati che riceverebbero, a vita, supplementi di rendita fra i 1200 e i 2400 franchi all’anno. Durante la discussione, dai banchi liberali è partito un progetto che portava perfino all’88% i beneficiari di supplementi di rendita, per i quali la riforma avrebbe perfino evitato la pre-

Pierre-Yves Maillard, direttore USS, a favore del referendum. (Keystone)

vista riduzione delle rendite. In Consiglio degli Stati l’UDC non ha ovviamente accettato l’aumento di spese che si sarebbe provocato. Tutte le varianti proposte agli Stati prevedono un aumento dei beneficiari dei supplementi. E questo costituisce ancora una volta un trasferimento di oneri sulle giovani generazioni. Cioè contro uno degli obiettivi principali delle due riforme. In questo secondo caso accompagnato da una riduzione del tasso di conversione del capitale di vecchiaia in rendita, attualmente del 6,8%, ma già diminuito da molte casse che possono farlo. Il che fa dire a molti che un fallimento della proposta riforma non sarebbe un dramma. Ma non è certamente una bella prospettiva. Nel momento in cui scriviamo, si attende un’eventuale decisione in extremis degli Stati, in ogni caso più vicina a quella del Nazionale e al progetto del Consiglio federale.


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Ancora sul «disallineamento» ◆

La società liberale dei due secoli passati considerava la realizzazione di condizioni di partenza uguali per tutti come una delle principali premesse del suo concetto di libertà. Di qui l’enorme importanza che i suoi rappresentanti politici davano e danno alla formazione e, in particolare, alla formazione professionale. Chi scrive ha vissuto così a lungo da ricordarsi ancora i tempi in cui, da noi, il 10-15% dei giovani e il 30% delle giovani che terminavano la scuola dell’obbligo restavano privi di qualsiasi formazione professionale ed erano obbligati alla manovalanza perpetua. Nella seconda metà del secolo scorso, grazie agli sforzi della Confederazione, del Cantone e delle Associazioni padronali, la formazione professionale ha fatto passi in avanti da gigante tanto che, oggi, l’annuale campagna per il reclutamento di apprendisti è diventata un tema di attualità importante ed è seguita con attenzione da tutti i

media. Per ogni apprendista, acquistare competenze professionali specifiche significava poter ambire a un posto remunerato e sicuro e quindi poter ampliare il suo grado di libertà nella scelta della carriera professionale. Nel corso degli ultimi 30 anni, importata dai paesi anglosassoni e da quelli scandinavi, si è poi manifestata una seconda tendenza: quella a far crescere la quota delle persone con formazione a livello terziario, ossia degli universitari. Chi argomenta in favore di questa tendenza sostiene di solito che sono i cambiamenti nel modo di lavorare, dovuti al progresso tecnico, in particolare alla digitalizzazione dei processi lavorativi, alla robotizzazione e ai progressi dell’intelligenza artificiale che impongono un significativo aumento della quota di lavoratori con formazione terziaria. Altrettanto importante è il fatto che i lavoratori con formazione universitaria erano, di solito, meglio remunerati di quel-

li con formazione a livello secondario. Le tendenze in atto nella formazione professionale, ai livelli secondario e terziario, sono punti di partenza importanti per la riflessione sulla possibile evoluzione futura. Questo perché nella realtà dei mercati del lavoro le stesse si scontrano spesso con situazioni contraddittorie. A questo proposito ricordiamo che, stando ai risultati di una recente analisi fatta dai ricercatori della SUPSI Garzia e Slerca, questo sembra essere in particolare il caso del mercato del lavoro ticinese. Nei prossimi 5 anni dovrebbero affluire sul mercato del lavoro ticinese circa 28’000 nuovi lavoratori mentre il fabbisogno di nuovi lavoratori dovrebbe variare, a seconda degli scenari tra le 33’000 e le 46’000 unità. A prima vista, quindi, tutti i nuovi lavoratori dovrebbero trovare un’occupazione anche nel caso di un eventuale rallentamento dell’economia. Purtroppo non sarà così e questo perché diver-

se centinaia di nuovi lavoratori affluiranno con una formazione «disallineata», che purtroppo non sarà richiesta dal mercato del lavoro cantonale. Di conseguenza nel prossimo quinquennio potremmo vedere, come è già successo negli ultimi anni, da un lato l’emigrazione di giovani formati a livello universitario e dall’altro un’immigrazione supplementare di frontalieri tra le 5000 e le 10’000 unità che andrà a soddisfare, se le previsioni di Garzia e Slerca dovessero confermarsi, soprattutto le richieste di manodopera senza qualifiche specifiche. Quindi, l’economia ticinese avrebbe bisogno, nel prossimo futuro, soprattutto di lavoratori poco qualificati che non ritroverà tra le file dei nuovi laureati nonché dei giovani e delle giovani che termineranno il loro apprendistato durante il quinquennio in questione. Questa è la sostanza del problema del disallineamento. Pensare che per eliminare il disequilibrio

sarebbe auspicabile che il numero dei laureati diminuisse e quello dei giovani senza formazione professionale aumentasse non rappresenta certamente una soluzione del problema, anche se oggi i valori della vecchia società liberale sembrano sempre più disattesi. In effetti, fare il lavapiatti invece che diventare ingegnere è un’alternativa che nessuno dei giovani e delle giovani che terminano la scuola dell’obbligo, con esiti che consentirebbero loro di continuare gli studi, o di fare un apprendistato, sarebbe disposto a scegliere proprio per le ragioni che abbiamo esposto qui sopra. E tanto meno glielo raccomanderebbero i loro genitori. Se il fabbisogno in nuovi lavoratori senza qualifiche speciali non potrà essere coperto dalle nuove generazioni di lavoratori residenti è inevitabile che lo stesso dovrà essere soddisfatto aumentando i flussi di lavoratori in entrata da fuori Cantone e, in particolare, di lavoratori stranieri.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Il carisma di Erdogan regge, per ora ◆

Sono stato dieci giorni in Turchia, un Paese da cui mancavo da prima della pandemia. Con i turchi noi europei siamo severi. «Mamma li turchi» era un grido di allarme, la «turca» il bagno più scomodo. Si bestemmia e si fuma «come turchi», si fanno «cose turche»… Siamo seri, però. La Turchia è un Paese dalla grande storia e dal grande avvenire. Atatürk, Mustafa Kemal, il «padre dei turchi», l’ha trasformata da impero a nazione. L’ha salvata dalle mire delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale e dai greci. Soprattutto l’ha avvicinata all’Occidente, abbandonando i caratteri arabi per quelli latini e fondando uno Stato laico. La Turchia è un ponte naturale. A est c’è la Persia, a ovest l’Europa. Oggi sulle sponde a nord del Mar Nero ci sono i russi e la guerra in Ucraina, sulle frontiere a sud c’è la guerra civile siriana e la pressione dei profughi. È inevitabile che i turchi tendano a esse-

re nazionalisti. Purtroppo il presidente Recep Tayyip Erdogan ha minato la laicizzazione dello Stato. Comunque tra Istanbul e Smirne ho visto per le strade, nei bazar, nelle botteghe, decine di ritratti di Atatürk e uno solo di Erdogan: è il modo di protestare delle metropoli. Ma il partito islamico è ancora forte nell’Anatolia interna. Anche molti oppositori di Erdogan, però, ne approvano la politica di neutralità tra ucraini e russi, che consente al Paese di muoversi in sicurezza e di giocare un ruolo di mediazione. Anche se l’accordo sul trasporto del grano non è arrivato e appare lontano quello sul cessate il fuoco. La Turchia è più che mai un Paese centrale nel grande gioco della geopolitica. Il futuro della nazione turca si giocherà alle prossime elezioni del giugno 2023, dove l’uomo da battere sarà ancora lui. Quando Erdogan entrò nella sala dove lo attendevano i giornalisti occidentali, il 4 novembre

Il presente come storia

2002, il giorno dopo la sua prima vittoria elettorale, l’impressione fu grande. Aveva il carisma di chi era stato in galera per le proprie idee. Non era ancora nulla, la condanna gli imponeva l’interdizione dai pubblici uffici; sarebbe diventato primo ministro solo 4 mesi dopo, ma i suoi uomini lo guardavano già con venerazione. Quando un suo antesignano, il leader islamico Necmettin Erbakan, aveva vinto le elezioni nel 1995 ed era andato al governo, tentò di ingraziarsi i generali ostili invitandoli a un ricevimento. Al momento del brindisi offrì acqua e spremute di frutta. I militari si guardarono negli occhi. Poi uno di loro disse: «Per me un raki», il liquore di anice. «Per me vino bianco». «Per me un cognac». Erbakan allora capì. Si dibatté per qualche mese, ostaggio dei generali che lo costringevano a continui gesti di sottomissione, tipo salire a piedi sotto il sole di mezzogiorno al

mausoleo di Atatürk. Finché un golpe bianco non lo destituì. Erdogan aveva una tempra diversa. Licenziato da funzionario del Comune di Istanbul per aver rifiutato di tagliarsi i baffi, vi era rientrato 14 anni dopo da sindaco. Destituito per una poesia non apprezzata dall’esercito – «le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati» – imprigionato, condannato, liberato, eletto. La nostra prima domanda era scontata: che farà l’esercito con un governo islamico? «L’esercito è la pupilla dei nostri occhi», sorrise Erdogan. E l’Europa? «La mia prima visita sarà ad Atene: i greci ora sono nostri amici. Vogliamo entrare in Europa, ma senza sacrificare il nostro orgoglio». Cambierà la Costituzione? «La Turchia resterà una Repubblica democratica, secolare e sociale». Non è andata così. Il palazzo in stile neo-ottomano da 1200

stanze e 70 ascensori. La guerra alla minoranza curda. Una nuova Costituzione presidenzialista ritagliata sulla propria persona. Eppure, man mano che si allontanava dall’Occidente e rivolgeva il proprio sguardo all’Asia centrale e al Medio Oriente, Erdogan continuava a vincere le elezioni, grazie al sostegno dei religiosi e dei contadini dell’Anatolia. E poi la dura repressione dei dimostranti del parco Gezi. Il sostegno all’Isis. Le schermaglie e la pace con Putin. Il rapporto ambiguo con un’Europa pronta a servirsi della Turchia, secondo esercito della Nato e gigantesco campo profughi. E poi la notte degli imbrogli, il colpo di Stato del luglio 2016, l’appello lanciato attraverso i social, la pantomima, il golpe usato per un contro-golpe per mettere fuori gioco l’opposizione. Va detto però che all’appello di Erdogan il suo popolo rispose. Il carisma non l’ha abbandonato. Almeno per ora.

di Orazio Martinetti

Sempre meno riluttanti

Un tempo a Berna si diceva che la politica estera non stava in cima alle preoccupazioni del governo: un dipartimento di scarso prestigio, una Cenerentola da assegnare all’ultimo eletto, che giocoforza era il più inesperto. Che fosse proprio così non era del tutto vero, ma questa era l’opinione corrente, soprattutto al di fuori del Palazzo. D’altronde i cittadini votanti non avevano mai gradito questo genere di apertura: meglio rimanere in disparte («abseits stehen»), osservare e soppesare vantaggi e svantaggi di un’eventuale adesione a un’organizzazione internazionale. Ecco come l’icastico Peter Bichsel coglieva quel clima alla fine degli anni Sessanta: «Per gli svizzeri esistono due mondi: il dentro, la patria, e il fuori, l’estero. Quando vado all’estero, mia madre mi dice: “Sta attento a non farti rubare niente, tienti sempre vicina la valigia”. Gli

svizzeri all’estero mettono i soldi in un sacchetto che portano appeso al collo, sotto la camicia, oppure cucito sulla biancheria». L’elenco degli appuntamenti declinati – innanzitutto il no alla Comunità economica europea – oppure onorati con notevole ritardo (Nazioni Unite, Consiglio d’Europa, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale) testimonia una ritrosia che ha caratterizzato il paese per decenni. Un’eccezione, un «Sonderfall» nel cuore del vecchio continente che solo negli ultimi anni si è incrinato sotto le spinte della globalizzazione e delle crescenti pressioni di paesi vicini e lontani (Stati Uniti). La riluttanza a impegnarsi in missioni implicanti scelte politiche, che andassero oltre la tradizionale vocazione umanitaria (Croce Rossa), era già emersa all’indomani della guerra del 14-18, allorché si dovette deci-

dere se aderire o no alla Società delle Nazioni (SdN). La campagna che precedette la votazione popolare del 1920 fu particolarmente accesa, giacché intaccava uno dei princìpi-cardini del moderno Stato federale: il concetto di neutralità. Alla fine i sostenitori della partecipazione alla SdN la spuntarono (56,3% di consensi), ma soltanto di misura nel computo dei cantoni (11 e 1/2 contro 10 e 1/2). Certamente alla vittoria del sì contribuì l’attivismo del capo del Dipartimento politico, il cattolico-conservatore Giuseppe Motta, che seppe convincere molti dei suoi (non tutti). Ad ogni modo il cammino lungo l’infido percorso della «neutralità differenziata» fu tutt’altro che facile e mai del tutto persuasivo, soprattutto agli occhi dell’agguerrita opposizione interna, organizzata nella Lega popolare per l’indipendenza della Svizzera sorta nel 1921. Ancora nel 1986 – an-

no della fondazione della blocheriana Azione per una Svizzera neutrale e indipendente – ben il 75,7% dei votanti respinse il decreto federale per l’adesione della Svizzera all’ONU. Le parti si invertirono soltanto nel 2002, con i no che calarono al 45,4%: una percentuale che da un lato consegnava definitivamente al Novecento il riflesso pavloviano del rifiuto e della diffidenza e dall’altro vedeva affacciarsi all’orizzonte una nuova generazione, non più segnata come quelle precedenti dal ricordo dell’ascesa del nazifascismo e dal fallimento della SdN. Nell’ultimo ventennio l’atmosfera è cambiata sia a Berna, sia nella sfera pubblica. La crescente interdipendenza economica, l’aumento degli scambi anche culturali, le oscillazioni finanziarie e le guerre commerciali hanno abbattuto frontiere e pregiudizi, evidenziando ritardi e talloni d’Achille a

lungo ignorati. Segnali di una maggiore sensibilità per le problematiche sovranazionali, dai mutamenti climatici ai conflitti armati, sono visibili ovunque. Termini prima riservati ai club degli specialisti sono ormai patrimonio comune, per esempio la «geopolitica», una nozione che negli anni Trenta era servita soprattutto a giustificare le politiche espansionistiche dei regimi dittatoriali, alla ricerca dello «spazio vitale». Fino a qualche anno fa, chiedere di aderire al Consiglio di sicurezza dell’ONU sarebbe stato considerato un azzardo, un gesto dissennato. Ora invece il passo è stato compiuto, a comprova di un interesse per le relazioni internazionali sempre più diffuso, non solo nei consessi parlamentari, ma anche in larghe fasce dell’opinione pubblica. L’epoca dello «staremo a vedere» è finita.


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Anno LXXXV 20 giugno 2022

PRELIBATEZZE AL GRILL Nei barbecue all’americana i grossi pezzi di carne cuociono a fuoco indiretto, spesso per delle ore. Alcuni consigli e ricette per ottenere una carne succosa e tenera e i contorni ideali

Costine in marinata piccante Piatto principale per 4 persone • 3 cucchiai di salsa di soia • 1 cucchiaino di pepe nero Tellicherry • 1,5 dl di salsa BBQ • 2 cucchiai di zucchero bruno • 2 cucchiaini di pepe di Cayenna macinato grosso o sambal oelek • ca. 2,5 kg di costine di maiale, in un pezzo

Procedimento 1. Per la marinata, unite tutti gli ingredienti e spalmateli sulla carne. Lasciate marinare per 2 ore. 2. Scaldate il grill a 170 °C. Accomodate la carne sulla griglia e grigliatela tutt’intorno a fuoco basso indiretto per ca. 80 minuti. Voltatela di tanto in tanto. Tagliate le costine tra le ossa e servitele.

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MONDO MIGROS

Beef Brisket Piatto principale per 8 persone

• 1½ cucchiaio di fleur de sel • 2 cucchiai di pepe • 1 cucchiaio di cipolle in polvere • 1 cucchiaio d’aglio in polvere • 1 punta di petto di manzo di ca. 1,5 kg, ordinabile in anticipo dal macellaio Migros

Procedimento 1. Il giorno prima, mescolate tutte le spezie. Se necessario eliminate grasso e tendini dalla carne, poi sfregatela con la miscela di spezie. Mettete il pezzo di carne in un sacchetto per surgelati e lasciatelo marinare in frigo per tutta la notte. 2. Togliete la punta di petto dal frigo un’ora prima di grigliarla. Scaldate il grill a ca. 110 °C. Accomodate la carne sulla griglia e grigliatela a fuoco basso per ca. 6 ore, finché la temperatura interna della carne raggiunge ca. 90 °C. Durante la cottura girate di tanto in tanto la carne. A fine cottura togliete la carne dal grill, avvolgetela nella carta alu e lasciatela riposare per ca. 10 minuti. Tagliatela a fette sottili di traverso al senso delle fibre e servitela.

Insalata verde

Questa insalata è davvero irresistibile: piselli, pomodori verdi, melone, cetrioli, cipollotti, spinaci e formaggio Manchego. Ideale come antipasto o contorno. Ricetta su migusto.ch

Così funziona il classico BBQ americano

Un barbecue all’americana degno di questo nome non s’improvvisa in quattro e quattr’otto. La carne, ordinata per tempo dal macellaio, viene innanzitutto lasciata a marinare per diverse ore, spesso per tutta la notte. Altrettanto a lungo deve rimanere sulla griglia, dove cuoce a fuoco indiretto e a bassa temperatura (da minimo 100 a massimo 140 gradi). Un beef brisket (punta di petto di manzo) di 3 kg ha bisogno di 12-15 ore di cottura. Il pulled pork (collo o spalla di maiale) dello stesso peso richiede 10-12 ore, mentre 1,5 kg di spare ribs (costine di maiale) devono rimanere sulla griglia per 5-6 ore. Negli Stati Uniti le spare ribs sono un classico del BBQ , ma non sono certo le uniche protagoniste: dallo steak al burger, dalle chicken wings alle cosce di pollo, c’è posto per tutti sulla griglia.

BBQ Tofu con Coleslaw e Baked Potatoes

Pulled chicken burger con insalata di cavolo rosso

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I succhi di cottura del Brisket sono ideali per preparare una gustosa salsina - pura oppure miscelata con della salsa BBQ.

La ricetta richiede un po’ di tempo, ma queste cosce di pollo alla griglia sfilacciate e speziate sono talmente sfiziose che ripagano dell’impegno. Ricetta su migusto.ch

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Con il tofu al grill si servono delle Baked Potatoes, insalata di cavolo rosso, come pure una salsa BBQ fatta in casa. Ricetta su migusto.ch

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CULTURA ●

Abraham B. Yehoshua Sarah Parenzo ricorda lo scrittore e drammaturgo israeliano scomparso a Tel Aviv pochi giorni fa

Incontro con Lorenzo Viotti Il direttore d’orchestra losannese diventa testimonial di Bulgari e si racconta tra musica e passioni

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Firenze omaggia Donatello Il Rinascimento del grande artista protagonista a Palazzo Strozzi e al Museo Nazionale del Bargello

Il travaglio di Jean Corty Alla riscoperta dell’artista di Neuchâtel che ebbe un profondo legame con il Ticino

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Il racconto della grande fame Feuilleton ◆ Il romanzo di Ulas Samchuk, tradotto per la prima volta in italiano, affronta anche la tragedia dell’Holodomor Pietro Montorfani

«Morirai, figliola. Nel mondo enorme non è rimasta neanche una piccola briciola di pane per te… neanche un po’…». Sullo sfondo del feroce conflitto che infiamma in questi giorni la regione ucraina si staglia come un monito la tragedia dell’Holodomor, la «morte per fame» (moryty holodom) che toccò in sorte a milioni di persone nel biennio 1932-33. Che non esista a tutt’oggi un accordo sul numero esatto delle vittime, da un minimo di 1,5 milioni per gli studiosi più prudenti, a un massimo di quasi dieci per i nazionalisti ucraini, non cambia la sostanza dei fatti. Una buona introduzione al tema, senz’altro romanzata ma lucida sulle questioni fondanti, è il lungometraggio della regista polacca Agnieszka Holland L’ombra di Stalin (in originale Mr. Jones), presentato al Festival del film di Berlino nel 2019. È la ricostruzione del primo, vero reportage sulla carestia ucraina, ad opera del giornalista gallese Gareth Jones (1905-35), già consulente per gli affari esteri del primo ministro inglese Davide Lloyd George, opposto ai resoconti edulcorati del Premio Pulitzer Walter Duranty che dai comodi salotti moscoviti usava la sua rete di contatti in Occidente per smentire e sminuire le accuse più gravi. Che Duranty fosse, indirettamente, sul libro paga di Stalin non fa onore alla categoria, mentre Gareth Jones è ancora oggi ricordato in Ucraina – dove si parla senza mezzi termini di «genocidio» voluto dal regime sovietico – con la riconoscenza che si tributa a un eroe nazionale. Le ricerche più recenti concordano che il 1932 fu un anno particolarmente infelice per la produzione di cereali in quello che è sempre stato definito il granaio d’Europa, e che l’intenzionalità del regime intervenne soltanto in un secondo momento, per sfruttare al massimo una tendenza già in atto. Le scelte scellerate di Stalin, deciso a piegare le resistenze dei contadini benestanti (i kulaki), contribuirono infatti ad accrescere enormemente la carestia alzando le quote di grano richieste all’Ucraina dal governo centrale e arrivando persino a impedire di seminarne una parte per l’anno venturo (1933). Per chi voglia approfondire il tema con solidi dati statistici, consiglio la lettura di The 1932 Harvest and the Famine of 1933, il saggio di Mark B. Tauger pubblicato su «Slavic Review»

Rivne, Ucraina, monumento a Ulas Samchuk, scrittore, pubblicista e giornalista ucraino. (depositphotos). Sotto, un'anziana donna ucraina posa una pagnotta durante la cerimonia commemorativa vicino al monumento alle vittime del genocidio dell’Holodomor a Kiev. (Keystone)

(vol. 50, Cambridge University Press, 1991, pp. 70-89). La tragedia fu di portata tale che la letteratura, nonostante il contesto non favorevole per la libertà di espressione, fu subito ricettiva e pronta al racconto della grande fame. Lo fece il giornalista e scrittore ebreo di origine ucraina Vasilij Grossman, nell’anta minore del trittico che si compone di Stalingrado (già Per una giusta causa, 1952), Vita e destino (1959) e appunto Tutto scorre (1963), un piccolo ma prezioso affondo monografico sulle storture del regime staliniano visto con gli occhi di un detenuto di lungo corso: «Capitava che sui pancacci della prigione giacessero fianco a fianco il segretario del comitato distrettuale, smascherato come nemico del popolo, e il nuovo segretario del comitato distrettuale che lo aveva smascherato, dimostratosi in breve lui stesso nemico del popolo, e trascorso un mese, ecco capitare nella cella il terzo segretario del comitato distrettuale…». All’Holodomor Grossman dedica i capitoli 14 e 15 di Tutto scorre, scritti con due approcci antitetici ma ugualmente efficaci, quello saggistico e quello narrativo, quasi che uno fosse la spiegazione e l’esemplificazione dell’altro: le riflessioni politiche e socio-economiche trovano piena significazione soltanto di fronte alla tragedia che tocca nel profondo il personaggio di Vasilij Timofeevic e la sua famiglia. Da alcune settimane disponiamo inoltre di un nuovo, eccezionale documento letterario che si associa al libro di Grossman, un racconto lungo di Ulas Samchuk scritto a Praga

dall’esule ucraino già nel 1933 e tradotto ora in italiano da Mariia Semegen per una piccola ma vivace casa editrice fiorentina. Con uno stile realistico ma non appiattito sulla quotidianità, aperto anzi alle armoniche dell’epos e simile per certi versi a Kristin figlia di Lavrans di Sigrid Undset (1920, Nobel nel 1928), Maria è l’accorata narrazione di un destino che si esplicita e si invera, anno dopo anno, nelle lunghe e tormentate vicende della protagonista, una ragazza ucraina di umili origini confrontata ai grandi rivolgimenti che hanno toccato la sua regione tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Dietro la lenta conquista dell’in-

dipendenza economica e di una riconosciuta posizione sociale si leggono in filigrana i mutamenti radicali che hanno interessato l’Ucraina e la Russia tra la caduta degli zar e l’affermarsi dell’ideologia sovietica, fino alla terribile carestia degli anni Trenta alla luce della quale, retrospettivamente, la vita di Maria e della sua famiglia assumono un significato assoluto, quasi mitologico: «La casa di Kornij si trovava su una collina a un’estremità del villaggio. Là il sole splendeva vigoroso e tiravano forti venti. Quasi dalla soglia partiva il recinto, oltre al quale c’era la terra di suo fratello». Il filo rosso del nutrimento e il suo valore metaforico (non c’è nulla che, come il

cibarsi, dica più intensamente «vita») attraversano il libro dalla prima pagina, in cui Maria neonata si aggrappa con foga ai seni della madre, fino alle ultime scene strazianti in cui la fame porta al delirio gli abitanti del villaggio: «Dalle case misere e mezze distrutte, le persone gonfie, sfinite, disgraziate uscirono al sole primaverile. Gli scheletri con le teste pelate, con gli occhi incavati e sbiaditi si radunarono in conciliabolo, si alzarono come defunti dalle tombe per formulare una risoluzione popolare». Tra questi due estremi si inanellano tanti piccoli segnali che ribadiscono la centralità del nostro rapporto con il cibo: l’icona della Vergine che allatta, il pane di segale richiesto dai prigionieri, gli incendi che annullano in un attimo il lavoro di mesi nei campi. L’operazione editoriale che, con lungimiranza, ha portato alla prima traduzione italiana del romanzo di Samchuk si deve all’iniziativa di Carlo Ossola e nasce nell’alveo dell’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera italiana, della quale la traduttrice era stata studente in anni passati. «Era arrivata come borsista della Confederazione Elvetica, insieme ad altri giovani provenienti da Paesi dolenti» afferma Ossola nell’introduzione, «Chiesi loro di tradurre in italiano il testo più caro alla loro libertà. Tutti sono stati pubblicati, tutti sono ancora ferite aperte». Bibliografia Ulas Samchuk, Maria. Cronaca di una vita, Edizioni Clichy, Firenze, 2022.


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Anno LXXXV 20 giugno 2022

CULTURA

La teoria del bellum iustum I nostri antenati/3

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azione – Cooperativa Migros Ticino

Lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua con Sarah Parenzo. (Parenzo)

Continua la retrospettiva sui conflitti nell’antichità

Elio Marinoni

È sorprendente lo sforzo speculativo prodotto dall’intellighenzia romana, soprattutto nell’ultimo secolo della repubblica e in età augustea, per giustificare il processo di espansione dello stato attraverso le guerre di conquista: ne nacquero la teoria della guerra giusta e quella della missione imperiale di Roma, che interpretava la conquista come dominio dei migliori, apportatore di prosperità e di pacificazione alle popolazioni sottomesse. Teorie tutt’altro che superate, se solo pensiamo quante operazioni militari vengano ancor oggi ammantate dal velo del peacekeeping. L’inarrestabile espansione dello stato romano, dapprima da città stato a potenza italica e poi da questa a impero mondiale, trova una legittimazione nell’elaborazione di due teorie: quella del bellum iustum («guerra giusta») e quella della missione imperiale del popolo romano. La prima, espressa in modo particolarmente chiaro da Cicerone, tende a rappresentare la guerra come un’extrema ratio alla quale ricorrere solo in difesa della propria sicurezza e di quella dei propri alleati, e per porre le condizioni di una pace migliore (De republica, III, 34-35; De officiis, I, 35). Il ricorso alla guerra come mezzo per ristabilire una pace migliore vale anche per la conflittualità all’interno dello stato: «Se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra», afferma Cicerone (Filippiche, VII, 16, 9) avendo di mira Antonio. È il principio espresso proverbialmente dal motto Si vis pacem, para bellum, un principio di cui è facile constatare la permanenza in molti stati moderni. La teoria del bellum iustum si estende anche alle modalità di conduzione della guerra: «C’è anche un diritto di guerra, così come in pace» fa dire lo storico augusteo Livio a Furio Camillo (Ab urbe condita, V 27, 6); e al comportamento del vincitore nei confronti dei vinti, che dev’essere ispirato a criteri di giustizia e di moderazione (Cicerone, De officiis, I 35). L’idea che il popolo romano sia stato chiamato da un’entità superiore a governare i popoli trova una premessa teorica già in Cicerone: «la natura stessa ha assegnato il dominio assoluto ai migliori con grande vantaggio dei deboli» (De republica, III, 37); ma viene compiutamente elaborata dagli autori dell’età augustea. Virgilio fa predire a Giove «un impero senza fine» ai Romani, che saranno «signori del mondo» e con Augusto estenderanno l’impero fino all’Oceano, fino ad assicurare la pacificazione del mondo intero (Eneide, I, vv. 276-294). Il concetto è ribadito nei celeberrimi moniti che l’ombra di Anchise rivolge a Enea: «Tu, o Romano, ricorda di governare con l’impero i popoli. Queste saranno le tue arti: imporre l’abitudine alla pace, usare clemenza ai sottomessi e sterminare i superbi» (Eneide, VI, vv. 851-853). Alle virgiliane profezie di Giove e di Anchise fa da pendant in Livio la profezia di Romolo: «Va’, annunzia ai Romani che gli dei vogliono la mia Roma capo del mondo; curino

pertanto l’arte militare, e sappiano […] che nessuna umana potenza potrà resistere ai Romani» (Storia di Roma dalla fondazione, I 16). L’espansione territoriale avvenuta nel corso dei secoli è dunque interpretata come un’opera di pacificazione dei popoli sotto il dominio civilizzatore, giusto e clemente di Roma. Non lo affermano solo i poeti e gli scrittori ma l’imperatore stesso, sia attraverso i rilievi allegorici dell’Ara Pacis Augustae, che raffigurano un mondo prospero e felice pacificato dalle armi romane, sia nell’autobiografia ufficiale, da lui dettata e fatta esporre in pubblico (Res gestae divi Augusti). Negli anni delle guerre civili succeduti all’assassinio di Cesare, Virgilio e Orazio si erano fatti interpreti dell’ansia di pace e di rinnovamento che attraversava il mondo romano, vagheggiando una nuova età dell’oro a Roma (Ecloga IV di Virgilio) o un’utopica isola dei beati (Epodo 7 di Orazio), ma successivamente questi poeti si fecero portavoce dell’ideologia augustea, che giustificava la guerra sia pure interpretandola come strumento di pacificazione. Un totale ripudio della guerra, soprattutto come scelta di vita individuale, si trova invece nei poeti elegiaci (Tibullo, Properzio, Ovidio), che a essa contrappongono la milizia d’amore (si vedano p. es.Tibullo, Elegie, I, 1, vv. 53-55; Properzio, Elegie, III, 5, 1-2) Ovidio, Gli amori, III, 2, vv. 49-50). Il

ripudio della guerra si esprime efficacemente nella maledizione all’inventore delle armi che apre l’Elegia I, 10 di Tibullo (e che sarà posta da Ermanno Olmi in epigrafe al suo film Il mestiere delle armi): «Di quale natura fu l’uomo, che per primo produsse le orribili spade? Quanto feroce e veramente di ferro egli fu! Allora sorsero stragi di uomini, sorsero allora battaglie; allora si schiuse una più rapida strada verso la morte funesta» (vv. 1-4). Alla maledizione subentra però, nei versi successivi (7-10), una riflessione sull’avidità come vera causa di tutte le guerre. L’avidità di ricchezza e di potere è additata altresì come l’esclusivo motore della politica romana di espansione nelle denunce dell’imperialismo romano da parte dei capi di popolazioni straniere, di cui la storiografia latina ha lasciato trapelare la voce: dal re del Ponto Mitridate (Sallustio, Storie,

aveva ormai, nei 53 anni di conquiste territoriali dal 221 al 168 a.C., globalizzato il mondo: «Anteriormente […] le vicende delle varie parti del mondo erano per così dire isolate le une dalle altre […]. Dopo questi avvenimenti invece la storia viene a costituire quasi un corpo unitario […] e i fatti sembrano tutti coordinarsi a un unico fine» (Storie, I, 1, 1-3). Allo stesso modo, toccherà a un greco profondamente integrato, l’intellettuale Elio Aristìde, celebrare, alla fine del II sec. d.C., la pax Romana, riconoscendo che «per essere tranquilli basta essere Romani o piuttosto sudditi di Roma» e che i Romani «misurando l’ecumene, aggiogando con ponti d’ogni sorta i fiumi, tagliando i monti per aprire la strada ai carri, riempiendo il deserto di rifornimenti» hanno «messo in tutto il mondo ordine e ricchezza» Elogio a Roma, 100101). (3 – Fine)

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

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IV, 69) al capo gallico Critognato (Cesare, De bello Gallico, VII, 77, 15-16) al calèdone Calgàco, che parla dei Romani in questi termini: «Predatori del mondo intero, […] rubare, massacrare, rapinare, lo chiamano con falsi nomi impero, e là dove fanno il deserto lo chiamano pace» (Tacito, Agricola, 30, 4-5). La condanna della guerra è integrata negli elegiaci dall’elogio della pace, associata all’idea di prosperità (p. es. Tibullo, Elegie, I, 10, vv. 45-50). La pace, invocata dai poeti e ufficialmente proclamata dalla stessa propaganda imperiale, non era però un’esigenza largamente condivisa, in particolare da coloro che della guerra campavano. Lo dimostra l’accoglienza riservata dalla truppa, nel 69 d.C., alla predicazione pacifista di Musonio Rufo, un cavaliere romano imbevuto di stoicismo, ritenuta intempestiva da Tacito: «costui, insinuandosi tra le truppe e mettendo in risalto i vantaggi della pace e i pericoli della guerra, andava facendo scuola in mezzo a quella gente d’arme. Fatto […] che ai più dava fastidio, non mancando poi chi avrebbe voluto toglierselo dai piedi e dargliene un sacco, se, piegandosi alle esortazioni dei meno scalmanati e alle minacce degli altri, non l’avesse smessa con quella poco opportuna cattedra di sapienza» (Storie, III 81). Era stato il greco Polibio (II sec. a.C.), a lungo vissuto a Roma, a capire che l’impero romano Ara Pacis Augustae. (Wikipedia)

Il meccanico delle anime In memoriam

Un ricordo di A.B. Yehoshua

Simona Sala

«La moglie di Molcho morì alle quattro del mattino, e con tutto se stesso Molcho si sforzò di individuare il momento preciso di quella morte così da inciderlo dentro di sé, perché lui voleva ricordare» Il toccante incipit di Cinque stagioni, a pochi giorni dalla scomparsa di Abraham B. Yehoshua e dalla sua sepoltura al cimitero di Ein Carmel, dove riposa anche la moglie Ika, ha il sapore amaro della predizione. Come se, armato del suo acuto e curioso occhio di scrittore, Yehoshua avesse già immaginato quella che sarebbe stata la sua morte, avvenuta all’Ichilov Hospital di Tel Aviv la notte del 14 giugno. Questa morte, nonostante per molti versi annunciata (Yehoshua era nato nel 1936 a Gerusalemme e da qualche tempo soffriva di una grave malattia), porta con sé una doppia dimensione, personale e allo stesso tempo epocale, se pensiamo che lo scrittore, considerato fra i più importanti della storia di Israele dalla fondazione dello Stato nel 1948, ha vissuto la Guerra di indipendenza e l’assedio di Gerusalemme, accompagnando Israele con la sua produzione letteraria e il suo impegno politico nel corso di 85 anni. Il suo attivismo ideologico non era mai scemato anche se, come aveva dichiarato, «certi argomenti ho preferito consegnarli alle generazioni successive». Da quello che aveva definito come «il desiderio universale di creare delle storie e comprendere l’animo umano», sono nati libri importanti per la produzione del Novecento. La nota surreale che ha reso originali i racconti iniziali si riverbera fin dentro i primi romanzi (ad es. L’amante) per poi cedere il posto a un senso di epicità che molti sono concordi nel vedere culminare ne Il signor Mani, considerato un capolavoro della narrativa contemporanea, o nella profondità e nell’ironia con cui vengono narrate le ossessioni di Rivlin nelle quasi 600 pagine della Sposa liberata. I libri più recenti si sono in qualche misura ridotti, facendosi più intimi. Dell’autunno scorso è La figlia unica, in cui si narra una vicenda italiana che prende spunto da quella di Sarah Parenzo, collaboratrice di «Azione» (v. art. pag. 25), da molti anni residente a Tel Aviv e che su Yehoshua ha svolto un dottorato di ricerca che li ha fatti incontrare. Sarah, letteratura e politica erano una cosa sola per Yehoshua?

Yehoshua non ha mai potuto separare la letteratura dalla politica e dalla società israeliane, talvolta anche a scapito della profondità dei personaggi, e per questo le sue opere sono colme di metafore attraverso le quali lo scrittore esprimeva il suo impegno e la sua lotta per garantire allo Stato ebraico un futuro etico. Quello dell’etica è un argomento che gli stava a cuore e al quale ha dedicato anche un saggio, che verrà ristampato a breve da Einaudi. È rimasto attivo fino alla fine? Sì, perché anche stanco e molto malato rimaneva sostanzialmente un ottimista. Credo che una delle definizioni più azzeccate per descrivere la sua attitudine sia quella coniata dal professor Avner Holtzman dell’Università di Tel Aviv, che lo definì un mussachnìk, ovvero un meccanico di macchine da officina. Yehoshua infatti ha cercato di aggiustare la realtà fino alla fine, tanto nel pubblico quanto nel privato. Si sentiva responsabile della sua nazione? Molto, come dimostra la sua produzione saggistica, sulla separazione tra religione e nazionalità, sulla Shoah e sulla diaspora. Seppure facilmente confutabile in ambito accademico, poiché non supportata da un apparato teorico sufficientemente solido, questa produzione va compresa proprio a fronte del suo autentico desiderio e della sua fede incrollabile nella necessità per il popolo ebraico del raggiungimento di una dimensione di normalità all’interno di delimitati confini territoriali che implicano sovranità, sinonimo di responsabilità. La vostra collaborazione e la vostra amicizia erano molto intense. La morte di Yehoshua rappresenta per me un lutto molto significativo. Il rapporto con lui è stato un dono faticoso ma prezioso offertomi inaspettatamente dalla vita. Per questo, come Molcho di Cinque Stagioni, anch’io desidero fermamente ricordare questa morte per me così dolorosa affinché resti impressa nella mia mente e nel mio cuore, accompagnandomi con il suo prezioso lascito per gli anni a venire. Intervista completa su www.azione.ch

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Anno LXXXV 20 giugno 2022

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CULTURA

«Per me la bellezza sta nell’umanità» Personaggio

Lorenzo Viotti, direttore musicale della Netherlands Philarmonic Orchestra, è il nuovo testimonial di Bulgari

Enrico Parola

Bello, atletico, giovane (è nato 32 anni fa a Losanna), scelto proprio in questi giorni da Bulgari come ambassador delle sue linee di orologi e profumi maschili, direttore d’orchestra. Lorenzo Viotti sa benissimo che in una fantomatica «caccia all’intruso» tutti sceglierebbero l’ultimo elemento, nonostante sia proprio il podio il suo lavoro e la sua vita: è chiamato dalle istituzioni più prestigiose, raccoglie ovazioni tanto nel repertorio sinfonico quanto nella lirica, in primis alla Scala, il tempio mondiale del melodramma. Poteva essere diversamente, avendo avuto come padre un gigante del podio come Marcello Viotti? La domanda è lecita, anche perché mamma è violinista e suonava quando ero nella sua pancia: mi sono trovato immerso nella musica prima ancora di nascere. Piccolissimo, vedevo il teatro già come una seconda casa: seguivamo quasi sempre papà, la prima opera cui assistetti fu Simon Boccanegra e mi sorpresi tantissimo nel vedere il cantante che impersonava Paolo, appena morto in scena, camminare tranquillamente dietro il palco: «Ma non eri morto?» gli chiesi quasi in lacrime, suscitando l’ilarità generale. Ero contentissimo quando papà doveva dirigere a Venezia: trascorrevamo lì qualche settimana, con mio fratello giocavo a pallone nei calli, girovagavamo tra i canali alla ricerca delle merende più ghiotte, sempre immersi nel profumo della salsedine. Qualche mattino, come facevamo sempre al mare, andavo con papà a fare immersioni: sveglia alle 5, in barca alle 6, era poetico anche l’odore del neoprene della muta e del metallo delle bombole.

Lorenzo Viotti. (Youtube)

mi, ma mi hanno supportato. A New York – papà dirigeva al Metropolitan – io e Alessandro, che eravamo fan di 50 Cent, insistemmo perché ci portassero nel Bronx o ad Harlem per comprare catene, vestiti, gioielli tipici e bandane da rapper; eravamo piccoli e non ci rendevamo conto come ci guardassero lì, passeggiando con mia mamma, alta, bionda, bellissima.

Destino musicale segnato, quindi? Se considera che mio fratello Alessandro è diventato cornista come mia sorella Milena, e l’altra mia sorella Marina è mezzosoprano…

Ha continuato a suonare la batteria? Mai abbandonata. Marina era leader di un gruppo death metal, i Soul Maker, e una volta sostituii il loro batterista davanti a 5mila spettatori; quella musica faceva schifo, lo feci solo per lei: da quando papà era morto non riusciva più a cantare la classica, troppi ricordi e quindi troppo dolore. Poi però è diventata mezzosoprano e l’ho diretta alla Scala nel Roméo et Juliette di Massenet.

Sì. Invece no! La grandezza dei miei genitori è stata quella di non averci mai voluto imporre il futuro che loro potevano magari avere in mente per noi. Quando ho voluto imboccare la via della musica l’ho fatto con la batteria; i miei non erano felicissi-

Suo padre morì il 16 febbraio 2005 mentre provava la Manon di Massenet a Monaco, lei avrebbe compiuto 15 anni un mese dopo. Fu un trauma, ovviamente. Rimpiangerò sempre di non aver potuto fare certe esperienze con mio padre; non parlo della musica – parados-

salmente la sua morte mi ha reso più libero nel mio percorso, nonostante il cognome che porto sia un costante paragone – ma della vita. Avrei voluto parlare con lui di sport o dei primi innamoramenti: osservando come vivevano lui e mamma, noi quattro figli abbiamo imparato a gustarci la vita, vedevamo come si volevano bene, come amavano tutte le cose belle, dalla musica al buon cibo a un luogo particolare. Il suo momento di crisi? Non fu legato alla morte di papà, lo ebbi quando, studente di percussioni a Vienna, non fui ammesso nella classe di direzione. Mi presi un anno sabbatico in cui decisi che mi sarei concesso tutti gli sbagli necessari per capire che cosa volessi davvero fare della mia vita: uscivo cinque giorni la settimana, facevo tardi, relazioni fugaci. Fu un tempo di sbagli, ma non di sballi: ogni giorno trascorrevo sette ore negli archivi della Staatsoper per studiare gli spartiti annotati dai giganti che avevano diretto a Vienna, come Karajan. Più passava il tempo e più capivo che volevo salire sul podio. Retaggio paterno? Forse, da piccolino mi affascina-

va vedere papà che, semplicemente muovendo le mani o facendo certe espressioni col viso, plasmava la musica a suo piacimento. Però mi è impossibile dirlo con sicurezza: come le dicevo, non ho mai sentito su di me aspettative particolari, piuttosto sono stato io a mettermi pressione perché non volevo deludere in nessun modo mia madre, per come aveva tirato avanti la famiglia e per la libertà che aveva continuato a darci. Credo che essere direttori sia un dono: quando ho iniziato a suonare in orchestra – il percussionista è sempre posizionato in fondo, vede il podio da lontano però ha una panoramica completa di tutto l’organico – la relazione che si instaura tra direttore e strumentisti mi ha sempre più affascinato e l’ho trovava sempre più consona alla mia idea di far musica e all’indole che credo sia un po’ quella del leader. Infatti, quando arrivò anche per me la proverbiale opportunità imprevista, mi feci trovare pronto: indisposizione improvvisa del direttore, salgo io sul podio e funziona. Come fa a funzionare? Non lo so, anche perché una sera funziona perfettamente a Milano e il giorno dopo a Madrid o Tokyo no. C’è una componente ineffabile e for-

se indecifrabile: c’è una tecnica direttoriale, ma poi il filo invisibile che tiene legata l’orchestra va tessuto personalmente. Io amo fare riferimenti alla quotidianità anche più prosastica, perché dire «suonate piano, più legato, fate un crescendo qui e un rallentando là» non basta a rendere quel che la musica esprime. Nel Simon Boccanegra, dove Verdi con l’orchestra ricrea miracolosamente il suono e il sapore del mare, mi piace far immaginare la luce fredda e profonda della luna che si specchia nelle acque; altre volte ho fatto l’esempio della pizzeria, col chiacchiericcio degli avventori che si mescola al caldo del forno a legna e alle fragranze delle pizze che i camerieri portano tra i tavoli. Si dice che le orchestrali non guardano mai così tanto verso il podio come quando c’è su lei; quanto conta e quanto è consapevole della sua bellezza? Non voglio fare il falso modesto, ma per me la bellezza sta nell’umanità, è un giovane che aiuta un’anziana portandole la borsa della spesa pesante. La musica con la bellezza dei suoni esprime questa bellezza ed è a questo livello che voglio spingere la mia interpretazione. Credo che Bulgari mi abbia scelto per questo: non sono un atleta o un modello con milioni di follower, però posso parlare della bellezza, manifestata anche da un orologio o un profumo, in un modo spero profondo e vero. Non consideriamo i vantaggi estetici allora, ma lei è considerato anche un grande sportivo. Snowboard e skateboard, ma più di tutti la boxe: quando vado in una città chiedo se c’è una palestra dove si possa praticare un po’, se fosse possibile nella valigia assieme ai vestiti mi porterei il saccone da allenamento. Amo ballare, una volta l’ho fatto per 19 ore, l’applicazione ha conteggiato 58mila passi… E, fin da piccolo, immersioni e tennis. E da Svizzero… Certo, da svizzero dovrei dire Federer e lo ammiro tantissimo, ma devo confessare che il mio idolo tennistico è Nadal. D’altronde è stato papà ad insegnargli a scegliere liberamente… MMAZ-05

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CULTURA

Donatello, il demiurgo che infonde vita Mostre

Una monumentale esposizione omaggia il sommo scultore e sublime intagliatore nella sua Firenze

Blanche Greco

Donatello il «patriarca di un’epoca», il «padre del Rinascimento», ma anche «terremoto Donatello, che sconvolge la scultura e la storia dell’arte», così il professor Francesco Caglioti professore ordinario di Storia dell’Arte medievale presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e curatore della grande Mostra Donatello. Il Rinascimento, uno dei più importanti eventi artistici del 2022, celebra il «suo» Donato di Niccolò di Betto Bardi (1386-1466) «sommo scultore e sublime intagliatore della pietra e del marmo». Ci sono voluti più di tre anni di preparazione per realizzare questa mostra che sembrava impossibile, che riunisce a Firenze 130 opere tra le quali (per la prima volta) più di cinquanta sculture di Donatello, provenienti dai più importanti musei del mondo, e ricostruisce il suo stile e la sua «rivoluzione», grazie anche alle opere dei suoi allievi, e a quelle degli artisti, scultori e pittori, che, nel ’500 e dopo, colsero la sua modernità e lo elessero a modello, come Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Un discorso composito e avvincente sull’arte e su un artista geniale e già famoso nel 1400, che si dipana tra le sale di Palazzo Strozzi dove c’è il percorso cronologico sulla vita e la fortuna di Donatello, il Salone a lui dedicato al Museo del Bargello e poi straripa un po’ ovunque in città, dalla Basilica di Santa Croce, al Museo dell’Opera del Duomo, e alla Basilica di San Lorenzo dove, oltre alle opere ci sono anche le spoglie di Donatello, che Cosimo il

Vecchio suo grande estimatore, amico e mecenate, come tutta la famiglia Medici, volle nella tomba accanto a sé. Infatti di Donato di Niccolò di Betto Bardi, seppure non si conosce chi per primo gli abbia dato il nomignolo di Donatello, di certo si sa che in vita è stato amato e conteso come una star e «ha lastricato la sua esistenza di opere, lavorando ogni giorno sino ad ottant’anni per soddisfare le richieste che gli venivano da ogni dove: da Padova, da Venezia, da Siena, da Prato, da Napoli, da Modena, da Ferrara, ed erano talmente tante» – ci ha raccontato Francesco Caglioti – «che sicuramente qualcuno dei committenti aspetta ancora che, dall’alto dei cieli consegni l’arca di Sant’Anselmo commissionata dai Marchesi Gonzaga e così via». Fiorentino, allievo di Ghiberti, socio di Filippo Brunelleschi più vecchio di lui di dieci anni, del quale fu amico e rivale, Donato è stato un innovatore nei materiali, nelle tecniche, nei generi e nei formati, reinventando l’idea stessa di scultura perché, come scriveva Vasari in Vite de’ più eccellenti pittori e scultori e architetti del suo tempo: «sol Donato ha renduto vita a’ marmi, affetto e atto», infatti con lui tutto è movimento e psicologia. A vent’anni, conquista Firenze con il David (1409) in marmo «un giovinetto grintoso e insolente, nella postura e nello sguardo, che ha appena sconfitto Golia e salvato il proprio paese» ben diverso dalla rappresentazione tradizionale di uomo maturo, tipi-

ca dell’iconografia cristiana. E il suo David visto come il simbolo della Libertà contro le insidie dei Napoletani e dei Milanesi che minacciano la Repubblica fiorentina, viene portato a Palazzo Vecchio e da quel momento diventa obbligatorio per ogni generazione fare un proprio David ragazzino, che imita Donatello. Ed è lui stesso a fare le prime imitazioni, ma ancora una volta innovando e lasciando tutti a bocca aperta con il David Vittorioso (1435-1440) in bronzo, su una colonna: il primo nudo maschile integrale post classico, «una peccaminosa statua all’antica per rappresentare il Re dei Re, che grazie alla protezione dei Medici, Donato reintroduce nella storia dell’arte». Ma è un artista brillante per il quale tutto è possibile: dal grande realismo del suo Crocifisso per la basilica di Santa Croce definito da Brunelleschi un «contadino»; alla spiritualità della figura di San Ludovico di Tolosa, santo patrono della Parte Guelfa, monumentale, in bronzo dorato, da collocare in «vetrina», ossia in un tabernacolo esterno della Chiesa di Orsanmichele. Il risultato richiama folle di cittadini, perché «più che una statua è un gigantesco ed eccentrico rilievo sfavillante» dove la testa nobile e le mani escono dal morbido viluppo dei tessuti dell’abito che pare muoversi. Invece è l’edicola in marmo che la ospita, che si muove, perché poggia su uno stuoiato, un sistema di materiali diversi, ideato da Donato proprio per dare «movimento» alla scultura. I suoi contemporanei dicevano «Tutto è moto in Donatello» – ci spiega Francesco Caglioti – «perché è una specie di demiurgo che infonde vita a qualunque cosa tocchi, non solo alla figura di David, o alla Giuditta. Ogni sua architettura, ogni sua cornice ha un movimento, bisogna avere solo la pazienza di capire dove sta il “gioco”, che per i suoi contemporanei era evidente, mentre per noi “drogati” da tante esperienze visive, dalla fotografia, agli effetti speciali del cinema, resta più difficile». Eppure si rimane ipnotizzati davanti al Convito di Erode, una formella in bronzo dorato di piccole dimensioni nella quale Donato grazie alla sua maestria nel padroneggiare la prospettiva mostra l’interno del palazzo di Erode, e nel rincorrersi degli ambienti scolpiti, come in un piano sequenza pieno di attori e di attività

David Vittorioso, 1435-1440 circa, opera in bronzo parzialmente dorato esposta al Museo Nazionale del Bargello. Sotto una versione giovanile del David Vittorioso 1408-1409; 1416, opera in marmo esposta nella prima sala a Palazzo Strozzi. (© ElaBialkowskaOKNOstudio)

diverse, vediamo compiersi il tragico destino di Giovanni Battista decapitato da Salomé durante il banchetto di Erode. Invece è forse una melodia quella che avvolge Amore-Attis, una delle statue più famose e misteriose di Donatello, il viso paffuto da giovanetto-bambino che sorride deliziato, le mani che si agitano per aria, mentre il corpo discinto sembra colto mentre si abbandona alla musica come gli «spiritelli danzanti» delle formelle del Pergamo del Sacro Cingolo di Prato, immortalati in una sarabanda, più bambini che cherubini, mentre s’intrecciano, tra ali, ghirlande e veli. E che dire delle sue Madonne, che non ci guardano mai, protese verso il bambino irrequieto tra le loro braccia, magnifiche anche in quelle piccole tavole di marmo per la devozione privata, intagliate con la tecnica dello

«stiacciato», veri capolavori in rilievo, con pochi millimetri di spessore dove traspare l’affetto e il dolore della madre che sa che prima o poi perderà il suo bambino, come La Madonna delle Nuvole, o la Madonna Pazzi. La mostra Donatello. Il Rinascimento è stata realizzata in collaborazione con gli Staatliche Museen di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra che la ospiteranno sino a fine 2023, in parte integrandola con altri capolavori, formando così tre mostre, con tre punti di vista distinti, ma complementari. Dove e quando Donatello. Il Rinascimento, Firenze Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello fino al 31 luglio. Per info: www.palazzostrozzi.org e www.bargellomusei.beniculturali.it Annuncio pubblicitario


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CULTURA

Jean Corty e il legame con la clinica psichiatrica Personaggio

Storia della vita breve e tormentata dell’artista Giovan Battista Corti

Benedicta Froehlich

Sebbene si tenda a identificare (almeno geograficamente) la grande stagione pittorica dell’espressionismo con la Francia di inizio ’900, anche un Paese come la Svizzera – apparentemente piccolo, eppure da sempre crocevia delle maggiori correnti culturali europee, e non solo – ha potuto fregiarsi di alcuni esponenti di pregio dell’arte di quegli anni, per quanto forse meno noti al grande pubblico rispetto ai contemporanei francesi. È il caso di un nome di spicco quale quello di Jean Corty, artista proveniente dal Canton Neuchâtel che, sebbene a lungo dimenticato dai conterranei, è oggi più che mai degno di essere riscoperto – anche in virtù del suo profondo legame con il Ticino, nonché con una delle istituzioni di cui il nostro Cantone può a ben diritto dirsi orgoglioso: l’ex Manicomio di Mendrisio-Casvegno, in seguito meglio noto come ONC (Ospedale Neuropsichiatrico Cantonale). Ma andiamo con ordine: molto prima di approdare inaspettatamente a Mendrisio, Jean Corty (il cui vero nome era Giovan Battista Corti) aveva intrapreso il proprio percorso artistico grazie a un’innata testardaggine e a una vera vocazione, che, già dalla primissima giovinezza, gli avevano permesso di non ritrovarsi impantanato nella tradizione famigliare, la quale lo avrebbe voluto vedere impiegato come stuccatore e imbianchino – così da seguire le orme di artigiano del padre Francesco Luca Corti, falegname originario di Agno. Nato nel 1907 a Cernier, nono di ben dodici figli, Jean non tardò infatti a lasciare la Svizzera per seguire un corso all’Academie Saint-Luc di Bruxelles, dove, nel 1930, avrebbe iniziato la sua produzione pittorica. Il futuro artistico di Corty era però destinato a essere particolarmente duro e travagliato: una volta perduto il sostegno del suo mecenate Pierre Urfer, veterinario di Fontainemelon che gli aveva pagato gli studi, nel ’32 Jean si vide costretto a rientrare in Svizzera – dove, soffocato da mille frustrazioni e difficoltà econo-

miche, oltre che dalla nostalgia per il Belgio, cominciò a mostrare i primi segni di turbe psichiche; proprio quei non meglio specificati «disturbi nervosi» che lo avrebbero condotto al ricovero dapprima a Ginevra e poi, nel ’33, a Casvegno. Eppure, fu proprio durante la sua permanenza presso la struttura psichiatrica che Corty trovò l’ambiente ideale per lo sviluppo della propria arte, grazie soprattutto all’incoraggiamento e al supporto del Dottor Olindo Bernasconi, medico aggiunto all’ospedale e convinto sostenitore delle terapie occupazionali e dell’arte come ausilio alla guarigione. E proprio al Dr. Bernasconi Corty avrebbe lasciato molti dei suoi quadri, che oggi costituiscono la maggiore collezione di opere dell’artista; il che porta a pensare che la struttura di Casvegno fosse già allora all’avanguardia nell’ambito delle cure psichiatriche, nonché contraddistinta da un approccio al paziente più umano e compassionevole rispetto ad altre realtà internazionali del tempo. È interessante notare come, da un punto di vista grafico, i numerosi quadri realizzati da Corty nell’arco di questo periodo tanto produttivo paiano mostrare curiose affinità con il suo stato emotivo di quegli anni: accanto alle incredibili esplosioni di colore vivissimo e alle forme ardite e svettanti tracciate da Jean sulla tela, si può infatti notare una certa instabilità di fondo – come se, per quanto palesemente libere e sovversive, le figure disegnate dall’artista (non solo quelle umane, ma anche le forme architettoniche) fossero costantemente in bilico, in una sorta di perenne sbilanciamento che rischia di minarne il delicato equilibrio. Del resto, non è un caso che Corty abbia dovuto lottare a lungo per liberarsi dalle proprie angosce: sebbene dimesso da Casvegno nel maggio del 1934, vi sarebbe stato nuovamente ricoverato tra il 1937 e il 1941. Tuttavia, l’isolamento forzato dell’artista sarebbe stato ravvivato dalla presenza di vari amici ed estimatori (tra gli al-

Jean Corty, La coppia, olio su tavola esposto alla Pinacoteca Züst nel 2020 in occasione della mostra Jean Corty (19071946): gli anni di Mendrisio. Sotto, un ritratto dell’artista. (© Art Gallery L’uovo di Luc)

tri, lo scrittore luganese Vinicio Salati e il collega pittore Libero Monetti), forse in grado di lenire almeno in parte il dolore che il mancato successo della propria opera avrebbe potuto instillare in Jean; curiosamente, fu

proprio a Mendrisio che egli decise di modificare il suo cognome in «Corty», forse in un ultimo omaggio all’amato Belgio. Purtroppo, la morte prematura del Dr. Bernasconi (nel 1941), ebbe, com’era inevitabile, gravi ripercussioni per Jean, il quale venne definitivamente dimesso dall’ospedale del proprio mentore e si ritrovò solo, a condurre una vita perlopiù sregolata a Lugano e dintorni. Proprio qui avrebbe trovato la morte nell’aprile 1946, ad appena 39 anni, a causa di una banale congestione che lo portò a essere ricoverato per l’ultima volta a Casvegno. E sebbene la vita tanto tormentata abbia condotto i critici a bollare la sua produzione artistica come «discontinua», dopo molti anni di relativa oscurità oggi Corty viene finalmente riscoperto dal grande pubblico, tanto che nel 2020 la Pinacoteca Züst gli ha dedicato una pregevole mostra – Jean Corty (1907-1946): gli

anni di Mendrisio – incentrata proprio sul periodo trascorso a Casvegno, e allestita grazie alla collezione tuttora in possesso degli eredi di Olindo Bernasconi. Così, a chi scrive piace pensare che, nonostante le sofferenze patite lungo tutta una vita, Jean Corty sia riuscito a trovare una qualche forma di pace e serenità interiore attraverso la sua arte – a Mendrisio più ancora che altrove; secondo molti, infatti, furono proprio la regolarità e sicurezza offerte dalla struttura psichiatrica a permettere a Jean di applicarsi con costanza alla pittura, trovandovi il conforto e lo sfogo di cui aveva disperatamente bisogno. E forse non è un caso che egli abbia infine «chiuso il cerchio», concludendo la sua vita proprio a Casvegno: quel luogo che, seppure tra mille tormenti, aveva sempre mostrato comprensione verso l’infelice artista – il quale, in fondo, forse aveva bisogno soprattutto di questo. Annuncio pubblicitario

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La Svizzera all’epoca del dagherrotipo

Francis Frith, La cascata di Staubbach nella valle di Lauterbrunnen, 1863. (© Albumina, ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv)

Mostra ◆ Un’esposizione al MASI racconta i primi cinquant’anni della fotografia in Svizzera Giovanni Medolago

È una sala buia che accoglie il visitatore della mostra Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo. Forse per proteggere i dagherrotipi più sensibili, per vedere i quali bisogna cercare qualche interruttore. E fiat lux! Quasi una metafora di ciò che si scoprirà al LAC: una miriade di personaggi più o meno illustri (il Generale Dufour che ha lo stesso sguardo attonito sia quando è colto a cavallo in una parata ufficiale, sia quando si mette in posa per un ritratto); e poi gli affascinanti paesaggi del nostro Paese, non solo quelli delle località più celebri tipo Zermatt o Davos, bensì anche qualche rocca sperduta di cui talvolta ci parla brillantemente su questo giornale il collega Oliver Scharpf. Molti dagherrotipi ricordano la prima immagine fissata da Nicéphore Niépce nel 1826 (Vista dalla finestra a Le Gras). L’apparecchiatura estremamente ingombrante e i lunghi tempi d’esposizione – si stima che a Niépce occorsero più di 8 ore per realizzare la prima fotografia della Storia! – costrinsero i pionieri a concentrarsi su qualcosa di immobile come Place de la Lande a Le Brassus, la Torre Maîtresse a

Ginevra o il castello di Schadau, sulle rive del lago di Thun con vista sull’Aar, il Rigi e la Jungfrau. Le scoperte tecniche accelerano il diffondersi di un mezzo che rapidamente soppianta la pittura: se prima solo i ricchi potevano permettersi un ritratto mettendosi in posa davanti a tavolozze e pennelli, ecco che anche i poco abbienti possono esporre la loro effigie nel salotto buono di casa. Si chiama un fotografo anche quando è troppo tardi, sul letto di morte di un caro estinto, pur di conservarne immagine e ricordo: non a caso il dagherrotipo venne definito «uno specchio dotato di memoria». C’è chi si limita a usarlo per una semplice documentazione/testimonianza (la già citata Zermatt dopo il terremoto del 1855) e chi invece, come Sebastian Staub, tenta qualche sperimentazione con un’inquadratura nell’inquadratura, dove la porta spalancata di Casa Butini si apre poi sul giardino retrostante, offrendoci un’intrigante mise en abîme: che ci sarà mai là tra erbe e piante incolte? Nel contempo – siamo a fine ’800 – nasce il turismo, che va incoraggiato e, diciamo noi oggi, sponsorizza-

to. Édouard Quiquerez presenta villaggi, castelli e vedute mozzafiato del «suo» Giura. Qualcuno coglie in anticipo l’importanza che assumerà il traforo ferroviario del San Gottardo, documentando i lavori in corso a Göschenen e ad Airolo. Lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto elvetiche va di pari passo con la semplificazione del processo fotografico, grazie all’avvento dei negativi su vetro e della stampa all’albumina. Stanno per concludersi les excursions dagueriennes, i tempi d’esposizione si accorciano e così, con un semplice click, si possono ad es. ritrarre gli escursionisti sul ghiacciaio del Rodano, dove spicca un’elegante signora con la gonna e armata altresì con quello che sembra più un ombrellone d’un semplice ombrello! Roba da ricchi anche questa, ma c’è tuttavia

chi si dedica pure ai meno fortunati: Carl Durheim ci offre nove ritratti di altrettanti poveracci rimasti senza casa, e fa tenerezza quello di un uomo che si porta appresso la gabbia col suo canarino. Nascono gli ateliers di posa: elegantissimo quello dei Fratelli Taeschler a San Gallo. Meglio ancora fa Jean Geiser che parte da La Chaux de Fonds per aprirne uno a Algeri, dove si dedica soprattutto alla ritrattistica, puntando su più o meno discinte fanciulle che all’epoca non suscitarono fortunatamente le ire degli estremisti islamici. Nel lungo percorso (oltre 400 le opere esposte, da quelle micro ai grandi trittici) allestito al LAC in collaborazione con la Fotostiftung di Winterthur e Photo Elysée di Losanna, c’è spazio anche per un paio di pionieri

della Fotografia ticinese. Torna Angelo Monotti, partito da Cavigliano per cercar fortuna (poi trovata!) a Livorno, cui il MASI aveva già dedicato una «personale» nel 2013. E infine l’onsernonese Gaudenzio Marconi, il quale scese da Comologno per sbarcare a Parigi, dove le sue immagini gli valsero il titolo ufficiale di «Photographe de l’Ecole des Beaux Arts parisienne». S’interessò soprattutto ai nudi artistici: molti di questi saranno utilizzati dallo scultore Auguste Rodin, in particolare per L’âge d’arain. Dove e quando Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo, MASI LAC, Lugano. Ma-me-ve 11.00-18.00, gio 11.00-20.00, sa-do 10.0018.00. www.masilugano.ch Annuncio pubblicitario

Demenza senile

In scena ◆ Dementia, una produzione dell’Accademia Dimitri, è in tournée in Svizzera Giorgio Thoeni

Per Gabriel Garcia Marquez «non è vero che le persone smettono di sognare perché diventano vecchie, diventano vecchie perché smettono di inseguire i sogni», mentre Shakespeare fa dire a Prospero che «siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e nel tempo di un sogno è racchiusa la nostra breve vita». Abbiamo scelto due celebri passaggi letterari per entrare nella dimensione della delicata tematica della demenza senile con due affermazioni che contengono parole come vecchiaia e sogno. Dimensioni comuni a tutti ma che, con la fondamentale perdita della memoria, in età avanzata possono diventare oggetto di una realtà compromessa, conosciuta come la malattia di Alzheimer, molto presente nel nostro Paese, dove ogni anno si contano oltre trentamila nuovi casi, quasi uno ogni 17 minuti. Senza dubbio è un tema complesso che ha stimolato il regista tedesco Volker Hesse, chiamato a dirigere gli studenti del terzo anno di Bachelor dell’Accademia Teatro Dimitri in Dementia, uno spettacolo che ha da poco debuttato a Verscio ed è in tournée in Svizzera e in Italia. Hesse non è nuovo alla regia di aspiranti attori. Per questo lavoro ha rinnovato la collaborazione con la coreografa Andrea Herdegg aggiungendovi quella di Pavel e Helena Stourač nella creazione di 5 meravigliosi fantocci a dimensione umana per incarnare alcuni ospiti di una clinica immaginaria animati sulla scena dagli stessi attori. Basandosi sul testo Bewohner (residenti) dello psichiatra Christoph

Partecipare ora e vincere e Play onlin e . c h g am k no p pe r s -

Un momento dello spettacolo (© Accademia Dimitri)

Held, il regista ha creato una serie di situazioni attorno ai personaggi che gravitano nella clinica, fra malati, parenti e personale curante con un carosello di storie che, oltre a mettere in luce le qualità degli interpreti, toccano le corde di una sensibilità profonda e diffusa. Emozioni che gli attori suscitano muovendo i fantocci, mettendo in campo tutti i loro mezzi espressivi per dar loro vita e respiro a sogni e memorie difficili da resuscitare ma ancora latenti. Una composizione difficile ma non impossibile. Un affresco di umanità che letteratura e cinema conoscono bene ma che il teatro avvicina con una finzione che obbliga la platea a commuoversi da vicino, a riconoscere situazioni famigliari, a considerare il declino delle cognizioni intellettive un problema sociale diffuso e non solamente clinico. In questo Dementia è esemplare nonostante l’indulgenza su aspetti perfettibili.

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Settimana Migros e n a t t i f Appro 21. 6 – 27. 6. 2022

a t s u g e

Il nost ro a e ll consiglio d a: se t t iman

30% 1.85 2.65 invece di

tti di p Mini file ic M -Class

ollo

g, per 100 S vizzera, rvice se lfse in

33% 3.90 invece di 5.90

40% 4.70 invece di 7.90

Costata di manzo M-Classic Irlanda, in conf. speciale, per 100 g

30%

33% 5.95 invece di 9.–

Formaggio da grigliare Gazi Halloumi 2 x 250 g

conf. da 3

33%

Mirtilli

Tutte le farine

Prodotti di ovatta Primella

Italia/Spagna/Portugal, vaschetta da 500 g

(prodotti Demeter e Alnatura esclusi), per es. Farina bianca M-Classic, IP-SUISSE, 1 kg, 1.20 invece di 1.75

per es. dischetti, 3 x 80 pezzi, 3.80 invece di 5.70

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

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conf. da 2

Migros Ticino

15.06.2022 16:40:00


Frutta e verdura

Prelibatezze croccanti e da grigliare per dare il benvenuto all’estate Consig lio: v e rsa uov o e de l forma un g ratt ug iato ne i g g io m pe pe roni e g rig lie zzi a

33% 1.80 invece di 2.70

Lattuga iceberg bio Svizzera, il pezzo, confezionata

21% 1.65 invece di 2.10

20% 2.30 invece di 2.90

Insalata del giardiniere Anna's Best 350 g

conf. da 2

27% 6.85

Granoturco dolce bio pastorizzato, al kg

invece di 9.40

Hit 4.95

21% 3.40 invece di 4.35

Peperoni misti Paesi Bassi/Spagna, 500 g, confezionati

Pomodoro datterino Ticino, imballato, 500 g

Cetrioli Nostrani Ticino, al kg

Migros Ticino

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15.06.2022 16:39:52


Fiori e giardino

Aromatico e strabiliante La spesa facile migros.ch

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

18% 2.95 invece di 3.60

22% 4.95

Pesche noci gialle Italia/Spagna/Francia, al kg

Congelando le erbe aromatiche con un filo d'olio, preservi l'aroma e il colore vivace. Prova lavando, asciugando e tritando basilico, prezzemolo e altre erbe aromatiche. Mischiale con dell'olio e distribuiscile nella vaschetta per i cubetti di ghiaccio. Così le avrai sempre a portata di mano per affinare qualsiasi salsa.

Hit 13.95

Bouquet di rose M-Classic, Fairtrade disponibile in diversi colori, mazzo da 30, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. gialle, arancioni e rosse, il mazzo

1.–

di riduzione

9.95

Girasoli M-Classic mazzo da 5, il mazzo

invece di 10.95

Ciliegie Svizzera, imballate, 500 g

invece di 6.50

20% 3.95 invece di 4.95

Migros Ticino

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20% Tutte le erbe aromatiche bio in vaso, Ø 13 - 14 cm, per es. basilico, il vaso

Tutti i cactus e le piante grasse per es. Aloe vera, vaso, Ø 15 cm, il vaso, 9.95 invece di 12.95

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

15.06.2022 16:40:05


Carne

Fuoco e fiamme per pezzi grandiosi Acquisto e consegna a casa migros.ch

I mini pe r g ran di e picc oli

conf. da 3

34% 9.– invece di 13.80

conf. da 4

Mini cordon bleu di pollo Don Pollo Prodotti in Svizzera con carne del Brasile, 3 x 180 g

conf. da 2

40% 9.80 invece di 16.40

Sminuzzato di petto di pollo M-Classic al naturale prodotto surgelato, 2 x 500 g

33% 6.55

Hamburger di manzo Svizzera, 4 x 100 g

invece di 9.90

20% 3.95 invece di 4.95

25% 6.90

Cappello del prete (Picanha), IP-SUISSE per 100 g, in self-service

Entrecôte di vitello, IP-SUISSE per 100 g, al banco a servizio

invece di 9.20

Migros Ticino

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15.06.2022 16:39:47


rig lia Consig lio: g i maiale d le c ost ole t t e dire t t o a c alore

25% 2.05

Spiedini Grill mi, IP-SUISSE per 100 g, in self-service

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

invece di 2.75

20% 1.80 invece di 2.30

Costolette di maiale, IP-SUISSE magre e marmorizzate, in confezione speciale, 4 pezzi, per 100 g

Al banco della carne, i fan dell'american barbecue trovano tagli selezionati come ad es. la costata di manzo di qualità IP-SUISSE. Su richiesta, puoi acquistare anche pezzi interi per il pulled beef o tagli per succulenti Rib-Eye. Al banco ricevi informazioni e consigli per la preparazione.

In v e ndit a al banc onora e

20% American BBQ in vendita al banco per es. costata di manzo Rib Eye, IP-SUISSE, per 100 g, 5.20 invece di 6.50

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

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15.06.2022 16:40:01


Salumi

Delizie sottilissime 30% 4.60

Jamón Serrano Español affettato Spagna, per 100 g, in self-service

invece di 6.60

15% 5.35

Bresaola Casa Walser Italia, 100 g, in self-service

invece di 6.35

20% 2.10

Mortadella Beretta Italia, per 100 g, in self-service

invece di 2.65

conf. da 2

22% Petto di pollo o salame di pollo Optigal, affettato Svizzera, per es. petto di pollo, 2 x 100 g, 4.95 invece di 6.40

Pr e c o t t e g ustare c : da al o f re dde de

20x PUNTI

20% 8.60 invece di 10.80

Novità

Carne secca dei Grigioni affettata bio, IGP Svizzera, per 100 g, in self-service

3.90

Strisce di petto di pollo Don Pollo con spezie fajita Svizzera, per 100 g, in self-service

Migros Ticino

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15.06.2022 16:40:23


Pesce e frutti di mare

Quando la pesca è buona 30% 13.50 invece di 19.30

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

Salmone selvatico Sockeye, MSC pesca, Pacifico, in conf. speciale, 280 g

ic c ol a Con una p asabi e iw por zione ddi soia sa l sa

20x PUNTI

Novità

6.90 20%

Mix di frutti di mare Fruits de mer, MSC, ASC

Il merluzzo va rosolato solo brevemente per mantenerlo perlato al centro. Così rimarrà bello succoso. Ricevi più consigli e informazioni al banco del pesce, dove il pesce viene sfilettato, marinato e messo sotto vuoto secondo i desideri della clientela.

cotto, 200 g, in self-service

Tutti i sushi e tutte le specialità giapponesi per es. Maki Mix, tonno: pesca, Pacifico; salmone, allevamento, Norvegia, 200 g, 6.95 invece di 8.95

20% Tutti i gamberetti surgelati (prodotti Alnatura e Sélection esclusi), per es. gamberetti tail-on Pelican, cotti, ASC, 500 g, 12.75 invece di 15.95

Migros Ticino

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In v e ndit a anc he al banc on e

15% Filetti dorsali di merluzzo, MSC in vendita al bancone e in self-service, per es. M-Classic, pesca, Atlantico nordorientale, in self-service, per 100 g, 3.30 invece di 3.90

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

15.06.2022 16:40:38


Formaggi, latticini e uova

Da sciogliersi in bocca

se r v i i l Consig lio: mol le su formag g io e g rig liat e ld v e r du r e c a conf. da 3

25% 4.70

20% Mozzarella bio

Formaggi morbidi selezionati bio

3 x 150 g

disponibili in diverse varietà, per es. Formaggino alla panna, 125 g, 2.45 invece di 3.10

invece di 6.30

Se nza lat tosio e con 25 g di prote ine pe r bottiglia

conf. da 3

21%

20%

conf. da 4

20%

Caffè Starbucks, Fairtrade

Tutti i drink e i budini Chiefs

Yogurt bio

Cappuccino, Caramel Macchiato o Caffè Latte, per es. Cappuccino, 3 x 220 ml, 5.50 invece di 7.05

per es. drink Choco Mountain, 330 ml, 2.35 invece di 2.95

disponibili in diverse varietà, per es. al cioccolato, 4 x 180 g, 2.85 invece di 3.60

Migros Ticino

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15.06.2022 16:40:15


Ordinato, consegnato! migros.ch

conf. da 2

20% 8.60 invece di 10.80

21% 2.05

21% 1.60

Rosette di formaggio Tête de Moine, AOP 2 x 120 g

invece di 2.05

15% 1.70

Fontal Italiano per 100 g, confezionato

invece di 2.60

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Le Gruyère piccante, AOP in conf. speciale, per 100 g

Formaggella ticinese 1/4 grassa per 100 g, confezionato

uo v a La famig lia di tt e pe r e si allarg a: pe rfolazione le uov a de lla c

20x PUNTI

17% 1.70

15% Formaggini freschi per 100 g

invece di 2.05

Migros Ticino

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Novità

Mezza panna per salse, mezza panna acidula e latte acidulo M-Dessert Valflora per es. mezza panna per salse, 200 ml, 1.70 invece di 2.–

3.90

Uova svizzere per la colazione da allevamento all'aperto 6 x 68 g+

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

15.06.2022 16:40:29


Pane e prodotti da forno

Da provare assolutamente: i nostri highlight al forno

25% Il nost ro pane de lla se tt imana: limite d editi part ic olarmente aromat icon con oliv e ve rdi succ ulenti a, e mandorle croccant i

Tutti i tipi di pane per toast American Favorites per es. toast XL bianco, IP-SUISSE, 365 g, 1.45 invece di 1.95

20x PUNTI

Novità

4.40

4.50

Pane olivemandorle, IP-SUISSE 400 g, confezionato

document7911721554916436182.indd 10

Hit 5.–

Pane ai cereali antichi, IP-SUISSE 500 g, confezionato

conf. da 6

Millefoglie con glassa di zucchero bianca in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g

25% 5.40

Biberli d'Appenzello 6 x 75 g

invece di 7.20

15.06.2022 16:40:18


Bevande

Qualcuno ha detto aperitivo?

conf. da 6

32% 4.25 invece di 6.30

conf. da 6

Acqua minerale San Pellegrino 6 x 1,25 l

conf. da 6

40% 2.95

36% 7.95 invece di 12.60

Coca-Cola Classic o Zero, 6 x 1,5 l, per es. Classic

30% Rocchetta

Succhi di frutta Sarasay, Fairtrade

6 x 1,5 l

disponibili in diverse varietà, 1 l o 6 x 1 l, per es. arancia, 1 l, 1.95 invece di 2.80

invece di 4.95

33% Tutte le birre analcoliche per es. Lager Feldschlösschen, lattina, 500 ml, 1.20 invece di 1.85

ante Be v anda rinfre sce con caffe ina tè mate

conf. da 12

26% 15.95 invece di 21.60

El Tony Mate 12 x 330 ml

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

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15.06.2022 16:40:29


Dolce e salato

Dessert estivi e altre ghiottonerie

a partire da 2 pezzi

22% Tutti i gelati Crème d'or prodotti surgelati, (art. spacchettati esclusi), per es. Vanille Bourbon, 1 l, 7.95 invece di 10.20

IDEALE CON

a partire da 2 pezzi

–.50 di riduzione

4.10 invece di 4.60

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Mandorle bio 200 g

20% 3.95

Albicocche bio vaschetta da 500 g

invece di 4.95

15.06.2022 16:39:46


A m o r e pe i l c i oc c o l a r t le tav ole t t o: F r e y pr e f e e rit e conf. da 3

30%

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Choc Midor Rocher o Rondo, per es. Rocher, 3 x 100 g, 6.50 invece di 9.30

Knoppers in conf. speciale, 15 pezzi, 375 g

conf. da 20

40% 24.– invece di 40.20

Tavolette di cioccolato Frey assortite, 20 x 100 g

Hit 3.80

invece di 23.90

in conf. speciale, 363 g

20%

conf. da 2

28% 17.–

Peanut M&M's

Tutto l'assortimento Torino Pralinés Lindt Mini o Connoisseurs, in confezioni multiple, per es. Mini, 2 x 180 g

conf. da 2

25%

(prodotti da forno esclusi), per es. al latte, 5 pezzi, 115 g, 2.80 invece di 3.50

ofsze ll con Prodott e a Bisch ze re patate sv iz

Hit 3.35

Hit 9.80

Maltesers in conf. speciale, 192,5 g

Sweet Mushrooms Red Band in conf. speciale, 875 g

conf. da 2

20%

20%

Stecche Blévita

Tutte le Farm Chips

Graneo o Snacketti Zweifel

al sesamo, Classic o Original, per es. al sesamo, 2 x 295 g, 4.95 invece di 6.60

per es. erbe svizzere, 150 g, 2.20 invece di 2.80

disponibili in diverse varietà, per es. Graneo Original, 2 x 100 g, 4.70 invece di 5.90

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

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15.06.2022 17:17:28


Scorta

Tutto l’occorrente dalla mattina alla sera

Consig lio: rosola fung hi e fog lie di e salv ia e se rv ili com acc ompag namento conf. da 3

20%

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Oli di oliva Alexis

Rösti M-Classic

Manaki o Koroneiki, per es. Manaki, 500 ml, 5.60 invece di 7.–

Original o alla bernese, per es. Original, 3 x 500 g, 3.90 invece di 5.85

Con ripie n o pomodori di mo z z a r e l l e a conf. da 2

28% Pizze dal forno a legna Anna's Best prosciutto & mascarpone o prosciutto, in conf. multipla, per es. prosciutto, 2 x 420 g, 9.95 invece di 13.90

30%

conf. da 2

20% Gnocchi alla caprese, spätzli all'uovo o fiori al limone e formaggio fresco Anna's Best in conf. multiple, per es. gnocchi, 2 x 400 g, 7.90 invece di 9.90

a partire da 2 pezzi

20%

Tutti i sofficini M-Classic

Tutti i tipi di riso M-Classic da 1 kg

surgelati, per es. al formaggio, 8 pezzi, 480 g, 3.60 invece di 5.60

per es. riso S. Andrea, 1.70 invece di 2.10

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15.06.2022 16:39:47


conf. da 3

a partire da 3 pezzi

33% 16.65

invece di 24.90

33% Caffè Caruso Oro, in chicchi o macinato

Tutte le capsule Café Royal per es. Espresso, 36 capsule, 9.80 invece di 14.60

per es. in chicchi, 3 x 500 g

20% Tutti i semi, i fiocchi, i flakes e i pops per la colazione bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. fiocchi d'avena integrali fini, 500 g, –.95 invece di 1.20

a partire da 2 pezzi

20%

a partire da 2 pezzi

–.50 di riduzione

Tutta la frutta secca bio e tutte le noci bio (prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. gherigli di noci, 100 g, 2.80 invece di 3.30

conf. da 3

33%

Tutto l'assortimento El Sombrero

Insalate di tonno Mimare, MSC

per es. Salsa Dip Mild, 315 g, 1.35 invece di 1.65

disponibili in diverse varietà, per es. Western, 3 x 250 g, 4.90 invece di 7.35

Offerte valide solo dal 21.6 al 27.6.2022, fino a esaurimento dello stock.

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15.06.2022 16:39:57


Bellezza e cura del corpo

In ordine, dalla testa ai piedi

a partire da 2 pezzi

25%

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Tutto l'assortimento Pedic (confezioni da viaggio escluse), per es. cura intensa con urea, 75 ml, 4.45 invece di 5.90

a partire da 2 pezzi

25%

Tutte le colorazioni Syoss e Schwarzkopf

Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del viso L'Oréal Paris

per es. mascara per capelli Syoss castano, il pezzo, 9.65 invece di 12.90

(prodotti Men, confezioni da viaggio e confezioni multiple esclusi), per es. siero Revitalift Filler, 30 ml, 18.75 invece di 24.95

Pe r un'idratazio ne una carnag ione inte nsa e pe rfe tta

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Assortimento Invisibobble e Tangle Teezer

100 ml

per es. elastico per i capelli Invisibobble Bronze Me Pretty, il pezzo, 5.95

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Fondotinta Nivea Cellular Filler Serum chiaro o medio, per es. medio, 30 ml

Pe r bambini a par tire da 6 me si

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Spray Anti Insect Kids

Prodotti per la rasatura intima Gillette Venus e Satin Care

100 ml

per es. rasoio, il pezzo, 14.50

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Trattamento viso Nivea Vital Rose crema per il contorno occhi o crema da giorno nutriente, per es. crema da giorno, 50 ml

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25% Deodoranti Borotalco per es. roll-on Original, 2 x 50 ml

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Dentifricio protezione carie o Sensitive Elmex

Dentifricio sbiancante delicato e siero On the Go Elmex Sensitive Professional

per es. dentifricio protezione carie, 3 x 75 ml, 8.75 invece di 11.70

per es. siero On the Go, 5 ml, 11.50, in vendita nelle maggiori filiali

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Tutti gli assorbenti o i salvaslip Molfina

3 x 200 pezzi

per es. salvaslip Bodyform Air, FSC®, 2 x 46 pezzi, 2.80 invece di 3.30

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Abbigliamento e accessori

Per più comfort e una visione migliore

40% Tutto l'assortimento di reggiseni, biancheria intima e per la notte da donna per es. canottiera bianca, bio, tg. M, il pezzo, 8.95 invece di 14.95

conf. da 10

conf. da 10

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Hit Fantasmini da donna bio disponibili in nero o bianco, n. 35–38 e 39-42

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30% Tutto l'assortimento di occhiali da sole e da lettura per es. occhiali unisex, il pezzo, 34.95 invece di 49.95

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Hit Fantasmini da uomo bio disponibili in nero, bianco o antracite, n. 39–42 e 43–46

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Slip da uomo bio disponibili in nero o blu marino, tg. S–XL

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Cuscino da viaggio per la nuca Ella disponibile in blu o nero, il pezzo

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Casalinghi

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Tutti i pannolini Pampers

(sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 1 kg, 3.95 invece di 7.90

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per es. 1 for all in conf. di ricarica, 2 litri, 8.45 invece di 16.90

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to a t s e t o Prodot torg ani da e nt i d n e p i i nd

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Carta igienica Soft, FSC®

con 9 scomparti, disponibile in grigio o beige, il pezzo

Comfort Recycling o Deluxe Ultra, in confezioni speciali, per es. Deluxe Ultra, 24 rotoli, 14.55 invece di 20.80

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