Azione 30 de 20 luglio 2015

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30

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Politica e Economia

Atene non è New York Crisi dell’eurozona Per capire il senso di ciò che sta accadendo in Europa è utile ricordare quanto capitò nel 1975

quando la più grossa metropoli degli Stati Uniti sull’orlo della bancarotta si vide negare ogni aiuto federale

Manifestanti anti-Europa e anti-austerity sventolano uno striscione con scritto «la fine». (AFP)

Federico Rampini «Ford to City: Drop Dead». Quel titolo mi torna in mente oggi quando penso a quello che resta del progetto europeo dopo l’estenuante pasticcio greco. Il Ford del titolo era Gerald, presidente degli Stati Uniti, succeduto a Richard Nixon dopo lo scandalo del Watergate. Il 29 ottobre 1975, mentre la città di New York era sull’orlo della bancarotta, il repubblicano Ford fece un discorso in cui negò ogni aiuto federale alla più grossa metropoli degli Stati Uniti. Il tabloid «Daily News» sintetizzò con efficacia il senso del discorso in quel titolo a caratteri cubitali: «Ford alla città: crepa». Sono passati poco meno di 40 anni da allora. Per capire il senso di ciò che sta accadendo in Europa è utile il raffronto con quella vicenda. Angela Merkel, sia chiaro, non sta dicendo alla Grecia: «Crepa». Anzi, dopo una serie interminabile di vertici europei, l’esito è stato un ennesimo piano di salvataggio. Probabilmente è uno pseudosalvataggio, che impone condizioni insostenibili – lo dice perfino il Fondo monetario internazionale – e tuttavia almeno secondo le apparenze, è scattata qualche forma di aiuto e di solidarietà. Ad Atene però in molti pensano che il senso del comportamento di Berlino sia quello: «Crepa». Visto che gli Stati Uniti sono il modello più importante di una Unione federale che funziona, vale la pena ricordare quella crisi finanziaria «locale» di 40 anni fa. Di fronte al rischio di default di un municipio molto importante, non scattò nessuna solidarietà federale. La città di New York venne abbandonata al suo destino. Poi se la cavò, da sola, con una cura fatta anche di austerity. Ma il mancato aiuto di Washington va precisato. Non ci furono prestiti speciali offerti dall’Amministrazione federale alla città di New York. Ma continuarono ad affluire tutti gli aiuti federali che sono normali negli Stati Uniti. I disoccupati newyorchesi continuarono a ricevere sussidi federali. I pensionati newyorchesi continuarono a incassare la pensione pubblica federale (Social

Security). Altri trasferimenti federali di sostegno all’assistenza medica per i poveri e gli anziani (Medicaid, Medicare) continuarono a funzionare normalmente. Anche se una città americana o un intero Stato Usa possono andare in bancarotta, senza che scatti automaticamente un salvataggio federale, molte forme di solidarietà restano in piedi senza che nessuno ci faccia caso. Infine, quel titolo «Ford to City: Drop Dead» ebbe una conseguenza importante. Fece una vittima illustre: lo stesso Ford. L’anno seguente, nel 1976, Ford tentò di farsi eleggere – al suo primo mandato lui era arrivato da vicepresidente – ma venne sconfitto dal democratico Jimmy Carter. Non solo Ford perse i voti di New York, ma anche in altre parti degli Stati Uniti il suo comportamento verso quella città venne considerato un errore e gli fece mancare molti consensi. Non fu l’unica ragione della sua sconfitta (pesava molto il Watergate), ma quel «Crepa» rimase come un marchio d’infamia.

Il Fmi lo aveva detto: non se ne esce se si continuano ad accumulare nuovi prestiti ad Atene Quanto l’eurozona sia lontana da quel modello di unione federale, è facile vederlo. In mancanza di un piano europeo di salvataggio, la Grecia non avrebbe dei flussi automatici di «solidarietà federale» come quelli che ho ricordato a proposito degli Stati Uniti. E se si andasse a votare domani… Ma di quali elezioni parliamo? Non esiste un presidente europeo eletto a suffragio universale che debba rispondere a tutti i cittadini dello stato dell’Unione. La Merkel viene eletta solo dai tedeschi. I quali sono generalmente d’accordo con lei sull’austerity, e sul trattamento riservato ai greci. Anzi, se c’è qualche differenza è perché la Merkel ha cercato di fare il possibile per mantenere la

Grecia nell’euro mentre molti dei suoi elettori l’avrebbero già abbandonata da tempo al suo destino. Non è un caso se il suo ministro dell’Economia, Wolfgang Schaeuble, a un certo punto ha proposto l’espulsione della Grecia per 5 anni dall’euro. Probabilmente in quel momento il «falco» Schaeuble interpretava gli umori della sua opinione pubblica ancora meglio della Merkel. Ecco, a proposito, un’altra differenza fondamentale con gli Stati Uniti. Una città come New York può fare bancarotta, uno Stato pure, ma questo non significa che possa o debba uscire dall’area dollaro: ci mancherebbe altro. È semplicemente impossibile che New York o Detroit, la California o il Texas, si mettano a stampare un’altra moneta. La moneta, come la difesa, fanno parte delle responsabilità federali. Ciò non impedisce naturalmente che esistano grosse differenze all’interno degli Stati Uniti. E non mi riferisco solo ai livelli di sviluppo economico. Le differenze politiche, culturali, valoriali, sono altrettanto marcate. In molti Stati del Sud c’è ancora un razzismo contro i neri, che suscita indignazione a New York o in California. Dai matrimoni gay al cambiamento climatico, gli Stati solidamente conservatori sono agli antipodi rispetto a quelli progressisti. Perciò quando Ford disse «Crepa» a New York, interpretava gli umori di un elettorato conservatore, convinto che la Grande Mela fosse gestita malissimo, con spese pubbliche clientelari, assistenzialismo, sprechi. E New York reagì nel modo migliore: rimboccandosi le maniche, per risanarsi da sola. Anche qui colpisce una differenza sostanziale rispetto alle vicende greche. Ad Atene si è scelto di rispondere all’arroganza tedesca con il vittimismo, mettendo così in secondo piano le enormi responsabilità nazionali. La crisi greca non è stata fabbricata a Berlino. È anzitutto la conseguenza di un malgoverno protratto da molti anni, sia con governi di destra che di tecno-centro e di sinistra. La Grecia ha una delle peggiori classi dirigenti d’Europa. Ha dei ricchi che

evadono il fisco in proporzioni enormi, i quali hanno messo da tempo i propri capitali al sicuro all’estero. Anche chi non è ricco, ma è riuscito a farsi raccomandare per un’assunzione nella pubblica amministrazione, spesso è a modo suo un parassita: lavora poco, va in pensione giovane. Queste cose non le hanno inventate i tedeschi. Queste cose, anzi, fanno inorridire i tedeschi e li rafforzano nei loro pregiudizi antimeridionali. Più i greci si rifugiano in una cultura del vittimismo, del piagnisteo e della recriminazione, più danno alibi ideologici alle frange violente che scendono in piazza per sfasciare tutto. Non giovano le idiozie propagandistiche dell’ex ministro dell’Economia Varoufakis che descrive i creditori come dei «terroristi». Non aiutano i manifesti dove la Merkel viene truccata con i baffetti di Hitler, e i continui riferimenti al nazismo. Questa Germania ha altri difetti – molto meno gravi per fortuna – ma è un paese solidamente democratico, oltre che pacifista. Non si fa nessun passo avanti verso la soluzione del dramma greco – e tantomeno si avanza verso la costruzione di un’identità europea – se si sceglie di ignorare le proprie colpe. Dipingere la crisi greca solo come un complotto dei banchieri e della classe dirigente tedesca, significa auto-assolversi e quindi è la garanzia che i greci continueranno a praticare tutti i vizi che li hanno portati fin qui. Assai singolare è stata anche la pretesa di piegare le resistenze di Berlino e Bruxelles chiamando i greci ad esprimersi in un referendum: perché mai quel referendum avrebbe dovuto vincolare tutti gli altri cittadini europei? È come se nella vicenda del 1975 la città di New York avesse indetto un referendum contro Gerald Ford. Ridicolo, no? Non siamo ancora alla parola «fine», tutt’altro. I conti del Fondo monetario sono questi. Il debito greco era il 127% del Pil di quel Paese all’inizio della crisi. Oggi, grazie alla cura Merkel dell’euro-austerity, è salito al 176%. L’accordo recente raggiunto fra i creditori europei e il governo Tsipras, poiché

non prevede perdoni dei debiti pregressi, farà salire quel quoziente al 200% in soli due anni. Ma quando un paese ha un debito pubblico che è due volte la sua produzione annua di ricchezza, in base alle regole (e all’esperienza passata) del Fmi, oltrepassa la soglia della «sostenibilità». Diventa matematicamente impossibile invertire la tendenza. Come un aereo che si «avvita» e non reagisce più ai comandi, perché ormai la forza di gravità lo attrae in modo irresistibile verso lo schianto finale. Il Fondo ha sempre sostenuto queste posizioni, maturate in decenni di esperienze alle prese con degli Stati che falliscono. A un certo punto bisogna dire ai creditori: rassegnatevi, mettete una croce su una parte dei vostri crediti perché non li vedrete più; salviamo il salvabile, non uccidiamo l’economia dello Stato insolvente, così almeno potrete recuperare una parte di quel che vi spetta. Fin dall’inizio di questa terza puntata della tragedia greca (tre puntate, quanto i prestiti fin qui associati ad altrettanti «salvataggi») il Fondo lo aveva detto: non se ne esce se si continuano ad accumulare nuovi prestiti ad Atene che vanno a sommarsi ai debiti precedenti. Qualcuno a Berlino crede davvero che generazioni multiple del popolo greco, i bisnipoti e trisnipoti dei nostri contemporanei, potranno continuare a pagare le rate di questo mutuo? Fino al secolo ventiduesimo? E con un’economia che si restringe di anno in anno? Il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, fu il primo degli esponenti della troika (Commissione Ue, Bce, Fondo) a decretare «il re è nudo», quando definì l’euro-austerity «un insuccesso». In ogni caso lo statuto del Fondo parla chiaro, gli vieta di prestare altri capitali ad un Paese che abbia superato la soglia critica della «sostenibilità» del debito. Non resta che una soluzione, piegare la resistenza tedesca e introdurre un «haircut», quel taglio dei capelli che è l’immagine metaforica per illustrare il sacrificio richiesto alla comunità dei creditori. In questo caso, una rapatina soprattutto al resto dell’eurozona, Germania in testa.


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