Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVIII 20 luglio 2015
Azione 30
Società e Territorio Un incontro con i guardiani delle capanne Cristallina e Quarnei
Ambiente e Benessere Anche in Ticino l’intervento sanitario è sempre più cibernetico grazie all’applicazione Echo 112
Politica e Economia A Vienna storico accordo sul nucleare iraniano
Cultura e Spettacoli Renzo Ferrari, artista difficile da etichettare, in mostra a Lugano
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Keystone
Re di una notte, Dylan a Locarno
di Benedicta Froelich pagina 29
Un accordo con conseguenze imprevedibili di Peter Schiesser Che cosa sta dietro a un accordo come quello fra Stati Uniti e Iran sul nucleare? Una visione? Mero calcolo? Se diamo per probabile che il Congresso degli Stati Uniti non riuscirà a bocciarlo (a Obama basta un terzo dei voti), dove porterà questo accordo dopo 36 anni di inimicizie e guerre sotterranee? C’è già oggi l’intenzione, da parte di questa Amministrazione e da una certa fazione dell’establishment politico americano, di creare nuovi equilibri in Medio Oriente, la regione più squilibrata del mondo? Gli uni, Israele e Arabia Saudita per primi, lo temono, altri se lo augurano, ritenendo l’Iran un Paese la cui popolazione (perlopiù non araba) è più ben disposta verso l’Occidente, nonostante la cappa del regime clericale degli ayatollah, di quanto lo siano le popolazioni arabe. Oppure quello di Obama è puro calcolo: di voler entrare nella storia, cogliendo questa occasione al volo, ben sapendo che in nessun modo, neppure con la forza militare, si riuscirebbe ad impedire all’Iran di dotarsi della bomba atomica? Oppure c’è un cocktail di ragioni in cui visioni e calcoli si sciolgono? Probabilmente i frutti, rispettivamente le
conseguenze di questo accordo si vedranno solo fra molti anni. Negli Stati Uniti sono immediatamente sorti paragoni con la storica visita a sorpresa del presidente americano Richard Nixon a Pechino nel 1972. Era ancora in corso la guerra in Vietnam, da cui il repubblicano Nixon stava uscendo ritirando le truppe così massicciamente incrementate dal suo predecessore democratico (Lyndon Johnson), e la Cina era alleata dei comunisti del Vietnam del Nord, in lotta contro il regime sudvietnamita sorretto dagli americani. Quella stretta di mano con Mao Zedong ha cambiato letteralmente il mondo, sull’arco di 40 anni. Se Nixon avesse previsto che la pace con la Cina (il cui scopo era anche di isolare l’Unione Sovietica) avrebbe soltanto mezzo secolo più tardi portato l’antico Impero celeste, apertosi dopo Mao al capitalismo, a reclamare la supremazia economica mondiale, sarebbe andato a Pechino? E se non ci fosse andato, in quale mondo vivremmo oggi? Nixon non poteva immaginare le molteplici implicazioni della sua visita, come Obama non può sapere se rafforzare l’Iran togliendo le sanzioni economiche e l’embargo sulla vendita di petrolio in cambio di un disimpegno nucleare significa ratificare l’ascesa di Teheran a ruolo di stabilizzatore o al contrario di domina-
tore del Medio Oriente, in contrasto con gli equilibri attuali e con la decennale alleanza degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita (minata dal fondamentalismo wahabita che ha generato al Qaeda e altre forme di terrorismo). Era possibile lasciare le cose come stavano, con l’Iran al margine della comunità internazionale, un Paese dalla grande forza demografica ed intellettuale, socialmente più avanzato di tanti Stati arabi, con una storia e una cultura secolari? L’Iran potrebbe rivelarsi un jolly, come anche una carta che complica ancora di più il gioco della geopolitica. Ma non lo sapremo così presto. Con le aperture verso Iran, Cuba e Myanmar (Birmania) l’Amministrazione Obama mostra comunque di avere una strategia chiara: dialogare e collaborare con i vecchi nemici ideologici non sulla base della fiducia, che non c’è, ma sulla verificabilità degli accordi che vengono man mano conclusi. Gioca a favore degli Stati Uniti anche la grande sete di benessere materiale che oggi hanno pure i Paesi comunisti o anti-occidentali. Possiamo pensare che Cuba sia ancora comunista, ma il capitalismo si sta facendo largo, per ora ancora timidamente; tempo dieci anni e dei fratelli Castro si ricorderà forse solo la Storia. Mentre probabilmente non ci scorderemo dell’Iran.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30
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Attualità Migros
M «Il nostro è un lavoro da pionieri» Sostenibilità Migros sostiene diversi progetti di ricerca con l’obiettivo di realizzare una produzione ecologicamente
valida. L’esperto Manfred Bötsch ci spiega di cosa si tratta Sabine Müller Manfred Bösch, perché Migros si attiva per destinare ogni anno mezzo milione di franchi a progetti di ricerca?
Nel settore della sostenibilità svolgiamo un ruolo da pionieri. Oltre a questo, dobbiamo guardare avanti e individuare attivamente delle soluzioni alternative a quelle attualmente utilizzate. Ciò implica innanzitutto che si cerchino collaborazioni con istituti di ricerca competenti. In che direzione si muovono le ricerche?
I progetti di ricerca si concentrano sui temi ambientali, sul benessere degli animali e su questioni sociali. Negli ultimi tempi il tema importante è rafforzare la sostenibilità, per affermare costantemente questo nostro ruolo di precursori. Ma cosa significa ciò, detto concretamente?
Nel settore della coltivazione della colza, ad esempio, un grosso problema è costituito dal meligete: è un tipo di scarafaggio che si nutre dei germogli, provocando una massiccia diminuzione dei raccolti. Invece di combatterlo con degli insetticidi, l’Istituto Agroscope, legato all’Ufficio federale per l’agricoltura, sta conducendo degli esperimenti che utilizzano un fungo specifico, il quale indebolisce i parassiti, e permette una riduzione del danno
Manfred Bötsch (60 anni), Responsabile della direzione sostenibilità e management della qualità della Federazione delle cooperative Migros, è l’ex direttore dell’Ufficio federale dell’agricoltura.
alle coltivazioni. Un altro settore in cui si sperimenta molto è quello dell’allevamento ittico.
Le collaborazioni Ricerca sulla sostenibilità
Quest’anno Migros sostiene complessivamente dieci progetti di ricerca con un sussidio totale di 500 mila franchi. L’Istituto di ricerca dell’agricoltura biologica (FiBL) si occupa ad esempio di problemi quali la possibilità di aumentare la componente proteica nei mangimi prodotti in Svizzera, l’impatto ecologico ed economico della carne Bio «Manzo da pascolo» sulle aziende agricole, oppure la possibilità
di rinforzare il sistema immunitario dei pesci d’allevamento. Un progetto riguarda in particolare Agroscope: esso dovrebbe permettere l’implementazione di un sistema a punti che renda misurabile l’emissione di gas a effetto serra delle aziende agricole. Nella facoltà di veterinaria dell’Università di Berna, poi, si stanno sperimentando sistemi di allevamento dei vitelli che rinuncino completamente all’uso di antibiotici.
Perché Migros attribuisce un tale importanza al pesce?
La richiesta di questo tipo di prodotti è alta, e non può essere soddisfatta solo con la pesca in mare aperto o nei laghi. Di conseguenza, si incrementa il ruolo che possono esercitare gli allevamenti. Già oggi, quasi la metà del pesce venduto da Migros proviene da lì. E in questo settore ci sono molti problemi da risolvere legati alla salute dei pesci. Quali sono le sfide relative all’allevamento ittico?
Oggi il settore vanta un’esperienza pluriennale solo nel campo dell’allevamento delle trote. A causa delle specifiche norme di protezione dell’ambiente, in Svizzera attualmente non possono essere costruiti nuovi stabilimenti. Per questo i progetti di ricerca nel settore
dell’allevamento ittico possono essere condotti utilizzando soltanto sistemi a circuito chiuso. La chiave del progetto è fare in modo che l’acqua utilizzata possa essere costantemente ripulita, utilizzando il minimo possibile di nuova acqua e la minor quantità possibile di energia. Tutto ciò garantendo una salute ottimale dei pesci, perché solo in questo modo potremo fare riprodurre esemplari freschi e sani. In che ambito si muove concretamente la ricerca?
Siamo sempre più confrontati con malattie come la micosi prodotta dalla muffa della Saprolegnia. Colpisce le squame dei pesci e le indebolisce. Cerchiamo di combattere questo fungo in modo naturale, ad esempio utilizzando estratti di erbe che sono attualmente in fase di sperimentazione all’Istituto
di ricerca dell’agricoltura biologica (FiBL). Alcuni di questi estratti rinforzano il sistema immunitario dei pesci, altri combattono direttamente la muffa batterica. I risultati sono soddisfacenti?
Molto. L’estratto in grado di combattere la muffa si è dimostrato efficace, ed essendo un preparato naturale, si è dimostrato del tutto biodegradabile. Nell’acqua non ne rimangono tracce che possano costituire un problema. Presto l’estratto sarà sperimentato direttamente in un allevamento ittico. La capacità di resistenza dei pesci è aumentata?
I ricercatori non sono riusciti a verificare una reale capacità protettiva sui pesci, ma hanno notato che gli esemplari nutriti con l’estratto sono cresciuti in modo visibilmente più veloce.
L’impegno di Beretta
Richiamo di prodotto
Generazione M Migros chiede alle aziende estere di applicare
Informazione ai clienti Ne è oggetto il set
le normative sul benessere degli animali valide in Svizzera
L’industria alimentare italiana Beretta fornirà da oggi a Migros salumeria a base di carne di maiale che risponde alle restrittive norme svizzere in materia di benessere animale. La novità riguarda salame, prosciutto di Parma, prosciutto cotto e mortadella. Per raggiungere questo obiettivo, nel corso degli ultimi due anni un’azienda del Nord Italia, fornitrice di Beretta e attiva nell’ingrasso dei maiali, è stata riorganizzata: oggi i suini dispongono di maggior spazio, di mangiatoie più ampie e di zone di riposo senza grate. Altre misure hanno permesso di garantire il rispetto dei
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
di trucchi da bambina «Gentle Girls valigia con belletto»
criteri svizzeri per quanto riguarda la salute degli animali, le condizioni di allevamento, di trasporto e di macellazione. Migros è il primo distributore svizzero a proporre carne di maiale importata prodotta secondo le norme della Protezione svizzera degli animali. Il cambiamento introdotto con la salumeria Beretta è un ulteriore passo verso la realizzazione di un obiettivo ambizioso: nell’ambito di Generazione M, Migros ha promesso d’applicare entro il 2020 gli elevati standard svizzeri relativi al benessere degli animali anche ai prodotti importati.
Un test condotto sul set di trucchi da bambina distribuito dal fornitore Nimex (il produttore è invece la Five Stars H.K. Ltd.) ha permesso di riscontrare la presenza di un colorante non consentito. Migros ha quindi deciso di richiamare, in via precauzionale, il prodotto. Il suo numero d’articolo è 7446.587.00000, il prezzo Fr. 8.90: il giocattolo è in assortimento dall’ottobre del 2014. La presenza del colorante è stata riscontrata nel lucidalabbra glitter rosa (formina circolare al centro della confezione) e violetto (formina a forma di
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
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fiore in alto a destra nella confezione). Preghiamo le nostre clienti e i nostri clienti di prestare attenzione, affinché i loro figli non facciano più uso di questi set di trucchi. Possono riconsegnare il prodotto in tutte le filiali Migros e ricevere in restituzione il prezzo di vendita. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Società e Territorio Le forme del desiderio Lo psicologo evolutivo Jesse Bering analizza l’origine delle abitudini sessuali dell’uomo pagina 5
Le università telematiche In Ticino sono ancora una realtà praticamente sconosciuta e chi vi si iscrive non ha diritto alle borse di studio, ma c’è chi apprezza questo «approccio diverso allo studio»
La cultura tecnica in una guida Un volume pubblicato dalla rivista «Archi» presenta esempi di ingegneria e architettura in Ticino degli ultimi quindici anni pagina 8
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La capanna Cristallina: da quest’anno il guardiano è Aaron Rezzonico, ex pilota di aeroplani. (Ti-Press)
«In capanna, padrone di me stesso» I guardiani Due incontri, due storie di chi in capanna lavora e accoglie gli ospiti
Roberto Porta Oggi si situa a metà strada tra l’albergatore, il cuoco – a volte anche di ottimo livello –, il soccorritore e la guida alpina. «Io cerco di interpretare questa professione all’insegna dell’accoglienza – ci dice Aaron Rezzonico, da quest’anno guardiano alla Capanna Cristallina –, accolgo le persone che arrivano qui come farei se fossi a casa mia a Bidogno. Chiamo i miei ospiti per nome e cerco di metterli il più possibile a loro agio». Lassù a 2575 metri il rifugio Cristallina – di proprietà della sezione ticinese del Club Alpino Svizzero – è una sorta di pensione d’alta quota, una delle strutture alpine più grandi della Svizzera con i suoi 120 posti letto. «Qui c’è sempre qualcuno, difficilmente la capanna è vuota», aggiunge Aaron che è alla sua prima stagione da guardiano, dopo quella che si può davvero chiamare una «virata d’alta quota». «Fino a qualche mese fa facevo il pilota di aeroplani ed ero istruttore di volo – ci confessa il 42enne neo-capannaro – poi ho deciso di cambiare vita, ero stufo di quel lavoro e di quel tipo di vita. Ho pilotato aerei charter per una compagnia con sede a Basilea e negli ultimi cinque anni ero alle dipendenze di uno sceicco
arabo, con missioni settimanali al suo servizio. Ma è un mondo che non mi piace più e ho preferito voltare pagina. Qui mi sento di nuovo padrone di me stesso, ho ripreso la mia vita in mano. Se le cose andranno bene è merito mio, se vanno male saprò di chi è la colpa». Aaron è al Cristallina con moglie e tre figli, di 15, 13 e 2 anni. «Ognuno ha il suo compito, io mi occupo dell’accoglienza, mia moglie della cucina, i figli maggiori del servizio ai tavoli. C’è anche un impiegato fisso, un ragazzo del Tibet, senza dimenticare il ruolo prezioso dei volontari». Insomma una piccola azienda tra le vette, lassù lungo lo spartiacque tra la val Bedretto e la Val Bavona. In val Malvaglia invece ai 2107 metri della capanna Quarnei incontriamo Stefano Ghisla, guardiano della capanna di proprietà della Società Alpinistica Bassa Blenio, società che quest’anno festeggia i venti anni di attività. «Io sono ormai arrivato alla mia ottava stagione qui a Quarnei – ci dice Stefano, mentre prepara il pranzo di mezzogiorno – Di fatto mi sono messo sulle orme dei miei genitori, a partire dal Duemila guardiani di questo rifugio per cinque anni. Di professione sono cuoco e questa è una parte importante del mio lavoro, anche
qui tra queste belle montagne». Situata sotto la vetta dell’Adula, in una sorta di spettacolare altopiano circondato dalle vette, la Quarnei ha purtroppo subito un calo dei pernottamenti nel corso degli ultimi anni: «Prima c’è stato il fallimento della società che gestiva i rustici in Val di Blenio, poi la chiusura della teleferica che saliva da Malvaglia e quest’anno siamo alle prese con il franco forte. Un insieme di fattori che hanno portato ad una diminuzione delle presenze del 50%. Dopo la pioggia dell’anno scorso, il caldo di quest’anno però ci darà di sicuro una mano, chi è in fuga dall’afa sa che qui trova un po’ di fresco». Grazie ad un’azione di marketing mirata sui Paesi Bassi, fino a qualche anno fa a Quarnei c’erano parecchi escursionisti olandesi – «qualcuno ci arrivava con scarpette da passeggio non proprio adatte». Oggi gli appassionati arrivano soprattutto, oltre che dal Ticino, dalla Svizzera tedesca, dalla Germania e dall’Italia. «Malgrado il franco forte gli italiani vengono ancora – precisa Stefano – ma spendono molto meno. Prima ordinavano primo, secondo e dolce, ora si portano il pranzo al sacco e al massimo chiedono un caffè». Non mancano comunque le famiglie con figli, visto che la capanna
Quarnei si raggiunge grazie ad un comodo sentiero. «Ho scelto questa professione perché mi sento a mio agio, mi piace il contatto con la gente, che di solito qui in montagna è di buon umore – ci dice ancora il 42enne guardiano della capanna – Mi piace questo lavoro anche perché mi permette di vivere tra le montagne. Quando in capanna non c’è nessuno – può capitare a volte nei giorni infrasettimanali – mi diverto a guardare le cime, a contemplare il cielo stellato di notte, a rimanere in silenzio». Certo poi ci sono i momenti di lavoro più intensi e anche le levatacce, per chi chiede ad esempio la colazione alle 4 e mezzo del mattino per poi andare a scalare l’Adula, come è successo di recente quando tra gli ospiti da servire all’alba c’era persino Maria Walliser, l’ex campionessa di sci alpino. «Di levatacce qui al Cristallina ce ne sono poche – ci dice Aaron Rezzonico – perché le gite qui attorno alla capanna non necessitano di alzarsi prestissimo. Ho comunque una giornata bella piena, inizio alle 5 e mezzo e termino all’una di notte, e questo per tutta la stagione, sette giorni su sette». Tra le difficoltà della professione c’è l’aspetto dei rifornimenti, in particolare quelli di generi alimentari. «Devi essere
un po’ fortunato» – sottolinea Stefano Ghisla della capanna Quarnei, che conta 58 posti letto. «Grazie all’elicottero portiamo in capanna la merce, ma poi per i consumi ci vuole la presenza degli escursionisti. E qui la meteo gioca un ruolo fondamentale. L’anno scorso con la pioggia mi sono trovato in difficoltà, quest’anno va decisamente meglio». Al rifugio Cristallina l’elicottero arriva ogni 10 giorni e porta circa otto quintali di merce. Ad inizio stagione, i primi rifornimenti – con 20 voli di elicottero – hanno portato in capanna ben 10 tonnellate di prodotti. Cifre che ci indicano come le capanne di oggi siano ormai diventate dei veri e propri alberghi d’alta quota. «Ciò che mi meraviglia in questi primi mesi di mia presenza al Cristallina – fa notare Aaron Rezzonico – è la scarsa presenza di escursionisti ticinesi. Il 95% di chi arriva in capanna è svizzero-tedesco o straniero. E non parlo solo di escursionisti esperti ma anche di famiglie con figli». Eppure a due passi da casa – al Cristallina, al Quarnei o in qualsiasi altro rifugio alpino della regione – c’è un mondo da scoprire, anche attraverso l’accoglienza e le indicazioni di chi ha scelto la montagna come luogo della propria professione. E della propria passione.
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Società e Territorio
L’uomo e le forme del desiderio
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Evoluzione Nei suoi studi lo psicologo
evoluzionista Jesse Bering si chiede come mai l’uomo abbia abitudini sessuali così diverse dagli altri primati
Da un paio di decenni, cresce il numero degli psicologi e degli antropologi che si dedicano allo studio del modo in cui ci comportiamo e interagiamo con gli altri, osservandoci da una prospettiva evoluzionista. Non si tratta di un programma di ricerca rigidamente definito e chi vi partecipa può provenire da discipline diverse: le scienze cognitive, l’antropologia, la biologia, la filosofia – ma tutti hanno un orientamento adattazionista, sono cioè guidati dall’intento di scoprire a quale scopo l’evoluzione ha selezionato questo o quel tratto che caratterizza il modo in cui ragioniamo, in cui sentiamo o in cui ci mettiamo in relazione con gli altri. Un campo di studio molto frequentato dagli psicologi evoluzionisti, forse perché adatto a suscitare l’interesse dei mass media, è quello della sessualità. Le domande che si pongono gli psicologi evoluzionisti sono del tipo: «perché gli uomini hanno i capezzoli?»; oppure «perché le donne hanno l’orgasmo?»; oppure: «come può la selezione aver lasciato passare dal suo setaccio il tratto dell’omosessualità nella nostra e nelle altre specie?». Domande tutte che danno per presupposto che l’evoluzione tende ad ottimizzare quanto meglio possibile gli investimenti energetici degli organismi, allo scopo di aumentarne la fitness. Una possibile risposta alle prime due domande l’ha data la studiosa Elisabeth Llloyd: i maschi della nostra specie hanno i capezzoli per la stessa ragione per cui le donne hanno il clitoride, vale a dire perché l’evoluzione non è un ingegnere che ottimizza al meglio i suoi progetti, bensì un bricoleur che usa quanto meglio possibile ciò che ha sottomano. Il ragionamento della Lloyd è questo: mammiferi, le femmine della nostra specie debbono avere i capezzoli. Siccome per i primi quaranta giorni le gonadi dell’embrione sono indifferenziate, per l’evoluzione è più efficiente avere a disposizione un tessuto che, all’occorrenza, potrà efficacemente servire ad allattare, mentre non avrà nessuna particolare funzione per il futuro maschio. I maschi, dunque, hanno i capezzoli perché utili alle donne. Viceversa per il clitoride: utili ai maschi, i tessuti erettili che formeranno il pene sono presenti fin dall’inizio dello sviluppo fetale, diventando clitoridi nelle femmine. Ancora una volta, lavoro da bricoleur. Uno psicologo evolutivo particolarmente fecondo nelle ricerche dedicate ai temi del sesso studiati da un punto di vista evoluzionista è Jesse Bering. Nel volume intitolato Le for-
me del desiderio. Saggi sul sesso e altri tabù ha raccolto il frutto di ricerche proprio nell’ambito degli argomenti di cui non leggiamo mai sui giornali perché troppo impertinenti. D’altronde, fin dalle prime pagine Bering dichiara con chiarezza qual è il suo punto di vista: «quello di uno scienziato, con una specializzazione in psicologia, ateo, omosessuale, e con una predilezione per le teorie evoluzionistiche più audaci»; ovvio, quindi, trovar affrontati nei suoi saggi argomenti come la forma del pene, la funzione della masturbazione, la strana disposizione dello scroto nei maschi della nostra specie, o l’eiaculazione femminile – temi tutti da lui affrontati nelle pagine di «Scientific American». I suoi saggi attingono ad una letteratura scientifica vasta, che spesso si spinge anche molto indietro nel tempo, allo scopo di documentare inclinazioni sessuali poco consuete, che avevano destato l’interesse di medici e psichiatri già nell’Ottocento. Molto più spesso, però, egli fa riferimento ad una bibliografia molto recente, che documenta ricerche svolte per mettere alla prova ipotesi evolutive. La forma del pene, per esempio. Perché abbiamo evoluto un glande, che sembra fare una specie di gradino? I nostri cugini scimpanzé (a parte il fatto che hanno un pene proporzionalmente più piccolo) non hanno evoluto la stessa forma. Bering cita tutta una serie di esperimenti, che servirebbero a dimostrare l’ipotesi che «la corona del glande, proprio per la sua forma, è uno strumento efficace per la rimozione dello sperma estraneo». I maschi della nostra specie, per ottimizzare la diffusione dei propri geni, avrebbero dunque evoluto uno strumento che, prima deposita il seme, poi rimuove quello degli eventuali rivali. Con lo stesso interesse evoluzionista, Bering si occupa di numerosi altri argomenti, come per esempio quello dei peli pubici, stranamente assenti negli altri primati; oppure dell’acne, che sarebbe un maladattamento perché i nostri pori continuano a produrre quel sebo che serviva a lubrificare una peluria nel frattempo perduta. A volte, le ricerche di Bering sembrano quelle che lo scrittore Rudyard Kipling chiamava «storie proprio così», vale a dire ipotesi un po’ speculative, che presuppongono una intenzionalità improbabile – come la convinzione di Pangloss (nel Candide di Voltaire), secondo il quale il naso servirebbe per sostenere gli occhiali. Ma se vogliamo avere una conoscenza non solo diretta ma anche divertente e provocatoria dei risultati della psicologia evoluzionista nell’ambito della sessualità, gli studi di Bering sono imprescindibili.
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Lo psicologo americano Jesse Bering.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30
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Società e Territorio
L’università a casa Formazione In Ticino l’università telematica è una realtà ancora praticamente sconosciuta e chi la sceglie
non può beneficiare delle borse di studio cantonali Paola Bernasconi Internet e la sua diffusione hanno rivoluzionato molti settori. Perché, dunque, non integrarli anche nel mondo degli studi, soprattutto universitari? I primi a permettere anche a chi per svariati motivi non può, o non vuole, frequentare regolarmente, di laurearsi studiando da casa, sono stati gli inglesi con la Open University, che conta ora 200mila iscritti. A seguire Spagna, Germania, Francia, Olanda, Grecia, poi Svezia, Finlandia. In Italia, hanno conosciuto un boom di iscrizioni in una decina d’anni. E la Svizzera?
Tra le università telematiche più frequentate c’è la Open University inglese con i suoi 200mila iscritti. (Keystone)
Le università telematiche hanno dei limiti, ad esempio non dispongono di una struttura dedicata alla ricerca: erogano il sapere ma non lo producono A raccontarci la sua esperienza è Sonia, una studentessa di Bellinzona, iscritta al secondo anno di lettere all’Università degli Studi Guglielmo Marconi, fra le undici riconosciute dal Ministero Italiano delle Università e della Ricerca e quella che conta il maggior numero di iscritti a livello italiano (la scuola non ci ha però fornito il numero di ticinesi iscritti). «Voglio laurearmi senza dovermi per forza spostare ogni giorno, e senza andar via a vivere. Studio tramite videolezioni, e sulla piattaforma per ogni materia trovo le dispense e i test. Ho incontrato professori preparati e una grande disponibilità da parte della direzione, pur notando a volte qualche tempo troppo lungo nelle risposte dei tutor». E sul mancato contatto umano con altri studenti, ha detto che «non mi pesa. Peraltro, si incontrano altri iscritti e, seppur a distanza, è possibile instaurare rapporti veri. Se la scelta abbia influito sulla mia vita sociale e se essa sarebbe potuta essere diversa frequentando, non saprei rispondere». Pregiudizi, ammette, ne esistono parecchi. «Anche se i miei voti sono sudati, con corsi a volte più complessi di quelli di altre università. Il Cantone, però, non appoggia studenti come me: nonostante un’ottima media, non ho ricevuto una borsa di studio, poiché non frequento. Perché non supportare chi vuole studiare senza spostamenti e frequenza, causando meno costi per le famiglie e magari potendo anche lavorare?». Domanda che abbiamo girato al Capoufficio dell’Ufficio delle borse di
studio e dei sussidi, Piero Locarnini. «Per poter beneficiare di un aiuto allo studio è richiesta la frequenza presso una scuola o un istituto che deve rilasciare un diploma riconosciuto», ci ha confermato. «Il requisito della frequenza risulta sia dalle specifiche normative dei vari tipi di intervento sia dalla costante e consolidata prassi del nostro ufficio». Il Ticino, dunque, parrebbe non ritenere le università telematiche un metodo di studio valido. Ma è il livello a non essere giudicato all’altezza o è il metodo di lavoro a distanza che non piace? «Non spetta a noi esprimere un giudizio», ha affermato il Direttore della Divisione della cultura e degli studi universitari cantonale, Sandro Rusconi. «Vige il libero commercio, per cui le università telematiche possono operare come vogliono. È stata però recentemente modificata la legge sulle denominazioni: se prima si poteva assumere il titolo di “università” o di “politecnico” con la condizione che non creasse confusione con altre realtà, ora per usarli si deve necessariamente essere accreditati dall’Agenzia Federale di Berna». «Non ho alcuna preclusione verso le telematiche italiane» ha proseguito.
«Alcune sono riconosciute, altre no, sebbene il riconoscimento in sé non significhi un granché, perché è difficile controllarne il livello. Essenzialmente, il problema delle università a distanza sono due. Il primo: capire quanto valgano gli studi erogati. Se non si fanno ricerche approfondite, non si riesce a scoprire se i professori sono davvero tali o semplicemente dei prestanome, oltretutto con retribuzioni basse. Spesso i direttori sono dei manager, il cui curriculum è molto vago e non esaustivo». Il secondo problema? «Un’università deve avere due caratteristiche. Non basta che eroghi il sapere, ma lo deve anche produrre, con la ricerca. Queste telematiche dispensano solo conoscenze. Le paragonerei a un terziario B, ovvero più che un liceo ma meno che un’università, come possono essere per esempio la Scuola Medico Tecnica o quella Alberghiera. Io in Ticino non mi iscriverei a queste che possono essere fabbriche di titoli». Sandro Rusconi, riassumendo, ha sostenuto che «è l’organizzazione strutturale a preoccuparci, è difficile garantire sul livello di quanto insegnato». Se invece si parla di servizi e-learning (contenuti, sia multimediali che dispense, messi su una piattaforma
accessibile tramite Internet) erogati da università tradizionali, il discorso è molto diverso. «Sono molto favorevole», si è sbilanciato. «Lì vengono svolti convegni e ricerca, e in più ci si dedica a mettere online la conoscenza, dando accesso anche a chi non è fisicamente in sede. Come Dipartimento spingiamo l’Usi e la Supsi affinché si dotino di piattaforme e-learning? No, non ci occupiamo di questo aspetto, l’università ticinese è libera di agire come vuole». Un contrasto con quanto avviene nell’Unione Europea, dove le iniziative degli stati membri nel settore della formazione a distanza sono molto incoraggiate. Sonia non aveva trovato istituti telematici che erogano titoli validi in Svizzera, ne esistono? «Sì, la Kalaidos Fachhoschule, che è affiliata alla Supsi e la FernUniversität», è stata la risposta di Rusconi. Per capire se queste lavòrino in modo analogo alla Guglielmo Marconi, abbiamo contattato i due istituti. Dalla Kalaidos Fachhoschule ci è stato risposto che «non è un’università telematica, gli studenti seguono le lezioni in sede come in qualsiasi altro ateneo», mentre Alexia Jerschok, del centro degli Studi di Sierre della FernUniversität (gli altri si trovano a Briga e a Pffäf-
como Leopardi considerava essere tra le più sterili passioni umane, mentre Blaise Pascal la considerava una ricchezza perduta: l’uomo non è più in grado di sostenere il vuoto, il silenzio e la solitudine e in questo risiede la causa della sventura e dell’infelicità umana. Personalmente mi ritrovo più nel pensiero di Pascal, molto attuale. Penso che l’abbandono alla noia e alla solitudine porti in sé una forza creatrice e produttrice, prepari il terreno fertile per quello stato di serendipità che così spesso utopicamente rincorriamo. Certo difficilmente raggiungibile nell’era moderna se la ricetta è vivere freneticamente e iperconnessi, sempre attenti, sollecitati, raggiungibili. Il miglior esempio lo abbiamo in vacanza: chi riesce a partire senza cellulare? A non portarselo in barca, in passeggiata,
a cena con gli amici, con la fidanzata? Chi riesce a stare per un giorno senza Internet e senza i social? Senza postare foto fantasmagoriche di spiagge bianche e cene da gourmet? In pochi giorni di mare ho visto un ragazzo perdere il cellulare nell’acqua, coppie di fidanzatini al bar ignorarsi amorevolmente mentre intenti guardano lo schermo del loro telefono, oppure bimbi di tre anni legati nel seggiolone e ammaliati da aerei e mostri volanti che sfrecciano sullo schermo dell’iPad mentre mamma e papà si godono la cena tranquilli al ristorante… Secondo una ricerca dell’ospedale di Philadelphia il 36% dei bambini inizia ad avere tra le mani un tablet o un telefonino ancora prima di avere compiuto un anno. Grazie al nostro esempio, i bambini stanno disimparando ad annoiarsi sempre sol-
fikon), è stata più esaustiva. Il sistema è simile, con l’eccezione di alcuni incontri obbligatori a cui partecipare. «Non mi risultano iscritti ticinesi, però sono ostacolati dalla necessità di conoscere ottimamente francese e tedesco». E per le borse di studio? «I nostri studenti non ricevono aiuti economici. È giustificabile col fatto che ci rivolgiamo prevalentemente a lavoratori e persone con famiglia». In effetti, su precisa domanda, Piero Locarnini ha specificato che anche in caso di richiesta di aiuti economici per un istituto con sede in Ticino o in Svizzera, la risposta dell’Ufficio delle borse di studio e dei sussidi sarebbe stata comunque negativa. Il mercato delle università telematiche, se in Italia è di nicchia (circa il 2% degli universitari totali), in Ticino è ancora di fatto non esistente: Locarnini ci ha detto di ricordare, dal 2012/13, «una o due richieste». I numeri cresceranno? Nel nostro contesto, manca l’informazione: molti, infatti, non sanno che cosa siano e che cosa offrano questi istituti. Abbattere i pregiudizi e far passare un nuovo tipo di università non sarà probabilmente facile, ma Sonia lo consiglia vivamente. «Anche se – ha precisato – non è una scorciatoia ma un approccio diverso allo studio».
La società connessa di Natascha Fioretti Facciamoci caso alla nostra felicità
Siamo felici e connessi? Esiste ancora la felicità senza la connessione al mondo? O forse, piuttosto, il problema è che non sappiamo più annoiarci, non vogliamo più annoiarci. La noia, non sapere che cosa fare, quando e come, è una di quelle tremende malattie da evitare nell’era digitale. Contagiosa per giunta, quindi chi è solo, rimanga solo. In una società in cui le etichette contano più di qualsiasi altra cosa, in cui non sapere se, quando e dove vai in vacanza fa di te uno sfigato, programmare e tenere sotto controllo ogni minuto del tuo giorno è vitale, in cui correre, correre, correre è la parola chiave dell’esistenza, chi si ferma è perduto. Sentirsi soli poi, essere soli, non esiste. Dobbiamo riempire i secondi,
fare, fare, fare e, soprattutto, far sì che gli altri si accorgano di tutta la nostra operosità e del nostro successo. Peccato che in tutto questo marasma di attività e soddisfazioni, ci dimentichiamo di essere felici, o meglio, di che cosa sia la felicità. Forse, per sentirla, per esserne pervasi, dovremmo essere in grado di stare in silenzio, di fermarci, magari proprio di annoiarci, di non sapere che cosa fare, di lasciare correre liberi i nostri pensieri. È proprio in questi momenti che spesso realizziamo realtà e stati d’animo che stavano lì davanti a noi, ci giravano intorno, ci toccavano senza penetrarci mai. E quando li lasciamo entrare, li assaporiamo e ci scappa un sorriso di felicità, ricordiamoci di Kurt Vonnegut, e facciamoci caso alla nostra felicità. Anche quando scaturisce dalla noia, quella che Gia-
lecitati e impegnati, eppure è proprio da piccoli che abbiamo quella capacità di perderci incondizionatamente in un pomeriggio d’estate caldo e appiccicoso, di non temere nulla, nemmeno quel senso di smarrimento, quel non sapere perché siamo al mondo e che cosa ci facciamo qui. E bambini non si torna, da adulti sono troppe le connessioni ramificate che all’apparenza espandono la nostra conoscenza del mondo, dell’altro e di noi stessi ma che poi in concreto, si rivelano piuttosto dei limiti e delle barriere all’autenticità e alla profondità degli scambi e delle relazioni umane. Fermiamoci un attimo, ritiriamoci in un angolo di mondo, piccolo, silenzioso, tranquillo, senza telefono, pc, tablet e respiriamo lentamente… Magari riusciamo ad annoiarci un po’ e ad essere un po’ più liberi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30
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Società e Territorio
La cultura tecnica in Ticino Editoria Nella guida di «Archi» riuniti significativi esempi di architettura e ingegneria degli ultimi quindici anni
Elena Robert Sul territorio della «città diffusa» in cui viviamo capita di avvertire la difficoltà a riconoscersi e a orientarsi. L’evoluzione del paesaggio costruito, rispetto a pochi decenni fa, sembra non riuscire a rispondere a esigenze primarie dell’uomo, né tantomeno a offrire chiari punti di riferimento per la collettività. Perlomeno non in modo soddisfacente o come ci si attenderebbe. Con questa nuova condizione di frammentarietà edilizia dilatata nello spazio si sono trovati confrontati per primi gli stessi architetti e ingegneri chiamati sul campo ad occuparsene per mestiere. Tenendo conto del loro lavoro, come si è configurato il nuovo territorio negli ultimi quindici anni? Ticino Guide, con lo sguardo rivolto all’architettura e all’ingegneria degli anni 2000-2015, ci offre interessanti spunti di riflessione stimolandoci ad andare alla scoperta di opere significative, indicandoci un repertorio di oltre 150 interventi realizzati. Un volumetto tascabile in due lingue, italiano e inglese, per un lettore motivato o specializzato. È probabile che nel tempo sarà affiancato da un’applicazione per smartphone. L’iniziativa è stata voluta dalla rivista bimestrale «Archi» della Società ingegneri e architetti Ticino, appoggiata dalla SIA Svizzera e dall’Ordine ticinese ingegneri e architetti. Si è concretizzata grazie alla Verlags-AG der akademischen technischen Vereine di Zurigo (editore di «Archi», di «TEC21»
e «Tracés»), al sostegno del Cantone, dei Comuni di Lugano, Chiasso e Mendrisio e di altri enti. L’occasione non poteva che essere Expo 2015, nel cui ambito la guida sarà presentata in agosto al Padiglione svizzero. L’arco di tempo considerato dalla pubblicazione completa il vuoto editoriale successivo al progetto multimediale Architetture nel territorio: Canton Ticino 1970-2000. I curatori della nuova iniziativa, Mercedes Daguerre, Graziella Zannone Milan e Andrea Pedrazzini, propongono un percorso geografico che spazia nelle diverse regioni, Moesano compreso. Ogni scheda va dritta all’essenza dell’opera. Nella guida si dà la priorità a interventi pubblici (negli anni si è infatti maggiormente diffusa la pratica del concorso), a un’ampia rappresentatività geografica e di studi di architettura e ingegneria, ai progettisti più giovani. Alla scelta delle opere hanno partecipato Stefano Milan coordinatore redazionale di «Archi», Paolo Fumagalli consulente scientifico, autore nella pubblicazione di un excursus storico dal dopoguerra al 2000, Alberto Caruso, direttore della rivista, autore di una riflessione sulla contemporaneità. Rispetto agli anni Settanta e Ottanta che hanno visto l’affermarsi dell’architettura ticinese nel mondo e agli anni Novanta, in cui giovani ticinesi hanno cominciato a formarsi all’Accademia di architettura a Mendrisio, i modelli fatti propri in precedenza da una committenza colta sembrano essersi estesi sul territorio, i
Passerella sul Ticino di Giorgio Masotti, Monte Carasso, 2011. (Atelier Mattei)
riferimenti di singoli progetti ampliati, i linguaggi diversificati. «Privi della tensione collettiva che univa i maestri di trent’anni prima – osserva Caruso nella sua analisi – gli architetti hanno costituito un grande laboratorio progettuale di individualità, di ricerche in direzioni diverse e anche di suggestioni feconde e proposte stimolanti, tipiche di una fase di transizione (…)». Di fatto la ricerca degli ultimi quindici anni si è orientata maggiormente sulla progettazione della densità abitativa e sulla sfida della grande scala, riflettendo nel complesso una cultura tecnica che si
Scuola dell’infanzia a Lugano Cassarate, Bruno Fioretti Marquez Architekten, 2014. (ORCH Alessandra Chemollo)
difende per qualità, come sospesa tra l’«insegnamento» dei padri, la volontà di affermazione nella più ampia libertà espressiva e probabilmente l’aspettativa di svolte positive nella relazione tra uomo e ambiente costruito. Quasi sia parte integrante del dna di architetti e ingegneri in Ticino, è riconoscibile anche in molte opere recenti un certo modo di porsi di fronte al progetto, quel fil rouge concettuale che non si fa contaminare dai trend internazionali, che privilegia rigore e chiarezza formale e un uso sobrio di materiali. Affinità elettiva comune alle generazioni o atteggiamento culturale? Forse entrambi. Per Fumagalli «le radici si fanno sentire»: «Anche negli ultimi quindici anni – ci dice – il territorio continua a essere caratterizzato da edifici singoli, non esistono progetti di quartiere né esempi di interventi urbanistici che la guida abbia potuto segnalare, pur riportando quest’ultima opere qualitativamente interessanti che hanno anche inventato luoghi nel nuovo paesaggio». E chi conosce il territorio non si sorprenderà più nel constatare la presenza di opere significative in città come in periferia, sul piano e sulle colline, nelle valli e in alta montagna. Se si osserva l’evoluzione dell’architettura in
Svizzera nel suo complesso, Fumagalli annota che «si sono attenuate le differenze regionali a favore di una certa uniformità, un dato di fatto non necessariamente negativo». Architetti e ingegneri lavorano insieme da sempre. Questa collaborazione, evidenziata dalla guida, negli ultimi quindici anni si è molto rafforzata, producendo interazioni e esiti espressivi ai quali non eravamo abituati: in opere architettoniche come in opere ingegneristiche. Viene da pensare tra l’altro a ponti, passerelle, ripari fonici che hanno impresso svolte importanti al paesaggio. E soprattutto alla progettazione dell’immenso cantiere Alptransit che sta trasformando radicalmente il territorio e alla quale sta dando dalla fine degli anni Novanta un fondamentale apporto anche un team di consulenza di architetti. Bibliografia
Ticino Guide. Architettura e Ingegneria. Canton Ticino 2000-2015, curato da Mercedes Daguerre, Graziella Zannone Milan e Andrea Pedrazzini, Edizioni Verlags-AG der akademischen tecnischen Vereine, 2015, Zurigo.
Se l’amore è un gioco di potere Psicologia Il nuovo saggio della studiosa statunitense Jessica Benjamin indaga le relazioni amorose
Laura Di Corcia Che l’amore spesso non sia amore, ma un gioco perverso di potere, è cosa risaputa. Ma perché gli oppressi si piegano ai desideri altrui? E perché spesso sono le donne a rimanere vittime di questo gioco che può essere equiparato alla dinamica servo-padrone? A questi quesiti dà risposta, in un volume intitolato Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose (Cortina Raffaello editore, 2015), la saggista statunitense Jessica Benjamin, la prima ad aver integrato gli studi di genere nel pensiero psicanalitico. Partendo dalla teoria dell’invidia del pene, di freudiana memoria, l’autrice la decostruisce per capire quale sia la vera spinta che muove il masochista. «Il sé del masochista è falso – scrive – perché non ha potuto rendersi conto del desiderio e dell’iniziativa che vengono da dentro». Non avendo riconosciuto le proprie pulsioni, il masochista si è in qualche modo smarrito e cerca di far emergere sé stesso. «Si può quindi vedere il masochismo – continua la studiosa – non solo come strategia per
sfuggire alla solitudine, ma come tentativo di star solo con l’altro: lasciando il controllo all’altro, il masochista spera di trovare uno spazio aperto “sicuro” in cui abbandonare il falso sé protettivo e permettere al sé nascente e nascosto di emergere». La domanda più importante, però, quella alla quale spesso diamo risposte banali e frettolose, è un’altra: come mai nelle relazioni amorose sono spesso le donne a sottomettersi, a piegarsi al desiderio dell’altro? Perché le donne amano troppo, per citare il bestseller, ormai un classico, di Robin Norwood? La spiegazione della Benjamin affonda nell’infanzia. «Inizialmente – spiega – tutti i bambini si identificano con il primo essere amato, la madre, ma i maschi devono annullare questa identificazione e definirsi di sesso opposto. Inizialmente tutti i neonati sentono di essere uguali alle loro madri, ma crescendo i maschi scoprono che non possono diventare lei, possono solo averla». I bambini, quindi, per raggiungere la loro identità maschile, devono negare l’identificazione con la loro genitrice. Questa presa di distanza fa sì che l’uo-
mo, nel confronto con la madre (e con la futura donna), non la percepisca come un essere indipendente, come un soggetto, bensì come un oggetto. Ecco dove nasce la famosa donna-oggetto! Ma perché le donne si prestano a questo gioco? La bambina, in fondo,
non ha questo problema identitario nei confronti della madre, può identificarvisi tranquillamente, senza che la sua femminilità sia in qualche modo toccata; non deve quindi sottolineare l’indipendenza, ma minimizzarla. Non ci sarebbero problemi, se non che la fusione con la madre da parte delle figlie femmine non permette loro di identificarsi come qualcosa di separato e autonomo: di scoprirsi, in buona sostanza. Da qui nasce l’adorazione che spesso le donne provano per il proprio «principe azzurro», che talvolta, in maniera più o meno marcata, altro non è se non un despota, un dominatore. Secondo Freud il motore di questo amore incondizionato sarebbe l’invidia del pene, inteso come simbolo di dominazione; secondo l’autrice, le ragioni vanno cercate nel desiderio. «La donna sexy è sexy non come soggetto, ma come oggetto. Esprime non tanto il proprio desiderio quanto il piacere che prova sentendosi desiderata». E il desiderio femminile? Dove è finito? La logica dell’identificazione con la madre porta le figlie a negare sé stesse, a fondersi completamente nell’altra
persona facendo coincidere il proprio desiderio con quello altrui. È chiaro il passaggio tale per cui «se una donna è priva di desiderio suo proprio, deve affidarsi a quello altrui, con conseguenze disastrose sulla sua vita psichica». Non che la bambina non provi, come il bambino, un’identificazione col padre, inteso come essere libero, che dona indipendenza – ma questa identificazione è spesso ripudiata dal genitore maschio. Con conseguenze di non poco conto: «il ritirarsi del padre respinge la femmina verso la madre», spiega l’autrice, aggiungendo che le bambine, non sorrette da una relazione alternativa rispetto a quella materna, rinunciano al loro diritto di desiderio. Da qui nasce l’idealizzazione del proprio uomo, percepito come colui che ha e possiede ciò che a loro non è concesso: il potere e il desiderio. Tramite la sottomissione, la passività, la donna crede di ottenere la posizione altrui. Speranza vana, perché esiste un solo modo di amarsi sano, che dona pace e nuove energie: quello che si fonda su una relazione basata sulla reciprocità, in cui le due parti siano soggetti e nessuno si degradi ad oggetto.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Vita da cani Assistere alla sfilata dei cani è un rituale consueto, soprattutto nelle ore mattutine e in quelle serali. Non intendo una sfilata da concorso, ma quella informale che si verifica nei momenti in cui i padroni portano a spasso cani e cagnolini, specie in periferia. Nel quartiere dove io abito i cani sono decine e decine; per lo più cagnetti di piccola taglia, di quelli che più che abbaiare squittiscono e strillano interminabilmente; e quando la padrona si decide a intervenire per moderare i latrati, lo fa come se si rivolgesse a un bambino piccolo: «Amoreee! Ma che cos’hai?! Vieni qui, tesoruccio…». Qualcuno – non ricordo chi – ha formulato in proposito una riflessione perfettamente calzante: se un marziano visitasse la Terra e studiasse i nostri Paesi cercando di capire quale sia la specie dominante, certo ne concluderebbe che è quella dei cani, i quali hanno addomesticato l’uomo facendo-
ne il proprio servitore. Infatti: l’uomo prepara e serve al cane cibo e bevanda; lo porta a passeggio e lo protegge da eventuali pericoli trattenendolo per il guinzaglio; ne raccoglie devotamente gli escrementi; lo lava e lo spazzola, lo accarezza e lo culla. Non c’è dubbio: il cane ha addomesticato l’uomo. In un certo senso, è un risarcimento dovuto: da 14’000 anni, secondo Konrad Lorenz, l’uomo ha avviato la domesticazione del cane e per riuscirci ha anche esercitato sulla specie una forte pressione selettiva, così da sviluppare solo quelle qualità che sono di suo gradimento: capacità affettiva, fedeltà, coraggio, dedizione, obbedienza. E, giustamente, l’etologo osserva: «Come stupirsi che, in un così lungo arco di tempo, si siano formati degli esseri viventi che ci superano in tutte queste qualità?». È vero. Tutti conosciamo casi di cani fedeli al padrone fino al sacrificio di sé;
omonimi telefilm polizieschi. Resta il fatto che nel corso di migliaia d’anni l’uomo ha spesso infierito con la sua tipica crudeltà contro molti poveri cani, ma altrettanto spesso, forse, li ha rispettati, amati e perfino esaltati: quanti ritratti di nobili, principi, imperatori li raffigurano accanto al loro cane (forse l’unico a corte del quale si potessero fidare)! E c’è persino un cane che è stato fatto santo a furor di popolo. La vicenda è stata narrata dallo storico Jean-Claude Schmitt nel libro Il santo levriero: nel XIII secolo un cavaliere, tornando al suo castello, vide con orrore la culla del bambino rovesciata e, lì accanto, il suo levriero con le zanne insanguinate. Pensando che il cane avesse azzannato suo figlio snudò la spada e lo uccise. Ma s’avvide poi che l’infante era sotto la culla, illeso, e che accanto a lui c’era una vipera, morta: il cane l’aveva addentata salvando così il piccolo. Quando la notizia si sparse
il cane venne proclamato santo per acclamazione popolare e la tomba di pietre nella quale il cavaliere l’aveva sepolto divenne oggetto di devozione: molti furono i miracoli attestati ad opera di questo singolare «san Guignefort». Il cane merita dunque affetto e riguardi, anche se continuo a pensare che forse oggi si esagera nel trattare da bambino un cane che probabilmente vorrebbe essere trattato da cane: qualche anno fa, ad esempio, il «Corriere della Sera» riferiva che nel 2006 gli americani avevano speso 750 milioni di dollari in abitini griffati per i cuccioli di casa. Ma forse questi eccessi d’oggi sono solo il segnale di un’inquietudine profonda, di quella solitudine che affligge una comunità disgregata. A questi mali il cane è ottimo rimedio, dà compagnia e conforto costanti. Peccato che non abbia ancora imparato a mandare SMS con il cellulare…
ti a Villa Cassel (2078 m) c’è un gruppo di trekkinisti ipertecnologici. Dal 1976 è il primo centro Pro Natura (1909) e oggi è anche una pensione aperta da giugno a ottobre con tanto di sala da tè. La reception è invasa da dépliant di ogni tipo. Per entrare bisogna togliersi le scarpe o infilare delle pantofole come per la biblioteca di San Gallo. Al pianterreno le sale sono tipo museo di storia naturale visitate di solito solo da scolaresche annoiate o nonni con bambini. Didatticismo atroce, latte alle ginocchia. Una stanza è ridotta a un tunnel interattivo fatto con i sacchi della spazzatura e parla solo di una specie di grandi formiche che vive nella foresta dell’Aletsch. Mi rifugio nella sala da tè che un tempo era il salone dove si ritrovavano gli ospiti di Cassel a chiacchierare e giocare a bridge. Il più illustre è stato forse il giovane Churchill che è venuto qui varie volte. Prendo un Gletschertee ma non è tanto freddo e sa di sciroppo di granatina annacquato. Vicino al camino l’unico
altro cliente guarda fuori le montagne e parla da solo. Tutto è in legno di cembro ma inodore. Il pianoforte Schiedmayer portato su a spalla con diverse staffette è forse l’unica nota lieta di questa stanza raggiungibile fino al 1950 solo a piedi. Ereditata dall’adorata nipote Edwina Ashley – conosciuta anche come Lady Mountbatten, Viceregina dell’India nel 1947 – questa casa di vacanza sopra le righe viene venduta nel 1924 alla nota famiglia di albergatori Cathrein. Così, da quell’anno fino al 1968 esiste il romantico Hotel Villa Cassel e poi nove anni di abbandono fino all’entrata in scena di Pro Natura che, per carità, niente da dire. Anzi, l’ha salvata dalla demolizione grazie a tre milioni di franchi. È solo che non posso tacere l’impressione di un luogo un po’ snaturato. Su una riproduzione di una cartolina dell’epoca in vendita, si vede sullo sfondo, il fiume di ghiaccio che arrivava fino qui sotto, ai piedi della grande foresta. Fuori vale la pena di fare un giro nel giardino alpino
dove sono classificate centinaia di specie della favolosa flora di questa regione. M’incammino senza meta nel bosco sempreverde che scende giù morenico tra azalee purpuree e i primi abeti bianchi. A una biforcazione però devo scegliere. In testa ho il ghiacciaio, chiaro, ma tra le molte mete non è indicato in modo diretto. Bishopsitz leggo con il logo del punto panoramico e vado così verso questo curioso microtoponimo vescovile. Quando vedo laggiù la famosa lingua del ghiacciaio in ritirata non credo ai miei occhi. La residenza del vescovo sono le radici del più bel cembro visto finora. Mi siedo allungando le gambe all’ombra di questo antico cembro auratico e mangio il mio picnic frugale a base di pane di segale e ricotta d’alpe, sulla quale spargo fiori di timo serpillo. La vista sublime di quell’autostrada mistica di ghiaccio con le sue due caratteristiche curve mi «stona» al punto da schiacciare quasi un pisolino. Ma è pieno di Formiche paralugrubis rosse e nere.
idilliaca, con lo sguardo disincantato di oggi, le cose cambiano. I media, sia pure tra smentite e contraddizioni, ci stanno rivelando l’altra faccia della medaglia. L’identità di questi giocatori non è più quella di vecchi lavoratori che si godevano la meritata quiescenza. Ha assunto, piuttosto, i tratti di furbastri che abusano di una prestazione sociale strappata a una burocrazia distratta. Contribuendo, così, allo sfascio economico della nazione. Ma che valore dare, oggi, a quest’immagine? Trasformarla, con il senno di poi, in un atto d’accusa nei confronti di un malcostume pubblico e privato, chissà se risanabile con gli interventi del rigore di Bruxelles? Ho avuto modo di parlarne, giorni fa, con lo scrittore Gilberto Isella che, guarda caso, aveva riportato dai suoi viaggi in Grecia proprio la stessa visione di quegli uomini attorno al tavolo. Per poi chiedersi fino a che punto sia rappresentativa della realtà ellenica, oggi tanto chiacchierata, e soltanto di quella? Perché, a ben guardare, i giocatori di carte sulle rive dell’Egeo hanno tro-
vato, ormai, consimili a ogni latitudine. Anche sotto i castagni dei nostri grotti, o nelle sale gioco dei Casinò o, e qui intervengono anche le donne, nelle sale da ballo dove si organizzano pomeriggi di «liscio», si vive la stessa situazione. In parole, povere, ammazzare un pomeriggio. Ci si trova, insomma, alle prese con il fenomeno, ormai allargato e sfaccettato, dell’impiego del tempo di cittadini, liberati dall’assillo professionale. I pensionati, dunque, che, sia subito precisato, nel caso della Svizzera godono di un diritto, pagato di tasca propria, in decenni di contributi. La questione, da noi, non si pone in termini finanziari né legali. Riveste, piuttosto, aspetti psicologici, culturali, comportamentali. Persino, inattesi e sconcertanti. Sta di fatto che questo diritto, acquisito e inalienabile, segna una tappa che ci attende al varco suscitando reazioni di segno opposto. Ovviamente ha la sua parte l’attività precedente, fatiche incompatibili con l’età. Ma entrano in gioco altri fattori. Per taluni è agognata, alla stregua di una nuova partenza.
«Quando sarò in pensione, viaggerò, leggerò, farò volontariato…»: quante volte ho ascoltato propositi del genere, poi regolarmente disattesi. Se si ama la lettura o i viaggi, non si aspettano i 65 anni per farlo. Comunque, esiste, beati loro, anche la categoria dei pensionati felici, liberati da una sorta di schiavitù. Al punto di chiedere, come avviene sempre più spesso, il ritiro anticipato. E succede persino in ambiti professionali che dovrebbero sviluppare attaccamento e passione, per esempio l’insegnamento. Ma forse più numerosa, anche se non dichiarata, è la categoria dei pensionati loro malgrado: persone che nel lavoro si sono identificati, per non dire intrappolati. E, allora, il distacco equivale a una sentenza. Il plico dei documenti, con cui le autorità ti comunicano la tua nuova identità di pensionato, ha il peso di un macigno. Di colpo ti fa sentire un cittadino di seconda categoria, bisognoso di eventuali protezioni. Esposto al rischio di continui equivoci. Se non fai niente, sei un parassita. Se fai qualcosa, invadi un terreno altrui.
mentre, purtroppo, sono ben più numerosi i casi di padroni sciagurati che considerano il cane niente più che un giocattolo o un ninnolo da salotto, da abbandonare lungo una strada quando ne sono stufi o non vogliono più occuparsene mentre vanno in vacanza. Ma quando tra uomo e animale si sviluppa un’amicizia reciproca, leale, come quella descritta da Thomas Mann in Cane e padrone, allora questo profondo legame affettivo giova non solo al cane, ma anche alla crescita interiore del padrone; per aiutare un bambino a sviluppare un senso di responsabilità morale, io consiglierei senz’altro di affidargli la cura di un cane. I ragazzi di un tempo si emozionavano leggendo Zanna bianca di London (un lupo, d’accordo, ma con un quarto di sangue di cane), o si commuovevano seguendo il lungo girovagare che avrebbe riportato a casa Lassie. Forse oggi si affezionano al Rex degli
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La Villa Cassel a Riederalp Villa Cassel è una villa vittoriana di venticinque stanze su in cima a un’alpe dell’alto Vallese. È stata fatta costruire vicino al ghiacciaio dell’Aletsch all’inizio del Novecento da Sir Ernest Cassel (1852-1921): ricchissimo uomo d’affari londinese originario di Colonia. Dopo un foxtrot ferroviario tra Göschenen e Andermatt arrivo a Mörel, sulla sponda sinistra del Rodano che scorre impetuoso. Da qui parte la cabinovia che in venti minuti porta alla Riederalp, alpeggio oggi in gran parte preda degli chalet di vacanza. Mezz’ora a piedi è indicato, ma già al terzo tornante, una tarda mattina di metà luglio, si vede svettare l’eccentrica villa alpina di delizia. Si trova sulla sommità della Riederfurka, dove il paesaggio attorno di montagne sassose chiazzate di neve e magnifici pini cembri, le ruba subito la scena. Eppure questo scenario, alimentato inoltre dalla presenza vicina ma ancora nascosta dell’Aletsch – il più grande ghiacciaio d’Europa patrimonio dell’Unesco – non
sarebbe altrettanto straordinario senza questa dimora fuori luogo. «S’inserisce tanto bene nel paesaggio quanto una moneta da cinque franchi in uno sterco di mucca» disse a suo tempo Ignaz Seiler, il parroco di Ried-Mörel. Ma è proprio in questa delocalizzazione, come uno chalet ai Caraibi, che dimora il magnetismo di Villa Cassel. Meritata birretta sulla terrazza dell’hotel Riederfurka dove Ernest Cassel alloggia per la prima volta nel 1895. L’ha mandato qui, per via dell’aria aromatica dei cembri e la frescura del Grande Ghiacciaio, Sir William Broadbent, medico personale della Regina Vittoria. Da qui la si vede bene, quella che a ogni occhiata mi sembra sempre una fatamorgana. In realtà è stata disegnata dall’architetto vodese Louis Bezencenet (1843-1922) ed è venuta su in due estati tra il 1900 e il 1902. Mi avvicino lungo un sentiero tra i cembri, l’odore è impareggiabile. In questa foresta protetta, pare, vivono i cembri più vecchi della Svizzera. Davan-
Mode e modi di Luciana Caglio Pensionati, in tanti modi È una sorta di riflesso condizionato. In un’epoca che ci ha reso tutti quanti viaggiatori, quando un paese, vicino o lontano, viene colpito da una crisi, una rivoluzione, un terremoto, ci si ritrova, in qualche modo, coinvolti. Perché ci si è stati. E, tanto più, adesso nel caso della Grecia, cui magari ci legano i ricordi di vecchie fatiche liceali e di riferimenti culturali da esibire. Ci si sente, più che mai, figli di Platone e Aristotele. Ma, più concretamente, ci legano i ricordi di vacanze, trascorse, nel corso dei decenni, su isole e isolette, in parte già toccate dal turismo e, in parte, ancora ferme, nel loro aspetto tradizionale. Ora, proprio
questi luoghi, che ci erano sembrati fisicamente incontaminati, addirittura, modelli di vita esemplari, dovevano lasciare, nella nostra memoria, un’immagine dominante che, oggi, si presta a una ben altra interpretazione. È quella di uomini, seduti all’ombra di un platano o di un fico o un carrubo, intorno a un tavolo quadrato di legno, intenti a giocare a carte. Partite che si prolungavano per ore e ore, sino al tramonto. Si trattava, come detto, sempre e soltanto di maschi, e non tutti anziani. Comunque, tutti pensionati. E qui si arriva al nostro tema. Osservando questa scenetta paesana, persino
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Ambiente e Benessere Prima che scompaiano In un libro contestato, il fotografo Nelson racconta le ultime tribù della terra
Il temuto scorpione Secoli or sono molte culture lo adoravano, oggi se ne ha solo paura pagina 15
Ti-Press
pagina 12
Salute «mobile» Emergenze Il dossier elettronico del paziente dovrebbe permettere di migliorare qualità
e sicurezza delle cure mediche Maria Grazia Buletti Al Pronto Soccorso o nel reparto di Cure intensive ogni secondo può essere prezioso per salvare la vita di una persona. Oggi anche il canton Ticino può avvalersi di un aiuto in più per garantire a chi giunge all’ospedale con un’emergenza di essere preso a carico nel modo più veloce ed efficace possibile. Per questo si è utilizzata la moderna tecnologia. Si chiama Echo 112 ed è l’applicazione per smartphone che, nei casi di ricovero urgente, può salvare una vita. Esso infatti permette l’accesso immediato da parte del personale sanitario a tutte le informazioni sanitarie personali precedentemente scritte in questa virtuale cartella clinica del cellulare. Alla presentazione di questa preziosa opportunità di cui tutti possono fare uso, il dottor Paolo Merlani, primario di medicina intensiva all’Ospedale regionale di Lugano, ha spiegato che quest’applicazione permette al personale del Pronto soccorso (o delle Cure intensive) di avere le informazioni chiave sul paziente in pochissimo tempo: «Ad esempio, c’è chi dopo un incidente perde conoscenza. L’applicazione, nonostante la schermata del cel-
lulare sia spesso protetta da password, ci permette di sapere subito qual è il gruppo sanguigno del paziente, quali allergie ha, quali sono le persone care da avvisare e ci dice pure se è donatore di organi». Echo 112 è stata messa a punto nei minimi dettagli al C.H.U.V. di Losanna ed è una realtà consolidata già in parecchie strutture sanitarie importanti d’Oltregottardo dove ha raccolto una marea di consensi. Da quest’anno anche l’Ospedale regionale di Lugano ne fa uso. Per averla sul proprio smartphone basta scaricare l’applicazione e inserire le informazioni e i desideri personali. Il dottor Merlani rassicura sulla discrezione del sistema: «La privacy del paziente rimane garantita al cento per cento perché per sbloccare l’applicazione bisogna essere in possesso del cellulare e soprattutto nei pressi di appositi sensori che si trovano solo in determinati punti “caldi” dell’ospedale». Anche in questo caso, e per palese emergenza volta a guadagnare tempo nel soccorrere il paziente, si sbloccano solo i contenuti di Echo 112, mentre tutti gli altri contenuti del cellulare rimangono inaccessibili. Ma il concetto delle informazioni legate alla cartella sanitaria del paziente è molto più ampio e origina da
lontano, attraverso le considerazioni che eHealth Suisse ha sviluppato nel corso degli anni, cominciando dallo studio di razionalizzazione dei dati per migliorare la presa a carico non solo delle persone giunte all’ospedale in emergenza, ma pure dei malati cronici. Il termine eHealth riassume tutti i servizi sanitari elettronici per mezzo dei quali si intende migliorare la procedura e collegare tra di loro gli attori della sanità pubblica: pazienti, medici, terapeuti, assicurati, assicurazioni, laboratori, farmacie, ospedali e personale di cura. Un aspetto che il gruppo di lavoro di eHealth Suisse tiene in considerazione è la crescente mobilità delle persone che, dice, «cambiano cantone, cassa malati, medico o si recano all’estero». Capita sovente che nel momento decisivo manchino le informazioni necessarie o che queste possano essere recuperate con fatica o perdita di tempo utile alla presa a carico del paziente: «In questi casi, l’interconnessione elettronica è di enorme aiuto». L’eHealth è dunque una disciplina relativamente giovane che introduce la sanità pubblica nell’era digitale, attraverso la cartella (o dossier) elettronica del paziente. Quest’ultima è peraltro sostenuta dal Consiglio nazionale che
lo scorso mese di maggio ne ha pure approvato a larghissima maggioranza la relativa Legge federale (LDEIP). A questo proposito, eHealth Suisse non fa che ribadire: «Solo con la digitalizzazione è possibile organizzare i miliardi di dati che ora sono registrati in parte ancora solo su carta, e in parte già su supporti elettronici». I processi elettronici vengono dunque sdoganati attraverso la convinzione che possano aiutare concretamente tutti gli attori della sanità a svolgere i propri compiti di cura e presa a carico del paziente cronico, come pure di quello acuto giunto in emergenza: «Il nostro scopo è aumentare la sicurezza e la qualità dell’offerta sanitaria, contribuendo nel contempo alla stabilizzazione dei costi nel lungo termine». I benefici di un approccio cosiddetto di cybersalute (o eHealth) sono indiscutibili e l’interesse del mondo sanitario risulta crescente. Tuttavia, eHealth Suisse afferma che i risultati dei due studi effettuati per testarne l’applicazione effettiva sul campo hanno mostrato che la messa in rete sistematica degli ospedali, degli istituti medico-sanitari, del corpo medico e delle farmacie non è ancora sufficientemente diffusa. Ciononostante: «Le persone interrogate a
questo proposito si dicono convinte che la diffusione in rete sanitaria dei dati riguardanti la salute delle persone sia uno strumento importante che permetterebbe di coordinare il lavoro dei professionisti coinvolti nella presa a carico e nella cura di un paziente». Questa consapevolezza ha spinto già nel 2007 il Consiglio federale ad approvare l’attuale Strategia di cybersalute svizzera, mentre la sua attuazione attraverso una stretta collaborazione di tutti gli attori dovrebbe maturare nell’arco di questo 2015 ed essere disponibile dal 2017-2018. Sono evidenti i lati positivi di un tale utilizzo della tecnologia di cui oggi possiamo beneficiare, parallelamente pure i timori riguardo la privacy delle persone risultano attenuati rispetto a un tempo. Merito anche della consapevolezza degli indubbi vantaggi (in termini di cura, velocità di presa a carico e razionalizzazione del procedere terapeutico) di una cartella elettronica facilmente accessibile solo ai sanitari. eHealth Suisse chiede ai cittadini di riflettere su tutto questo, e li invita a pensare che per loro deve valere il seguente motto: «Le mie informazioni mediche al posto giusto, nel momento giusto».
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Ambiente e Benessere
L’ultima tribù
Oltre i confini della terra
Viaggiatori d’Occidente Immagine e realtà del mondo indigeno
Bussole Inviti
a letture per viaggiare
Claudio Visentin Il fotografo britannico Jimmy Nelson è stato scelto dalla BBC come uno dei viaggiatori più influenti dell’anno, quelli che con la loro esperienza cambiano il nostro modo di intendere questa fondamentale esperienza umana. Per quattro anni Nelson ha viaggiato per il mondo in cerca delle ultime tribù, nell’ambito del progetto fotografico Before They Pass Away (per le immagini www.beforethey.com), che vuole documentare la vita di queste genti prima che sia cambiata dal tempo e dalla modernità. È stato in Sudamerica (Ecuador e Argentina), Africa (Etiopia, Kenya e Namibia), Asia (India, Tibet, Nepal, Mongolia, Indonesia, Papua Nuova Guinea, Vanuatu). Spesso per raggiungere le tribù che vivono nelle zone più remote Nelson ha dovuto affrontare viaggi lunghi e scomodi. Dopo essere entrato in contatto con i nativi ha investito tempo e pazienza per far accettare la sua presenza, condividendo anche situazioni difficili, e una volta certo di aver guadagnato la loro fiducia li ha ritratti utilizzando una vecchia macchina fotografica a pellicola. Nelson non era interessato alla vita quotidiana. Con una lunga preparazione della scena prima dello scatto, quasi fosse un set di moda, ha invece voluto mostrare gli indigeni nella luce migliore: belli, potenti, orgogliosi, radicati nelle loro tradizioni. Insomma non le solite fotografie di denuncia che mostrano quei segni di povertà e abbruttimento, che pure molti di questi popoli sperimentano ogni giorno.
Le foto di Nelson, paradossalmente, parlano più di noi che non delle tribù indigene immortalate Le fotografie sono state poi raccolte in un libro patinato che ha trovato la sua via nei salotti eleganti, mentre le stampe sono state vendute a caro prezzo nelle gallerie d’arte (sino a 45mila sterline ciascuna!). L’intento dichiarato era quello di celebrare il valore della tradizione e la bellezza della diversità, anche per aiutare questi popoli a preservare la loro identità nel mondo contemporaneo. Eppure Nelson ha ricevuto pochi elogi e molte critiche da parte delle organizzazioni internazionali come Survival
«Sono un ospite qui, un giornalista incaricato di seguire un evento sportivo poco noto: il campionato mondiale di apnea. Siedo alla minuscola scrivania della mia stanza, in un albergo affacciato sul lungomare della cittadina turistica di Kalamata, in Grecia. L’albergo è vecchio, e si vede dalle crepe simili a ragnatele lungo i muri…»
Jimmy Nelson al lavoro. (www. beforethey.com)
International, che lottano per i diritti delle tribù indigene. E gli stessi capi delle diverse comunità, quando hanno potuto vedere le foto sviluppate, hanno preso le distanze. Per cominciare il titolo del libro – Prima che scompaiano – è stato radicalmente messo in discussione. Davi Kopenawa, leader degli indigeni brasiliani Yanomami, di passaggio per Londra, ha sostenuto con orgoglio: «Non è vero che i popoli indigeni stanno per estinguersi. Saremo ancora in giro per parecchio tempo, combattendo per la nostra terra, vivendo in questo mondo e generando la nostra discendenza». Un altro capo brasiliano ha rinforzato la dose: «È un oltraggio. Noi non stiamo scomparendo, bensì lottando per sopravvivere». La guida della tribù Dani, in Papua Nuova Guinea, che Jimmy Nelson ha ritratto come dei fieri cacciatori di teste, ha spiegato che i veri cacciatori di teste sono semmai i soldati indonesiani, che da anni perseguitano il suo popolo. Questa vicenda è molto interessante perché lo sguardo di Nelson è lo
stesso di molti viaggiatori contemporanei. Abbiamo bisogno di sapere che da qualche parte, là fuori, vi sono creature nobili e selvagge, profondamente autentiche, che vivono indifferenti al tempo, immerse nella tradizione e immuni dalla contaminazione della modernità. Questa idea ci consola e ci rassicura mentre nella nostra vita di ogni giorno muoviamo spediti nella direzione opposta. Mettendo in posa i suoi modelli, eliminando ogni oggetto o abito occidentale – che naturalmente i nativi usano abitualmente – Nelson è riuscito a trasferire questa nostra proiezione mentale nella realtà. Per questo le sue fotografie, paradossalmente, parlano più di noi che non degli indigeni. Comprendere questi meccanismi ci consente di stabilire un rapporto forse meno poetico, ma certo più autentico con i popoli tribali. Per cominciare, dal momento che ci attraggono e sono la ragione principale di molti nostri viaggi in terre lontane, accertiamoci che a queste comunità venga riconosciuto un equo compenso,
senza che debbano elemosinarlo. Lo stesso Jimmy Nelson, che pure vende le sue foto a caro prezzo, ha offerto ai suoi modelli solo qualche banchetto… Accettiamo poi serenamente che non esistono più comunità isolate e intatte. Anche nei luoghi più remoti del pianeta sono passate generazioni di soldati, missionari e commercianti, già nell’epoca del colonialismo, e lo scambio e la contaminazione sono la regola del nostro tempo. Ma anche prima che gli occidentali dominassero la scena, queste comunità tradizionali avevano scambi e contatti coi popoli vicini, e dunque in senso stretto isolati o fuori dal tempo non sono stati mai. L’esotismo è una lente potente, che abbiamo ereditato da generazioni di viaggiatori che ci hanno preceduto, e della quale non sempre siamo consapevoli; purtroppo, invece di rendere più nitida la realtà, finisce per diventare uno strumento di accecamento. Meglio allora accettare l’affinità e la vicinanza con gli altri, per quanto diversi possano apparire: facciamo tutti parte di qualche tribù.
Da quando ogni centimetro quadrato di territorio è stato mappato, da quando anche i sentieri che conducono alle vette dell’Himalaya sono percorsi da migliaia di escursionisti, tanto da provocare code e problemi legati allo smaltimento dei rifiuti, le profondità marine rimangono l’unico spazio terrestre inesplorato, l’ultima frontiera del pianeta. James Nestor si è accostato casualmente a questo mondo in occasione di una gara di apnea e per due anni ha viaggiato da Porto Rico al Giappone, dallo Sri Lanka all’Honduras per incontrare sportivi estremi, personaggi stravaganti e scienziati non sempre riconosciuti dalla comunità ufficiale. Ogni capitolo del libro esplora una diversa profondità, in una discesa progressiva da zero a ottomila metri: un mondo del quale tuttora sappiamo pochissimo. Sin dove riesce, Nestor si immerge personalmente, poi si affida agli animali degli abissi che esplorano per lui quegli spazi misteriosi. Questo viaggio verticale sorprendentemente finisce per assomigliare a un ritorno a casa, quando scopriamo che siamo più affini di quanto crediamo alle creature marine, che il nostro corpo possiede insospettate capacità di adattamento al mondo liquido. Infatti nel preciso momento in cui mettiamo il viso in acqua scatta il cosiddetto Master Switch of Life (letteralmente «interruttore principale della vita»); e più profondamente ci immergiamo più tali riflessi si fanno pronunciati, trasformandoci in efficienti animali oceanici. Bibliografia
James Nestor, Il respiro degli abissi. Un viaggio nel profondo, EDT, 2015, pp.298, € 22.00.
Frasi doppie Giochi di parole Oltre che come schemi di giochi in versi, vengono usate anche
per la composizione dei cosiddetti «rebus puri»
Il potenziale umoristico che può sprigionare il meccanismo delle frasi doppie è spesso usato nella confezione di
sizione dei cosiddetti «rebus puri», una speciale categoria di giochi figurati, che si prestano ad essere illustrati con una vignetta totalmente priva di contrassegni (lettere, cifre o asterischi). Un pregevole esempio al riguardo (formato da ben 40 lettere!) è stato ideato, all’inizio degli anni Novanta, dalla coppia di enigmisti Ignazio Fiocchi (Zio Igna) e Francesco Rosa (Quizzetto) che, per l’occasione, usarono lo pseudonimo di Fiocchi Rosa. L’illustrazione di questo singolare rebus raffigura una dama del Settecento, circondata dai propri servi, che si scopre il viso mostrandolo a dei principini di carnagione mora. Per ricavare la soluzione (non semplice…), bisogna riuscire a descrivere la scena rappresentata, mediante la seguente frase:
«Faccia mostra dama con servi a moretti principi». Scomponendo e riaggregando opportunamente questa stessa sequenza di lettere, si ottiene la frase risolutiva (di sapore moraleggiante): Facciamo strada, ma conserviamo retti princìpi! Estrapolando a degli interi brani un analogo meccanismo di ricompattazione, l’enigmista Nicola Aurilio (Ilion) ha messo a punto un nuovo genere di gioco, simile al tradizionale indovinello, che non si risolve, però, interpretando dei doppi sensi o delle metafore, ma leggendo sotto un’altra spezzettatura la sequenza di lettere del testo esposto (escluso il titolo). Provate a decifrare il seguente esempio, un po’ ermetico, ma estremamente raffinato (N.B.: è doveroso precisare che la forma
grafica: «desî» corrisponde al plurale di: «desìo»). «La taverna dei vinti» – L’ore dense di odio, di vino; / per desî colpo, mole d’energia. / Morì parola, morì spirito: / gli amori odi sono resi. / Acri, stolide alme / ròse da téma. / L’ora / tediosa, prava, lorda resa / perché valore severo perdesi.
Soluzione
In enigmistica, viene denominata frase doppia una variante della classica sciarada, che consente di ottenere due distinte frasi (o semplici locuzioni), aggregando in diverso modo una stessa sequenza di lettere. Alcuni significativi esempi al riguardo, possono essere: ■ chiesero maniche = chiese romaniche; ■ fare trasecolare = faretra secolare; ■ l’amichetta = la michetta; ■ la magrezza = lama grezza; ■ miri a dedicarmi = miriadi di carmi; ■ tre mendicanti = tremendi canti; ■ vere con diamanti = verecondi amanti.
divertenti battute, come nei seguenti due esempi d’autore. ■ Alcuni scrittori per scrivere hanno bisogno della vena. Altri dell’avena (Achille Campanile). ■ «Qui comincia la neve perenne». «E certo che la neve comincia per enne! Sennò si chiamava meve…» (Enrico Montesano). Il ricorso a questo genere di gioco di parole, ha una storia piuttosto antica. Si narra che, nel Medioevo, un giovane perdutamente innamorato di una donzella di nome Bianca, andasse in giro con una candela bianca sul cappello, per far sapere a tutti che lui era il fedele can de la Bianca. In enigmistica, le frasi doppie vengono utilizzate, oltre che come schemi di giochi in versi, anche per la compo-
Il testo esposto deve essere riletto nel seguente modo: «Lo redense Dio, Dio divino. Perdesi col pomo l’Eden: ergiamo riparo, l’Amor ispiri, togliamo rio disonore. Sia Cristo l’ideal mero; sedate mal; orate Dio: saprà valor dare. Saper ch’Eva lo rese vero per desî». Tutte le proposizioni così ottenute, alludono a: Il peccato originale.
Ennio Peres
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Macedonia di pesche e lamponi al basilico Dessert Ingredienti per 4 persone: mezzo limone · 3 cucchiai di limoncello · 4 pesche bianche piatte mature · 300 g di lamponi · 2 rametti di basilico con i fiori, ad esempio greco o viola · zucchero ai lamponi · sale.
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Ambiente e Benessere
Non dire Scorpione Mondoanimale Lo scorpione è stato il primo animale a lasciare il mare 350 milioni di anni or sono
Maria Grazia Buletti Se 350 milioni di anni or sono l’uomo fosse già stato sulla terra, avrebbe avuto molta paura: allora gli scorpioni erano animali lunghi fino a un metro e furono fra i primi animali a lasciare l’acqua per la terraferma. Per fortuna a quel tempo l’essere umano non era ancora nemmeno un «progetto». Oggi, per gli zoologi questo animale rappresenta ancora un affascinante enigma, tanto che sin dalla notte dei tempi sullo scorpione grava il peso di miti e leggende contraddittorie: ad esempio, dagli egizi fu onorato come dio dalle sembianze femminili della dea Selket, divinità benevola, protettrice delle profondità della terra, che conferiva poteri taumaturgici ai suoi adepti. Si sa che i sacerdoti di Selket erano abilissimi incantatori di scorpioni, in grado di farli uscire dalle loro tane senza correre il pericolo di essere punti. I Maya adoravano questa bestiola schiva e timida come dio della caccia e simbolo della penitenza. Nell’antica Grecia lo troviamo invece come strumento di vendetta, usato da Artemide: la leggenda narra, infatti, che la dea,
cacciatrice e protettrice della fauna, fu offesa da Orione che voleva distruggere tutti gli animali del creato. Per punizione, lei mandò un grande scorpione che punse mortalmente Orione al tallone. Artemide, riconoscente, trasformò lo scorpione in una costellazione e, poiché anche Orione aveva subìto la stessa sorte, da allora e per sempre la costellazione d’Orione è costretta a sfuggire da quella dello Scorpione. Infine, un luogo comune vuole che l’animale scorpione sia cattivo e attacchi l’uomo con il suo mortale veleno. Ciononostante si tratta proverbialmente di un animale molto discreto e per questo difficile da incontrare, sebbene si possa stimare che in ogni vecchia casa, oggi, ve ne sia spesso qualcuno. Lo ha spiegato Michele Abderhalden, conservatore del settore invertebrati del Museo di storia naturale di Lugano, che rassicura sull’innocuità di questi timidi animali. Addirittura, al contrario di quanto si possa pensare, essi sono molto utili perché si cibano di fastidiosi insetti: «Qui da noi non mi è mai giunta voce della puntura di uno scorpione, il cui danno dovrebbe essere equiparato alla puntura di una
Leggende metropolitane & Curiosità Si narra che gli scorpioni, circondati da un anello di fuoco, cerchino il suicidio. In seguito alla scoperta del «The Journal of Experimental Biology» del 1998, si svilupparono diverse tesi. Le più accreditate sostengono che lo scorpione muova semplicemente la coda a causa del calore, dato che anche un’esposizione prolungata ai raggi solari potrebbe provocarne la morte. Di fatto, in base a un meccanismo istintivo, gli scorpioni cercano di pungere qua-
lunque cosa intorno a loro e questo potrebbe dare adito alla versione del «suicidio». Altra credenza durata parecchi anni portava a credere che gli scorpioni non fossero immuni al loro veleno. Tuttavia, gli studi condotti da alcuni biologi francesi (pubblicati nel 1998) hanno dimostrato il contrario. Fra le curiosità possiamo invece annoverare questa: in alcuni Paesi del sud-est asiatico pare che gli scorpioni siano mangiati fritti, come un vero e proprio snack.
Racchio
e diffondendosi sulle terre emerse le ha colonizzate
vespa, di un’ape o di un calabrone al massimo. E comunque la possibilità di essere punti è molto più bassa rispetto all’eventualità di essere punti da uno di questi insetti». Dicevamo che tendenzialmente la gente non si accorge neppure di ospitare in casa qualche scorpione: «Nelle case vecchie è quasi certo ve ne siano e non rappresentano certo un pericolo: ribadisco la loro natura schiva». Occasionalmente se ne può vedere qualcuno: «Stiamo certi che, se entriamo in un locale e accendiamo la luce, lo scorpione se la dà a gambe: rifugge istintivamente l’uomo, anche perché l’esperienza insegna che potrebbe ricevere una “ciabattata” sicuramente più nociva per l’animale che per chi gliela lancia». Amanti degli anfratti che si formano fra legno e mattoni, sassi e muri delle vecchie case, un altro accorgimento per evitare di trovarseli per casa è quello di munire i pertugi di grate e reticolati dalle maglie molto fini. Inoltre la legnaia andrebbe sistemata lontano dai muri della casa: «Per lo meno, dovessero essercene, sappiamo che sono circoscritti alla legnaia». Eppure, racconta Abderhalden: «Una bella
casa in sassi, legno e mattoni che ospita qualche scorpione trarrebbe vantaggio dalla presenza di questo animale perché esso è più utile che dannoso, dato che è predatore di altri insetti». Certo, il suo aspetto e la nostra cultura non aiutano a rendercelo simpatico: «Abbiamo stimato che quello più grande di cui siamo a conoscenza misura circa 4/5 centimetri». In Svizzera ne esistono di tre specie, nel nostro Cantone solo due: «Eucorpius italicus – che non disdegna le case e le infrastrutture umane – e l’Euscorpius alpha (legato più al bosco, ai suoi margini e alle zone sassose), mentre nella parte orientale dei Grigioni troviamo anche il germanus». Tutti gli scorpioni giunti al Museo di storia naturale di Lugano vi sono stati inviati da gente spaventata, asserisce il nostro interlocutore che consiglia ai detrattori più agguerriti di orientarsi su azioni preventive, rendendo inospitale la propria abitazione con delle barriere: «Sul mercato si trova di tutto, anche cose che probabilmente non funzionano per tenere lontani questi animali, come ad esempio quegli apparecchi a ultrasuoni. Dovrebbero tenere alla larga anche
le zanzare, ma è provato che non siano di così grande efficacia». Per i più curiosi, Abderhalden cita un libro di Braunwalder: Scorpiones, serie Fauna Helvetica (Società entomologica svizzera e Centro svizzero di cartografia della fauna, volume 13): «Questo libro è stato pubblicato in tedesco e in italiano e ne parla in modo esaustivo, anche attraverso gli esperimenti dell’autore che pare abbia utilizzato scorpioni esotici per studiare gli effetti delle punture su sé stesso». Lui è ancora vivo e vegeto ed elargisce anche consigli per lenire eventuali punture: «Braunwalder consiglia di utilizzare acqua calda con lo scopo di denaturare le tossine». Il libro rappresenta un valido e interessante aiuto per allontanare eventuali pregiudizi verso questo animale che, in verità, è un esempio formidabile di abnegazione e amore materno: la gravidanza dura fino a un anno e mezzo e la madre, poi, si porta a spasso i piccoli sulla schiena. Non dimentichiamo, per chiudere, che lo scorpione è pure simbolo di personalità vulcanica: quando si trova in difficoltà, ne esce con soluzioni agili e improvvise.
Giochi Cruciverba Lo sapevi che in un Paese grande come la Cina hanno … Termina la frase risolvendo il gioco e leggendo le lettere evidenziate (Frase: 2, 4, 4, 6)
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ORIZZONTALI 1. Incensare, lodare 7. Legami logici 8. Piccola rana verde 9. Il signor dei tali 11. In italiano e in tedesco 12. Si spostano con i monti 13. Parte della scarpa 17. Figura nelle carte da gioco 18. Era un popolo di guerrieri 19. Società segrete 20. Con uno valgono mille 21. Pause di viaggio 23. Sequestrate 25. Nota sovrana 26. Nome femminile 27. Parte dal ventricolo sinistro del cuore VERTICALI 1. La prima moglie di Garibaldi 2. La minore delle isole Cicladi 3. L’America che si adopera... 4. Le iniziali della scrittrice Sotis 5. Robusto, prestante 6. Isole del Tirreno 10. Nobilita lo spirito 12. Un evangelista 13. Sorelle con entrambi i genitori diversi... 14. Un numero singolare 15. Si rendono agli eroi 16. Pronome personale 17. Intrattenimento gioioso 19. Pronome personale francese 21. Società per Azioni 22. La colpevole 24. Le iniziali dell’attrice Seredova 25. Le iniziali del ballerino Todaro
Sudoku Livello facile Scopo del gioco
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Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contengano tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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Forse non tutti sanno che … – Alfred Nobel è stato anche: … L’INVENTORE DELLA DINAMITE.
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Politica e Economia Il salvataggio europeo Quel che resta del progetto europeo dopo il pasticcio greco
La bolla cinese Resta volatile il mercato finanziario, tenuto artificialmente alto per un anno dagli interventi statali diretti e indiretti pagina 19
Locomotiva d’Europa Le radici del successo economico di una Germania ancora incerta sul ruolo da svolgere in Europa
Come ti chiami? Spesso nei nomi dei brand si nasconde principio ed evoluzione della marca
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Il ministro degli Esteri iraniano Zarif (a destra) e il capo dell’Organizzazione per l’energia atomica Ali Akbar Salehi. (AFP)
L’Iran torna in gioco Nucleare iraniano L’accordo raggiunto a Vienna dal gruppo 5+1 cambia i rapporti di forza regionali:
rilegittima e quindi rafforza Teheran e i suoi alleati
Lucio Caracciolo L’Iran non avrà, per il tempo prevedibile, la sua bomba atomica. Questa è la certezza che emerge dall’accordo appena firmato dalla Repubblica Islamica con il gruppo 5+1 – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania. Ma il succo di questa storica intesa non è tanto quello derivante dal dossier nucleare, quanto il riflesso geopolitico: l’Iran torna in gioco fra i grandi attori regionali e mondiali. Questo sposta gli equilibri in Medio Oriente e, in qualche misura, anche nelle equazioni di potenza globali. Perché nel momento in cui le massime potenze del pianeta siglano un accordo con Teheran, questa riacquista la sua libertà di manovra e può farsi valere sulla scena internazionale per ciò che effettivamente è: il secondo fra i grandi in Medio Oriente (dopo Israele, che la Bomba ce l’ha anche se non la dichiara) e un rispettabile attore su scala mondiale. Per ottenere questa riammissione e la connessa graduale liquidazione del regime di sanzioni – almeno di gran parte di esso – i negoziatori iraniani hanno pagato un prezzo molto alto. Hanno dovuto rinunciare a due terzi
delle centrifughe, liquidare quasi interamente lo stock di uranio arricchito, concedere l’ingresso degli ispettori Onu ai siti nucleari. In compenso, hanno ottenuto la garanzia di poter presto accedere ad almeno 100 miliardi di dollari, finora trattenuti in fondi congelati all’estero. Per Obama si tratta di un grande successo. Il presidente aveva iniziato la sua parabola alla Casa Bianca nel 2009 allungando una mano tesa al regime iraniano, che non volle stringerla, ma nemmeno intese chiudere la porta al dialogo. Nell’ultimo paio d’anni, grazie soprattutto alla scelta di Teheran di puntare all’intesa e alla decisione con cui il presidente Rohani e il ministro degli Esteri Zarif hanno perseguito tale obiettivo, l’accordo che sarà poi sottoscritto a Vienna ha cominciato a prendere forma. Anche e soprattutto grazie ai contatti bilaterali, visibili o informali, fra i negoziatori statunitensi e quelli iraniani. Perché il presidente degli Stati Uniti teneva tanto a questo trattato? La risposta è semplice: l’obiettivo strategico di Obama in Medio Oriente è di ridurre la sovraesposizione cui gli Usa sembravano condannati dopo le
sfortunate campagne di Bush junior in Afghanistan e in Iraq. Ciò significava produrre un qualche equilibrio fra le potenze regionali, con gli Stati Uniti a vegliare da fuori su di esso. Di conseguenza, l’Iran doveva rientrare in gioco e ritrovare un rapporto con le potenze avversarie, Israele e Arabia Saudita. Il rientro in partita dell’Iran pare assicurato, il dialogo con i nemici molto meno. La reazione di Israele all’accordo di Vienna è stata prevedibilmente dura. Netanyahu ha dipinto l’intesa come un errore storico. Per molti israeliani si è trattato di una concessione fatta agli ayatollah che mette in questione la sicurezza dello Stato ebraico e dell’intera regione. A Gerusalemme quasi tutti paiono convinti che l’Iran intenda comunque dotarsi della Bomba, e lo farà segretamente quando vorrà, ispezioni o non ispezioni. C’è molta retorica in queste reazioni. E c’è qualche logica nella replica americana, per cui proprio se non si fosse fatto l’accordo Teheran si sarebbe invece più agilmente potuta dotare dell’arma definitiva. È possibile che all’atto pratico, nel giro di qualche anno, Israele ma anche la petromonarchia saudita vor-
ranno rivedere il loro atteggiamento di chiusura. Netanyahu e la Casa di Saud sanno essere realisti. E devono quindi tenere in conto il fatto che in ogni caso il patto di Vienna cambia i rapporti di forza regionali. Rilegittima e quindi rafforza Teheran e i suoi alleati. Sarebbe quindi plausibile seguire gli americani nel loro tentativo di apertura, almeno per Israele (per i sauditi è più difficile, dato che nel loro caso entrano in gioco delicati equilibri georeligiosi). Naturalmente è possibile che accada il contrario. Proprio perché allarmati dal recupero americano dell’interlocutore iraniano israeliani e/o sauditi potrebbero inasprire la loro posizione. Specie i secondi. I quali sono attualmente impegnati nel contenimento di quella che percepiscono come un’espansione imperiale persiano-sciita. Baghdad, nella loro visione, è ormai sotto Teheran. E Damasco, alleato regionale dell’Iran, resiste alla guerriglia dei jihadisti alimentata dalle petromonarchie del Golfo e vista di buon occhio dallo stesso Netanyahu in quanto impegnata contro l’amico del nemico. Ne potrebbe scaturire l’allargamento dell’incendio che attualmente bordeggia la Penisola Arabica, salvo
coinvolgerne direttamente l’appendice meridionale, lo Yemen, dove Iran e Arabia Saudita si sono dati alla guerra indiretta. Certo, l’accordo firmato in terra neutrale dai plenipotenziari dei Sei e di Teheran deve essere ancora ratificato da tutte le parti. Se per quanto riguarda la Repubblica Islamica non ci sono dubbi – e le scene d’entusiasmo di questi giorni nelle principali città del Paese danno l’idea di quanto sospirata fosse l’intesa da parte del popolo iraniano – i problemi in casa americana sono evidenti e noti. Obama avrà seri problemi a farlo ratificare dal Congresso, dove le lobby israeliana e saudita sono da tempo al lavoro per sabotarlo. Certo, potrebbe fare ricorso al veto. E/o promulgare l’intesa con un ordine presidenziale, strumento cui alla Casa Bianca è uso far ricorso laddove le obiezioni parlamentari fossero insopportabili. Di certo Obama non intende farsi scippare il successo dai deputati e dai senatori. Per lui, questo accordo significa lasciare un’impronta nella storia. Dopo tante fatiche e alcuni fallimenti, per nulla al mondo il presidente intende rinunciarvi.
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Politica e Economia
Atene non è New York Crisi dell’eurozona Per capire il senso di ciò che sta accadendo in Europa è utile ricordare quanto capitò nel 1975
quando la più grossa metropoli degli Stati Uniti sull’orlo della bancarotta si vide negare ogni aiuto federale
Manifestanti anti-Europa e anti-austerity sventolano uno striscione con scritto «la fine». (AFP)
Federico Rampini «Ford to City: Drop Dead». Quel titolo mi torna in mente oggi quando penso a quello che resta del progetto europeo dopo l’estenuante pasticcio greco. Il Ford del titolo era Gerald, presidente degli Stati Uniti, succeduto a Richard Nixon dopo lo scandalo del Watergate. Il 29 ottobre 1975, mentre la città di New York era sull’orlo della bancarotta, il repubblicano Ford fece un discorso in cui negò ogni aiuto federale alla più grossa metropoli degli Stati Uniti. Il tabloid «Daily News» sintetizzò con efficacia il senso del discorso in quel titolo a caratteri cubitali: «Ford alla città: crepa». Sono passati poco meno di 40 anni da allora. Per capire il senso di ciò che sta accadendo in Europa è utile il raffronto con quella vicenda. Angela Merkel, sia chiaro, non sta dicendo alla Grecia: «Crepa». Anzi, dopo una serie interminabile di vertici europei, l’esito è stato un ennesimo piano di salvataggio. Probabilmente è uno pseudosalvataggio, che impone condizioni insostenibili – lo dice perfino il Fondo monetario internazionale – e tuttavia almeno secondo le apparenze, è scattata qualche forma di aiuto e di solidarietà. Ad Atene però in molti pensano che il senso del comportamento di Berlino sia quello: «Crepa». Visto che gli Stati Uniti sono il modello più importante di una Unione federale che funziona, vale la pena ricordare quella crisi finanziaria «locale» di 40 anni fa. Di fronte al rischio di default di un municipio molto importante, non scattò nessuna solidarietà federale. La città di New York venne abbandonata al suo destino. Poi se la cavò, da sola, con una cura fatta anche di austerity. Ma il mancato aiuto di Washington va precisato. Non ci furono prestiti speciali offerti dall’Amministrazione federale alla città di New York. Ma continuarono ad affluire tutti gli aiuti federali che sono normali negli Stati Uniti. I disoccupati newyorchesi continuarono a ricevere sussidi federali. I pensionati newyorchesi continuarono a incassare la pensione pubblica federale (Social
Security). Altri trasferimenti federali di sostegno all’assistenza medica per i poveri e gli anziani (Medicaid, Medicare) continuarono a funzionare normalmente. Anche se una città americana o un intero Stato Usa possono andare in bancarotta, senza che scatti automaticamente un salvataggio federale, molte forme di solidarietà restano in piedi senza che nessuno ci faccia caso. Infine, quel titolo «Ford to City: Drop Dead» ebbe una conseguenza importante. Fece una vittima illustre: lo stesso Ford. L’anno seguente, nel 1976, Ford tentò di farsi eleggere – al suo primo mandato lui era arrivato da vicepresidente – ma venne sconfitto dal democratico Jimmy Carter. Non solo Ford perse i voti di New York, ma anche in altre parti degli Stati Uniti il suo comportamento verso quella città venne considerato un errore e gli fece mancare molti consensi. Non fu l’unica ragione della sua sconfitta (pesava molto il Watergate), ma quel «Crepa» rimase come un marchio d’infamia.
Il Fmi lo aveva detto: non se ne esce se si continuano ad accumulare nuovi prestiti ad Atene Quanto l’eurozona sia lontana da quel modello di unione federale, è facile vederlo. In mancanza di un piano europeo di salvataggio, la Grecia non avrebbe dei flussi automatici di «solidarietà federale» come quelli che ho ricordato a proposito degli Stati Uniti. E se si andasse a votare domani… Ma di quali elezioni parliamo? Non esiste un presidente europeo eletto a suffragio universale che debba rispondere a tutti i cittadini dello stato dell’Unione. La Merkel viene eletta solo dai tedeschi. I quali sono generalmente d’accordo con lei sull’austerity, e sul trattamento riservato ai greci. Anzi, se c’è qualche differenza è perché la Merkel ha cercato di fare il possibile per mantenere la
Grecia nell’euro mentre molti dei suoi elettori l’avrebbero già abbandonata da tempo al suo destino. Non è un caso se il suo ministro dell’Economia, Wolfgang Schaeuble, a un certo punto ha proposto l’espulsione della Grecia per 5 anni dall’euro. Probabilmente in quel momento il «falco» Schaeuble interpretava gli umori della sua opinione pubblica ancora meglio della Merkel. Ecco, a proposito, un’altra differenza fondamentale con gli Stati Uniti. Una città come New York può fare bancarotta, uno Stato pure, ma questo non significa che possa o debba uscire dall’area dollaro: ci mancherebbe altro. È semplicemente impossibile che New York o Detroit, la California o il Texas, si mettano a stampare un’altra moneta. La moneta, come la difesa, fanno parte delle responsabilità federali. Ciò non impedisce naturalmente che esistano grosse differenze all’interno degli Stati Uniti. E non mi riferisco solo ai livelli di sviluppo economico. Le differenze politiche, culturali, valoriali, sono altrettanto marcate. In molti Stati del Sud c’è ancora un razzismo contro i neri, che suscita indignazione a New York o in California. Dai matrimoni gay al cambiamento climatico, gli Stati solidamente conservatori sono agli antipodi rispetto a quelli progressisti. Perciò quando Ford disse «Crepa» a New York, interpretava gli umori di un elettorato conservatore, convinto che la Grande Mela fosse gestita malissimo, con spese pubbliche clientelari, assistenzialismo, sprechi. E New York reagì nel modo migliore: rimboccandosi le maniche, per risanarsi da sola. Anche qui colpisce una differenza sostanziale rispetto alle vicende greche. Ad Atene si è scelto di rispondere all’arroganza tedesca con il vittimismo, mettendo così in secondo piano le enormi responsabilità nazionali. La crisi greca non è stata fabbricata a Berlino. È anzitutto la conseguenza di un malgoverno protratto da molti anni, sia con governi di destra che di tecno-centro e di sinistra. La Grecia ha una delle peggiori classi dirigenti d’Europa. Ha dei ricchi che
evadono il fisco in proporzioni enormi, i quali hanno messo da tempo i propri capitali al sicuro all’estero. Anche chi non è ricco, ma è riuscito a farsi raccomandare per un’assunzione nella pubblica amministrazione, spesso è a modo suo un parassita: lavora poco, va in pensione giovane. Queste cose non le hanno inventate i tedeschi. Queste cose, anzi, fanno inorridire i tedeschi e li rafforzano nei loro pregiudizi antimeridionali. Più i greci si rifugiano in una cultura del vittimismo, del piagnisteo e della recriminazione, più danno alibi ideologici alle frange violente che scendono in piazza per sfasciare tutto. Non giovano le idiozie propagandistiche dell’ex ministro dell’Economia Varoufakis che descrive i creditori come dei «terroristi». Non aiutano i manifesti dove la Merkel viene truccata con i baffetti di Hitler, e i continui riferimenti al nazismo. Questa Germania ha altri difetti – molto meno gravi per fortuna – ma è un paese solidamente democratico, oltre che pacifista. Non si fa nessun passo avanti verso la soluzione del dramma greco – e tantomeno si avanza verso la costruzione di un’identità europea – se si sceglie di ignorare le proprie colpe. Dipingere la crisi greca solo come un complotto dei banchieri e della classe dirigente tedesca, significa auto-assolversi e quindi è la garanzia che i greci continueranno a praticare tutti i vizi che li hanno portati fin qui. Assai singolare è stata anche la pretesa di piegare le resistenze di Berlino e Bruxelles chiamando i greci ad esprimersi in un referendum: perché mai quel referendum avrebbe dovuto vincolare tutti gli altri cittadini europei? È come se nella vicenda del 1975 la città di New York avesse indetto un referendum contro Gerald Ford. Ridicolo, no? Non siamo ancora alla parola «fine», tutt’altro. I conti del Fondo monetario sono questi. Il debito greco era il 127% del Pil di quel Paese all’inizio della crisi. Oggi, grazie alla cura Merkel dell’euro-austerity, è salito al 176%. L’accordo recente raggiunto fra i creditori europei e il governo Tsipras, poiché
non prevede perdoni dei debiti pregressi, farà salire quel quoziente al 200% in soli due anni. Ma quando un paese ha un debito pubblico che è due volte la sua produzione annua di ricchezza, in base alle regole (e all’esperienza passata) del Fmi, oltrepassa la soglia della «sostenibilità». Diventa matematicamente impossibile invertire la tendenza. Come un aereo che si «avvita» e non reagisce più ai comandi, perché ormai la forza di gravità lo attrae in modo irresistibile verso lo schianto finale. Il Fondo ha sempre sostenuto queste posizioni, maturate in decenni di esperienze alle prese con degli Stati che falliscono. A un certo punto bisogna dire ai creditori: rassegnatevi, mettete una croce su una parte dei vostri crediti perché non li vedrete più; salviamo il salvabile, non uccidiamo l’economia dello Stato insolvente, così almeno potrete recuperare una parte di quel che vi spetta. Fin dall’inizio di questa terza puntata della tragedia greca (tre puntate, quanto i prestiti fin qui associati ad altrettanti «salvataggi») il Fondo lo aveva detto: non se ne esce se si continuano ad accumulare nuovi prestiti ad Atene che vanno a sommarsi ai debiti precedenti. Qualcuno a Berlino crede davvero che generazioni multiple del popolo greco, i bisnipoti e trisnipoti dei nostri contemporanei, potranno continuare a pagare le rate di questo mutuo? Fino al secolo ventiduesimo? E con un’economia che si restringe di anno in anno? Il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, fu il primo degli esponenti della troika (Commissione Ue, Bce, Fondo) a decretare «il re è nudo», quando definì l’euro-austerity «un insuccesso». In ogni caso lo statuto del Fondo parla chiaro, gli vieta di prestare altri capitali ad un Paese che abbia superato la soglia critica della «sostenibilità» del debito. Non resta che una soluzione, piegare la resistenza tedesca e introdurre un «haircut», quel taglio dei capelli che è l’immagine metaforica per illustrare il sacrificio richiesto alla comunità dei creditori. In questo caso, una rapatina soprattutto al resto dell’eurozona, Germania in testa.
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Politica e Economia
Crolla in Borsa il mito della «diversità» cinese Mercati La volatilità sia al rialzo (fino a metà giugno) sia al ribasso (nell’ultimo mese) che si è manifestata sui mercati
cinesi onshore, cioè Shenzhen e Shanghai, nasce dalla politica monetaria espansiva adottata da Pechino
Beniamino Natale «Non provocate panico usando parole come “picco”, “crollo” o “collasso”». Queste alcune delle istruzioni, forse sarebbe più opportuno definirli «ordini», impartiti dalla SAPPRFT (State Administration of Press, Publications, Radio, Film and Television) ai media cinesi dopo il crollo delle Borse della Repubblica Popolare Cinese che, dopo un anno di «toro scatenato», hanno perso in tre settimane un terzo del loro valore, bruciando, secondo i calcoli degli economisti, quasi tre trilioni (tremila miliardi) di dollari Usa. La circolare della SAPPRFT è stata diffusa dal sito di esuli cinesi «China Digital Times». La reazione del governo cinese è stata tipica di un regime autoritario: poliziotti, guidati addirittura da un viceministro (quello della pubblica sicurezza Meng Qingfeng) hanno perquisito l’ufficio centrale della China Securities Regulatory Commission (CSRC) alla ricerca delle prove di «speculazioni sospette». «Severe punizioni» sono state promesse ai responsabili (di cosa non è chiaro) e la libertà di azione degli operatori è stata limitata da pesanti interventi dello Stato. Quasi metà delle imprese quotate nelle due Borse del Paese – quella di Shanghai e quella di Shenzhen – hanno sospeso le loro quotazioni per tre giorni e hanno cominciato a rientrare sul mercato gradualmente, solo dopo che gli indici hanno ricominciato a stabilizzarsi con nuovi rialzi o con ribassi contenuti; alle imprese statali è stato vietato di vendere azioni per sei mesi, la banca centrale ha immesso larghe quantità di liquidità nel mercato, i prestiti a tassi favorevoli a coloro che si indebitano per «giocare» in Borsa sono stati fortemente incoraggiati. «Intervenire attivamente sui mercati odora di disperazione e di panico. Il colpo finale è stato quello di permettere a metà delle compagnie di essere sospese dalle contrattazioni, trasformando di fatto le azioni cinesi in un mercato non-investibile», ha commentato Micheal Lai, direttore di un fondo d’investimento internazionale. Qualcuno ha sostenuto che il crollo dei mercati tenuti artificialmente alti per un anno dagli interventi statali diretti e indiretti, era stato previsto dagli investitori più accorti – le poche istituzioni straniere attive sui mercati finanziari cinesi – che avrebbero liquidato le loro posizioni prima del diluvio. Secondo Lai, il momento in cui «si è capito che le autorità avevano perso il controllo» è stato l’ennesimo taglio dei tassi d’interesse da parte della banca centrale a fine giugno, quando gli indici stavano scendendo inesorabilmente da oltre due settimane. Niente illustra la situazione psicologica delle autorità monetarie cinesi meglio degli ordini impartiti ai media dalla SAPPRFT. Ecco un altro paio di perle estratte dal documento pubblicato da CDT: «La necessaria copertura delle Borse deve essere assolutamente equilibrata, obiettiva e razionale. Non vi unite al coro dei sostenitori del toro (i rialzisti) o dell’orso (coloro che prevedono nuovi ribassi)». «Senza alcuna eccezione vanno sospese le discussioni, le interviste agli esperti, le coperture in diretta dai posti (presumibilmente, le Borse stesse)». Per il Partito Comunista Cinese la caduta delle Borse ha rappresentato una pericolosa perdita di credibilità
La replica del famoso Toro di Wall Street allo Stock Exchange di Shanghai. (AFP)
di fronte ad un’opinione pubblica che gli accorda un consenso vasto ma condizionato al continuo miglioramento delle condizioni di vita della classe media. Con l’economia fortemente indebolita dopo la crescita impetuosa del «decennio d’oro» che ha aperto il nuovo secolo, tutte le fonti di arricchimento della classe media sembrano essersi inaridite: le esportazioni, le miniere di carbone e soprattutto l’edilizia, affetta anche lei, come tutta l’industria del Dragone, da una sovrapproduzione cronica. Restava la Borsa. Con un’accorta politica di finanziamenti diretti e indiretti, col facile ricorso al credito per giocare in Borsa, gradualmente milioni di «papà&mamme» – i piccoli investitori privati – sono stati trascinati sul mercato. Per mesi e mesi , le cose sono andate per il meglio e il miraggio dei facili guadagni in Borsa si è diffuso presto in una società guidata da un regime comunista autoritario ma incline a credere ai più antichi miti del capitalismo. Quando l’indice della Borsa di Shanghai toccò i 4000 punti il «Quotidiano del Popolo», «organo» del PCC, scese in campo affermando – col tono di chi si rivolge a militanti in lotta – che si trattava «solo dell’inizio». La fine del sogno di tanti cinesi – si calcola che siano circa 90 milioni i cittadini della Repubblica Popolare che hanno cercato la fortuna sui mercati finanziari – ha segnato anche la fine del mito della «specificità» dell’economia cinese che, al contrario di quelle gestite dalle democrazie, non può che crescere all’infinito grazie alla saggezza dei suoi controllori. Era urgente trovare un colpevole. Giornali diversi tra loro come il «Global Times» – espressione della fazione più nazionalista e intransigente del PCC, oggi dominante – e la rivista «Caixin» – legata ai «moderati» ma con ottimi contatti ai vertici del Partito – lo hanno indicato in Xiao Gang, il presiden-
te della China Securities Regulatory Commission (CSRC), accusato di aver commesso una serie di errori, prima di tutto quello di aver favorito la corsa ai mercati dei piccoli investitori. Alcuni commentatori hanno indicato nello stesso premier Li Keqiang – un economista legato alla fazione perdente dell’ex-presidente Hu Jintao – una
possibile futura vittima della caduta delle Borse. Con i massicci interventi statali gli indici hanno ripreso a crescere – o a scendere leggermente – e sembrano essersi stabilizzati. Pochi analisti pensano che questa situazione possa durare a lungo e ritengono che il mercato finanziario cinese rimanga «volatile».
Secondo il «Financial Times» le «principali ragioni di questa volatilità sono le seguenti: non solo gli «investitori al dettaglio coprono l’80-90% delle operazioni»; ma «anche i manager professionali dei fondi d’investimento spesso agiscono con un orizzonte di breve termine». Infine, se è chiaro a tutti che il mercato cinese è guidato politicamente, «i pronunciamenti di Pechino sono spesso soggetti a diverse interpretazioni, cosa che porta a improvvisi rialzi e ribassi a secondo di come gli operatori leggono i segnali». La Borsa di Hong Kong, il «vero» mercato finanziario della Cina, quella nella quale sono quotate le imprese della «nuova economia» cinese come Alibaba e Tencent, è stata coinvolta nel tracollo ma ha anche trovato un lato positivo nel disastro delle scorse settimane. «La Cina ha involontariamente mandato un messaggio secondo il quale non è pronta ad aprire i suoi mercati finanziari, e questo fa il gioco di Hong Kong», ha sostenuto il capo delle operazioni finanziarie di una multinazionale citato da FT. Al contrario del governo di Pechino quello di Hong Kong – che nelle questioni finanziarie ha una forte autonomia – è rimasto a guardare, in un’efficace applicazione della massima orientale secondo la quale in alcune situazioni il comportamento più efficace è quello di «non fare assolutamente niente». Gli analisti sanno che si tratta di un vantaggio che è destinato a non durare in eterno ma per ora il «mercato» dell’ex-colonia britannica si gode la vittoria sul potenziale rivale di Shanghai. Non per niente l’86% dei rispondenti ad un sondaggio del «South China Morning Post» hanno affermato di non credere che la «bolla finanziaria» cinese si sia sgonfiata definitivamente. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Francoforte, centro nevralgico dell’economia tedesca, con la sede della Banca centrale europea e le navi container sul fiume Main. (Keystone)
Più aziende svizzere miliardarie Statistiche Nel 2014 sono passate da 160
a 168. Tuttavia, si constata anche qualche calo importante di cifra d’affari, nonché una perdita di attrattività della piazza industriale svizzera Ignazio Bonoli
In 10 anni da malata a locomotiva d’Europa Germania Un’analisi delle origini e delle ragioni del successo
economico di un Paese tuttora incerto sul ruolo politico da svolgere nell’Unione europea Edoardo Beretta Che la Germania non sia sempre stata «allievo modello» dell’Eurozona è fatto noto: bastino, infatti, le criticità che dovette affrontare nei primi anni del Ventunesimo Secolo, per domandarsi se sia lo stesso Paese di oggi. La risposta – seppur, ovviamente, affermativa – è complessa: se per forza industriale la nazione tedesca presentava gli stessi gruppi aziendali di oggi (che ne rendono l’economia così attrattiva rispetto ai competitor esteri), è altrettanto vero che – regolarmente, all’annuncio mensile dei dati sull’impiego – un popolo intero risprofondasse in timori ancestrali. Proprio il tasso di disoccupazione (pari nel 2014 al 5%, ma nel 2005 al record per l’epoca, di 11,2%*) rinfocolava lo «spettro» della Grande Depressione con la sua iperinflazione e, in questo caso, la disoccupazione di massa. Lo scoraggiamento derivantene era palpabile e i frequenti periodi di (quasi) piena occupazione della BRD, cioè della Germania Ovest (1949-1990), parevano ricordi lontani. La narrazione sarebbe potuta così continuare – almeno a guardare i dati statistici del 2005, in cui fu raggiunto il picco disoccupazionale e, oltretutto, finì prematuramente l’era politica di Gerhard Schröder con elezioni parlamentari anticipate: la Germania, che si svegliò il lunedì 19 settembre 2005 dopo lo stallo politico determinatosi dall’esito del voto e la posizione inconciliante del Cancelliere uscente nella trasmissione televisiva Berliner Runde della sera prima, era un Paese in profondo shock. Eppure, dal 2006, anno del Campionato Mondiale di Calcio in una Germania che si scopriva positivamente nazionalista, tutto cominciò a cambiare: lo «spauracchio» della disoccupazione a riassorbirsi e, di converso, il clima economico a rasserenarsi fino a
divenire (solo qualche anno più tardi) il «faro» dell’eurozona, entrata nella sua prima «vera» crisi economica. Ma quale è il segreto di un tale successo? Quale la ricetta economico-sociale da trascriversi come modello? Ancora una volta, l’analisi è articolata. Da un lato, è indubbiamente vero che l’Agenda 2010, cioè le contestate misure di rilancio dell’economia (e di taglio dei sussidi) promosse dai Governi rosso-verdi fino al 2005, abbia maturato i suoi frutti soltanto nelle legislature di Angela Merkel. Dall’altro lato, però, sarebbe incompleto attribuire solo a variabili (strettamente) economiche i presupposti del cambio d’immagine da «malato» a «locomotiva» d’Europa in un arco temporale così breve. A ben guardare, infatti, lo stimolo economico si è appoggiato su un cambio di mentalità avvenuto nella Germania stessa. La volontà di tornare a primeggiare (assumendo il ruolo di guida europea per uscire dalle turbolenze economico-finanziarie), la ripresa della domanda interna spinta da una propensione al consumo maggiore o la «riscoperta» della Germania in chiave turistica e ricettiva, cioè non meramente industriale e agricola, sono stati altresì fattori di riscossa. Il comeback tedesco è, dunque, iniziato nel 2006 con la percezione di essere finalmente un Paese con interessi comuni, genuinamente nazionalisti e, in quel caso, tifare Die Mannschaft, cioè la nazionale di calcio che proprio in queste ultime settimane è stata ufficialmente così ribattezzata. In altri termini, la ripresa economica è stata contemporaneamente causa e conseguenza di nuova vitalità individuale, che è tuttora palpabile ed è continuata a sussistere persino nella fase acuta della crisi europea del debito. Sebbene sia vero che sia diffuso il precariato (ad es., sotto forma di Zeit – e Leiharbeiter o Minijobber) e vi siano
Germania, in cifre Conto corrente della bilancia dei pagamenti (a $ correnti) PIL (a $ correnti) PIL pro capite (a $ correnti)
2005
2013
133,77 mld. $ 2’857,56 mld. $ 34’649,9 $
256,022 mld. $ 3’730,26 mld. $ 46’251,4 $
Fonte: The World Bank (http://data.worldbank.org/)
tuttora situazioni d’impiego plurimo per «sbarcare il lunario» a fine mese, il tedesco medio è generalmente più soddisfatto della propria condizione personale e, quindi, preparato a far fronte ad eventuali asperità: il recente trend all’acquisto di immobili di proprietà è, sicuramente, sintomatico di un’evoluzione di mentalità. Certamente, il Governo federale – soprattutto, nei confronti dei propri partner europei – ascrive i motivi di tale successo alle risparmiose politiche di bilancio, che già l’anno scorso hanno reso possibile il raggiungimento della schwarze Null, cioè dell’assenza di ricorso a nuovi debiti: capacità industriale di «fare sistema» e ottima reputazione dell’economia locale sono state, inoltre, fondamentali per l’incremento del gettito fiscale e nella crescita del PIL. Certo è, però, che anche alla stessa Germania vadano talvolta stretti i vincoli europei di bilancio: ad esempio, la ventilata introduzione di un pedaggio autostradale (Maut) per i soli cittadini stranieri per finanziare la manutenzione dell’infrastruttura stradale ne è sintomatica. In altri termini, anche lo Stato tedesco deve confrontarsi con le difficoltà di reperire risorse dalle sole politiche fiscali, essendo quelle monetarie ormai demandate alla BCE e quelle di bilancio sostanzialmente «bloccate». La sfida futura della Germania consisterà, quindi, nel mantenere sempre alto il morale dei propri cittadini, la cui innovatività e iniziativa è all’origine stessa del marchio Made in Germany, e valutare il ruolo da rivestire nelle future questioni europee: dopo l’euforia nell’abbracciare la politica dell’austerità (culminata nel 2011 con l’European Fiscal Compact) la sensazione è che il fronte dei sostenitori europei si stia sfaldando. Per non parlare del timore che le esportazioni commerciali, per cui la Germania ha recentemente primeggiato divenendo Exportweltmeister, possano durevolmente contrarsi a causa delle sanzioni nei confronti della Russia, del rallentamento della crescita cinese e della stentata ripresa europea. Le incognite sono tante, ma la Germania poggia su fondamentali solidi – da tripla A, appunto. * http://ec.europa.eu/eurostat/tgm/ table.do?tab=table&init=1&language =en&pcode=tesem120&plugin=1
Sono aumentate di 8 le aziende svizzere nel 2014 che realizzano una cifra d’affari superiore al miliardo di franchi, passando da 160 a 168. Lo indica l’indagine annuale pubblicata fin dal 1968 dalla «Handelszeitung» (in collaborazione con Bismode D & B Suisse). Da qualche anno ormai le 100 maggiori aziende operanti in Svizzera superano la soglia del miliardo di cifra d’affari. Alcune di queste cifre d’affari sono state raggiunte mediante acquisizioni. È il caso, per esempio, della Swissport, con sede a Glattbrugg, che si occupa di servizi all’aviazione, e che ha acquistato la concorrente Servisair. Questa acquisizione ha provocato un aumento del 43 per cento delle vendite e ha ora fatto salire la società dall’89esimo al 66esimo posto della speciale classifica. La società si pone quindi come candidata a una prossima quotazione in borsa delle sue azioni. Un aumento del 21 per cento della cifra d’affari è segnalato anche dalla Dufry Travel Retail. Questa catena «Duty Free» ha avviato un’operazione di aumento del capitale. Il gruppo gestisce 1’650 negozi ed ha pure compiuto un notevole balzo nella classifica, passando dal 58esimo posto al 53esimo. Due acquisizioni faranno in modo che nel 2015 si registri un ulteriore miglioramento della posizione. Nel settore delle vendite al dettaglio si registra però anche il sensibile tonfo della Valora (gestore di chioschi), che ha ceduto due
Cargill International (126,8 miliardi, +1,3 per cento), la Trafigura (119,9 miliardi, +0,2) e la Mercuria Energy Trading (106 miliardi, +5,2), prima della Nestlé, seguita a sua volta dalle nuove arrivate Gunvor (86 miliardi stimati) e Louis Dreyfuss Commodities (64 miliardi stimati). Viene soltanto al nono posto la svizzera Novartis (55,7 miliardi, +3,8 per cento) e al decimo la Ineos Holdings (50,7 miliardi, +22,6). Dopo la Roche (47,4 miliardi, +1,5), le cifre d’affari vanno sensibilmente diminuendo, con ABB (37,4 miliardi) e i due giganti del commercio al minuto Coop (28,1 miliardi) e Migros (27,3 miliardi). Per quanto concerne il personale occupato, troviamo questa volta in testa la Nestlé con 339’000 dipendenti, seguita dalla Glencore (200’000) e dalla Cargill (140’000), come del resto la ABB. Ma anche la Novartis dà lavoro a 133’413 persone, mentre la Swissport Int. ne occupa 60’000. La Roche occupa 88’509 persone, la SGS 83’515. Nel caso delle multinazionali è chiaro che la maggior parte dei posti di lavoro si trovano all’estero, ma quelli più pagati sono spesso in Svizzera. Da qualche tempo la «Handelszeitung» pubblica anche una ripartizione regionale delle ditte «miliardarie». La maggior parte ha sede a Zurigo (47), 17 sono nel canton Berna, 14 a Ginevra 13 a Basilea, 10 nel canton Vaud e 9 a Zugo e Argovia. Il Ticino, con Appenzello Interno, Obvaldo e Giura non ospita nessuna di queste aziende. L’analisi di questi dati confer-
La sede della Nestlé a Vevey: con 91,6 miliardi di franchi di fatturato, è ormai solo al sesto posto della classifica stilata dalla «Handelszeitung». (Keystone)
compartimenti, perdendo il 32 per cento della cifra d’affari ed è quindi scesa dal 70esimo al 98esimo posto in classifica. Una grossa perdita di cifra d’affari è stata subita anche dalla Stadler Retail, costruttore ferroviario, che perde 24 punti percentuali e scende dal 79 esimo al 100esimo posto. Va detto che questa ditta, che vende e installa treni in tutto il mondo, aveva però realizzato risultati eccezionali nel 2012 e 2013. La classifica è comunque sempre dominata dalle multinazionali del commercio mondiale di materie prime. Da qualche anno ormai, queste aziende realizzano cifre d’affari ben superiori a quella della ditta che aveva in precedenza dominato la scena in Svizzera, cioè la Nestlé. Questa importante multinazionale svizzera è ormai sesta in classifica, pur con una cifra d’affari di 91,6 miliardi di franchi, in calo dello 0,6 per cento rispetto all’anno precedente. Anche la Vitol (petrolio), che mantiene saldamente il primo posto ormai da quattro anni, con una cifra d’affari di 253,8 miliardi di franchi, ha subito un calo dell’8,1 per cento delle vendite, così come la concorrente Glencore (–0,8 per cento), con una cifra d’affari di 207,8 miliardi di franchi. Seguono la
ma che la tendenza a insediare grandi aziende in Svizzera è rallentata. Questo perché la Svizzera sotto parecchi aspetti, ha perso la sua tradizionale attrattività. Il livello dei costi e dei salari è molto elevato e oggi i mercati principali sono molto lontani dall’Europa, mentre in Svizzera si fa sentire una certa scarsezza di personale molto qualificato. Inoltre, le difficoltà create con l’iniziativa sull’immigrazione stanno diventando un forte deterrente. D’altro canto la concorrenza internazionale è sempre più forte. La Svizzera perde invece a poco a poco alcune sue prerogative, tra le quali un’ottima piazza finanziaria, una legislazione chiara e favorevole alle aziende, un’organizzazione dello Stato poco burocratica ed efficiente e, infine, anche una fiscalità attraente. Quest’ultimo fattore è oggi diventato molto importante per le aziende del commercio mondiale e quindi per alcune regioni svizzere come, per esempio, Ginevra o Zugo. La riforma della tassazione delle aziende III, in alcuni casi, raddoppierà il tasso d’imposizione. Ora si sta cercando una soluzione favorevole a queste aziende nell’intento di trattenerle in Svizzera, ma non è detto che ciò sia sufficiente.
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Politica e Economia
Come ti chiami? Dietro il marchio I nomi, si sa, nascondono storie; e quelli dei brand celano le verità degli inizi,
oppure tracce importanti sui passaggi evolutivi della marca
Mirko Nesurini I nomi di molti prodotti significano delle azioni o attività quotidiane. «Pulisci con lo scottex», «mi dai un kleenex?», «prendi un’aspirina», sono frasi di tutti i giorni che contengono nomi di marchi commerciali passati, in vario modo, al rango di nomi comuni. Alle aziende piace raccontare aneddoti sulla provenienza dei propri nomi. Ad alcuni incuriosisce sapere che Reebok è il nome di una gazzella africana, che il nome IKEA è l’acronimo delle iniziali del fondatore Ingvar Kamprad e di Elmtaryd e Agunnaryd, rispettivamente la fattoria e il villaggio di origine di Kamprad, che il nome Microsoft è l’unione tra Micro (computer) e Soft (di Software) e che Permaflex (il famoso materasso) «permanentemente flessibile» ricava il proprio nome da una semplice affermazione che racconta parecchio di sé. Taluni nomi vengono coniati sul campo. Il nastro Scotch venne dapprima usato dai verniciatori per separare le parti da verniciare dalle altre. Lo chiamarono scotch perché all’inizio molti si lamentavano dell’uso troppo parsimonioso dello strato di adesivo, tant’è vero che spesso il nastro non aderiva alla superficie. Scotch infatti significa «scozzese», sinonimo universale di avaro. Altro nome curioso è UHU. La famosa colla tedesca venduta nel caratteristico stick giallo. Pare che nella Foresta Nera, dove ha sede l’azienda, di notte vi siano un sacco di gufi che fanno «uhu, uhu, uhu, ...». Da qui l’idea del creativo del luogo che ha inventato il nome dell’impresa. Semplice? Direi geniale, visto che un prodotto che ha l’appeal di un chiodo arrugginito, è diventato un brand globale anche grazie al suo nome.
Alcuni nomi creano confusione o potrebbero ingannare il consumatore, a volte con risvolti comici Altri nomi nascono dalla capacità di sintesi e dalla furbizia del fondatore. Era il 1888 quando l’americano George Eastman inventò e mise in commercio la prima macchina fotografica portatile: la chiamò «Kodak» perché era un nome «breve, vigoroso, facile da pronunciare e per soddisfare le leggi sui marchi depositati, non significava nulla». Alcuni nomi servono all’impresa per trasmettere un concetto di marketing. Il proprietario della testata che state leggendo, si chiama Migros (Ticino). Chi si è mai chiesto cosa significhi Migros? Migros significa «metà grande». «Mi-gros» alle origini si posizionava tra il mercato all’ingrosso e la vendita al dettaglio. Chi comprava da «mi-gros» poteva godere dei vantaggi del prezzo dell’ingrosso senza essere obbligato a comprare grandi quantità. Il nome Migros, conosciuto ovunque, rispecchia la verità di quel particolare posizionamento di mercato originario. Il tema delle denominazioni interessa anche le località. In Ticino abbiamo visto molte aggregazioni comunali. Il nome precedente non viene dimenticato, rimane nella mente del cittadino per molti anni. Cambiare nome al proprio comune, è come cambiare nome a una moneta, è difficilissimo, tanto che una considerevole percentuale d’italiani ragiona ancora in lire e di spagnoli in pesetas, anche se l’Euro esiste da più di un decennio. La materia ha interessato anche i cinesi. Il Governo cinese
Enric Bernat Fontlladosa, l’imprenditore che inventò i Chupa Chups, il cui logo venne disegnato da Salvador Dalì. (Keystone)
ha provato a cambiare nome alla loro capitale, senza riuscirci. Benché i cinesi abbiano denominato la loro capitale Beijing oramai da anni e lo abbiano lanciato in tutte le salse comunicative anche nel corso delle Olimpiadi 2008, sia i giornalisti sportivi che quelli di cronaca, hanno continuato a scrivere dei «giochi» e delle «scelte politiche» di Pechino. Un brand è soprattutto un nome, raramente il simbolo visivo supera in notorietà la dicitura. Alcuni nomi tuttavia vengono ricordati anche grazie alla loro forma estetica. Salvador Dalì nel 1969 disegnò la margherita e le lettere Chupa-Chups per il famoso lecca-lecca. Il nome deriva dal verbo spagnolo «Chupar» (succhiare), efficacissimo quindi come nome e come effetto visivo. La mela di Apple e lo swoosh della Nike sono certamente simboli che «funzionano anche senza nome», perché è comunque lì che conducono la mente del consumatore. Sono molte le regole proposte dalle società specializzate nella scrittura dei nomi per le aziende e per i prodotti. In genere, i consigli sono: a) non copiare un nome o un concetto altrui. La mancanza di originalità non produce frutti, b) non maltrattare la lingua per evitare di generare confusione e 3) fatti capire nel mondo intero anche se ti trovi a operare localmente. Alcuni nomi creano confusione, o potrebbero addirittura ingannare il consumatore. Come si riconosce una denominazione ingannevole? Il network statunitense Great Place to Work Institute, presente in 40 Paesi, ebbe problemi di registrazione del proprio nome in Svizzera. Le regole del network impongono alle filiali nei vari Paesi di attribuire alle società locali una denominazione che riconduca al nome originale. Il nome della società è infatti identico in tutto il mondo. La società locale dovrebbe aggiungere il nome del Paese in cui si trova alla denominazione internazionale. Per esempio: Great Place to Work Institute Switzerland. Al momento della registrazione del nome nel nostro Paese, l’ufficiale del Registro di Commercio ha rifiutato la dicitura sollevando un’obiezione: Il termine «institute» potrebbe risultare ingannevole, riconducendo il consumatore
a un’istituzione pubblica. Il nostro è il Paese conosciuto nel mondo per il rigore delle proprie istituzioni. Altrove, il tema a volte viene sottovalutato. Una curiosità? La Cooperativa Pescatori Posillipo conduce il consumatore a pensare a un gruppo di simpatici e folcloristici pescatori napoletani. In realtà si tratta di una società sita a Barletta, vicino a Bari, che produce e distribuisce capi d’abbigliamento. Il creativo imprenditore, alle prese con la denominazione dell’azienda, ha pensato di inventare una «storia» mitologica che ruota attorno a un pescatore e a una sirena. Da qui nasce il tema dei «pescatori». Posillipo cosa c’entra in tutto questo?
Nulla. In effetti l’imprenditore ha scelto quella denominazione perché «è un nome prestigioso» e perché ha «lavorato per anni in Campania, maturando un legame affettivo con quella regione d’Italia» . Alcune settimane fa un caso di confusione nelle denominazioni ha occupato per qualche ora le cronache di tutti i giornali. L’evento ha coinvolto Francorosso che non è Franco Rosso Italia. Si tratta dello strano caso dei biglietti per la finale di Champions League di calcio Juventus – Barcellona giocatasi a Berlino. La Francorosso è una società del gruppo Alpitour, Franco Rosso Italia no. La prima non ha nulla a
che vedere con la finale di Champions, la seconda è invece quella che ha gestito la vendita dei biglietti e dei pacchetti viaggio per la partita. La modalità di gestione della vendita dei biglietti, ha scatenato una serie di polemiche che ha molto innervosito i tifosi della Juventus. Quel coro «Franco Rosso, Franco Rosso, Vaff…..oooooo» che si è sentito allo stadio non è stato valutato positivamente dalle persone di Francorosso. Il tema, per dirla sottovoce, non è passato inosservato, tanto che l’incolpevole Alpitur/Francorosso ha diramato un comunicato per fare sapere che non c’entrava nulla con quel caso, mal gestito dalla Franco Rosso Italia. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La SUPSI e le donne Se c’è un campo, in Ticino, dove la parità dei sessi è stata realizzata, è quello degli studi universitari. All’USI, le studentesse rappresentano il 49,2 per cento del totale; nei programmi di bachelor dei dipartimenti della SUPSI, stando ai dati del rapporto annuale, uscito di recente, addirittura il 53 per cento. Sappiamo che, nella popolazione ticinese, l’effettivo delle donne supera quello degli uomini, ma il rapporto tra donne e uomini alla SUPSI, pari a 1,12, è largamente superiore all’1,05 che rappresenta il rapporto tra i sessi nella popolazione residente del Cantone. La prima reazione a questa constatazione è certamente positiva. Finalmente, anche nella formazione accademica, si è riusciti ad assicurare la parità dei sessi. Per chi crede che l’emancipazione femminile comincia dalla possibilità di poter seguire, con le medesime opportunità che
sono offerte agli studenti maschi, l’intero iter educativo questi valori sono degni di encomio. Aggiungiamo però che ancora non è arrivato il tempo per dire evviva! E questo per due ragioni. In primo luogo perché se è vero che oggi non esiste più una barriera invalicabile per le donne che vogliono accedere agli studi universitari, è altrettanto vero che la discriminazione tra i sessi continua ad esistere a livello delle singole formazioni. Ce lo dimostra molto bene il rapporto della SUPSI, citato qui sopra. Gli studenti di questa alta scuola sono distribuiti in 8 dipartimenti che rappresentano otto orientamenti professionali diversi. Orbene di questi otto dipartimenti, solo uno, quello di economia aziendale, possiede una ripartizione tra i sessi della popolazione studentesca quasi equilibrata (54% uomini e 46% donne). Tutti gli altri sono o diparti-
menti con popolazione studentesche largamente femminili, o dipartimenti nei quali la quota di studenti maschi è largamente superiore a quella delle studentesse. Le differenze sono larghissime: in genere si tratta di un rapporto di tre quarti a un quarto. I dipartimenti maschili sono Costruzioni (75% uomini), e Tecnica (91% uomini). I dipartimenti femminili sono invece Design (77% donne), Lavoro sociale (77% donne), Sanità (76% donne a Manno e 82% donne a Landquart) e Formazione insegnanti (72% donne). Attenzione, non è che queste differenze di genere siano il frutto di una selezione degli studenti da parte della scuola. La SUPSI offre i suoi bachelor indiscriminatamente a ragazzi e ragazze che dispongano dei titoli e dell’esperienza lavorativa richiesti all’entrata. Bisogna dunque cercare la ragione di queste differenze nella scelta di una formazione più
a monte che al momento dell’entrata alla SUPSI. E se accettiamo che la decisione sulla strada da prendere nella professione e negli studi cade normalmente molto prima dell’accesso alla Scuola universitaria, ossia al momento di iniziare l’apprendistato, dobbiamo riconoscere che sull’indirizzo da prendere peserà anche l’opinione di chi sta attorno alle ragazze negli ultimi anni della scuola media, come gli insegnanti e i familiari. Ora non è difficile immaginare che queste opinioni siano ancora legate a stereotipi e pregiudizi sul ruolo che possono svolgere le donne nel mondo del lavoro, come per esempio quello stando al quale le donne non sono assolutamente in grado di abbracciare professioni tecniche. Per far cambiare queste opinioni bisognerebbe poter dimostrare che non è così, ossia che le donne possono benissimo far carriera anche in queste professioni.
Purtroppo, e questa è la seconda ragione, questa dimostrazione è difficile da fare. Non solo le donne non hanno molte opportunità nelle professioni tecniche, ma anche nelle altre professioni qualificate la loro quota continua ad essere inferiore alla parità. Ce ne offre un esempio la SUPSI stessa. La quota dei dottorandi donne è pari al 32 per cento, quella nel personale dirigente (compresi i docenti e i professori) è pari al 37 e quella nell’effettivo dei ricercatori al 33. Sappiamo che i valori di queste quote migliorano di anno in anno e sono largamente superiori, per limitarci a una sola comparazione, a quelli della quota delle donne nei consigli di amministrazione ticinesi. Reputiamo tuttavia che, sulla strada della realizzazione della parità tra i sessi nei livelli superiori del mondo del lavoro, ci sia ancora molto da fare.
diva, Berlino immaginava l’Europa senza Grecia e Parigi l’Europa con la Grecia, i giornali si riempivano di retroscena sulla frattura francotedesca, improbabile in assoluto – a Hollande non conviene affatto perdere il traino merkeliano – ma avvincente sul momento: guardate che resistenza, il monsieur Hollande. Il presidente francese ha conquistato così un po’ di popolarità, almeno nel consesso europeo che si è molto diviso e che si è molto offeso. Nella settimana dei festeggiamenti per la presa della Bastiglia, un gran momento di orgoglio nazionale, Hollande ha mostrato di sapersi opporre alla Merkel, e per una volta la cosa è stata chiara a tutti: si sapeva che Berlino tramava per l’uscita almeno temporanea e invece il fronte mediterraneo si batteva per la solidarietà. Approfittando dello slancio, Hollande ha anche proposto di costituire, nel lungo periodo,
un Parlamento della zona Euro, per rafforzare l’integrazione monetaria e trarre le lezioni più importanti dalla crisi del debito greco, in modo da essere pronti ad affrontare altre emergenze. Ci vuole una presenza più forte di chi rappresenta le nazioni dell’Unione europea, ha detto il presidente. In questa enorme confusione tra sovranità nazionale, democrazia e regole di vita in comune, persino l’ala più radicale del Partito socialista, che malsopporta il presidente e il suo governo soprattutto per i suoi tentativi liberisti in economia, ha approvato l’operato di Hollande nei confronti della Grecia e ha apprezzato che portasse avanti una campagna anti austerità che in Europa aveva perso un po’ di smalto. Persino il capo del fronte della sinistra, quel Jean-Luc Melenchon che pensa che ad Atene sia in corso un golpe e che ha fatto un tweet senza fronzoli: «Per la terza volta nella storia, il governo
tedesco sta distruggendo l’Europa», ha inizialmente condiviso l’atteggiamento di Hollande nei confronti di Atene – è durata pochissimo, ora Melenchon attacca di nuovo Hollande che lascia a Merkel il potere di «fare il bello e il cattivo tempo» in Europa e ha fatto campagna contro l’accordo «Merkhollande». Il flirt per quanto temporaneo di Hollande con gli amici internazionali del premier greco, Alexis Tsipras, ha permesso al presidente francese di accrescere la sua statura di mediatore e di poter rivendicare capacità diplomatica, se si pensa anche al ruolo che la Francia ha giocato sull’altro grande negoziato del momento, quello con l’Iran. Ma gli effetti complessivi non sono stati altrettanto brillanti: la popolarità resta bassa (è direttamente proporzionale alla disoccupazione), e la Francia è spaccata come tutti gli altri paesi europei sul destino greco.
dell’agenda politica. Grazie mille». L’arresto a New York ha fatto completamente dimenticare questa filippica, consegnata agli archivi come canto del cigno di DSK leader politico e finanziere. Quando però anche al processo di Lille venne a galla che l’ex direttore del FMI compariva più come capro espiatorio che come colpevole, le sue dichiarazioni alla Brookings Institution tornarono di attualità. La ragione potrebbe essere quella indicata dal blogger americano Mike Whitney che ha riesumato il discorso affermando che «Sembrava di sentir parlare Leon Trotsky davanti alla Quarta Internazionale, non un burocrate dal cuore di pietra (…) Forse non sapremo mai se qualcuno ha architettato quella stupidaggine della “trappola al miele” del Sofitel Hotel. È però certo che se qualcuno di voi dovesse, un giorno, diventare direttore del FMI, sarebbe meglio che non si servisse del proprio ruolo per parlare di “distribuzione” o di diritti della contrattazione collettiva, a meno che non cerchi di finire come
Strauss-Kahn, trascinato in manette in galera, mentre cercava di capire cosa fosse andato storto». Dopo la conclusione della disavventura giudiziaria in terra francese, anche chi di solito rifugge da tesi fantapolitiche fatica a scacciare il dubbio di un possibile accanimento contro DSK. Soprattutto tenendo presente che l’incriminazione di Lille era scattata dopo che Strauss-Kahn aveva fatto balenare l’idea di un suo ritorno in grande rilievo nella politica francese: allora era favorito nelle primarie socialiste per le presidenziali del 2012 e un recente sondaggio lo vede ancora tra i personaggi di sinistra favoriti nella corsa all’Eliseo del 2017. Ora pare che DSK abbia ricevuto un incarico dalla famiglia Castro per riavviare l’economia cubana. Una cosa è certa: Strauss-Kahn dovrà evitare a tutti i costi di andare in Messico, l’ultima meta scelta da Leon Trotzky. E tenere presente che l’assassino del rivoluzionario bolscevico, una volta rilasciato dopo 20 anni di carcere, venne accolto all’Avana da Fidel Castro.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Hollande mediatore L’aveva sempre detto, François Hollande: la Grecia deve rimanere nell’Eurozona. Il presidente francese non ha mai avuto dubbi sul destino di Atene, forse perché molti economisti gli ricordano che, se c’è un malato più grande della Grecia in Europa, è proprio la sua Francia; forse perché davvero ci tiene all’unità di un continente in cui Parigi ha avuto un ruolo di primo piano fin dalle origini; forse perché, esperto di cavilli burocratici com’è, Hollande sa che se nemmeno tecnicamente la Grexit è facile, figurarsi quanto può esserla politicamente. Hollande non ha mai ceduto di fronte alle pressioni e allo scoramento generalizzato, e anzi si è rivenduto come il mediatore in capo dell’Unione europea, accompagnato dall’italiano Matteo Renzi ma un passo più avanti, cercando di aprire una breccia nel cuore duro dei tedeschi. Hollande non ha mai ceduto, nem-
meno nella settimana prima del referendum, quando tutti in Europa si guardavano un po’ storditi e un po’ arrabbiati, ugualmente infastiditi e in attesa, senza più capire che cosa fosse necessario fare, se lasciare i greci al loro destino (che si erano scelto, peraltro) o se farli sfogare un po’ e poi riportarli a più miti consigli. Mentre la Grecia non pagava la rata del debito dovuto al Fondo monetario internazionale e la cancelliere tedesca, Angela Merkel, diceva che non avrebbe più negoziato se non dopo l’esito del referendum, forse, Hollande preparava piani di salvataggio e continuava a ripetere che un po’ di sollievo sul debito si poteva pur dare ad Atene, difficile ripartire con quella zavorra, mentre i suoi sostenitori sventolavano la copertina del magazine di sinistra l’«Obs», azzurro cielo, in cui si spiegava perché non si può sopravvivere senza avere Atene come partner. Merkel inorri-
Zig-Zag di Ovidio Biffi Intelligenza, ambizione e lussuria esorbitante L’ho appena citato in questa rubrica e un amico mi fa sapere che gli assomiglio. Era chiaro, si riferiva all’aspetto fisico, alla stazza. Ma l’ho subito bacchettato. E pour cause: la comparazione era con Dominique Strauss-Kahn, ex direttore del Fondo monetario internazionale ed esponente di punta del Partito socialista francese, ora noto praticamente in tutto il mondo come «uomo intelligente ma dalla lussuria esorbitante e dall’ambizione fallace» (© Marina Valensise). Si torna a parlare di lui dopo che a metà giugno è stato assolto dall’accusa di «sfruttamento aggravato della prostituzione» nel processo in cui era coinvolto con altri imputati a Lille, in Francia, dove rischiava fino a dieci anni di carcere e una multa da 1,5 milioni di euro. L’assoluzione è giunta dopo fiumi di servizi speciali dei media di tutto il mondo tutti impegnati (e giustificati, ovviamente) a descrivere la serie di «mattanze sessuali» di DSK, a partire dall’avventura al Sofitel Hotel di Washington, dove è stato inchiodato nel ruolo di stupratore di donne più
o meno inermi, per poi continuare con le denunce di sfruttamento della prostituzione in relazione a orge consumate al Carlton Hotel di Lille. Non sperate che io entri nei dettagli delle due vicende. Mi soffermo solo su un aspetto, quasi ignorato, della lunga «telenovela» che ha condotto Dominique Strauss-Kahn dalle poltrone dorate del Fondo monetario internazionale al carcere preventivo e ad essere condannato dai media al pubblico ludibrio, prima di essere scagionato dalle accuse più infamanti. Come direttore del FMI, pochi giorni prima dell’arresto in terra americana, Strauss Kahn aveva tenuto questo discorso alla Brookings Institution di Washington: «…Le incredibili colpe della società economica in cui viviamo sono la sua incapacità di arrivare alla piena occupazione e la sua arbitraria e iniqua distribuzione della ricchezza e dei redditi… Non tutti saranno completamente d’accordo con questa dichiarazione. Ma quel che abbiamo imparato nel corso del tempo è che la disoccupazione e
la diseguaglianza possono minare i successi dell’economia di mercato, e seminare instabilità… il FMI non può rimanere indifferente sulle questioni di redistribuzione… Oggi abbiamo bisogno di una vigorosa risposta lungimirante di questo genere per garantire la ripresa di cui abbiamo bisogno. E questo significa non solo una ripresa che sia sostenibile ed equilibrata tra i paesi, ma anche una ripresa che porti occupazione ed un’equa distribuzione… Abbiamo bisogno di politiche che riducano le disuguaglianze e garantiscano una distribuzione più equa delle risorse e delle opportunità. Reti di sicurezza sociale forti, combinate con una tassazione progressiva, possono ridurre le disuguaglianze provocate dal mercato. Gli investimenti nella sanità e nell’istruzione sono fondamentali. In definitiva, l’occupazione e l’equità sono elementi costitutivi della stabilità economica e della prosperità, della pace e della stabilità politica. Ciò va al cuore del mandato del FMI. Esse devono essere collocate al centro
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Cultura e Spettacoli Il labirinto di Giovanni Giovanni Orelli torna in libreria con una serie di poesie, uno dei cui leitmotiv è la pace
Edo Bertoglio e la Polaroid La Photographica Fine Art Gallery di Lugano propone gli scatti di New York di Edo Bertoglio pagina 27
Destinazioni musicali Protagonisti del mondo della musica della nostra regione raccontano il valore del viaggio, spostamento non solo esteriore
Cinema e prigione Da sempre la vita dietro le sbarre scatena la fantasia dei registi
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Peregrinazioni d’arte Mostre A Lugano una retrospettiva dedicata
al ticinese Renzo Ferrari
Alessia Brughera Ribelle, outsider, spinoso come i cardi che spesso rappresenta nei suoi dipinti: Renzo Ferrari è un artista che difficilmente si può etichettare. Non è nemmeno facile ripercorrere il suo cammino stilistico, discontinuo e poco lineare, fatto di svolte anche radicali, di approdi e di ripartenze. Controcorrente fin dagli esordi negli anni Sessanta – quando persino il turbine di tendenze e movimenti apparso in quel periodo sulla scena europea e mondiale non riesce ad allontanarlo dalla sua posizione di fiera autonomia – Ferrari è una figura errante, raminga, nel senso che la sua arte si muove costantemente, alimentandosi di molteplici suggestioni e attraversando diverse fasi. Da tempo questo artista meritava una retrospettiva che riordinasse la sua variegata produzione e che fosse capace di restituirne il carattere peculiare e la profondità comunicativa. La mostra al Museo Cantonale d’Arte di Lugano è la seconda tappa di un’esposizione a lui dedicata – allestita in prima battuta al Musée d’Art et d’Histoire di Neuchâtel – e comprende più di centocinquanta opere presentate in un’organica divisione in sezioni cronologico-tematiche. Quello che emerge chiaramente da questi lavori è la figurazione libera e impetuosa dell’artista luganese, mai scevra di richiami storici e culturali. Diverse sono le tecniche con cui Ferrari si confronta – pittura soprattutto, ma anche incisione, disegno, scultura – e numerosi sono gli stimoli raccolti durante tutta la sua attività, in grado ogni volta di nutrire con rinnovata efficacia il suo universo espressivo. Un colore graffiante e un segno sintetico, aspro, si riversano nelle sue composizioni, animate da un vitalismo quasi rabbioso e da un’intensa visionarietà, scaturiti però da una ponderata riflessione. Azione e meditazione, dunque. Perché attraverso il gesto irruente che quasi ferisce la tela, Ferrari si fa lucido testimone del mondo che lo circonda, trasponendo in arte i cambiamenti della società, filtrati e rivisitati dall’emozione: «La mia realtà è essere nel mio tempo, che fagocita, che mi prende, che pretende da me, senza sotterfugi o alibi puristi» diceva.
Le sue opere si raffrontano con la collettività, mescolano la sfera intima a quella sociale, cercano di decifrare i fatti della vita, soprattutto le tragedie comuni, insinuandosi oltre la loro apparenza, proprio laddove se ne può scovare il movente. Ed è la figura umana, per Ferrari, la metafora dei drammi della storia, l’emblema della difficoltà esistenziale. Una figura che spesso l’artista smarrisce per poi ritrovarla e rappresentarla ancora più potentemente nella sua fragilità. Una figura che lo spazio pittorico quasi cancella, talvolta nello sgorgare delle cromie accese e penetranti, talaltra nell’erompere di tonalità cupe. Il percorso della mostra al Cantonale ha come punto di partenza i primi anni Sessanta, periodo in cui Ferrari, terminati gli studi all’Accademia di Brera e già ben inserito nel tessuto culturale di Milano (dove si era trasferito da Cadro nel 1954), è alla ricerca di una prospettiva inedita che, dopo «i chilometri di macchie e di gesti» della corrente informale, potesse scorgere nuove possibilità di interazione tra segno e materia. Sulla scia di artisti quali Fautrier, Bacon, Sutherland e Giacometti, il suo sguardo sulla realtà si fa ansioso, inquieto, come ben testimoniano le opere Caput mortuum e fiore del 1960 e Paesaggio spinoso del 1964. Sul finire del decennio (e dopo un traumatico incontro con la Pop Art americana) il suo stile arriva a maturazione: adesso Ferrari si sofferma a riflettere sul rapporto tra forme organiche ed elementi artificiali, in cui l’aspetto docile e rassicurante della natura (in particolare quella interiorizzata nella sua Cadro) è stato ormai alterato e distrutto. Ecco allora uomini-robot e curiosi dispositivi tecnologici muoversi in uno spazio indefinito, diventato un luogo di energie contrastanti, una sorta di contenitore soffocante in cui i corpi sono imprigionati. L’uomo messo in relazione alla dimensione urbana in tutte le sue sfaccettature diventa il soggetto principale trattato dall’artista. Troviamo così le opere sul concetto di ibrido, focalizzate sul mondo dei transessuali milanesi assunti a simbolo del disagio identitario, e quelle più esistenzialiste che denunciano l’aggressione dell’individuo da
Renzo Ferrari, Gaio nell’erba, 1975. (Collezione privata, Sementina)
parte del contesto sociale, in cui sagome ingarbugliate affiorano a malapena dallo sfondo (ne è un esempio Figure urbane, del 1976) o addirittura si dissolvono nel buio più totale (nella serie del cosiddetto «periodo nero»). Nuove tematiche compaiono a partire dagli anni Novanta, come dimostrano i lavori raccolti nella sezione «visioni nomadi» che dà anche il titolo alla mostra. È un momento cruciale per Milano, investita dai primi importanti flussi migratori provenienti dal Nord Africa: Ferrari vive in prima persona questa realtà multietnica, facendosi ispirare dai valori selvaggi e ancestrali che porta con sé. A questo si aggiunge l’esperienza diretta con la metropoli newyorchese, che
gli permette di entrare in contatto con le espressioni più moderne, come il graffitismo. Emblematico in questo senso è il dipinto Vertigo Merica (Afterny), del 1996, uno spazio pittorico dalle tinte accese e gremito di segni che ben restituisce l’idea di frenesia contemporanea. Nelle opere degli ultimi anni (dal 2007 Ferrari ha fatto ritorno in Ticino), si colgono molti richiami agli avvenimenti più turbolenti del XXI secolo, perché ancora l’artista accetta la sfida di accostare la propria memoria e il proprio tempo intimo al tempo presente. Nasce un nuovo linguaggio che si avvale anche della parola: citazioni e frammenti di frasi invadono il quadro sovrapponendosi alle immagini nella più
totale assenza di gerarchia. D’altra parte la scrittura è da sempre uno strumento importante per Ferrari, come rivelano anche i numerosi taccuini esposti in mostra. Nelle loro pagine egli registra pensieri, suggestioni e situazioni da trasferire poi nelle proprie opere, rendendole così luoghi esistenziali dove l’uomo è alla perenne ricerca di risposte. Dove e quando
Renzo Ferrari. Visioni nomadi. Museo Cantonale d’Arte, Lugano. Fino al 2 agosto 2015. A cura di Antonia Nessi e Cristina Sonderegger. Orari: ma 14.0017.00; me-do 10.00-17.00; lu chiuso. www.museo-cantonale-arte.ch
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Cultura e Spettacoli
Addio a Piffarerio, matita dei nizioleti In memoriam Il grande fumettista italiano
univa tratto abile e spessore intellettuale
Piero Zanotto Se n’è andato a 90 anni nella sua casa di Milano Paolo Piffarerio, uno degli ultimi «patriarchi» del fumetto italiano. La sua fama presso la generazione di lettori degli anni Settanta era legata alla fortunata serie intestata all’Alan Ford della più scalcagnata agenzia di spie e controspie (autore dei testi Luciano Secchi, primo disegnatore Magnus alias Roberto Raviola) che il fumetto da edicola abbia mai offerto.
Per Piffarerio la più grande soddisfazione di una vita comunque ricca, è stata offerta dai nizioleti
Un labirinto di Giovanni Orelli Recensione Di recente pubblicazione un volumetto di versi del
poeta ticinese, edito dall’instancabile editore Mauro Valsangiacomo Alessandro Zanoli Ad aprire questa riflessione sull’ultima fatica editoriale di Giovanni Orelli si presta una frase tratta dal suo I mirtilli del Moléson, uscito lo scorso anno da Aragno: «Dovremmo fare con le parole quello che fa il buon poeta quando prende una parola logora come uno straccio rosso e la fa diventare una bandiera della libertà» (p. 75).
Orelli invoca a più riprese la parola «pace», da intendersi come luogo di ideale approdo Ne Un labirinto, pubblicato negli scorsi giorni dal fido Vals di «Alla chiara fonte», a Lugano, una parola, ci sembra, acquista una centralità e importanza tale da imporsi all’attenzione. È «pace». Nella dialettica tra forze a cui espone la vita, nella danza tra opposti (così ben rappresentata anche nel disegno in copertina) che è il nostro equilibrismo di tutti i giorni, nel labirinto (appunto) in cui si dibatte il nostro esperimento di quotidianità, la «pace» è un punto d’approdo che il poeta invoca a più riprese. «Potessimo così fare in famiglia / filo a piombo e livella per la pace / sulle coordinate dell’amore» (Sulle coordinate, p. 21). «Pace» è, tra l’altro, una parola ricorrente nelle rime di 6 dei 14 versi del sonetto È Pace?: «come potrà cerbiatta scappare via da
morte, stare in pace?» (p. 29). C’è addirittura una questione dantesca diretta, nei versi di Eredità diverse («se Dante abbia messo su labbra di Piccarda / e la sua volontade è nostra pace / o e ’n la sua volontade è nostra pace». Il Labirinto sembra raccontarci un’intensa osservazione del mondo, alla ricerca di questa «pace»: un fermento di attività conoscitiva e creativa che insegue un principio di ordine, una stabilità ideale. Ben cosciente che la vita umana è invece intessuta da una leopardiana coscienza di infelicità, Orelli traduce per noi dal latino un passo di Igino, scrittore romano del I secolo d.C., in cui si afferma che «l’essenza dell’uomo è la preoccupazione». Ma come si difende l’uomo da questa maledizione? Con lo humour, con l’arte: magari con la musica e la danza (un valzer, o Tango di Wassen, come è chiamato nella parlata popolare di Bedretto). E soprattutto con l’uso arguto, meticoloso della poesia, suggerisce Orelli. Una poesia i cui versi, le cui parole stesse, recuperano, mettono in luce ogni possibile brandello di dignità umana e di forza etica dell’uomo. Come per quel saggio montanaro, pieno padrone della sua vita, che seppe dire, a poco dalla sua morte, «ancora un’ora e poi fertig / E un’ora dopo quello era al fertig, allo schianto» (In esperanto? p. 34). È compito del poeta (ma poi anche di ognuno di noi, sembra suggerire lo scrittore) di dire le cose della vita umana come sono, nella loro apparente assurdità: senza disperazione. Anzi, con senso di responsabilità. Ne Un labirin-
to si parla, infatti, anche di morte. Con lei si dialoga, «Ho fatto una domanda grave / alla signora Morte. Quando verrà / a trovarmi?» (Domanda a Morte, p. 78), e la si chiama in causa di frequente: si vedano le liriche A Buridano, Da Via Zurigo al 30, Me ne vado, Teodicea, ecc. È un discorso difficile, certo: su cui però Orelli sembra tornare con insistenza ironica quasi un po’ scaramantica, con una familiarità che è quella dei poeti e dei filosofi. Coloro che, di nuovo, hanno raggiunto un punto di vista alto sulla vita e le sue contingenze quotidiane. Nella poesia di Orelli, una cosa che ci sorprende e incuriosisce è l’uso frequente, bellissimo, dei punti interrogativi. Ben cinque poesie della raccolta lo espongono già nel titolo. Lo stesso percorso ricorsivo del labirinto, in fondo, rimanda a una domanda, a un quesito da sciogliere. Alla ricerca di una risposta. Potremmo vedere questa tensione a porre domande, questa curiosità della vita, come un filo d’Arianna teso attraverso il tutto il testo. Come se la soluzione dell’enigma umano fosse nella sua capacità di porsi nuove domande, di ricercare risposte, magari impossibili. «Non credere a tutto ciò che dice un poeta. / Ma anche tuo nonno, se un po’ poeta è, / cerca sempre: se c’è, se un’inquieta / musica, un sentiero verso la veritas» (p. 60). È il consiglio del poeta al nipotino prediletto. È anche la sintesi di pensiero che Orelli affida alla ricerca poetica e che, in questo volumetto pieno di bellissimi punti interrogativi, cerca di fare arrivare fino a noi.
Ma Piffarerio è stato molto di più tra i cartoonist della vecchia guardia, attento al dettaglio col suo segno insistito, tra l’altro per tanti anni amico dei «nizioleti» (come vengono chiamati dai veneziani i toponimi stradali dipinti sui muri). Le tavole da lui disegnate hanno rivelato la vita intima e pubblica appartenuta ai mille anni della Repubblica di San Marco. Sorrideva quando lo chiamavo «temponauta». Perché con la sua matita si trovava a proprio agio nel raccontare in sequenza di quadretti coi nizioleti episodi, soprattutto letterari, appartenenti ad epoche lontane. Le oltre trecentocinquanta tavole ognuna di nove quadretti da lui disegnate dal 1984 illustranti la citata curiosissima toponomastica lagunare, dapprima settimanalmente pubblicate dal quotidiano «Il Gazzettino», in seguito raccolte in più volumi, ne sono la testimonianza viva. Non mancava occasione per dirmi che quel lavoro durato un paio di decenni gli aveva regalato la più grande soddisfazione dell’intera sua vita «china» sul foglio da disegno. Erano parole che sottintendevano un innamoramento totale per la città d’acqua. Ad una attività iniziata fin da giovanissimo, ancora studente all’Accademia milanese di Brera, volta a serials di consumo popolare come, per citare, la vita del calciatore Meazza o strisce comiche sulle gag cinematografiche di Ridolini (Larry Semon), Piffarerio seppe aggiungere nella sua piena maturità, con paziente cesellato impegno, una serie di «racconti» su personaggi appartenenti alla storia e alla cultura del mondo.
Le tavole di Paolo Piffarerio dedicate al Ponte Goldoni di Venezia.
Iniziò con Fouché, uno dei protagonisti della rivoluzione francese (curiosamente per le stesse edizioni Corno che pubblicavano «Alan Ford»), e poi, apparsi sulle pagine del periodico «paolino» «Il Giornalino», Ulisse, Tommaso Moro, Arturo Toscanini, Giuseppe Verdi. Per la stessa testata si dedicò alla rilettura in fumetto de I promessi sposi, Notre Dame, I Miserabili, Il visconte di Bragelonne (La Maschera di ferro) che chiude il ciclo dei dumasiani tre Moschettieri. Assieme a questi lavori offerti a lettori giovanissimi, degni indistintamente di trovare collocazione nel ripiano nobile della libreria d’ogni famiglia, volse in fumetto pure tre commedie di Carlo Goldoni: Le baruffe chiozzotte, Sior Todero brontolon, Arlecchino servo di due padroni. Ed io felicissimo di una collaborazione al suo fianco come «fornitore» dei testi; per i citati «nizioleti» oltre che per Goldoni e altro ancora (es.: la leggenda tragica, errore giudiziario di monito per le corti di giustizia della Venezia del Cinquecento, vittima Pietro Fasiol detto il «Fornaretto» cui diede ampia ariosità scenografica e, col titolo Rappresaglia, la cronaca dell’eccidio compiuto dai Tedeschi nel 1944 nella veneziana Riva dell’Impero, vittime alcuni giovani innocenti, da allora rinominata nel nizioleto «Riva dei sette martiri». In atmosfera di folle spensieratezza ci sono state anche otto «fanfaronate» del Barone di Münchhausen dalle pagine di Raspe). Trovò spazio Piffarerio nel suo studio di via Fanfulla da Lodi per dare anche vita ad alcuni episodi (tra questi uno sull’infanzia di Goldoni, un altro su Giacomo Casanova) destinati ai volumi della Storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi. Per un bel grappolo di anni fu pure fecondo direttore dell’animazione alla Gamma Film dei fratelli Gino e Roberto Gavioli che sfornò in divertita sintesi pubblicitaria tanti godibilissimi personaggi del televisivo Carosello. Da l’ameno frate Cimabue al duo Tacabanda, il vigile siciliano Concilia, Ulisse e l’ombra, Capitan Trinchetto... Da ricordare in aggiunta il delizioso cartoon risorgimentale del 1961 La lunga calza verde, ovvero l’Italia lavorata a maglia da Cavour. Tra «carbonari» e i gendarmi di Cecco Beppe, che Piffarerio sceneggiò anche assieme a Cesare Zavattini. Coltissimo, appassionato d’arte, con la sua scomparsa il fumetto di scrupoloso spessore culturale e insieme di godibile lettura ha perso uno dei protagonisti più amati.
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Cultura e Spettacoli
«Il luogo in cui dovevamo vivere» Fotografia In mostra a Lugano le Polaroid scattate
da Edo Bertoglio a New York dal 1976 al 1989 Giovanni Medolago L’esperienza newyorkese è stata di fondamentale importanza per Edo Bertoglio. Non solo perché si è protratta per oltre un decennio, ma soprattutto perché il fotografo luganese giunse a New York quando la Grande Mela stava vivendo una stagione fertilissima in ambito socio/culturale, grazie ai molti artisti che animavano un’irrequieta ribalta con i loro stili e i loro moods destinati talvolta a imporsi anche al di fuori di quell’universo underground che li aveva visti nascere. C’è un momento preciso in cui Edo Bertoglio resta definitivamente ammagliato dal fascino (e dalle possibilità: di incontro, di scambi, di tentativi) di New York e val la pena di riportare il brano che ricorda quel momento magico: «Tutto è iniziato fra la 5a e la 34ma Strada, in un sereno, gelido pomeriggio. Maripol (fotomodella francese, per anni sua musa e compagna di vita, Ndr) e io ci siamo imbattuti in una di quelle correnti d’aria che ti fanno improvvisamente sentire a disagio, fuori posto. In quel preciso istante, ci siamo abbracciati con le lacrime agli occhi terrorizzati dalla metropoli, dalla nostra solitudine, dalla mancanza di un lavoro stabile. E allora, quasi a voler sfuggire da tutto e da tutti, siamo saliti all’86mo piano dell’Empire State Building e il calore della luce ci ha spalancato dinanzi agli occhi la materia
della città, i suoi grattacieli, i fiumi, l’oceano, facendoci capire che era il luogo dove volevamo e dovevamo vivere. New York, d’ora in poi, sarebbe diventato il luminoso sfondo delle mie fotografie». Così scrive nel suo libro New York Polaroid 1976-1989 (una raccolta di oltre 300 immagini di piccolo formato, in vendita al prezzo di CHF 50 e ottenibile rivolgendosi all’indirizzo info@yardpress.it). Bertoglio in quegli anni lavora per «Interview», la celebre rivista diretta da Andy Warhol, gira una docufiction sul suo sfortunato amico Jean-Michel Basquiat – Downtown, presentata nel 1981 anche al Festival di Locarno. Ma in mezzo a queste e altre attività, Edo è pure sedotto dalle celeberrime qualità della Polaroid, di cui senz’altro apprezza la facilità d’uso e la rapidità con la quale realizza in un sol colpo sia il sogno del carpe diem, sia quello dell’hic et nunc. Sono anni in cui si vive a ritmi frenetici (sovente ulteriormente accelerati dall’uso/abuso di sostanze non proprio bio…) e del resto John Lurie confessa: «If I sleep the plane will crash». Certo senza poterlo prevedere, Bertoglio è stato «uno dei primi a fare dell’istant-camera lo strumento abituale quanto irrinunciabile di una pratica tanto coinvolgente e divertente da diventare una mania, una registrazione e testimonianza quotidiana del proprio vissuto attraverso l’uso delle immagini» (M. Casadio).
Edo Bertoglio, Bunny, New York, 1981.
Una volta giunta al di qua dell’Oceano, la cassa contenente le Polaroid è stata dimenticata per oltre vent’anni, prima di venire fortunatamente riscoperta pochi mesi or sono. Giusto il tempo di selezionare una quarantina di fotografie con la collaborazione di Marco Antonetto, il quale le propone attualmente nella sua Galleria luganese. Abituato a spaziare con la Leica o con l’impegnativa Hasselblad praticamente in ogni ambito fotografico (dal ritratto alla foto ricordo, passando per il nudo), Bertoglio non ha remora alcu-
na nel fare altrettanto con la Polaroid, in un’esplosione di colori che sfocia in un pop predigitale, giocato su sorprendenti intarsi di «sagome e tonalità contrapposte, sfumate atmosfere monocrome, nette contrapposizioni di soggetti e sfondi, sintetizzando così la tinta narcisistica e decadente del suo tempo, realizzando così i suoi cahiers de brouillon considerati quali diari, racconti e testimonianze di una coinvolgente esperienza generazionale». Vien da chiedersi, ma non avremo mai risposta, cosa avrebbe potuto rea-
lizzare Andy Warhol (immortalato da Bertoglio proprio con una Polaroid in mano: quasi una «mise en abîme») avendo a disposizione uno smartphone o un sofisticato computer… Dove e quando
Edo Bertoglio. New York Polaroids 1976-1989, Lugano, Photographica Fine Arts Gallery (Via Cantonale 9). Orari: ma-ve 09.00-12.30/14.00-18.00. Fino al 31 luglio 2015. www.photographicafineart.com Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Senza intermediari Concerti Bob Dylan, il «grande vecchio» del rock, ammalia
Benedicta Froelich Si sa, oggi come oggi ogni esibizione di un rocker che possa vantare oltre mezzo secolo di carriera può definirsi un vero evento; ma nel caso di Bob Dylan, storico menestrello statunitense dallo status ormai mitico (già maestro, tra gli altri, anche di Bruce Springsteen), non sarebbe azzardato affermare che le aspettative siano ancor più grandi.
Bob Dylan si è presentato in forma smagliante offrendo molte trasformazioni musicali Questo perché Dylan è ormai da oltre trent’anni impegnato in quello che i suoi fan chiamano il «Never Ending Tour», ovvero una lunga, infinita tournée che lo porta a trascorrere la maggior parte dell’anno sui palchi di tutto il mondo, accumulando un carnet di performances ineguagliato da qualsiasi altro cantante. Ciò ha dato origine a una vera e propria fenomenologia, alimentata da fan racchiusi in una sorta di setta, i cui membri sono soliti coprire lunghe distanze transoceaniche per assistere a intere sezioni dei vari tour, inanellando anche venti/trenta concerti di fila. Ma non è semplice follia: in realtà, dietro a questa scelta c’è una logica ferrea, poiché ciò che distingue Dylan da qualsiasi altro performer al mondo è proprio il fatto che, anche nell’ambito di un medesimo tour, ogni singolo concerto risulta unico, poiché assolutamente diverso dal successivo. Il vecchio Bob, che può contare su un songbook di centinaia di brani, ama cambiare scaletta da una serata all’altra, spesso regalando ai suoi ammiratori gemme
inaspettate e pezzi che non si udivano dal vivo da decenni – e, soprattutto, riarrangiando e reinventando continuamente le proprie canzoni, in un costante lavoro di rielaborazione che ricorda la ciclicità della grande tradizione del folk angloamericano, a cui Dylan deve la propria formazione musicale. Questa fenomenale capacità dell’artista ha fatto sì che la serata dello scorso 15 luglio in Piazza Grande a Locarno divenisse il «piatto forte» dell’edizione 2015 dell’amatissimo e prestigioso festival Moon and Stars, il quale da ormai dodici anni vede avvicendarsi sotto la volta della notte estiva le più grandi star del pop-rock internazionale; anche perché le visite di Bob in Ticino sono assai rare, dato che, all’interno della Svizzera, i suoi tour toccano quasi esclusivamente Zurigo. All’interno di un cartellone ricchissimo e stimolante come sempre, il concerto di Bob – preceduto dall’eccellente esibizione di performer raffinati come il bluesman Ben Harper, vero erede della più umorale tradizione blues-rock del Mississippi, e i suoi Innocent Criminals – ha brillato grazie alla forza interpretativa e alla verve dell’instancabile menestrello, per il quale la serata di Locarno costituiva una delle numerose tappe della consueta tournée europea annuale. Così, anche stavolta il numerosissimo pubblico ha accolto trionfalmente un Dylan più in forma che mai, il quale ha saputo ammaliare e trascinare la folla come il grande incantatore di sempre: dopo un inizio di concerto vagamente sottotono, Bob ha infatti sorpreso i fan con un set dalle tinte prevalentemente acustiche, in cui anche i brani più uptempo venivano ammantati di aggraziate sonorità retrò, tipiche di quelle soffuse atmosfere anni 50 che tanto sono care al Dylan dell’ultimo periodo. Il 74enne non ha avuto nessun problema a calcare il palco per un’ora
e mezza e a concedere al pubblico l’agognato bis, dividendosi tra classici del calibro delle storiche She Belongs To Me e Visions of Johanna (entrambe risalenti al repertorio anni 60) e brani più recenti quali il tagliente Pay in Blood e The Levee’s Gonna Break – senza dimenticare una gemma come la memorabile Blind Willie McTell. Ma non solo: lungo l’intera setlist si è assistito a piccoli miracoli musicali, tra cui, ad esempio, la trasformazione di un brano cult anni 70 come Shelter From the Storm in una sorta di inno metafisico quasi gospel; oppure la conversione di un classico brano rock come Tweedle Dee & Tweedle Dum in un lento dalle atmosfere vagamente vaudeville. La cavalcata live di Dylan, che attraversa le varie fasi di cinquantatré anni di canzoni, non manca di toccare nemmeno l’ultimo lavoro pubblicato (Shadows in the Night, tributo a Sinatra e alla scuola dei crooner americani) con una sognante e delicatissima Full Moon and Empty Arms; il che ha dimostrato come la scelta di Bob di mantenersi su sonorità e arrangiamenti tanto «soft» funzionasse perfettamente, nonostante il setting all’aperto e l’apparente dispersività di Piazza Grande potessero dare l’impressione di favorire un approccio più rock. Ma forse, più semplicemente, anche questa volta la magia prodotta da Dylan si è ripetuta: la professionalità e la passione dell’artista, evidenti e palpabili fin dal primo accordo e strofa della serata, hanno toccato nel profondo anche un pubblico abituato a ogni sorta di meraviglia come quello del Moon and Stars. Ricordandoci che la grande musica è fatta di quell’emozione e coinvolgimento spontanei e immediati che, prima ancora del glamour e degli effetti speciali, toccano davvero il cuore dell’ascoltatore, senza bisogno di alcun intermediario.
Juan Carlos Hernandez
e conquista l’esigente pubblico di Locarno nella data clou della dodicesima edizione di Moon and Stars
Gli itinerari dell’esperienza Destinazioni musicali Elena Schwarz,
direttrice d’orchestra, e i viaggi fuori e dentro
A cura di Zeno Gabaglio Dimmi dove vai e ti dirò chi sei. Sono i luoghi in cui si è stati o si sceglie di essere che rivelano molto a proposito della nostra personalità. A maggior ragione se si ha a che fare con la musica e l’arte in generale, perché proprio i vari luoghi – è risaputo – sono dei condizionamenti primari nelle scelte poetiche ed estetiche, nel confronto con le opere proprie o altrui. In un periodo come quello estivo, denso di arrivi e di partenze, «Azione» ha voluto invitare alcune personalità del mondo musicale cantonale a raccontare il proprio itinerario, reale o ideale, attraverso i luoghi che ne hanno contraddistinto l’esperienza artistica. Elena Schwarz
Di origine sia ticinese sia australiana Elena Schwarz è nata nel 1985 e si è formata in direzione d’orchestra a Ginevra con Laurent Gay e a Lugano con Arturo Tamayo, perfezionandosi anche con Peter Eötvös. Lo scorso anno si è aggiudicata il Princess Astrid Music Competition, prestigioso riconoscimento assegnato dall’orchestra sinfonica di Trondheim in Norvegia. Dirige regolarmente in Europa, Asia e Oceania, collaborando con istituzioni quali l’Ensemble Meitar di Tel Aviv, l’accademia dell’Ensemble Modern di Francoforte, il festival Gaudeamus di Utrecht, il festival Mixtur di Barcellona. Convinta del fatto che la musica possa promuovere una pacifica coesistenza tra i popoli Elena Schwarz coopera con l’Edward Said National Conservatory di Gerusalemme Est e con l’Afghanistan National Institute of Music.
ri. Questi i primi viaggi ai tempi degli studi alla Haute école de musique di Ginevra: quante ore passate tra la musica e la contemplazione dei paesaggi che si susseguono a tutta velocità! Negli ultimi anni, i viaggi si sono moltiplicati e le mete sono cambiate, ma il rituale è rimasto lo stesso, un rassicurante punto fisso. Schwedlerstraße 2-4, Frankfurt am Main
Molti ricordi per una città appena intravista. Francoforte è per me un indirizzo, Schwedlerstraße 2-4: la mitica sede dell’Ensemble Modern che ospita anche le attività della sua accademia per giovani appassionati di musica contemporanea. Francoforte è la musica di Heinz Holliger, Enno Poppe, Vito Zuraj e l’amicizia di Margarita, Gilles, Chiara, Aki, Galdric. La prossima volta, mi prometto di finalmente visitare la città! ধ¾ (Kabul)
Racconta l’imperatore Babur (14831530) nelle sue memorie: «Tra i frutti di Kabul e dei villaggi vicini si contano in abbondanza uva, melograni, albicocche, mele, mele cotogne, pesche, prugne, giuggiole, mandorle e noci». Kabul nel 2015 è l’ombra del suo nobile passato, un paesaggio in bianco e nero con qualche sprazzo di colore in mezzo al quale – all’Afghanistan National Institute of Music – ho avuto il privilegio di incontrare musicisti dal grande coraggio e dedizione, un esempio e una lezione che porto con me ogni giorno. La ricchezza di Kabul è interiore. Budapest Music Center
Down Under
L’Australia, prima destinazione di viaggio e seconda casa. Ricordi d’infanzia in spazi sconfinati e fous rires con i cugini, compagni delle mie estati, sotto un sole abbagliante. Ricordi senza musica tranne quella dei canti dei cookaburra e la cadenza familiare dell’Australian English. Poi qualche anno fa, un’audizione passata quasi per caso a Melbourne per un programma dedicato a giovani direttori d’orchestra. Da quel momento la mia Australia si è riempita di musica. Intercity Lugano – Ginevra
Bob Dylan in una foto d’archivio. (Keystone)
Il rituale: un thè caldo al vagone ristorante sull’intercity per Ginevra, con cambio a Zurigo, Olten o Lucerna. Sul tavolo di lavoro, le partiture e la classica matita bicolore rosso-blu dei diretto-
Secondo Peter Eötvös il problema dei giovani direttori d’orchestra è che le nostre mani non «suonano». Ogni incontro con questa prominente figura della musica del nostro tempo è per me una piccola rivoluzione personale. Qualche settimana fa a Budapest – sede della sua fondazione dedicata alla formazione dei giovani – mi disse: «Le mani vanno meglio. Ora il problema viene dalle spalle». Ci proverò, perché tutto il corpo è suono. Destinazioni musicali
1. Down Under 2. Intercity Lugano – Ginevra 3. Schwedlerstraße 2-4, Frankfurt am Main 4. ধ¾ (Kabul) 5. Budapest Music Center
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Cultura e Spettacoli
Cinema e prigione, quando la cinepresa penetra le tenebre Film Gli angusti spazi della prigione, le dinamiche che vi si sviluppano, la violenza e l’annichilimento
dell’essere umano da sempre ispirano il grande cinema Muriel Del Don Dopo la terribile scomparsa il sei giugno scorso del giovane Kalief Browder, vittima del carcere di Rikers Island, a due passi dalla lussuosa Manhattan, la riflessione sul funzionamento del sistema carcerario ritorna prepotentemente d’attualità. Kalief è stato accusato a torto (a soli sedici anni) del furto di una borsa. Rikers Island, 14’000 detenuti e una cultura profondamente radicata della violenza, questo è quello che l’aspettava. Ma cosa si nasconde veramente dietro queste fitte mura? Il cinema, sorta di peeping tom che indaga i segreti umani, cerca da sempre di dare un volto all’orrore (il confinamento che spesso si somma alla violenza) con film crudi e diretti che mettono in scena un universo, quello carcerario, che spesso non vorremmo neppure immaginare. La settima arte cerca di incarnare visivamente il fantasma, di dare un volto a un orrore creato dall’uomo per l’uomo. In molti film che trattano questo tema l’idea che commesso un crimine (poco importa quale) si perda ogni parvenza di umanità e che si possa quindi subire (e sopportare?) qualsiasi sorta di sopruso è spesso fortemente presente. La società stessa che ha creato il criminale lo considera ora, reo di aver tradito la sua fiducia, come spregevole e indegno di possedere un proprio spazio privato. La porta del carcere simbolizza un punto di non ritorno, la via d’accesso a un microcosmo dove la violenza è interiorizzata diventando «normalità». In Fuga da Alcatraz (1979) di Don Siegel le parole del direttore del carcere di massima sicurezza sono alquanto evocative: «Alcatraz è stata creata per far sì che le uova marce stiano tutte nel-
lo stesso paniere», o ancora: «noi non creiamo dei buoni cittadini ma dei buoni detenuti». La sua visione del carcere e del suo ipotetico potere «terapeutico» è decisamente a senso unico e non permette eccezioni. Tutti i carcerati, poco importa il crimine commesso, sono considerati come dei cittadini difettosi, incurabili e degni quindi solo di un trattamento disumano. In Fuga da Alcatraz il mondo del detenuto si limita alle quattro mura della prigione, nessuna informazione esteriore penetra all’interno. Il processo di disumanizzazione comincia giustamente da questa segregazione, da questo distacco totale con il mondo reale, umano e vitale. Lo scopo della pena inflitta non è quello di far capire al detenuto quali sono gli errori commessi preparandolo a un eventuale reinserimento sociale, ma piuttosto quello di annientare l’idea stessa di appartenenza alla società. Altri due film estremamente violenti ma ricchi di una violenza esteticamente sublime sono Hunger (2008) di Steve McQueen e Dog Pound (2010) di Kim Chapiron. In entrambi i casi ritroviamo il binomio umanità e disumanità, dignità e bassezza umana in un susseguirsi di scene al limite del sopportabile in cui i prigionieri sono trattati esclusivamente come «macchine da riparare», privi di ogni diritto e degni solo di subire la violenza di chi dovrebbe invece correggere il loro ipotetico «difetto». La cinepresa di Steve McQueen mostra uno dei carcerieri nella sua intimità famigliare sottolineando così ancora maggiormente quanto questi «mostri» (fra i mostri) siano in realtà esseri umani, di un’umanità instabile però che si trasforma, varcata la soglia della prigione, in violenza cieca,
Una scena di Hunger (2008), del regista Steve McQueen.
liberatoria e codarda. Come continuare a vivere in una società definita civilizzata, coscienti di poter commettere impunemente ed ipocritamente tali atrocità? Le mura della prigione proteggono da qualsiasi giudizio e legge esterna? Jean Genet cerca, nei suoi scritti ma anche nel suo unico film Un Chant d’amour (girato nel 1950 ma uscito solo nel 1975) di trasformare l’orrore della vita carceraria in qualcosa di oniricamente poetico e sublime. Per Genet la violenza non è mai totalmente distruttrice ma viene al contrario rivisitata nella mente della vittima come un appagamento del proprio desiderio. La crudeltà diventa, attraverso l’onirismo della rappresentazione, un momento di piacere tra realtà e finzione. Nel caso specifico di Un Chant d’amour è il cinema stesso a trasformare, guidato dall’occhio e dal-
la visione unica di Genet, la brutalità in bellezza, la crudeltà in esaltazione. L’amore trionfa sovrano e la barbarie si incarna in gloriosa bellezza. Il desiderio sessuale, l’amore e la tenerezza trasformano un atto violento in un atto d’amore. Ritroviamo questa ricerca di bellezza nella miseria in altri film emblematici come American History X (1998) di Tony Kaye, Un prophète (2008) di Jacques Audiard e Mange tes morts (2014) di Jean-Charles Hue che tratta con coraggio e un’incredibile abilità il tema delicato del reinserimento sociale degli ex detenuti. L’idea del cinema come mezzo per soddisfare i propri fantasmi voyeuristici prende concretamente forma nella corrente chiamata «Women in prison films» (film sulle donne in carcere). In questo sottogenere cinematografico
le prigioniere vengono seviziate dalle guardiane o dalle altre detenute in un inno al lesbismo frutto di una mente maschile che ne detta le regole. Tra questi troviamo Violenza in un carcere femminile (1982) di Bruno Mattei o ancora The Big Doll House (1971) di Jack Hill. Impossibile non citare anche Midnight Express (1978) di Alan Parker che propone una scena di intimità omosessuale maschile degna di Bollywood. Che sia attraverso uno stravolgimento poetico o estetico oppure una rappresentazione iperrealista, il cinema è da sempre affascinato dall’universo carcerario, sorta di altrove fantasmagorico e temibile. Come dice Genet «Il faut rêver longtemps pour agir avec grandeur, et le rêve se cultive dans les ténèbres», quelle tenebre che il cinema e il carcere condividono, coltivano e nutrono.
L’undicesimo gradino Il racconto Di sogni e coincidenze che casuali non sono, all’ombra di una cattedrale – 2. parte rappresenta una parte di te e pertanto va letta come tale. In chiave soggettiva», mi ripeto la frase che a mia volta ripeto spesso ai miei pazienti. Ha un suono rassicurante. «Il tuo sogno è da interpretare come un conflitto intrapsichico, una lotta fra gli opposti. È strano, certo, che ti capiti di vedere un carro medievale nel mese di giugno, a Soletta. Ma perché non dovrebbe esserci? Non ci pensare. Non sei venuta fino a qui per pensare». Daniel cinge più forte la sua terra di conquista. Davanti a noi ora si staglia una chiesa color avorio. «La cattedrale di Sant’Orso e San Vittore. Stile neoclassico», illustra il mio affascinante accompagnatore. Per poi aggiungere, con fare magnanimo, «l’architetto
pare fosse un certo Pisoni di Ascona. Quindi è originario del tuo paese…». Sospiro. «Un’altra sincronicità!» Allungo il passo per raggiungere l’ampia gradinata. «Soletta è una città magica e tutto ruota attorno al numero undici», prosegue Daniel, implacabile. «Al numero undici?» «Quella che stai per salire è una scalinata suddivisa in undici gradini. All’interno della cattedrale ci sono undici altari e la chiesa possiede undici campane. In città trovi undici fontane. E Soletta è l’undicesimo Cantone ad essere entrato a far parte della Confederazione. Ah… dimenticavo… l’orologio sulla torre ha un quadrante che segna soltanto undici ore…». Sorpresa, mi arresto un attimo
all’altezza del quarto gradino, per poi continuare a salire quella scala a cui manca un apostolo. Una barriera sbarra il passaggio. Anche l’imponente portale della cattedrale è sprangato. Mi rivolgo a Daniel, lo sguardo interrogativo. «Non si può visitare, purtroppo!» Riesco a malapena a concentrarmi sul movimento delle sue labbra. Daniel articola lettere che formano parole che fatico a comprendere. Parole che m’inchiodano al settimo gradino. Al contempo sono oltre, mentre mi arrovello per trovare una scusa credibile e poter ripartire al più presto. «Sai, è successo diversi mesi fa. Un piromane ha distrutto l’interno. Ha appiccato il fuoco a un altare servendosi dei ceri che si trovavano in chiesa!». Epilogo
Gabriele Zeller
Il sorriso di Daniel mi viene incontro. C’è di che suggestionare una lettrice di sogni. «Per prima cosa ti porto a visitare la città vecchia», sussurra, recintando i miei fianchi come un proprietario terriero. Il vento percorre la via principale – la Hauptgasse – lunga cicatrice verticale nel tessuto cittadino. La zona pedonale è un tappeto di ciottoli che mal si accorda con la zeppa color corallo ai miei piedi. La lunga falcata di Daniel non facilita le cose. Sorrido all’immagine che fa capolino nella mia mente. I miei passi da geisha sono lo zampettio di un passero al cospetto di un leone che sbadiglia. Daniele e la fossa dei leoni. Ammiro l’antica torre con l’orologio. Alla nostra sinistra, nel mezzo di un largo spiazzo, intravedo una donna in costume medievale. Accanto a lei si erge un palco rudimentale di legno, rivestito di panno nero. «C’è uno spettacolo in costume questa sera?» domando, incuriosita. «Non saprei…», risponde Daniel. A mano a mano che ci avviciniamo al palco spuntano altri personaggi, tutti abbigliati con costumi d’epoca. Infine, un po’ discosto, un carro. Lo stesso carro che ho sognato ieri notte. Vacillo sulle suole nipponiche. Non racconto del mio sogno al cicerone che mi sta accanto. Non dico nulla e non so il perché. «Ogni immagine di un sogno
28 settembre 2011 11 mesi al piromane della cattedrale SOLETTA – Lo svizzero 62enne che il 4 gennaio scorso aveva appiccato il fuoco all’interno della cattedrale di Soletta è stato condannato oggi a una pena detentiva di 11 mesi di detenzione da espiare (…). Il piromane – in detenzione preventiva dal giorno del reato – aveva versato circa venti litri di benzina sull’altare principale della cattedrale e sul tappeto sottostante. Quindi aveva appiccato il fuoco servendosi delle candele che si trovavano nella chiesa (…). (www.tio.ch/News). / © Wanda Luban
Postilla
«Il problema della sincronicità mi tiene occupato ormai da parecchio tempo. Ho cominciato a occuparmene seriamente intorno al 1925 circa, quando durante le mie ricerche sui fenomeni dell’inconscio collettivo continuavo a urtare contro nessi che non potevo più spiegare come raggruppamenti casuali o come effetti di accumulazione. Si trattava infatti di “coincidenze” legate fra loro quanto al significato in modo che il loro coincidere “casuale” comporta un’improbabilità che andrebbe espressa mediante una grandezza incommensurabile». (C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. VIII, Torino, Boringhieri, 1976, p. 467). Biografia
Wanda Luban è nata in Svizzera, ha creduto di essere figlia adottiva e che i suoi genitori fossero indiani. Folgorata dai racconti di Emilio Salgari, per anni è stata abitata da due sogni ricorrenti. Ha nonni paterni di origini russe, giunti in Svizzera prima della Rivoluzione d’ottobre. Il nonno materno invece è di Cavaione, impervia anomalia del territorio e dell’identità. Da decenni raccoglie accuratamente i suoi sogni in quaderni di colore blu. È stata stilista di moda, a Parigi, e giornalista. Psicoterapeuta, si occupa di sogni, i propri e quelli dei suoi pazienti. «Archivio celeste» è stata la sua prima raccolta di versi.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Anzianità: pareri e saperi È il momento dei vecchi, nel ruolo di protagonisti di romanzi scritti da autori giovani. Potrei citare almeno cinque titoli tra quelli usciti nelle ultime settimane. Allo scrittore trentenne il vecchio piace fuori di melone o per lo meno strambo, pronto ad affrontare imprese ai limiti dell’umano, come il centenario che salta dalla finestra e scompare. Il romanzo che sto leggendo racconta di una signora canadese di 83 anni che non ha mai visto il mare e un bel giorno decide di incamminarsi a piedi da sola per andarlo a vedere, percorrendo 3231 chilometri. Mi domando cosa potrei fare per attirare l’attenzione di qualche giovane scrittore; il mare l’ho già visto, potrei andare a piedi fino alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, girare attorno al capolavoro di Filippo Juvarra e tornare. Scelgo questa meta perché da casa mia il percorso è in linea retta, c’è meno rischio di perdersi, devo solo ricordarmi di portare con me le medicine che devo prendere a una data ora. Il mondo è pieno di invidiosi, salterebbe fuori
qualcuno disposto a giurare di avermi visto scendere al capolinea del tram numero 4, a pochi metri dal cancello d’ingresso. E se mi iscrivessi alla scuola di circo per imparare a camminare sulla corda tesa? Tiriamo un cavo tra il mio balcone e quello della casa al di là del cortile, entrambe al piano rialzato e io ci cammino sopra. Sarà necessario indire le assemblee straordinarie dei due condomini per avere il loro permesso. Un condomino invidioso farà ricorso al Tar che mi costringerà a scendere dalla corda quando sarò già a metà del percorso. No, pensiamo a qualcosa di meno complicato, come tingermi i capelli di arancione, ma si sa come sono i miei concittadini; i torinesi farebbero finta di non notare il cambiamento, per non mettermi in imbarazzo, come quando ti fai una vistosa patacca di unto sulla cravatta e lo scopri solo quando torni a casa e ti guardi allo specchio. Ho trovato: durante la chiusura per le ferie estive mi faccio rinchiudere in una gastronomia e dimostro al mondo che
di Natale. Un bel giorno i figli hanno deciso per noi: esiste Skype e siccome è praticamente gratis è un delitto non usarlo; ora ci colleghiamo una volta alla settimana, dopo avere svolto complicati calcoli sui rispettivi fusi orari. Dopo i primi entusiasmi, non sappiamo più cosa dirci e per far trascorrere un po’ di tempo siamo arrivati a scambiarci le ricette di cucina. Il rapporto fra giovani e vecchi è andato in frantumi quando è venuta a mancare la figura dell’opinionista, di colui che dall’alto della sua esperienza e della sua saggezza dettava la linea. Dove sono i Franco Fortini, i Leonardo Sciascia, per non dire i Pier Paolo Pasolini? Gli scrittori rifiutano il ruolo di vate, tutti si proclamano onesti artigiani. Il medium dove la mutazione si nota con maggiore evidenza è la radio dove i giornalisti non fanno più gli opinionisti. Fra chi esprimeva il suo argomentato parere e chi l’ascoltava c’era una distanza pedagogica; poiché le rubriche giornalistiche si sono aperte agli ascoltatori che telefonano
e inviano messaggi si è instaurato un rapporto di eguaglianza nella diversità, per cui hanno il medesimo rilievo la spiegazione del ministro e la telefonata dell’ascoltatore che suggerisce soluzioni miracolistiche ai problemi. Nei notiziari l’opinione è affidata agli specialisti convocati al telefono: per taluni è sufficiente la qualifica di «economista» per garantirne la competenza; per i non economisti è necessario specificare nome della cattedra e università. L’ascoltatore si domanda come abbia potuto finora sopravvivere ignorando discipline come «sociologia della devianza», «diritto del no profit», «stili di vita e spazi urbani», «diritto d’asilo» e via elencando. Per fortuna non è venuto meno l’uso disinvolto della metonimia: «il Colle» per il Presidente della Repubblica, «il Lingotto» per Sergio Marchionne, «il parere vincolante degli Ermellini». L’ascoltatore che ignora che gli Ermellini sono i giudici della Corte si chiede: e il parere dei Visoni non conta nulla?
di Efeso, Epitteto di Ieropoli; da Samo vennero Pitagora ed Epicuro, due mostri sacri. Panezio e Zenone di Cizio sono di Rodi e Cipro rispettivamente, d’accordo, chiamiamole isole greche anche se a un passo dalla Turchia. Da Sinope, sul Mar Nero (nessuna colonia), venne Diogene, poi a sud, dalla Siria, ecco Posidonio, Proclo, Damascio. Proseguendo dal Vicino Oriente e seguendo le coste del Mediterraneo, ad Alessandria d’Egitto incontriamo Filone e Origene, mentre Plotino nacque a Licopoli, oggi la città di Asyūt, sulle rive del Nilo ma molto più a sud, in regioni desertiche. La Libia di Cirene diede i natali a quel Carneade su cui si arrovellava don Abbondio nel tentativo di distrarsi dai guai con don Rodrigo e i suoi Bravi. Il Padre della Chiesa occidentale, sant’Agostino, era un algerino, che si convertì anche grazie agli insegnamenti del germanico Ambrogio, nato nell’odierna Trier (patria millecinquecento anni dopo di Karl Heinrich Marx, ma questa è un’altra storia). Si potrebbe però obiettare, Ambrogio, Agostino, e anche Plotino, Proclo,
Damascio: tutti pensatori nati in epoca romana, tutti nella nostra Era, la Grecia culla della civiltà è la Grecia di Pericle e di Eschilo. Vero. Infatti molti dei primi filosofi nacquero in Turchia, come si è detto. Altri in Italia: Empedocle ad Agrigento, Gorgia a Lentini, Senofane vicino a Messina. Fuori dalla Sicilia, a Crotone il turco Pitagora fondò e diresse la Scuola Pitagorica, centro iniziatico di scienza e potere politico, che arrivò a governare parte della Calabria e finì nell’incendio appiccato dai nemici politici. A sud di Napoli ecco Elea (oggi Velia), qui Parmenide nacque e fondò la Scuola Eleatica, dove si studiava la realtà come «uno sfero perfetto» senza fine né inizio, immobile e immutabile, non macchiato dall’abbaglio del divenire, frutto solo di un nostro errore di comprensione. Da quelle parti, Pompei o Ercolano diedero i natali a Lucrezio, latino seguace di Democrito atomista, detto da Dante «colui che’l mondo a caso pone» (definizione più adatta a Lucrezio, ma l’autore del De rerum natura è romano, quindi lo lasciamo perdere). Insomma dove sono i
Greci, gli antenati di quelli oggi in fila ai Bancomat, disoccupati, però orgogliosi di opporsi a chi ha prestato loro dei soldi che rivorrebbe senza pietà? Chi ne fece la culla della civiltà? Per esempio, chi nacque ad Atene? Filosofi importanti, Socrate, i suoi discepoli Platone e il cinico Antistene. Fine. Però si deve riconoscere che quel «questo solo so, di nulla sapere», è proprio il fondamento di ogni sapienza. Quindi, Atene ha Socrate, ha Platone. Poi fuori di Atene ecco Pirrone di Elide, Plutarco di Cheronea, Protagora e Democrito di Abdera. Abdera, l’odierna Avdira, a pochi chilometri dalla Bulgaria a nord, dalla Turchia a est. Terra di confine, ma accettiamola come Grecia, altrimenti dovremmo avere dei problemi con quel filosofo nato in una città da sempre avversaria di Atene e leale a Sparta, conquistata dai Macedoni e amica di Filippo II, così amica da mandare il suo più famoso cittadino come precettore del nemico di tutti i Greci, Alessandro Magno. La città è l’antica Stagira, il traditore filomacedone è Aristotele, «il maestro di color che sanno».
che cosa sarebbe la «mindfulness»? Praticare la «mindfulness» significa «aumentare i propri livelli di consapevolezza» e aiuta a «potenziare la creatività, diminuire lo stress e migliorare la concentrazione». Si tratterebbe, se ho capito bene (ma se non ho capito mi adeguo), di una sorta di yoga per automobilisti pendolari: respirare profondamente non appena ci si siede, prendere consapevolezza del proprio corpo dopo aver allacciato la cintura di sicurezza, avere la percezione esatta dei piedi sui pedali e delle mani sul volante, cogliere con precisione i suoni che si sentono intorno, valorizzare con la mente l’esistenza del parabrezza e dello specchietto retrovisore… Risultato? «Arriverete in ufficio freschi e pronti per la nuova giornata e, tornando a casa, sarete ben disposti a godervi la serata». Mai letto un messaggio più involontariamente demenziale (1),
intitolato «Il suggerimento del management della settimana» e inviato da una sedicente HBR ovvero Harvard Business Review. Del resto, non c’è informazione in rete che non contenga goffe, per non dire ridicole, esibizioni anglofone, come se l’affidabilità della comunicazione fosse proporzionale alla quantità di parole straniere. Il Cortona Mix Festival annuncia non un premio ma un Prize dei Librai Feltrinelli (1½) al Palazzo Casali: per l’occasione non verrà allestita una libreria ma un bookshop temporaneo e si terrà non uno spettacolo ma uno shaker (sic!) di musica, letteratura, cinema, teatro. A Cremona non si apre un salone del cibo ma un Agri&Food. All’Expo di Milano si annunciano training e work shop anche nelle aree italiane. Sempre a Milano una mostra fotografica di Maria Mulas si tiene alla Galleria Twenty 14 Contemporary. Gli
appuntamenti di Cortina Turismo non vengono comunicati giorno dopo giorno ma day by day e gli eventi speciali sono niente meno che Special Event. All’Aquagranda Sport Fitness Centre di Livigno arriva ovviamente il grande volley femminile, perché dire la pallavolo sarebbe diffamatorio. L’ottimo editore elèuthera annuncia l’uscita di una storia dell’anarchismo in Italia allegando un video book trailer. Un’azienda telefonica consiglia per le imprese una tariffa «all inclusive unlimited» e non «tutto incluso e illimitato», che non sarebbe così attraente. (Voto complessivo di incoraggiamento: One). Siamo mentalmente colonizzati, non solo linguisticamente. Stamattina, sulla spiaggia, la voce femminile di una radio catanese annuncia che il concerto di Gianluca Grignani sarà al Teatro greco di Taormina, «una splendida lochèscion!». Oh yes.
sono in grado di sopravvivere mangiando e bevendo solo quello che trovo in dispensa, aggiornando i fan sul mio blog per non farli stare in pensiero. Una cosa hanno in comune questi vecchi che piacciono tanto ai giovani romanzieri: al riparo della tarda età dicono quello che pensano senza timore di scandalizzare. Il punto centrale del rapporto fra i giovani e i vecchi, difficile da narrare in un romanzo, è il momento in cui i ruoli si invertono, i figli si trasformano in padri dei loro genitori e pretendono di guidarli. Per il loro bene, naturalmente. O forse perché campano grazie alla pensione dei vecchi. Il terreno privilegiato per lo scambio dei ruoli, l’hanno già notato in molti, è nell’utilizzo degli strumenti informatici e nei social network; con la scusa di tenerci aggiornati i giovani ci spingono ad acquistare le ultime novità sul mercato, quando ancora non abbiamo preso confidenza con quelle precedenti. Con i cugini d’Argentina per decenni ci siamo scambiati un paio di lettere ogni anno più gli auguri
Postille filosofiche di Maria Bettetini Grecia... quasi-culla della civiltà Culla della civiltà. Così abbiamo imparato a definire la Grecia, e solo di recente ci siamo degnati di aggiungere l’aggettivo «occidentale», concedendo la possibilità dell’esistenza di altre civiltà o civiltà «altre», diverse dall’occidentale ma pur sempre civili. La maggior parte dei libri di testo nega ancora l’influenza che l’Oriente vicino e lontano ha indubbiamente avuto sulla formazione delle prime idee filosofiche e politiche, la luce dell’intelletto è tutta nostra, in un perenne sfavillio da ballo Excelsior. L’avete mai visto? Grandiosa coreografia di Luigi Manzotti sulle musiche di Romualdo Marenco, presentato per la prima volta alla Scala nel 1881, il ballo magnifica la vittoria di Luce e Civiltà sull’Oscurantismo, che viene cacciato e chiuso in una botola. Si era certi, allora, che l’intelletto attraverso le scienze avrebbe risolto ogni dramma umano, il futuro appariva radioso. Mancavano trenta e qualcosa anni all’inutile massacro della prima guerra mondiale, quaranta alle glorie fasciste, cinquanta all’ascesa di Hitler aiutata dalla Grande Depressione econo-
mica, dal venerdì nero di Wall Street del 1929. Non proseguiamo con i disastri del secolo passato, la rievocazione del ballo Excelsior ha il solo scopo di mitigare l’orgoglio occidentale della razionalità, e con questo anche l’esclusiva della sua fondazione e crescita. Torniamo alla Grecia, alla culla dell’approccio razionale alla realtà. Questo è infatti il vanto della penisola che s’adagia tra mar Ionio e mar Egeo. Ed è un vanto accettabile, la lingua greca è stata la prima a esprimere il logos nella sua compiutezza, a metter le basi per ogni approccio scientifico al reale, quindi i Greci sono i primi scienziati e i primi filosofi. O no? Mi sono divertita a dividere per aree di provenienza i filosofi antichi, da Talete a Damascio, più di mille anni di pensiero. Greco? Talete era di Mileto, oggi Turchia, e come lui altri tra i filosofi antichi: Anassimandro, Anassimene, Leucippo, il primo atomista. L’Asia minore ha nutrito molti altri, che ora elencheremo. Era una colonia greca? Sì, in piccola parte sulle coste, ma sentite ancora chi ha origini turche: Anassagora di Clazomene, Eraclito
Voti d’aria di Paolo Di Stefano In che lochescion bloggate? Bloggo con WordPress dunque sono: è il titolo (2) di un libro di Paolo Sordi, appena uscito dall’editore Flaccovio di Palermo. Devo ammettere subito che non l’ho visto, non l’ho sfogliato, tanto meno l’ho letto. Ho ricevuto un comunicato stampa via email in cui si spiega che il volume illustra «come remixare la propria identità digitale e personalizzare l’interfaccia di un blog»: con i social network, si aggiunge, «la voce personale dell’utente ha conquistato un’esposizione infinita, ma si è chiusa in tanti “giardini chiusi” dove ha perso unità di spazio, libertà e indipendenza». Non capisco ma mi adeguo, diceva il mitico Ferrini di Quelli della notte (6). E non capisco neanche (ma mi adeguo) quel che viene dopo: «Eppure la Rete aperta all’open source, del PHP, dell’HTML, dei CSS, dei feed RSS, di WorldPress (rigorosamente punto org) è ancora un luogo libero, aperto e flessibile che
può restituire agli autori il controllo su contenuti, tempi, modi e proprietà di quanto pubblicato online». L’invito è a comperare Bloggo dunque sono, che ti spiega tutti i come e i perché. Mi è chiaro sin dalle prime righe che non lo comprerò mai. Non solo perché non mi interessa remixare la mia identità (1 al remixare), ma perché, da quel poco che mi viene annunciato, anche se mi volessi remixare non ci capirei niente, in quel labirinto di sigle incomprensibili e neologismi criptici. Preferisco rinunciare all’interfaccia (1) che sbattere la faccia contro un muro fitto di anglismi misteriosi e concetti nebulosi spacciati per argomenti ipertecnici. L’era dell’accesso e della comunicazione è in realtà l’era dell’impenetrabilità e dell’incomprensione. «La mindfulness del pendolare», recita un altro comunicato arrivato spontaneamente (accessibilmente) nella mia posta elettronica:
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
A N G NI s SE RA INO gro 015 AS T C i 2 R OS TI li M sto N EL ia o D fil ag lle l 3 ne o a fin
shopping Il re degli ortaggi ticinesi Attualità I pomodori nostrani sono nel loro massimo splendore.
Lasciatevi sedurre dai deliziosi sapori delle diverse varietà attualmente disponibili sugli scaffali dei supermercati Migros
Manuela Kraus, orticoltrice a S. Antonino.
Pomodoro Intense Varietà introdotta recentemente in Ticino, questo pomodoro si distingue per il fatto che non sgocciola, non macchia e non si sfalda. Trattiene il succo quando è tagliato e alla cottura conserva forma e struttura. È una vera delizia per la preparazione di pasta con cubetti di pomodoro, grigliato, cotto al forno, oppure anche per caprese, sandwich, sughi e zuppe. Inoltre ha un’ottima conservabilità.
Vincenzo Cammarata
«Da quando ho fondato la mia azienda agricola, alla fine degli anni Novanta, ho sempre coltivato pomodori, sempre in piena terra e con l’utilizzo di prodotti fitosanitari solo in caso di reale necessità: tondi lisci, ciliegia ramati, peretti e, di recente, la varietà Intense. Quest’anno la stagione è favorevole e il raccolto è particolarmente buono. Tra quelli che preferisco vi è l’Intense, perché è un pomodoro che si può gustare nei più svariati modi: è delizioso grigliato perché rimane bello compatto; nei panini non perde acqua; rende le insalate più appetitose e si può mangiare come una mela senza che sgoccioli. Prediligete i nostri pomodori nostrani perché sono piantati, curati e raccolti a mano con passione e maturati al sole del nostro bel Ticino.»
Manda P. (28), impiegata, Cadempino – presso Migros S. Antonino
La parola ai clienti «Artigianale e a km zero! Questa mozzarella è fatta col nostro buon latte ticinese, quindi ti puoi fidare! Come la preparo? Pomodorini ciliegia tagliati a metà, una spolverata di origano e un filo d’olio. Più sana di così! Ok, lo ammetto: una volta non ho resistito e l’ho mangiata a morsi, appena acquistata. È freschissima!»» Mozzarella artigianale nostrana 120 g Fr. 3.50
Flavia Leuenberger
Cosa pensa la clientela Migros dei prodotti dei Nostrani del Ticino
Pomodoro Cuore di bue Un solo pomodoro può raggiungere un peso di 500 grammi. Sotto la sua tipica forma di cuore racchiude un aroma pronunciato, pochissimi semi e una consistenza polposa.
Pomodorini ciliegia Dolci e gustosi, sono ideali per arricchire le insalate, per preparare sughi espresso oppure come decorazione per piatti. Il loro sapore è particolarmente apprezzato dai bambini.
Pomodoro a grappolo Venduto a grappoli, ha un sapore particolarmente intenso e si presta bene per la preparazione di molte pietanze sia crude che cotte. È tra i pomodori più venduti.
Pomodoro peretto È il pomodoro da salsa per eccellenza perché sprigiona tutto il suo aroma durante la cottura. Si caratterizza per il gusto leggermente dolciastro, la forma cilindrica e il colore rosso brillante.
Pomodoro Kumato Succoso pomodoro dal colore che tende dal verde scuro al brunastro. Ha un sapore forte e una consistenza compatta. Matura dall’interno verso l’esterno.
Pomodoro tondo Ideale per insalate, sughi, zuppe e per essere farcito, questo pomodoro dal colore rosso intenso possiede una polpa soda e succosa e una pelle bella liscia.
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Idee e acquisti per la settimana
La trota nostrana è servita
Attualità Tutta la gustosità della trota allevata in Ticino in un piatto cucinato dallo chef
Livio Stacchi dell’Osteria Vittoria di Lavertezzo, in Valle Verzasca. Per un ottimo risultato vi consigliamo la trota nostrana bio disponibile nei reparti pesce di Migros Ticino
Trota nostrana al cartoccio Ingredienti per 4 persone Ingredienti 4 trote freschissime di media grandezza erbette fresche: alloro, rosmarino, timo, erba cipollina, salvia sale, pepe olio d’oliva merlot bianco ca. 4 dl 4 fogli di carta alu ca. 30x30 cm Contorni patate novelle 16 pezzi 1/2 zucchina 1 melanzana 1 peperone Preparazione Prendere la trota pulita, stenderla nel mezzo del foglio di carta alu. Riempire la pancia della trota con le erbette fresche ben lavate. Salare, pepare la trota, aggiungere ca. 1 dl di merlot bianco ed un filo d`olio d`oliva. Chiudere il foglio come un sacchetto e cucinare al forno a 180 °C per 15 minuti. Nel frattempo su una griglia ben calda posare le patate novelle precotte in precedenza in acqua salata e tagliate a metà, le zucchine e le melanzane affettate e i peperoni oleati leggermente e salati. Cucinare il tutto da ambo le parti per qualche minuto e servire con la trota.
La trota nostrana al cartoccio: un piatto particolarmente sfizioso.
La trota è un pesce d’acqua dolce (famiglia dei salmonidi) che ama le limpide acque dei fiumi, dei torrenti e dei laghi di montagna. Fin dai tempi lontani, la trota è stata allevata nei vivai. La qualità degli esemplari allevati di-
pende essenzialmente dal tipo di mangime impiegato e dal fatto che vivano in acque con forti correnti fredde, che sole danno al pesce allevato una sodezza di carni paragonabile a quelle delle ormai rare trote di «torrente». Quelle allevate, sono quasi sempre della varietà «iridea», ma si allevano anche in più modesta quantità la varietà «fario»; esiste pure una varietà chiamata «salmonata» le cui carni sono considerate più pregiate e sono
di colore roseo. L’agronomo Olivier de Serres definiva la carne della trota la pernice d’acqua dolce. In cucina questo pesce è facile da preparare e ci sono diversi modi di cottura: fritta, alla mugnaia, al cartoccio, si possono fare dei carpacci, in carpione oppure la trota al blu. Esistono ancora tanti modi, ma attenzione a non mascherare troppo il gusto fine della sua carne, alla quale abbineremo un nostro bianco di Merlot. / Davide Comoli
Lo chef Livio Stacchi con la sua famiglia e il bellissimo villaggio di Lavertezzo sullo sfondo. (Flavia Leuenberger)
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Idee e acquisti per la settimana
Pizza in sapore d’estate
Flavia Leuenberger
La farina per pizza nostrana è prodotta dal Mulino di Maroggia con cereali coltivati nei campi del nostro cantone. È composta da una speciale miscela di semola di grano duro e grano tenero, ciò che permette di ottenere una pasta facile da digerire, croccante fuori e morbida dentro come piace agli aficionados della pizza più autentica. Per un ottimo risultato si consiglia di preparare l’impasto ventiquattrore prima e lasciarlo riposare in frigorifero ricoperto con una pellicola. La miscela è ottima anche per la preparazione di pasta fresca e focacce. Voglia di una pizza in versione estiva? Stendere l’impasto a forma rettangolare e riporlo in una teglia ricoperta da cartaforno. Bucherellare il fondo con una forchetta, condire con un filo d’olio e informare nel forno preriscaldato a 240-260 °C per una decina di minuti. Lasciare raffreddare e condire a piacere a freddo con ingredienti freschi e di stagione come p.es. mozzarella a tocchetti, pomodorini ciliegia, verdure grigliate, rucola… Servire come piatto principale o come aperitivo. Farina per pizza Nostrana 500 g Fr. 1.40
Flavia Leuenberger
Buona, dissetante e sana I pregiati aceti ticinesi
Tisana Nostrana 0.5 l Fr. 1.90
Asèd da vín róss 50 cl Fr. 2.40
Flavia Leuenberger
La Tisana Nostrana è la bevanda ideale per dissetarsi in tutta naturalezza in queste giornate di caldo intenso, quando è molto importante incrementare l’assunzione di liquidi. Gli estratti di erbe officinali contenuti, nella fattispecie salvia, menta citrata e piperita, melissa e citronella, esplicano sul nostro organismo un effetto calmante, digestivo e rallentano il processo di traspirazione. La tisana non è gassata, è priva di additivi e conservanti ed è leggermente dolcificata con fruttosio, caratteristica che la rende ideale anche per i bambini. Le erbe curative impiegate nella tisana provengono dalla COFIT di Olivone. La produzione è invece affidata alla Sicas di Chiasso, azienda con oltre cinquant’anni di esperienza nel settore delle bevande e dei succhi di frutta.
Non solo sulle fresche insalate estive, ma anche su formaggi, carpacci, fragole, gelato alla vaniglia e in numerose altre pietanze della cucina mediterranea per regalare quel tocco di raffinatezza in più: la versatilità dell’aceto balsamico è davvero stupefacente. Anche in Ticino, grazie all’intraprendenza di Angelo Delea, possiamo contare sulla produzione di aceto balsamico. Il suo aromatico «Giovane aceto balsamico» è preparato
Giovane aceto balsamico 20 cl Fr. 11.–
a partire da mosto cotto di uva americana, il quale subisce un invecchiamento di almeno due anni nell’acetaia aziendale in piccole botticelle di legni pregiati. Durante questa fase da cento litri di mosto cotto iniziale si ottengono quaranta litri di mosto concentrato. Oltre all’aceto balsamico, Delea produce pure il classico aceto da vino rosso, anch’esso disponibile sugli scaffali di Migros Ticino.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 20 luglio 2015 ¶ N. 30
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Flavia Leuenberger
Idee e acquisti per la settimana
Appuntamento con il buongusto Fino al 31 luglio anche nei Ristoranti ci si può lasciare conquistare dai sapori della nostra regione. Durante la rassegna dedicata ai Nostrani del Ticino si possono gustare numerose specialità stagionali preparate al momento dagli abili chef della gastronomia Migros. Tra le proposte possiamo
citare ad esempio la trota in carpione, i formaggini con pomodorini e melone, il piatto di antipasti, il carpaccio di manzo, la polenta abbrustolita con formaggella, la luganighetta e gli spiedini grigliati, senza ovviamente dimenticare la vasta scelta di croccanti insalate. Vi aspettiamo!
Fan delle grigliate nostrane
Attualità Non c’è niente di meglio di un buon taglio di carne Costine, costolette, collo, spiedini, luganighetta, tutti tagli a base di carne di maiale, da suini nati e allevati in Ticino; oppure hamburger e spiedini di manzo Charolais del Piano di Magadino: la scelta di succulenti tagli «local» indicati per la griglia è davvero irresistibile. Preferire questi prodotti non è solo un piacere culinario senza compromessi, ma fa bene anche agli allevatori del nostro
territorio che si impegnano ogni giorno per offrirci prodotti freschi e sostenibili. Oltre alla nostra carne di qualità, per una grigliata ben riuscita è ovviamente importante anche la scelta del grill. Secondo alcuni test condotti da specialisti non vi è una differenza sostanziale di gusto tra cibi cucinati su grill a carbonella o a gas. Chi predilige la carbonella dovrà attendere almeno 30 minuti
affinché si formi una bella brace che permetta di iniziare a grigliare. I grill a gas invece sono più indicati per l’utilizzo su balconi e terrazzi, dal momento che praticamente non provocano fumo. Inoltre quest’ultimi hanno tempi di riscaldamento più brevi. Infine, evitate marinate dal gusto troppo forte per non compromettere il sapore naturale dell’ottima carne nostrana.
Flavia Leuenberger
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Idee e acquisti per la settimana
Il Primo Agosto si imbandisce la tavola all’insegna della tradizione. Un tagliere con i colori e le specialità rossocrociate, per un antipasto che crea l’atmosfera consona all’evento.
Il piatto di Guglielmo Tell Panini del 1° Agosto 400 g Fr. 3.20
Uova sode del 1° Agosto di allevamento all’aperto 6 uova da 53 g+ Fr. 4.90
Che fortuna avere una festa nazionale che cade in piena estate! Un’occasione straordinaria per festeggiare all’aperto. Così, si può dare il benvenuto ad amici e familiari con un bell’aperitivo che si intoni alla serata anche dal punto di vista culinario. Le classiche specialità svizzere vi si adattano alla perfezione: Appenzeller ed Emmentaler accompagnati da salame, carne secca dei Grigioni e pancetta affumicata, circondati da uova e panini con l’emblema della Patria. Ed ecco fatto il piatto di Guglielmo Tell. Testo: Anette Wolffram Eugster; Foto: Daniel Ammann; Styling: Esther Egli; Ricetta: Feride Dogum
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1. Agosto Consigli per bricolage
Una serata ricca d’atmosfera
Ghirlanda a forma di muffin Concorso Quest’anno nei panini del 1° agosto (400 g) ci sono nascoste delle monete Migros di plastica. Chi ne trova una riceverà in premio una moneta d’oro del valore di 202 franchi (stima del 16 giugno 2015). In palio ci sono monete d’oro per un valore complessivo di oltre 100’000 franchi. Partecipazione gratuita su www.100idee.ch/agosto
1
Diverse lanterne da Fr. 1.90
C’è bisogno di stampi di carta da forno di colore rosso e bianco, perline di legno, ago e filo nonché di una corda. Al calar delle tenebre le lanterne colorate creano un’atmosfera mistica.
Stampi di carta da forno per muffin Fr. 4.50
Tazza Fr. 4.90
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Candela cubica Fr. 6.90
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2
Cestello del pane Fr. 9.80
Mini girandola Fr. 2.– Portalumi a forma di caquelon 4 pezzi Fr. 9.80
Prima di tutto si fa un grosso nodo alla fine del filo. Poi vi si infilano le perline di legno con un ago.
3 Vendita di fuochi d’artificio I fuochi d’artificio sono disponibili in alcune filiali Migros, fino ad esaurimento delle scorte.
Affinché gli stampi con scivolino fino a toccare le perline, bisogna fare un nodo qualche centimetro sopra le perline. Poi si cuciono sugli stampi altre perline e li si fissa a una cordicella.
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Idee e acquisti per la settimana
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Yogurt ancora meglio tollerati Gli yogurt aha! senza lattosio sono ora prodotti senza le fibre alimentari inulina e oligofruttosio. Entrambe le sostanze, solitamente impiegate per fini tecnologici (consistenza), in persone sensibili possono causare sintomi simili a quelli del lattosio nel caso di un’intolleranza allo zucchero del latte. Grazie all’adattamento delle formule, ora tutte le varianti di yogurt dell’assortimento aha! sono tollerate ancora meglio. Il sapore autentico e l’abituale qualità restano comunque invariati.
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PESCE, CARNE E POLLAME Spiedini, Svizzera, per 100 g 1.85 invece di 3.10 40% Prosciutto cotto in conf. da 2, TerraSuisse, per 100 g 1.95 invece di 2.80 30% Paté del 1º agosto Rapelli, Svizzera, 500 g 9.90 invece di 17.– 40% Piatto misto del 1º agosto, Svizzera, in vaschetta gigante salvafreschezza, per 100 g 3.35 invece di 4.80 30% Fettine di tacchino M-Classic, Ungheria, carne prodotta in base all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, per 100 g 1.75 invece di 2.10 15% Salmone dell’Atlantico affumicato, d’allevamento, Norvegia, 330 g 11.80 invece di 19.80 40% * Salsiccia con pepe Vallemaggia, prodotta in Ticino, in conf. da 2 x 180 g, 360 g 7.60 invece di 9.60 20% Bratwurst di vitello, TerraSuisse, Svizzera, in conf. da 6 x 140 g, 840 g 9.90 invece di 15.60 35% Prosciutto crudo di Parma Ferrarini, 24 mesi, Italia, affettato, in conf. da 2 x 90 g, 180 g 10.90 invece di 18.80 40% Cappello del prete «Picanhna» di manzo, TerraSuisse, Svizzera, imballata, per 100 g 3.60 invece di 4.50 20% Hamburger di vitello, Svizzera, imballati, in conf. da 4 x 100 g, 400 g 9.90 invece di 13.20 25% Scamone di maiale al pezzo per arrosto o fettine, Svizzera, imballato, per 100 g 1.50 invece di 2.50 40% Lombatine d’agnello, Australia / Nuova Zelanda, imballate, per 100 g 3.75 invece di 5.40 30%
*In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Galletto speziato Optigal, Svizzera, in conf. da 2 pezzi, per 100 g 1.– invece di 1.45 30% Filetto di sogliola limanda, Atlantico nord-orientale, per 100 g 3.65 invece di 4.90 25% Offerta valida fino al 25.7 La Trüta (la trota), bio, Ticino, per 100 g 2.45 invece di 3.30 25% Offerta valida fino al 25.7
PANE E LATTICINI Tutti i tipi di pane Pain Création (panini a libero servizio esclusi), –.40 di riduzione, per es. Le Baluchon bianco, 340 g 3.50 invece di 3.90 Mezza panna UHT Valflora in conf. da 2, 2 x 500 ml 3.90 invece di 4.90 20% Tutti gli yogurt bio (esclusi yogurt al latte di pecora), per es. al cioccolato, Fairtrade, 180 g –.60 invece di –.75 20% Emmentaler dolce, per 100 g 1.20 invece di 1.55 20% Raccard Tradition in blocco o a fette in conf. da 10, per 100 g, per es. in blocco maxi 1.75 invece di 2.20 20% Mozzarelline Alfredo in conf. da 2, 2 x 160 g 4.– invece di 5.– 20% Pane Nostrano Ticinese, 300 g 1.85 invece di 2.20 15% Pane Piuma grano tenero e grano integrale, 400 g 2.85 invece di 3.60 20% Furmagèla (formaggella della Leventina), prodotta in Ticino, a libero servizio, per 100 g 1.75 invece di 2.50 30%
FIORI E PIANTE Rose, Fairtrade, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo di 40 cm, mazzo da 20 10.90 invece di 12.90 15% Rose in vaso in set da 2, in vaso da 12 cm, il set 9.90
ALTRI ALIMENTI Branches Classic, Bicolore, Noir o Eimalzin Frey in conf. da 30, UTZ, per es. Bicolore, 30 x 27 g 11.50 Croccantini al cioccolato al latte Frey con design svizzero, UTZ, 260 g 6.50 Tutte le praline Giotto o Raffaello, per es. Raffaello, 230 g 3.55 invece di 4.20 15% ChocMidor Suisse o Carré in conf. da 3, per es. Carré, 3 x 100 g 6.20 invece di 9.30 33% Nutella in barattolo di vetro da 1 kg 5.60 Tutti i cereali Kellogg’s, per es. Choco Tresor, 600 g 5.10 invece di 6.40 20% **Offerta valida fino al 3.8
Tondelli di mais Lilibiggs, tondelli di riso completo yogurt Actilife o tondelli di riso cioccolato, in conf. da 3, per es. tondelli di mais Lilibiggs, 3 x 130 g 3.30 invece di 4.95 3 per 2 Bevanda al cacao, aha!, 20x 500 g 6.90 NOVITÀ ** Tutti i prodotti a base di patate Denny’s o le patate fritte M-Classic, surgelati, per es. patate fritte al forno M-Classic, 500 g 2.05 invece di 2.60 20% Scatola con stuzzichini per le feste Happy Hour, prodotti surgelati, 1308 g 11.55 invece di 16.55 30% Tutti i gelati in barattolini monoporzione, per es. Frozen Yo Nature, 170 ml 1.50 invece di 1.90 20% Tutto l’assortimento Sélection, per es. sorbetto ai lamponi, 500 ml 6.55 invece di 8.20 20% Hamburger M-Classic, surgelati, 12 x 90 g 7.80 invece di 15.60 50% Fior di pane, aha!, surgelato, 20x 400 g 5.90 NOVITÀ ** Tutta la Coca-Cola in conf. da 8, 8 x 50 cl, per es. Classic 7.80 invece di 10.40 8 per 6 Red Bull standard in conf. da 24, 24 x 250 ml 27.90 invece di 37.20 25% Tutti i tipi di birra senz’alcol, per es. Feldschlösschen, 10 x 33 cl 8.70 invece di 10.90 20% Tutte le acque minerali Aproz in conf. da 6, per es. Classic, 6 x 1,5 l 3.80 invece di 5.70 33% Tutti i prodotti Mister Rice, per es. Wild Rice Mix, 1 kg 3.60 invece di 4.50 20% Salsa all’italiana Napoli in conf. da 3, 3 x 500 g 5.– invece di 7.50 33% Olio di girasole svizzero o olio di colza svizzero Migros Bio, per es. olio di colza, 50 cl 6.90 Maionese, Thomynaise o senape dolce Thomy in conf. da 2, per es. maionese à la française, 2 x 265 g 4.– invece di 5.– 20% Tutti i ketchup o tutte le salse BBQ Heinz, per es. salsa al curry con mango, 220 ml 2.35 invece di 2.95 20% Soft Tortillas o Nacho Chips Pancho Villa in conf. da 2, per es. Nacho Chips, 2 x 200 g 5.70 invece di 7.20 20% Chips al naturale o alla paprica Zweifel in busta XXL, per es. alla paprica, 380 g 5.95 invece di 7.75 20% Tutte le crostate Anna’s Best, per es. crostata di albicocche, 215 g 2.30 invece di 2.90 20% Olive con formaggio a pasta molle Anna’s Best, 400 g 6.50 Pasta Anna’s Best in conf. da 2 o in conf. da 3, per es. con pomodori e mozzarella Galbani in conf. da 3, 3 x 250 g 11.70 invece di 14.70 20% Focaccia all’alsaziana Tradition in conf. da 2, 2 x 350 g 7.80 invece di 9.80 20%
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Idee e acquisti per la settimana
Farmer
Barretta ai cereali senza glutine Da oltre tre decenni le barrette ai cereali Farmer sono conosciute e apprezzate da tutta la famiglia come snack energetici naturali. A seguito dei desideri della clientela l’assortimento è stato costantemente aggiornato e ampliato. Adesso come novità arrivano le barrette Nuts & Fruits nella variante senza glutine – pri-
ve di frumento, ma con Quinoa e arricchite da una ricca miscela di noci e da mirtilli rossi. Ora quindi anche i fan dei Farmer che devono prestare attenzione ad un’alimentazione senza glutine, e che finora hanno dovuto rinunciare ai Nuts & Fruits, possono sgranocchiare la loro barretta senza preoccupazione alcuna.
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Il marchio aha! contrassegna quei prodotti particolarmente tollerati anche da chi soffre di allergie e intolleranze. Le barrette ai cereali Farmer sono lo snack energetico ideale per quando si è fuori casa.
Parte di
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Idee e acquisti per la settimana
Anna’s Best
Frutta fresca in bottiglia I nuovi succhi di frutta della linea Juicy di Anna’s Best hanno lo stesso sapore di quelli preparati al momento. Sono, infatti, costituiti di frutta appena raccolta e sono conservati in modo particolarmente delicato grazie al fatto che non vengono riscaldati. La parola magica del processo di fabbricazione si chiama HPP, che sta per High Pressure Proces-
sing, ossia processo ad alta pressione. Con questo metodo si conservano le vitamine, eliminando solo i microorganismi indesiderati. Un fattore che ottimizza la sicurezza degli alimenti, preservandone al contempo il sapore autentico. C’è bisogno solo di acqua ed energia, il che rende tale processo anche ecologicamente sostenibile.
Arnold Graf è tecnologo alimentare nell’industria alimentare Bischofszell AG.
20X Punti Cumulus su tutti i succhi di frutta Juicy di Anna’s Best fino al 27 luglio.
Intervista
L’ultima tendenza della conservazione Qual è il grande vantaggio del nuovo metodo?
Riusciamo a conservare più a lungo i succhi freschi senza comprometterne in alcun modo la qualità. Sapore, profumo e colore restano autentici. Lavorando senza alcun additivo, il prodotto finito resta assolutamente naturale. Come funziona esattamente questo processo ad alta pressione?
Le bottigliette arrivano dentro un contenitore speciale, il quale a sua volta è inserito all’interno di una camera riempita d’acqua. Tramite delle pompe, la pressione viene aumentata a quasi 6000 bar, corrispondente all’incirca a quella che si trova a profondità marine di 60 chilometri. Eventuali microorganismi come batteri, lieviti o muffe sono sensibili all’alta pressione e vengono eliminati con delicatezza. Dalla frutta fresca ai succhi: quanto dura il procedimento?
Utilizziamo frutta fresca che pressiamo o spremiamo sul posto. La iniettiamo direttamente nelle bottiglie, che poi inseriamo nel processo ad alta pressione. Non è necessario travasare ulteriormente il succo, dato che è minimo anche il rischio di nuove contaminazioni da parte di microorganismi. Dal frutto intero alla conclusione del processo di conservazione ci vogliono circa 20 minuti. Perché il metodo è adatto soprattutto ai succhi?
I generi alimentari sensibili al calore, come frutta e verdura, sono quelli che approfittano maggiormente dei suoi vantaggi. Le vitamine si conservano particolarmente bene, dato che sono proprio loro che soffrono di più il caldo. Sotto pressione, inoltre, i microrganismi indesiderati vengono eliminati in modo molto efficace. Ci sono altri vantaggi?
Anna’s Best Juicy Arancia, pera, spinaci 250 ml Fr. 3.40
Anna’s Best Juicy Arancia, ananas 250 ml Fr. 3.40 Anna’s Best Juicy Uva, frutti di bosco 250 ml Fr. 3.40
Sì, la sicurezza alimentare. I succhi, infatti, si possono consumare benissimo anche qualche giorno dopo la data di scadenza. E non è assolutamente un problema portarseli a casa interrompendo brevemente la catena del freddo. Questo procedimento è sostenibile dal profilo ecologico?
Assolutamente. È una tecnologia che non lascia scorie e risparmia le risorse: in fin dei conti usiamo solo acqua ed energia. Si tratta di una novità tecnologica?
La frutta fresca viene spremuta e convogliata direttamente nelle bottiglie che la conservano delicatamente sotto pressione.
Non proprio. Già oltre un secolo fa uno scienziato americano aveva dimostrato l’allungamento della durata di conservazione tramite un’elevata pressione idraulica. Tuttavia, per ragioni oscure, l’industria alimentare non se ne era interessata. Molto spesso gli scienziati sono in anticipo sui tempi. Questo processo è riuscito ad affermarsi soltanto negli ultimi dieci anni.
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Idee e acquisti per la settimana
I am
Godersi il sole sfacciatamente
Il balsamo fissatore del colore è un trattamento che grazie alla sua formula a base di pro-cheratina e filtro UV protegge i capelli dallo scolorimento. Il condizionatore leviga la struttura del capello donandogli un riflesso luminoso ottimale. La crema doccia all’estratto di fiori d’arancio lava dolcemente e dona alla pelle un profumo di frutta.
I am Professional Color Protection Conditioner 250 ml Fr. 3.05
I am Shower Feel Good 250 ml Fr. 2.10 Con la sua formula delicata, l’olio secco per capelli è raccomandato per la cura intensiva delle punte sfibrate e dei capelli fragili. Trattiene l’umidità nei capelli senza ungerli. I am Hair Care Dry Oil 75 ml Fr. 5.50
La lozione per il corpo Body Lotion Holiday Feeling nutre la pelle, donandole al contempo un’abbronzatura estiva delicata e naturale. Non protegge, però, dalle scottature.
La rilassante crema idratante con estratto di miele ed Aloe vera e pregiato burro di karité lenisce la pelle del viso e ne preserva l’umidità.
I am Body Holiday Feeling 250 ml* Fr. 5.90 * nelle maggiori filiali
I am Natural Cosmetics Maschera idratante Miele & Aloe vera 2 x 7,5 ml Fr. 2.80
L’olio di bellezza per viso, corpo e capelli agisce grazie una formula speciale, contenente oli di mandorla e babassu nonché vitamina E.
Lo spray idratante cura i capelli secchi e strapazzati, rendendoli elastici e docili al pettine. La sua formula trattante contiene un estratto di pappa reale, il pregiato nettare delle api regine. I am Hair Care Intense Moisture Leave in Spray 150 ml* Fr. 4.20
Concorso «Trova il difetto estetico» www.i-am.ch
I am Natural Cosmetics Olio di bellezza 3 in 1 100 ml* Fr. 9.80
La Body Lotion rinfrescante si basa sulla formula «NutriComplexHydration 24» proteggendo la pelle dalla disidratazione. Avere uno splendido aspetto d’estate non è scontato. Pelle e capelli hanno bisogno di cure particolari, per impedire che il sole non lasci tracce indesiderate.
Forse perché si dice che «il sole bacia i belli», lo cerchiamo di continuo, soprattutto d’estate. Attenzione però: anche a piccole dosi i suoi raggi strapazzano la pelle, che perciò ha bisogno di cure speciali. Anche quando, grazie alla produzione accelerata di melanina, la pelle
assume una sana tintarella, è importante rifornirla di sufficiente umidità, affinché i processi cellulari funzionino correttamente. La stessa cosa succede ai capelli, che in piena estate diventano particolarmente fragili, con doppie punte e lacerazioni. Stressati dall’azione dei raggi UV,
del cloro, della salsedine e del vento secco, hanno bisogno di protezione per non diventare opachi e sfibrati. Vale perciò sempre la pena di dare una sbirciatina all’assortimento I am, poiché comprende numerosi trattamenti adatti alle specifiche esigenze della cute e dei capelli.
I am Body Lotion rinfrescante 400 ml Fr. 5.50
L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra i quali anche la linea cosmetica I am.
© 2015 The Coca-Cola Company. Coca-Cola, Coca-Cola zero, Coca-Cola light, the Contour Bottle and the Dynamic Ribbon Device are registered trademarks of The Coca-Cola Company.
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Idee e acquisti per la settimana
Exelia
Freschezza estiva duratura Summer Fresh fa proprio onore al suo nome: dopo ogni lavaggio con l’ammorbidente Exelia, il bucato risulta non solo morbido e vellutato, bensì anche più fresco di quanto accadesse finora. Questo è dovuto all’ottimizzazione della formula, la quale è stata opportunatamente adattata alla stagione estiva con una fragranza floreale-fruttata. Contemporaneamente Summer Fresh protegge le fibre tessili dall’usura impedendo che i tessuti si carichino di energia elettrostatica. Inoltre i capi risultano facili da stirare. Anche dal punto di vista ecologico l’ammorbidente presenta dei vantaggi: è ben biodegradabile e, grazie ai nuovi imballaggi-ricarica, causa meno rifiuti rispetto ad altri prodotti analoghi.
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