Dialoghi n.1-2015

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A"oXVo I Rivista trimestrale promossa dall'Azione Cattolica Italiana in collaborazione con l'Istituto "Vittorio Bachelet" e con l'Istituto "Paolo VI" Direttore: Piergiorgio GRASSI Direttore responsabile: Piergiorgio GRASSI Comitato di direzione: Andrea AGUTI, Luigi AL1c1, Piermarco AROLDI, Mansueto BIANCHI, Mario BRUTTI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Carlo C1Rono, Gian Candido DE MARTIN, Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Giovanni GRANDI, Piergiorgio GRASSI, Francesco MIANO, Paolo TRIONFINI, Matteo TRUFFELU , Ilaria VELLANI. Redazione: Andrea DESSARDO, Antonio MARTINO. Email: dialoghi@azionecattolica.it Promozione: Rosella GRANDE Comitato scientifico: Pasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, Giuseppe BETORI, Giandomenico BoFFI, Francesco BONINI, Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo C1Rono, Piero CODA, Francesco D'AGOSTINO, Giuseppe DALLA TORRE, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI, Claudio GIULIODORI, Francesco lAMBIASI , Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Armando MAmo, Fabio MAZZOCCHIO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI, Orazio Francesco PIAZZA, Antonio PIEREnl, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA, Ignazio SANNA, Pierangelo SEOUERI, Domenico SIGAUNI, Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, Stefano ZAMAGNI, Sergio ZANINELU.

Editrice: Fondazione Apostolicam Actuositatem Sede legale: Via Conciliazione 1, 00193 Roma Uffici e redazione: Via Aurelia 481, 00165 Roma Tel. 06/66 .1 3.21 - Fax 06/66.20 .207 E-mail: dialoghi@azionecattolica.it - area .editoriale@azionecattolica.it Progetto grafico e impaginazione: Giuliano D'Orsi - Redazione AVE In copertina: Henri Matisse, Natura morta con tappeto rosso, 1906, olio su tela Grenoble, MusĂŠe des Beaux-Arts

Stampa: Consorzio A.G .E. Arti Grafiche Europa - Pomezia (Rm)

Reg. Trib. di Roma iscr. n. 133/2001 del 3/4/2001

Tiratura: 2.900 copie - Finito di stampare nel mese di marzo 2015


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SOMMARIO

Editoriale 2 Il Presidente e le riforme Piergiorgio Grassi

Primo Piano 6 Confrontarsi con una società a-sistematica Mario Brutti 11 Una nuova rotta per l’Europa Leonardo Becchetti

Dossier Il naturalismo in questione a cura di Andrea Aguti 24 La sfida del naturalismo alla teologia Giacomo Canobbio 33 Naturalismo e postumano Luca Grion 42 La sfida delle neuroscienze al libero arbitrio Andrea Lavazza 52 La naturalizzazione neuroscientifica della morale Antonio Da Re 59 Le due anime del naturalismo scientifico Carlo Cirotto 67 Naturalismo e natura. Concetti e limiti Intervista a Mario De Caro e Cataldo Zuccaro

Eventi e Idee 76 Nella gabbia del Leopardi Adriano D’Aloia 81 Contro la schiavitù, diritti e solidarietà Michele D’Avino 86 Giovani. Farsi strada nel labirinto Pierpaolo Triani

Il Libro e i Libri 90 Est-etica. Vivere è educare Andrea Dessardo 96 Gli italiani e la Bibbia. Relazione aperta Raffaele Maiolini 101 La rivincita (necessaria) del bene comune Paolo Nepi

Profili 106 Don Emilio Guano. Il “paladino” dei laici cattolici Maddalena Burelli

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EDITORIALE

Il Presidente e le riforme di Piergiorgio Grassi

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a elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è stata una felice sorpresa. Per chi già lo conosceva, ne apprezzava le qualità e lo riteneva ormai definitivamente impegnato a svolgere un ruolo prezioso, ma ignoto ai più, quale giudice della Corte costituzionale. Per chi lo ricordava tra i nomi di politici impegnati a ricostruire un quadro politico coerente dopo il terremoto di Tangentopoli all’inizio degli anni Novanta o come l’artefice del sistema elettorale (a collegi uninominali) che porta il suo nome, ha avuto poi modo di conoscerne, attraverso i media, la biografia pubblica, iniziata nelle file dell’Azione cattolica e sfociata nell’impegno politico-partitico nella scia della tradizione cattolicodemocratica. Il discorso tenuto davanti ai grandi elettori, a Montecitorio, ha permesso di individuare alcune linee ispiratrici della sua azione nel prossimo settennato. In primo luogo, un tenersi ancorato all’ispirazione della Carta costituzionale, ribadendo il radicamento profondo della nostra storia, ripresentandone il rapporto (non da tutti accettato) con la Resistenza e non come un compromesso tra partiti. La Resistenza come realtà complessa, non solo fatto militare (pur decisivo) ma frutto delle innumerevoli forme di resistenza civile di cui il paese fu teatro, con un ruolo rilevante della presenza cattolica. Per dirla con Pietro Scoppola, «la Costituzione non è stata un semplice compromesso tra partiti, ma la risposta ad una domanda vitale di un popolo che usciva dalla tragedia della guerra» (La coscienza e il potere, Laterza,

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Roma-Bari 2007, pp. 164-168). Si è saldata – e lo hanno voluto i padri fondatori della Repubblica – con il costituzionalismo europeo, arricchita dall’esigenza di una democrazia sostanziale, fondata sul principio di eguaglianza che è stato fissato dall’articolo 3 del documento fondamentale della nostra Repubblica e che costituisce un essenziale elemento della nostra identità storica. Costituzione che ha sancito anche la congiunzione, in Italia, tra la Chiesa cattolica e la democrazia, con il riconoscimento, nel primo comma dell’articolo 7 della Costituzione, della Chiesa come istituzione autonoma e sovrana nel suo ambito. Tutti elementi che fanno del testo della Costituzione un bene non disponibile per operazioni di scambio politico. Quasi un monito per le riforme della seconda parte del documento che si sta cercando di approvare dopo anni di frustranti tentativi, finiti regolarmente nel vuoto. Troppo il tempo perduto rispetto all’accelerazione della storia impressa dagli eventi, anche drammatici, di questi anni e di questi giorni. Una Costituzione che il presidente Mattarella ritiene possa stabilire freschi legami con le generazioni emergenti, le più maltrattate dalla lunga crisi che ha devastato l’economia e la società di molti paesi dell’Unione europea, suscitando per reazione movimenti nazionalisti e populisti, con l’obiettivo di interrompere quel cammino di integrazione che rappresenta l’eredità più alta lasciata da coloro che, nel secondo dopoguerra, hanno dato forma al progetto di un’Europa unita. È da evidenziare nel testo molto breve e incisivo di Mattarella – una cifra comunicativa che connota da sempre il neopresidente – la particolare sottolineatura della necessità di tener conto di coloro che sono stati feriti dalla crisi e che sono tentati di rigettare il metodo democratico come inefficiente; della necessità di tener conto soprattutto dei giovani, i più colpiti, per il lavoro che manca, per le speranze deluse negli anni cruciali della formazione. Investire sui giovani significa investire sul futuro del nostro paese. Come mostra un recente report curato dall’istituto Giuseppe Toniolo, c’è una quota consistente di giovani italiani, cresciuti negli anni della lunga crisi, che non sono stati piegati dalla situazione di emergenza, consapevoli dei rischi e delle opportunità che si possono aprire, animati da una forte volontà di protagonismo nella ricerca delle soluzioni. Lo si evince dalla disponibilità alla mobilità, dall’accettazione di lavori che non corrispondono immediatamente alle proprie aspettative, dal recupero di un impegno nel politico e nel sociale che non li renda più invisibili, da una più accentuata attenzione della dialoghi n. 1 marzo 2015

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IL PRESIDENTE E LE RIFORME

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componente femminile alla partecipazione socio-politica, il tutto attraverso forme di organizzazione sociale informali, «costituite a partire dall’iniziativa di gruppi localmente e/o globalmente connessi». Investire sui giovani significa investire sul futuro del paese, sulla capacità delle istituzioni di garantire democraticamente lo sviluppo e una convivenza più matura, di affrontare le sfide inedite che si presenteranno, in un mondo di sempre più strette interdipendenze. La democrazia – ha ricordato Mattarella – non è un dato di fatto, un’acquisizione definitiva, ma una conquista che si rinnova ogni giorno, che chiede fatica, che esige sempre il rispetto della dignità di ciascuno. «La credibilità delle istituzioni democratiche non è un valore astratto: al contrario è il distillato concreto dei comportamenti che devono venire anche dall’alto; il servizio alla cosa pubblica è prima di tutto un impegno etico», ha scritto Stefano Folli. Un invito quindi ad uscire da logiche individualistiche e puramente acquisitive, quasi un’eco, o meglio una ripresa, di quanto diceva don Milani ai ragazzi della sua piccola scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia». I mutamenti intervenuti nel quadro politico-partitico immediatamente dopo la elezione del presidente della Repubblica, i confronti duri, polemici sino alla rissa nell’aula di Montecitorio (spettacolo davvero umiliante e deprimente, ripreso dai media di tutto il mondo) ripropongono l’attenzione sui processi in atto di riforma istituzionale. Ci si domanda se la rottura improvvisa di patti che parevano duraturi, le turbolenze e le fibrillazioni all’interno dei partiti, non blocchino in Parlamento il cammino delle riforme, considerate essenziali perché si possa uscire dalla situazione di crisi o, meglio, si possa aprire una nuova fase della nostra Repubblica, in cui nuove generazioni di politici ridefiniscano al meglio l’assetto del sistema politico. La riforma della legge elettorale, il superamento del bicameralismo paritario, le proposte di modifica del titolo V della Costituzione costituiscono elementi «di importanza prioritaria nelle dinamiche istituzionali e politiche e per le stesse prospettive di vita del governo in carica», come ha scritto Gian Candido De Martin sul numero 4 di «Dialoghi» dello scorso anno (Nodi e prospettive delle riforme istituzionali, pp. 13-18). Alla Camera e al Senato si sono fronteggiate duramente le posizioni di chi chiede, talvolta con diversa intenzionalità, di rifinire i vari progetti di dialoghi n. 1 marzo 2015


legge, a cominciare dalle proposte di modifica del titolo V della Costituzione, per arginare e correggere gli eccessi di centralismo che «produrrebbero un sostanziale ridimensionamento del disegno autonomistico della Repubblica, oltretutto sinora disatteso o attuato in modo fuorviante con una contraddizione paradossale rispetto alla scelta di valorizzazione delle autonomie del nuovo Senato», per dirla con lo stesso De Martin. La maggioranza di governo intende arrivare in tempi molto stretti all’approvazione dei provvedimenti, vista l’urgenza di interventi sul piano economico, finanziario e internazionale, mentre vi sono partiti che mostrano la propria aperta sfiducia nei confronti della democrazia rappresentativa. Il Movimento Cinque Stelle propone un’alternativa alla democrazia rappresentativa, più che di governo. Per questo si mostra in conflitto permanente con il funzionamento stesso del Parlamento. Si sta giocando una partita di grande rilievo in questo capriccioso inverno. E questo avviene mentre sono in atto sommovimenti geopolitici profondi e venti di guerra spirano dall’altra sponda del Mediterraneo e dall’Europa orientale, che potrebbero costringere a mettere la sordina alla questione delle riforme, essendo balzata in primo piano quella della sicurezza nazionale. (20 febbraio 2015)

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PRIMOPIANO

Il Rapporto Censis 2014 sulla situazione sociale del Paese individua sette “mondi” distinti e incomunicanti che aumentano il carattere ad “architettura distribuita” della nostra società. Per il Censis ciò non fa che accrescere l’esigenza di una cultura politica che comprenda l’articolazione e la separatezza dei mondi vitali e di potere oggi esistenti e riannodi i loro meccanismi operativi e di orientamento, connettendo le energie individuali con orizzonti ed energie mirate al futuro.

Confrontarsi con una società a-sistematica di Mario Brutti

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ipercorrere nella sua interezza l’interpretazione della società italiana fornita dal Censis nel suo ultimo Rapporto annuale, il 48esimo di una serie gloriosa, costituisce un esercizio doveroso per chiunque non voglia rimanere spiazzato di fronte ai cambiamenti avvenuti, che vanno ben al di là del pur devastante impatto di una crisi la cui fine non si riesce a intravedere. Quando ci si dice che stiamo diventando una società a-sistemica, nella quale i singoli soggetti non capiscono dove si collocano e soffrono tutti gli effetti negativi, anche psicologici, della crisi radicale delle giunture sistemiche, fino a sentirsi abbandonati a se stessi in una obbligata solitudine, è inevitabile non riflettere su quanto siano ormai insufficienti gli strumenti di analisi tradizionali, pur appartenenti a una tradizione consolidata e dalle benemerenze indiscutibili, a comprendere la portata delle traMario Brutti sformazioni verificatesi non più dentro il sistema è sociologo, ha diretto l’area di ricerca ma tali da scompaginarlo totalmente, rendendoEconomia e Lavoro del Censis e il Servizio lo insensibile a modalità di intervento pensate Studi dell’Associazione sindacale Intersind. per un mondo completamente diverso. Autore di numerosi studi e pubblicazioni, Anche le culture politiche hanno le loro stagiosvolge attività di ricerca nell’ambito ni e occorre rendersi conto quando una stagiodella società Ermeneia. È presidente ne sta per finire, il che non significa negarne i della Fondazione Carivit e componente meriti, e quando è il momento di prendersi la del Consiglio scientifico dell’Istituto responsabilità di elaborarne e attuarne un’altra, «Vittorio Bachelet». tanto più mentre si deve constatare che «le for-

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zature sui modelli tradizionali, in particolare l’accentuata verticalizzazione del modello piramidale, non sembrano ottenere risultati apprezzabili». Nel frattempo il sistema finisce per essere vissuto come cosa estranea e resta solo potenziale oggetto di rancore e di denuncia, mentre cresce la propensione della nostra società a vivere in orizzontale e gli interessi e i comportamenti si aggregano in mondi che spesso non riescono a dialogare fra loro, vivendo di se stessi senza grandi confronti esterni. Sono mondi che il Censis definisce «giare», contenitori a ricca potenza interna, ma con grandi difficoltà a stabilire significativi rapporti al di fuori. Abbiamo così la giara del circuito sovranazionale da cui siamo sempre più condizionati: a) con il mondo della finanza internazionale che si regola e ci regola attraverso l’indiscutibile strumento del mercato con procedure che vivono di vita propria, lasciando le economie nazionali a fare da spettatrici passive a eventi e periodi di sofferenza; b) e con un potere degli organi comunitari europei fatto prevalentemente di vincoli (parametri, direttive, controlli) che portano a una crescente cessione di sovranità combinata però con grandi vuoti (di prospettazione di sviluppo futuro, di attenzione alle aspettative delle popolazioni, di programmazione a medio e lungo termine). C’è la giara della politica, che rischia di restare confinata nel gioco della sola politica, con un tetto basso di azione verso l’alto, per la perdita di sovranità, e non sempre con un immediato potere verso il basso, stante la difficoltà della decisionalità, anche espressa con strumenti di urgenza, a passare all’incasso sul piano dell’amministrazione corrente e dei comportamenti collettivi. E qui siamo alla terza giara, quella delle istituzioni, che non riescono più nella funzione di dare forma alla società e quasi si estraniano dalla realtà quotidiana, con i protagonisti che avvertono sulla loro pelle una pesante crisi di ruolo. Si configura come una giara anche quel mondo delle minoranze vitali tanto care al Censis fatto di piccoli e medi imprenditori con una forte propensione a esportare e capaci di una larga presenza internazionale: un mondo in cui i protagonisti si sentono ben poco assistiti dal sistema pubblico, di modo che aumenta il loro congenito individualismo e si riducono le loro appartenenze associative e di rappresentanza. E una enorme giara è anche il mondo della gente del quotidiano, dove si vive una sospensione che nella sua calma apparente può incubare sia una lenta emersione di crescenti diseguagliandialoghi n. 1 marzo 2015

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CONFRONTARSI CON UNA SOCIETÀ A-SISTEMATICA

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ze economiche e, in prospettiva, di imprevedibili tensioni sociali, sia una propensione collettiva a subire richiami di tipo populistico. In una situazione come quella descritta non può che crescere, secondo il Censis, il circuito che da sempre vive isolato, quello del «sommerso», divenuto ormai una componente strutturale e permanente alla base dei meccanismi che consentono alle famiglie e alle imprese di reggere, riferimento adattivo di molti milioni di italiani, spazio di accumulazione collettiva più consistente di tanti “tesoretti”. C’è ancora un’ultima giara nel Rapporto ed è quella dei mezzi di comunicazione soggetti a una doppia dinamica interna che li allontana da quel rigoroso mandato di aderenza alla realtà cui sono istituzionalmente chiamati: a) una dinamica derivante dal fatto che il mondo della comunicazione appare incardinato al perno del binomio opinione-evento in dimensioni tali da domandarsi quali pezzi di società i media alla fine rispecchino; b) e una dinamica connessa alla crescita e all’innovazione degli strumenti digitali di comunicazione che amplifica la tendenza dei singoli alla introflessione, da cui deriva una concezione dei media come specchi introflessi piuttosto che come strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso. Siamo, quindi, in presenza di sette mondi distinti e incomunicanti, che aumentano il carattere ad architettura distribuita della nostra società. Per il Censis ciò non fa che accrescere l’esigenza di «una cultura politica che comprenda l’articolazione e la separatezza dei mondi di vitalità e di potere oggi esistenti e riannodi i loro meccanismi operativi e di orientamento», connettendo le energie individuali con orizzonti ed energie mirate al futuro. In un momento in cui la politica viene enfatizzata come arte del comando è assolutamente necessaria una torsione di responsabilità se si vuole evitare che la dinamica tutta interna alle «sette giare» porti a una perdita di energia del sistema e al consolidarsi della grande deflazione che stiamo attraversando: quella economica, quella del numero delle imprese, quella delle aspettative individuali e collettive, quella della capacità di governo ordinario (malgrado o forse proprio a causa della proliferazione decretizia di tipo verticistico). Il Rapporto dà una definizione spietata della nostra condizione di «una società satura dal capitale inagito»: a) dove il capitale non circola, ma sta fermo anche nei portafogli delle famiglie e, se circola, circola in contanti (il 41% del totale della spesa che sale al dialoghi n. 1 marzo 2015


54% nel Sud e al 65% tra le persone con titolo di studio più basso), un chiaro segno della crescente vocazione al nero e al sommerso; b) dove nel 2013 si è registrato il valore più basso degli investimenti, a prezzi costanti, degli ultimi tredici anni con un calo di oltre il 23% a partire dal 2008 fino a oggi; c) dove infuria la dissipazione del capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa con oltre il 50% dei disoccupati compresi in età fra 15 e 34 anni, con i due terzi degli inattivi scoraggiati formati da donne, con una ampia fascia di capitale umano sottoutilizzato (2,5 milioni di occupati part time involontari, più che raddoppiati rispetto al 2007), con oltre quattro milioni di lavoratori che ricoprono posizioni per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto; d) dove, infine, un paese che è il primo al mondo nella graduatoria dei siti Unesco riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone. Tanto basta per rendersi conto di quanto forte debba essere la scossa necessaria per riprendere vigore collettivo – una scossa che deve in primo luogo nascere dall’interno della nostra società, riacquistando la capacità di fare scelte capaci di portarci fuori dalla palude. La complessità della realtà sociale non si domina con una cultura collettiva che pretende di tenere insieme tutto e il contrario di tutto fino a dibattersi nell’impotenza. Occorre per questo ritrovare i riferimenti giusti: a) le nostalgie di tipo conservativo non possono contrapporsi alla necessità di operare secondo una logica di innovazione non fine a se stessa, ma perseguita secondo un progetto esteso a partire dalle istituzioni fino all’economia e agli assetti del nostro intervento sociale; b) la costruzione di spazi di nuove opportunità dev’essere prioritaria rispetto al mantenimento di garanzie che rischiano di apparire privilegi per pochi e che nei fatti non si applicherebbero a nessuno per mancanza di una materia viva; c) lo stesso rapporto fra Stato e società non può essere concepito in termini di opposizione fra liberismo sfrenato e onnipresenza pubblica, ma dev’essere fondato su scelte di priorità e assunzioni di responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti. Tutto ciò si colloca in uno scenario mondiale dove le interdipendenze sono sempre più strette e dove pensare di poter correre da soli è solo una pericolosa illusione, anche se sono in molti a subirne il fascino. Al fondo, ogni considerazione svolta ci riporta al grande tema della crescita e al ruolo che in questo senso ricopre la fiducia collettiva, tanto più quando anche gli econodialoghi n. 1 marzo 2015

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CONFRONTARSI CON UNA SOCIETÀ A-SISTEMATICA

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misti oggi ne riconoscono la capacità di incidere in termini sostanziali sulla direzione del futuro. Un sistema ingessato oggi è un sistema che, oltre a non produrre opportunità, genera aree di crescente diseguaglianza, come ci ricorda Thomas Piketty nel suo imponente studio su Il capitale nel XXI secolo. C’è quindi un’opera di ricostruzione da intraprendere dopo i disastri di una crisi i cui effetti possono da vicino equipararsi a quelli di una guerra. Ciò chiede tempo, coinvolge attori tanto interni quanto internazionali, soprattutto esige credibilità verso una classe dirigente consapevole del suo ruolo a tutti i livelli, non solo quello della politica.

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La storia di un appello di economisti che non intendono rassegnarsi ad un’Unione europea destinata alla fine del Titanic e chiedono precise e profonde riforme.

Una nuova rotta per l’Europa di Leonardo Becchetti

olo qualche mese fa la situazione dell’Unione europea sembrava senza uscita. L’equipaggio del Titanic dell’Ue diviso tra le paure dei passeggeri, dalla loro mancanza di fiducia e ritrosia a mettere insieme il proprio destino per via di un passato di errori, viaggiava dritto verso l’iceberg di una deflagrazione dell’eurozona. Proprio in quel periodo con tre colleghi (Paolo Pini, Alberto Zazzaro e Roberto Cellini), che condividevano la mia stessa preoccupazione per il futuro dell’Italia e dell’Europa, si è deciso di scrivere un appello. Per usare una metafora, l’Ue appariva come quel generale che con la moneta unica aveva deciso di fare una mossa coraggiosa verso la maggior unità attraversando metà del guado di un fiume e tagliandosi la via della ritirata (viste le difficoltà di ritorno indietro e la quasi irreversibilità dell’eurozona). Pensando che questa mossa coraggiosa avrebbe di per sé dato il coraggio per pro- Leonardo Becchetti seguire. Quello che invece è successo dopo è è docente di Economia politica presso la ben noto. Il generale si ferma in mezzo al Facoltà di Economia dell’Università di Roma guado, un luogo però attraversato da correnti Tor Vergata, presidente del Comitato etico (nel caso dei mercati finanziari globali le cor- di Banca Etica dal 2005. Autore di numerosi renti sono forti e speculative e le tempeste sono saggi tra i quali Felicità sostenibile, Donzelli, all’ordine del giorno) dove è impossibile resta- Roma 2005, Il denaro fa la felicità?, Laterza, re per troppo tempo. La crisi che stiamo anco- Bari-Roma 2007 e il recente Wikieconomia. ra vivendo si configura proprio nell’impossibi- Manifesto dell’economia civile, Il Mulino, lità di tornare indietro, nella ritrosia a muove- Bologna 2014.

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UNA NUOVA ROTTA PER L’EUROPA

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re passi avanti e nell’impossibilità di restare fermi. Tutto peggiora poi con la crisi finanziaria globale provocata da errori della finanza il cui conto viene alla fine pagato in un modo o nell’altro dagli Stati. Mentre la crisi ha il suo epicentro negli Stati Uniti e l’Europa ne viene investita di rimbalzo, i primi si rivelano abilissimi a gestirla. Un piano pubblico-privato (Tarp) si occupa di riacquistare a prezzi stracciati gli attivi delle banche fallite e il banchiere centrale Ben Bernanke, un economista che aveva studiato molto a fondo la crisi del 1929 e la sua soluzione, interviene nel modo giusto, ovvero con una politica monetaria espansiva, il cosiddetto quantitative easing, che inonda il mercato di liquidità con iniezioni di 85 miliardi di dollari al mese. Bernanke sa che una crisi finanziaria distrugge moltissima moneta e ne riduce la quantità in circolazione con effetti depressivi sulla domanda di beni che si trasmettono al resto dell’economia provocando una prolungata recessione (quella vissuta dagli americani negli anni Trenta). Ci vuole una banca centrale che stampi molta più moneta per rimpiazzare quella mancante, che la immetta sul mercato acquistando titoli pubblici e privati (inclusi quelli dello Stato per evitare che la crisi diventi una crisi di finanza pubblica e per tener bassi i loro rendimenti e il costo che lo Stato deve sostenere per autofinanziarsi). Ci vuole accanto ad essa un Roosevelt che non si preoccupi nell’immediato del pareggio di bilancio, ma che rilanci con coraggio l’economia supplendo alla carenza di domanda dei privati colpiti dalla crisi con domanda pubblica proveniente da investimenti. Gli Stati Uniti seguono con coraggio questa via facendo balzare nell’immediato il rapporto deficit/Pil oltre il 10% (un’eresia per i nostri rigoristi) ma rimettendo in moto l’economia (e questo farà aumentare sostanzialmente il denominatore riportando il rapporto deficit/Pil sotto il 3%). L’altra grande rivoluzione è che sempre più la Federal Reserve (la banca centrale americana) capisce che in globalizzazione c’è un «dividendo monetario» che compensa i costi sociali e che il suo obiettivo deve diventare sempre di più quello di lottare contro la disoccupazione sapendo che l’inflazione è sostanzialmente sotto controllo. Per spiegare in cosa consiste il dividendo monetario e il costo sociale della globalizzazione bisogna capire che il cambiamento più sostanziale che essa provoca è la concorrenza tra lavoratori altamente tutelati e sindacalizzati nei Paesi ad alto reddito come il nostro con l’“esercito di riserva” dei lavoratori dei Paesi poveri o emergenti disposti a lavorare per un dollaro al giorno. È un po’ come se gli italiani di dialoghi n. 1 marzo 2015


oggi fossero in concorrenza con gli italiani del dopoguerra, poveri e desiderosi di costruirsi un futuro migliore. Partita impari dal punto di vista delle motivazioni e persa quasi in partenza a parità di qualità e qualifiche del lavoratore. Questa legge di gravità della globalizzazione ne rappresenta per noi il costo sociale spingendo inevitabilmente verso il basso il costo e le tutele del lavoro. Il dividendo monetario è però il contrappeso positivo di questo elemento per noi sfavorevole. Proprio perché la globalizzazione produce una concorrenza spietata su prezzi e salari, l’inflazione diventa fenomeno molto più raro. Mentre in sostanza in un’economia chiusa come quella degli anni Settanta od Ottanta per aumentare la moneta in circolazione poteva stimolare chi offre beni e servizi a provare ad alzare i prezzi in virtù della percezione della maggiore domanda, nell’era post-globale nessuno da noi, con la minaccia competitiva dei prodotti a basso costo fatti o dal concorrente sotto casa o comunque in qualche altra parte del mondo e importati, riesce ad alzare i prezzi. Si può quindi iniettare molta più moneta sapendo che l’inflazione non rialzerà la testa, anzi è doveroso farlo per evitare il rischio opposto della deflazione e, soprattutto in periodi post crisi finanziaria, per reintegrare la liquidità distrutta dalla crisi. La banca centrale può pertanto dedicarsi maggiormente all’obiettivo della lotta alla disoccupazione sapendo che questo non sarà in contrasto con quello del controllo della dinamica dei prezzi. È esattamente quello che avviene negli Stati Uniti dove la massiccia iniezione di moneta non riesce a portare l’inflazione neppure al 2%, che è l’obiettivo cui la Bce dovrebbe avvicinarsi per statuto. Errori di strategia dell’Ue Purtroppo l’Ue prende esattamente la direzione contraria ponendo le condizioni per una fase di deflazione più stagnazione. Per noi è un po’ come essere gli Stati Uniti dopo la crisi del 1929 ma senza un Roosevelt. Il perché sia andata così è un misto di errori, diffidenze e interessi contrastanti. Errori perché la teoria del «rigore espansivo» andava in quei tempi per la maggiore. Si ipotizza che individui ultrarazionali, di fronte alla virtù di Stati che perseguono il pareggio di bilancio riducendo la spesa pubblica, inizino subito a consumare di più anticipando che un domani, quando i conti saranno a posto, ci saranno meno tasse e facendo ripartire l’economia. Una vera e propria follia anche in tempi normali, figuriamoci in un periodo di crisi in cui i cittadini, oltre ad avere vincoli di liquidità e dunque a non poter mettere in atto dialoghi n. 1 marzo 2015

LEONARDO BECCHETTI

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UNA NUOVA ROTTA PER L’EUROPA

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tale strategia anche volendo, sono terrorizzati da quanto accade e destinano ogni risorsa superflua a risparmi cautelativi addizionali. L’economia non riparte affatto, il Pil si contrae e la sostenibilità del debito pubblico (che è fatta di debito al numeratore ma di Pil al denominatore) peggiora nonostante i tagli di spesa. La Grecia pagherà alla fine con un quarto del proprio Pil questa scelleratezza, ma anche per noi le cose non vanno affatto bene (quasi dieci punti perduti). L’altro motivo dell’errore di strategia europea è che ci sono alcuni Paesi che hanno ritrosie storiche a seguire questa via (la Germania ha storicamente l’ossessione dell’iperinflazione e nella memoria il terribile periodo dell’epoca di Weimar) e neppure particolare interesse, trovandosi all’inizio della crisi in condizioni di particolare favore (equilibrio di bilancio e assenza di disoccupazione), senz’altro per meriti della qualità del loro sistema e per il vantaggio di non dover più confrontarsi con le svalutazioni competitive dei meno competitivi Paesi del sud dell’area euro. Noi ci illudiamo per un po’ di essere talmente bravi da recuperare il gap di qualità in poco tempo. Entrare nell’euro è stato un po’ come quando un cicloamatore approfitta della fuga di Pantani e si mette a ruota. Finché si viaggia in pianura, si gode del vantaggio di stare nel gruppo dei migliori senza particolari sforzi. Quando si comincia ad affrontare lo Stelvio della crisi finanziaria globale, tenere la ruota di Pantani diventa veramente dura e il Pantani del gruppo (la Germania) si dimostra tutt’altro che intenzionato ad aiutare gli altri in gruppo o a proporzionare il suo passo a quello dei compagni di fuga. La politica del «rubamazzo» Ricordo di aver parlato del dividendo monetario della globalizzazione dicendo quanto fosse urgente per l’Ue seguire la stessa strada per la prima volta nell’ottobre 2013 e usando la metafora della regata. Scrivevo in quei giorni sul blog de «La Repubblica»: «Cosa si può fare quando si è membri di un equipaggio il cui skipper ha scelto il lato sbagliato del campo di regata? Vittime della teoria perniciosa del rigore espansivo e della strategia che pensa si possa recuperare sul fronte debito/Pil partendo dal lato della riduzione del debito in un contesto economico in cui i venti di ripresa sono assai moderati? Nella Coppa America dell’economia siamo finiti con la barca dell’Ue in un lato senza vento e siamo quasi in stallo. Dall’altra parte non solo i Paesi emergenti ma anche la barca degli Stati Uniti che cammina a velocità dopdialoghi n. 1 marzo 2015


pia o tripla della nostra perché ha scelto l’altro lato di regata e una strategia che le consente di sfruttare al massimo i refoli di un venticello moderato di ripresa mondiale. Una strategia fatta di stimoli fiscali coraggiosi e di una politica monetaria audace che rimette soldi direttamente nelle tasche dei cittadini (e non indirettamente prestandoli alle banche) attraverso acquisti di titoli pubblici per 85 miliardi al mese. Grazie a questa politica gli Stati Uniti hanno gradualmente raggiunto l’obiettivo di portare il tasso di disoccupazione sotto il 7% e, accettando uno sforamento temporaneo del rapporto deficit/Pil, stanno ora progressivamente riducendo quel rapporto avendo messo le vele al vento della ripresa. La strategia dell’Ue è invece miope sia sul piano interno che su quello internazionale. Su quello internazionale la politica del “rubamazzo” è piuttosto miope. La ripresa arriverebbe diventando più competitivi nell’export attraverso una riduzione dei salari. Se tutti i Paesi del mondo seguissero la stessa strategia la domanda mondiale sarebbe così tramortita che non ci sarebbe più nessuno a cui vendere. E a livello interno la cosa non si tiene perché più della metà dell’economia dipende dal traino della domanda interna che è evidentemente depressa da questa strategia. Bisognerebbe invece fare l’esatto contrario, come da tempo auspicano i vari G8 e G20. Una strategia cooperativa e concertata di stimolo alle domande interne, più sostenuta nei Paesi che hanno maggiori attivi delle bilance commerciali e delle partite correnti. Che fare dunque come membri dell’equipaggio della barca sbagliata? Il coro sui media dei sacerdoti del rigore (nonostante le batoste di un Paese che seguendo questa strategia ha visto il rapporto debito/Pil lievitare) è assordante. Facciamo comunque i nostri compiti a bordo il meglio possibile per evitare che, agli errori dello skipper, si aggiunga la nostra negligenza. Rendiamo più efficiente il sistema Paese lavorando a fondo sugli sprechi della pubblica amministrazione, corruzione, investimenti in istruzione e banda larga, efficientamento della giustizia. Ma non pensiamo che questo basti. Bisogna avere il coraggio di ridiscutere la strategia complessiva con lo skipper. Altrimenti, man mano che lo stallo si fa più evidente la coesione dell’equipaggio sarà sempre più a rischio». Un’Europa in sette punti Avere il coraggio di ridiscutere la strategia dello skipper era quello che chiedevamo con insistenza ai nostri governanti di allora dialoghi n. 1 marzo 2015

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derisi da molti che insistevano sul fatto che era inutile e ridicolo pensare di poter battere i pugni sul tavolo in sede europea visto il nostro scarso potere contrattuale. La ridiscussione della strategia prende dunque la forma di una proposta articolata per un’Europa in sette punti che viene pubblicata sul sito blog de «La Repubblica» e discussa su «Avvenire» il 4 ottobre 2014. Nell’appello si sostiene che l’Ue si può salvare se si riesce a procedere su sette punti fondamentali: a) Un ruolo molto più attivo della Bce sul modello di quanto fatto dalle banche centrali di Stati Uniti e Regno Unito, che si spinga fino alle politiche di acquisto di titoli pubblici e privati; b) È inutile costruire un’unione monetaria se non si sfrutta e capitalizza appieno il potere della sua banca centrale che è potenzialmente superiore a quello delle banche centrali nazionali. Da questo punto di vista si dovrebbero seriamente discutere progetti come il piano “Padre” (Politically acceptable debt restructuring in the Eurozone) proposto da Wyplosz, che prevede un’operazione di ristrutturazione dei debiti dei Paesi membri, dove la Bce ne acquista la quota eccedente il 60% convertendola in titoli senza interesse, che saranno ripagati negli anni dalle risorse da signoraggio spettanti a ciascun Paese. Liberando di fatto importanti risorse oggi destinate al pagamento degli interessi e producendo un formidabile stimolo alla domanda interna di tutti i Paesi. Con vantaggi per tutti, Germania inclusa, che vedrebbe aumentare l’acquisto dei propri beni importati dagli altri Paesi membri. Piani di questo tipo potrebbero essere avviati in via sperimentale su porzioni più piccole dei debiti pubblici per verificarne gli effetti; c) A fronte di questi vantaggi macroeconomici i Paesi membri devono essere posti nelle condizioni di poter realizzare riforme di struttura sui principali assi di modernizzazione delle loro economie (infrastrutture digitali, politica industriale e di innovazione tecnologica ed organizzativa del lavoro, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione e della amministrazione della giustizia, protezione sociale per coloro che sono esclusi dal lavoro, contrasto alle disuguaglianze economiche e sociali divenute insostenibili e che compromettono la crescita dei sistemi economici). La realizzazione di queste riforme di struttura è essenziale per accrescere i benefici di cui al punto a) e b) e deve essere portata avanti seguendo gli stimoli provenienti dall’Europa, ma attraverso un processo di scelta democratica interno a ciascun Paese membro; d) Si procede nel frattempo alla costruzione di meccanismi in grado di contrastare le asimmetrie dell’area euro. In primis penadialoghi n. 1 marzo 2015


lità non solo per Paesi in deficit ma anche per Paesi in surplus con obbligo a realizzare politiche di rilancio della domanda interna per contrastare le asimmetrie. In secondo luogo un sussidio europeo di disoccupazione come forma di stabilizzatore automatico, che preveda in cambio prestazioni sociali o formazione per la rioccupazione per i beneficiari e sospensione in caso di non accettazione di posto di lavoro; e) Varo di una concreta e non solo annunciata politica fiscale Ue espansiva per realizzare su scala europea investimenti pubblici e realizzare infrastrutture fisiche e digitali nei Paesi membri, puntando ad un bilancio comunitario con risorse proprie ben oltre l’1% attuale (tra il 3% ed il 5%); f ) Un forte impegno verso l’armonizzazione fiscale e la riduzione delle forchette eccessive nelle aliquote nazionali sulle imprese che producono elusione fiscale e spostamento dei profitti alterando le stesse statistiche sulla crescita. Paradisi fiscali interni all’Unione non potranno essere più tollerati e le pratiche più aggressive andranno considerate alla stregua di aiuti di Stato (come sembra iniziare ad essere l’orientamento comunitario in alcuni recentissimi casi); g) Un forte impegno verso forme di unificazione politica e di partecipazione attiva dei cittadini europei alla nomina democratica dei propri rappresentanti nelle istituzioni europee non più esclusivamente su base nazionale, in maniera tale che il benessere di tutti i cittadini europei e non dei cittadini di ciascun Paese membro sia posto al centro del processo decisionale in sede europea. La svolta di Draghi Ancora una volta l’appello (firmato da 350 colleghi nazionali ed internazionali del calibro di Prodi, Gallino, Salvati, Cipolletta, Fitoussi) provoca l’ilarità di chi pensa che l’Ue non possa che fare l’interesse tedesco (in palese violazione del Trattato, tra l’altro come ha brillantemente argomentato il governatore della banca centrale di Cipro Orphanides). In realtà in pochissimo tempo l’Ue si muove proprio nella direzione da noi auspicata. Non per il particolare peso politico degli estensori dell’appello, ma per la ragionevolezza delle proposte e per il fatto che quando si è veramente con le spalle al muro si deve procedere. Il Qe (Quantitative easing) viene varato da Draghi (e molti dicevano che in Europa non sarebbe mai arrivato), l’ottica del rigore viene parzialmente corretta con elementi di flessibilità e un piano di politiche fiscali espansive (il nostro punto e) viene varato ancorché del tutto insufficiente alla necessità. Progressi impordialoghi n. 1 marzo 2015

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tanti si registrano proprio in questi ultimissimi tempi sul fronte dell’armonizzazione fiscale (punto f) con le direttive sul registro pubblico delle imprese e della contabilità Paese-per-Paese nel settore estrattivo e poi in quello bancario (fondamentali per la trasparenza). Gli Stati membri capiscono che è impossibile tenere assieme un’eurozona con paradisi fiscali al proprio interno e con Stati che si fanno concorrenza spietata sul fisco e procedono speditamente su questo punto. Quanto al Qe, il suo solo annuncio provoca il miracolo di un euro molto più debole e favorevole all’export e un crollo del costo del finanziamento del debito pubblico per un Paese come il nostro, dove è possibile raccogliere denaro sul mercato all’1,6% nonostante i titoli del nostro debito abbiano la tripla B. Per l’Italia si apre uno scenario molto più favorevole. L’euro debole e il concomitante crollo del prezzo del greggio (dai massimi di 120 dollari a sotto i 50 dollari) sono quasi un punto in più di crescita e, se il costo del finanziamento del debito rimane a tassi così bassi, si pongono le condizioni per la riduzione del rapporto debito/Pil che fino a qualche mese fa (in deflazione, stagnazione e con alti tassi pagati sui mercati) sembrava proibitivo. A chi scrive al momento non è dato sapere fin dove arriverà il corso di questi eventi. Sappiamo soltanto che da passeggeri del Titanic abbiamo gridato con tutte le nostre energie del rischio di collisione contro l’iceberg mentre a bordo suonava l’orchestrina. La manovra per evitare l’ostacolo è stata avviata.

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Il naturalismo in questione A CURA DI ANDREA AGUTI

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hi segue il dibattito culturale odierno, e in particolare quello filosofico e scientifico, si sarà senz’altro imbattuto più di una volta nel termine «naturalismo». Esso non indica genericamente lo studio della natura (un significato che talora viene veicolato da un termine affine, quello di «naturalista», con cui si è soliti ancora indicare uno studioso della natura), né uno stile di vita che proclama il ritorno alla natura o che aspira a vivere in sintonia con essa (piuttosto in questo senso si parla di «naturismo»), né una semplice opzione teorica che privilegia il concetto di natura rispetto a altri (per esempio rispetto a quello di «cultura»), bensì uno specifico orientamento epistemologico che guida la ricerca scientifica in molti dei suoi ambiti, e al tempo stesso una vera e propria visione del mondo. Semplificando si può dire che con naturalismo si indica quella concezione che considera la natura come la totalità di ciò che è, e ritiene che non esistano entità che stanno sopra la natura ovvero entità soprannaturali. Si distingue abitualmente tra un naturalismo metodologico, che appartiene al metodo della conoscenza scientifica e non esclude di principio cause soprannaturali di eventi naturali, pur non considerandole di pertinenza dell’indagine scientifica, e un naturalismo metafisico che invece esclude di principio cause soprannaturali e diviene appunto una vera e propria visione del mondo di tipo monistico. Molto spesso il naturalismo è usato come sinonimo di «materialismo», «riduzionismo», «scientismo» o ancora di «secolarismo» e «ateismo», anche se non sempre e non necessariamente il naturalismo si identifica con queste posizioni teoriche. La rilevanza del dibattito sul naturalismo è oggi per lo più dovuta al tentativo, presente in molti settori della ricerca scientifica,

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in particolare nelle neuroscienze e nelle scienze cognitive, di “naturalizzare” l’essere umano, cioè di scoprire cause naturali di forme simboliche o attività che sono tipiche dell’essere umano, come la religione o la morale. Per esempio, in anni recenti, la critica della religione mossa dai cosiddetti «nuovi atei» (R. Dawkins, D.C. Dennett) è stata poggiata prevalentemente su argomenti naturalistici, ma in generale argomenti di questo tipo sono presenti in tutte quelle impostazioni teoriche che, quasi sempre muovendo dalla teoria dell’evoluzione darwiniana, non considerano l’uomo come qualitativamente differente dagli altri esseri viventi. Molte questioni fondamentali sono oggi connesse alla discussione sul naturalismo: se il ricorso a Dio per comprendere il mondo e l’uomo sia ancora plausibile o sia divenuto inutile o ridondante, se abbia ancora un senso parlare della presenza nell’uomo di una sostanza spirituale (anima o mente), se l’uomo sia libero o meno, se il concetto di «natura umana» sia superato e, in caso contrario, quale sia il suo significato, se la religione e la morale siano fenomeni originari e peculiari dell’essere umano o assolvano semplicemente a funzioni di adattamento all’ambiente e di sopravvivenza all’interno di un gruppo sociale, se esista o meno una capacità della ragione umana a cogliere la verità. Il presente Dossier di Dialoghi cerca innanzitutto di comprendere quella che è la sfida che il naturalismo pone alla fede cristiana e alla cultura umanistica con l’auspicio di offrire un utile strumento per approfondire alcune delle questioni menzionate sopra, ricorrendo all’aiuto di qualificati studiosi. Mentre infatti in ambito anglo-americano esiste già da tempo un confronto critico tra le istanze del naturalismo e quelle del teismo cristiano1, in Italia quest’ultimo è quasi del tutto assente. dialoghi n. 1 marzo 2015

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Nel contributo di Giacomo Canobbio si raccoglie la sfida del naturalismo alla teologia cristiana riconoscendo, da una parte, la necessità che la teologia si apra maggiormente alla comprensione scientifica della realtà, evitando così una chiusura entro i confini della teologia biblica, ma dall’altra osservando che proprio il dato biblico può offrire un importante contributo nel riconoscere la complessità dell’essere umano e quindi nel permettere di evitare una prospettiva riduzionistica quale quella che spesso emerge dal naturalismo contemporaneo. Il saggio di Antonio Da Re riflette sul tentativo di naturalizzazione della morale da parte delle neuroscienze, un tema che oggi riscuote una particolare attenzione e presenta varianti più o meno significative. Da Re mostra la continuità di questo tentativo con altre forme di naturalizzazione della morale che si sono manifestate già nel XIX secolo, dal marxismo al darwinismo, e ne opera una critica basata sulla differenza di prospettive tra lo studio della morale (in prima persona) e quello delle scienze naturali (in terza persona). Il contributo di Andrea Lavazza si concentra sul problema della libertà del volere. Si tratta di un problema classico che riceve una rinnovata attenzione proprio a partire dalla prospettiva delle neuroscienze contemporanee che sembrano piuttosto favorire una visione deterministica dell’uomo. Lavazza ricostruisce con precisione alcuni aspetti del dibattito contemporaneo, mettendo in luce la complessità delle posizioni in gioco e al tempo stesso la centralità di questo problema in ordine al riconoscimento della responsabilità morale e giuridica dell’uomo. L’intervento di Luca Grion si concentra invece sul connubio tra naturalismo e post-umano, un termine che designa un futuro stato di completa ibridazione dell’uomo con la tecnologia che, si dialoghi n. 1 marzo 2015


suppone, consentirà una trasformazione radicale della nozione stessa di natura umana. Senza ignorare le opportunità che questo processo può offrire, Grion richiama i molti elementi critici di questo connubio che presenta una comprensione riduttiva della natura umana, seppur sottesa a una che invece sembra metterne in luce le potenzialità inesplorate. Il saggio di Carlo Cirotto affronta il naturalismo dal punto di vista dello scienziato e nella fattispecie del biologo, da un lato contribuendo a definire in modo più preciso il rapporto tra naturalismo e scienza e dall’altro operando una critica della posizione di due significativi rappresentanti del naturalismo contemporaneo nell’ambito delle scienze biologiche, Jacques Monod e Richard Dawkins. Chiudono il Dossier due interviste: la prima è a Mario De Caro, filosofo, fra i maggiori studiosi del naturalismo sia a livello nazionale che internazionale. Gli abbiamo chiesto di farci una panoramica sulle forme attuali del naturalismo e di rispondere ad alcune questioni più precise. La seconda è a Cataldo Zuccaro, teologo, al quale abbiamo chiesto di legare in modo più puntuale il tema del naturalismo al concetto di natura, un concetto che ha svolto e svolge tutt’oggi un ruolo significativo nell’ambito della teologia morale cattolica. Andrea Aguti Nota 1 Cfr., soltanto a titolo di esempio, W. L. Craig, J.P. Moreland (eds.), Naturalism. A Critical Analysis, Routledge, London-New York 2001 e Ch. Taliaferro, S.Goetz, Naturalism, Eerdmans, Grand Rapids MI, 2008.

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Se si vuol dire l’umano, nessuna forma di sapere è autosufficiente. Anche la teologia può sedersi alla tavola dei saperi e dire il suo parere, senza complesso di inferiorità. Anzi, con una pretesa: salvaguardare l’originalità singolare dell’umano nell’universo, come il Salmo 8 ricorda. Se all’umano si nega l’apertura alla trascendenza, si corre il rischio di lasciarlo in mano alla tecnica, che è meno innocente di quanto a volte si voglia far credere.

La sfida del naturalismo alla teologia di Giacomo Canobbio

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a teologia ha sempre dovuto fare i conti con gli orientamenti culturali: da essi ha mutuato linguaggi mediante i quali, una volta transignificati, cercava di illustrare e difendere il Vangelo e con esso la visione della persona umana in esso proposta. Ciò era possibile perché, se non c’era condivisione totale delle visioni, c’era almeno la condivisione di processi: si riconosceva da (quasi) tutti che nella Giacomo Canobbio ricerca del fondamento della realtà non ci si è delegato vescovile per la Pastorale della potesse limitare alla constatazione; si doveva cultura e direttore dell’Accademia cattolica compiere un’operazione di trascendimento di Brescia, è professore di Teologia rispetto al fattuale. Oggi sembra essere messo sistematica presso la Facoltà Teologica radicalmente in discussione il processo stesso dell’Italia settentrionale. Tra le sue ultime del conoscere che la tradizione filosofico-teopubblicazioni, ricordiamo: Nessuna salvezza logica ha praticato nel corso dei secoli; o fuori della Chiesa? Storia e senso di un almeno si mette in discussione la possibilità controverso principio teologico, Queriniana, della ricerca di un fondamento altro dei fenoBrescia 2009; Il destino dell’anima. meni: tutto sarebbe spiegabile, ora o in futuElementi per una teologia, Morcelliana, ro, mediante altri fenomeni. In tal senso le Brescia 2009. Nel 2012 ha curato Dio, questioni circa Dio, l’anima, il destino l’anima, la morte. Percorsi per pensare, umano, sembra debbano essere relegate nelLa Scuola, Brescia 2012. Dirige la collana l’epoca dell’infanzia dell’umanità. Pare che «Novecento teologico» della Morcelliana e, l’ombra di Auguste Comte copra sempre di con A. Maffeis, la collana «Nuovo corso di più la mentalità comune, segnata dal ritorno Teologia sistematica» della Queriniana. del naturalismo.

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Sulla «inutilità» della teologia Come scriveva il fisico Carlo Rovelli su Il Sole 24 ore del 17 dicembre 2014, il naturalismo può essere caratterizzato «come l’atteggiamento filosofico di chi ritiene che tutti i fatti che esistono possano essere indagati dalle scienze naturali, e noi stessi siamo parte della natura. Non è naturalista chi assume realtà trascendenti che possiamo conoscere solo attraverso forme non indagabili dal pensiero scientifico». Rovelli non nega la possibilità che si possa indagare la realtà anche con altre metodiche, ma presentando l’opera di Huw Price – a suo dire «uno dei più brillanti filosofi contemporanei» – Naturalism without mirrors, denuncia la refrattarietà che nel nostro paese si manterrebbe nei confronti del naturalismo. Tale refrattarietà si manifesterebbe in molteplici forme: «La nostra scuola è strutturata dall’idealismo crociano, i nostri filosofi adorano Heidegger, la nostra stampa e televisione, con poche eccezioni, fanno la peggior divulgazione scientifica del pianeta – si pensi a «Voyager» –, il nostro Parlamento non eccelle per cultura scientifica. Siamo l’unico Paese dove scuole e tribunali espongono simboli religiosi, e l’unico, oltre forse all’Iran, dove i telegiornali raccontano ogni giorno cosa ha detto il leader religioso locale». Il lamento del fisico, in verità piuttosto frettoloso, mette in evidenza un problema di carattere gnoseologico: come leggere la realtà, in particolare quella umana? Limitarsi alla constatazione del fenomeno o limitarsi a cercarne le cause in altri fenomeni ugualmente constatabili? Pur riconoscendo che gli umani appartengono alla natura, si può parlare di eccezione umana? E questa, nel caso la si ammetta, deve essere indagata con i modelli «scientifici» utilizzati per comprendere tutti gli altri fenomeni naturali? La questione, prima che riguardare la presenza di Dio nella realtà e quindi considerare questa come creazione, riguarda l’eccezione umana. Alcuni anni fa appariva in Francia un’opera provocatoria al riguardo. Jean Marie Schaeffer nel ponderoso volume La fin de l’exception humaine (Gallimard, Paris 2008) cercava di smontare la tesi difesa da diverse forme di sapere: la filosofia, le scienze sociali e le scienze umane. L’opera proponeva di studiare l’essere umano uscendo dalla scalata ontologica (escalade ontologique) tipica sia del cartesianesimo dualista sia del riduzionismo materialista, che cercano, pur con esiti diversi, di trovare un fondamento ontologico ai fenomeni, e avanzava la necessità di una épistémé mésocognitive, che rinuncia a ogni tentativo di fondare ontologicamente l’identità umana e considera l’essere umano a un livello mésodialoghi n. 1 marzo 2015

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cosmique, poiché l’umanità è una forma di vita tra le altre del pianeta Terra. In questo modo l’autore riteneva di proporre un naturalismo non riduzionista; egli intendeva infatti il naturalismo come «un principio mesocognitivo che guida lo studio della questione dell’identità umana iscrivendola nell’evoluzione delle forme di vita biologica sulla Terra» (p. 389). La proposta del sociologo della cultura non si aggregava al coro dei riduzionisti, che pure realizzerebbero la «scalata ontologica» dichiarando che tutto l’esistente trova la sua spiegazione mediante il sapere «scientifico», passando così dal piano empirico a quello «filosofico» (non a caso si parla oggi, per es., di neurofilosofie). Tuttavia, nel tentativo di raggiungere una forma di unità dei saperi, appiattiva il fenomeno umano sul livello di tutti gli altri fenomeni: anche gli umani sarebbero da studiare come tutti gli altri fenomeni senza alcuna «scalata ontologica». Non è difficile vedere che la proposta va a scapito del sapere della trascendenza. Dal fenomeno al fondamento? La riflessione dei secoli passati, se si prescinde dalle forme un po’ grossières di materialismo, ha ritenuto imprescindibile il passaggio dal fenomeno al fondamento: questo era cercato, paradossalmente, in una realtà di «natura» diversa alla quale si risaliva al fine di giustificare i fenomeni. Quanto detto vale per la realtà esistente in generale. Nel linguaggio religioso al principio di tutto si poneva il Dio creatore, in quello filosofico la «causa incausata», l’arché. Comunque si denominasse il fondamento del tutto, se ne rimarcava la dissomiglianza pur riconoscendo una certa somiglianza applicando il principio dell’analogia. Vale altresì per il fenomeno umano, della cui singolarità all’interno dell’esistente si doveva trovare spiegazione. Il raffronto tra gli umani e gli altri viventi evidenziava che gli elementi distintivi dei primi (conoscere, pensare, parlare, volere, amare…) non potevano essere spiegati con il semplice rimando all’azione creatrice di Dio, comune a tutta la realtà; occorreva trovare per essi un fondamento diverso; si rimandava perciò a un principio spirituale, abitualmente chiamato «anima», la cui natura appariva difficile da precisare, ma comunque ritenuta altra rispetto a quella del corpo, del quale - nella tradizione risalente a san Tommaso – si diceva essere l’unica «forma sostanziale». Stante poi il rapporto animacorpo, si pensava spettasse all’anima – principio spirituale – presiedere a tutti i processi e le operazioni della persona umana. dialoghi n. 1 marzo 2015


La situazione attuale si propone come radicalmente cambiata: il fondamento anche di processi che anticamente venivano considerati di natura «spirituale» (pensare, volere, pregare, amare) sarebbe misurabile come tutte le cose e quindi di natura semplicemente neuronale. La questione dell’anima – comunque si voglia chiamare il principio distintivo degli umani – si presenta pertanto come luogo emblematico del «conflitto delle interpretazioni» dei fenomeni. Infatti negli ultimi decenni, senza giungere a negare che gli esseri umani presentino delle particolarità rispetto a tutti gli altri viventi, si tende a spiegare anche i processi «spirituali» come frutto di dinamiche biologiche. Se si studia l’essere umano, rinunciando alla «scalata ontologica», si dovrebbe constatare che esso è anzitutto un vivente tra i viventi e non si potrà applicare a lui una metodica epistemica diversa: tutte le manifestazioni dell’umano possono/devono trovare spiegazione sufficiente nel dato primario che appare all’osservatore, quello biologico. I progressi delle neuroscienze peraltro fanno pensare che quanto oggi non è ancora adeguatamente conosciuto lo sarà domani. Si dovrebbe pertanto dire addio a ogni ricerca di giustificazioni «spirituali» ai fenomeni finora ritenuti «spirituali»: se i processi «spirituali» sono possibili grazie al funzionamento del cervello, non si vede perché non si debba ascrivere al medesimo cervello l’origine di essi. Del resto gli esperimenti condotti su “pazienti”, finalizzati a verificare la reazione degli stessi di fronte a fenomeni provocati, dimostrerebbero con buona probabilità che tutti gli impulsi «spirituali» sono in con- La riflessione dei secoli nessione con processi cerebrali. Se ne passati, se si prescinde dalle può ricavare che amore, odio, opi- forme un po’ rozze di nioni diverse sulle questioni, senso materialismo, ha ritenuto religioso, preghiera…, avendo una inderogabile il passaggio dal base biologica, sono provocati da fenomeno al fondamento: essa, e cercare altrove, in un princi- questo era cercato, pio spirituale, l’origine di questi sen- paradossalmente, in una timenti/azioni sarebbe non tenere realtà di «natura» diversa conto di un dato di fatto ineccepibi- alla quale si risaliva al fine le: se il cervello smette di funzionare di giustificare i fenomeni. tali sentimenti/azioni scompaiono. Sintomatica al riguardo appare l’opera di V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin (Codice Edizioni, Torino 2008), che analizza come si producano le credenze, comdialoghi n. 1 marzo 2015

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presa quella di un principio creatore e conclude a considerare – pur ipoteticamente – le religioni come «conseguenza collaterale dei meccanismi innati che generano le credenze e che devono la loro comparsa […] a funzioni adattative connesse alla distinzione fra animato e inanimato, al riconoscimento di entità portatrici di intenzioni, alla comprensione e previsione dei comportamenti dei propri simili, all’attribuzione di un senso causale e intenzionale a fenomeni naturali inspiegabili o dolorosi, all’inganno volontario o all’autoinganno. […] Le religioni sarebbero quindi attività mentali sorte come exaptation di successo […] del nostro “sistema iperattivo di riconoscimento di agenti” (Justin Barret)» (p. 175). Anche la coscienza sarebbe «uno stato della mente, un rispecchiamento più o meno fedele di eventi interni, un affioramento di processi nervosi subsimbolici inconsci caratterizzato da una specifica colorazione emotiva, non un centro di produzione di pensieri stessi e ancora meno di atti di volontà» (E. Boncinelli, Quel che resta dell’anima, Rizzoli, Milano 2012, p. 137). Coerentemente, perfino il tratto emblematico degli umani, tanto celebrato dal pensiero moderno, la libertà, è minato alla base. Se di singolarità umana si può parlare, la si deve considerare soltanto neuronale. In tal senso il rinascente naturalismo segnerebbe anche la fine dell’antropocentrismo moderno. Si diceva sopra che il problema è anzitutto di carattere gnoseologico. Se la teologia vuole accogliere la sfida che viene dal naturalismo, le si impone la necessità di non eludere il fenomeno, ma nello stesso tempo di esporsi a cercarne il fondamento usando gli “strumenti” che le sono indispensabili per svolgere il suo compito nel novero dei saperi, pur nella consapevolezza che il naturalismo la relega volentieri nelle forme di sapere prescientifiche e quindi nei miti o nelle favole, comunque in produzioni neuronali di mondi incantati. La sfida alla teologia La provocazione che viene alla teologia soprattutto dalle neuroscienze non può essere elusa: se si ritiene di poter spiegare tutto ciò che distingue gli umani rispetto agli altri animali attraverso la maggior complessità del sistema nervoso dei primi, la teologia non può con sufficienza dichiarare che essa si pone su un altro piano, quello della rivelazione. Il naturalismo suppone, infatti, di destituire di valore anche tutto ciò che rimanda a una rivelazione: come già si diceva, anche le esperienze religiose degli umani sarebbero da attribuire a funzioni particolari del cervello, dialoghi n. 1 marzo 2015


che sarebbe portato a credere cose che non trovano riscontro nella scienza. Se la teologia vuole offrire un servizio critico alla cultura, che via dovrà intraprendere? La risposta dipende da cosa si intenda per teologia. Va riconosciuto che negli ultimi decenni con l’intento di uscire dalle secche di una teologia manualistica, ci si è affidati in buona parte alla Bibbia anche per realizzare il dettato di DV 24 secondo cui la Scrittura dovrebbe essere l’anima della teologia. Nulla da eccepire sulla riscoperta della Bibbia nel teologare: il libro della Rivelazione di Dio non può che essere la fonte per la riflessione critica sul mondo oltre che su Dio. Va però notato che una teologia di matrice biblica vale in contesto di condivisione di un orizzonte di trascendenza e quindi intrareligioso. Non vale più in contesto di dichiarazione di insensatezza di questo. Peraltro non si può non tenere conto che il rinascente naturalismo connesso con una concezione evolutiva non solo del mondo, ma pure del pensiero, tende a ritenere che la Bibbia trasmetta una visione mitologica del mondo e degli umani. Sicché l’autorità della Bibbia, che in teologia è somma, diventa nulla per il pensiero scientifico. Da qui nascono le concezioni secondo le quali sapere scientifico e sapere teologico, nella migliore delle ipotesi, sono come l’elefante e la balena che forse si guardano ammirati per la rispettiva grandezza, ma non riescono a comunicare tra loro. Fuori metafora, procedono ciascuno nel proprio campo convinti della propria verità, senza però dialogare tra loro. Va certamente messo in conto che il dialogo non è facile, soprattutto dove si esclude la plausibilità di un sapere che pretenda trovare la radice trascendente dei fenomeni. Appare tuttavia imprescindibile trovare un fenomeno «umano» che permetta di dialogare con il sapere scientifico e Il rinascente naturalismo almeno provocarlo a interrogarsi sulla pretesa connesso con una concezione di dire l’ultima parola. evolutiva non solo del mondo, Per farlo occorre partire dalla convinzione ma pure del pensiero, tende generale che si trova in un testo conciliare: a ritenere che la Bibbia «L’esperienza dei secoli passati, il progresso trasmetta una visione della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme mitologica del mondo di cultura umana, attraverso cui si svela più umani. appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (GS 44). Ovvio che non si può essere ingenui. Lo stesso documento conciliare mette in guardia dall’ingenuità quando dialoghi n. 1 marzo 2015

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scrive: «Certo, l’odierno progresso delle scienze e della tecnica, che in forza del loro metodo non possono penetrare nelle intime ragioni delle cose, può favorire un certo fenomenismo e agnosticismo, quando il metodo di investigazione di cui fanno uso queste scienze viene a torto innalzato a norma suprema di ricerca della verità totale. Anzi, vi è il pericolo che l’uomo, fidandosi troppo delle odierne scoperte, pensi di bastare a se stesso e non cerchi più valori superiori» (GS 57). Ma poi aggiunge: «Questi fatti deplorevoli però non scaturiscono necessariamente dalla odierna cultura, né debbono indurci nella tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi. Fra questi si annoverano: il gusto per le scienze e la rigorosa fedeltà al vero nella indagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppi tecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscienza sempre più viva della responsabilità degli esperti nell’aiutare e proteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni di vita per tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazione della responsabilità personale o per la povertà culturale. Tutti questi valori possono essere in qualche modo una preparazione a ricevere l’annunzio del Vangelo; preparazione che potrà essere portata a compimento dalla divina carità di colui che è venuto a salvare il mondo» (ibid.). Ciò equivale a riconoscere che il sapere scientifico in quanto tale è alla ricerca della verità del fenomeno umano. E si tratta di una verità che non è mai definitiva. Facendo leva su questa convinzione metodologica, si potrebbe aiutare a capire che ciò non vale solo in prospettiva diacronica, ma pure in prospettiva “ontologica”. Il sapere scientifico procede secondo un graduale e mai concluso avvicinamento alla verità dell’umano e del suo mondo. Se l’oggetto del sapere è l’umano Per cogliere il senso di questa affermazione basterebbe prestare attenzione a due fattori: la storia della biologia e della neurologia, con tutti i saperi connessi, attesta che si continua a fare progressi; sull’umano sono molte le forme di sapere scientifico che si esercitano e tutte lavorano con la convinzione di poter fare nuove scoperte, oltre che servirsi di modelli diversi (si pensi, per es., alla psicologia e ai diversi orientamenti di essa). Va messo in conto quanto si diceva sopra, cioè che le neuroscienze, peraltro meno omogenee di quanto la divulgazione tenda a far pensare, “pretendono” a volte di trarre conclusioni apodittiche a partire da alcuni esperimenti, non tanto in riferimento a possibili ulteriori dialoghi n. 1 marzo 2015


spiegazioni neurologiche, quanto in riferimento all’impossibilità di attribuire a un principio di altra natura alcuni fenomeni tipici degli umani (pensare, pregare, parlare…). Prima di atteggiarsi a sapere ultimo, la teologia potrebbe ricordarsi che i risultati dei saperi scientifici non sono da ignorare, sono anzi da tenere in conto perché descrivono il fenomeno di fronte al quale anche il Salmista esprime stupore, ma nella consapevolezza che lo stupore è solo l’avvio del sapere e questo avviene sempre per accumulo e quindi si innesta su una tradizione che è recezione creativa di altro sapere. Se l’oggetto del sapere è l’umano, nella comprensione di esso si dovrà prestare attenzione alla complessità che lo connota e non si potranno a priori inghiottire tutti gli aspetti in un unico modello. Indiscutibile che il fenomeno umano non esiste senza un substrato bio-fisiologico che lo accomuna agli altri animali o più in generale alla «natura». Ma la differenza con questi può essere attribuita solo a una maggior complessità del cervello umano? Pur ammettendo questo, si potrà sostenere che quando gli umani si aprono alla trascendenza non fanno altro che subire processi neuronali? E perché questi provocano un orientamento alla trascendenza? Solo per un condizionamento culturale? Se così fosse perché si è prodotto? Solo perché gli umani non riescono a stare nel mondo percependolo come limitato? E su quale base lo percepiscono come limitato e quindi si orientano all’illimitato? Indiscutibile che anche questi interrogativi possono essere posti perché il cervello con tutte le connessioni che lo fanno vivere funziona. Ma questo non significa che sia il funzionamento del cervello a pro- Prima di atteggiarsi a sapere durre gli interrogativi. ultimo, la teologia potrebbe Sulla scorta degli interrogativi richiamati la ricordarsi che i risultati dei teologia può offrire la sua visione originale del saperi scientifici non sono da fenomeno umano senza dimenticare quanto i ignorare, sono anzi da tenere saperi scientifici permettono di raggiungere. E in conto perché descrivono il lo può fare attingendo alla descrizione dell’u- fenomeno di fronte al quale mano che la Bibbia presenta. Va precisato che anche il Salmista esprime ci si riferisce alla Bibbia non per la sua autorità stupore. per la teologia, bensì perché descrive l’esperienza dell’umano che trova riscontro anche oggi. I termini che abitualmente vengo usati, nefesh e basar, non pretendono certamente di descrivere i processi biologici degli umani; possono tuttavia indicare esperienze che ogni essere umano vive: da una parte la protensione con tutta la propria persona verso l’infinito, dialoghi n. 1 marzo 2015

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dalla Bibbia identificato con Dio, dall’altra la constatazione della propria fragilità e quindi mortalità, dalla quale solo la relazione con Dio può ultimamente strappare. Si tratta di esperienze da interpretare, tenendo conto però che non si tratta di esperienze simmetriche: in faccia alla fragilità si erge la protensione, che diventa frequentemente invocazione, la quale si connota come germinale vittoria sulla fragilità. Se dette esperienze fossero frutto del cervello e basta, ci si dovrebbe domandare perché in alcune persone si dia esplicita invocazione e in altre no. Si potrebbe rispondere che non tutti i cervelli sono uguali. Ineccepibile! Se però si conclude in tal modo, si dovrebbe altresì concludere che i risultati degli esperimenti che attesterebbero la spiegazione biologica del pensiero – e della libertà – non potrebbero essere universalizzati: sarebbero da riconoscere solo nelle persone sottoposte a quegli esperimenti. E delle altre non si potrebbe dire alcunché, appunto perché di esse non si conosce il funzionamento del particolare cervello. Cadrebbe così la pretesa universalizzante della scienza, la quale procede inevitabilmente con parametri statistici, i quali devono ammettere margini di variazione. Se la base sulla quale ci si confronta è l’esperienza, pare indiscutibile che ogni persona umana percepisca una tensione tra l’autotrascendimento, comunque lo si intenda, e la difficoltà a realizzarlo. Certo, benché in misura minore, tale tensione si riscontra anche negli animali, ma pare che la diversa misura denoti un salto «ontologico» anche solo perché gli umani sono capaci di dare parola a tale tensione. Solo perché il loro cervello è più sviluppato? Ma perché non tutti gli umani danno parola allo stesso modo alla tensione? Dipende dalla cultura? E perché persone che vivono nella medesima cultura e hanno lo stesso livello di scolarizzazione danno parola in modo diverso? Per le relazioni diverse che hanno intessuto? E perché hanno intessuto diverse relazioni? Solo perché si sono trovate in circostanze diverse? Il grappolo di interrogativi ha solo lo scopo di mostrare che il riduzionismo naturalistico non è in grado di spiegare il fenomeno dell’umano nella sua complessità. Se si vuol dire l’umano, nessuna forma di sapere è sufficiente. Anche la teologia può sedersi alla tavola dei saperi e dire il suo parere, senza complesso di inferiorità. Anzi, con una pretesa: salvaguardare l’originalità singolare dell’umano nell’universo, come il Salmo 8 ricorda. Se all’umano si nega l’apertura alla trascendenza, si corre il rischio di lasciarlo in mano alla tecnica, che è meno innocente di quanto a volte si voglia far credere. dialoghi n. 1 marzo 2015


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Il senso dell’umano richiede, in qualche modo, che la libertà del farsi e dello scegliersi si accompagni al riconoscimento di ciò che è dato e indeciso. Voltare le spalle al discorso sul senso in nome di una libertà ancora più ampia è certo possibile, è bene, però, che si sia consapevoli del prezzo che tale scelta comporta.

Naturalismo e postumano di Luca Grion

uomo è morto, ma non è tempo di tristezza, né di funerali. Come la metamorfosi del bruco dischiude la possibilità al volo della farfalla, così il congedo dall’umano apre all’evento affascinante e grandioso del postumano. Le tribolazioni del tempo presente, con le sue promesse e le sue angosce, sono dunque espressione di un travaglio verso il meglio; una stagione potenzialmente rischiosa, come tutte le fasi di passaggio, ma più ancora una sfida affascinante che richiede d’essere affrontata con speranza e ottimismo. Questo, in estrema sintesi, è il credo del movimento postumanista; un arcipelago variegato Luca Grion di sigle e di autori accomunati dalla fiducia nel è docente di Filosofia Morale presso valore emancipatorio della tecnica e nella pos- l’Università degli Studi di Udine. sibilità, grazie ad essa, di poter superare i limiti È presidente dell’Istituto Jacques Maritain della condizione umana, per incamminarsi di Trieste e del Centro Studi Jacques verso una stagione nuova, nella quale la libertà, Maritain di Portogruaro (VE). Dirige inoltre l’intelligenza e la creatività potranno dispiegar- la Scuola di Politica ed Etica Sociale – SPES. si illimitatamente. Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo, In questa sede non sarà certo possibile una per le Edizioni Meudon: La fertilità del disamina dettagliata dei protagonisti di questa denaro. Etica e finanza: un matrimonio sfida, ma i luoghi dove poter approfondire la impossibile? (a cura di, 2014); Persi nel loro conoscenza non mancano di certo1; ciò che labirinto. Etica e antropologia alla prova del mi propongo è, più semplicemente, far capire naturalismo (2012); Chi dice io? Riflessioni le ragioni che spingono i fautori dell’uomo sull’identità personale (a cura di, 2012).

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nuovo a confidare sulla bontà di questo progetto. Per farlo dovrò però tessere assieme due fili: quello del naturalismo e quello del postumanesimo. Iniziamo dal primo.

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Naturalismo e anti-essenzialismo Oggi il panorama scientifico-culturale è caratterizzato da un marcato naturalismo filosofico, termine, quest’ultimo, che rimanda all’idea secondo la quale non esista null’altro che non sia riconducibile alla natura fisica, con le sue forze e le sue leggi2. Tale persuasione di fondo impatta sul modo con cui l’uomo pensa se stesso: non tanto, come ovvio, perché lo considera parte di quella natura in cui è immerso, ma perché lo riduce a null’altro che natura. Da questo punto di vista, infatti, reale è solo ciò che è riconducibile alla dimensione empirica e descrivibile attraverso le scienze della natura. Tutto il resto, tutto ciò che rivendica un’esistenza sovra-naturale – un tempo avremmo detto trascendente – è, per definizione, irreale. Pertanto, tutto ciò che, almeno in linea di principio, non è riconducibile (riducibile) alla dimensione fisica dovrebbe venir bandito dal novero delle cose reali. E questo è certamente un credo assai diffuso oggigiorno. Con efficacia Massimo Reichlin ha scritto che una «delle parole d’ordine della filosofia contemporanea è “naturalizzazione”», specificando che sovente «con tale espressione ci si riferisce a posizioni definibili come “riduzioniste”, in quanto mirano a ridescrivere concetti tradizionalmente ascritti ad una sfera di carattere superiore attraverso una concettualità di livello inferiore; nel caso del soggetto umano, o dell’io, più che a tesi riduzioniOggi il panorama scientifico- ste, la ricerca filosofica contemporanea sembra culturale è caratterizzato approdare ad un vero e proprio eliminativismo»3. da un marcato naturalismo Ad essere eliminate dal linguaggio scientificafilosofico, termine, mente fondato sarebbero nozioni quali «anima», quest’ultimo, che rimanda «coscienza», «spirito» e, finanche, «persona». all’idea secondo la quale Tirando le fila di queste prime considerazioni non esista null’altro possiamo dunque rilevare come la filosofia che non sia riconducibile naturalistica sia, in radice, una filosofia matealla natura fisica, rialistica (nella misura in cui considera reale con le sue forze e le sue leggi. solo ciò che è misurabile e quantificabile), monistica (poiché non accetta che vi sia una dimensione spirituale radicalmente “altra” rispetto alla dimensione empirica) e tendenzialmente meccanicistica (in quanto ritiene che ogni fatto d’esperienza debba essere ricondotto all’azione delle sue cause antecedenti)4. dialoghi n. 1 marzo 2015


Non solo. Poiché l’evoluzione continua delle forme rappresenta la legge fondamentale dei viventi, anche l’uomo non può fare eccezione e il suo essere natura si traduce nel suo essere in costante divenire. Quando si parla di «morte dell’uomo», in fondo, si intende proprio questo: la fine di una concezione statica dell’umano, secondo la quale ciò che noi chiamiamo «uomo» sarebbe qualcosa di essenzialmente immutabile. Tra gli artefici di questa autentica rivoluzione antropologica vi è sicuramente Charles Darwin, il quale ha messo in crisi la presunta eccezionalità dell’essere umano rispetto al resto dei viventi: l’uomo, a suo giudizio, non può rivendicare nessuna dignità particolare, nessun diritto esclusivo. Nel contesto della prospettiva evoluzionistica l’uomo è concepito infatti come una tappa transitoria e fortuita del processo evolutivo. Una realtà in transizione, che deve riconoscere il suo essere null’altro che natura, valorizzando l’intimità che lo lega al resto dei viventi e, al tempo stesso, accettando l’idea di non occupare il centro della scena. Postumanesimo e elogio della libertà Dopo esserci posti oltre l’uomo, la seconda coordinata del nostro ragionamento ci conduce ora oltre l’umanesimo, ovvero al di là di un certo modo di considerare il rapporto con la dimensione valoriale e politica. L’uomo è cultura, oltre che natura, e sotto questo secondo profilo, secondo i fautori della prospettiva postumanistica, l’umanesimo esprime il corrispettivo culturale di quanto l’uomo rappresenta sotto il profilo naturalistico: una indebita fissazione di ciò che, in verità, è mutevole e cangiante; un irrigidimento del medesimo che nega e impoverisce la ricchezza delle differenze. Da questo punto di vista, l’umanesimo prima e l’illuminismo poi esprimono l’imporsi di un L’uomo è cultura, oltre che universale astratto sul particolare reale; la dit- natura, e sotto questo secondo tatura dell’identico sulla varietà vitale dei mol- profilo, secondo i fautori della teplici. Un atteggiamento che, secondo la filo- prospettiva postumanistica, sofa Rosi Braidotti, in politica si traduce nel l’umanesimo esprime il comportamento violento e intollerante che corrispettivo culturale di ispira le ambizioni di quanti, con la forza, quanto l’uomo rappresenta impongono i propri criteri e le proprie norme. sotto il profilo naturalistico. Recentemente proprio Rosi Braidotti è entrata da protagonista all’interno del dibattito sul postumanesimo, difendendo la bontà di questa opzione. Nel suo ultimo lavoro la filosofa di origine italiana, nota soprattutto per la sua teoria della dialoghi n. 1 marzo 2015

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soggettività nomade, chiarisce in modo molto efficace ciò che si intende quando si parla di postumanesimo: il prendere congedo da ciò che lei definisce l’eredità dell’uomo cartesiano, ovvero il soggetto unitario, razionale, titolare di diritto e rapace proprietario di un mondo in cui agisce da signore incontrastato5. E a chi si chiede il perché di questa necessità di congedo, Rosi Braidotti risponde demistificando la retorica dell’umanesimo e mostrandone l’autentica natura: antropocentrica, eurocentrica, antilibertaria, nemica delle differenze e delle minoranze. Il presunto universalismo a cui l’umanesimo prima e l’illuminismo poi aspiravano, nasconde in realtà un’indole colonialista e arrogante, dove l’altro è oggetto di sopruso e di violenza. Il postumanesimo di cui ci parla Rosi Braidotti è dunque, ad un tempo, presa di congedo dall’uomo (realtà statica e immutabile) e dai vizi dell’umanesimo universalistico (arrogante e intollerante). Siamo di fronte a una richiesta di libertà che ricorda da vicino l’esistenzialismo sartriano e il suo slogan secondo il quale «l’esistenza precede l’essenza». La vita, la libertà, la possibilità di scelta precede infatti, secondo i fautori del postumano, ogni presunta universalità – del diritto, della morale – percepita al pari di una camicia di forza entro la quale si costringe e si violenta tutto ciò che fuoriesce dai canoni di quanto ritenuto «giusto» e «corretto». Anche in questo caso, dunque, sembra essere un’istanza etica ciò che sollecita ad un passo indietro, ad un ritrarsi dal centro della scena. Il matrimonio tra naturalismo e postumanesimo Da un certo punto di vista si potrebbe pensare che i due fili qui brevemente descritti fatichino a combinarsi realmente: il primo sembra infatti ricondurre l’umano alla ferrea necessità delle leggi di natura. Il secondo, invece, tende a espandere la libertà dell’uomo, prendendo congedo da ogni vincolo precostituito e da ogni sua presunta «vocazione naturale». In realtà, naturalismo e postumanesimo concorrono, intrecciandosi, a disegnare uno scenario nel quale la speciale libertà d’azione di cui l’uomo sembra godere scaturisce proprio dal regno della necessità naturale. Senza che si debba fuoriuscire dall’orizzonte della realtà fisica (empirica) – e senza dover ricorrere a nozioni quali quelle di spirito, anima, realtà soprasensibile – il naturalismo filosofico spiega infatti la libertà umana come un felice «fatto di natura», che dischiude all’uomo la possibilità di farsi autore del proprio destino6. Questo perché riconoscersi come il frutto, provvisorio e mutevole, dell’edialoghi n. 1 marzo 2015


voluzione biologica, da un lato pacifica l’uomo con la natura di cui è parte e, dall’altro, lo rende co-protagonista di quel processo; libero di dire la sua rispetto alla direzione di marcia. Libertà, responsabilità rispetto all’uso di quest’ultima, solidarietà con tutti i viventi, difesa delle differenze e delle minoranze, fiducia nel valore emancipatorio della conoscenza tecno-scientifica, ottimismo nei confronti del progresso tecnologico, rappresentano dunque le coordinate essenziali di questo movimento. Coordinate, mi permetto di aggiungere, in sé positive e condivisibili. Coordinate, tuttavia, che richiedono di essere ben calibrate per evitare il rischio di finire “fuori rotta”. Sui rischi, tuttavia, mi riservo di fare qualche accenno nelle battute finali; qui vorrei invece proseguire nella comprensione della proposta postumanista. Liberi grazie alla tecnologia Il postumanesimo, come accennato, è un movimento filosoficoculturale assai eterogeneo. Al suo interno vi sono, come ovvio, sensibilità diverse: da chi, come il teologo Andrea Vaccaro7, interpreta il superamento dell’attuale condizione umana come un contributo attivo alla creazione divina e chi, come Roberto Marchesini8, spiega la necessità di superamento dell’umanesimo antropocentrico a partire da una valorizzazione dei processi di ibridazione tra uomo e animale. Tuttavia la maggior parte degli autori riconducibili a questa etichetta – e a maggior ragione quelli che si definiscono transumanisti9 – ritiene che sia la fusione con la tecnica il veicolo attraverso il quale l’uomo potrà prendere le redini del suo destino. La tecnica, infatti, consente non tanto di fuoriuscire dal processo evolutivo, quanto di La tecnica consente non tanto modificarne la logica di sviluppo: non più evo- di fuoriuscire dal processo luzione casuale ed eterodiretta, bensì progetta- evolutivo, quanto zione autonoma e volontaria di un’umanità di modificarne la logica di nuova e plurale. Non essendoci più un’essenza sviluppo: non più evoluzione che dica, in modo vincolante e unitario, ciò casuale ed eterodiretta, bensì che rende l’uomo uomo – questo il senso della progettazione autonoma «morte dell’uomo» – il desiderio individuale è e volontaria di un’umanità libero di trovare nella tecnica i mezzi per rea- nuova e plurale. lizzarsi. Non solo. Una volta concepito l’uomo come null’altro che natura, ovvero come un meccanismo complesso ma conoscibile, esso può venir trattato al pari di ogni altro meccanismo: come si fa con la propria automobile, il corpo può essere riparato quando si guasta o “truccato” qualora se ne vogliadialoghi n. 1 marzo 2015

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no potenziare le performance. E l’aumento esponenziale delle performance è esattamente l’obiettivo a cui aspirano i fautori del postumano. Tra loro vi è chi, auspicando un incremento illimitato delle capacità cognitive, guarda con fiducia ad un matrimonio tra neuroscienze e intelligenza artificiale, fino al punto da confidare nella possibilità del mind uploading: la presa di congedo dal corpo biologico per vivere all’interno della rete informatica. Chi, non accettando i limiti del corpo biologico, si propone di incrementare le proprie capacità fisiche ibridandosi con la robotica e incamminandosi con fiducia lungo la via del cyborg (individuo mezzo biologico e mezzo robotico). Ancora: vi è chi scommette sulle potenzialità dischiuse dalla rivoluzione nanotecnologica, che consente di manipolare la materia a livello atomico, espandendo in modo illimitato le risorse materiali; chi scommette invece sull’avanzamento della medicina e dell’ingegneria genetica, persuaso ch’esse possano a breve vincere la guerra contro l’invecchiamento e contro ogni tipo di malattia. Infine vi sono coloro che ritengono che l’umanità stessa sia qualcosa di transitorio, destinato a tramontare per lasciar spazio a nuove soggettività oggi difficili anche solo da immaginare ma che taluni ritengono essere l’esito inevitabile di quel processo di accelerazione esponenziale del sapere tecno-scientifico che condurrà alla «singolarità». Molti scorci su un futuro possibile, o quanto meno auspicato dai fautori del postumano, accomunati da alcune costanti: la fiducia ottimistica nella capacità dell’uomo di guidare il processo tecnologico verso il meglio, la persuasione che l’esercizio della libertà umana richieda una presa di congedo da ogni idea fissa e statica di uomo, l’elezione dell’autonomia a principale valore di riferimento10. Alcune note conclusive Il movimento postumanista si presenta dunque come il paladino dell’umanità plurale, libera e padrona di sé e del suo destino, di contro ad ogni idea fissa e statica di uomo dietro a cui si celerebbe, come detto, la volontà egemonica di una parte (dell’uomo sulla natura; dell’europeo sulle culture “altre”; del bianco, cattolico, eterosessuale sulle molteplici differenze che non si riconoscono in quel cliché e che per questo sono oggetto di discriminazione e di violenza). Nel far questo il movimento postumanista scommette su ciò che è maggiormente tipico dell’umano: la sua familiarità con la tecnica, la sua “naturale” predisposizione a fare di essa il veicolo evolutivo per eccellenza. dialoghi n. 1 marzo 2015


Ora, che la tecnica possieda un incredibile potenziale emancipatorio è fuori discussione. Basti pensare al contributo offerto alla liberazione dalla fatica del lavoro manuale o alla lotta contro la sofferenza e la malattia. Oppure si pensi all’effetto positivo sulla vita dell’uomo dischiuso dalla scrittura o, ancora, ai mille doni della tecnologia in termini di sicurezza, mobilità, comunicazione. Tuttavia, pur senza disconoscere tutto ciò, e pur senza voler negare il molto e il buono che la tecnologia ci porta in dote, mi permetto di evidenziare un rischio dal quale è bene guardarsi: il rischio di concentrarsi sull’essenza della tecnica più che sul suo senso. Molti autori – sia tra i classici del pensiero filosofico, da Heidegger a Severino; sia tra i protagonisti del dibattito sul postumano, da Kurzweil a Vaccaro – hanno detto la loro sull’essenza della tecnica: per alcuni veicolo emancipatorio, per altri espressione della volontà di potenza e financo manifestazione intramondana dello Spirito Santo. Forse sarebbe però più utile interrogarsi sul senso della tecnica per l’uomo, ovvero trovare un criterio di discernimento per capire quando essa si fa strumento al servizio della fioritura dell’umano e quando, al contrario, diviene un pericolo da cui guardarsi. Questo il rischio ch’io riscontro in molti dei Il limite e la fragilità perdono fautori del postumanesimo: il rischio di sposa- ogni significato e il ricorso re la tecnica più che l’uomo, non trovando un alla tecnica si configura come punto d’equilibrio tra l’incessante desiderio una fuga da sé, dal proprio dell’essere umano di superare i propri limiti presente, dal proprio essere. naturali e la necessità di accettarsi per quello Questo si traduce, che è, comprese le proprie fragilità. Così facen- inevitabilmente, nel disagio do, il limite e la fragilità perdono ogni signifi- di non essere ciò che si cato e il ricorso alla tecnica si configura come vorrebbe, di non vivere ancora una fuga da sé, dal proprio presente, dal pro- il futuro a cui si anela. prio essere. Questo si traduce, inevitabilmente, nel disagio di non essere ciò che si vorrebbe, di non vivere ancora il futuro a cui si anela. Smarrire il senso umano della tecnica (e del limite!) conduce cioè all’incapacità, per l’uomo, di vivere in modo pacificato ed equilibrato il rapporto con sé, con gli altri, col proprio tempo11. Tuttavia, per coltivare questo rapporto equilibrato con la tecnica è necessario credere che l’uomo abbia una vocazione che chiede d’essere espressa in pienezza; un compito da realizzare, una direzione di marcia ch’egli dovrebbe perseguire per essere autenticamente se stesso. Tutto ciò rimanda, inevitabilmente, ad una qualche idea di uomo; a un già dato che non è completamente dispodialoghi n. 1 marzo 2015

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nibile e che chiede d’essere riconosciuto, accolto e valorizzato. Come dire: il senso dell’umano richiede, in qualche modo, che la libertà del farsi e dello scegliersi si accompagni al riconoscimento di ciò che è dato e indeciso. Voltare le spalle al discorso sul senso in nome di una libertà ancora più ampia è certo possibile (e Sartre l’ha dimostrato); è bene, però, che si sia consapevoli del prezzo che tale scelta comporta. Ciò detto non mi sembra fuori luogo porsi la domanda se sia poi vero che l’uomo sarebbe più libero qualora la sua vita fosse priva di una qualche direzione di marcia; se possa dirsi davvero più felice ritrovandosi orfano del significato ultimo del suo stare al mondo. Sarebbe come dire che la morte del padre rappresenta una benedizione perché dischiude le porte all’autonomia del figlio o che, per fare un altro esempio, il libero vagare in un labirinto senza uscita sia preferibile a seguire una traccia, per quanto a tratti difficile da scorgere, lungo un sentiero segnato. E, in fondo, gli stessi fautori del postumano sono persuasi che una direzione di marcia sia migliore rispetto ad un’altra, e che alcuni valori (libertà, tolleranza, accoglienza, ecc.) siano preferibili ai loro contrari. Per questo sono persuaso che la fiducia nelle potenzialità umanizzanti della tecnologia non debba prendere congedo né dall’uomo né dall’umanesimo; ritengo anzi che entrambe queste nozioni – uomo e umanesimo – debbano essere valorizzate nel loro autentico significato e, al più, ripulite dalle eventuali incrostazioni che un loro cattivo uso ha potuto generare.

Note 1 Cfr. A. Vaccaro, L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena, EDB, Bologna 2009; A. Aguti (a cura di), La vita in questione. Potenziamento o compimento dell’essere umano?, «Anthropologica. Annuario di filosofia», La Scuola, Brescia 2011; L. Grion (a cura di), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica, il Mulino, Bologna 2012. 2 Cfr. E. Runggaldier, Il naturalismo filosofico contemporaneo e le sue implicazioni antropologiche, in L. Alici (a cura di), Azione e persona: le radici della prassi, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 85-100. 3 M. Reichlin, Centomila, nessuno o uno? L’io e la persona alla luce delle neuroscienze, «Studium», 119, 6/2013, p. 846. 4 Cfr. E. Agazzi, N. Vassallo (a cura di), Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1998; D. Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione,

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Edizioni Mercurio, Vercelli 1999; L. Grion (a cura di), La differenza umana. Riduzionismo e antiumanesimo, «Anthropologica. Annuario di filosofia», La Scuola, Brescia 2009. 5 Cfr. R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014. 6 Su questi temi si può vedere utilmente M. De Caro, Libero arbitrio. Una introduzione, Laterza, Roma-Bari 2009. 7 Cfr. A. Vaccaro, La linea obliqua. Il ruolo della tecnologia nella riflessione teologica, EDB, Bologna 2015. 8 R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 9 Cfr. L. Grion, Chi ha paura del transumanesimo?, agile saggio introduttivo disponibile on line all’indirizzo: http://www.disf.org/editoriali/2014-03/. 10 Su questi temi mi sono soffermato distesamente in L. Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo, Mimesis, Milano-Udine 2012. 11 Questo tema è approfondito in L. Grion, Postumanesimo: un neognosticismo?, «Hermeneutica», 2012, pp. 333-352.

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Le neuroscienze e la psicologia empirica, considerando l’essere umano parte della natura, stanno scoprendo come il controllo cosciente su scelte e azioni sia limitato o addirittura nullo. Ciò porta a mettere in discussione il libero arbitrio come classicamente concepito dal senso comune e dalla filosofia.

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ei Promessi Sposi, don Abbondio viene intimidito dai bravi affinché non celebri le nozze di due protagonisti del romanzo – «questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai» – e Lucia Mondella viene poi fatta rapire da don Rodrigo e dall’Innominato di modo che non possa andare in sposa a Renzo Tramaglino. In questi casi è evidente che le minacce di violenza e l’impedimento fisico limitano o annullano la libertà di svolgere un’azione che pure si vorrebbe compiere. La libertà intesa in tal senso è quella che più apprezziamo, ritenendola un bene fondamentale. Le vicende politiche, sociali e religiose hanno sempre avuto al centro il tema della libertà delle persone e delle istituzioni, ovvero la possibilità di Andrea Lavazza decidere e di agire senza condizionamenti o è studioso scienze cognitive, è research costrizioni.

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fellow al Centro Universitario Internazionale di Arezzo. Ha contribuito a diffondere in Italia la nuova disciplina della neuroetica. Tra i suoi lavori in lingua italiana, L’uomo a due dimensioni, Bruno Mondadori, Milano 2008; Neuroetica (con G. Sartori), il Mulino, Bologna 2011; Manipolare la memoria (con S. Inglese), Mondadori Università, Milano 2013; Filosofia della mente, La Scuola, Brescia 2015.

Libero arbitrio: definizioni e caratteristiche Ma c’è un altro concetto di libertà che la filosofia dai suoi esordi ha considerato e sul quale fino ai nostri giorni si arrovella. È un’accezione di libertà che riguarda strettamente l’individuo, indipendentemente dalle sue relazioni con i suoi simili e l’ambiente, ma che però ha riflessi e si intreccia con i fatti e le relazioni interpersonali. Si tratta, per esempio, della «libertà» che dialoghi n. 1 marzo 2015


viene considerata quando la difesa di un imputato durante il processo chiede l’assoluzione per infermità mentale. Si sostiene che il soggetto non era «libero» quando ha commesso il delitto, ma non perché qualcuno gli puntava una pistola alla tempia, bensì perché una malattia psichiatrica gli impediva di controllare le proprie azioni. È un’intuizione condivisa che se qualcuno non era «libero» quando ha compiuto una specifica azione, non ne può essere ritenuto responsabile. E la libertà che si considera è sia quella “sociale” di don Abbondio e Lucia Mondella, sia quella indicata con termine tecnico come «libero arbitro» (free will in inglese). Per farsi un’idea più precisa di che cosa sia il libero arbitrio, si può cominciare dalle tre condizioni che di solito lo qualificano. La prima condizione è la «possibilità di fare altrimenti». Come potremmo dirci liberi se non avessimo l’opportunità di scegliere tra due corsi di azione, oppure di fare o non fare una certa scelta? Quando al ristorante c’è una sola pizza sul menù, la nostra decisione, se vogliamo mangiare una pizza, risulta obbligata. Ugualmente, qualora avessimo un tic all’occhio, non saremmo nelle condizioni di valutare se ammiccare o meno all’interlocutore che abbiamo di fronte. La seconda condizione è il «controllo delle proprie scelte». Dobbiamo essere noi a decidere che cosa fare; per essere liberi, è necessario che siamo consapevoli di volere una certa scelta e non che altre persone o meccanismi fuori dal nostro raggio di azione la prendano al nostro posto. È ciò che in filosofia si chiama essere e sentirsi «agenti». La terza condizione è la «sensibilità alle ragioni». È esperienza diffusa che ciò che ci sembra rilevante perché una scelta sia libera è che non sia casuale, ma motivata razionalmente. Quando per decidere quale uomo sposare tiriamo una moneta, non si dirà che abbiamo compiuto un’azione davvero libera, seppure poi liberamente ci presentiamo all’altare e passiamo l’intera vita con il prescelto. Considerare invece le qualità della persona, valutare le compatibilità di carattere e la forza dei nostri sentimenti è un modo di procedere che rende autenticamente «libera» la scelta. Il tipo di libertà che abbiamo identificato grazie a queste tre condizioni è quello che in genere pensiamo di possedere e attribuiamo a tutto il nostro prossimo, con l’esclusione di coloro che sono in gravi stati patologici o sotto l’effetto di sostanze dette psicotrope, dall’alcol alle droghe sintetiche. Questo non significa, ovviamente, che tutte le nostre scelte si caratterizzino per essere «libere» nel senso pieno espresso dalla «possibilità di fare dialoghi n. 1 marzo 2015

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altrimenti», dal «controllo» e dalla «sensibilità alle ragioni». Spesso agiamo d’impulso, contro i nostri interessi meditati, in condizioni di scarsa lucidità. Ma ciò non implica che non siamo potenzialmente in grado di agire liberamente. Come già accennato, la morale e il diritto hanno incorporato queste nozioni, ritenendo che di solito le persone siano libere di agire o di non agire in un certo modo e, di conseguenza, risultino responsabili di ciò che fanno, con le eccezioni codificate cui si è fatto riferimento in precedenza. Il problema del determinismo Se per noi, nella nostra esistenza quotidiana, l’esistenza del libero arbitrio è una pacifica sicurezza, non così accade per la filosofia che da secoli indaga quello che considera di volta in volta un mistero insondabile, una verità palese, un’illusione da smascherare... Dal punto di vista metafisico – ovvero, per ciò che qui importa, da una prospettiva complessiva sulla realtà e sul mondo che va oltre le singole osservazioni empiriche –, la grande sfida alla libertà è il determinismo. Il determinismo è la tesi secondo cui tutto ciò che accade (incluse le scelte e le azioni umane) è prodotto del presentarsi di condizioni sufficienti per il suo accadere. Più specificamente, è la tesi secondo la quale anche tutti i fenomeni mentali e le azioni sono, in modo diretto o indiretto, prodotti in modo causale – secondo le leggi di natura (come quelle della fisica e della neurobiologia) – da eventi precedenti che sono al di là del controllo degli agenti. La scienza non può che fondarsi almeno in parte su questo principio e così la tecnologia che migliora la nostra vita. Non avremmo effetti prevedibili se il mondo non seguisse regole rigide. Non si accenderebbe ogni mattina la nostra auto né funzionerebbe il nostro telefono cellulare... In altre parole, fa problema per l’essere umano ciò che pensiamo accada, senza che ne siamo turbati, nell’universo fisico. Un sasso lasciato cadere dalla finestra andrà invariabilmente verso il basso, un palloncino pieno di elio salirà invariabilmente verso l’alto; un lento movimento franoso cominciato secoli fa, se non contrastato, proseguirà nel tempo... Ma anche una spinta di una certa forza ci farà spostare di una certa misura in relazione alla nostra massa, una specifica stimolazione ci farà muovere un braccio o una gamba... Da quando è emersa l’idea del determinismo i filosofi, che in passato erano spesso anche studiosi della natura, si sono chiesti come il libero arbitrio possa convivere con la concezione deterdialoghi n. 1 marzo 2015


ministica del mondo, dato che quest’ultima sembra negare le condizioni di esercizio della libertà umana: in particolare, non avremmo vero controllo sulle nostre azioni. Senza entrare nelle posizioni che da tempo si sono cristallizzate – per cui qualcuno sostiene l’incompatibilità di determinismo e libertà (affermando o negando il libero arbitrio) e molti sostengono la compatibilità di determinismo e libertà (dicendo che il nostro volere è determinato ma possiamo scegliere in accordo con la nostra volontà) –, si può affermare che la gran parte dei pensatori riteneva che l’essere umano fosse una creatura dotata di quella speciale facoltà che è il libero arbitrio. Una concezione, quest’ultima, cui il cristianesimo ha dato il contributo probabilmente decisivo, come argomentato ad esempio da Hannah Arendt. L’antropologia cristiana infatti – e dopo la Riforma quella cattolica soprattutto – incorpora in sé l’idea che l’uomo, pur limitato dal peccato, sia capace di rispondere agli imperativi morali e alla chiamata di Dio con una scelta libera, la quale giustifica anche le attribuzioni di lode o di biasimo per la sua condotta, sia a livello umano sia a livello di salvezza dell’anima. È in tempi recenti, con il progredire della conoscenza scientifica, che entra in gioco il naturalismo come idea che l’essere umano non è per nulla estraneo al mondo naturale, ne fa anzi parte a pieno titolo e non può sfuggire alle sue leggi. La sfida per il libero arbitrio si fa così più serrata e pressante. La scienza con il materialismo applicato anche Da quando è emersa l’idea all’essere umano, inaugurato tra gli altri da La del determinismo i filosofi, Mettrie, ha portato il determinismo sempre che in passato erano spesso più vicino a noi. Sembra allora valere il cosid- anche studiosi della natura, detto «argomento della consequenzialità» del si sono chiesti come il libero filosofo Peter van Inwagen: «Se il determini- arbitrio possa convivere con smo è vero, allora le nostre azioni sono le con- la concezione deterministica seguenze delle leggi di natura e di eventi del del mondo, dato che passato remoto. Ma ciò che accadde prima quest’ultima sembra negare della nostra nascita non dipende da noi, né le condizioni di esercizio della dipende da noi quali siano le leggi di natura. libertà umana: in particolare, In tal modo, le conseguenze di queste cose non avremmo vero controllo (incluse le azioni che compiamo ora) non sulle nostre azioni. dipendono da noi». In questo senso, non vi sarebbe che una pura illusione di libertà. Ciò accadrebbe perché la concezione della libertà umana come causa sui – causa di se stessi, capacità di avviare nuove catene causali –, che implicitamente fa parte dell’intuizione ingenua della dialoghi n. 1 marzo 2015

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nostra possibilità di agire liberamente, è negata per definizione dal determinismo. Ci sono catene causali cominciate prima della nostra nascita, di cui facciamo parte e dalle quali non possiamo evadere. Ma il determinismo, come visto, è una tesi metafisica, che non può essere dimostrata con prove scientifiche. L’essere umano è soggetto alle leggi immutabili della fisica, ma la biologia è più probabilistica che deterministica e quindi l’argomento di van Inwagen non ci costringe a rinunciare in partenza all’idea di libertà dell’agire, dato che la sua premessa non è unanimemente accettata. (Si può notare di passaggio che se non vogliamo adottare il determinismo, dobbiamo comunque stare attenti alle implicazioni per il libero arbitrio dell’indeterminismo. Infatti, se gli effetti non seguono invariabilmente alle cause, il nostro comportamento rischierebbe di essere casuale, come se ogni volta tirassimo la moneta...). L’irruzione delle neuroscienze Le complicazioni – e il sostanziale stallo – del dibattito filosofico hanno consigliato gli scienziati, sempre meno in contatto con la riflessione teoretica (e ciò spesso ha creato semplificazioni che lasciano spazio a ulteriori piste d’approfondimento) di concentrarsi sui dati sperimentali. Negli ultimi quarant’anni le tecniche di indagine del cervello e i metodi della psicologia empirica hanno avuto infatti un’accelerazione spettacolare – ancora in corso – che ha permesso di compiere studi prima inimmaginabili. Eccoci dunque alle sfide più attuali e, per alcuni versi, inquietanti, alla nostra idea di libertà. Il riferimento obbligato è ai lavori pionieristici del neuroscienziato americano Benjamin Libet, risalenti alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Egli è stato il primo ad applicare metodi di indagine neurofisiologica per indagare la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un dato movimento volontario. Nei suoi esperimenti, Libet invitava i partecipanti a muovere quando avessero voluto il polso della mano destra e, contemporaneamente, a riferire il momento preciso in cui avevano avuto l’impressione di aver deciso di avviare il movimento, osservando un particolare orologio e indicando in quale posizione si trovava la lancetta. In questo modo, era possibile stimare il momento della consapevolezza rispetto all’inizio del movimento, misurato tramite un elettromiogramma (che registra la contrazione muscolare). Durante l’esecuzione del compito veniva registrata l’attività elettrica cerebrale tramite elettrodi posti sullo scalpo. dialoghi n. 1 marzo 2015


L’attenzione era focalizzata su uno specifico potenziale elettrico cerebrale, il «potenziale di prontezza motoria». Esso è visibile nel segnale dell’elettroencefalogramma come un’onda che comincia prima di ogni movimento volontario, mentre è assente o ridotto prima dei movimenti involontari e automatici. Il risultato controintuitivo, e secondo molti rivoluzionario, emerge dalla comparazione del “tempo” soggettivo della decisione con quello cerebrale. Infatti, il potenziale di prontezza motoria che culmina nell’esecuzione del movimento comincia nelle aree motorie prefrontali del cervello molto prima del momento in cui al soggetto sembra di aver preso la decisione: i volontari diventavano consapevoli dell’intenzione di agire circa 500 millisecondi dopo l’instaurarsi di tale potenziale. Il processo volitivo sembra quindi avviarsi inconsciamente. Tali studi paiono dunque indicare che i nostri atti (o, perlomeno, quelli testati) vengono causati dall’attività del cervello, che entra nella consapevolezza soltanto in un momento successivo. Un’altra osservazione di Libet ha attirato grande attenzione. Egli infatti notò che, una volta colta dalla coscienza l’intenzione di compiere l’azione, il soggetto dispone ancora di una finestra temporale nella quale può inibire il movimento. In sostanza, la libertà si ridurrebbe, secondo l’espressione inglese, da free will a free won’t, ossia alla possibilità di bloccare ciò che si è pianificato inconsciamente. Non potremmo dare vita ad azioni libere, ma avremmo l’opportunità di Il cervello ha già “deciso” «resistere alle tentazioni». Entrambe le dedu- quale mano muovere o quale zioni tratte dai test di laboratorio sono aperte operazione aritmetica a forti critiche. In particolare, la libertà di veto, compiere nel momento com’è stata chiamata, in base a ulteriori studi in cui all’interno del soggetto sembra rispondere agli stessi meccanismi di la consapevolezza della avvio inconscio dell’azione. Ed è, quindi, espo- decisione è ancora lontana sta allo stesso rischio di illusorietà. dal maturare. Se gli studiosi, Più recentemente, studiando l’attività di un’a- “guardando” nel nostro rea del lobo frontale, altri neuroscienziati del cervello con la risonanza gruppo coordinato da John-Dylan Haynes magnetica funzionale, sono riusciti vedere “sorgere” una scelta com- possono prevedere con buona portamentale o astratta (il movimento della approssimazione alcune mano; il sommare o sottrarre due cifre) alcuni semplici scelte prima che secondi prima che il soggetto acquisisca consa- noi ne siamo coscienti. pevolezza della propria determinazione. Il cervello ha già “deciso” quale mano muovere o quale operazione aritmetica compiere nel momento in cui all’indialoghi n. 1 marzo 2015

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terno del soggetto la consapevolezza della decisione è ancora lontana dal maturare. Se gli studiosi, “guardando” nel nostro cervello con la risonanza magnetica funzionale, possono prevedere con buona approssimazione alcune semplici scelte prima che noi ne siamo coscienti, sembra riproporsi una situazione di prescienza che, quando attribuita in modo pieno a Dio, costringeva i teologi a chiedersi se l’uomo potesse essere libero nella situazione in cui il suo futuro è già noto a qualcuno. Nuove scoperte e deduzioni da confermare È stata sufficiente questa linea di indagine, con la susseguente riflessione filosofica, a creare un terremoto che ha raggiunto anche i mezzi di comunicazione e l’opinione pubblica. «Non siamo liberi», si è spesso concluso in modo affrettato. Ma presto s’è aggiunto un altro filone, legato non tanto alle neuroscienze, quanto all’osservazione del nostro funzionamento psicologico. Abbandonati da tempo come strumenti di studio l’introspezione e i resoconti soggettivi, in quanto imprecisi e inaffidabili, la psicologia ha cominciato a comprendere, grazie a osservazioni obiettive, quanto inconsci, ma non nel senso dell’inconscio proposto da Freud, e automatici siano i nostri comportamenti. Si tratta del fatto che l’elaborazione cognitiva è molto più spesso di quanto riteniamo frutto di processi cerebrali/mentali di cui non siamo consapevoli, innescati dall’ambiente o dalle situazioni in cui ci troviamo immersi e frutto di un repertorio in parte innato e in parte creato dalle esperienze e dall’educazione. Basti citare un esempio noto, e al contempo estremo, realizzato dallo psicologo John Bargh. Due gruppi di studenti universitari americani sono stati reclutati per un (a loro) non precisato studio psicologico; al primo di essi sono state fornite parole con le quali comporre frasi di senso compiuto, e in quel repertorio erano inseriti numerosi termini che, in generale e nella cultura statunitense in particolare, sono legati agli stereotipi sugli anziani, come rughe, grigio, Florida; al gruppo di controllo sono state invece assegnate liste con espressioni neutre rispetto all’età, quali assetato, pulito, privato. Alla fine del test un sistema di monitoraggio era stato collocato nel corridoio che dall’aula porta all’ascensore. Il risultato? I giovani che avevano letto e utilizzato le parole connesse alla vecchiaia camminavano più lentamente a confronto di coloro che avevano letto e utilizzato parole senza legami con le fasi della vita. Si può rallentare il passo perché ci fanno terribilmente male i piedi oppure perché tentiamo di farci dialoghi n. 1 marzo 2015


raggiungere in modo apparentemente casuale dal compagno simpatico che abbiamo intravisto uscire dal bar dell’ateneo; risulta però sorprendente apprendere che si può camminare lentamente poiché si è appena avuto a che fare con le parole rughe e Florida. Dunque, pare lecito ipotizzare che la nostra mente lavori e prenda decisioni senza la nostra supervisione cosciente. Come ha proposto lo psicologo Daniel Wegner, siamo fatti in modo da avere l’impressione di controllare le nostre azioni; ci sembra nella maggior parte dei casi di essere agenti liberi, che provocano a piacimento comportamenti finalizzati, ma non accadrebbe per nulla questo. Tale ipotesi radicale è stata definita «la sfida dello zombie», secondo la quale, come quelle creature di fantasia, ci muoviamo “meccanicamente”, guidati da processi cognitivi automatici e inconsci, che scopriamo solo con lo studio scientifico. La coscienza, attore principe del libero arbitrio, che dovrebbe esercitare il controllo e valutare le ragioni di una scelta sarebbe causalmente inefficace, un puro epifenomeno, secondo la terminologia della filosofia della mente. Ecco allora le deduzioni, per lo più precipitose, che dai giornali scientifici arrivano a cascata fino alla divulgazione meno accurata. È stato per esempio scritto su un’importante rivista specialistica come Pnas: «Siamo forze meccaniche della natura [che] hanno fatto evolvere il fenomeno della coscienza, la quale ci dà l’illusione della responsabilità. [...] È tempo che il diritto faccia i conti con questa realtà La coscienza, attore principe [...]. La realtà è che non solo non abbiamo più del libero arbitrio, libertà di una mosca o di un batterio, in effet- che dovrebbe esercitare ti non abbiamo più libertà di una zuccheriera». il controllo e valutare Sostenuta da scienziati quali lo scopritore del le ragioni di una scelta Dna Francis Crick e il teorico dei buchi neri sarebbe causalmente Stephen Hawking fino a studiosi e intellettua- inefficace, li autorevoli come Joshua Greene, Sam Harris, un puro epifenomeno, Jerry Coyne, l’idea della libertà come illusione secondo la terminologia ha superato la fase della tesi bizzarra per diven- della filosofia della mente. tare un serio argomento di discussione. Risulta subito evidente che le conseguenze sarebbero enormi. E lo dimostrano in nuce altri esperimenti psicologici. Dopo avere fatto leggere a diversi gruppi di studenti testi in cui si argomenta pro o contro l’esistenza della libertà di scelta, in compiti successivi si registra in media un comportamento meno altruistico e rispettoso delle regole tra coloro che sono stati esposti alla tesi che il libero arbitrio non esista. Ciò potrebbe spiegarsi con il dialoghi n. 1 marzo 2015

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fatto che ci si abbandona a scelte istintive o meno faticose pensando che se non siamo liberi non siamo nemmeno responsabili delle conseguenze dei propri atti o che, comunque, non c’è “colpa”. Riflessi si avrebbero infatti anche sul diritto, con maggiori difficoltà di giustificare un sistema retributivistico, cioè che sanzioni i reati commessi, il quale si basa sul nesso libertà-responsabilità-pena. Avrebbe più fondamento un sistema morale e penale consequenzialistico, ovvero incardinato sul principio dell’effetto atteso del premio o della punizione e non su meriti o demeriti dell’individuo. Che cosa sappiamo oggi Il punto è che i nuovi elementi di cui disponiamo per negare la realtà del libero arbitrio non sembrano per ora sufficienti a suffragare questa tesi radicale. Pur se replicati e ben confermati, gli esperimenti neuroscientifici descritti in precedenza non implicano le generalizzazioni che se ne sono tratte. Innanzi tutto, la scelta di piegare un polso adesso o fra pochi secondi non è una vera scelta, rilevante per il soggetto. All’indifferenza del compito si associa il fatto che, se anche le decisioni durante l’esperimento sono inconsce, non tutte le altre decisioni della nostra esistenza debbano risultare tali. Ancora, come ha rilevato il filosofo Alfred Mele, si può sostenere che l’attivazione del potenziale di prontezza non sia il vero inizio dell’azione, ma che sia necessario un ulteriore e successivo innesco. Vi sono poi situazioni accuratamente testate in cui una decisione formulata coscientemente di compiere un’azione a distanza di tempo fa sì che i soggetti la mettano in atto con una probabilità molto maggiore: quindi, la riflessione consapevole sembra avere un ruolo significativo. Infine, se il ragionamento cosciente ha un ruolo nella decisione, non dovrebbe essere così importante che vi sia un piccolo gap di centesimi di secondo tra l’avvio fisico dell’azione e la consapevolezza di esso. Secondo Mele, possiamo ancora oggi sostenere di possedere un libero arbitrio moderato: la possibilità di prendere decisioni razionali e informate (e di agire in base a esse), quando non si è soggetti a forze improprie. Una libertà più ambiziosa è quella che implica la possibilità di fare altrimenti dato ciò che è già accaduto e date le leggi di natura. Tale libertà rimane un’opzione aperta, per cui non vi sono prove definitive né in senso positivo né in senso negativo. dialoghi n. 1 marzo 2015


E l’anima? Essa si colloca in un ambito in cui la scienza ha poco o nulla da dire e dal quale anche la filosofia si è ritirata, proprio sotto la spinta del naturalismo. In filosofia della mente le posizioni ormai più diffuse sono quelle materialistico-riduzionistiche che, trasposte sul terreno del libero arbitrio, portano argomenti a favore della tesi dell’illusione. Certamente, uscire da un quadro di rigido naturalismo ontologico permetterebbe di avere più spazio per diversi resoconti della libertà umana. Quella che abbiamo qui succintamente illustrato è l’attuale cornice del dibattito più avanzato alla confluenza tra scienza e filosofia analitica. Non va dunque dimenticato che vi sono correnti filosofiche (e, ovviamente, teologiche) che ragionano della libertà in termini diversi, meno problematici e più “classici”.

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Bibliografia Un eccellente testo introduttivo è Mario De Caro, Libero arbitrio. Una introduzione (Laterza). L’idea di libero arbitrio come frutto del cristianesimo è sviluppata da Hannah Arendt in La vita della mente (il Mulino). Gli esperimenti di Benjamin Libet sono da lui raccontati nel suo Mind Time (Cortina Editore). Il ruolo delle neuroscienze nel dibattito su libertà e responsabilità è indagato in due volumi curati da Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio; e Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società (entrambi Codice Editore). Liberi. Perché la scienza non annulla il libero arbitrio, è un agile volume in uscita di Alfred Mele (Carocci). Importanti testi di un filosofo e di un neuroscienziato sono L’evoluzione della libertà di Daniel Dennett (Cortina), e Chi comanda? di Michael Gazzaniga (Codice). Si veda anche La novità di ognuno. Persona e libertà, di Roberta De Monticelli (Garzanti). Il cosiddetto neurodiritto è introdotto nel testo di Andrea Lavazza e Luca Sammicheli, Il delitto del cervello (Codice).

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Le neuroscienze sono un terreno fertile di ricerca scientifica dal quale oggi ci si aspetta molto. Alcuni si aspettano di illuminare grazie a esse la genesi della morale, tanto che da qualche anno è sorta una nuova disciplina di studi che prende il nome di neuroetica. Ma è possibile naturalizzare la morale? Che cosa distingue questo tentativo da altri messi in atto nel passato? E non esiste una differenza insuperabile tra lo studio dell’uomo e quello degli altri oggetti della natura?

La naturalizzazione neuroscientifica della morale di Antonio Da Re

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a proposta di naturalizzazione della morale che negli ultimi anni è stata avanzata con maggiore insistenza è senz’altro quella connotata in senso neuroscientifico. Si è parlato espressamente di «neurobiologia della morale»1, intendendo con ciò sostenere che il fondamento della morale va ricercato, e individuato, nel funzionamento del cervello. L’assunto qui presupposto, e ripetuto con uno slogan tanto efficace quanto semplificatorio e discutibile, è che «noi siamo il nostro cervello». Vi sarebbe quindi un’identità tra mente e cervello, di modo che gli stati mentali coincidono con gli stati cerebrali. Gli stati mentali, compresi quelli attinenti la sfera morale e quelli concernenti l’espressione di desideri, di credenze, di aspettative, sarebbero in tutto e per tutto riducibili a stati cerebrali, come tali registrabili attraverso le tecniche di neuroimaging: prova ne sia che tali tecniche, attraverso la localizzazione in determinaAntonio Da Re te aree cerebrali, mostrerebbero l’incapacità a è docente di Storia della Filosofia morale e esprimere certi stati mentali, da parte per esemBioetica all’Università di Padova. pio di pazienti con gravi lesioni cerebrali. Ultimamente ha pubblicato Parole dell’etica, Il progetto di naturalizzare la morale in ambito Bruno Mondadori, Milano 2010; Percorsi di neuroscientifico ripropone un cliché assai consoetica, Il Poligrafo, Pafova 2007; e curato Il lidato, come tale accostabile a tentativi simili di conflitto morale, Il Poligrafo, Padova 2011; spiegare naturalisticamente l’origine della moraEtica e forme di vita (con A. Ponchio), le a partire dal suo possibile presupposto bioloVita e Pensiero, Milano 2007. gico-evoluzionistico o da quello genetico o dagli

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studi di etologia e così via. Va detto che in queste differenti forme di naturalizzazione, che per giunta spesso si sovrappongono e si sostengono a vicenda, si assiste a un duplice movimento di riduzione dell’etico al biologico (inteso come dato puramente naturale di tipo genetico, etologico, neuronale) per un verso e di dispersione – per così dire – dell’individuale nella specie. Non sono queste, tuttavia, le uniche modalità di riduzione del morale a qualcos’altro (nel caso specifico, il biologico). Interpretazioni analoghe, anche se di marca non naturalistica, sono state avanzate anche nel passato, basti pensare per esempio a certa vulgata marxista del secolo scorso, che spiegava la morale mostrandone la dipendenza dai rapporti di produzione e dagli assetti sociali ed economici, o alle diverse ricostruzioni genealogiche, ispirate da Nietzsche, a proposito dei significati dei concetti contrassegnati in senso morale e giuridico di «colpa», «pena», ecc. Anche in tutti questi tentativi si metteva e si mette in discussione la pretesa di autonomia della morale e di una autocomprensione priva di presupposti. Quando quindi leggiamo i testi di Patricia Churchland o di Michael Gazzaniga2, percepiamo uno strano senso di familiarità, che ci riporta indietro nel tempo e in ambiti che nulla avevano a che veder con gli attuali studi neuroscientifici. Riduzionismo e modalità di naturalizzazione Sul piano epistemologico, la naturalizzazione può svolgere una funzione critica importante, al pari di altre interpretazioni volte a mettere in questione una pretesa di autonomia assoluta della morale: lo studio delle condizioni naturali, biologiche, neuronali, come pure lo studio delle condizioni economiche, sociali e così via, che accompagnano la morale, può fornire un contributo utile ad una maggiore comprensione di noi stessi e di che cosa si debba intendere per etica o morale. Diverso è quando un approccio riduzionistico estremo porta appunto a ridurre i fenomeni mentali, cognitivi, desiderativi, spirituali in senso lato, a fenomeni spiegabili solo ed esclusivamente attraverso la strumentazione e il lessico concettuale delle scienze biologiche, nel caso specifico delle neuroscienze cognitive, così come certo materialismo dialettico spiegava semplicisticamente la sovrastruttura della morale come effetto della causa strutturale (l’economia). In tutte queste diverse forme di riduzionismo non si riconosce alcuna autonomia alla morale, autonomia che beninteso non può essere assoluta, ma relativa, e che richiede quindi, per essere indagata, una pluralità di saperi e di metodologie. Il riduzionismo dialoghi n. 1 marzo 2015

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estremo poi presenta un altro grave limite ovvero che esso si espone assai facilmente al rischio della cosiddetta fallacia naturalistica; in altri termini, per il riduzionista anche una valutazione morale su cosa sia buono o malvagio andrà formulata sulla base dell’unica modalità conoscitiva ammessa. Ci troviamo così di fronte a due diverse possibili modalità di intendere e praticare la naturalizzazione, che per semplicità propongo di distinguere in senso metodologico per un verso e ontologico per l’altro. Con naturalizzazione di tipo metodologico intendo lo studio delle condizioni (naturali, biologiche, neuronali…) che rendono possibile la moralità. Così come per comprendere adeguatamente la morale è opportuno fare ricorso anche all’apporto dell’economia, della storia, dell’antropologia culturale ecc., ugualmente è opportuno studiare quei requisiti senza i quali non si dà la morale. Per il Darwin de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale tali requisiti erano identificabili nella presenza di istinti sociali e nell’intelligenza, che fra l’altro, almeno nelle pagine citate, sottolineavano la differenza dell’uomo rispetto agli altri esseri animali3. In tal senso anche gli studi sulle basi neurali del giudizio morale potrebbero inquadrarsi in una naturalizzazione di tipo metodologico, sebbene si possa facilmente scivolare verso quella onnicomprensiva di tipo ontologico. Comunque, con la modalità metodologica, grazie all’osservazione con tecniche di neuroimaging delle aree cerebrali attivate, veniamo in possesso di dati ed elementi che consentono di conoscere meglio la nostra realtà morale, per esempio cogliamo l’importanza dei processi emozionali quando ci troviamo a deliberare e a scegliere moralmente. La naturalizzazione La naturalizzazione così intesa studia quindi le capacità, le condiontologica va ben oltre zioni di possibilità, le condizioni abilitanti – per la chiarificazione di quelle dirla con Habermas4 – della morale stessa; del che sono le condizioni resto, quando noi utilizziamo nel diritto la fordi possibilità del darsi della mula «incapace di intendere e volere», presupmorale; essa è il tentativo di poniamo che un soggetto, privo di tale capacità, spiegare naturalisticamente la di tale condizione abilitante, non sia giuridicastessa dimensione normativa, mente (e ancor prima eticamente) responsabile che si esprime in giudizi e quindi suscettibile di un giudizio in termine e valutazioni morali. di colpa, dolo, merito. La naturalizzazione ontologica va ben oltre la chiarificazione di quelle che sono le condizioni di possibilità del darsi della morale; essa è il tentativo di spiegare naturalisticamente la stessa dimensione normativa, che si esprime in giudizi dialoghi n. 1 marzo 2015


e valutazioni morali: ciò che è buono o cattivo in senso morale viene stabilito dall’evoluzione, dall’etologia, da come funziona il cervello, ecc. A tale proposito può valere l’ammonimento di George Edward Moore, quando nei Principia Ethica, criticando Herbert Spencer, sostiene che «la sopravvivenza del più adatto non significa, come si potrebbe credere, la sopravvivenza di ciò che è più adatto a raggiungere uno scopo buono, cioè più adatto ad un fine buono»5. Moore non intende affatto svalutare la teoria scientifica dell’evoluzione; ciò che egli contesta è che tale teoria finisca, per lo meno in Spencer, con il caricarsi di valenze morali, e per giunta di tipo “selettivo” e discriminatorio nei confronti di chi si mostra evolutivamente poco dotato di fitness; detto altrimenti, gli “effetti biologici” dell’evoluzione verrebbero anche qualificati come buoni o cattivi in senso morale. Si tratta di una fallacia riscontrabile anche in qualsiasi altra posizione che trasformi delle conoscenze scientifiche, che come tali dovrebbero essere intenzionalmente limitate all’indagine di alcuni fenomeni del reale, in conoscenze esaustive dell’interezza del reale, comprendenti pertanto anche la nostra esperienza valutativa e normativa. L’esito in definitiva consiste in una comprensione semplicistica, proprio perché riduzionistica, della morale: di fatto si fa valere la pretesa di poter determinare in modo diretto e immediato che cosa sia buono in senso morale, chiudendo sin da subito la discussione su ciò che invece dovrebbe costantemente rimanere aperto, proprio perché ha a che vedere con domande e riflessioni di ordine etico. La prospettiva in terza e in prima persona Alcuni anni orsono Daniel C. Dennett ebbe modo di affermare che «i metodi in terza persona delle scienze naturali bastano per indagare la coscienza con la stessa completezza di qualsiasi altro fenomeno in natura, senza alcun significativo residuo»6. Tanto entusiasmo a mio parere non è condivisibile, e non certo perché non si debba tener conto dei risultati della ricerca scientifica o si possa rinunciare a cuor leggero alla sua metodologia (anche se molto vi sarebbe da precisare rispetto ai requisiti di oggettività, controllabilità, rivedibilità, falsificazione, e così via); semmai il problema consiste nel voler programmaticamente assumere l’unica ed esclusiva prospettiva della terza persona. In altri termini, il progetto di naturalizzazione di tipo ontologico, che pure è rintracciabile nelle parole di Dennett, non è in grado di dar conto della complessità e della ricchezza della nostra identità pratica, che si dialoghi n. 1 marzo 2015

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costruisce nella quotidianità dell’esperienza. Tale tipo di naturalizzazione sottovaluta infatti la rilevanza della dimensione praticomorale nella vita del singolo soggetto, la quale non può essere rappresentata solo attraverso una descrizione uniforme dei correlati neurali che solitamente sono implicati in quanti sono posti, per esempio, di fronte a determinati interrogativi morali. L’applicazione di una procedura riduzionistica, fondata su un’epistemologia naturalizzata e un’ontologia fisicalistica, oltre a non cogliere la varietà dei fenomeni dell’esperienza umana, comporta una sorta di dispersione, se non di vera e propria dissoluzione, della singolarità. Proprio per questo motivo, oltre alla descrizione neurobiologica dei correlati neurali, è necessaria un’indagine capace di rendere conto della nostra esperienza in prima persona e del lungo e continuo processo di costruzione della nostra identità pratica. Come ha sostenuto efficacemente Adina L. Roskies7, nella prospettiva dello spettatore (terza persona) ci si limita a dar conto del processo di deliberazione in modo estrinseco e meccanico; nella prospettiva della prima persona si adotta piuttosto un atteggiamento attivo: perché quei motivi, quelle ragioni coinvolte nella deliberazione sono rilevanti per me? Perché li considero degni di essere vagliati e soppesati? Perché esigono un’adesione e un impegno da parte mia? Dall’analisi del processo della deliberazione e del suo darsi secondo determinati parametri si passa così a considerare, nella prospettiva personale, la coscienza del contenuto implicato, ovvero la coscienza di quei motivi e di quelle ragioni avvertiti come significativi. Non solo: è importante anche guardare a se stessi come a soggetti che persistono nel tempo e ciò significa che vi è una continuità della coscienza del soggetto, che va al di là di quelle manifestazioni momentanee, oggetto di rappresentazione in terza persona. La nostra identità pratica è attraversata, anzi sostenuta, verrebbe da dire, dalla dimensione del desiderio, termine più comprensivo e significante di quelli di emozione, di passione, di sentimento, con i quali pure per certi aspetti può essere posto in relazione. Il desiderio costituisce la modalità più immediata e diretta della nostra apertura al mondo; esso svolge una funzione orientativa, pratica e cognitiva, che ci consente di partecipare del reale8. Ovviamente il desiderio, questa struttura tensionale che sorregge il nostro essere, è sottoposto, nelle condizioni concrete dell’ethos ovvero nelle concrete forme di vita in cui ci troviamo, a un’opera di affinamento e apprendimento, che può ben conoscere esiti diversificati. Ciò segnala però parallelamente la possidialoghi n. 1 marzo 2015


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L’animale uomo e la cultura Oltre che desideranti, siamo esseri che riflettono e ragionano e che esprimono delle valutazioni. La riflessività e la capacità valutativa sono per noi umani qualcosa di… naturale, proprio perché siamo esseri sociali, dotati di linguaggio. Nella deliberazione pratica noi ci scopriamo appunto come esseri riflessivi, che esercitano una razionalità pratica; facciamo valere dei giudizi critici di tipo valutativo e normativo, e non ci limitiamo a esprimere delle asserzioni su dei fatti; valutiamo i fatti e gli atti che compiamo e cerchiamo di “motivare” il nostro agire, e ciò avviene attraverso l’esercizio della ragione pratica, che avanza degli argomenti, dei motivi, delle ragioni per agire. Avanziamo delle ragioni per agire non solo a noi stessi, ma anche agli altri. Lo scambio delle ragioni è qualcosa di richiesto proprio perché siamo esseri sociali, e dobbiamo rendere conto delle nostre scelte, attraverso argomenti comprensibili a noi e agli altri. Tutto ciò può essere spiegato attraverso la naturalizzazione di tipo metodologico, indagando i correlati neurobiologici riscontrabili nell’esercizio della riflessività, nella capacità valutativa, nella forza motivazionale. Andare oltre, con spiegazioni riconducibili alla naturalizzazione di tipo ontologico, è un salto indebito: riflessività, capacità valutativa, socialità sono sì qualcosa di naturale, nel senso però che qualificano quella particolare natura dell’animale uomo che è anche cultura. «Non possiamo ridurre enunciati di azione a enunciati fisici», ha scritto Stuart Kauffman, un biologo evoluzionista. Il motivo risiede nel fatto che l’organismo biologico umano è un organismo che agisce; la mente umana non è quindi un mero sistema computazionale, ma «un sistema organico di significati e di atti»9. Per Gerald M. Edelman e Giulio Tononi la coscienza umana è di ordine superiore, presuppone una conoscenza della propria identità presente, passata e futura, ed è articolabile semanticamente e linguisticamente, il che la differenzia dalla semplice coscienza primaria degli animali, i quali sono privi di un vero linguaggio e dispongono di capacità semantiche e simboliche assai limitate10. Lo scenario qui si allarga dalla considerazione della mente e del cervello a quella del corpo e dell’ambiente in cui il corpo vive; la coscienza – si potrebbe dire – è coscienza della mente, che si dà dialoghi n. 1 marzo 2015

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bilità che la dimensione desiderativa possa essere, almeno in parte, plasmata e formata attraverso la cura degli altri esseri umani e ovviamente la cura di sé.

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grazie al cervello, che a sua volta è incarnato in un organismo che agisce nell’ambiente e quindi in un sistema di significati linguistici, sociali e culturali. L’organismo umano viene così ulteriormente definito come agency, da cui si dipartono e a cui pervengono atti e significati. Siamo quindi esseri agenti e dotati di linguaggio, che si esprimono attraverso significati, connessioni di senso intersoggettivamente comunicabili, simboli, e questo per inciso spiega perché non sia possibile una naturalizzazione completa della semantica. Certo le nostre competenze linguistiche, riflessive, valutative, rinviano a determinati correlati neurali e biologici; ma non è poi così strano immaginare che il loro esercizio, a lungo andare, influisca sugli stessi dispositivi di cui esse sono espressione. In fin dei conti possiamo imparare, almeno in parte, ad essere più riflessivi, a giudicare con più pertinenza, a valutare con maggiore equilibrio, ad orientare meglio il nostro desiderio. A ciò è preposta la cura di sé, grazie anche all’apporto degli altri e dell’ambiente, che si esplica nella formazione del carattere e in una continua costruzione della propria identità pratica. Note 1 P. S. Churchland, Neurobiologia della morale, Cortina, Milano 2012. 2 M. Gazzaniga, La mente etica, Codice, Torino 2006. 3 Cfr. C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 2006, pp. 100 ss. 4 J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 62. 5 G. E. Moore, Principia Ethica, Bompiani, Milano 1972, p. 105. 6 D. C. Dennett, Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, Cortina, Milano 2006, p. 27. 7 A. L. Roskies, Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni?, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice, Torino 2010, pp. 67-69. 8 Ho qui presente la concezione aristotelica dell’orektikon, ovvero di una dimensione desiderativa e sensitiva, che è alogon, irrazionale, e che tuttavia si lascia guidare da ciò che propriamente ci qualifica e ci specifica come esseri umani, l’elemento razionale. Straordinaria la sintesi a cui perviene Aristotele parlando, in riferimento all’uomo, di ragione che desidera (orektikos nous) o desiderio che ragiona (orexis dianoetike) (Etica Nicomachea, VI, 1139b 4-5). 9 S. Kauffman, Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Codice, Torino 2010, p. 81 e p. 185. 10 G.M. Edelman, G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000, pp. 120-130; 233-241.

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Il naturalismo dal punto di vista dello scienziato e nella fattispecie del biologo. Un punto di vista che da un lato contribuisce a definire in modo più preciso il rapporto tra naturalismo e scienza e dall’altro opera una critica della posizione di due significativi rappresentanti del naturalismo contemporaneo nell’ambito delle scienze biologiche, Jacques Monod e Richard Dawkins.

Le due anime del naturalismo scientifico di Carlo Cirotto

n tempi di sensibilità ecologica crescente, di desiderio di naturalità, di paura di un inquinamento che avanza, il termine naturalismo potrebbe apparire come l’ultimo nato tra i filoni della moda ecologista. Niente di tutto questo. Naturalismo è il nome di un modo scientificofilosofico di guardare la realtà, che si ispira al verbo della scienza per trarre considerazioni e prese di posizione di ordine filosofico. Il Dizionario Treccani lo definisce come «dottrina, teoria, tendenza filosofica o culturale che assume la natura a proprio fondamento, come oggetto esclusivo di indagine e supremo prin- Carlo Cirotto cipio esplicativo o come modello normativo da è stato docente di Citologia e Istologia imitare, in quanto considera le leggi e i feno- all’Università degli Studi di Perugia. Si è meni naturali come l’unica, effettiva, valida occupato dei processi del differenziamento realtà». Non è da credere che si tratti di un embrionale a vari livelli di complessità, frutto nuovo nel campo della filosofia. Nel interessandosi in particolare dei meccanismi corso della storia del pensiero, il termine embrionali del ricambio emoglobinico, «naturalismo» è stato applicato a un gran dell’eritropoiesi e dell’angiogenesi. numero di concezioni: dall’aristotelismo allo Ha pubblicato oltre un centinaio di articoli, spinozismo, dal positivismo ottocentesco due testi di Citologia e alcuni volumi all’empirismo logico. Sarebbe tuttavia difficile divulgativi. Per l’Ave ha scritto, con trovare punti di intersezione tra tutte queste R. Balduzzi e I. Sanna, Le mani sull’uomo. dottrine, al di là di un generico riferimento Quali frontiere per la biotecnologia? all’ambito del naturale quale oggetto d’indagi- (Roma, 2005). Dal 2008 al 2014 è stato ne della filosofia. presidente nazionale del Meic.

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Oggi, però, con lo straordinario sviluppo della scienza, e, soprattutto, con l’estendersi della convinzione che la scienza, visti i suoi risultati, è un tipo di conoscenza efficace, il termine «naturalismo» ha assunto connotazioni meno vaghe ed è possibile individuare almeno due posizioni intorno alle quali si registra una convergenza1: a) il rifiuto di riconoscere uno status ontologico a entità soprannaturali, accettando come possibili appartenenti al mondo reale solo quei tipi di cose che le teorie scientifiche pongono come oggetti della propria indagine; b) la convinzione che i metodi utilizzati dalla scienza nell’elaborazione delle sue teorie siano gli unici capaci di condurre a una conoscenza autentica. La prima posizione esprime, chiaramente, un divieto di natura ontologica dal momento che rappresenta una presa di posizione sulle forme di esistenza di ciò che c’è al mondo e prescrive che tali forme debbano essere quelle, e solo quelle, contemplate dalla scienza. Quest’ultima diviene così l’unica agenzia abilitata a legiferare sulla naturalità (e l’esistenza) delle cose del mondo. Alcune conseguenze di questa posizione appaiono però problematiche se non addirittura spiacevoli. Ad esempio, il bando nei confronti delle entità soprannaturali potrebbe comportare l’eliminazione dall’elenco del realmente esistente di entità astratte come i numeri e le strutture matematiche in generale. Ritengo che un’iniziativa del genere raccoglierebbe ben pochi consensi tra gli studiosi della natura! Una volta stabilito cosa sia da considerare un oggetto del mondo reale e cosa ne debba essere escluso, va risolto il problema di come possano essere conosciute le entità che sono state ammesse a far parte dell’esistente. La risposta viene dal naturalismo epistemico della seconda posizione, che afferma che solo i metodi conoscitivi delle scienze naturali possono produrre vero sapere. La filosofia, quindi, non dovrebbe essere vista come un’attività razionale che persegue obiettivi diversi da quelli della scienza, né tantomeno come un’impresa di fondazione ultima della legittimità conoscitiva della scienza2. Naturalismo ed evoluzionismo Il programma di naturalizzazione, oltre ad avere interessato molti settori della filosofia, ha coinvolto largamente – a volte vivacizzandoli, a volte inibendoli – molti ambiti delle scienze empiriche costringendo, da un lato, gli scienziati ad interrogarsi sulla correttezza delle loro impostazioni metodologiche e spingendoli, dall’altro lato, a misurarsi con le domande di dialoghi n. 1 marzo 2015


significato che la visione del mondo suggerita dalla scienza fa sorgere. Viste le mie competenze professionali, cercherò di focalizzare l’attenzione su di un tema che ciclicamente torna alla ribalta, ogni volta ringiovanito e con rinnovata capacità di suscitare dibattiti e controversie: l’evoluzione biologica. Fin dagli anni che immediatamente seguirono la pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin, in cui si difendeva l’idea che le specie viventi, con il passare del tempo, si fossero gradualmente trasformate le une nelle altre, fu chiaro che la teoria dell’evoluzione esposta in quel testo non aveva l’aspetto delle altre teorie scientifiche. Proponeva infatti una nuova visione del mondo, rivoluzionando la concezione tradizionale della natura e dell’uomo e, soprattutto, chiamando in causa argomenti che erano tradizionalmente riservati alla discussione filosofica e alla religione3. Com’era da attendersi, la nuova teoria innescò subito reazioni vivacissime alle quali si contrapposero, altrettanto tempestivamente, le risposte dei darwinisti. In breve tempo le polemiche divamparono e divennero incandescenti. Ad alimentare il fuoco non c’era tanto l’ipotesi – contraria alla lettera della Bibbia e alle opinioni degli scienziati di allora – che le specie viventi cambiassero nel tempo o che l’origine e la durata del mondo non fossero quelle descritte nei testi sacri, quanto l’idea che la specie umana fosse derivata da una Il naturalismo epistemico scimmia o da un altro mammifero e che, afferma che solo i metodi quindi, non fosse nient’altro che un animale4. conoscitivi delle scienze Fu soprattutto questo aspetto dell’evoluzio- naturali possono produrre nismo a scatenare l’ostilità di molti ambienti vero sapere. La filosofia, filosofici e religiosi. quindi, non dovrebbe essere Dopo le polemiche al calor bianco che, vista come un’attività nell’ultima metà dell’Ottocento e nei primi razionale che persegue anni del Novecento, avevano visto schierati su obiettivi diversi da quelli fronti opposti i fautori e gli oppositori della della scienza, né tantomeno teoria darwiniana, nuove scoperte della genetica come un’impresa e della paleontologia parvero confermare il di fondazione ultima pensiero di Darwin e, negli anni Trenta e della legittimità conoscitiva Quaranta, furono organicamente incorporate della scienza. in una nuova teoria capace di dar ragione di un numero considerevole di dati empirici. La nuova teoria fu chiamata sintesi moderna o neo-darwinismo e conquistò ben presto il consenso del mondo scientifico, divenendo un vero e proprio cardine del pensiero biologico5. Il favore con cui fu accolta portò ad un affievolimento dei contrasti e l’idea che nel corso del tempo dialoghi n. 1 marzo 2015

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i gruppi biologici avessero subito modificazioni e si fossero trasformati gli uni negli altri, fu accettata dai biologi e dal più vasto mondo degli uomini di cultura, indipendentemente dagli orientamenti filosofici e religiosi di ciascuno. Monod, il caso e la necessità L’evento che segnò il risveglio delle controversie fu la pubblicazione, nel 1970, de Il caso e la necessità del Nobel Jacques Monod6. In quel libro di impianto abbastanza divulgativo, che fu letto in tutto l’Occidente, l’autore proponeva una visione radicalmente materialistica del mondo, basata su due presupposti di chiaro stampo naturalistico: che la scienza fosse l’unica fonte di verità e che il neodarwinismo – distruttore dell’antica tradizione animistica – fosse da accogliere come l’unico e definitivo canone della biologia moderna. L’obiettivo fondamentale dell’opera era quello di negare validità a qualsiasi argomento che potesse far riferimento, anche solo indirettamente, a letture filosofico-metafisiche aperte al trascendente, facendo leva su tre assunti: la negazione di ogni finalismo, la negazione di leggi a giustificazione della complessità del vivente, l’attribuzione al caso di ogni novità evolutiva. Per dirla con le sue stesse parole, egli escludeva «ogni progetto di sviluppo organico, ogni legge che non sia il puro caso e la cieca necessità, ogni logica del vivente, ogni finalismo». È grazie all’acquisizione di questa verità che «l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso». Il carattere ideologico di una simile lettura può essere messo in evidenza analizzando i suoi tre punti fondamentali. Prima di tutto la negazione di ogni forma di finalismo. Qui sorge subito la domanda: il finalismo rientra tra le competenze della scienza sperimentale? In altre parole: la scienza sperimentale è in possesso degli strumenti metodologici che le consentono di dire una parola conclusiva sugli aspetti finalistici della natura? La risposta è, evidentemente, negativa. La scienza non estende la sua competenza alle finalità perché gli strumenti cognitivi in suo possesso – il metodo empirico – non le permettono di coglierle. Ci si chiede, allora, come il sapere scientifico possa escludere l’esistenza di un qualcosa che, quand’anche esistesse, non sarebbe comunque in grado di percepire. Di finalità è bene che parlino non gli scienziati ma i filosofi. Direttamente collegata alla negazione di finalità è la negazione dell’esistenza di leggi o logiche del vivente. È sconcertante, ma, dialoghi n. 1 marzo 2015


secondo Monod, la scienza non dovrebbe neanche perdere il suo tempo nella vana ricerca di inesistenti leggi del mondo della vita. Fortunatamente sono sempre più numerosi gli uomini di scienza che, contravvenendo a questa imposizione ideologica, studiano con nuovi approcci i viventi e la loro evoluzione e scoprono un imprevedibile mondo di regolarità e di logiche regolatrici7. Infine, l’attribuzione al caso di ogni novità evolutiva meriterebbe un particolare approfondimento perché si tratta del cavallo di battaglia delle più radicali prese di posizione e dei più virulenti attacchi ideologici. Mi limito a proporre alcune semplici considerazioni sull’argomento: a) caso non è sinonimo di probabilità; b) sia nella scienza deterministica classica che in quella statistica caso ha il significato di «assenza di intelligibilità»; c) il caso, quindi, non è in grado di spiegare nulla e, meno che mai, può essere considerato un reale agente propulsore dell’evoluzione. Considerazioni simili hanno portato Manfred Eigen a concludere: «Nell’esigenza di Monod […] noi vediamo una rivalutazione animistica del ruolo del caso…»8. Introducendo il libro di Monod, ho sottolineato La scienza sperimentale il suo carattere divulgativo. Non si tratta, è in possesso degli strumenti decisamente, di un’opera indirizzata a colleghi metodologici che le scienziati, appartenente alla letteratura scientifica consentono di dire una parola come le tante, fondamentali pubblicazioni che conclusiva sugli aspetti hanno fatto meritare il Nobel al biologo francese, finalistici della natura? ma di un testo indirizzato a non specialisti in cui La risposta è, evidentemente, vengono esposte alcune acquisizioni della scienza negativa. La scienza non opportunamente inquadrate in un sistema estende la sua competenza superiore di significati e valori, dettato dalle alle finalità perché gli convinzioni filosofiche e religiose dell’autore più strumenti cognitivi in suo che dagli specifici contenuti del proprio sapere possesso – il metodo empirico scientifico. È, questo, un modo assai efficace – non le permettono – dato il prestigio di cui gode la ricerca scientifica – di coglierle. per veicolare, nel nome della scienza, convinzioni ed ideologie che scientifiche non sono. Anche nel nostro paese numerosi biologi hanno sostenuto una versione metafisica dell’evoluzionismo, ispirata a principi rigidamente naturalistici. Alcuni hanno addirittura fatto un fascio di tutte le critiche rivolte al neodarwinismo considerandole nient’altro che espressioni di posizioni idealistiche, antinaturalistiche ed anti-scientifiche. Così Giuseppe Montalenti scrisse nel 1965: «I sentimenti anti-evoluzionisti, la ripugnanza per la genealogia animalesca dell’uomo […], le concezioni religiose dialoghi n. 1 marzo 2015

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che postulano l’esistenza di un’anima immortale, le filosofie a base idealistica […] si coalizzarono contro il materialismo, il positivismo, il naturalismo e, nella specie, contro la dottrina evoluzionistica»9. Anche in tempi a noi più vicini si è soliti appellarsi all’evoluzionismo per sostenere che «anche l’esistenza dello sviluppo del linguaggio, dell’arte, della scienza, dell’etica, delle conquiste del progresso, che questi strumenti culturali assicurano alla nostra specie, possono essere spiegati in termini gradualisticoevolutivi, senza fare ricorso ad alcuna loro origine, ad alcuna loro ispirazione divina o comunque eterogenea rispetto al resto dell’evoluzione naturale» (Franceschelli, 2005). Dal testo di Orlando Franceschelli10 risulta chiaramente come dal campo della teoria evoluzionistica vengano estrapolate all’intera realtà le acquisizioni, limitate, incerte e provvisorie di un gruppo di ipotesi scientifiche concernenti le trasformazioni dei gruppi tassonomici vegetali ed animali. Come Franceschelli, molti naturalisti, nell’esporre le loro riflessioni, non si sono mantenuti entro l’ambito delle proprie competenze ed hanno preteso di estendere – spesso molto ingenuamente – i risultati delle ricerche scientifiche al campo della filosofia o a quello della riflessione religiosa. La guerra di Dawkins Un’impostazione assai simile caratterizza le molte opere divulgative dello zoologo inglese Richard Dawkins. In una serie di libri, che hanno avuto una larghissima diffusione in tutto il mondo, egli ha proposto un’originale concezione dell’evoluzione e dell’intero mondo vivente nella quale i fenomeni non vengono visti dalla prospettiva degli organismi individuali o delle popolazioni, ma dalla prospettiva dei geni. Tuttavia, nei libri di Dawkins non è stata avanzata soltanto una nuova teoria concernente i meccanismi e il significato biologico dell’evoluzione, ma è stata proposta un’intera concezione della realtà, prettamente materialistica ed atea. Dal Gene egoista all’Orologiaio cieco fino al Cappellano del diavolo, Dawkins è andato esponendo ed approfondendo questa visione del mondo e ha assunto un atteggiamento sempre più radicale e intransigente verso coloro che non condividono la sua concezione monista della realtà, sostenendo che chi ritiene adeguate le conoscenze scientifiche sul mondo è obbligato ad essere ateo. Tra gli uomini di scienza, le posizioni di Dawkins hanno suscitato sia consensi che dissensi. Alcuni, la maggioranza, si sono arruolati nel suo esercito assumendo posizioni nelle quali naturalismo dialoghi n. 1 marzo 2015


filosofico, scientismo ed ateismo si confondono per costituire un’unica visione del mondo, secondo la quale le conoscenze scientifiche attuali porterebbero a ritenere implausibile l’idea di una «guida di Dio ai processi evolutivi» e «l’intervento di qualcos’altro». Altri, la minoranza, hanno invece espresso il proprio disaccordo in molti modi, spesso assai vivaci. Alla guida di questo drappello c’è il famoso evoluzionista di Harvard e divulgatore scientifico Stephen Jay Gould che si è battuto per una convivenza pacifica tra scienza, filosofia e religione, assegnando competenze separate ai tre ambiti, secondo uno schema che egli definisce «magisteri non sovrapponibili»11. Il pensiero di Dawkins è stato analizzato in maniera approfondita ed organica da Alister McGrath, professore ad Oxford e uno dei più noti teologi inglesi. McGrath ha iniziato la propria carriera di studioso come biofisico e biochimico e, solo in un secondo tempo, si è dedicato agli studi filosofici e teologici. È in possesso, quindi, di tutte le competenze – anche quelle esperienziali di ricercatore scientifico – che garantiscono attendibilità alle analisi e credibilità ai giudizi. Il libro di McGrath, Dio e l’evoluzione, è una lunga e puntuale argomentazione che mette in evidenza i presupposti delle tesi di Dawkins, ne dimostra i limiti e ne smonta le conclusioni12. Ne consiglio la lettura a coloro che vogliano approfondire l’argomento. Qui di seguito mi limiterò ad accennare i cardini del suo pensiero. Il punto focale della critica che McGrath muove a Dawkins, è di natura epistemologica. Egli Il problema dell’esistenza di mette in rilievo il fatto che lo zoologo inglese Dio è un problema parla come scienziato e in nome della scienza ma squisitamente filosofico, ciò non si accorge di trattare problemi che fanno che dice la scienza naturale parte della filosofia. Infatti, Dawkins, sostenendo non può in nessun modo che la scienza è l’unica conoscenza degna di tale risolvere il problema. nome, non presenta soltanto una teoria scientifica, circoscritta e controllabile, ma una vera e propria filosofia della natura, che è basata su una specifica metafisica materialista. Alla domanda di fondo se il darwinismo sia necessariamente ateo, McGrath dà una risposta che si rifà ancora all’epistemologia: il metodo scientifico è soltanto un metodo, che non può, per sua natura, portare ad alcuna conclusione nel campo filosofico. Ma poiché il problema dell’esistenza di Dio è un problema squisitamente filosofico, ciò che dice la scienza naturale non può in nessun modo risolvere il problema. È sul piano della razionalità che McGrath muove il suo attacco più deciso al naturalismo di Dawkins e, più in generale, a quello dialoghi n. 1 marzo 2015

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LE DUE ANIME DEL NATURALISMO SCIENTIFICO

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dei neodarwinisti. In genere, i seguaci del naturalista inglese considerano l’evoluzionismo come una verità indubitabile e definitiva. Questo modo di concepire la scienza, tuttavia, si rivela ingenuo e inadeguato alla luce dell’epistemologia contemporanea. Se, infatti, come è ormai del tutto evidente sul piano teorico e su quello storico, il sapere scientifico è un sapere fallibile, approssimato e in continuo cambiamento, come possono Dawkins e gli evoluzionisti più ortodossi essere certi che in futuro un’altra teoria, diversa e migliore delle attuali, non dimostrerà che il darwinismo è in tutto o in parte errato? Ma – si chiede McGrath – se una teoria scientifica è destinata a restare per sempre incerta, in che modo potrà costituire il fondamento per una concezione metafisica della realtà? Un auspicio Da questa panoramica, necessariamente breve, non può che emergere l’auspicio che gli uomini di scienza promuovano in modo deciso iniziative di differenziamento all’interno della propria visione del mondo così che le competenze dei vari ambiti del sapere risultino sempre più chiaramente distinte e si evitino corti circuiti intellettuali che ben poco hanno da spartire con la scienza empirica. Note 1 A. Pagnini, Naturalismo, Enciclopedia Italiana – VII Appendice (2007), pp. 197-199. 2 Cfr. F. Laudisa, Naturalismo. Filosofia, scienza, mitologia, Laterza, Roma-Bari 2014. 3 Cfr. S. Otto Horn, S. Wiedenhofer (a cura di), Creazione ed Evoluzione, EDB, Bologna 2007. 4 Cfr. D. Morris, La scimmia nuda. Studio zologico sull’animale uomo, Bompiani, Milano 2006; E. Capanna, T. Pievani, C.A. Redi, Chi ha paura di Darwin?, Ibis, Como-Pavia 2006. 5 Cfr. T. Pievani, La teoria dell’evoluzione, Il Mulino, Bologna 2006. 6 Cfr J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Arnoldo Mondadori, Milano 1970. 7 Cfr. A. Minelli, Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo, Einaudi, Torino 2007. 8 M. Eigen, R. Winkler, Il gioco. Le leggi naturali governano il caso, Adelphi, Milano 1986, p. 153. 9 G. Montalenti, L’evoluzione, Einaudi, Torino 1965, p. 16. 10 O. Franceschelli, Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli, Roma 2005. 11 F.J. Gould, I pilastri del tempo. Sulla presunta inconciliabilità tra fede e scienza, Il Saggiatore, Milano 2000. 12 A. McGrath, Dio e l’evoluzione. La discussione attuale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

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A proposito di: le attuali forme principali del naturalismo; la posizione corretta del naturalismo liberalizzato; il ruolo delle neuroscienze e l’illusorietà del libero arbitrio e della responsabilità morale. E ancora: volontà di Dio e natura biologica; realismo morale e riduzionismo metodologico.

Naturalismo e natura. Concetti e limiti Intervista a Mario De Caro e Cataldo Zuccaro a cura di Andrea Aguti

lcune domande per altrettante piste di approfondimento. Mario De Caro, filosofo, fra i maggiori studiosi del naturalismo, ci offre una panoramica sulle forme attuali del naturalismo e ci dice in quale senso e fino a quale punto è possibile “naturalizzare” l’essere umano, e se ci sono margini per conciliare naturalismo e teismo. Cataldo Zuccaro, teologo, risponde su come legare in modo più puntuale il tema del naturalismo al concetto di natura, un concetto che ha svolto e svolge tutt’oggi un ruolo significativo nell’ambito della teologia morale cattolica.

A

Qual è una definizione plausibile di naturalismo e che cosa distingue il naturalismo contemporaneo dal positivismo, dal neopositivismo e in genere dallo scientismo moderno? De Caro. Il naturalismo assume oggi due forme principali. Nella versione più comune (che si può chiamare «naturalismo scientifico» o «naturalismo stretto»), questa concezione afferma che dal punto di vista epistemologico e da quello ontologico le scienze naturali hanno l’esclusiva della verità. Ovvero, solo le scienze naturali possono dirci ciò che esiste e possono dirlo in modo epistemicamente accettabile, nel senso che tutte le altre pretese forme di conoscenza (le scienze sociali, il senso comune, le forme artistiche, l’intuizione) possono essere accettate solo nella misura in cui i loro risultati siano riconducibili a quelli della ricerca dialoghi n. 1 marzo 2015

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scientifica. Un corollario di questa concezione è che la filosofia deve essere pensata e sviluppata in continuità della scienza per oggetto, metodo e scopi. Questo tipo di naturalismo è ovviamente molto simile, nello spirito, al positivismo classico e in certa misura anche al neopositivismo. La differenza principale è che la maggior parte dei positivisti e dei neopositivisti erano empiristi radicali rispetto alle entità inosservabili postulate dalla scienza, e dunque aderivano a una forma di idealismo scientifico, mentre i naturalisti scientifici di oggi tendono ad aderire al realismo (mentre per i positivisti classici gli atomi erano delle costruzioni utili a spiegare e a predire i fenomeni, per i naturalisti scientifici contemporanei gli atomi esistono veramente). C’è però un’altra versione del naturalismo (che si può chiamare «naturalismo liberalizzato» o «naturalismo pluralistico») che ha una visione assai diversa del rapporto tra scienza e filosofia. Questa concezione nega infatti che la scienza abbia l’esclusiva ontologica ed epistemologica, perché esistono altre forme legittime di conoscenza, irriducibili alle forme della conoscenza scientifica, che ci parlano di aspetti della realtà su cui la scienza non può avere pretese di esaustività (o forse non può dire proprio nulla). Questi fenomeni irriducibili sono quelli della coscienza, della morale, dell’intenzionalità, della normatività in genere. Di questi fenomeni la fisica e la biologia possono dirci quali siano le «condizioni abilitanti» – le condizioni che li hanno resi fisicamente possibili – e possono forse raccontarcene lo sviluppo ontogenetico e filogenetico, ma non possono illuminarne la natura e il significato. Il naturalismo contemporaneo si appoggia in modo privilegiato alla scienza per dimostrare la validità delle proprie tesi e in particolare ai successi conseguiti da quest’ultima per quanto riguarda la spiegazione del mondo fisico, ma il modello di spiegazione delle Mario De Caro scienze empiriche può costituire un modello è docente di Filosofia morale all’Università di valido di spiegazione anche per altri ambiti Roma Tre, insegna anche alla Tufts University del sapere? nel Massachussetts. È condirettore, con M. Ferraris, della collana «Nuovo realismo» dell’editore Mimesis. Tra le sue pubblicazioni: Bentornata realtà, Einaudi, Torino 2012; Azione, il Mulino, Bologna 2008; Il libero arbitrio, Laterza, Roma-Bari 2004.

De Caro. A mio giudizio la posizione corretta è quella del naturalismo liberalizzato: ci sono aspetti della realtà che le scienze naturali non possono costitutivamente trattare. L’esempio della normatività è in questo senso molto caldialoghi n. 1 marzo 2015


zante. Come mostra il famoso paradosso del «seguire una regola» di Wittgenstein e Kripke, i fenomeni normativi non possono essere ridotti a categorie descrittive: non c’è modo, per esempio, di ridurre le categorie del discorso morale alle categorie della biologia o nemmeno a quelle della psicologia. C’è poi da aggiungere che spesso i naturalisti scientifici hanno una visione molto semplificata della scienza: non esistono un metodo o un oggetto della scienza né un unico obiettivo che la scienza persegue. Il pluralismo, insomma, inizia già all’interno delle scienze naturali. In quale senso e fino a quale punto è possibile “naturalizzare” l’essere umano? De Caro. Credo che, almeno in linea di principio, sia possibile dare conto scientificamente delle condizioni fisiche e biologiche che hanno reso possibile, di fatto, l’evoluzione dell’homo sapiens, con le relative capacità di pensiero razionale, intenzionale e morale. Ma sui contenuti del pensiero razionale, intenzionale e morale e sulle nostre capacità di argomentazione non credo che la scienza naturale potrà mai sviluppare un discorso esaustivo. Uno dei timori maggiori di fronte alla naturalizzazione dell’essere umano è che essa postuli o arrivi a concludere, in particolare rifacendosi ai risultati delle neuroscienze, che l’uomo non è libero e non ha una responsabilità morale in senso vero e proprio. È un timore reale? De Caro. Il discorso è complesso, ma certamente quanti affermano che le neuroscienze abbiano già dimostrato, o siano sul punto di dimostrare, l’illusorietà del libero arbitrio e della responsabilità morale sono Cataldo Zuccaro profondamente in errore sia per ragioni di è sacerdote della diocesi di Frosinonemetodo che di contenuto. Tuttavia, dicevo, il Veroli-Ferentino, insegna Teologia morale discorso è complesso, soprattutto perché una fondamentale alla Pontificia Università delle più solide opzioni teoriche possibili, il Urbaniana. È professore invitato presso cosiddetto «compatibilismo», sostiene che l’Università degli studi di Urbino «Carlo Bo». libero arbitrio e responsabilità morale siano È assistente nazionale del Movimento perfettamente compatibili con il determini- ecclesiale di impegno culturale. Tra i suoi smo naturale. E ciò mostra che, anche se la libri: Teologia morale fondamentale, questione del determinismo è a sua volta intri- Queriniana, Brescia 2013; Roccia o cata, la presunta minaccia che arriverebbe al farfalla? La coscienza morale cristiana, Ave, libero arbitrio dalle neuroscienze (ovvero la Roma 2008. dialoghi n. 1 marzo 2015

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minaccia che esse possano dimostrare che tutti i nostri comportamenti sono interamente determinati) è in realtà un’illusione ottica. Abbiamo ottime ragioni per pensare che, se anche fossimo interamente determinati, potremmo continuare a pensarci liberi e responsabili. In un’ottica naturalistica il teismo, cioè la posizione teorica che ammette l’esistenza di un Dio personale che agisce nel mondo, viene considerata ridondante o superflua. Com’è noto, molti rappresentanti del naturalismo contemporaneo hanno dato vita a una forma di «nuovo ateismo». Ci sono margini per conciliare naturalismo e teismo? De Caro. In realtà esistono anche autori credenti vicini al naturalismo (per esempio, Robert Audi o Lynne Baker). In generale, il loro punto di vista è che Dio ha creato un mondo che obbedisce alle leggi naturali e che non si devono postulare interventi soprannaturali nel nostro mondo. Con questo tipo di assunzione, per esempio, il «near-naturalism» di Lynne Baker è perfettamente compatibile sia con il naturalismo (almeno quello liberalizzato) sia con il teismo. Insomma: la distanza tra un certo tipo di naturalismo e un certo tipo di teismo non è incolmabile. Il concetto di natura ha giocato e continua a giocare un ruolo notevole nella teologia morale cattolica, ma si ha la sensazione che per molti teologi sia divenuto un’eredità ingombrante. In quale senso oggi è possibile declinarlo? Zuccaro. L’aspetto maggiormente problematico della legge naturale credo che vada ricercato in una comprensione spesso fisicista che ha fatto poca attenzione nel distinguere la volontà di Dio nei confronti della natura biologica e la sua volontà nei confronti del corretto comportamento dell’uomo nelle sue relazioni con gli altri e con l’ambiente. Di conseguenza, si è pensato di leggere nelle strutture fisiche delle cose il dettato di Dio circa il corretto agire morale dell’uomo. Accanto a questo limite, va segnalato il fatto che la visione del cosmo era comunemente concepita come fissa e bene ordinata, per cui l’ordine presunto nella natura era di fatto il riflesso dell’ordine voluto da Dio. Pertanto l’immutabilità, che ancora continua a connotare una delle caratteristiche della legge naturale, era indebitamente prolungata sino alla determinazione di comportamenti particolari che sono, invece, dialoghi n. 1 marzo 2015


solo frutto di culture particolari, spesso lontane dalla cultura occidentale. Purificata da queste derive, la nozione di legge naturale può ancora svolgere un compito maieutico nella morale e non solo in quella teologica. Infatti, nel suo zoccolo duro essa ricorda come la persona non possa rassegnarsi a vivere in modo arbitrario, come se navigasse in mare aperto senza alcun riferimento, ma può realizzarsi in base ad un disegno e ad un piano. Esiste una verità della persona, anche se non è già data in modo misterioso da qualche parte fin nei minimi particolari. Occorre cercarla. Questo è lo spazio della libertà, della storicità, della responsabilità dell’uomo. L’antropologia cristiana da sempre ha visto questo dono e questa esigenza nell’affermazione che l’uomo è creatura di Dio. La dottrina tradizionale della legge morale naturale può avanzare ancora una pretesa di validità nel contesto del pluralismo etico contemporaneo? Zuccaro. Intanto, vorrei togliere un po’ di splendore a quell’aureola di santità che il termine pluralismo si è acquistato nella cultura contemporanea. Certo non si può concepire un’etica monolitica, anche perché i prolungamenti interpretativi della legge naturale non sono predeterminati, ma sono frutto di comprensioni storicamente determinate e quindi plurali. In tal senso, possono darsi interpretazioni storiche diverse e pure legittime della legge naturale. Su questa base, la legge naturale può far parte della pluralità di impostazioni etiche contemporanee. Anzi, queste ultime possono aiutare la legge naturale ad evitare di attribuire frettolosamente un valore assoluto ad alcune norme che invece sono frutto di interpretazioni storiche e culturali. Da parte sua, la legge naturale può contribuire a dare contenuto ad un’etica che rischia di essere assorbita nel nichilismo e nella sterilità di una procedura formale senza sostanza. Il riferimento al concetto di natura nel discorso etico si coniuga necessariamente a una forma di realismo morale, cioè alla posizione che ritiene che i nostri giudizi morali si riferiscano a realtà che sono indipendenti dal soggetto che le percepisce? Zuccaro. La risposta dipende molto da come intendiamo il realismo morale. Infatti, se esso si comprende come un oggetto assolutamente indipendente dalla persona, quasi come una realtà fisidialoghi n. 1 marzo 2015

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ca e materiale che può essere misurata, allora la concezione morale sarà sbilanciata sulla produzione, meglio sulla riproduzione, di atti già esistenti da qualche parte. Ma una tale presunzione è stata messa in discussione già dal principio di indeterminazione di Heisenberg o dal teorema di Gödel: in qualche misura l’osservatore entra sempre dentro la realtà osservata causando una certa perturbazione del suo stato oggettivo. Passando al campo della morale, occorre ricordare che ogni azione che rivendica la qualità di bene o di male deve scaturire da una decisione personale della coscienza morale. Pertanto il realismo, che pure è richiesto dalla legge naturale, non può darsi senza riferimento alla persona agente. Naturalmente questo non va inteso come se qualunque decisione di coscienza fosse di per sé giusta: l’errore, anche in buona fede, è sempre possibile. Pertanto, il realismo morale è frutto dell’agire responsabile della persona che, sulla base degli elementi moralmente rilevanti, decide l’azione che meglio risponde alla sua intenzione di bene. In questo modo si supera il limite di ridurre la morale a semplice produzione di azioni materiali e nello stesso tempo il soggettivismo e l’arbitrarietà, dal momento che la decisione è determinata da una ponderazione oggettiva di valori. Con il termine «naturalizzazione» molti filosofi e scienziati oggi intendono lo studio dell’essere umano secondo il metodo delle scienze empiriche e in particolare delle neuroscienze. Quale valutazione può dare il teologo cristiano di questo tentativo? Zuccaro. Giustamente è stato fatto osservare che esiste una sorta di «riduzionismo metodologico», inteso come una strategia di ricerca scientifica che indaga sui singoli elementi costitutivi di una realtà per conoscerla meglio. La riduzione metodologica aiuta gli scienziati a stabilire delle catene di causa ed effetto, in modo da poterle più facilmente esporre in termini matematici. Ora, è vero che le singole parti non possono dare ragione dell’insieme di un organismo vivente, che certo è più complesso delle singole parti che lo costituiscono. Gli organismi viventi manifestano delle proprietà che non sono riducibili alle proprietà dei loro componenti fisici e chimici. Gli insiemi sono soggetti alle leggi che governano le loro parti, ma i medesimi insiemi possono avere «proprietà emergenti» (emergent properties) che non esistono e sono assolutamente imprevedibili nelle loro compodialoghi n. 1 marzo 2015


nenti individuali prese come unità isolate. Il riduzionismo metodologico, che postula la necessità di spiegare i fenomeni naturali a partire dall’esame delle singole componenti della realtà fisica, senza ricorrere all’azione di un Dio trascendente, è certamente compatibile con la morale, in quanto non presume né di affermare l’esistenza di Dio né di negarla. Diverso è il discorso del «riduzionismo epistemologico» o, ancora più radicalmente, «ontologico», che sostengono che tutto ciò che esiste, tutti i fenomeni della vita (coscienza, mente, morale, società…) si debbano spiegare esclusivamente sulla base di leggi fisiche. Questo riduzionismo va oltre l’ambito di competenza della scienza e introduce di contrabbando un asserto di natura filosofica: la realtà è riducibile al solo aspetto fisico. Ora, altro è dire che per conoscere ciò che appartiene al regno materiale occorre spiegarlo con le scienze (riduzionismo metodologico), altro invece è dire che solo il mondo materiale è reale (riduzionismo ontologico). L’errore consiste nell’introdurre un presupposto filosofico che di per sé non appartiene all’epistemologia delle scienze. Sulla base di queste distinzioni, le neuroscienze possono aiutare la teologia morale a gettare una maggiore luce sulle condizioni antropologiche che rendono possibile l’attività della coscienza morale. L’errore delle neuroscienze è la presunzione di catturare e imbrigliare la coscienza morale dentro la rete delle sinapsi, cosi da privare la persona della libera e consapevole responsabilità della decisione.

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Corpo, spazio, sguardo ne Il giovane favoloso. Il film di Martone nella sua eleganza “bipolare” – fra romanticismo e contemporaneità – e nella sua disciplina del corpo e dello sguardo rispetto ai limiti esteriori e interiori dello spazio, riesce veramente a scrivere questa biografia alternativa di un Leopardi naufrago nel mare del suo tempo. Forse il primo dei moderni nella sua disorganicità al sistema.

Nella gabbia del Leopardi di Adriano D’Aloia

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eopardi a testa in giù. Persino la locandina, in cui il volto in primo piano di Giacomo interpretato da Elio Germano è al rovescio, suggerisce che il senso profondo di questa favola giovanile è da ricercare in un problematico, controverso, originale, poetico rapporto fra il corpo e lo spazio. Nel costante disperatissimo tentativo di liberazione dai vincoli stringenti della fisicità e della società. Almeno in tutta la prima parte del film, ambientata a Recanati, la vita di Giacomo è rinchiusa in una gabbia geometricamente perfetta, un congegno di finestre, corridoi, stanze, androni che compongono uno spazio vitale ristretto, un perimetro inviolabile disegnato attorno ai moti interiori di un’anima scossa da un’energia prorompente. La disciplina della condotta imposta a Giacomo dal padre e tutore Monaldo è una disciplina quasi “architettonica”, certamente topologica, nel suo esercitarsi per mezzo di un controllo visivo attraverso confini domestici marcati da soglie strategiche ben definite e invalicabili senza che scatti un Adriano D’Aloia allarme. La prima parte è una grande lezione di è docente di Storia del cinema all’Università cinema in cui angolazioni di ripresa e movimenCattolica del Sacro Cuore. È critico ti di macchina restituiscono magistralmente la cinematografico e saggista per le principali medesima organizzazione spaziale e il medesimo riviste di settore. È inoltre autore del volume controllo. Il film infatti non solo articola e rapLa vertigine e il volo. L’esperienza filmica fra presenta ma pure adotta nel suo stesso stile queestetica e neuroscienze cognitive, sta dinamica, giocando sapientemente – forse Ente dello Spettacolo, Roma 2013. provocatoriamente – fra due opposti. Da un lato

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delimita sullo schermo composizioni d’ascendenza romantica, a dispetto della posizione critica del poeta rispetto al Romanticismo, veri e propri quadri quasi statici di matrice pittorica e intrisi al contempo di razionalismo e patetismo (la fotografia del film è di Renato Berta). Dall’altro getta sprazzi del più ruvido e contemporaneo stile cinematografico (la camera a mano, la musica elettronica della colonna sonora di Sasha Ring…). Il Leopardi di Martone è sufficientemente post-romantico e sufficientemente anti-moderno da risultare aristocratico e pop. Una perla nel panorama cinematografico italiano di metà decennio. Per rendere conto di questa duplice eppure unitaria essenza, cominciamo dagli esterni. A Giacomo non è consentito uscire di casa senza un motivo e senza accompagnamento. Quando capita, ecco inquadrature che schiacciano la sua figura claudicante lungo muri scorciati da profondi punti di fuga laterali, ma senza orizzonte, quasi pareti di un labirinto che privano l’ambiente di uno sguardo d’insieme. La composizione si fa invece frontale e piatta, palesemente pittorica, quando la corrispondenza epistolare con Pietro Giordani è resa attraverso una serie di quadri in cui le silhouette umane si stagliano sul paesaggio invaso di luce, entro cornici disegnate lungo i bordi dell’inquadratura dall’ombra arcuata di varchi e passaggi. Questa galleria illustra visivamente, per contrasto, il senso dell’attesa trepidante e della passione letteraria che incalza invece a livello sonoro nelle voci fuoricampo dei due letterati che “dialogano” a distanza. Il rapporto a contrasto fra sonoro e visivo e questa modalità di vocalizzazione della parola scritta si ritrovano nella sequenza dell’Infinito – non a caso il testo per eccellenza sui vincoli dello spazio e dello sguardo (il guardo esclude) e sulla libertà dell’immaginazione (nel pensier mi fingo). Anche in questo caso l’immagine romantica e bucolica dell’orizzonte oltre la siepe è accostata a una musica tutt’altro che ottocentesca: un sibilo crescente e fitto di rumori, per tutta la prima parte del testo, per poi sciogliersi come si scioglie l’immaginazione del poeta, sino al naufragio. E anche in questo caso (e così per quasi tutte le altre liriche), Martone sceglie – nella logica pienamente teatrale che gli è propria – di far pronunciare a Giacomo le poesie: una voce-scrittura grazie a cui persino vediamo nascere i versi sulle sue labbra – poesia che si scrive direttamente nella voce e nella faccia e nel corpo del poeta; e in più versi rappresentati nell’occasione esatta, nel paesaggio emotivo in cui sorgono. Una poesia visiva e sonora – dunque specificamente cinematografica – che incarna la scrittura in una voce, la voce in un corpo, il corpo in un contesto. dialoghi n. 1 marzo 2015

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Come il sibilo elettronico della Natura nella prima parte dell’Infinito, così altre soluzioni linguistiche rendono questo Leopardi decisamente contemporaneo. All’eleganza compositiva dei campi totali paesaggistici e dei quadri pittorici, nella stessa prima parte del film si contrappone spesso la camera a mano e dunque piani instabili e ravvicinatissimi: un passo irrequieto, addossato ai volti, che riflette l’irrequietezza del poeta, le sue paure, le sue frustrazioni, le sue aspirazioni, le sue delusioni, letterarie e sentimentali. Anche negli interni, nelle quiete stanze di casa Leopardi, la disciplina dello spazio è un conflitto fra prigionia e tensione alla fuga, fra interno ed esterno, fra interiorità ed esteriorità, fra razionalismo e irrazionalismo. La claustrofobica geometria della protezione paterna (o comunque domestica) si esercita attraverso un complesso sistema di sguardi incrociati. Già nelle primissime immagini del film è la finestra a dominare, quadro di delimitazione del mondo esterno e al contempo unico pertugio. Limite e pertugio in primo luogo dello sguardo. Dalla prospettiva di Giacomo, seduto allo scrittoio orientato non a caso in diagonale, non si vedono che i tetti degli edifici di fronte. Per poter scorgere cosa accade dabbasso sulla strada Giacomo deve alzarsi, e così la macchina da presa alle sue spalle per mostrare allo spettatore, in semisoggettiva, il suo punto di vista. Il gioco di sguardi è un guardarsi di finestre, quella di Giacomo e quella dirimpetto di Silvia. Anche da morta, poco prima che alla bara venga messo il coperchio, per un attimo a Giacomo sembra che il suo primo amore impossibile apra gli occhi, e che per l’ultima volta ricambi il suo sguardo. Ma la macchina da presa appostata alla finestra del poeta si muove anche lungo l’asse orizzontale, ruota verso sinistra, orientando il proprio occhio verso il corridoio in fondo al quale si trova lo studio di Monaldo, lungo la traiettoria del controllo cui a Giacomo è dato di sfuggire. Il film restituisce magistralmente il senso d’oppressione del giovane e la sua volontà di fuga in un’inquadratura che è certamente la più ardita del film. In una scena ambientata nello studio di Giacomo e dei fratelli, la sua figura è ripresa con un’angolazione dal basso; alle sue spalle le pareti di scaffali della biblioteca di famiglia, costruita volume per volume dal padre Monaldo. Il senso del peso degli studi e l’oppressione del padre è reso con un effetto ottico che deforma le proporzioni dell’ambiente, ottenuto spostando lentamente all’indietro la macchina da presa ma zoomando le lenti in avanti. Ne risulta l’impressione che la libreria si allontani alle spalle di Giacomo, mentre la sua figura sembra avvicinarsi e ingrandirsi progressivamente. dialoghi n. 1 marzo 2015


La tensione del movimento psichico – la volontà di fuga da Recanati – s’incarna nel movimento della macchina da presa anche nella scena del pranzo di famiglia: qui la macchina si allontana progressivamente, mentre si ode la voce fuori campo del Giordani che in una lettera lo invita a raggiungerlo a Milano. Gli risponde Giacomo che ormai «unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia». Alla fine è Giordani a venire da lui: il corpo, lo sguardo e la macchina da presa si alzano nuovamente per affacciarsi alla finestra e scoprire la carrozza e l’arrivo del suo padre putativo. Per la prima volta da solo si libera dalla morsa delle mura e corre per strada ad abbracciare Giordani. Con lui e il fratello va in visita a Loreto, seguito segretamente da Monaldo e dal sospetto che con le lettere arrivi anche la “rivoluzione” contro l’ordine costituito e i valori cristiani (Recanati era peraltro nello Stato Pontificio), ma soprattutto contro la patria potestà e certamente il patrio affetto… Ed è con una carrozza, in una notte ventosa, che Giacomo tenta la sua fuga dalla prigione natale. Ma al cocchiere si sostituisce proprio Monaldo, che ha scoperto tutto in anticipo. Il padre infligge al figlio una requisitoria che è un’altra eccezionale scena cinematografica, per le modalità in cui la morsa psichica acquista la forma di una trappola spaziale. In una stanza dalle pareti verde e rosse – quasi un’allucinazione cromatica –, Giacomo al centro, seduto su una sedia, isolato, “circondato” dal padre e dallo zio e dai loro rimproveri. L’angolazione è obliqua, come obliqua è la disposizione del tappeto sul pavimento al centro della stanza, a turbare ulteriormente gli assi della composizione, forse a riflettere l’ingobbimento incipiente di Giacomo sotto il peso opprimente della sua stessa condizione. Primissimi piani e campi totali si alternano per estremizzare le compressioni dello spazio e del corpo. Sotto i colpi dei suoi tutori, Giacomo reagisce iterando il suo grido di protesta – tratto ancora dalle lettere a Monaldo –: «Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero». E ancora, più forte, «Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega». E ancora. È in questo punto che si affaccia nel film la prima immagine per così dire “esogena”: quasi in una dimensione parallela, tutta psichica, con una fotografia più livida e il suono alterato, vediamo il grido di dolore di Giacomo, la testa fra le mani, ma senza udirlo. dialoghi n. 1 marzo 2015

ADRIANO D’ALOIA

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NELLA GABBIA DEL LEOPARDI

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La fanciullezza è ormai perduta: la partenza da Recanati è solo rimandata. Ecco allora un flash back, un lampo di memoria in cui Giacomo si rivede bambino, e annota amaramente: «E perché l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva, ed è passato né tornerà mai più, certo mai più; vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita». E mentre lo spettatore sente dalla voce fuori campo di Giacomo questo brano anch’esso tratto da una lettera a Giordani, il giovane si avvicina a un cancello, alza il mento e lo posa su uno spuntone, forse per gioco, forse per suggerire il proprio dolore per una vita che percepisce ingrata. La tensione corporea generata da questa immagine riflette l’afflizione dell’anima pronunciata dai suoi pensieri scritti a voce alta. Termina qui la prima formidabile parte del film. Cervello in costante fuga, Giacomo approderà ad altri lidi – Firenze, Roma brevemente, e poi Napoli – e tornerà a disporre il proprio scrittoio di sbieco di fronte ad altre finestre che lo proietteranno e al contempo separeranno dal mondo esterno, carcerato nel suo corpo malato e nel suo animo inquieto. Non dirò qui dei molti avvenimenti, delle tensioni affettive e intellettuali, delle frustrazioni sessuali e letterarie, delle amicizie virili e degli amori impossibili (il mito di Amore e Psiche, ovvero dell’amare senza sapere chi fosse l’amato), della lotta romantica fra l’uomo e la Natura (La ginestra che soccombe sotto la lava del Vesuvio), delle immagini oniriche e dei peccati di gola in cui Giacomo s’imbatte nel prosieguo del film. Non perché le parti successive a quella recanatese sulla formazione intellettuale del nostro siano estranee al corpo unico del film o possano essere trascurate. Anzi è proprio nel suo insieme che il film offre allo spettatore la possibilità di respirare l’aria – tipicamente martoniana – di un’avventura individuale, una favola giovanile, che è sempre epopea collettiva, biografia minuta inserita nel contesto della Storia del Paese. Tuttavia solo la prima parte del film, nella sua eleganza “bipolare” – fra romanticismo e contemporaneità – e nella sua disciplina del corpo e dello sguardo rispetto ai limiti esteriori e interiori dello spazio, riesce veramente a scrivere questa biografia alternativa di un Leopardi naufrago nel mare del suo tempo. Forse il primo dei moderni nella sua disorganicità al sistema. dialoghi n. 1 marzo 2015


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Un seminario della Presidenza nazionale dell’Azione cattolica e dell’Istituto «Giuseppe Toniolo» ha approfondito il messaggio pontificio Non più schiavi, ma fratelli per la XLVIII Giornata mondiale della pace. L’esperienza della fraternità e la conquista della pace richiedono, sempre, un esercizio di responsabilità individuale e comunitaria, la capacità di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà.

Contro la schiavitù, diritti e solidarietà di Michele D’Avino

è una domanda che risuona con forza nelle riflessioni di papa Francesco sulla pace e attraversa come un leitmotiv i momenti più significativi del suo pontificato. È la stessa domanda che dalle pagine dell’Antico Testamento Dio continua a rivolgere incessantemente all’uomo: «Dov’è tuo fratello?». Il sangue versato da Abele bagna i secoli della storia e giunge, come un monito, fino a noi. L’esecrando crimine compiuto da Caino si ripete ancora oggi per mano di un’umanità indifferente alle sorti dei più deboli, dei perseguitati, delle vittime delle guerre e della povertà. Milioni le persone che, in diverse parti del mondo, sono deprivate dei diritti fondamentali, costrette a vivere (e morire) in condizioni disumane. «Chi è il responsabile del Michele D’Avino sangue di questi fratelli e sorelle? – aveva chiesto è segretario generale dei comuni di Abbadia il Papa in occasione del primo viaggio del suo San Salvatore e San Quirico d’Orcia. pontificato, nel luglio 2013, a Lampedusa – Avvocato e dottore di ricerca in Governo Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, dell’Unione Europea, politiche sociali io non c’entro […] Ma Dio chiede a ciascuno di e tributarie, dirige l’Istituto di diritto noi: “Dov’è il sangue del tuo fratello che grida internazionale della pace «Giuseppe fino a me? Oggi nel mondo nessuno si sente Toniolo». Ha curato per l’Ave: responsabile di questo; abbiamo perso il senso Alla scuola di Giuseppe Toniolo. La fede della responsabilità fraterna». al servizio del bene comune (Roma 2013) Di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza, e Immigrazione: sfida per una nuova Italia denunciata da papa Francesco, s’impone una (Roma 2014).

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CONTRO LA SCHIAVITÙ, DIRITTI E SOLIDARIETÀ

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rigenerazione dei rapporti tra gli esseri umani nel segno della fraternità e del reciproco riconoscimento della comune appartenenza ad una sola famiglia umana. Come già in occasione del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2014, Fraternità fondamento e via per la pace, la fraternità, ancora una volta, è il fulcro del messaggio che il pontefice ha rivolto al mondo per la XLVIII Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2015, dal titolo Non più schiavi, ma fratelli. La schiavitù, infatti, costituisce intrinseca negazione della fraternità e, con essa, della pace stessa. «Una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea» che potrà rimarginarsi soltanto quando, al riconoscimento universale della dignità di ogni persona umana, seguirà l’effettivo superamento delle disuguaglianze, l’affermarsi di un nuovo modello di sviluppo improntato al rispetto dei diritti umani e un cammino di liberazione e inclusione per tutti. La vita venduta Per riflettere sulle parole del messaggio pontificio, la Presidenza nazionale di Azione cattolica e l’Istituto di diritto internazionale della pace «Giuseppe Toniolo» hanno tenuto a Roma, il 23 gennaio scorso, un seminario di approfondimento. Dopo il saluto iniziale del presidente nazionale dell’associazione, Matteo Truffelli, e l’introduzione del presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto Toniolo, Ugo De Siervo, i lavori sono stati aperti da mons. Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Il presule ha reso testimonianza della profonda attenzione dedicata da papa Bergoglio alla causa dei poveri, degli emarginati, delle vittime della tratta di esseri umani. Secondo un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), pubblicato nel 2014, sono oltre venti milioni le persone nel mondo vittime di lavoro forzato. Le donne e i bambini sono le vittime principali e vengono trafficati soprattutto per lo sfruttamento sessuale. Ogni anno si registrano oltre due milioni di nuove vittime, per un giro d’affari di circa 35 miliardi di euro, secondo stime Ocse. Quella del traffico di esseri umani, infatti, è una delle attività criminali che cresce più rapidamente, dopo la droga e le armi. Si tratta di cifre che non possono lasciare indifferenti. Un fenomeno che è frutto di un sistema criminale pronto a lucrare sulla pelle dei più poveri. In ultima analisi – spiega mons. Sorondo richiamando l’Evangelii Gaudium – sono l’avidità di ricchezza e il «feticismo del denaro» che caratterizzano «l’economia utilitarista» dialoghi n. 1 marzo 2015


a spingere i trafficanti. Quando il sistema economico, infatti, non tiene conto delle persone, anzi le considera «come cose usa e getta», finisce con il produrre l’esclusione e lo scarto. Di fronte ad un simile scandalo, la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, su impulso di papa Francesco, è impegnata su più fronti. Dopo un primo incontro, organizzato il 2 dicembre scorso, con i leader religiosi di tutto il mondo per siglare una condanna unanime di tutte le pratiche che deprivano l’uomo della sua dignità, si punta ora a sensibilizzare gli Stati e i governanti al fine di ottenere l’inserimento della soppressione della schiavitù tra i nuovi obiettivi delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – Sdg), quale principale traguardo per l’inclusione sociale. Le schiavitù moderne Ma se la schiavitù può dirsi, oggigiorno, categoria umanamente inaccettabile e universalmente condannata, il rischio è che essa si presenti, nella società contemporanea, sotto forme nuove e subdole, delle quali non sempre vi è una comune consapevolezza. In tale direzione, l’intervento al seminario di Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale di Caritas Italiana, ha contribuito a fare chiarezza sui differenti volti della schiavitù moderna. Innanzitutto quella dei tanti lavoratori e lavoratrici sfruttati ed «asserviti» ad un sistema produttivo dimentico dei fondamentali bisogni della persona umana. Condizione che la crisi economica degli ultimi anni ha aggravato in maniera drammatica, moltiplicando il numero dei lavoratori che guadagnano così poco da non riuscire a garantirsi un’esistenza dignitosa. Esempio eclatante è quello rappresentato, anche dentro i confini della vecchia ed opulenta Europa, dalla crisi greca, i cui effetti, in termini di impoverimento, sono equiparabili quasi a quelli di una guerra. Poi ci sono i migranti, trattati come bestie dai trafficanti, detenuti e sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli, troppo spesso vittime dell’indifferenza dei governi e della società civile. Tra gli schiavi vanno anche ricomprese le persone costrette a prostituirsi, molte delle quali minori, e quanti, nei modi più disumani, sono fatti oggetto di traffico e mercimonio per l’espianto di organi, per l’arruolamento forzato negli eserciti, per l’accattonaggio e per ogni forma di attività illegale. Infine il riferimento è a tutti coloro che sono vittime di gruppi terroristici, rapiti, seviziati, uccisi. Uno scenario che lascia sbigottiti e che spinge il pontefice a definire la schiavitù come «reato di lesa umanità». dialoghi n. 1 marzo 2015

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Ma se grande è la ferita che la schiavitù infligge all’umanità complessivamente intesa, più grande deve essere l’impegno affinché la stessa sia definitivamente archiviata. È un impegno comune quello che chiede papa Francesco, una reazione, come singoli e come comunità, in cui tutti devono sentirsi coinvolti: dall’esercizio di carità indiretta proprio del consumatore che fa scelte responsabili, all’impegno degli Stati a vigilare affinché le proprie legislazioni siano sempre effettivamente rispettose della dignità della persona, all’azione delle organizzazioni della società civile, chiamate a sensibilizzare le coscienze sui passi necessari a sradicare la cultura dell’asservimento. Spezzare le catene Accanto all’immane lavoro ancora da svolgere per contrastare le schiavitù, tuttavia, c’è anche, nel messaggio di papa Bergoglio, un riconoscimento espresso all’«enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili, portano avanti da tanti anni in favore delle vittime. Tali istituti operano in contesti difficili, dominati dalla violenza, cercando di spezzare le catene invisibili che tengono legate le vittime ai loro trafficanti e sfruttatori». Parole di sostegno, che suonano come un ringraziamento alla rete delle religiose che, riunite attraverso il coordinamento internazionale Talitha Kum, in ogni parte del mondo hanno accolto e recuperato migliaia di donne vittime di sfruttamento e di abusi. Tra di esse anche sr. Eugenia Bonetti, coordinatrice dell’Ufficio «Tratta donne e minori» dell’Usmi e fondatrice dell’associazione Slaves no more, intervenuta al seminario per portare la sua esperienza missionaria. Una missione che per suor Bonetti, dopo gli anni trascorsi in Africa, è ricominciata tra le periferie e i sobborghi delle nostre città, in soccorso delle nuove schiave del XXI secolo. Sono nomi e storie di donne a popolare il racconto di una vita vissuta dalla parte degli ultimi: Giulia, Patricia, Jane, ragazze dell’est Europa o dell’Africa sub-sahariana, incontrate per strada o nei Centri di identificazione ed espulsione. Storie di dignità violata, di donne ridotte ad oggetto, vendute e comprate, trattate come merci, usate e buttate via. Vittime della povertà, che le ha rese schiave, e di un sistema criminale favorito dal dilagare della corruzione. Per alcune di esse, anche se non per tutte, è stato possibile spezzare le catene degli abusi, ritornare da vittime a cittadine, ritrovare speranza. È un appello accorato, quello di suor Bonetti, ad annunciare e denunciare. Annunciare il rispetto della dialoghi n. 1 marzo 2015


persona, promuovendo la cultura della fratellanza, della dignità e della libertà. Denunciare tutto ciò che lede questa dignità e rende l’uomo schiavo. E proprio per denunciare una delle peggiori forme di schiavitù del XXI secolo si è celebrata, l’8 febbraio 2015, la prima Giornata mondiale contro la tratta, voluta da papa Francesco nel giorno in cui la Chiesa ricorda santa Giuseppina Bakhita, piccola schiava sudanese, venduta a nove anni e poi convertitasi al cristianesimo e divenuta religiosa canossiana. Il Seminario, dunque, è stato anche occasione per ribadire l’adesione dell’Azione Cattolica Italiana alla Giornata mondiale contro la tratta, insieme con il Fiac e Umofc. Un primo passo per suscitare alleanze sempre più grandi intorno al valore della persona umana, contro tutte le forme di schiavitù, per non voltare lo guardo di fronte alle sofferenze dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Perché l’esperienza della fraternità e la conquista della pace richiedono, sempre, un esercizio di responsabilità individuale e comunitaria, la capacità di farci, insieme con la Chiesa di Francesco, «artefici di una globalizzazione della solidarietà».

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MICHELE D’AVINO

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Come ci racconta La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014, i nostri giovani si trovano a fare il loro ingresso nella vita adulta in condizioni di particolare incertezza e disorientamento. Negli ultimi anni, anziché protagonisti attivi di un’Italia che cresce, si sono sempre più spesso trovati ad essere spettatori passivi di un Paese che arranca: un destino non inevitabile e che, prima di ogni altro, loro stessi rifiutano.

Giovani. Farsi strada nel labirinto di Pierpaolo Triani

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n labirinto. È questa l’immagine utilizzata da Alessandro Rosina per descrivere la situazione dei giovani nell’introduzione al volume La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014 1, che raccoglie i dati degli studi promossi dall’Istituto G. Toniolo, in collaborazione con l’Università Cattolica, con il sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, finalizzati ad offrire annualmente un quadro della fascia d’età tra i 18 e i 30 anni. È un’immagine indubbiamente forte che richiama l’attuale contesto di fatica e di incertezza del nostro Paese dove per i giovani «alto è Pierpaolo Triani il rischio di girare a vuoto nonostante gli sforzi» è docente di Didattica generale e dove anche per coloro che non si perdono è all’Università Cattolica del Sacro Cuore «più contorto e più lungo il percorso di persedi Piacenza e Brescia. Dirige la rivista guimento di qualsiasi obiettivo importante»2. «Scuola e Didattica». Ha recentemente Nel labirinto, dunque, ma non per questo né scritto Disagi dei ragazzi, scuola, territorio. completamente persi, né rassegnati. FortunaPer una prospettiva integrata e, tamente ciò che i giovani stessi ci raccontano con G. Bertagna, Dizionario di didattica. con le risposte ha i tratti variegati della comConcetti e dimensioni operative, La Scuola, plessità, dove si intrecciano le difficoltà e le Brescia 2014. Tra le altre monografie speranze, le positività e le criticità. ricordiamo: Il dinamismo della coscienza I millennial italiani (così sono chiamati dagli e la formazione. Il contributo di studiosi coloro che hanno compiuto 18 anni Bernard Lonergan ad una “filosofia” della nel nuovo secolo) appaiono poco propensi a formazione, Vita e Pensiero, Milano 1998. fidarsi degli estranei, se il 17,1% si è dichiara-

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to «per nulla d’accordo» con l’affermazione «gran parte delle persone è degna di fiducia», il 48,1% poco, il 29,3% abbastanza e solo il 5,4% molto. Occorre inoltre notare che la percentuale dei “sospettosi”, ossia coloro che hanno dichiarato di essere per nulla o poco d’accordo è salita, nel 2014, al 65% rispetto al 58,9% del 2012, con una crescita molto alta tra le giovani donne. Il grado di sfiducia si fa ancora più alto in quei giovani, che più di altri fanno fatica a trovare un punto di riferimento all’intero del labirinto. Si tratta di coloro, circa il 22% del campione indagato dal Rapporto Giovani, che non sono coinvolti né nel circuito formativo né in quello lavorativo (i cosiddetti Neet). Rispetto ai propri coetanei vedono maggiormente il futuro pieno di rischi ed incognite e sono meno in grado di progettare positivamente il proprio domani. I giovani italiani, nel loro complesso, si fidano molto poco anche delle istituzioni, tanto che a questo riguardo possiamo parlare non solo di distanza, ma di un vero e proprio distacco. Nessuna istituzione tra quelle indicate nel questionario (Comune, Regione, Camera dei deputati, Senato, governo nazionale, Unione europea, partiti politici, sindacati, forze dell’ordine, scuola e università, Chiesa cattolica) ha ottenuto, da 1 a 10, un voto medio superiore al 5. Anzi, la maggior parte ha ottenuto meno di 3. Nel Rapporto 2013, sebbene la sufficienza non fosse stata raggiunta da alcuna istituzione, la scuola/università e le forze dell’ordine vi erano andate vicino con un voto medio del 5,6, inoltre entrambe avevano ottenuto una votazione sufficiente da oltre il 50% dei giovani intervistati. Nella nuova rilevazione la scuola/università e le forze dell’ordine restano ancora in testa alla graduatoria, ma con un giudizio di affidabilità molto inferiore. In uno scenario di calo diffuso di fiducia istituzionale, l’unica realtà che ha “mantenuto le posizioni” è la Chiesa cattolica, che ha conservato un voto medio, certo non propriamente brillante, di 4, con una flessione però dei voti sufficienti da parte del genere femminile. C’è ancora fiducia Quando si passa dal mondo istituzionale alle relazioni “calde”, lo scenario cambia completamente. I giovani italiani si fidano delle proprie relazioni amicali e soprattutto delle proprie figure genitoriali. Le relazionali familiari rappresentano per la maggior parte dei giovani un supporto emotivo, un sostegno strumentale, un punto di riferimento fondamentale. Oltre l’80% di essi afferma che l’esperienza familiare gli è di aiuto nel coltivare le sue pasdialoghi n. 1 marzo 2015

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GIOVANI. FARSI STRADA NEL LABIRINTO

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sioni e nell’affermarsi nella vita. Oltre l’85% afferma poi che la famiglia rappresenta un sostegno nel perseguire i propri obiettivi. Trovano nella famiglia un aiuto, ma non per questo sono dei «bamboccioni». I diversi approfondimenti svolti dall’Istituto Toniolo rilevano nei giovani un desiderio di autonomia e di realizzazione, messi fortemente alla prova da un contesto socio-economico poco favorevole. Vorrebbero costruirsi una famiglia con due o tre figli, ma in diversi ritengono questo scenario poco realizzabile. Hanno voglia di impegnarsi sul campo e di spendere le competenze acquisite, ma percepiscono come priorità il trovare almeno un’occupazione. Un giovane su due si adegua a un salario sensibilmente più basso rispetto a quello che considera adeguato. Una quota molto alta, pari al 47%, si adatta a svolgere un’attività che non è coerente con il suo percorso di studi. Disillusi rispetto alla possibilità di trovare lavoro in Italia sono sempre più disponibili a spostarsi all’estero. Guardare al futuro Pur non rinunciando ai propri progetti, tendono a vivere nel presente e la fatica di dare concretezza alla propria dimensione progettuale cresce man mano che si scende lungo la penisola. Nei confronti dell’affermazione «fare esperienza nel presente è più importante che pianificare il futuro», si è dichiarato abbastanza o molto d’accordo il 71,4% dei giovani nel Nord, il 73% nel Centro e il 79,9% nel Sud e nelle isole. Amano molto coltivare le proprie relazioni amicali, in pochi (non più del 15-17%) fanno parte di gruppi e associazioni, meno della metà ha svolto attività di volontariato, ma non per questo sono chiusi alla dimensione sociale e partecipativa. In una specifica indagine, svolta negli ultimi mesi, sul servizio civile universale, l’80,4% dei giovani ha dichiarato di essere «molto» o «abbastanza» d’accordo sul fatto che per tutti i giovani sia utile fare un’esperienza di impegno civico e sociale a favore della propria comunità, anche senza compenso in denaro3. Vivono il presente e guardano al domani con una forte perplessità sulla possibilità che vi siano scelte davvero irreversibili. Quasi il 60%, infatti, si è dichiarato abbastanza o molto d’accordo con la frase «Non esistono nella vita scelte che valgono per sempre, c’è sempre la possibilità di tornare indietro». Nell’affrontare la vita dunque, accanto alla categoria della realizzazione personale, tende a prevalere quella di esplorazione. Quest’ultima categoria ci è di aiuto anche per interpretare i dialoghi n. 1 marzo 2015


profondi cambiamenti che stanno investendo il rapporto tra i giovani italiani e la credenza religiosa. Cresce la percentuale di coloro che dichiarano di non credere a nessuna religione o filosofia trascendente (17,7%) e coloro che affermano che sulla religione non ci possa esprimere (8,0%), mentre continua a diminuire il numero di coloro che dopo i 18 anni si dichiarano credenti nella religione cattolica (il 52,2% a livello nazionale; il 43,1% nell’Italia settentrionale). Si va dunque rafforzando il processo, messo in luce da tempo da diversi studiosi, di indebolimento dell’adesione alla religione per tradizione o convenzione sociale; va crescendo nei giovani la convinzione che la fede e la pratica religiosa siano il frutto non di semplice appartenenza, ma di scelte personali “aperte”, che possono modificarsi nel tempo. Non scompare nei giovani italiani la sensibilità religiosa, ma certamente diventa sempre più estraneo, sia negli uomini sia nelle donne, il cattolicesimo, almeno nelle forme di adesione che hanno conosciuto le generazioni precedenti.

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Note 1 Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014, Il Mulino, Bologna 2014. I dati riportati nell’articolo sono presi dal Rapporto e da indagini tematiche condotte sempre dall’Istituto Toniolo, i cui risultati sono consultabili sul sito www.rapportogiovani.it 2 Cfr. A. Rosina. Introduzione. Giovani nel labirinto, in Istituto Giuseppe Toniolo, op. cit. p. 10. 3 Cfr. www.rapportogiovani.it

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IL LIBRO&I LIBRI

Le nuove scienze mostrano l’artificialità della scissione tra pensiero e vita, tra corpo e mente, e la storia delle idee rivela che la bellezza e la morale hanno una radice comune nella percezione di esistere che l’uomo pone alla base di ogni giudizio e di ogni scelta. L’est-etica dell’educare è assenso al creato e alla vita e resiste a tutte le pretese di fissare una forma perfetta di umanità e un unico modello di educazione.

Est-etica. Vivere è educare di Andrea Dessardo

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on questo suo libro Giuseppe Tognon lancia una sfida molto interessante non solo alle cosiddette «scienze dell’educazione» che, con i loro approcci cognitivisti, positivisti e parcellizzanti, hanno reso l’educare – proprietà connaturata all’uomo e presente in ogni epoca – un processo intellettualistico e artificioso, ma anche a quella filosofia che ha dominato l’epoca moderna e che ha innaturalmente astratto la razionalità umana dalla sua fisicità, dalla materialità con cui è inestricabilmente impastata. Non si tratta soltanto di riunire mente e corpo, secondo un auspicio più facile a dirsi che a farsi: l’ambizione dell’autore è di indicare alla pedagogia una via del «ritorno a casa» dopo una bicentenaria erranza sulle tracce di un Andrea Dessardo uomo che, a causa di una «mutilazione trascenè dottore di ricerca in Teorie, storia e dentale» (così molto efficacemente, Tognon metodi dell’Educazione presso la Lumsa definisce l’astrarre kantiano dallo spazio e dal di Roma e cultore della materia in Storia tempo), non esiste se non nella fantasia dei filodella Pedagogia all’Università di Udine, sofi o nelle rappresentazioni del mercato cultusegretario di redazione di «Dialoghi». rale. Poiché vivere è sinonimo di educare, ogni Ha pubblicato «Vita Nuova» 1945-1965. essere umano è sempre immerso in un’esperienTrieste nelle pagine del settimanale za totale in continua ridefinizione ed ogni tendiocesano (IRSML FVG, Trieste 2010) e le tativo di separare la teoria dalla prassi nella vita opere di narrativa Stazioni intermedie, quotidiana – che è la dimensione costante e Meudon, Portogruaro 2010, Come la spuma fondante dell’educare – si traduce inesorabildel mare e Cinque racconti Meudon, mente in una ferita inferta all’essenza profonda Portogruaro 2009. dell’uomo e alla sua capacità di sperimentare il dialoghi n. 1 marzo 2015


senso di vivere, senza ridurlo a significati chiusi all’interno di una visione strutturalista della realtà, che nega ogni principio formale della vita. Tognon vuole mostrare che ciò che troppo spesso è stato inteso come un limite dell’individuo - la fragilità, il deperimento nel tempo, la limitazione nello spazio e il suo essere collocato in un ambiente determinato, su un palcoscenico piuttosto che su un altro - è in realtà il contesto necessario senza il quale non è possibile costruire alcun equilibrio mentale e corporeo che è per natura umana sempre “incarnato”. Tale «ritorno a casa» – che è il titolo dell’ultimo capitolo del volume – si configura dunque nei termini di un’«antropodicea», ossia della «difesa dell’umano davanti al tribunale dell’uomo» (p. 206), prima che come dimostrazione razionale della grandezza e della giustizia divine (la «teodicea»), che è stato il grande sogno della filosofia razionalistica moderna, sia nelle forme teologiche sia in quelle antiteologiche e materialiste. Il libro, complesso ma sobrio nella sua assoluta mancanza di presunzione apodittica, ripropone, con un atteggiamento ricognitivo anziché normativo, la possibilità dell’educazione non come una tecnica, ma come una filosofia, come gusto del pensare vivendo. La riflessione non è astratta, ma, fondata sulle prassi educative, si sviluppa in una sorta di «ascesi a rovescio» (p. 121) che desume la teoria da ciò che è già in essere e che implacabilmente si rimodula alla luce di nuove questioni e di nuove osservazioni. Nei suoi dieci capitoli, il testo tenta un percorso attraverso ambiti diversi della vita (la vita sociale, l’esperienza religiosa…), non confinati semplicemente all’atto dell’educare, proprio dal momento che Tognon, in definitiva, disconosce questa possibilità come una cosa in sé, o una necessità morale, ma la situa come sostrato dinamico in ogni campo dell’esperienza umana, anche il più lontano dai concetti e dalle categorie intellettuali. «L’est-etica dell’educare contribuisce anche a una migliore comprensione delle esperienze di vita più dolorose o pre/para-razionali: ponendo l’educare a fondamento dell’uomo reale, non soltanto dell’uomo morale, obbliga tutte le dimensioni della vita associata (religiosa, artistica, economica, politica) a fare i conti con il complesso sistema della mente e del corpo» (p. 7). I riferimenti di Tognon sono via via Capograssi e il «sentimento dell’esperienza comune», Husserl e la filosofia dell’esperienza, Heidegger e la pretesa di fare dell’ermeneutica una sistematica, Wittgenstein e la riflessione della meraviglia del mondo, il Rousseau dell’Emilio, le cui autentiche strutture interne sono da dialoghi n. 1 marzo 2015

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ricercarsi nell’ordine del cuore più che in quello della ragione, Agostino e la trama del mondo interiore, e per finire i Greci, tra i quali si sono formati gli schemi razionali grazie ai quali la civiltà occidentale si è prefissata di diventare un modello universale. L’autore riconosce che la storia delle idee riflette ciò che oggi, dal punto di vista sperimentale, iniziamo a capire è la complessità della mente umana dentro la quale si confrontano e si coordinano parti deputate alla costruzione di ragionamenti e parti attive nella proposizione di istinti e di passioni che sono frutto della stratificazione del cervello (e della cultura). Senza spingersi a determinare un’analogia tra neurologia e filosofia, Tognon indica nella «percezione di vivere» e nell’«intuizione di esistere» i termini che riassumono la complessa avventura dello sviluppo dell’uomo. Egli usa l’idea di verità non in senso analitico: una verità come vita interiore e non come semplice sapere, una verità che non è piatta, ma che ha spessore e che è intrisa di quella rivendicazione alla liberazione che è il fondamento del diritto di natura. Il senso del percepire è dunque più profondo della percezione immediata e la nozione di esperienza, che tanto ha dato da pensare alla filosofia contemporanea, dal punto di vista pedagogico va intesa come assioma vitale, cioè come sintesi di una complessa costruzione vivente. La filosofia dell’educare tratteggiata nell’opera può essere forse definita come una appassionata lotta contro le fratture dell’umano, o come l’itinerario che parte da quella sofferenza e che cerca una combinazione armonica diversa da quella troppo spesso delineata a parole da una banale teoria della perfezione e del progresso. Tale complessa proposta filosofica ricorre a una nuova categoria, che l’autore nomina est-etica, una «filosofia dell’educare» e non solo dell’educazione. Il trattino nel titolo indica la necessaria complementarietà di etica ed estetica, che in una prospettiva pedagogica è un approccio passionale, carnale all’educare inteso nel suo senso più profondo: trasmettere la vita, anche nell’accezione biologica, e adottare la vita, anche nella sua accezione ermeneutica. Ampio spazio è dato nel volume alla riflessione sul «figlio come libro della e di una vita». La sostanza dell’essere al mondo può essere colta, intuita, solo attraverso il ricorso a tutte le proprie facoltà, intellettuali e sensibili, cosicché educarsi ed educare secondo realtà significa aprire continuamente alla possibilità di vivere. «Contro le tradizionali divisioni tra corpo e anima e tra teoria e prassi, cerco di mostrare che è possibile, ricorrendo a una ricomposizione dell’etica e dell’estetica in un dialoghi n. 1 marzo 2015


movimento radicale di percezione dell’umano, restituire alla filosofia, per controbilanciare le sue fughe, il pathos della vita, e alle scienze dell’educazione, per tentare di renderle più audaci, la dignità di un pensiero» (p. 5), così l’incipit del volume. L’Est-etica alterna l’analisi di alcuni tra i più importanti metodi pedagogici alla riflessione alla indagine sul significato dell’esperienza comune di vivere che non può essere ridotta ad un semplice accendersi della macchina umana, perché comporta sempre un giudizio di fondo sul valore della vita e sulla dignità di essere al mondo. Non si tratta di «mettere semplicemente il bello nel bene o rendere bella la morale, come nella fiabe» (p. 8): etica ed estetica – quest’ultima stravolta, a partire dall’Illuminismo, in una teoria del gusto – restano «i biotopi di un complesso ecosistema interiore in cui la vita entra in contatto con se stessa e si riflette, piegandosi»; sono «forme costitutive della possibilità di vivere» e non solo «modi di classificare le azioni del sistema mentale e corporeo» (pp. 9-10). Dove situare allora la bellezza? Nella struttura della realtà e dunque in quella trama del reale che pur dando origine a tutte le metafisiche ne è allo stesso tempo la negazione perché impenetrabile. La bellezza è pertanto diffusa nella trama del mondo allo stesso modo, se non addirittura di più, di come la storia è lastricata di buone intenzioni etiche. Il sentimento della vita che accompagna ogni nostra azione è all’origine di ogni forma di felicità: esso è come il respiro grazie al quale tutto il corpo vive e sente di vivere. Certamente il piacere di vivere «ha vari livelli di elaborazione… ma è essenzialmente un piacere est-etico, di ricezione di ciò che è nella sua giustezza per noi, ma anche in sé, come qualche cosa di ben fatto e di ben pensato» (p. 207). Se si impara a deistituzionalizzare le pratiche pedagogiche e se si infonde al pensiero lo spessore dell’esperienza elementare di vivere si scopre che l’estetica e l’etica, troppo spesso considerate categorie riassuntive ed astratte di complessi e vasti mondi indipendenti, sono invece forme costitutive della possibilità di vivere e rinviano ad una circolarità tra vissuto e pensato che rende plastica la storia umana. «Educare è la prospettiva più insensata e insieme più profonda dell’uomo, l’unica che afferma un desiderio di potenza e insieme un’apertura alla possibilità, che è la negazione di ogni potere costituito» (p. 13). Tognon critica, per coglierne tuttavia il significato storico, gli schematismi hegeliani e kantiani, infilando la sua proposta pedagogica e filosofica al confine tra forme culturali ormai declinanti. Ciò gli è permesso, spiega, anche grazie alle nuove acquisiziodialoghi n. 1 marzo 2015

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ni delle scienze sperimentali che, invece di confermare il dualismo tra materia e spirito, mostrano come l’intenzionalità sia strettamente legata al substrato biologico e come la dignità dell’uomo non possa passare attraverso una sua riduzione a rappresentazione formale di una natura angelica. L’uomo razionale è possibile solo nell’uomo fisico e animale e ogni astrazione che prescinda dall’intimo carattere relazionale della natura umana fin dalla sua costituzione materiale è impossibile. Educare non è solo trasmettere saperi razionali e astratti, ma insegnare a stare al mondo, riconoscersi vivi. Come è stato detto ormai molte volte «le emozioni non sono un lusso, ma un aiuto complesso nella lotta per l’esistenza». Alla Bildung, intesa come «ambizione di sapere di sapere» e alla Bestimmung, la «vocazione-destinazione» che tende ad assolutizzare il soggetto o il collettivo in una delle loro forme storiche, Tognon sembra preferire l’antico concetto greco della poiesis, quel perenne costruire l’immagine di sé vivendo che è la forma principale di quella «generatività», che non può essere ridotta ad un atto che dalla carne prosegue nello spirito, ma che è una funzione della libertà e che dunque va oltre le dinamiche dell’azione. «L’uomo ha sempre individuato nei processi di apprendimento, di selezione del mondo agente, di socializzazione del proprio io, gli ambiti principali dell’esercizio della propria singolarità e libertà e l’educare è dunque il gesto riassuntivo di ogni apertura verso forme non soltanto biologiche di vita, appunto generative» (p. 87) La critica sferrata all’autorità di molta metafisica moderna è quanto mai coraggiosa, ma pedagogicamente giustificata, anche alla luce delle scoperte di alcuni grandi osservatori dello sviluppo del bambino come la Montessori, Dewey o Piaget. Spazio e tempo non possono essere decontestualizzati dall’agire umano che in essi necessariamente si colloca: l’esistenza, la conoscenza, l’educazione non sono possibili al di fuori di essi e di essi sono intrisi, di essi si nutrono, su essi si modellano, sicché ogni uomo fa storia a sé. Coerentemente, alla fine della sua serrata demolizione di alcuni presupposti delle scienze pedagogiche, sempre più spesso deformate in senso dogmatico e positivista, l’autore si guarda bene dall’avanzare egli stesso un metodo pedagogico alternativo e ritorna piuttosto sui passi della esperienza culturale occidentale fino alle varie facce della kalokagathia greca (cap. IX), dove si ritrovano molte delle questioni che lo sforzo semplificatore della filosofia e dell’antropologia hanno semplicemente mascherato: «La cura con cui le società contemporanee ricche dialoghi n. 1 marzo 2015


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tentano di nascondere, dietro una valutazione strumentale, la portata eversiva della bellezza di percepire, è rivelatrice di un “divieto di meraviglia” che sta distruggendo uno degli assi della modernità: il gusto per il rischio e per la finitezza dell’uomo (ogni progresso sconta la mancanza di infinito in atto) che è stata la premessa per la moderna apparizione dell’umano sulla scena dell’assoluto, se non al posto del divino, almeno accanto» (p. 186).

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Opera singolare e ambivalente, pervasiva e al tempo stesso specifica, la Bibbia è un testo «multimediale» che definisce uno scenario, entra nel linguaggio comune, attraversa il sentimento religioso e laico, il sacro e il profano, la destra e la sinistra. Per questo, spesso, sta sullo sfondo, nascosta, quasi invisibile.

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un rapporto “singolare” quello fra gli italiani e la Bibbia. Intenso e distaccato, ma anche frequente e intermittente, competente e lacunoso, identificato e lontano, diviso e condiviso: al tempo stesso. Perché la Bibbia costituisce un elemento di comunione e, ancora, di distinzione» (p. 7). Così inizia Gli italiani e la Bibbia1, il testo che riassume l’esito di un’indagine demoscopica su un campione di 1560 italiani intervistati dal 19 al 23 maggio 2014, realizzata in collaborazione con l’Università di Urbino «Carlo Bo»2. Proprio tale inizio permette di raccogliere in maniera adeguata il frutto della ricerca. Innanzi tutto, a livello di contatto/relazione, gli italiani hanno con la Bibbia un rapporto più intenso che distaccato, frequente anche se intermittente. Infatti l’81% degli intervistati vede la Bibbia come un libro interessante, anziRaffaele Maiolini ché noioso (pp. 99-101), tant’è che il 70% è sacerdote, insegna Teologia fondamentale dichiara di aver ascoltato (e il 30% di aver al Seminario e all’Università Cattolica di letto) brani tratti dalla Bibbia nel corso dell’ulBrescia, Introduzione al Mistero di Cristo e timo anno (pp. 43-49) e l’80% dichiara di posMetodologia della ricerca teologica all’ISSR sedere in casa una Bibbia e il 40% di sentirne di Brescia. Ha scritto tra l’altro Tra fiducia parlare dalle persone che frequenta (pp. 35esistenziale e fede in Dio, Glossa, Roma 41). Se, poi, si dovesse andare a precisare ulte2005; a breve in uscita Affectus fidei e riormente, si scoprirebbe che sono soprattutto azione liturgica. Spunti a partire dall’attuale le donne, con livello d’istruzione alto, tanto riflessione teologico fondamentale sulla più se appartenenti al Sud Italia, ad aver letto qualità affettiva dell’esperienza di fede. nella loro vita brani della Bibbia; ma anche che

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il 24% dei non praticanti dice di aver letto la Bibbia nel corso dell’ultimo anno (pp. 51-63). La Bibbia, dunque, è in Italia «un’opera nota, approcciata di frequente. Come nessun altro libro» (p. 8). A livello di conoscenza, però, gli italiani mostrano di avere un rapporto con la Bibbia più lacunoso che competente: nessuno degli intervistati ha risposto esattamente a tutte le 31 domande poste dall’indagine e se si dovesse tradurre in “voto scolastico” le risposte a tali domande la media degli italiani otterrebbe un voto vicino alla “sufficienza”, al “sei” (pp. 65-88). Di tali lacune sono ben consapevoli gli intervistati: il 76% sa di conoscere «poco o per niente» la Bibbia (pp. 86-88) e il 61% considera la Bibbia un testo difficile da comprendere, vedendo – nella maggior parte – nei preti e nei religiosi le persone che più aiutano a comprenderla (pp. 83-93). Tale “incompetenza” è ben evidenziata dall’indagine: a domande contenutistiche precise, il 30% dice di non sapere che i vangeli fanno parte della Bibbia e il 25% pensa che il messale, invece, ne faccia parte (pp. 29-34); circa la metà sa che la Bibbia è un libro ispirato e che, quindi, deve essere interpretato e non preso alla lettera (pp. 95-98), ma il “contenuto” della Bibbia vivente è identificato dal 61% nell’insegnare «precetti e regole». Tra l’altro, risulta che sono i praticanti e coloro che sono legati al mondo ecclesiale a mostrare spesso e volentieri maggiori lacune conoscitive rispetto ai non praticanti: ad esempio, il minor grado di conoscenza dell’etimologia della parola «Bibbia» è riscontrabile proprio tra i praticanti che, in gran parte, pensano che tale termine significhi «testimonianza» e non «libri» (pp. 15-19). A livello di immaginario socio-culturale, gli italiani hanno un rapporto con la Bibbia più identificante che estraniante, marcando un’appartenenza condivisa (ad intra) ma anche dividente (ad extra). Il 63%, infatti, ritiene che l’arte e la letteratura occidentali siano state ispirate dalla Bibbia e che quindi la Bibbia sia al centro della civiltà occidentale, oltre che dell’esperienza cristiana (pp. 104-107); per questo, il 63% è d’accordo nell’affermare che nelle scuole si dovrebbe studiare la Bibbia: anche chi ha un certo distacco dalla religione sottolinea l’importanza culturale della Bibbia (pp. 107-110). Nello stesso tempo la gran parte degli italiani considera la Bibbia come libro sacro «quasi esclusivo» dei cattolici: la maggior parte non sa che essa è libro sacro anche per le altre confessioni cristiane (protestanti, ortodossi, anglicani), tanto meno per gli ebrei (almeno per l’AT) (pp. 21-28); esiste, cioè, una sorta di «riduzionismo» della Bibbia a dimensione etnidialoghi n. 1 marzo 2015

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co-culturale (pp. 66-68). Enzo Bianchi, nella Postfazione del libro, a questo proposito parla di «un’idea “cattolico-centrica” della Bibbia», segno del «provincialismo di un Paese poco avvezzo al pluralismo religioso» (p. 125). Proprio per tutti questi fattori, la Bibbia risulta essere un elemento di comunione (tra gli italiani) e un elemento di distinzione (con i non italiani). Gli autori dell’indagine parlano di un fenomeno di «ibridazione» della Bibbia (p. 111), perché sa essere contemporaneamente specifico dell’esperienza cristiana e riferimento culturale di una comunità civile, con una sovrapposizione a volte indistinta: «definirsi italiani, professarsi cattolici e riconoscere nella Bibbia un riferimento importante […] sono elementi tra loro fortemente intrecciati», offrendo la Bibbia «un senso di appartenenza a una tradizione culturale, forse prima ancora che a una radice spirituale» (pp. 112-113); la Bibbia, insomma, appare come «parte dello “scenario” culturale e domestico» dell’Italia, indicando alcuni valori di fondo, prima ancora che essere vissuto come testo in cui incontrare personalmente la presenza del Dio di Gesù Cristo (pp. 111-116). Dinnanzi a questi dati, Enzo Bianchi, nella Postfazione del libro, è stato chiamato a offrire alcune chiavi di lettura di questa ricerca. Due sono i punti sui quali il priore di Bose articola il suo intervento. Innanzi tutto prova a motivare il «ritardo cattolico, e italiano in specie, circa la diffusione e la lettura della Bibbia» (p. 121), ma anche circa l’inadeguata conoscenza. Diverse motivazioni sono addotte: innanzi tutto vi sono origini storiche complesse e radicate che affondano la loro origine nella Controriforma e sono arrivate fino al Vaticano II (pp. 121-122); poi l’assenza delle facoltà di teologia nel contesto universitario statale e la poca serietà e approfondimento della Bibbia nella scuola, anche a causa della riduzione dell’insegnamento della religione cattolica (soprattutto nelle scuole secondarie) a «occasione di discussione su tematiche psicologiche, affettive, sociali, etiche» e «assai raramente» interessato in modo approfondito al testo biblico (pp. 122-123); infine l’inadeguata iniziazione alla Bibbia da parte della catechesi (pp. 123-124). La conclusione è tranchant: «l’indagine rappresenta una fotografia della situazione di povertà della cultura biblica in Italia», che rinvia a una condizione più generale di «analfabetismo religioso» (p. 124). Poi si chiede che cosa la Bibbia possa offrire a un’Italia così, indicandolo con cinque parole chiave: umanizzazione, veridicità, pluralismo, dialogo, laicità. Infatti la Bibbia «conduce l’uomo a umadialoghi n. 1 marzo 2015


nizzarsi insegnandogli a dire la verità» (p. 127); «insegna la pluralità come condizione dell’esistenza umana» (p. 127); «insegna il dialogo come strumento di convivenza e di costruzione comune di un senso» (p. 127); e, infine, «dalla Bibbia emerge la grande lezione della laicità. Il Dio creatore crea l’alterità e lascia che il mondo si sviluppi secondo le dinamiche e le leggi sue proprie» (p. 128). I dati di questa indagine potrebbero aver bisogno per offrire la complessità dei significati di un quadro interpretativo più ampio3, ma è pur vero che in essa sono abbastanza evidenti almeno due poli: una frequente relazione con la Bibbia, poco supportata da una conoscenza adeguata; un riconoscimento della Bibbia come fattore culturale, prima ancora che come libro sacro. Entrambi tali poli meriterebbero un ulteriore approfondimento, anche per meglio scoprire se siano in diretta correlazione: è proprio perché la Bibbia è percepita come un “collante culturale” più che come un testo per lasciarsi parlare da Dio, che la conoscenza del testo biblico è generalista e per “luoghi comuni” sociali, più che per studio/confronto approfondito e personalizzato? Comunque stiano le cose, una duplice considerazione, una di ordine teologico (ad intra) e l’altra di ordine culturale (ad extra), è bene tenere presente. La Bibbia, prima che essere un testo culturalmente significativo, è rivelazione attestata, è la rivelazione di Dio che si fa testo: è stata scritta per permettere l’incontro tra la Parola di Dio e le parole degli uomini, per favorire – ancora oggi – un dialogo tra Dio e l’uomo in vista di una possibile alleanza. Il che vuol dire che è certo necessario poter anche “studiare” la Bibbia, ma la conoscenza della Bibbia non si identifica (come per gli altri testi) nella mera apprensione delle informazioni o dei contenuti, bensì nell’esperienza di incontro con la Parola di Dio attraverso le parole bibliche: la Bibbia non è stata scritta per essere “saputa”, ma per essere vissuta. Quindi, seppur indispensabile, non sarà sufficiente aumentare le ore dedicate allo studio e alla conoscenza della Bibbia (né nelle scuole, né nella catechesi) per poter qualificare il rapporto degli italiani con la Bibbia (si potrebbe indicare tale livello, livello “quantitativo”); la differenza sostanziale la fa (e la farà) la capacità di introdurre alla fruizione della Bibbia nel rispetto del testo stesso, che avanza la “pretesa” di esibire una Parola che appella direttamente la vita di ciascuno e di tutti (si potrebbe indicare tale livello, livello “qualitativo”). Questo per non cadere in un “riduzionismo” cognitivo-intellettualistico dell’approccio al testo biblico. dialoghi n. 1 marzo 2015

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Contemporaneamente, proprio perché Parola di Dio all’uomo che rivela l’uomo all’uomo, il testo biblico ha la capacità, anche oggi, di sprigionare la sua potenza rivelativa e orientativa, favorendo la creazione di un “mondo” (il “mondo del testo”) che sa rigenerare (anche) questo nostro mondo. E la struttura dell’incontro tra Dio e uomo che la Bibbia disegna, la sua modalità di approccio alla verità e alla realtà hanno molto da dire anche alla cultura contemporanea. Enzo Bianchi ha indicato in cinque concetti-chiave tale potenziale del testo biblico; sono particolarmente indicativi e significativi, e meriterebbero un maggior impegno di approfondimento anche teologico per saperli meglio offrire alla cultura di oggi come risorsa e servizio.

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Note 1 I. Diamanti, Gli italiani e la Bibbia. Un’indagine di L. Ceccarini, M. Di Pierdomenico e L. Gardani, postfazione di E. Bianchi, EDB, Bologna 2014. 2 I. Diamanti, L. Ceccarini, M. Di Pierdomenico e L. Gardani sono i coordinatori del progetto. 3 Per inquadrare – eventualmente – uno specifico «caso italiano» sul rapporto con la Bibbia, potrebbe aiutare un confronto interdisciplinare con V. Paglia (a cura di), Fenomeno Bibbia. Una sorprendente inchiesta sul libro più letto del mondo, San Paolo, Milano 2009; per una lettura più profonda dei dati italiani sulla conoscenza della Bibbia, potrebbe aiutare un confronto con A. Melloni (a cura di), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino, Bologna 2014.

Il libro Ilvo Diamanti Gli italiani e la Bibbia. Un’indagine di L. Ceccarini, M. Di Pierdomenico e L. Gardani Editrice EDB, Bologna 2014 dialoghi n. 1 marzo 2015


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Confinato tra i concetti gloriosi di stagioni passate, anche a causa della frattura intervenuta tra etica e politica, il bene comune è tuttavia un’istanza destinata a riproporsi in uno scenario deturpato dall’esasperazione dei personalismi, dalle chiusure identitarie e corporativistiche e da una rete di privilegi riservati a pochi.

La rivincinta (necessaria) del bene comune di Paolo Nepi

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a ancora un senso, nella moderna società dei diritti individuali, parlare di bene comune? A questa domanda cerca di rispondere un recente saggio di Giorgio Campanini, noto studioso di dottrine politiche, che ha dedicato al pensiero politico cattolico dell’Ottocento e del Novecento importanti monografie, volte soprattutto a chiarire il confronto/scontro tra pensiero cristiano e modernità. A differenza di quanto sostenuto da Nicola Matteucci nel Dizionario di politica, che gli dedica poche righe, ritenendo quella di bene comune una categoria elaborata «per società agricole e sacrali» e di conseguenza inadeguata per «società industrializzate e desacralizzate», Campanini ritiene invece che si debba ancora utilizzare tale categoria. E questo anche se nella ricostruzione del suo significato non sempre può bastare il ricorso al passato. Il testo di Campanini, pregevole per chiarezza e linearità espositiva, rappresenta una valida introduzione ad una nozione chiave di filosofia politica, e può costituire un’utile pista di ricerca nell’ambito delle varie iniziative di formazione alla politica sorte in questi anni all’interno Paolo Nepi dell’associazionismo cattolico. La nozione di è docente di Filosofia morale all’Università bene comune è d’altronde fondamentale nella di Roma Tre. Tra le sue pubblicazioni: Dottrina sociale della Chiesa, come si può vede- La responsabilità ontologica. L’uomo e il re nel Compendio del 2004. Per questo mi sem- mondo nell’etica di Hans Jonas, Aracne, bra utile, seguendo il testo di Campanini, pre- Roma 2008; Individui e persona. L’identità sentare i nuclei tematici attorno ai quali si arti- del soggetto morale in Taylor, MacIntyre cola tutto il discorso. e Jonas, Studium, Roma 2000. dialoghi n. 1 marzo 2015

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LA RIVINCITA (NECESSARIA) DEL BENE COMUNE

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Sulla nozione di bene comune si sono, nel corso del tempo, stratificate molte tradizioni culturali. Per questo l’autore dedica il primo capitolo alla storia del concetto. Quella di bene comune è infatti una categoria che vanta una vicenda plurisecolare, addirittura millenaria, se si pensa che da Aristotele, passando per la civiltà romana (vedi Cicerone), giunge a san Tommaso. In questa prospettiva risulta fondamentale il rapporto tra etica e politica, e quindi il giudizio morale di ogni forma di governo, che trova la sua legittimazione non solo a livello formale e procedurale, ma soprattutto dal punto di vista del valore etico delle sue azioni. In parole più semplici, un governo legittimo che compie esecrabili e ripetute ingiustizie è peggiore di un tiranno che riuscisse paradossalmente a governare in modo giusto (anche se la tirannia pone a sua volta problemi etici e politici). Nel corso della modernità questa nozione di bene comune viene progressivamente abbandonata, dato che la filosofia moderna si basa sul superamento del rapporto tra etica e politica, con la conseguenza che il giudizio di valore viene soppiantato dal più “realistico” criterio di legittimità e di legalità. Manifesto di questo cambio di paradigma, che sostituisce al criterio di giustizia quello di validità, è considerato il pensiero politico di Machiavelli, considerato il fondatore della politica come scienza del governo dello Stato. La ragion di Stato richiede infatti al detentore del potere di essere «più temuto che amato». Un altro contributo alla messa in crisi della nozione di bene comune, sempre nel corso della modernità, viene da Campanini attribuito al pensiero politico di Rousseau. Pensatore complesso e non privo di qualche fondamentale ambiguità, Rousseau avrebbe assolutizzato i diritti individuali, dal momento che la società è per lui una sorta di “male necessario” di cui gli individui non possono fare a meno, ma solo nell’intento utilitaristico di raggiungere la propria felicità e autorealizzazione. «L’antica concezione del “bene comune” subisce così – con Machiavelli da una parte e con Rousseau dall’altra – una duplice corrosione, ora con l’assolutizzazione del potere e del principe che lo detiene, ora con il passaggio da una visione fondata sul riconoscimento del rapporto uomo-società a una concezione marcatamente individualistica, nell’ingenuo presupposto che una sorta di smithiana “mano invisibile” finisca per condurre, nella sfera politica come in quella economica, al perseguimento dell’interesse generale» (p. 20). La nozione di bene comune, secondo Campanini, ha bisogno oggi di essere riformulata nelle sue dimensioni spazio-temporali. dialoghi n. 1 marzo 2015


Occorre, egli dice, una sorta di «dilatazione nello spazio» e di «estensione nel tempo», a motivo del fatto che, da criterio regolatore e di garanzia di una particolare comunità o di uno Stato, la categoria di bene comune va oggi commisurata soprattutto con il tema dei diritti umani. La stessa dottrina sociale della Chiesa, se nell’Ottocento declinava il bene comune all’interno del rapporto Stato-Chiesa, oggi è incentrata soprattutto nella difesa dei fondamentali valori dell’uomo. Questo spiega anche la scelta del tema per il prossimo convegno ecclesiale nazionale, che si terrà a Firenze dal 9 al 13 novembre 2015, chiamato a dare indicazioni sui tratti specifici di un umanesimo cristiano. Se è vero infatti che la nozione di bene comune si afferma per la prima volta nella cultura classica greca, tanto che costituisce l’architrave del pensiero politico di Aristotele, è altrettanto vero che tale nozione si riferisce alla polis, cioè ad una comunità particolare definita da una precisa identità territoriale, sociale e culturale. I greci non avrebbero potuto concepire un bene comune che tenesse insieme greci e barbari (ovvero i non greci). Un significativo passo avanti si compie nella civiltà medievale. La res publica christiana, integrando e superando addirittura l’universalismo realizzato dall’impero romano, allarga certamente lo spazio sostanzialmente chiuso e identitario della polis greca. Nella cristianità si realizza una forma di universalismo includente e non escludente, in quanto, come dice san Paolo nella lettera ai Galati, sono cadute le antiche barriere tra gli uomini: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più né schiavo né libero...» (Gal 3,28). Ma la cristianità medievale, come osserva giustamente Jacques Maritain in Umanesimo integrale, ha sì guadagnato una forma di superiore universalismo rispetto alle forme chiuse del mondo pagano, ma è pur sempre una civiltà sacrale che dovrà fare i conti, in epoca moderna, con la nascita degli Stati nazionali e con un’idea di laicità che costituirà la base di un nuovo universalismo. Quanto all’estensione nel tempo, l’universalismo si declina oggi nell’attenzione ai diritti delle nuove generazioni, sulla base del principio che il mondo non lo ereditiamo dai nostri padri, ma lo abbiamo in prestito dai nostri figli (antico proverbio dei nativi d’America reso celebre da J.F. Kennedy). Principio che ben si applica all’etica ambientalistica, preoccupata di conciliare lo sviluppo tecnologico con la tutela del valore dell’ambiente. Gli enormi e talvolta sconvolgenti cambiamenti sociali avvenuti nel corso dell’ultimo secolo, con gli effetti sempre più ampi confluiti nel processo di globalizzazione, pongono la questione del dialoghi n. 1 marzo 2015

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LA RIVINCITA (NECESSARIA) DEL BENE COMUNE

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loro governo politico. E qui la dottrina del bene comune si muove tra due estremi opposti, da chi riduce al minimo il governo politico della realtà sociale, in nome del «libero mercato», a chi invece tende a soffocare l’iniziativa privata in nome dell’interesse generale, in nome del centralismo dello Stato. Tra i due estremi del liberismo e dell’assolutismo statale, la dottrina sociale della Chiesa ha sempre perseguito una via autonoma, quella che un tempo fu chiamata la «terza via». «È appena il caso di sottolineare – scrive Campanini – che la dottrina sociale della Chiesa, già a partire da Leone XIII, non ha mai accolto nella sua integralità (pur riconoscendo alcuni aspetti positivi dell’economia di mercato) la proposta liberistica radicale ma – senza indulgere a forme di statualismo centralistico – ha sempre prospettato la necessità di un intervento attivo della società (e dunque non solo dello Stato ma anche dei corpi intermedi e delle realtà locali) in ordine alla realizzazione di una giustizia quanto più possibile piena e universalistica» (p. 44). Un significativo sviluppo sul tema del concetto di bene comune avviene, nella dottrina sociale della Chiesa, con l’enciclica Caritas in veritate di papa Benedetto XVI (2009). Si tratta ovviamente di una svolta che non rinnega la dottrina tradizionale, ma che rappresenta una sorta di radicalizzazione delle questioni sociali in senso antropologico. «La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Le possibilità raggiunte oggi dalla tecnoscienza non riguardano più solo le azioni umane sul mondo esterno, sia naturale che sociale, ma la possibilità di incidere sulla costituzione dell’uomo, sul suo essere e non solo sul suo agire. L’enciclica parla a questo riguardo di «scenari inquietanti per il futuro dell’uomo», dal momento che le nuove conoscenze e le nuove tecniche, soprattutto le biotecnologie e le scienze neurologiche, sono penetrate nella costituzione “naturale” della persona umana potendola trasformare. «Clonazione, aborto, eutanasia, dunque, come altrettante manifestazioni di questa pretesa di assoluto dominio della tecnica e di parallela corrosione del senso dell’uomo e dell’umano» (p. 61). Il tema del «postumanesimo» è sorto in questo contesto, in cui la tecnica non è più soltanto uno strumento per migliorare la condizione dell’uomo nel mondo, dal momento che ormai si tende sempre più a trasformarlo nella sua essenza. Una volta accettato acriticamente l’assolutismo della tecnica, dove tutto ciò che è possibile è lecito, significa aprire il futuro dell’uomo su scenari inediti e inquietanti. Di fronte al rischio di un pericoloso «riduzionismo antropologidialoghi n. 1 marzo 2015


co», tentazione permanente di una cultura che vede nella tecnoscienza un insieme di saperi-poteri autoreferenziali, la Caritas in veritate ripropone una sorta di «nuovo manifesto personalistico». Si tratta, secondo Campanini, di “ripetere” nel nuovo contesto culturale quello che fu il celebre «manifesto personalistico» degli anni Trenta elaborato da pensatori quali Mounier e Maritain. Allora si trattava di opporsi, in nome dell’inalienabile dignità della persona, all’assolutismo del potere politico, oggi di reagire ai nuovi poteri di una scienza e di una tecnica che pretende di deresponsabilizzare la coscienza morale. Per questo compito, secondo Campanini, occorre recuperare la dottrina conciliare sulla responsabilità dei laici cristiani, perché occorre portare avanti un umanesimo che sappia conciliare le istanze della «ragione religiosa» con quelle della «ragione laica». L’ultimo capitolo è dedicato ad una delle espressioni su cui, negli ultimi anni, si è sviluppato un ampio dibattito, in quanto a qualcuno è parsa più adeguata di quella di bene comune ad indicare le solide basi su cui costruire la società politica. In realtà, osserva Campanini, già uno Stato costituzionale democratico si costituisce sulla base di «valori non negoziabili», come lo sono ad esempio i primi articoli della Costituzione italiana. Non a caso il costituzionalista, riferendosi ai valori costitutivi della persona, scrive che la Repubblica li «riconosce», ovvero ne riconosce la preesistenza rispetto ad ulteriori e più specifiche determinazioni legislative. Campanini avanza tuttavia motivate perplessità circa l’uso, senza adeguate distinzioni, di tale categoria. Se anche non perdesse di significato sul piano filosofico-concettuale, esigerebbe in ogni caso un atteggiamento di saggia mediazione sul piano della prassi politica.

Il libro Giorgio Campanini Bene comune. Declino e riscoperta di un concetto Edizioni EDB, Bologna 2014 dialoghi n. 1 marzo 2015

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Consapevole del suo ruolo di educatore, volle fare dei suoi giovani degli uomini di cultura, coscienze libere e aperte al confronto. Designato da Giovanni XXIII membro della commissione per l’apostolato dei laici, egli sottolineò la necessità di una partecipazione qualificata dei laici e cercò di allargare il più possibile la loro collaborazione al Concilio, anche al di là della cerchia degli uditori, insistendo sul criterio della competenza piuttosto che della rappresentatività.

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onsignore Emilio Guano. O forse sarebbe meglio dire “don Guano”, come lo chiamavano tutti, amici e discepoli, e come lui preferiva farsi chiamare. Giuseppe Viola ricorda: «Quando una innocente fucina osò chiamarlo per la prima volta monsignore, il sorriso arguto che egli fece negli occhi luminosi, distendendo quel suo volto chiaro sugli zigomi sporgenti, e l’inchino goffamente riverente che le rese, col cappello in mano, replicando: Buongiorno, monsignora!»1. Don Guano aveva il gusto dello scherzo come ricordano in molti e in particolare mons. Franco Costa, alla cui vita quella di Guano si intrecciò più volte: «Ebbe il gusto dello scherzo e una letizia che prorompeva in ogni occasione d’incontro e di amicizia. Per don Guano la vita era veramente bella, non perché non avesse in lui e nei fratelli ore di profonda sofferenza, ma perché c’era Dio. Mostrò a tutti che la gioia è doverosa testiMaddalena Burelli monianza del cristiano»2. Nei suoi settant’anni, ha conseguito nel 2012 la laurea triennale la vita di Guano si scandì di momenti molto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia importanti e diversi tra loro che lo prepararono dell’Università Cattolica di Milano con una a quello che fu il momento rivelatore della sua tesi in Storia moderna, in seguito a ricerche vita, il Concilio ecumenico Vaticano II. La sua condotte all’Archivio storico di Cordova, in formazione di sacerdote, educatore e uomo di Spagna. Sta scrivendo la tesi magistrale sui cultura nel senso più autentico fu determinante rapporti Stato-Chiesa nel Messico del XIX nella sua partecipazione al Concilio. secolo. Fa parte del gruppo della Fuci Emilio Guano nacque a Genova il 16 agosto dell’Università Cattolica di Milano. 1900 da una famiglia di estrazione popolare

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con salde radici religiose e crebbe in un ambiente di una cristianità tradizionale, contrassegnato dalla lotta degli antimodernisti contro ogni elemento di novità all’interno della Chiesa3. Dopo aver frequentato una scuola elementare privata, entrò in seminario all’età di nove anni, dove rimase fino al 1921, quando si trasferì a Roma, al collegio di Sant’Apollinare, per licenziarsi in teologia presso il Pontificio Istituto Biblico. Qui ebbe modo di seguire corsi di lingua ebraica, di greco e di siriaco; frequentare corsi biennali di esegesi dell’Antico Testamento e un corso biennale di esegesi nel Nuovo Testamento. Il 23 dicembre 1922 venne ordinato sacerdote a Roma nella Basilica di San Giovanni in Laterano e, tre giorni più tardi, tornato a Genova, celebrò la sua prima messa nella Chiesa di San Giorgio, la parrocchia in cui era cresciuto. Nel 1924, dopo aver concluso gli studi con una tesi in Scienze Bibliche dal titolo Le citazioni esplicite dei profeti nella lettera ai Romani, fece nuovamente ritorno a Genova dove venne mandato come curato nella parrocchia del Corpus Domini, nel popolare quartiere di San Fruttuoso, in cui rimase per dieci anni, dedicandosi in particolar modo ai giovani4. Di lì a poco, nel 1925, spiragli di novità favorirono una maggior apertura della società genovese alla modernità, quando venne nominato il nuovo Arcivescovo di Genova, mons. Carlo Dalmazio Minoretti. Il gruppo genovese L’episcopato di Minoretti si contraddistinse per numerose iniziative sociali, volte a incentivare il movimento sociale dei cattolici e a valorizzare le migliori energie intellettuali del clero e del laicato5. Per la realizzazione del suo programma pastorale, egli si avvalse anche del prezioso contributo del giovane Guano. A lui Minoretti affidò il ruolo di assistente ecclesiastico del gruppo Fuci di Genova. Sotto la guida di Guano e di quella dell’allora presidente, Franco Costa, il gruppo si riorganizzò, aderendo alla linea montiniana e ponendo quindi fine a una serie di tensioni con la presidenza nazionale che avevano caratterizzato gli anni precedenti. La Fuci di Genova, allineandosi alle posizioni di Montini e Righetti, orientò il suo impegno in chiave culturale e religiosa, mentre si assisteva alla progressiva ascesa del fascismo che ostacolava ogni dibattito politico. Nonostante il difficile momento storico, il gruppo genovese riuscì in ogni caso ad aumentare il numero degli aderenti, un centinaio per tutti gli anni Trenta, diventando un punto di riferimento per il mondo universitario cittadino6. Con Guano la Fuci divenne un luogo di dialoghi n. 1 marzo 2015

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incontro e formazione per educare i giovani a vivere e farsi testimoni del Vangelo. In un numero di Ricerca, pubblicato nel 1949, Guano chiarisce quale doveva essere, secondo lui, il ruolo della Fuci: «La Fuci è nata in un momento in cui la cultura italiana e in particolare l’ambiente universitario erano in gran parte lontani e anche avversi al Cristianesimo e alla Chiesa. È nata quindi per un bisogno di difesa e di diffusione dei valori cristiani nelle anime dei singoli studenti e nell’università; si accompagnava naturalmente a questo l’intendimento di approfondire personalmente e socialmente il pensiero e la vita cristiana. La Fuci rinasce ogni anno nell’Università dall’intesa di anime cristiane, che si propongono ancora gli stessi scopi: essa rimane a servizio degli Universitari e dell’Università, della cultura, della Chiesa, per contribuire ancora alla difesa e alla diffusione dei valori cristiani, al rifiorire dell’Università, al suo farsi sempre più cristiana, all’approfondimento personale e sociale del pensiero e della vita cristiana. Se mai una differenza c’è, a questo riguardo, dagli inizi della Fuci a oggi, è che la Fuci si orienta sempre più nell’intenzione positiva dell’approfondimento piuttosto che nell’atteggiamento della difesa»7. Guano ambiva a dei fucini che fossero dei cristiani che con la loro presenza potessero diffondere il cristianesimo nell’università; ed è per questo che proponeva e auspicava una presenza più attiva nell’università. L’università degli incontri Per lui la Fuci si doveva configurare come lo strumento di congiunzione tra la Chiesa e il mondo universitario: «La Fuci è un’accolta di studenti che amano l’Università italiana, che la vorrebbero sempre più perfetta, intelligente, affiatata, cristiana; e che semplicemente compagni tra compagni, offrono per questo scopo il loro servizio di cristiani alla Chiesa e all’Università»8. Da qui l’iniziativa di organizzare in università degli incontri e delle conferenze aperte anche ai non fucini. Come assistente riuscì ad avviare un profondo rinnovamento della cultura religiosa del gruppo di Genova, attraverso ritiri spirituali, la celebrazione della Pasqua universitaria, l’uso dell’italiano nella Liturgia delle Ore e l’abitudine alla lectio divina: tutti strumenti utilizzati da Guano per stimolare e far crescere la consapevolezza del ruolo dei laici nella Chiesa. Cercando di educarli non solo a una conoscenza storica della Chiesa, ma anche e soprattutto ad avere fede nella Chiesa: «Se ascoltare la Chiesa è ascoltare Cristo che parla, noi dobbiamo ascoltare le direttive che da essa ci vengono per la nostra vita e la nostra fede, perché attraverso dialoghi n. 1 marzo 2015


la Chiesa è il Signore che continua a manifestarsi nel mondo. Il nostro atteggiamento di fronte alla Chiesa non deve essere quindi che l’atteggiamento nostro di fronte a Cristo»9. Consapevole del suo ruolo di educatore, Guano voleva fare di quei giovani degli uomini di cultura, formare coscienze libere e aperte al confronto, «elaborare con loro un metodo di ricerca della verità, orientandoli a tradurlo poi, occorrendo, in metodo di attività»10. E lo strumento principale utilizzato per l’elaborazione di questo metodo, era il testo biblico, a cui Guano invitava a una maggiore consuetudine, anche attraverso le pagine di Ricerca11. L’esperienza che Guano maturò nel gruppo Fuci di Genova, ebbe modo di metterla a frutto anche in presidenza nazionale, quando nel maggio del 1935 giunse a Roma nelle vesti di vice-assistente della sezione femminile della Fuci, insieme all’amico Franco Costa, nominato vice-assistente della sezione maschile. Erede della Fuci di Montini e Righetti del decennio 1925-1933, la sua azione si discostò dalla riflessione politica, orientandosi nella formazione religiosa e culturale. Nel corso degli anni, don Guano ebbe anche modo di instaurare un rapporto di amicizia con il futuro pontefice Paolo VI, come confermano le diverse lettere che i due si inviarono. Per esempio, in occasione della nomina di Guano a vice-assistente, Montini scrive: «Ieri, solo ieri, ho saputo che sei ufficialmente vice-assistente delle universitarie nostre. Sono lietissimo di ciò. Non ci puoi credere quanto mi sia di conforto il pensare che tu e d. Costa, con d. Pelloux e gli altri nostri sacerdoti genovesi, avete in mano la direzione spirituale della Fuci! E che l’ottima, paterna guida di Mons. Anchini vi lascia iniziativa, vi protegge da responsabilità. Ma ringrazio Dio di gran cuore, e lo prego che le cose, così ben combinate, diano frutti, molti frutti quali da anni aspettiamo, e quali voi e la Fuci meritate»12. La riflessione di don Guano sul concetto di laico, sulla formazione dei laici, sulla famiglia come soggetto di apostolato, sull’Azione Cattolica e sul ruolo dell’assistente ecclesiastico giunsero a una più completa maturazione durante il concilio. Guano venne designato da Papa Giovanni XXIII, già all’inizio dei lavori conciliari, come uno dei dieci membri della commissione per l’apostolato dei laici. Fin dai lavori preparatori al concilio, Guano sottolineò la necessità di una partecipazione qualificata dei laici e cercò di allargare il più possibile la loro collaborazione al concilio, anche al di là della cerchia degli uditori, insistendo sul criterio della competenza piuttosto che della rappresentatidialoghi n. 1 marzo 2015

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vità13. Il settore che lo occupò maggiormente e in cui più investì le sue energie, fu quello del rapporto Chiesa-mondo, il famoso schema XIII diventato poi la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, e da cui si svilupparono ulteriori approfondimenti e documenti sulla vocazione e posizione dei laici nella Chiesa di Dio14. Emilio Guano non fu uno dei massimi protagonisti del Concilio Vaticano II, ma lasciò un’impronta significativa che nello specifico della Gaudium et spes si concretizzò nell’apporto dato al capito IV, riguardante il rapporto tra Chiesa e mondo, al capitolo II della seconda parte, sul progresso della cultura, e ai numeri finali dei capitoli I, II e III, che costituivano un richiamo cristologico in relazione alla dottrina dell’uomo15. Guano si fece coraggioso sostenitore della linea d’aggiornamento: credeva che la Chiesa dovesse consolidare la dimensione ecumenica ed interreligiosa ed era favorevole al dialogo con il mondo laico. Era inoltre convinto che il cammino verso l’unità della Chiesa partisse dal primato della Parola, dalla connessione tra scrittura e tradizione. Come lui stesso ebbe modo di scrivere: «Tota vita christiana, tota vita ecclesiae de verbo Dei vivunt. Et in servitium Verbi Dei positae sunt»16. Don Guano viene ricordato da molti come uomo della Parola e ancora oggi, se ci fosse, continuerebbe a invitarci a una maggior confidenza con il testo sacro: «Come l’ho visto tante volte coi fucini, coi laureati, coi docenti universitari cattolici, prenderebbe in mano il libro della parola di Dio e con parola piana, con rispetto che traduce la fede nella parola ispirata, ci inviterebbe a riflettere, sempre con lo sguardo aperto sulle cose e sulle vicende della vita, ad ascoltare l’appello di Dio a ciascuno di noi e alla comunità»17. Don Guano morì nel 1970 ma attraverso le pagine che scrisse per la Fuci, per i laureati e per tanti altri ancora, egli per chi lo ascolta non smette di insegnare. *** Antologia «Come leggere il Libro Sacro» di Emilio Guano Lo spirito con cui accostarsi alla S. Scrittura rientra nello spirito con cui si accosta qualunque libro; si tratta di adattare le nostre disposizioni a ciò che già si sa o che si va man mano scoprendo di ciò che un libro è o vale. 1). Naturalmente bisognerà che il lettore tenga ben presenti i caratteri di questo libro singolare che è la Bibbia; questi soprattutto: che essa è un libro veramente umano (perché scritto da dialoghi n. 1 marzo 2015


uomini veri, perché parla di cose che sono accadute e sogliono accadere tra gli uomini); un libro divino (perché è veramente Dio che parla in esso, degli uomini, di Sé). Talmente che la lettura di esso è l’aprirsi di uno scambio tra Dio che parla e l’uomo che legge. Quindi si entra e si sta in questa lettura con atteggiamento che è insieme di rispetto e di familiarità. 2). Cerca di capire. […] La Bibbia, dall’inizio alla fine, è opera di Dio, il lettore della S. Scrittura sarà attento soprattutto a scoprire, entro e oltre e tramite la parte umana e i fatti umani, che Dio stesso dice le sue intenzioni, il valore religioso che Dio ha inteso in ogni pagina, forse facendoci passare attraverso la scompostezza o la grossolanità o la irreligiosità degli uomini. Tanto più da questo punto di vista, per capire bisogna ricordare che ogni testo biblico presuppone i precedenti e prepara i seguenti, mentre al centro dello svolgimento nella storia delle intenzioni divine vi è Cristo. Appunto per capire è necessario non perdersi nei particolari, ma sforzarsi di cogliere il disegno e l’idea dominante in ogni testo, in tutto il Testo Sacro. Naturalmente, siccome la Bibbia è un libro per certi versi culturalmente lontano da noi, dai nostri usi, dalla nostra maniera di pensare e di esprimerci, ci vorrà, attraverso lezioni, introduzioni, commenti, l’aiuto fraterno di competenti, che faciliti a noi l’entrare nella sua comprensione, anche semplicemente umana. E siccome essa contiene il Mistero di Dio e siccome Dio l’ha affidata alla sua Chiesa, bisognerà riceverne dalla Chiesa l’interpretazione sicura. La quale Chiesa tale interpretazione ci dà attraverso le dichiarazioni ufficiali, attraverso i commenti che approva, soprattutto per quanto riguarda l’insieme, attraverso il situare che essa fa del testo sacro nella divina Liturgia. Il lettore deve apportare la sua ricerca personale, la docilità alla competenza dei competenti e della Chiesa, la sua pazienza: con pazienza accettare di non capire tutto, accettare che molti particolari rimangono oscuri. […] Ogni lettura della Bibbia deve essere quindi fatta un po’ con spirito di studio. 3). Lasciarsi penetrare. Questo spirito di onestà per cui si cerca di capire deve trasformarsi, si trasformerà quasi da sé a poco a poco, in uno spirito più cordiale, se ci si può esprimere così; ci si lascia illuminare, ci si lascia nutrire, ci si lascia formare, ci si lascia penetrare, dalle idee, dai modi di pensare, di sentire, magari di esprimersi della S. Scrittura, cioè in sostanza dalle idee e dai modi di Dio, sia pure (poco male!) attraverso i modi degli scrittori Sacri. […] La lettura della Bibbia non può non essere almeno un po’, meditazione. 4). La lettura del Libro dev’essere fatta soprattutto come una predialoghi n. 1 marzo 2015

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ghiera. Essa è anche un colloquio con gli uomini: con quelli che per primi hanno scritto questi testi, sotto l’ispirazione di Dio; con quelli che per primi li hanno trascritti e commentati, attraverso millenni di storia cristiana; con quelli che oggi ce li leggono. Ma è soprattutto, essenzialmente, un colloquio con Dio: Dio continua a parlare e l’uomo ascolta; l’uomo si rivolge a Dio e Lo interroga e Dio gli risponde; l’uomo riceve e fa sua la parola di Dio e gliela ritorna in orazione. (Tratto da Ricerca del 14-15 luglio 1950) Note 1 G. Viola, Note per una biografia, in AA. VV., Emilio Guano. Uomo della Parola, Edizioni Studium, Roma, 1977, pp. 23-24. 2 F. Costa, Testimonianza a una vita esemplare, in Emilio Guano. Uomo della Parola, cit., pp. 9-10. 3 G.B. Varnier, Don Guano nella tradizione religiosa di Genova, in AA. VV., Emilio Guano. Coscienza/Libertà/Responsabilità, Edizioni Studium, Roma, 1998, pp. 63-67. 4 L. Rolandi, Emilio Guano. Religione e cultura nella Chiesa italiana del Novecento, Rubbettino Editore, Catanzaro, 2001, pp. 36-40. 5 D. Veneruso, Azione pastorale e vita religiosa del laicato genovese durante l’episcopato del cardinale Carlo Dalmazio Minoretti (1925-1938), Società Ligure di Storia Patria, Biblioteca digitale, 2012, pp. 27-28: «si punta sull’Azione Cattolica, forma cittadina di organizzazione e di apostolato laicale, emarginando progressivamente le antiche confraternite, espressione di una pietà popolare e campagnola; si moltiplicano i contatti con la cultura laica per selezionare una presenza cattolica capace di incidere efficacemente sulla modernità». 6 L. Rolandi, Emilio Guano. Religione e cultura nella Chiesa italiana del Novecento, cit., p. 59. 7 Scopi, spirito e metodo della Fuci, «Ricerca», 15 ottobre 1949. 8 La Fuci e l’università, «Azione Fucina», 22 ottobre 1939, in Emilio Guano. Coscienza/Libertà/Responsabilità, cit., p. 83. 9 Il senso della Chiesa, «Ricerca», 1 novembre 1954. 10 G. Guano, Funzione di maestri, in a cura di G. Tavallini, Cultura e responsabilità. Lettere a docenti (1946-1963), Edizioni Studium, Roma , 1981, p. 43. 11 Per fare solo qualche esempio: La lettura della Bibbia, «Azione Fucina», 8 marzo 1836; “Il libro” eterno: la Bibbia, «Ricerca», 1 maggio 1950; Come leggere il libro sacro, «Ricerca», 15 luglio 1950. 12 Lettera di Mons. G.B. Montini a Guano, 24 aprile 1935, in Fondo Guano in Archivio Paolo VI di Roma, cart. 4, fasc. 1, in L. Rolandi, cit., p. 73. 13 AA. V.V., Emilio Guano. Uomo della Parola, Edizioni Studium, Roma, 1977, pp. 215-216. 14 A.A. V.V., Don Guano. Vescovo Teologo, Edizioni Studium, Roma, 1992, pp. 15-23. 15 L. Rolandi, cit., pp. 255-283. 16 L. Vivaldo, Guano operaio silenzioso del Concilio, in L. ROLANDI, cit., p. 283. 17 Dall’omelia del card. Michele Pellegrino ai funerali di Mons. Guano.

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d01oghi UN CONTRIBUTO DELL'AZIONE CATIOLICA • al cammino di evangeli zzazione della comunità cristiana • al dialogo nella città deg li uomini • a una elaborazione culturale aperta e ri gorosa

IN OGNI NUMERO EDITORIALE: un invito alla lettura, alla luce degli eventi PRIMO PIANO: interventi autorevo li su questi oni di attualità culturale e sociale UN PERCORSO TEMAllCO ANNUALE: amcoli, servizi, interviste a tes1imoni significa1ivi, fo-

rum EVENTI & IDEE: interpretazioni , aggiornamenti , discussioni ; la letteratura e il cinema, il costume e la politica, la Chiesa e la società... IL LI BRO

& I LI BRI: suggerimenti e itinerari criti ci di lettura

PROFILI: un testimone scomodo da non dimenticare

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