Phronein nr. 6

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PHRONEIN Comune a tutti è il pensare

Rivista filosofica semestrale

Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche

Numero 6

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Trimestrale di poesia, critica e letteratura

Supplemento del n. 104 (dicembre 2021)

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Rivista di poesia, critica e letteratura
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GICA A SPECIALISTICA OLTRELA LT A LOG

5 Rosario Assunto: un’ostinata filosofia (dagli esordi ai primi

Anni Novanta)

Piero Zanetov

33 Fenomenologia della paura

Giancarlo Pillitu

39 L’amore, la sorgente dell’essere

Rebecca Trabalza

89 L’impegno, antidoto alla disperazione

Teresa Simeone

95 Mister Tanatò

Rosario D’Amico

131 Dimostrazione empirica dell’esistenza di Dio come anima

dell’universo

Simone Caforio

145Gli autori

3 INDICE
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ROSARIO ASSUNTO: UN’OSTINATA FILOSOFIA (DAGLI ESORDI AI PRIMI ANNI NOVANTA)

PIERO ZANETOV

1. Il primo percorso

Nel marzo del 1991 la Giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino decise all’unanimità di attribuire l’edizione speciale di quell’anno a Rosario Assunto, per la sua battaglia di idee a favore del buon governo, della cura e della difesa dei giardini, «luoghi pensati e realizzati per vivere la contemplazione». Nella motivazione, l’architetto e urbanista Domenico Luciani, storico coordinatore del Comitato Scientifico della Fondazione Benetton, citò il lungo impegno di Assunto specificando come, all’interno dei suoi vasti interessi, il tema del rapporto tra Arte e Natura e l’analisi estetica del giardino e del paesaggio si fossero presentati con particolare continuità e con determinata “ostinazione” già dai primi Anni Sessanta1.La sua tensione nei confronti di quella che lui stesso definiva “critica sensibile”, maturò attraverso un lungo percorso di formazione iniziato nel contesto culturale dell’immediato dopoguerra tra la sua Caltanissetta e Roma, dove si trasferì dopo la laurea in Giurisprudenza divenendo assistente volontario di Pantaleo Carabellese, titolare della prestigiosa cattedra di Filosofia Teoretica fino al 19482. Furono gli anni in cui il giovane professore di liceo attraversò un interessante periodo di militanza intellettuale; collaborò infatti, tra il 1947 ed il ‘49, alle pagine culturali del quotidiano “Italia socialista” diretto da Aldo Garosci, a quelle del “Giornale” guidato da Carlo Zaghi, della cui redazione faceva parte il suo amico di sempre Raffaello Franchini, ed alle riviste «L’indagine», «Nuova Corrente» e «Belfagor», con articoli e saggi critici dedicati all’arte contemporanea, al cinema ed alla letteratura americana d’avanguardia; quest’ultima conosciuta grazie all’incontro con Leonardo Scia-

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scia che, nella lontana Caltanissetta, dirigeva dal 1949 la rivista bimestrale “Galleria”, in cui transitarono Fernanda Pivano, Elio Vittorini, Valerio Volpini, Ferruccio Ulivi, Carlo Bo, Luciano Anceschi e molti altri3.Fermenti, adesioni, lavoro instancabile sulla coscienza formale dell’opera d’arte, desiderio di riscatto estetico, bisogno di qualità da immettere nelle strutture produttive dell’ordinamento sociale e nel linguaggio comunicativo: questa era l’atmosfera nella quale il giovane Assunto cresceva in quegli anni. La definizione di una priorità della dimensione estetica capace di dare contenuto alla prassi ed alla realtà fu ciò che lo spinse, nei primi Anni Cinquanta, ad entrare nel gruppo delle “Edizioni di Comunità” animato da Adriano Olivetti, di cui condivise per lungo tempo la profonda dimensione etica. Per un gobettiano come lui, peraltro, doveva quasi essere automatico spingersi nel sogno di quel nuovo modello di società denso di progettualità ed empiria in cui un certo tipo di borghesia, in piena autocritica, sembrava quasi ritrovare la propria innocenza illuminista.

2. Gli Anni Cinquanta: forma come incontro

‘Furono editi proprio da Comunità, tra il 1950 ed il ’57, i suoi primi saggi: L’integrazione estetica, Soggettività e pluralità e il volumetto Forma e destino, composto da quattro capitoli dedicati alla lettura filosofica di Rilke, all’esposizione di Picasso a Roma avvenuta nel 1953, al problema della prosa narrativa ed al rapporto tra filosofia ed esperienza.

Era stato d’altronde proprio Carabellese a nominare l’ontologia del concreto e quell’essere che è insieme tempo, pluralità e diversità;

Assunto rielaborò senz’altro dal suo maestro il tardo problema kantiano dell’unità tra ragionediveritàeragionediesistenza, iniziando così a teorizzare un’idea di Bellezza come «forma in metamorfosi dellasituazione e nella situazione». In quanto metamorfosi della situazione, la forma si muta continuamente trasformandosi nell’in-

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contro con il reale; come metamorfosi nella situazione, la forma cade invece nella sua storicizzazione stabilizzandosi nel suo essere nel mondo.

Questa idea di forma come incontro rappresenta il passo essenziale di alcuni suoi scritti risalenti agli anni 1956-58 circa, ripresi poi nel volume pubblicato nel 1959 ed intitolato Teoremi e problemi di estetica contemporanea. In particolare i saggi Forma per sé e Forma per l’altro e Filosofia dell’arte e Filosofia della relazione che venne pubblicato nel n.30 della rivista «Aut Aut», diretta da Enzo Paci. È evidente, a questo punto, lo sforzo costante di Assunto di svelare la fondazione estetica dell’esperienza umana e di riconoscere nel giudizio estetico e nella produzione artistica (da non porre mai in una prospettiva feticistica al di fuori del tempo e della società)

l’esplicazione e l’autofinalizzazione dell’esteticità costitutiva di ogni momento e di ogni forma dell’esperienza. Una ricerca di questo genere, quindi, nella quale la riflessione dell’esperienza su se stessa e la partecipazione attiva alla vita dell’arte e della sua storia occupano una posizione pari a quella della speculazione filosofica, non poteva certo esaurirsi nel momento della pura teoresi o in quello della critica militante. Il suo problema fu, in verità, molto più difficile: si trattava, infatti, di risalire continuamente dalla pratica alla teoria, di trasmutare l’arte e la letteratura in filosofia portando quest’ultima nell’esperienza di tutti i giorni.

In altre parole il suo proposito fu quello di fare filosofia non fuori o al di là dell’esperienza esteticavissuta e della produzione artistica, ma nell’esperienza, con l’occhio attento a percepire il lato artistico immanente ed implicito in ogni attività produttiva.

Tale compatta solidarietà del momento pratico e teorico della ricerca rappresentò il fulcro dell’iniziale atteggiamento scientifico di Assunto. Ma i suoi primi scritti rispondono anche ad altre due esigenze: la realizzazione di unità tra coscienza comune e coscienza filosofica attraverso la ridefinizione delle categorie di oggettività e

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soggettività (su cui meditò grazie alle tarde letture husserliane di Carabellese, che guardavano con attenzione al piano del molteplice e dell’intersoggettività) ed la necessità di un collegamento continuo tra la categorizzazione giudicativa e l’unità finale dell’esperienza la quale, senza mai essere esclusivamente estetica, è condizionata esteticamente nel suo costituirsi.

Lo osserviamo in altri saggi ed articoli: in particolare Ontologia e fondazione dell’uomo nel pensiero di Pantaleo Carabellese del 1949, L’estetica dei mezzi espressivi del 1951, L’autonomia dell’arte, condizione di civiltà del 1953, Filosofia dell’arte e Filosofia della relazione sempre del 1953. Ma è soprattutto nel gioco a tutto campo di una filosofia che aderisce, con estrema capacità sensibile, alla realtà dell’arte divenendo così un’effettiva critica dell’arte, che si muove gran parte della speculazione di Assunto dall’immediato dopoguerra fino alla conclusione degli Anni Sessanta.

È chiaro, a questo punto, il suo impegno per una cultura mai astratta, ma partecipata ed assertiva. Ne è un esempio questo brano, tratto appunto da Filosofia, arte e condizione umana: «sono in cerca di una filosofia che, modulandosi secondo le ragioni dell’arte, impegnandosi nel dibattito di questa, procura di descrivere i movimenti con i quali l’arte percorre, nella loro interezza, tutti i campi del pensiero e dell’esperienza, secondo l’ordinata e l’ascissa della contingenza e dell’assoluto. È questa la strada che davvero siamo chiamati a percorrere se davvero vogliamo mettere fine agli appartati soliloqui di una cultura definita da circolichiusi»4.

Già in questa strutturata ricerca assiologica possiamo riscontrare i primi sintomi del suo pensiero, che lo porterà presto al coinvolgimento con l’estetico naturale e con l’idea del paesaggio assoluto affrontato attraverso l’ermeneutica kantiana; fino alla successiva stabilizzazione nell’alveo prezioso della poetica filosofica schellinghiana.

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3. Gli Anni Sessanta

Gli Anni Sessanta, coincidenti con i suoi concorsi a cattedra, si aprono per Assunto con molte nuove ricerche: le voci redatte per l’Enciclopedia Universale dell’Arte, il volume Teoremi e problemi di esteticacontemporanea5, l’introduzione ai Prolegomeni ad ogni futura metafisica del 1967 (un breve studio che testimonia la sua costante attenzione all’estetica kantiana), L’automobile di Mallarmé ed altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti del 1966 (raccolta di saggi che spaziano dall’analisi del rapporto tra Bello e Utile alle nuove tendenze artistiche tra arte, scienza e gioco) e Bellezza senza Grazia, la cui stesura primitiva, tradotta in tedesco, fu pubblicata nel 1965 all’interno del volume di Scritti in onore di G. Lukács. Nel suo eterogeneo laboratorio universitario egli iniziò, come abbiamo accennato, ad approfondire con raffinata originalità il rapporto Arte-Natura, soprattutto per individuare quali fossero i valori costitutivi dell’idea di paesaggio.

Pensiamo al corso dell’anno accademico 1961-62 dedicato al Giudizio estetico e il paesaggio, alla conferenza tenuta nel 1965 presso l’Università di Francoforte intitolata Natur und Künst, all’Introduzione alla critica del paesaggio pubblicata sul tema Arte e società nella rivista «De Nomine», fino al saggio del 1968 sul Paesaggio comeoggettoesteticoelerelazioniconl’uomo («Verri», n. 29) nonché alla comunicazione dello stesso anno tenuta al Congresso internazionale di Uppsala. Esattamente in quel decennio, tra l’altro, egli era riuscito a creare una convergenza tra la cattedra di Estetica di Urbino, la Goethe Universität di Francoforte (dominata dal grande Bruno Liebrucks e da Wilhelm Weischedel) e la scuola di Marburgo, grazie alla devota amicizia con l’anziano storico dell’estetica Ladislao Tatarkiewicz; il tutto sotto l’ombra di Joachim Ritter, altro grande teorico del paesaggio ed autore del fondamentale Landschaft. Zur Funktion des Ästhetischen in der modernen Gesellschafft edito nel 19636).

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Nel 1967 poi un altro libro, che raccoglieva anch’esso studi precedenti, intitolato Stagioni e Ragioni dell’estetica del Settecento farà emergere in maniera estremamente fluida quella che egli definiva la continuità discorde del pensiero illuminista; idea che circolava, tra le altre, nel coté universitario di Urbino, e che veniva discussa spesse volte con gli amici Carlo Bo, Leone Traverso e Oreste Macrì7). Rileggendo quelle pagine ho spesso pensato all’effetto che, in quegli anni, esse dovevano suscitare tra i cultori di storia delle idee estetiche: ad esempio, la descrizione che egli fa della Sehnsucht (voluttà infinitamente desiderosa di sé ed in sé appagantesi) 8 è quanto mai nuova ed acuta; così come è originale l’approccio ai brani letterari del suadente poeta rococò Saint-Lambert, autore dei Pièces fugitives, ai poemetti salottieri-naturalistici del Delille o al SainteBeauve, così amato da Bo.

Continuava comunque, nello stesso periodo, la ricerca più strettamente teoretica attraverso il volume Estetica dell’identità del 1962, dedicato interamente a Schelling e compendiato sia dalle lezioni tenute nell’anno accademico 1960-61 che da due comunicazioni presentate nel 1947 al Congresso hegeliano di Salisburgo (Relazioni tra Arte e Filosofia in Schelling e Vorlesungen über die Aestetik).

4. L’interesse per l’estetica medievale

Tra il 1961 ed il ‘63 uscirono anche due suoi volumi dedicati all’estetica medievale: La critica d’arte nel pensiero medievale e La teoria del Bello nell’estetica medievale (pubblicata in traduzione tedesca dalla casa editrice Dumont di Colonia). Soprattutto in questa ricerca dei complicati schemi interni appartenenti al nucleo del pensiero medievale, intessuti di aisthetis e dimensione veritativa, egli aderì tra i primi ed in maniera del tutto originale (sulle orme di Edgar De Bruyne che quindici anni prima aveva pubblicato i suoi fondamentali Études d’Esthétique mediévale) alla confutazione di

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quell’etichetta che giudicava la medietas un’epoca buia e di transizione. Partendo dalla metafisica della Luce, tema di fondo che collega l’estetica antica a quella medievale, transitando poi attraverso le suggestioni del neoplatonico ornatus mundi, Assunto ci riporta al pensiero di Basilio di Cesarea9 che nelle Omelie Esamerali rimaneva stupito dalla bellezza dell’ordine perfetto del creato, dettando così un primo vero trattato di estetica pre-moderna. In esso, osserva Assunto, si parla per la prima volta di Natura e Bellezza come opera d’arte da contemplare con penetrante conoscenza. Egli eraaffascinato dalla polisemia medievale, così simile alla struttura della poesia, perché in essa vedeva la possibilità di ricirculare continuamente dal piano letterale a quello anagogico per un ancoraggio finale sulla verità morale10).

5. La società estetica e il Neoclassicismo - “L’antichità come futuro”

È da sottolineare che nel suo atteggiamento critico appare sempre la volontà di ripensare le esperienze in maniera quasi stratigrafica, insieme al continuo desiderio di sfogliarle dall’interno; seguendo questa strategia, dieci anni più tardi inizierà ad esplorare il Neoclassicismo, intuendolo come declinazione di una nuova e diffusa società estetica (sulla scia della lettura piena ed organica che ne diede Hölderlin nel 1796 nel suo ErstesSystemprogramm). Posta in tali termini, l’idea di una forte e determinata coscienza filosofica rinvia, anche in questo caso, alle lezioni di Carabellese che nell’immediato dopoguerra sottoponeva ad un esame serrato, nella sua Critica del concreto, quella che definiva la concezione giudicativa dell’essere. Ma richiama anche Husserl e il Dilthey di Erlebnis und Dichtung e, soprattutto, Lewis Mumford e la storiografia sociologica di Huizinga. Questi ultimi, infatti, portano al livello della storia e della società, appunto, l’unità di coscienza comune e di coscienza filosofica. Ossiauno degli argomenti posti dall’insegnamento di As-

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sunto in quegli anni: un insegnamento ampio, suggestivo e, ricordiamolo, assolutamente antidogmatico.

Ne è prova un breve e sintomatico saggio intitolato Furori romantici in giardini rococò pubblicato nel 1972 sul periodico pescarese «Trimestre», nel quale è chiara la volontà di oltrepassare gli steccati delle categorie crociane. Si trattava di considerare il passaggio rococò/neoclassicismo/ preromanticismo non più secondo una traiettoria unidirezionale, ma sulla scia di un comune fluire di stati d’animo. D’altronde, in questa fase, artisti e letterati provenienti ognuno da esperienze diverse si ritrovarono tutti uniti in quella straordinaria atmosfera fatta di «attraente confusione di armonie sublimi e strani godimenti»12 (das schönste Chaos von erhabenenHarmonien und interessanten Genüssen nachbilden un ergänzten) di cui parlava Frederick Schlegel nella Lucinde. Già dal 1967 erano peraltro iniziate, da parte di Giulio Carlo Argan, le prime indagini critiche su quel problematico intrecciarsi di gusto e sensibilità e, proprio in quel periodo, si rafforzò un singolare sodalizio culturale tra il grande storico dell’arte ed Assunto.

Si erano conosciuti nel 1933 nell’allora Segreteria tecnica del Ministero dell’Educazione Nazionale, ma l’occasione che consolidò tale amicizia fu dovuta all’incarico che Argan gi affidò assegnandogli alcune voci dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, di cui egli era curatore. In seguito, grazie al suo interessamento, pubblicò La critica d’arte nel pensiero medievale presso Mondadori (nella collana “Il Saggiatore” erano consulenti lo stesso Argan, Remo Cantoni e Giacomo Debenedetti). L’incontro con Argan avvenne sul terreno dell’idea del Sublime e sul concetto di assorbimento del Bello di Natura nel Bello dell’Arte, giungendo alla sostanziale dimostrazione della contiguità tra Neoclassicismo e Romanticismo. Fenomeni uniti, sia per Assunto che per Argan, dalla stessa aspirazione al rimpatrio estetico nel territorio dell’Antico, inteso come identità di Storia e Natura e come modello di palingenesi estetica nella quale la virtù è felice e la felicità èvirtuosa13.

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Questo stesso argomento venne poi affrontato nel 1973 con la pubblicazione di un completo ed omogeneo studio sull’estetica del Neoclassicismo europeo nella sua accezione di pensiero vivente, che egli intitolò in maniera suggestiva L’Antichità come futuro. Anche in questo caso l’originalità di Assunto consisteva nel suo continuo mettere in relazione stati d’animo, vissuti letterari, modulazioni stilistiche e meditazioni filosofiche rendendoci l’immagine di una cultura realmente in trasformazione, al di là di paralizzanti mediazioni critiche o di luoghi comuni. Come nel caso delle sue ricerche precedenti sul medioevo, egli volle analizzare il Neoclassicismo tracciando una precisa “linea di contiguità” tra Verità e Bellezza. Sottopose quindi ad un attentissimo confronto le convergenze esistenti tra la poetica mediata dalla teorica razionalista dell’Illuminismo, l’insorgente prospettiva romantica ed il contesto storico della rivoluzione giacobina (il cipiglio sublime dei tribuni) che provocò in molti artisti il maturarsi di un serio impegno ideologico, fluidificato dall’indubbio fascino dello stato etico repubblicano, inteso come modello estetico-politico (ma dietro al quale sorridevano, imperturbabili, le Grazie). Ma in che modo congiungere esperienze estetiche diverse, come quelle della Grazia e del Sublime? La risposta, che Assunto sintetizzerà nel 1984 nel volume “Il parterre e i ghiacciai”, è di natura dialettica: infatti nell’estetica neoclassica convive perfettamente l’esigenza del Sublime con quella della Grazia («che non sale, leibnizianamente, dalla Natura, mache scende su quest’ultima per illuminarla e riscattarla»)14.

6. L’eclettismo di Assunto

La dialettica del giardino illuminista non viene così più contrapposta a quella del paesaggio romantico (identificato con l’immagine dei ghiacciai alpini cari, ad esempio, a John Dennis, a Goethe, a Walpole, a Byron e ad un’infinità di viaggiatori del Grand Tour) perché la Grazia (come Felicità) ed il Sublime (come Virtù) non risultano

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in tensione reciproca, ma si integrano a vicenda in una prospettiva di “infinità assoluta”. Il suo insegnamento, dal 1956 in poi, fu percorso, come abbiamo visto, da una sicura vena antidogmatica ed eclettica; preferiva le interferenze, le connessioni e la libertà interpretativa. Se ripercorriamo, infatti, l’elenco dei suoi corsi monografici svolti ad Urbino in quei decenni non sentiamo mai l’irrigidimenti su tematiche ricorrenti: si passa con snellezza da Kant a Bernardo da Chiaravalle, da Musil a Whitehead, transitando sul terreno di Schelling fino a toccare, di sponda, il rapporto artescienza nel pensiero contemporaneo.

Alcuni di questi seminari faranno emergere i temi che verranno poi attraversati dall’Assunto degli ultimi anni, capace di riunire insieme lucidità teoretica e attenta pratica storica esercitata, come di consueto, direttamente sui testi: il giudizio estetico e il paesaggio, il Bello, la Grazia ed il Sublime nell’estetica del Settecento, il giardino come archetipo neoplatonico, il rapporto architettura-paesaggio, il Neoclassicismo europeo nelle sue convergenze con l’estetica del Romanticismo, le differenze tra i giardini architettonici alla francese e l’arte dei giardini inglesi fino al problema estetico delle città; e proprio da queste attente osservazioni nasceranno, nei primi Anni Ottanta tre libri decisamente importanti: Infinita Contemplazione. Idee e gusti dell’Europa barocca, Verità e Bellezza nelle estetiche e nelle poetiche dell’Italia neoclassica e primo romantica ed il bellissimo ed articolato libro pubblicato da Jaca Book, La città di Anfione e la città di Prometeo.

7. I veleni di un filosofo

–paesaggio

e coscienza civile

Assunto era un impareggiabile viaggiatore capace, anche in questo caso, di leggere gli spazi dell’architettura filtrando attentamente Leibniz, Burchardt, Huxley e Adorno, in un gioco di raffinata e poetica erudizione15; e la sua polemica ininterrotta contro gli abusi e gli squilibri delle urbanizzazioni scorrette e selvagge nasceva pro-

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prio dall’osservazione delle traumatiche mutazioni e mutilazioni delle città più amate della sua terra, la Sicilia.

Egli iniziò così, tra i primi, a combattere con forza le distruzioni e le gravi dissonanze estetiche che avrebbero, di lì a poco tempo, trasformato irrimediabilmente i tessuti storici urbani e le splendide intelaiature paesaggistiche d’Italia. Con estrema attenzione, ben sapendo di maneggiare nelle sue descrizioni concetti estremi e rarefatti come quello di temporalità, di logos e di rappresentazione, egli fu in grado di guidare, con lucida suggestione, sui percorsi interni della cultura europea, da Colmar a Strasburgo, dai paesaggi della Valle d’Itria e di Cisternino fino ai giardini d’inverno della corte di Ansbach, da Padova a Stoccolma. Furono questi, in particolare, gli argomenti che Assunto iniziò a trattare dai primi Anni Settanta sulla rivista «Il Ponte»; corsivi sempre più critici ed estremamente ostili (che lui stesso, non a caso, denominò I veleni di un filosofo) nei confronti della civiltà tecnologica, del sociologismo di massa e dell’ipertrofia economico-edonistica. Non accettando il rischio di vedere sparire, nel generale dissesto delle armonie fondamentali del pensiero tradizionale, i paesaggi, le architetture, i giardini e le antiche urbanizzazioni del nostro paese egli, solitaire et solidaire, iniziò una personale ed ostinata battaglia civile che scatenò sul suo nome una serie di sospetti ideologici, causando per lui un progressivo isolamento ed un’emarginazione dai sistemi delle mode culturali. Ma era primaria in lui l’esigenza di comunicare comunque il proprio disagio soprattutto con l’obiettivo, non facile per quei tempi, di distinguere teoricamente la dignità ontologica del paesaggio dal facile ambientalismo estetico-radicale (che accettava la nozione utilitaristica e funzionale di quelli che venivano definiti semplicisticamente spazi verdi).

Esattamente questo fu uno dei temi trattati nel suo Libertà e fondazione estetica pubblicato nel 1975. Partendo dal presupposto schilleriano del Bello inteso come libertànel sensibile e da quello

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kantiano, che distingueva il Bello (libero dal determinismo della causalità naturale) dal Piacevole (sottoposto invece al determinismo dell’interesse) egli non poteva accettare l’inclusione del dato naturale, del paesaggio e del giardino all’interno di una categoria dell’utile16 (l’ecologismo di quegli anni sosteneva ingenuamente tale assioma).

Assunto uscì quindi definitivamente dalle comode couches culturali tentando una comunicazione diffusa e diretta con la cosiddetta coscienza civile.

Da questo momento in poi iniziò infatti una stretta collaborazione sulle pagine culturali di diversi giornali: «Il Tempo» (con la rubrica “I taccuini di un filosofo”) il Giornale, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Gazzetta di Parma e il Messaggero Veneto. Questi elzeviri gli fecero guadagnare la fama di acuto e graffiante polemista; ma il suo interesse per quelle che chiamava le ragioni del dialogo andava oltre la vis interna che lo animava. Nella raccolta critica della sua vasta produzione pubblicistica che sto accingendomi a pubblicare, accanto alle serrate difese dei parchi naturali, del paesaggio italiano o dei giardini artistici, si trovano infatti preziosi ritratti tracciati a memoria di amici e personaggi spesso dimenticati dalla cultura dominante, come Antonio Banfi, Nicola Ciarletta, Arturo Massolo, Carlo Antoni, Ruggero Jacobbi o Raffaello Franchini, e interventi sui maggiori dibattiti contemporanei.

8. Il paesaggio, i giardini e la perdita dell’esteticità

Il parterre e i ghiacciai, pubblicato nel 1984, fu in qualche modo la continuazione del fondamentale volume pubblicato circa dieci anni prima dal titolo: Il paesaggio e l’estetica. In questo vasto e complesso saggio venne affrontata in maniera completa ed organica (e per la prima volta in Italia) l’idea critica di paesaggio inteso come oggetto estetico.

L’intento era duplice: arrivare ad una definizione storico-morfologica delle caratteristiche esterne del paesaggio umanizzato giu16

dicato come identificazione di natura e cultura (sia come topos connesso ad una presenza nello spazio antropico delle civiltà urbane ed agricole sia come tempo particolare, slegato dalla temporalità storica) e formalizzare una teoria estetica del paesaggio attraverso le sue variabili interne. Oggetto di esperienza estetica quindi, ma anche soggetto metaspaziale di giudizio estetico, in cui il tempo come presenza assoluta si cristallizza nel suo intenzionale infinitizzarsi per l’uomo. Un grande ed ancora attualissimo testo in cui si configurava il risvolto drammatico della perdita di quella esteticità diffusa così necessaria per le armonie interne del fragile soggetto pensante. Strettamente connesse a questa teoria critica del paesaggio saranno, infine, le analisi che, negli Anni Ottanta, egli elaborerà sulla poetica e la storia dell’idea di giardino, inteso come mirabile hortus conclusus, luogo modellato da un gusto armonico ed equilibrato in cui contemplare la contiguità tra Grazia e Sublime sul ritmo di un tempo interiore (nel giardino, d’altronde, «l’interiorità si famondo ed il mondo si interiorizza»). Non a caso il tema del giardino «come parola e come tempo» fu uno dei preferiti nei suoi ultimi anni (Filosofia del giardino e filosofia nel giardino del 1980, Ontologia e teleologia del giardino del 1988 – La Natura, le arti, la storia: esercizi di Estetica del 1990 fino a Giardini e rimpatrio del 1991).

9. Società estetica e logica poetica –poesia come filosofia e fondazione del mondo

Anche in questo caso, come ai suoi esordi, la sua ostinata filosofia, scandita da un particolare sentimento del mondo, si focalizzava su un concetto di Bellezza continuamente innervato nella Realtà, secondo l’ipotesi prospettica, per lui essenziale, di una società estetica e di una sorta di cultura dell’incanto, mutuata soprattutto dalla logica poetica di Hölderlin17.

Fu pressappoco nel 1958 che Assunto ricevette uno straordinario viatico alla poesia di Hölderlin da parte di Giorgio Vigolo, traduttore delle Elegie e degli Inni; e da questo incontro ideale, tramutato

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presto in intensa amicizia personale, iniziò a maturare in lui l’adesione a quella profonda Dichtunglehre. La teoria della poesia come filosofia rappresentò, da quel momento in poi, uno dei temi fondanti del suo pensiero; ed alla logica poetica, a cui dedicò una lunga serie di saggi, egli affidò proprio il compito di superare quel nodo cruciale che sembrava aver bloccato la migliore cultura italiana nel primo trentennio del secolo: tra lacrociana teoria dei distinti e la gentiliana inattualità del momento poetico (superato dal momento filosofico, all’interno del quale esso rinasce per tornare a morirvi). Hölderlin è infatti portatore, secondo Assunto, di un nuovo messaggio della Poetica intesa come fondazione del mondo nella parola e come diretta manifestazione dell’Essere.

La presenza attiva di Hölderlin nella cultura della seconda metà del novecento non era peraltro un fatto nuovo: basti pensare alla famosa interpretazione heideggeriana che, nel 1936, riproponeva l’attualità interiore del discorso poetico come discorso filosofico, inteso però nella sua essenziale non verificabilità. Scopo di questo pensiero, secondo Assunto, è soprattutto quello di fondare un linguaggio logico che dia spazio alle ragioni dell’anima, intesa quasi come una sovra-categoria.

Al poetico infatti sono affidati i massimi valori dello spirito, secondo un sostanziale ripensamento dei temi affrontati da Kant nella Critica del Giudizio; della quale l’opera poetica di Hölderlin, come si sa, costituisce una specie di prosecuzione. Il giudizio riflettente kantiano (insieme soggettivo ed oggettivo) proprio in quanto estetico-teleologico, spinge ben al di là del giudizio determinante. La conclusione che Kant non formulò sembra proprio quella di Hölderlin: per lui infatti, come affermava Giorgio Vigolo, il reale è poetico (e non razionale come affermava Hegel) e quindi solo dalla poesia riceve il suo essere, poiché la via verso l’esserescorre solo nel flusso della poesia. Il rapporto di Assunto con la poesia fu totalizzante, ed in tutta la sua lunga esperienza filosofica, che appare

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così legata alle proprie vicissitudini esistenziali, la poesia e la Dichtunlehre rappresentano una specie di filo rosso che traversa la sua vita da capo a capo. Probabilmente furono due le ispirazioni che motivarono la sua scelta di approfondire teoreticamente, già dai primi Anni Sessanta, l’idea del paesaggio e, conseguentemente, quella del giardino: la prima, strettamente filosofica, nasceva dalla sua consuetudine con il pensiero di Leibniz (attraverso l’approfondimento, a livello teorico, dei concetti di Grazia e di Sublime). La seconda, che potremmo definire letteraria-poetico-filosofica, traeva spunto sia dall’Hölderlin del 1796 (in piena sintonia schilleriana) che dalle suggestioni letterarie di alcune sue letture; penso soprattutto a Rousseau e a Salomon Gessner.

Assunto, come si è capito, amava molto la poesia intendendola come una specie di categoria dell’anima. Le meditate lettura di Leopardi, Hölderlin o di Rilke, ad esempio, non lo abbandonarono mai; e fino agli ultimi mesi della sua vita non perse l’abitudine di citare a memoria le Elegie duinesi, anche nei momenti in cui sentiva più forte la certezza di una progressiva disfatta delle ragioni di un mondo in cui non poteva più risolversi.

10. Il concetto di bellezza come lascito intellettuale

Il percorso di Assunto, dunque, iniziato nell’immediato dopoguerra con l’intento, in qualche modo felice ed utopico, di modellare l’idea visibile di una Natura oggettivata partendo dall’immanente fondazione estetica dell’esperienza umana, arriva, criticamente, all’ultimo passaggio (ovvero alla consapevolezza dell’ontologia del paesaggio ed al concetto di giardino come armonia e Bellezza assoluta) capovolgendo la sua prima asserzione programmatica; in esso si recupera infatti l’aspetto tolemaico di un uomo che, immedesimandosi con una Natura contemplabile esteticamente e sguarnita dal condizionante meccanicismo, si sente centro e scopo, libero ormai dalla sua straniante condizione copernicana. Era quasi im-

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possibile, in quegli anni interessati in gran parte ai meccanismi funzionali e strettamente linguistici della semiotica, seguire ed ammettere una tale inversione di rotta, giudicata “scandalosa” in quanto iper-estetica e iper-valoriale.

Ma in questo ultimo passaggio di secolo sono avvenute, fortunatamente, trasformazioni che hanno consentito, nel rapporto uomonatura, l’emergere di antichi livelli di consapevolezza. Credo quindi sia importante considerare nuovamente quell’ ostinata filosofia di Assunto, rileggendone, come un lascito intellettuale per il futuro, il senso e la motivazione interna: perché si è iniziato finalmente a ristabilire un approccio dolce e qualitativo con gli elementi naturali, facendo trasparire i valori contemplativi, emotivi e simbolici del giardino e del paesaggio. Si sono creati importanti strumenti giuridici di tutela e di controllo grazie ad una maggiore e diffusa sensibilità che ha creato un’aggiornata idea di paesaggio sostenibile, intesocome realtà vitale tra esigenze pratiche ed estetiche e si è, contemporaneamente, incoraggiata l’istituzione di corsi universitari specialistici finalizzati attivamente alla critica e all’architettura del paesaggio. Infine, nel tentativo di riscoprire i valori sociali di un tale rigenerante appello alla Bellezza, sono già nate piccole comunità che desiderano crescere e lavorare eticamente nella storia e nel tempodelproprio paesaggio, intendendolo semplicemente come locus infinito dell’essere18.

Tutti temi, questi ultimi, ben presenti nell’ultimo pensiero di Assunto; ai suoi giorni testimone solitario e inascoltato ed oggi, probabilmente, memoria di un’interpretazione estetica del mondo e chiave per la riappropriazione di un’antica e sempre suggestiva metafora.

Note

1 Nella motivazione del premio veniva soprattutto riconosciuta la lunga battaglia di Assunto, ostinatamente rivolta alla difesa e all’affermazione dei valori insostituibili racchiusi nell’idea di giardino. Attraverso il suo contributo di assoluta originalità «Rosario Assunto si è costituito come il pensatore che, in questo secolo e non solo

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in Italia, ha posto ed articolato in maniera sistematica il problema della specificità dei valori costitutivi del paesaggio, fino a rendere chiare le ragioni del moderno culto del giardino».

2 Nel numero 5-6 della rivista, accanto al saggio di Assunto (La comunicazione estetica) appaiono anche quelli di Fernanda Pivano, di Glauco Cambon, di Elio Vittorini e di Alfredo Rinaldi tutti dedicati alla letteratura, alla lirica ed al teatro americano. Seguirà, subito dopo, il numero speciale sulla cultura spagnola contemporanea con saggi di Tentori, di Bo e di Anceschi.

3 Pantaleo Carabellese, con il suo idealismo ontologico, si poneva su un terreno filosofico che, in maniera del tutto originale, rivedeva le consolidate categorie di oggettività e di soggettività in nome soprattutto della concretezza della coscienza. Restò in Assunto, suo assistente alla Cattedra di Filosofia Teoretica, la serissima impronta filologica insieme ad un interesse per l’esperienza sensibile aperta, sulla via husserliana dell’estetica trascendentale, al molteplice ed alla intersoggettività.

4 La citazione è contenuta alle pagine 168 e 169 del capitolo Filosofia, arte e condizione umana in Forma e destino, Milano, Edizioni di Comunità,1957.

5 Oltre al saggio sull’Introduzione alla Critica del Giudizio, il volume Teoremi e problemi di estetica contemporanea, (Milano, Feltrinelli,1960) contiene un capitolo dedicato a Nicolai Hartmann su appunti del Carabellese e tre studi dedicati a Susanne Langer, all’interpretazione hölderliana di Vigolo ed all’estetica trascendentale di Weischedel.

6 BRUNO LIEBRUCKS, autore di Erkenntis und Dialektik”(1972) insegnò fino al 1968 alla Goethe Universitat di Francoforte insieme a Wilhelm Weischedel. Tatarkiewiczs pubblicò nel 1968 L’Estetica romantica del 1600.

7 Nella sterminata biblioteca di Macrì, donata al Gabinetto Viesseux di Firenze, esistono moltissimi autografi di Assunto insieme a numerosi suoi libri donati all’amico con singolarissime dediche. Anche Jacobbi, Giorgio Pasquali e Leone Traverso insieme a Carlo Bo, preside della Facoltà di Magistero di Urbino, contribuirono senz’altro ad approfondire le già raffinate conoscenze letterarie di Assunto, soprattutto per quanto riguarda la letteratura romantica tedesca e francese.

8 Un’ampia trattazione della voluttà dei sensi che si spiritualizza in quanto contenuta nel piacere estetico si trova nel suo saggio Furoriromanticiingiardinirococò(rilievi sul gusto del Settecento, tra Rousseau e i due Schlegel),in «Trimestre», anno VI, numeri 1-2 marzo-giugno 1972, pp. 3-19.

9 EDGAR DE BRUYNE, Études d’estétique mediévale, Bruge, Du Tempel, 1946.

10 BASILIODI CESAREA, Sulla Genesi (Omelie sull’Esamerone) a cura di Mario Naldini, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori,1990.

11Per Assunto la struttura polisemica medievale consente un’ampia convergenza tra verità morale, religiosa ed estetica che «ci autorizza pertanto a trasformare in quella di civiltà estetica l’abituale definizione della civiltà medioevale come civiltà religiosa», vedi ROSARIO ASSUNTO, Premessa alla civiltà medievale considerata come civiltà estetica, Todi, 1973.

12 ROSARIO ASSUNTO, Furori romantici in giardini rococò, op. cit., p. 17.

13 Assunto insiste spesso sulle convergenze estetiche e sulla mobilità di concetti da non

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assumere come schemi. «Neoclassicismo, Razionalismo estetico, Romanticismo non sono però etichette da archivio. Nella loro storicità furono concetti programmatici e predicati di giudizio assai flessibili e mobili, che non di rado erano comuni a teorici e critici militanti, se così è lecito dire, in schieramenti ed opposti», in Verità e Bellezza nelle estetiche dell’Italia neoclassica e primoromantica, Roma, Edizioni Quasar, 1984, p. 374.

14 ROSARIO ASSUNTO, Antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo europeo Milano, Mursia, 1973, p. 42.

15 Assunto amava la polarità dei contrasti: la Nuova Atlantide di Leibniz poteva essere letta come un’anticipazione del Brave NewWorld di Huxley e la Dialettica dell’Illuminismo di Horkeimer e Adorno come una denuncia «del contraddittorio potere baconiano sulla natura attraverso la prassi» (ROSARIO ASSUNTO, Città e natura nel pensiero estetico del Seicento, pp. 51-69 in Immagini del Barocco. Berninie la cultura del Seicento, in Biblioteca Internazionale di cultura, n. 6, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Firenze, 1982).

16 Vi è, secondo Assunto, una notevole differenza tra il paesaggio inteso come oggetto estetico ed il paesaggio inteso come oggetto di immediata consumazione, seppure incentrata sul godimento come sospensione individuale e privata del sentimento vitale. Su questo tema vedi Il Paesaggio e l’estetica, Palermo, Novecento, seconda edizione 2005, pp. 128-136

17 Il saggio Hölderlinnell’interpretazionediVigoloelapoesiacomefilosofia, contenuto in Teoremi e problemi di esteticacontemporanea (op. cit. nota 5) tratta, con molta attenzione, la genesi del pensiero poetico di Hölderlin nel suo rapporto con Fichte.

18 Accanto a comunità storiche come quelle Arborestre del Vulture e della Valle del Sarmento, nate da antichi insediamenti albanesi, si stanno sperimentando nuovi progetti di rigenerazione urbana: il Laboratorio per il Paesaggio urbano e la Mobilità del Dipartimento di Architettura e Urbanistica di Catania ha recentemente presentato un rapporto sulle comunità giovanili che stanno aggregandosi, sviluppando una concezione olistica del paesaggio in nome di una nuova coscienza del luogo. Alberto Magnaghi inoltre, sulla base dei documenti prodotti dalla Convenzione Europea del Paesaggio svoltasi a Firenze nel 2000, ha in corso un’ampia sintesi che analizza i molteplici progetti pilota di governance del paesaggio, di sviluppo rurale a valenza paesaggistica e di piani paesaggistici partecipati a livelli regionali.

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BIBLIOGRAFIA DI ROSARIO ASSUNTO (in ordine cronologico)

Forma e destino, Milano, edizioni di Comunità, 1957; seconda edizione, Fondazione Piazzolla, Roma, 1994 (prefazione di Ornella Sobrero con un ricordo di Vittorio Stella)

L’integrazione estetica, Milano, edizioni di Comunità,1959

Soggettività e pluralità, Milano, edizioni di Comunità, 1959

Teoremi e problemi di estetica contemporanea (con una presenza kantiana), Milano, Feltrinelli, 1960

La critica d’Arte nel pensiero medievale, Milano, Il Saggiatore, 1961

Estetica dell’identità – letturadella“Filosofiadell’arte” diSchelling, Urbino, S.T.E.U, 1962

Giudizio estetico critica e censura, Firenze, La Nuova Italia, 1963

I. Kant, Prolegomeni ad una futura metafisica che si presenterà come scienza (edizione a cura di Rosario Assunto) Bari, Laterza, Piccola BibliotecaFilosofica, 1967

Stagionieragioninell’esteticadelSettecento, Milano, Mursia,1967; trad. spagnola, Madrid,1968

L’Automobile di Mallarmé e altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti, Roma, Edizioni dell’Ateneo,1968

L’estetica di Immanuel Kant, Torino, Loescher, 1971; ristampa

1987

Il Paesaggio e l’Estetica, Napoli, Giannini, 1973; ed. rumena, Bucarest 1986; seconda edizione Palermo, Novecento, 1994

L’Antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo europeo, Milano, Mursia, 1973; seconda edizione Milano, Medusa edizioni, 2006

Die Theorie des Schonen im Mittelalter (La teoria del bello nel Medioevo), Koln, DuMont, 1963; seconda edizione 1981; trad. serba, Belgrado,1975

Libertà e fondazione estetica, Roma, Bulzoni, 1975

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Ipotesi e postille sull’estetica medievale con alcuni rilievi su Dante teorizzatore dellapoesia, Milano, Marzorati,1975

Theorie der literatur bei Schriftstellern des 20. Jahrunderts (teoria della letteratura negli scrittori del XX secolo, Reinbek, Rowohlt Verlag, 1975

Intervengono i personaggi (col permesso degli autori), Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977

Specchio vivente del mondo (artisti stranieri in Roma 1600-1900), Roma,De Luca, 1978

Imanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (edizione a cura di Rosario Assunto), Bari, Laterza, 1980

Filosofia del giardino e filosofia nel giardino, Roma, Bulzoni, 1981

Infinita contemplazione. Gusto e filosofia dell’Europa barocca, Napoli, Società Editrice Napoletana; edizione rumena (Universul ca spectaculj), Bucarest,1983

La città di Anfione e la città di Prometeo, Milano, Jaca Book,1983

Verità e Bellezza nelle estetiche e nelle poetiche dell’Italia neoclassica e primoromantica, Roma,Quasar,1984

Il Parterre e i Ghiacciai – tre saggi di estetica sul paesaggio del Settecento, Palermo, Novecento, 1984

La parola anteriore come parola ulteriore, Bologna, Il Mulino, 1984

Ontologia e Teleologia del Giardino, Milano, Guerini e Associati, 1988; seconda edizione Milano, Guerini,1994

Leopardi e la Nuova Atlantide, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988

La Natura, le Arti, la Storia. Esercizi di Estetica, Milano, Guerini, 1990

Giardini e Rimpatrio, Roma, Newton Compton,1991

L’assoluto come Bellezza, La Bellezza come assoluto, Palermo, No-

vecento,1993

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PRINCIPALI SAGGI E ARTICOLI DI ROSARIO ASSUNTO

Un Maestro (a proposito di Pantaleo Carabellese), L’Italia socialista, VI/236, 7 ottobre 1948

Ontologia e fondazione dell’uomo nel pensiero di P. Carabellese, «Giornale Critico della Filosofia italiana»,1949, fasc.1

L’estetica dei mezzi espressivi, Nuova Antologia, febbraio 1951

Immanuel Kant, Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, con revisione di Rosario Assunto e Rolf Hoehenemser, Bari,1953

L’autonomia dell’arte, condizione di civiltà, «Il Giornale», 20 novembre 1953

Filosoficità o autonomia?, in Aa. Vv., Filosofia dell’arte, a cura di Enrico Castelli, Roma-Milano, Bocca, 1953

La comunicazione estetica, Caltanissetta, Galleria IV, Sciascia ed., 1954-55 pp. 360-370

Il paradosso di Carabellese, «Rassegna di Filosofia»,1953, pp. 6369

Filosofia dell’arte e filosofia della relazione, «Aut-Aut», 1955, p. 30

Ideologia e politica, in AA. VV., Laicismo e non laicismo, Milano, Edizioni di Comunità,1955

Presenza e rappresentazione. Postille a un paragrafo kantiano, In in AA. VV., Scritti di storia dell’arte in onore di Lionello Venturi, Roma, De Luca, 1956

Introduzione all’estetica di Whitehead, Caltanissetta, Galleria VIII, Sciascia ed. 1959, pp. 166-173

Tempo e qualità in Carabellese e Whitehead, in Giornale di studi carabellesiani. Atti del Convegno tenuto presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Bologna nell’ottobre del 1960, Milano, Sila, pp. 335-345

Estetica dell’identità, Caltanissetta, Galleria XIII, Sciascia ed., 1963, pp. 333-335

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Filosofia e arte in Schelling, in Hegel e dopo, «Il Cannocchiale», 3/4, 1965

La revisione critica del pensiero crociano e il problema della categoria estetica, in A A . V V., Interpretazioni crociane, Bari, Adriatica,1965

Le relazioni tra arte e filosofia nella “Philosophie der Kunst” di Schelling e nelle “Vorlesungen über die Aesthetik” di Hegel, in Hegel-Jabrbuch, 1965

Croce e non crociano. La scoperta della vitalità, «La Fiera Letteraria, Numero speciale dedicato a Benedetto Croce», 21 aprile 1966

Dante, Giotto e l’arte figurativa nel pensiero medioevale, «Il Veltro», 6, 1967

L’antecedenza della poesia, Caltanissetta, Galleria XVII, Sciascia ed.,1968, pp. 200-211

Un filosofo nelle capitali d’Europa. La filosofia di Leibniz tra Barocco e Rococò, in «Storia dell’Arte», 3,1969

Hegel nostro contemporaneo, saggi di Rosario Assunto, Raffaello Franchini, Mario Pan, Roma, Quaderno n.14 dell’UIPC, 1971

Furori romantici in giardini rococò, Pescara,«Trimestre», anno VI, n. 1-2 marzo-giugno 1972

La trascendenza assoluta come immanenza assoluta, «Conoscenza religiosa», luglio-settembre 1973

F. Schlegel, Storia della letteratura antica e moderna, Torino, Paravia,1974 (edizione a cura di Rosario Assunto)

Appunti per un recupero schellinghiano: arte e filosofia come unità del Logos, «Giornale di metafisica», 29, 1974

Natura-arte-mito. Alcune postille schellinghiane, «Archivio di Filosofia», 1, 1976

Paesaggio, ambiente, territorio: un tentativo di precisazione concettuale, Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, XVIII, 1976

L’uomo, l’ambiente e il paesaggio, «Il Tempo», Roma 14 settembre 1976

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Appunti per una lettura di Dante come esercizio di pensare “nella poesia”, «Realtà del Mezzogiorno», Roma, XVI/1-2 gennaio-febbraio 1976, pp. 55-63

Rendiconto di un lettore. Invito alla lettura, prefazione a Luciano Cammarano, Dopo le ideologie, Roma, Bulzoni, 1977, pp. V-XV

I Giardini (immagini romantiche dell’Europa), «L’Europa», NS, XII/4 settembre 1978, pp.119-126

Una nuova lettura, «L’Opinione. Numero speciale dedicato a Benedetto Croce», 25 ottobre 1977: anche in volume di AA. VV., Benedetto Croce, una verifica, L’Opinione, 1978

Benedetto Croce e la critica letteraria, Atti del Convegno Nazionale crociano, «Oggi e Domani», VI/1-2 gennaio-febbraio 1978, pp. 16 e 24-25

Estetica e Metafisica del tempo nella filosofia di Carabellese, in AA. V V ., Pantaleo Carabellese, Il tarlo del filosofare, Bari, Dedalo, 1979, pp. 117-142

Filosofia, musica, arti, studi e testimonianze sull’opera di Alfredo Parente, Napoli, Arte Tipografica, 1979, pp. 217-220: Sul pensiero, l’arte e la vita (rileggendo “Dialettica delle passioni e suo superamento nell’arte”)

Il potere e l’arte, Oggi e Domani, VII/1-2, 1979, pp.7-8

Servitù di Narciso e di don Giovanni, «Oggi e Domani», VII/12, 1979, pp. 13-14

Le Montagne (Immagini romantiche dell’Europa), «L’Europa», NS XIII/9, maggio 1979, pp. 114-122

Facciamo il punto sull’estetica, «Nostro Tempo», Napoli, XIX/13, 1980, pp. 10-11

Natura e arte nel paesaggio dannunziano, in«Oggi e Domani. Atti del Convegno nazionale dannunziano», Pescara, 29-30 novembre 1980

L’idea assoluta come realtà assoluta, «Oggi e Domani», VIII, 1980, pp. 7-8

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Figure e paesi, «Oggi e Domani», VIII/1980, pp.11-12

Le due città, «Rivista di Estetica», 4, 1980

Natura, arte e mito, «Flash Art», 4, 1980

Saggio introduttivo a Ville e Giardini di Roma nelle incisioni di Giovanni Battista Falda, Milano, Il Polifilo, 1980

Dante, i Nazareni e l’estetica protoromantica, in AA. VV., Dante e l’arte romantica, Milano, Rizzoli, 1981 (poi in Giardini e Rimpatrio, Roma, Newton & Compton, 1991, pp. 38-90

Il problema estetico del giardinaggio. Il giardino come filosofia, in Il giardino storico italiano. Problemi di indagine. Fonti letterarie e storiche, a cura di Giovanna Ragionieri, Firenze, Olschki,1981 (il saggio appare, con lievi modifiche, in Filosofia del giardino e filosofia nelgiardino, Roma, Bulzoni, pp. 14-32)

Per un’ontologia del giardino, «Città e Società», 1, 1981, (poi, con lievi modifiche, in Ontologia e teleologia del giardino, Milano, Guerini, 1988, pp. 19-29)

Città e naturanelpensieroesteticodelSeicento, in Aa. Vv., Immagini del Barocco. Bernini e la cultura del Seicento, a cura di Marcello Fagiolo e Gianfranco Spagnesi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982

Contro la massificazione dei giardini, «Città e Società», 3, 1982 (poi in Ontologia e teleologia del giardino, op. cit., pp. 29-38, nonché in Aa.Vv., Tutela dei giardini storici. Bilanci e prospettive, a cura di Vincenzo Cazzato, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1989)

Igiardinidellaparolaelaparoladeigiardini, «Artibus et Historiis», 5, 1982

Parchi e giardini dal principe al popolo, «Città e Società», 3, 1982

Stendhal a Roma, i Nazareni e la filosofia tedesca, in AA. VV., Arte e letteratura per Giovanni Fallani, Napoli, De Dominiciis, 1982 (poi in Giardini e rimpatrio, Roma. Newton Compton, 1991, pp. 38-90)

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Teoriedelgiardinaggionell’esteticaromantica, in Aa. Vv., Giuseppe Jappelli e il suo tempo, I, a cura di Giuliana Mazzi, Padova, Liviana, 1982

La studentessa e i satelliti, «Oggi e Domani», X/10-11, 1982, pp. 12-13

La revisione critica del pensiero crociano e il problema della categoria estetica, in AA. VV., Interpretazioni crociane, Bari, Laterza, 1983

Memoria come specchio, «Oggi e Domani», XI/1-2, 1983, pp.13-14

Il mito e un telegramma, «Oggi e Domani», XI/10,1983, pp.9-10

Per lo studio della filosofia italiana, in Aa. Vv., Sviluppifilosofici nella più recente “scuola” crociana, Fasano, Schena collana “Il tempo e le idee”, 1983, p.7

Prometeo contro la primavera, «Oggi e Domani», XII/3, 1984, pp.

7-8

L’apparenza non inganna, «Oggi e Domani», XII/8-9, 1984, pp. 56

Lo sviluppo e il silenzio, «Oggi e Domani«, XII/12, 1984, pp. 9-10

La bellezza inconsumabile, «Oggi e Domani», XIII/3, 1985, pp.11-12

I fiori che non svaniscono, «Oggi e Domani», XIII/10, 1985, pp. 7-8

Winckelmann e Villa Albani. Il giardino, luogo del rimpatrio, in Aa. Vv., Note sulla Villa Albani Torlonia, Roma, Multigrafica, 1985 (poi in Giardini e rimpatrio, op. cit., pp.13-37)

Castellani, il paesaggio e la grafica come poesia, in Omaggio a Leonardo Castellani. Notizie da Palazzo Albani. Università degli Studi di Urbino, XIV/2, 1985, pp. 77-84

La gran saliera e la “pin up girl”, «Oggi e Domani», XIV, 10, 1986, pp. 5-7

Fuga dal giardino e ritrovamento del giardino (con alcune variazioni intorno ai consiglidel serpente), in Aa.Vv., Il giardino. Idea, natura, realtà, a cura di Alessandro Tagliolini e Massimo Venturi

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Ferriolo, Milano, Guerini, 1987 (rielaborato in Ontologia e teleologia del giardino, op. cit., pp.143-169)

Il giardino come filosofia della natura e della storia, in Aa.Vv., Il giardinocomelabirintodellastoria, Palermo, Centro Studi di Storia e Arte dei Giardini, 1987

Preparativi per un itinerario nella dolcezza, in AA. VV., Il giardino veneto dall’alto Medioevo al Novecento, a cura di Margherita Azzi Visentini, Milano, Electa, 1988

Il sole artificiale, «Oggi e Domani», XVI/3, 1988, pp.11-12

Kock e la “Commedia”come approdo alla vita, «Oggi e Domani», XVI/11, 1988, pp.10-12

Meditazioni sui giardini e il Parco, in A A . V V.,Il Parco Reale di Monza, a cura di F. De Giacomi, Milano, Associazione Pro Monza, 1989

Le lettere di Scaravelli a un amico fiorentino, Napoli, Guida, 1989

Il giardinaggio come operazione filosofica, in AA. VV., Paradisi ritrovati. Esperienze e proposte per il governo del paesaggio e del giardino, a cura di M. Cunico e D. Luciani, Fondazione Benetton Treviso, Milano, Guerini, 1991

La nominazione e la riflessione, in AA. VV., Le grandi correnti dell’esteticanovecentesca, a cura di Grazia Marchiano, Milano, Guerini, 1991

I bronzi di Riace e il mio taccuino, «Oggi e Domani», IX/9, 1991, pp. 20-21

Messaggio inviato da Rosario Assunto (in occasione del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, edizione 1991), in «Bollettino della Fondazione Benetton», 2, 1992

Ritorno al giardino, in AA. VV., Pensare il giardino, a cura di Paola Capone, Paola Lanzara e Massimiliano Venturi Ferriolo, Milano, Guerini, 1992

Ipotesi per un estetismo speculativo, «Informazione filosofica», 17/18,1994

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La cultura dello spazio contro la cultura dell’albero, in Aa. Vv., Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Firenze, La Nuova Italia, 1994

L’arte di Guadagnolo, «Filosofia Oggi», XVII/3 luglio-settembre 1994, pp. 335-339

Geminae ortae. Un augurio a Giuseppe Brescia, prefazione al volume di Pietro Addante, La fucina del mondo, storicismo, epistemologia, ermeneutica, Fasano, Schena, 1994, p. 5, in parte già in Rassegna di cultura e vita scolastica, «Roma», XXXIII/12 (dicembre 1979), n. 9 e in AA. VV., Sviluppi filosofici nella più recente “scuola” crociana, Fasano, Schena, 1983

Palazzo Serra di Cassano, crocevia della cultura europea, «Informazione Filosofica», V/17-18 (febbraio-aprile 1994), pp. 6-9

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È ormai risaputo che la vera libertà consiste nel non avere paura. Tuttavia, risulta evidente che tutti noi siamo costantemente preda della paura. Quindi, tutti noi non siamo liberi. E lo sappiamo bene. La paura è una costante delle nostre vite. Fa talmente parte di noi stessi da risultare invisibile e perciò ignota.

Ma di che cosa abbiamo paura? Non è facile dirlo. Abbiamo soprattutto a che fare con le varie maschere della paura. Conosciamo solo la paura del momento. La paura contingente. E questo è quanto ci basta sapere. Non indaghiamo ulteriormente. Non ne abbiamo il tempo. O il coraggio.

Tuttavia, la paura ci fa capire che il nostro legame col mondo è duplice. La paura più superficiale e contingente fa emergere la nostra avversione per il mondo e le sue pretese su di noi. Mentre la paura più profonda e strutturale porta alla luce il nostro affetto o amore per il mondo, che si consolida in un’abitudine che vorremmo non finisse mai. Ma questa verità resta sempre in sottofondo.

Di che cosa abbiamo, dunque, paura? In ultima analisi, abbiamo paura di perdere noi stessi e il mondo di cui facciamo parte. Abbiamo paura di perdere il nostro legame sensibile e percettivo col mondo. Perché è dalla sensazione e dalla percezione che inizia il nostro rapporto col mondo. Nella sensazione il mondo ci appare. Nella percezione il mondo ci meraviglia. Nella meraviglia non vi è traccia di paura. Nella meraviglia anche il nostro io è in gioco e ci sorprende. Anche il nostro io nella meraviglia è parte del mondo e del suo stupore.

Ritrovare la meraviglia è sempre terapeutico. Per ritrovare la meraviglia occorre andare incontro al mondo. Letteralmente incontro al mondo. È necessario mettersi in cammino. Andare all’aperto.

FENOMENOLOGIA DELLA PAURA
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Guardare gli alberi e le nuvole. Patire il caldo o il freddo. Porsi in ascolto dei suoni lievi del mondo naturale. Il mondo artificiale, infatti, può rompere l’incanto. Dobbiamo filtrare. Filtrare l’ascolto, le sensazioni varie. Stare al di qua della stessa percezione.

Stare al di qua della percezione significa situarsi al di qua del tempo e dello spazio. Al di qua dello scorrere del tempo, in uno spazio astratto. I caratteri peculiari dello spazio, infatti, si dileguano. Un determinato spazio diventa lo spazio assoluto. Ciò significa avere la sensazione di un arrestarsi del movimento. Del movimento esterno a noi e del movimento interno a noi. Ci possiamo anche muovere – infatti andiamo incontro al mondo – ma stando fermi. Come bloccati in un movimento statico. Ma in realtà aperti al movimento statico. La meraviglia è il trionfo del movimento statico.

Tuttavia, tale stato di grazia è di breve durata. Non si lascia facilmente catturare. Si affaccia nella nostra vita per un istante. Lasciandoci una traccia sulla quale riflettere. Spesso inutilmente e senza frutto.

Si vorrebbe infatti catturare il segreto dell’essere come apparire. O dell’apparire dell’essere. Una contraddizione in termini. Un autentico ossimoro. L’essere si oppone all’apparenza rivelandosi nell’istante per poi scomparire come evento. Lasciando traccia nella memoria che si trova ad elaborare l’esperienza della meraviglia e della sua perdita.

La meraviglia, si è detto, è l’opposto della paura. Tuttavia, anche la morte, per chi abbia assistito al suo evento, può assumere i tratti della meraviglia, piuttosto che quelli della paura, dell’angoscia, del terrore. Anche la morte può presentare il volto della meraviglia. La meraviglia dello scomparire. Complementare alla meraviglia dell’apparire. Qualcosa appare e qualcosa scompare. E noi assistiamo all’evento del mondo che appare o scompare. Lo scomparire ha qualcosa dell’apparire. Ci fa credere che ciò che scompare dal qui e ora, possa apparire nel non-qui e non-ora. Allude all’altr-ove e all’altr-

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ora. Ne è l’epifania. Ma in quale dove e in quale quando?

Può sembrare una speranza. In realtà, se non cediamo alla tentazione della sovra-costruzione intellettuale, è piuttosto un’impressione. Una piacevole e dolce impressione. L’impressione di un passaggio. Dal qui e ora al non-qui e non-ora, all’altr-ove e all’altr-ora.

La fenomenologia della paura è l’altra faccia della fenomenologia della meraviglia. Nel mondo tutto ci dovrebbe meravigliare. Continuamente. Ma l’eccesso di pensiero inibisce la meraviglia. La paura è figlia del pensiero. Troverebbe in un supplemento di meraviglia un suo efficace deterrente. Ma la meraviglia è piuttosto l’altra faccia della paura. Paura e meraviglia sono infatti complementari. Se c’è l’una, non c’è l’altra. Ma l’una richiama l’altra. Sono le due facce della stessa medaglia. Le due facce dell’essere. O meglio dell’apparire dell’essere. Dell’essere come evento. Dunque, possiamo avere l’impressione felice del passaggio dal qui e ora al non-qui e non-ora, all’altr-ove e all’altr-ora. Inutile investigare ulteriormente. Elucubrare al di là dell’impressione che non può darci nulla di più rispetto a ciò che ci ha già dato. Nulla di più oltre la meraviglia. Nulla oltre la sensazione di vertigine. La vertigine del vuoto. Che nonostante la sua fisicità, possiede un indubbio fascino metafisico.

È difficile mantenere il rigore terminologico quando si cerca di fare chiarezza sui vari gradi dell’esperienza, distinguendo tra sensazione, percezione e impressione. In generale, la sensazione segna la nostra appartenenza all’essere; la percezione ci apre alla meraviglia del mondo; l’impressione conserva in noi la traccia del passaggio dall’altr-ove e dall’altr-ora al qui e ora o dal qui e ora all’altr-ove e all’altr-ora. Nell’impressione sopravvive il bagliore della manifestazione del mondo o dell’altro dal mondo.

Heidegger afferma che «L’abbandono dell’Esserci a se stesso si rivela originariamente e concretamente nell’angoscia»1. Tuttavia,

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nella meraviglia avviene un superamento dell’abbandono e dell’angoscia. La meraviglia si manifesta come un’apertura, una chiamata, una sorta di risveglio. Un risveglio dall’abbandono tematizzato da Heidegger.

L’“essere-nel-mondo” per Heidegger significa essere «già da sempre gettato in un mondo»2. Ma la meraviglia rompe con tale “gettatezza”, con l’abbandono nel mondo costitutivo dell’Esserci. La meraviglia apre l’Esserci, squarcia il velo di Maya che occulta l’apertura dalla quale proviene la luce dell’apparire, il bagliore della meraviglia.

Una meraviglia che resta muta. Che chiede solo di essere mantenuta viva, presente, nella rievocazione. Si tratta di un’epifania che non può essere seppellita nell’oblio. Tuttavia, oltre la luce non si può andare. Essa è intraducibile nel linguaggio del pensiero. Che può, fenomenologicamente, solo ripercorrere il cammino verso il luogo e il tempo della manifestazione.

Il mondo della gettatezza, l’intra-mondanità, ci situa in un rapporto con le cose del mondo che ci allontana da noi stessi, da ciò che percepiamo come essenziale di noi stessi, da ciò che ci costituisce come Esserci, ovvero come «un ente per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso»3. Nell’abbandono il senso dell’esistenza si occulta.

La meraviglia rende significativo il nostro rapporto con le cose del mondo. L’essere dell’Esserci riprende a significare. Le cose del mondo non appaiono più estranee. Perché nel loro essere ne va anche dell’essere dell’Esserci. L’essere delle cose appare come un tutt’uno con l’essere dell’Esserci. E le cose stesse non devono più essere interrogate, perché sono loro che interpellano noi. E ci chiedono semplicemente un “sì”. L’adesione alla co-appartenenza.

È questo il momento in cui massimamente scompare ogni traccia della paura. Il momento in cui tra noi e le cose si instaura un’autentica complicità. Il nostro essere è comune al loro essere e la

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stessa morte risulta inconcepibile. Inconcepibile non fattualmente, perché può colpire in qualsiasi momento il nostro Esserci, ma ontologicamente ed eticamente, perché siamo espressione di un essere comune agli altri enti, ovvero di una relazione dalla quale solo l’inconsapevolezza può escluderci.

NOTE

1 MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 240.

2 Ivi.

3 Ibidem, p. 239.

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L’AMORE, LA SORGENTE DELL’ESSERE UN’ANALISI SU AMORE E CONOSCENZA

E ORDO AMORIS DI MAX SCHELER

REBECCA TRABALZA

Max Scheler è considerato uno dei protagonisti dell’antropologia filosofica. Il suo intento nelle sue opere è quello di trovare un’antropologia del concreto svanita a causa del razionalismo moderno che ha diviso l’uomo nell’uomo delle passioni e dei sentimenti e nell’uomo dell’intelletto. Questo è il retaggio dell’illuminismo che liquida i sentimenti, che sono la sfera più profonda dell’Io. Per Immanuel Kant i sentimenti sono un limite all’agire umano. Salva solo il sentimento morale.

Il tema dell’antropologia filosofica è rilevante in Germania a causa della crisi dovuta alla II guerra mondiale. La tematica ontologica, attraverso l’antropologia filosofica viene alla luce. Il razionalismo è una riduzione dell’immagine dell’uomo poiché liquida la sfera emotiva umana che è il mezzo attraverso il quale avvengono le relazioni. Lo scopo di Scheler è quello di rettificare, ampliare e correggere la tradizione kantiana secondo cui ci sono valori universali. La prospettiva morale in Scheler viene esposta nell’opera Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Scheler crede che la morale di Kant sarebbe formale, ossia non fondata sui contenuti ma sulla forma differentemente dalla morale di Scheler che non prescinde dai contenuti. Ma una morale che si basa sui contenuti è relativa. Kant raggiunge l’universalità dell’etica solo a prezzo del formalismo. La forma è universale, il contenuto è particolare. Già

G.F.W Hegel aveva criticato Kant dichiarando che la sua etica non serviva a nulla. Nell’ambiente sociale si parla di eticità, non di moralità. In ogni ambiente ci sono leggi che prescindono dai compor-

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tamenti. Tuttavia, Hegel non considera che ci sono valori universali che prescindono dagli ambienti. L’etica di Scheler è un’etica materiale che si fonda sui contenuti ma che è anche universale.

La sfera affettiva intuisce i valori. C’è corrispondenza tra amore e conoscenza ma questa corrispondenza contraddice la mentalità borghese secondo la quale l’amore rende ciechi, non veggenti. Se si conosce, non si ama, se si ama, non si conosce, Pascal sostiene che l’amore e la ragione non sono che la stessa cosa. Solo nel corso dell’amore affiorano gli oggetti ai sensi e solo dopo la ragione giudica. Scheler non vuole enfatizzare le emozioni in senso soggettivo. Solo nell’amore e nella sfera affettiva si affermano oggetti che differentemente non sarebbero palesi all’esperienza. In un’esperienza Erlebnis affettiva la persona è un valore. L’esperienza morale è un’esperienza, non una dottrina. Percepiamo i valori attraverso un’esperienza che è morale. Pure Spinoza, razionalista, considera il più alto grado di conoscenza l’amor dei intellectualis. Scheler si chiede come mai il pensiero indiano e il pensiero greco, seppur diversi, convergano. L’amore non è autonomo ma è finalizzato al conoscere e quindi esso è dipendente dalla conoscenza. In Scheler c’è il superamento della categoria dell’Erlebnis (ognuno ha la propria conoscenza vissuta). Scheler valorizza Dilthey ma rende oggettiva l’Erlebnis che in Dilthey è racchiusa nella soggettività.

Per il pensiero indiano noi aderiamo al mondo, alla realtà attraverso un desiderio. Se si toglie l’emotività, l’interesse, il mondo diventa astratto, non reale. Il limite del pensiero indiano è che l’amore è finalizzato alla conoscenza. L’amore accompagna il processo di de realizzazione del mondo che è conoscere. Conoscere è conoscere che il mondo è illusorio. Il mondo è tanto più reale quanto più l’uomo è un essere desiderante. Tanto più si eliminano i desideri, tanto più il mondo si rivela illusorio. In Agostino l’amore è una realtà originaria; infatti lo stesso Dio ama. Scheler pone in contrasto Cristianesimo e Aristotelismo secondo cui Dio non può amare.

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L’amore non è più difettante ma è pienezza nel Cristianesimo. In Aristotele Dio non può ricambiare l’amore dell’uomo, è schiavo della propria perfezione. Anche in Plotino l’Uno non ama, è amato. Plotino chiama l’Uno Pater, un termine che indica affetto. La filosofia di Plotino è influenzata dal Cristianesimo. Sia nel pensiero indiano che nella filosofia greca la salvezza non è data da un atto di amore ma da un processo della conoscenza che è un’autoredenzione. La conoscenza è salvezza. Secondo la gnosi la salvezza è nel processo stesso della conoscenza. La filosofia è richiesta di approfondimento sull’immagine di Dio. Platone è influenzato da Pitagora il cui modello è fondato sulla metempsicosi secondo la quale l’anima per una colpa originaria si sarebbe imprigionata nel corpo e attraverso la filosofia si sarebbe redenta. Il filosofo si libera dalla schiavitù della caverna che è il corrispettivo del velo di Maya indiano. Anche per Platone il mondo fenomenico è illusorio. Il filosofo non è colui che possiede la sapienza ma è simile ad Eros che desidera. A Platone interessa il mondo ideale perché attraverso le Idee l’anima è riscattata. Si fa filosofia per la salvezza dell’anima. La conoscenza è elevazione dell’anima. Per la filosofia platonica diventare filosofo significa convertirsi. La differenza con il Cristianesimo è che la redenzione è opera di un atto gratuito del divino che entra nella storia non grazie alla gnosi che è rivolta ad una élite; inoltre per il Cristianesimo la salvezza è rivolta a tutti mentre per la filosofia la salvezza è per una élite di uomini.

L’amore rende reali gli enti individuali. Per la concezione buddista l’amore non è l’amore personale, non è l’amore per una persona singola ma è una sorta di amore cosmico. Anche se in questa opera non ne parla, il sentimento dell’amore per il buddismo si esprime attraverso la compassione, dove la compassione è verso le cose in forza della loro vanità e tutte le cose partecipano di questa vanità, di questa illusione e quindi il saggio stende un velo di compassione su tutte le cose esistenti. Ma è la compassione deriva dal fatto che

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le cose non hanno consistenza, che sono effimere e che sono illusorie per cui l’amore non riesce mai ad aderire alla realtà della persona perché un amore in senso positivo sarebbe un incremento dell’illusione, ossia ti attaccheresti a qualcosa che non è reale, continui a perseverare nell’illusione dell’esistenza di ciò che è; per cui la compassione buddista contrasta con l’amore in senso positivo perché la particolare concezione ontologica che il buddismo ha che blocca la percezione dell’amore in senso positivo. La compassione buddista implica la vanità del mondo, non la realtà. Implica l’idea che il mondo non sia sussistente, non abbia consistenza ontologica e che il mondo sia illusorio. Il saggio buddista guarda le cose con compassione nella loro evanescenza. Questa compassione si oppone all’amore in senso positivo, dove l’amore in senso positivo è l’amore che si rivolge verso le singole persone e i singoli enti. L’amore in senso positivo viene considerato dal buddismo come insano, non giusto perché mi trattiene nell’illusione del mondo.

Scheler scrive che l’amore in senso buddista non è esperienza vissuta che ha come punto di partenza e di arrivo reali persone. Nel buddismo non c’è amore per reali persone individuali. L’amore diventa una sorta di percezione della nullità della forma delle esistenze individuali personali. Questo perché il fondamento dell’individuazione nel buddismo non è la persona come soggettività spirituale. Nell’amore, in questa compassione cosmica, noi non percepiamo il valore dell’altro, il valore dell’Io, ma al contrario l’annullamento dell’Io e dell’altro. È un amore che dissolve ciò che è individuale. L’amore è finalizzato al superamento del principio individuationis. Quindi l’amore è funzionale alla perfetta conoscenza mediante la quale l’individuo si scioglie ed entra nel Nirvana. La vera morte è l’annullamento di tutto ciò che è compresa la nostra individualità. La morte fisica non è, in fondo, la vera morte. La redenzione di Buddha non è la redenzione del finito, ma la redenzione dal finito, la negazione della finitezza. La redenzione di Buddha è

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redenzione dalla vita presente, non della vita presente. L’Io si scioglie nella totalità intesa come nulla, ossia il Nirvana. Dunque, per non soffrire nel mondo bisogna dichiarare che il mondo è illusorio. In netto contrasto col tipo indo-buddista di determinazione della relazione tra conoscenza e amore, tra essere e valore, il tipo greco vede la conoscenza, come l’amore, apportata ad un essere positivo. Quindi abbiamo il tipo greco che si contrappone al tipo indiano. Il tipo indiano svolge una relazione negativa tra essere e valore, il tipo greco una relazione positiva. Scheler sta usando un metodo fondato sulla tipologia. In quegli anni, 1915-1920, lo studio per tipi era molto diffuso nella cultura tedesca. Colui che la consacra è il grande sociologo Max Weber. Alla concezione del tipo si collega una peculiare esperienza vissuta, l’ Erlebnis. L’esperienza vissuta si esprime in una tipologia, in una struttura ideale, il tipo è in qualche modo una struttura, ma dietro la struttura sta l’Erlebnis, l’esperienza vissuta che Dilthey aveva elevato a criterio fondamentale. Il tipo greco si oppone per la concezione positiva dell’essere. La filosofia greca inizia dalla percezione del cosmo come essere positivo. Scheler scrive che la conoscenza assoluta è la conoscenza dell’ontos on. Qui i valori positivi delle cose sono semplici funzioni della pienezza di essere in esso contenute, mentre i valori male, cattivo, brutto, nel massimo contrasto con il buddismo, sono ricondotte alla carenza di essere, al me on. Ossia, quei valori negativi che il buddismo eleva a criteri dell’essere, qui indicano un limite dell’essere, ma non diventano il contenuto dell’essere; infatti rappresentano soltanto il momento della sua carenza, che però non porta ad un giudizio negativo sull’ente o sull’essere nella sua totalità. Analogamente anche l’amore soggettivamente inteso è un primario rivolgersi ad un valore positivo, ossia ad una forma di essere e non un originario allontanarsene. L’amore in senso greco è adesione all’essere e non rifiuto. L’amore aderisce all’essere perché l’essere ha in sé attrattiva. L’essere attrae perché l’essere è positivo e ha in sé la capacità d’at-

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trarre ma non in senso illusorio ma in senso ontologico, reale, positivo. Platone scrive che l’essere supremo è Bene, è l’essere per eccellenza, è pienezza dell’essere. La suprema delle Idee è il Bene ma l’idea in Platone è l’essere nella sua perfezione. L’idea non è il valore in senso kantiano. Le idee sono l’essenza delle cose, la pienezza dell’essere. Che la suprema delle idee sia il Bene e che del Bene partecipino tutte le altre idee significa che l’essere è Bene contro ogni gnosi, contro ogni buddismo. La concezione greca parte dall’equazione essere è bene. Quindi l’amore corrisponde a questa positività dell’essere: il bene attrae perché il bene è bello. La famosa identità che Platone stabilisce tra bene e bello, kalokagathia, è ciò che spiega perché eros si dirige verso l’essere. L’essere aderisce al bene in quanto è bello. L’azione è etica e anche estetica. Gli antichi non vivono la dissociazione che noi abbiamo posto tra l’etica e l’estetica. Noi non riusciamo più a capire che il bene è bello. Nella concezione antica l’etica e l’estetica non sono separate. Se il bene non ha in sé il fascino del bello, il bene non ha la forza per essere seguito. Il bene vince sul male solo se ha una forza maggiore. Questo è quello che Kant non capisce più, ossia che l’etica ha a che fare con l’estetica poiché per Kant l’etica è una questione di norme. Sarà Schiller a rispondergli con Le lettere sull’educazione estetica dell’uomo e lo accuserà di essere il Dracone della Germania. Schiller capisce che il Bene deve essere bello e in questo ritorna alla concezione greca. Scheler scrive che amore è appropriazione dell’essere nella conoscenza. Quindi non liberazione dell’essere come presso per gli indiani, però inteso oggettivamente come nella dottrina empedoclea dell’amore e dell’odio. L’amore è principio di generazione. Platone scrive nel Simposio che l’amore è generare nel bello. L’amore non è soltanto un principio soggettivo per i greci ma è anche un principio cosmico. Nel Simposio e nel Fedro Platone intuisce a partire da questo concetto di generatività che attraverso l’amore l’uomo intuisce l’immortalità perché il generare in bello è la continuità di te.

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Nell’amore e nel generare, ciò che l’uomo intuisce è l’idea dell’immortalità sicché questa idea è legata all’amore del cosmo, all’amore che genera. In questo senso è un generare nel Bello. In seguito Scheler scrive che la concezione dell’amore greco conserva molte affinità con la concezione indiana sul piano del rapporto tra amore e conoscenza. Anche i greci riducono l’amore a funzione della conoscenza come il buddismo perché l’amore viene inteso in senso intellettualistico, dipendente unicamente dai progressi della conoscenza, come passaggio o movimento da una conoscenza più povera ad una più ricca. Scheler in questa riflessione evidenzia la concezione platonica dell’eros. La definizione che né i non sapienti né i perfettamente sapienti, per esempio gli dei, possono amare ma solo i filosofi, appunto gli amanti della sapienza, mostra come l’amore sia interamente riferito unicamente alla conoscenza. Anzi per Platone l’amore significa solo tendere ad una conoscenza, da una conoscenza imperfetta ad una perfetta. La concezione platonica dell’eros porta anch’essa a funzionalizzare l’amore alla conoscenza; infatti ama soltanto chi è filosofo, ossia ama chi non è perfettamente sapiente e desidera questa sapienza, di modo che gli dei, che sono perfettamente sapienti non amano, non hanno bisogno di amare. Scheler scrive che il filosofo è colui che ama mentre gli dei non possono amare. La divinità può essere soltanto oggetto di amore. Amore è figlio di povertà e al dio non manca nulla. Anche la definizione “tendenza”, Streben, contiene il nucleo della dottrina secondo cui l’amore tende alla conoscenza. Quando si ha conoscenza assoluta, l’amore svanisce. L’amore è a fondamento della tendenza. L’amore non tende verso l’oggetto ma si appaga dell’oggetto così come è. L’amore romantico odia la forma, che è una determinazione che impedisce la libertà. Platone anticipa l’amore romantico. L’amore diventa più intenso quando l’amato se ne allontana. Nella concezione platonica dell’androgino l’amore platonico è vicino all’amore romantico. Scheler accosta la concezione platonica del-

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l’amore alla concezione romantica dell’amore. In particolare Scheler scrive del mito dell’androgino narrato da Platone nel Simposio. Platone, in questa dottrina dell’amore e della conoscenza, anticipa soprattutto il grande movimento storico dell’amore romantico inteso come quel tipo anticlassico di amore in cui l’amore stesso non è dato primariamente come possesso dell’anima ma soltanto come nostalgia di qualcosa di lontano. Ancora una volta Scheler pone a confronto una tipologia. Egli sta mettendo alla prova una teoria dei tipi. In questo caso l’antitesi è tra tipo romantico e tipo classico. Il tipo classico dell’amore è quello in cui l’amore stesso è dato come possesso dell’anima. L’amore è presente, è dato, è un possesso. Mentre nel tipo romantico l’amore è nostalgia. Il termine tedesco per nostalgia è die Sehnsucht che è un tema tipicamente romantico. È nostalgia di qualcosa di lontano, di passato, di offuscato e sembra crescere proporzionalmente col progressivo allontanarsene. L’amore diventa tanto più intenso quanto più l’oggetto si fa lontano.

Quanto più l’oggetto non è alla tua portata, tanto più l’amore si fa impossibile: l’amore è tanto più struggente quanto impossibile. Quando vi è corrispondenza tra l’amante e l’amato, il fascino dell’amore è già consumato. Non c’è più il gusto di ottenere la cosa. Il seduttore, quando ha sedotto l’oggetto della seduzione, non ha più interesse. Voleva conquistare, non voleva amare, ma semplicemente il trionfo dell’amore, ovvero della sua potenza seduttrice. Quando l’oggetto dell’amore viene raggiunto, dal punto di vista romantico non ha più interesse e l’amore evapora come un sogno del passato. La concezione romantica non presuppone una relazione positiva tra l’amante e l’amato ma presuppone il fatto che l’amato è semplicemente l’occasione dell’amore. Il Romanticismo è Occasionalismo. Occasionalismo significa che non ti soffermi mai sulla realtà dell’altro, non hai interesse. Per questo Kierkegaard nella sua tesi sull’ironia dedicata a Socrate coglie perfettamente nel centro quando per interpretare il teme dell’ironia, distingue tra ironia classica e

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romantica e, per capire l’ironia romantica, si rifà a Solger ma dietro c’è Fichte, ossia l’Io non può mai riposare nel non-Io. La libertà non può essere determinata dal nulla e, quindi, chi ironizza, è colui che non è toccato dal mondo. L’ironista non può mai stabilire un rapporto positivo con la realtà, perché la sua libertà sarebbe altrimenti determinata, finita, ma l’infinito non può determinarsi con il finito. L’infinito non può mai determinarsi nella scelta. Ecco perché Kierkegaard attraverso il saggio sull’ironia, mette a fuoco l’estetica romantica. Lui capisce che l’estetica romantica è una concezione della vita, non è semplicemente una pratica casuale ed è per questo che contrappone l’estetica all’etica: è solo a partire dalla concezione romantica che si può capire perché Kierkegaard oppone l’estetico all’etico, perché l’estetico è l’idealista fichtiano che non può mai scegliere nulla, perché ha paura di contaminarsi con il mondo. Ciò che qualifica la dimensione estetica è che non avviene mai una scelta e quindi la dimensione etica non entra mai in gioco. Don Giovanni si mantiene in una sfera della possibilità, che è la sfera dell’astratto, in cui uno tra le infinite possibilità non si determina mai per una possibilità. Quindi il seduttore rimane perennemente infantile, perché la sua libertà non è entrata in gioco. Egli non entra mai nella sfera etica, ma la sfera etica è una sfera dell’uomo adulto. Invece il seduttore è l’eterno fanciullo che rifiuta la durezza del mondo, che rifiuta di conoscere e accettare il mondo.

Scheler scrive che Platone nella concezione mitica dell’amore tra uomo e donna l’amore è inteso come reciproca attrazione tra le due parti i un uomo ancora sessualmente indifferenziato. Ossia in Platone la convergenza tra amore romantico e l’amore platonico sta proprio nel mito dell’androgino riportato da Aristofane nel Simposio. Scheler scrive che Platone guarda in questa maniera abbastanza chiaramente all’India, cioè all’unità dell’indifferenziato. Il Nirvana dell’India è l’unità dell’indifferenziato. Tutto ciò che è differente è illusorio. Il Nirvana è l’unificazione dell’indifferenziato; infatti in

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Platone è presente soltanto una particolare forma del profondo errore metafisico degli Indiani secondo cui l’amore sarebbe conoscenza intuitiva dell’unità dell’essere, ovvero comprensione del carattere illusorio di separazione, individualità, molteplicità. L’amore sarebbe soltanto il movimento mediante cui le parti di un originario Uno-Tutto vengono a incontrarsi. Il mito dell’androgino, che ha esercitato un fascino particolare sul Romanticismo, porta ad una concezione analoga a quella buddista perché nel mito dell’androgino la differenza tra uomo e donna è illusoria. La differenza è illusoria, ciò che è sostanziale, ciò che è originario e quindi vero è l’unità delle due parti che sono state separate per una colpa. Quindi l’amore è ricostituzione dell’intero. Amore non è legame di due che si incontrano nella unità che mantiene la differenza ma amore è togliere la differenza. Una unità così sostanziale che prevede l’eliminazione dell’ulteriore differenza che viene a crearsi nella coppia degli amanti e che è la differenza generata dalla procreazione. L’androgino non procrea, non genera. L’androgino è nella sua beata assolutezza, non ha bisogno di nulla. Quindi anche la differenza che nasce dalla generazione del figlio viene con ciò eliminata nella figura dell’androgino.

Scheler scrive che ogni panteismo da Spinoza, a Hegel, a Schopenhauer ha accolto in sé questo principio sbagliato alla radice. Il panteismo parte dall’idea che la diversità, la molteplicità è illusoria. Tutte le forme di panteismo dicono che c’è un principio unico nella natura, nel mondo, nel cosmo e i fenomeni non sono altro che manifestazioni transeunti, non consistenti. Di questo principio Schopenhauer dice che esiste la volontà, poi i singoli fenomeni sono semplicemente manifestazioni illusorie di questa volontà. Ogni panteismo riduce il Tutto all’unità del principio: per Spinoza esiste un’unica sostanza e gli individui sono solo i modi apparenti della sostanza. Il panteismo ha la sua formula nel detto greco en kai pan.

Eppure, Scheler aggiunge in base a questo schema l’amore viene

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ricondotto all’egoismo. Cioè questo schema è lo schema di ogni falsa mistica che porta a sacrificare l’individuo in nome della totalità e dell’Uno-Tutto che non è reale ma è Uno-Tutto panteista che chiede il sacrificio della tua individualità e lo chiede illudendoti che la tua persona sia illusoria e che tu devi dissolverti nella totalità. Tu da solo non hai alcun valore ma solo se ti immergi nella totalità, esisti. È una religione laica, è una mistica del panteismo. E l’amore qui viene funzionalizzato a questa mistica. L’amore diventa la passione in cui ti immoli in questa totalità. È una deformazione dell’amore. Qui, l’amore è illusorio. L’unico amore è quello del Tutto che vuole ritornare ad essere Uno e dell’Uno che vuole essere Tutto, dove gli amori particolari sono indirizzati a questo egoismo dell’Uno-Tutto che è l’unico che ha il diritto di amare. L’amore di individui meramente apparenti è anch’esso apparente. Qui l’amore viene degradato ad apparenza perché io in realtà non amo te, ma amo l’unico da cui sono stato separato. Io amo me stesso amando te, perché se il mito è quello dell’androgino, io amando te, amo me stesso. Voglio ricostituire l’unità originaria. Tu non sei reale, tu sei solo l’occasione per cui io mi ricostituisco nell’unità originaria. Non esiste un amore dell’altro ma mediante l’altro io amo me: amo l’essere originario di cui io sono parte. Quindi questa concezione panteistica dell’amore degrada l’amore a pura apparenza. Anche la concezione dell’amore sessuale tra un uomo e una donna riceve un carattere romantico con l’accettazione platonica del mito. La separazione dei sessi non è qui condizione fondamentale, radice di una particolare specie di amore ma la tendenza ad un puro ritorno a quell’unico uomo ancora non differenziato sessualmente le cui parti ora si cercano. Anche nella relazione sessuale in realtà non è un rapporto tra due persone ma è la ricostituzione dell’unico essere originario, dell’indifferenziato. Eros è la ricostituzione dell’indifferenziato. Eros quindi non può prevedere la procreazione perché la procreazione vorrebbe dire aumentare la differenza. Scheler ag-

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giunge che anche la concezione sessuale ha una coloritura mistica romantica in sé della semplice nostalgia di un antico stadio, lo stadio dell’androgino indiviso e la ricostituzione dell’intero.

Poi Scheler tratteggia i lineamenti dell’amore dopo il Cristianesimo e dichiara che la venuta di Cristo abbia rivoluzionato radicalmente la concezione del rapporto tra amore e conoscenza. L’ipotesi di Scheler è che il Cristianesimo introduce una sostanziale novità nel rapporto tra amore e conoscenza ma che questa non raggiunga se non marginalmente la coscienza filosofica. La filosofia sarebbe rimasta nella sua storia determinata dalle esperienze e dalle tipologie precedenti del rapporto tra conoscenza e amore, con alcune eccezioni. È venuta a mancare la formulazione concettuale e filosofica di questa singolare rivoluzione dello spirito umano. Sul piano dell’esperienza vissuta sarebbe avvenuto un cambiamento ma sul piano della formulazione filosofica i concetti ellenici avrebbero continuato a condizionare la riflessione filosofica. La filosofia non avrebbe cioè valorizzato fino in fondo la profonda rivoluzione sul piano dell’esperienza vissuta inaugurata dal Cristianesimo. Scheler continua dicendo che in questo senso non vi è mai stata una filosofia cristiana, a parte alcune eccezioni: soltanto Agostino è uno dei pochi che riesce a tradurre la nuova esperienza del Cristianesimo, una nuova esperienza vissuta che implica un rapporto diverso tra conoscenza e eros. Ma questa intuizione di Agostino sarebbe stata bloccata dal retaggio neoplatonico. Nella stessa esperienza vissuta cristiana si è compiuto un radicale assetto di amore e conoscenza, valore e essere.

Scheler parla di inversione del movimento dell’amore. Nel Cristianesimo ci sarebbe un’inversione del movimento dell’amore rispetto al mondo greco perché non vale più l’assioma greco secondo cui l’amore sarebbe un movimento dal basso al più alto, dal me on verso l’ontos on, dall’uomo verso Dio il quale non ama, dal cattivo verso il migliore, ma ora l’accondiscendenza amorevole del più alto verso il più basso, di Dio verso l’uomo peccatore viene ascritta all’essenza

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del più alto, dell’altissimo, quindi di Dio. Mentre nella concezione filosofica ama solo chi è inferiore perché amare significa essere difettosi. Se l’amore è desiderio, il desiderio implica la mancanza. Perciò, non sarà certo Dio che ama, il padrone non amerà mai lo schiavo, lo schiavo ama il padrone. Nella concezione filosofica colui che sta più in alto non può amare chi sta più in basso. Questo implica una concezione fortemente aristocratica. La benevolenza e il rispetto di chi sta più in alto verso chi sta più in basso è inconcepibile come il sistema celle caste in India che è fondato sulla metempsicosi. Chi è in alto non può avere benevolenza verso chi è in basso perché chi è in basso, lo è perché nella vita precedente ha commesso un qualche peccato e ora sta espiando la colpa. L’idea cristiana secondo cui chi sta più in alto Dio o per analogia ogni altra persona possa amare chi sta più in basso è una vera rivoluzione. Dal punto di vista ellenico è inconcepibile. Nella concezione cristiana l’inversione del movimento fa sì che chi è più in alto è colui che ama di più. Paradossalmente può amare che non ha bisogno di nulla, può amare in maniera disinteressata, autentica, vera, profonda. Questa inversione del movimento dell’amore ha alla base anche un nuovo tipo di fondazione tra amore e conoscenza e tra valore e essere. Questa inversione del rapporto tra alto e basso implica anche una modalità diversa di comprendere il rapporto tra amore e conoscenza. Scheler scrive che dalla posizione cristiana non è più il senso religioso dell’uomo che cerca di pervenire a Dio. Nel Cristianesimo la dinamica è proprio l’inversione del rapporto. Quindi è Dio che si rivela e che si manifesta all’uomo. Questa è la caratteristica e l’unicità del Cristianesimo rispetto alle altre religioni: nel Cristianesimo la differenza con le altre religioni è che un uomo ha la pretesa di essere Dio. Lo spirito religioso in tutte le altre religioni si identifica con l’assoluta lontananza tra umano e divino. In alcun religioni l’idea che l’uomo possa avere natura divina, possa essere addirittura un Dio è vissuta come un’empietà. Neppure nel buddismo Buddha

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e Dio. Nel Cristianesimo Dio stesso pretende di manifestarsi. Non è più l’uomo che cerca di scoprire, ma è Dio. Scheler aggiunge che al posto dell’autoredenzione greco-indiana che si realizza attraverso la conoscenza subentra quindi l’idea del divenire redenti dall’amore di Dio. Nella posizione greco-indiana è la nostra conoscenza che produce la salvezza, la conoscenza del divino è ciò che ci redime sia in Buddha che nella filosofia greca. Nel Cristianesimo non è la conoscenza che salva ma è la presenza addirittura fisica della divinità. L’amore di Dio che salva. Ossia il primato sta nell’amore di Dio e non nella conoscenza dell’uomo: inversione del rapporto. Il processo della redenzione ora diventa oggettivo e non soggettivo. Chi redime è un altro, non è la riflessione immanente del tuo spirito, non è l’esercizio spirituale che salva, è l’accoglimento di una presenza amorosa diverso da te. Non è più un atto di conoscenza, ma di libertà. Con il Cristianesimo il primato si sposta sulla libertà: si tratta di accogliere o rifiutare. Ed è questo che permette la salvezza anche ai più poveri, ai semplici perché non è anzitutto il problema della conoscenza ma è il problema della libertà.

La rivelazione cristiana è rivelazione della persona di Cristo non tanto di una dottrina. Kierkegaard dice contro Hegel che nel Cristianesimo ciò che è decisivo è la persona di Cristo, solo in seconda battuta la dottrina perché Cristo non è Socrate. In Socrate la dottrina è importante, in secondo luogo la persona. Invece nel Cristianesimo dice Kierkegaard la dottrina è tanto importante poiché è comunicata da Dio che è infinitamente più importante di ciò che dice. Se colui che parla è Dio, la sua persona è infinitamente più importante del contenuto che viene comunicato. Scheler scrive che Cristo è modello per gli imitatori, maestro e legislatore solo in modo derivato e solo in conseguenza alla sua dignità di divino redentore, cioè come forma personale incarnata di Dio stesso della sua volontà di amare. Cristo non ha la verità, egli è la verità ed afferma di essere il contenuto ed il metodo del vero. Cristo non parla

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come profeta ma è vox dei. Per Israele il profeta è colui che commenta la legge e annuncia la volontà di Dio ma non parla mai in prima persona. Nel Cristianesimo è la persona di Cristo che è la cosa più importante. Perciò Scheler dice che Cristo è la verità e proprio nella sua piena concretezza discorsi, azioni valgono come veri, buoni perché da Cristo confluiscono. La fede stessa in lui in quanto redentore e salvatore è collegata ad un antecedente amore di risposta al suo amore che mira a ciascuno singolarmente nel cui processo solamente si dischiude dinanzi agli occhi. L’amore cristiano si fonda sulla persona di Cristo il quale ama per primo ed è amore personale perché qui l’assoluto è personale ed è talmente personale che è una persona reale. L’amore ottiene qui la sua legittimità. Scheler aggiunge che la persona di Cristo è il primo oggetto dell’amore religioso così anche il punto di inizio del sentimento amoroso è una persona anticamente reale, la persona di Dio. La forma dell’esistenza della persona non si dissolve nei flutti dell’amore come presso i greci e gli Indiani. Qui la relazione personale come relazione amorosa diventa fondamentale perché è mediante l’amore che avviene la redenzione. La redenzione passa non attraverso l’atto della conoscenza ma attraverso una relazione d’affetto. Passa attraverso un predilezione personale. Il Cristianesimo è una posizione di predilezione di Dio nei confronti dell’uomo e risposta dell’uomo. È una questione di affettività. Il rapporto tra Dio e l’uomo di amicizia. Tutti i rapporti di dominio nel Cristianesimo sono superati. Il rapporto tra Dio e l’uomo non è un rapporto tra servo e padrone. L’affezione fa saltare questi rapporti di dominio. Scheler capisce la novità del Cristianesimo: non è più possibile amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede. L’amore di dio viene vincolato all’amore del prossimo all’amore personale. L’amore implica un co-amare dell’uomo. Mentre il principio greco-indiano si esprime nella solitudine, il principio cristiano si esprime in una dinamica di unità e di comunione. Il principio greco-indiano secondo

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cui la conoscenza fonda l’amore ha per sua natura la forza di isolare e di rendere solitari. Perché l’amore tanto va in quanto tende allo scopo, ma raggiunto lo scopo, viene meno. Quanto uno è perfetto tanto meno ama. Ma questo implica allora che non è possibile pensare ad una comunione dei perfetti: uno dei risvolti paradossali della concezione per cui eros è difettivo è che la comunione vale solo per gli imperfetti. Se comunione significa legame di affetto, vale solo nella condizione dell’imperfezione perché quanto più io mi elevo in una condizione di perfezione, tanto meno io ho bisogno dell’altro. Quindi questa concezione dell’eros difettivo porta ad un solipsismo come risultato. Mentre nella concezione cristiana è strutturale l’idea della comunione. Anzi, tanto più l’amore è perfetto quanto più genera comunione. Tutta questa novità dell’Erlebnis cristiana non riesce a rifluire adeguatamente in una riflessione filosofica. Scrive che nonostante il primato dell’amore sulla conoscenza appartenga all’essenza della coscienza religiosa cristiana, si sarebbe tentato solo raramente di tracciarlo dal punto di vista filosofico. Inoltre, polemizza contro Tommaso d’Aquino e la scolastica. In quegli anni la polemica contro il tomismo era molto diffusa sebbene la conoscenza che si aveva di Tommaso fosse del tutto approssimativa. L’immagine di Tommaso era veicolata dai Tomisti i quali avevano un’impostazione fortemente intellettualistica. La polemica di Scheler individua in Tommaso colui che avrebbe intellettualizzato l’amore cristiano perché in Tommaso la ratio ha un peso fondamentale. Mentre Agostino esprimerebbe il primato dell’amore sull’intelletto, Tommaso ritornerebbe ai greci. Scheler scrive che in Tommaso vengono mantenuti questi assunti greci: l’amore per un oggetto presuppone la conoscenza dell’oggetto. Questa per Scheler sarebbe una riduzione greca. Ma nessuno può amare un oggetto se non lo conosce. È preliminare la conoscenza all’atto dell’affezione. Quanto più si conosce, tanto più si vuol bene. Per Tommaso l’amore non avrebbe la sua autonomia poiché l’amore e i sentimenti si presen-

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tano come modificazioni della facoltà dell’anima. È evidente che in questo sistema psicologico intellettualistico dell’amore competa solo un ruolo del tutto subordinato. Questa è la critica di Scheler a Tommaso. In Tommaso c’è una certa prevalenza intellettualistica.

Scheler critica anche i volontaristi che non avrebbero capito la priorità dell’amore sulla conoscenza. Solo in Agostino, Melambranches e Pascal si sarebbe trovata la via giusta: il filone agostiniano è l’unico a salvarsi da questo generale fallimento del pensiero cristiano nell’intendere il rapporto tra amore e conoscenza.

Ciò che è più alto viene incontro a ciò che è più basso; la filosofia dopo il Cristianesimo sarebbe rimasta ancora bloccata nella visione greca. Nemmeno l’alternativa volontarista riesce a superare questo intellettualismo. In Agostino, Melambranches e Pascal c’è il primato dell’amore sugli atti dello spirito. Amore sarebbe il fondamento delle facoltà umane e fonte di unità di ogni conoscenza. L’amore muove la conoscenza la quale a sua volta muove la volontà. Con

Scheler l’atto teoretico non determina più la conoscenza del mondo, ma è l’esperienza vissuta. Non c’è conoscenza se non c’è interesse. È il tentativo di ritrovare il mondo della vita, quello che Husserl chiama la Lebenswelt. Gli atti d’amore sono fondanti la conoscenza. Le nostre percezioni e rappresentazioni sono considerate all’interno di una tonalità affettiva. La sensibilità accompagna sempre l’atto intellettuale. L’empatia è quel tipo di comunicazione originaria che precede ogni riflessione, è una percezione immediata dei sentimenti altrui, che presupporla visione del corpo altrui. Il corpo è veicolo dell’anima. Scheler parla di una simpatia, dove si stabilisce un legame che precede anche la dimensione intellettuale in senso proprio. Gli atti dell’amore e dell’odio presuppongono tre distinzioni: Senza interessamento verso qualcosa non si può dare nulla • a proposito di questo qualcosa, nessuna sensazione e rappresentazione.

La scelta secondo la direzione del nostro interesse, la •

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direzione del nostro sentire e del nostro percepire seguono la direzione del nostro interessamento.

Un oggetto è tanto pregnante di significato per me quanto • ha più interesse per me; per noi è reale ciò che per noi è oggetto del nostro affetto e del nostro interesse: Per noi sono reali le persone con cui abbiamo dei legami d’affetto.

La realtà dell’altro partecipa della nostra realtà, è un dato ontologico. Ci rendiamo conto che una persona è importante quando essa viene a mancare, perché noi sentiamo un vuoto, ci sentiamo meno reali. L’orizzonte di senso è creato da presenze reali che ci vogliono bene, ovvero che ci riconoscono (valore ontologico) come esistenti in una forma tale che significa essere degno di essere al mondo. “Di troppo” vuol dire che l’esistenza non è necessaria, è di una gratuità insopportabile. L’esperienza della nausea è superata con l’affetto, con l’esperienza del riconoscimento. Noi diciamo io perché altri ci riconoscono, perché c’è un tu. Se nessuno ti vede, allora non puoi riconoscerti come io, ti consideri come un nulla. L’ego si forma in una relazione originaria di tipo affettivo. Gli affetti sono la possibilità di un’esperienza ontologica, non semplici passioni. Scheler pone gli atti di amore e di odio all’origine della visione del mondo. Il mondo è la realtà come si palesa all’uomo. L’uomo percepisce il mondo all’interno di una certa tonalità affettiva. Nell’atto dell’amore è l’oggetto che si rivela nella sua essenza propria, è l’oggetto stesso che mi si apre. Il mondo si apre nell’atto dell’amore. Nelle disposizioni affettive fondamentali si rivela l’essere. L’angoscia è una disposizione affettiva e solo in essa l’uomo percepisce che l’essere dell’ente sprofonda nel nulla che è inteso dall’angoscia. In Heidegger il nulla è esperienza reale affettiva

L’acquisizione più importante della riflessione di Scheler è nel caratterizzare il significato ontologico delle disposizioni emotive fondamentali, ossia l’amore e l’odio non sono semplici sentimenti ma i sentimenti si fondano sull’amore e sull’odio. Amore e odio sono ori-

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ginari e ciò che è propriamente originario non è l’odio ma l’amore perché l’odio è sempre un contraccolpo dell’amore. L’odio sorge da un amore deluso. Scheler scrive che la dottrina che ha esposto potrebbe essere interpretata in maniera soggettiva. La preoccupazione di Scheler è quella di superare l’orizzonte psicologistico che allora nelle università tedesche era molto forte. Scheler è stato discepolo di Rudolf Eucken che si muoveva in un orizzonte neokantiano che criticava lo psicologismo che è una forma di soggettivismo criticato sia da Husserl che da Heidegger. La semplice esperienza vissuta non può definire i criteri in assoluto. Se il fattore psicologico diventa ultimativo, allora la riflessione sulla verità come verità comune diviene impossibile e ognuno si rinchiude nel proprio vissuto che diventa il metro ultimativo. È chiaro che ogni connotazione oggettiva viene negata. In fondo il vissuto diventa una forma di relativismo che porta al solipsismo: ognuno è prigioniero di se stesso. Scheler non intende l’amore in senso psicologico ma intende la disposizione affettiva fondamentale come anche ontologica. Nell’atto dell’amore non è solo il soggetto che ama ma anche l’oggetto che si dischiude. Io scopro l’essenza del mondo in quell’atto. Solo in quell’atto amoroso mi si manifesta, diversamente non lo comprenderei. Nell’amore si disvela il profondità proprio l’oggetto. La cosa ha una sua amabilità, si dischiude nel suo valore. Nell’affetto si palesa la realtà propria della persona. L’affetto non è la connotazione sentimentale che deforma l’oggetto ma è l’orizzonte all’interno del quale l’oggetto si manifesta nella sua essenza. Nello sguardo oggettivamente l’altro è ridotto a materia, è spersonalizzato. Nel Lager l’altro deve essere reso anonimo affinché l’altro possa dominarlo interamente senza scrupolo. Dominare interamente senza scrupolo significa eliminare la possibilità che egli possa suscitare sentimenti in me. Deve essere esautorata completamente la sfera affettiva. L’altro deve diventare un ente. La possibilità dello sterminio implica la possibilità del distacco totale tra i sottouomini e gli uomini in senso proprio. Biso-

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gna ridurre gli uomini in sottouomini affinché non nasca alcun legame d’affetto. Nel legame affettivo si dischiude la realtà ontologica sicché se questo legame non c’è,nel senso che viene bloccato, la realtà ontologica non affiora. Nel Lager il legame affettivo è bloccato.

Anche il conoscere ordinario diventa rivelazione:l’essere del mondo mi si rivela all’interno di un’esperienza affettiva fondamentale. La conoscenza non è semplicemente conoscenza oggettiva ma assume il significato di un’esperienza: conoscere è esperire. Il mondo che mi si apre, mi si manifesta. La realtà diventa manifestazione. Nell’affettività sta la chiave di apertura della realtà.

Le piante non sanno nulla della loro bellezza ma è l’uomo che vede la bellezza delle piante. È nell’esperienza estetica che è un’esperienza affettiva perché il bello e il bene si appartengono, la realtà si apre e si manifesta. Tale bellezza sarebbe sprecata se non ci fosse un punto della natura, l’uomo, in cui viene accolta. Queste pagine di Scheler hanno lasciato un’impronta in Heidegger: il secondo Heidegger insiste sul rivelarsi dell’essere.

Dopo la fine dell’agostinismo medievale nell’era moderna noi assistiamo ad una forma di eros che prende inizio nel Rinascimento, Bruno, Campanella, Telesio, poi Spinoza di cui Dilthey tratta di questa forma d’amore caratterizzato come panteismo dinamico. Ma non è di questo tipo di eros che Scheler ha trattato in precedenza. Scheler non vuole continuare questa tendenza dell’eros moderno che nasce dal filone rinascimentale perché l’eros moderno è panteistico e porta all’eliminazione della personalità, singolarità, individualità. L’eros panteistico è quell’eros per il quale io mi devo consumare nel tutto, nella totalità. Amore nella visione bruniana o rinascimentale è quella forza della natura che vive in me e che fa sì che io mi sciolga nella natura medesima. Amore è una forza dionisiaca che porta con sé la spersonalizzazione dell’io. Ma Scheler ha detto finora che l’amore è personale, anzi: nell’amore si rivela la dimensione della singolarità come irrepetibile. Ciò è evidenziato ancora di più nel-

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l’opera Ordo amoris:espressione agostiniana che è un programma singolare. Parlare di un ordo amoris è già prendere posizione molto chiara rispetto alla concezione romantica dell’amore. La concezione romantica dell’amore è una concezione che non ammette alcun ordine. Scheler vuole capire se esiste un ordine delle emozioni e delle passioni. È profondamente influenzato da Franz Brentano che ha influenzato Hussel che prese da Brentano l’idea dell’intenzionalità della coscienza. Ossia per Brentano e poi per Husserl, noi non pensiamo in generale, il pensiero non pensa se stesso. Il pensiero pensa sempre gli oggetti e il pensiero pensa inevitabilmente l’oggetto. Non esiste pensiero se non è pensiero della cosa. Il pensiero si esercita come attività pensante, cioè come attività che pensa qualcosa. Non esiste un pensiero che non pensa nulla. Scheler trasferisce l’intenzionalità sul terreno emotivo. Anche per questo Scheler può parlare di un ordo amoris perché l’amore e l’odio si portano immediatamente sui propri oggetti. Non esiste amore senza oggetto ma l’amore è sempre amore di qualcosa. L’amore in sé non esiste, così come non esiste il pensiero in sé. L’amore è sempre intenzionato sulla cosa o sull’oggetto. In questo Scheler deve moltissimo ad un’opera di Brentano intitolata Sull’origine della conoscenza morale. Ricordando il contributo di Brentano, Scheler scrive che a lui va il merito di aver riconosciuto sia la natura dell’atto di amore e dell’odio, sia la natura elementare di questi atti. Brentano ha preceduto Scheler nel capire l’autonomia della coscienza morale e nel capire che gli atti affettivi sono atti intenzionali. Il concetto di intenzionalità è l’uscita dal solipsismo e dallo psicologismo. Il concetto di intenzionalità è un concetto che mi trasferisce fuori di me; come nel conoscere io sono continuamente orientato sull’oggetto così nel sentire io sono portata sulla cosa sentita, amata. Lo spirito umano è caratterizzato intenzionalmente. Siamo rimandati fuori di noi, siamo rimandati ad una relazione. Per conoscere un individuo o un popolo devo conoscere il suo sistema di valori, ma dietro a que-

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sto sistema di valori c’è l’ordine dell’amore e dell’odio. Si conosce un uomo da ciò che ama. L’uomo è assegnato dall’affezione. L’etica deve conoscere l’ordine gerarchico di tutte le possibili amabilità delle cose. Cioè per Scheler esiste un ordine oggettivo dei valori che hanno una loro oggettività, non sono semplicemente soggettivi. Non sono semplicemente l’espressione dell’Erlebnis del vissuto per cui ognuno ha i suoi valori. Per Scheler i valori sono oggettivi. Esiste un ordine dei valori che è percepito nell’atto fondamentale dell’amore e dell’odio. L’amore coglie intenzionalmente una gerarchia dei valori. Nell’atto di amore io sono portato fuori di me e compartecipo il mio destino con un altro essere in un atto intenzionale. Ciò che noi chiamiamo conoscere è relazione ontologica, non è una relazione puramente gnoseologica come per Cassirer e il filone neokantiano. La conoscenza supportata dall’amore è empatica e mi porta a contatto con l’oggetto, è in funzione del rapporto con l’oggetto. Dietro al volere c’è l’amore che è ciò che risveglia ala conoscenza a al valore. L’amore è la genesi dello spirito, è ciò che lo muove. L’Uno-Tutto è personale perché nasce dal Dio personale che vuole, che ama. Non è lo scioglimento della personalità nella totalità, qui si afferma. Quindi l’ordo amoris è il nucleo dell’ordine del mondo in quanto ordine di Dio dice Scheler riecheggiando Agostino. Prima di essere un ens cogitans o un ens volens, l’uomo è un ens amans. Per Scheler l’asserzione cartesiana dell’ego cogito non è quella fondamentale. Ma è perché si ama che si pensa. Il cogito è portato dalla passione, dall’interesse. Perciò, l’amore precede il cogito e la volontà. La prospettiva di Scheler ha una precisa originalità. Nel saggio Amore e conoscenza Scheler ha contestato il modo in cui è stato affrontato il tema dell’amore e della conoscenza nell’intera tradizione occidentale. La concezione dell’amore è stata ridotta e finalizzata al tema della conoscenza. Questa posizione si trova nell’intellettualismo classico che prosegue nel mondo medievale e Tommaso ne sarebbe ancora dipendente. Le uniche eccezioni

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sono Agostino e Pascal che riconoscono l’autonomia della sfera affettiva nei confronti della conoscenza sicché la posizione vera secondo Scheler sarebbe quella dell’amore come dimensione originaria, in secondo luogo gli atti dell’intelletto che sono determinati dalla sfera affettiva e in terzo luogo la volontà che viene mossa dall’intelletto guidato, orientato dalla dimensione affettiva. Scheler non è un volontarista, non sta criticando l’intelletto dal punto di vista della volontà. Non è uno schopenhaueriano, non è un nietzscheano. Questa è l’impostazione che è stata vista nel saggio Amore e conoscenza: rivendicare un luogo originario di intuizione dell’essenza e della realtà dell’amore. Se l’impostazione classica è che l’amore è finalizzato alla conoscenza, l’impostazione moderna è ancora più riduttiva secondo Scheler. È l’impostazione conseguente all’impostazione cartesiana del razionalismo moderno per la quale la dimensione degli affetti non viene più finalizzata alla ragione come accade nell’intellettualismo classico ma al contrario: diventa una sorta di incidente di percorso un elemento di disturbo di cui la ragione deve liberarsi poiché la dimensione degli affetti è una sfera perturbante l’oggettività della conoscenza. Il pensiero moderno non riesce più a riconoscere la peculiarità propria della sfera affettiva. Ciò ha delle conseguenze molto rilevanti in sede antropologica: l’uomo viene identificato interamente con la ragione e conoscenza, mentre la parte affettiva viene retrocessa all’uomo corporeo. Anche in Kant accade così: ci sono la ragione, l’intelletto e io psicologico, empirico che Kant chiama con un’espressione singolare “io variopinto”. L’Io psicologico è l’io mutevole, cangiante, è l’io incostante, è l’io determinato dalle passioni, dalle impressioni. Non c’è niente di certo nell’io variopinto e non possiamo fare affidamento sull’io variopinto, ma anzi esso deve essere sottomesso nella ragione pratica e controllato dalla ragione teoretica. In sede pratica l’io variopinto sono le passioni, le emozioni, la sfera della sensibilità che deve essere sottomessa alla sfera della ragione poiché

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l’individualità propria, potenzialmente egoistica, contrasta con la legge universale della ragione in quanto tale. L’unico sentimento positivo che Kant riconosce è il sentimento morale che però non è un sentimento originario, ma penetrato: nasce dal rispetto verso la ragion pratica. Quando la ragione morale si afferma, anche il nostro sentimento ha questo senso di riverenza, di rispetto verso la legge morale. È un sentimento riflesso, non originario.

Per Hume il sentimento morale più significativo è quello della simpatia: gli uomini provano tra di loro un sentimento spontaneo di simpatia e sulla simpatia si fondano anche la socievolezza e la società. Ma questo sentimento di simpatia per Hume non ha alcun fondamento oggettivo, è solo un’impressione determinata dalla piacevolezza. Si prova simpatia perché c’è una situazione di piacere Questo sentimento della simpatia è l’ultimo appiglio nello scetticismo per confermare i legami sociali. Una posizione come quella di Hume potrebbe facilmente portare a Hobbes e all’idea di homo homini lupus; infatti Hobbes consegna tutta la mia volontà nelle mani dello stato che provvede alla utilità generale e alla totalità perché i singoli in quanto tali si sbranerebbero tra di loro se fossero lasciati nella legge, stato di natura. Per superare l’esito ferino di Hobbes, Hume si appiglia ad un sentimento: l’ultimo appiglio per far sì che gli uomini non si sbranino tra loro è la simpatia. È una base fragilissima che però permette agli uomini di convivere. La simpatia rimane l’ultimo retaggio dell’amicizia come idea politica di polis. Il sentimento della simpatia per quanto importante( anche Scheler ne ha parlato) però è un sentimento soggettivo che rivela solo il mio stato d’animo ma non mi rivela l’altro. Non si esce dalla sfera psicologica. Il sentimento non mi porta realmente fuori di me, il sentimento riguarda il mio stato d’animo.: tra il mio stato d’animo e il mondo c’è un abisso. Quando Scheler sta elaborando la sua teoria dei sentimenti e delle affezioni, sta prendendo le distanze dal razionalismo moderno ma non vuole seguire la via empirista perché

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l’empirismo porta ad un soggettivismo che è l’altra faccia del razionalismo. Per far questo, Scheler deve superare lo psicologismo che è quella concezione che trova espressione nella psicologia per la quale gli affetti, le emozioni, i sentimenti vengono realizzati in relazione alla propria psiche. Lo psicologismo non si pone il problema della corrispondenza tra i sentimenti e la realtà fuori di me. Non si pone il problema se i sentimenti sono rivelativi di un a condizione oggettiva reale. Non si pone il problema se i sentimenti mi aprono il mondo. I sentimenti vengono indagati come espressione della struttura della psiche. Un uomo a determinate condizioni prova determinati sentimenti. Comunque, la critica allo psicologismo è centrale in Scheler e deriva dal neokantismo del maestro di Scheler, Rudolf Eucken, con cui Scheler studia tra la fine dell’Ottocento e il Novecento ed era ciò che Scheler condivideva anche con Husserl. Come Husserl, Scheler i distanzia dallo psicologismo e tenta di delineare una filosofia che rivaluti la dimensione dell’affettività. Il superamento dello psicologismo avviene attraverso l’opera di Brentano; l’idea di fondo di Brentano è l’idea dell’intenzionalità che influenzerà tutta la fenomenologia husserliana. L’idea della intenzionalità è l’idea per la quale nella conoscenza, ogni atto del conoscere, ogni pensiero, è sempre pensiero di qualcosa, di un oggetto. Non esiste un soggetto pensante scisso da un oggetto. Il pensiero, in quanto atto del soggetto pensante, è sempre dato con il contenuto e il pensare è sempre pensare qualcosa. Il nostro pensiero è sempre intenzionalmente rivolto ad un oggetto. Il concetto di intenzionalità nel senso di Brentano supera di un passo tutta l’impostazione critica. Per Kant bisogna elaborare prima una teoria della conoscenza perché poi essa possa essere applicata all’oggetto. In Brentano non puoi distinguere il tuo pensiero dalla cosa pensata. Hegel critica Kant dicendogli che non si può imparare a nuotare prima di entrare in acqua. La pretesa di Kant di descrivere a priori le condizioni del pensiero prima che il pensiero pensi è una pretesa impos-

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sibile. Noi sappiamo del pensiero in quanto abbiamo pensato. Il pensiero è già immerso nel contenuto. La teoria dell’intenzionalità dice che atto e contenuto sono inseparabili. La teoria dell’intenzionalità è il superamento del kantismo che è la pretesa che il pensiero pensi se stesso indipendentemente dall’oggetto. Con la teoria dell’intenzionalità Brentano, da buon aristotelico, supera con un colpo tutta l’impostazione criticista e riporta il pensiero sulla cosa. Tanto è vero che negli anni di Gottinga la fenomenologia e la scuola di Husserl riscoprono un mondo nuovo. Come dirà Edith Stein nel saggio dei ricordi Il primo semestre a Gottinga il motto di Husserl “il ritorno alle cose stesse” aveva il sapore di una riscoperta di una realtà dopo due secoli di criticismo che era diventato il paraocchi della realtà”. Con la lezione di Brentano e di Husserl, la filosofia tornava ad immergersi nella realtà. Brentano non si limita ad elaborare una teoria dell’intenzionalità solo in sede teoretica ma elabora la teoria dell’intenzionalità anche in sede pratica nel saggio Sulla teoria della conoscenza morale. In quella teoria Brentano diceva che non solo i concetti ma anche i sentimenti hanno un’intenzionalità morale, ossia anche i sentimenti ci portano all’oggetto intenzionato. Come la teoria dell’intenzionalità in sede gnoseologica supera il kantismo, così la teoria dei sentimenti in sede morale supera lo psicologismo che ha dominato fino ad allora. I sentimenti non hanno a che fare semplicemente con la psicologia dell’io ma ci aprono sulla realtà dell’oggetto morale. I sentimenti entrano di diritto nella sfera morale da cui finora erano stati kantianamente e rigorosamente esclusi. La sfera affettiva rientra a pieno diritto nell’esperienza morale da cui tutto l’Illuminismo post-kantiano l’aveva esclusa. Se il sentimento diventa rivelativo di una realtà oggettiva, il sentimento viene ad avere una funzione conoscitiva che non è identica a quella teoretica ma che è complementare, ossia i sentimenti diventano un altro modo di conoscere. Questo è il contributo di Scheler che può mettere questo titolo agostiniano Ordo amoris al saggio incompiuto in

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quanto esiste un ordine dell’amore, ossia un ordine che l’amore comprende. Esiste questo amore che l’amore comprende in quanto l’amore intenzionalmente verte sugli oggetti. Il titolo già presuppone il titolo dello psicologismo e di una prospettiva puramente empirista. Per questo Scheler parla del regno degli oggetti dell’amabilità, della gerarchia di questi oggetti. Questo regno da una parte è oggettivo, dall’altra però non è definito una volta per tutte: non è un regno in cui l’oggetto viene esaurito nella conoscenza del singolo atto d’affetto. Ci sono livelli di altezza diversi nelle regioni dei valori perché in sede morale l’amore concepisce l’oggetto non in maniera neutra ma come valore. Ciò che in sede teoretica è l’oggetto conosciuto, in sede morale diventa il valore conosciuto. Cioè, l’oggetto si palesa come valore e proprio perché si palesa come valore chiama indirettamente in causa proprio la moralità affettiva con cui viene percepito. Io chiamo valore ciò che per me vale, ciò che e prezioso. Il prezioso non è l’esito di un giudizio meramente conoscitivo in senso teoretico ma è evidentemente in gioco la sfera affettiva. In sede morale l’affettività entra in gioco perché in sede morale l’oggetto è il valore.

Questi valori possono essere percepiti diversamente. Il semplice libertino è colpito dal fatto che il godimento che riceve dagli oggetti della sua soddisfazione diminuisce sempre più rapidamente nella sua corsa sempre più veloce di oggetto in oggetto mentre l’impulso rimane invariato; infatti questa acqua fa venire tanta più sete quanto più se ne beve. Questo esempio colpisce avendo in mente l’esempio analogo che viene richiamato da Socrate nel Gorgia. Nel dialogo finale che Socrate ha con Callicle, seguace di Gorgia, giovane rampollo ateniese scettico e nietzscheano ante litteram, Callicle non vuole rinunciare a niente di ciò che ha dal momento che la vita gli ha offerto questa possibilità. Ciò che vuole, lo vuole a discapito di tutti poiché ciò che importa è il suo godimento, il suo successo. Callicle ha la volontà di potenza, per lui il dominio spetta ai migliori

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che sono quelli che hanno. <per coloro che sono in una condizione inferiore, non c’è pietà perché non ha senso avere compassione o interesse verso chi non è fortunato nella vita. La fortuna ha assegnato il destino ad ognuno. Socrate si sforza in tutti i modi di convincerlo che quella non è il tipo di vita giusta e tra tutti gli esempi ricorre quello dell’otre: la vita di Callicle è come quella di un otre in cui viene versata continuamente acqua ma poi sempre è sempre più sfondata e tu sei sempre più assetato di prima, non è vera felicità; non avrai mai amici perché saranno sempre invidiosi delle tue ricchezze e dei tuoi poteri. Ma a Callicle le argomentazioni di Socrate non fanno effetto perché a lui interessa solo il suo godimento. Callicle è l’unico caso in cui Socrate in un certo punto si arrende: la dialettica di Socrate, sempre raffinatissima, non riesce a convincere Callicle. La vita di Callicle si oppone alla potenza filosofica di Socrate e non a caso Socrate nell’ultima parte del dialogo gli narra il mito dell’Oltretomba. Gli dice che sa che per Callicle è una favola ma lui ci crede e gli descrive il destino dei morti nel grande prato dell’aldilà dove le anime dei giusti andranno del paradiso dei Campi Elisi e quelle degli ingiusti nell’Acheronte. È un mito escatologico

l’ultima arma che Socrate ha nei confronti di Callicle che prende il giro Socrate perché secondo lui Socrate spreca la sua vita andando dietro ai giovani invece di sfruttare la grande intelligenza ottenendo successo.

Se l’amore ha a che fare con la conoscenza, allora significa che per Scheler l’amore permette di vedere di più l’oggetto. Come c’è una visione del mondo dal punto di vista dei sensi e della ragione, così c’è una visione del mondo peculiare all’amore in quanto tale.

L’amore investe nell’oggetto e vede l’oggetto come una promessa, non semplicemente come attrazione. L’amore è un investimento.

L’amore non soltanto l’amore da parte dell’Io ma l’amore ha un’influenza e una corrispondenza anche nel Tu, in una forma tale che il Tu viene incrementato da questo amore, viene provocato da questo

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amore alla realizzazione di te. Questo movimento fa progredire la persona nella sua peculiare direzione di idealità di perfezione.

L’amore non fa progredire solo te ma perfeziona anche l’altro. Poiché l’altro è amato da te, l’altro desidera perfezionarsi nella sua idealità. L’amore introduce un movimento di perfezionamento, non è semplicemente la corrispondenza tra due che rimangono come sono ma l’amore introduce una dinamica di perfezionamento dell’Io e del Tu.

Tanto nell’amore del libertino quanto nell’amore più profondo non c’è mai un carattere di definitivo. Il carattere di definito distrugge l’amore non nel senso della promessa, ma definitivo nel senso dell’atto d’amore stesso. Lì nel libertino il fatto che non è mai definitivo è derivato dal godimento infinito. La legge del piacere è una legge infinita. Il piacere appena soddisfatto si estingue all’istante ma riemerge l’istante dopo. Nell’amore personale la soddisfazione aumenta a differenza del godimento dove la soddisfazione diminuisce. Quindi la diversità è che nel godimento l’infinità del piacere richiede l’infinità degli oggetti. Dopo un po’ ti stanchi di un unico oggetto, hai bisogno di cambiare, di variare. La vita estetica è cambiamento, odia la stabilità, anche quella del legame amoroso è insopportabile: dopo un po’ ci si conosce e che altro si può aggiungere? Si sa tutto dell’altro. La vita estetica cerca il cambiamento, la variazione e quindi l’infinito nella vita estetica è la moltiplicazione degli oggetti del godimento. È quello che Hegel chiama “cattivo infinito”. La diversità è tra inquietudine e una fermezza tranquilla. Il libertino nel suo apparente disincanto è, in realtà, inquieto, non riesce ad appagarsi di nulla. L’altro è una modalità con cui risolve la sua inquietudine. Questo non accade invece a chi trova appagamento nella certezza di un rapporto in cui puoi stare. Perché sia appagato un amore per propria essenza infinito, esige un bene infinito. Intenzionalmente l’amore richiede un oggetto infinito, un oggetto nel quale ogni appagamento non sia, non rimanga qualcos’altro. L’oggetto infinito è l’oggetto che basta all’amore, per cui l’amore non

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debba ricorrere ad un altro oggetto. Ossia nell’amore vi è un’intenzionalità infinita che richiede un oggetto infinito se non altro come fondamento della possibilità dell’amore stesso. In questo senso l’idea di Dio sta a fondamento dell’ida dell’amore. «Il mio cuore è inquieto finché non riposa in te» è la famosa frase di Agostino che viene citata nelle Confessioni. Questa inquietudine del cuore trova la sua consistenza in un oggetto infinito. Il cuore richiede un oggetto. Ecco il superamento della dimensione soggettiva dei sentimenti codificata dall’empirismo illuminista. Il cuore non è appagato da se stesso come celebra l’amore romantico: quell’amore innamorato dell’amore; il cuore richiede un oggetto che sia potenzialmente infinito. Un oggetto nel quale la tensione infinita dell’ eros possa trovare un appagamento infinito. La cosa importante è che la sfera dell’amore richiede un oggetto. Questo non significa che l’uomo non possa amare ciò che è finito: ognuno di noi è finito. Scheler non sta dicendo che un uomo e una donna non si possono amare ma sta dicendo che un uomo o una donna se amano l’altro come se fosse assoluto, vanno incontro ad un’illusione. L’assoluto è l’intenzionalità che regge il rapporto ma non è l’oggetto del rapporto. Se l’oggetto del rapporto viene assolutizzato dall’amore, l’amore è stritolato da quel rapporto. Una idealizzazione dell’altro in termini di assolutezza porta alla distruzione del legame stesso. L’amore in questo caso non aiuta a vedere la realtà ma la confonde. Per Scheler l’amore non certifica l’evidenza dell’oggetto, l’amore può anche confondere. Dipende dall’intenzionalità, dalla direzione. L’opera principale di Scheler L’eterno nell’uomo è sul tema dell’idolatria. In questa opera Scheler parte dall’idea che in ogni uomo vi è un assenso religioso, un’attitudine verso l’assoluto che caratterizza l’umanità in generale. Ebbene questa dimensione religiosa o trova l’oggetto che le corrisponde, quello che gli uomini chiamano Dio, oppure trova inevitabilmente un sostituto di Dio che è sempre qualcosa di finito e di contingente, l’idolo. L’idolo è la forma di contraffazione di Dio.

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L’idolo è bene finito che diventa assoluto. L’uomo trova il Dio che gli corrisponde oppure inventa l’idolo. In questa posizione l’ateismo non esiste, esiste invece la vecchia categoria biblica dell’idolatria. Non è che l’uomo non creda a nulla: colui che rifiuta Dio creerà dei sostituti di Dio, ossia delle forme contingenti del vivere che diventano assolute in cui egli riporrà tutte le sue speranze ma in cui egli inevitabilmente rimarrà deluso. Già nel 1916-17 Scheler ha elaborato l’idea della categoria dell’idolo che diventa un’assolutizzazione della sfera dell’amore che evidentemente per Scheler non è corretta; la chiama infatti infatuazione.

Il regno è un regno che ha la sua unità, la sua legalità e la sua costruzione graduale. I valori, che sono percepiti dall’amore, hanno una gradazione. Alcuni sono più, altri meno importanti. Già gli antichi distinguevano tra beni più grandi e meno grandi e a seconda della costituzione antropologica dell’uomo ci sono i beni corporali e i beni dell’anima. I beni che presiedono alla sopravvivenza dell’uomo sono importanti. Hanno a che fare con l’anima vegetativasensitiva. Però esistono beni che in certi momenti sono più grandi e più importanti e allora bisogna sacrificare i beni inferiori in nome dei beni superiori. Questa concezione per cui vi è una gerarchia dei beni appartiene alla tradizione classica. Scheler la ritrova con questa forma del regno. Scheler prosegue scrivendo che nell’atto di amore c’è un posporre e un proporre i valori che vengono percepiti. Non tutti i valori stanno sullo stesso piano. Ciò che chiamiamo animo umano o cuore umano non è un caos. Il termine “cuore” prendo il posto della vecchia concezione dell’anima nell’antropologia tra Ottocento e Novecento. Noi abbiamo smarrito a concezione dell’anima perché è stata interamente inglobata nella psicologia che è la dottrina dell’anima. La psicologia si è resa autonoma dalla filosofia nel corso dell’Ottocento e si è impadronita del tema dell’anima e così la filosofia non si occupa più di essa. Il tema dell’anima, come Hegel sapeva bene, è fondamentale perché l’uomo non è solo mente che

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pensa. Eredi della tradizione cartesiana pensiamo che l’uomo sia semplicemente l’ego cogito, ossia che il nostro io spirituale sia il nostro io pensante. Ma a parte che nemmeno Cartesio pensava così perché con il termine cogito, Cartesio intendeva tutto il plesso dello spirito, non intendeva semplicemente la mente pensante. L’uomo non è semplicemente l’io pensante, noi siamo prima che pensiero, siamo anima che è il luogo in cui noi sentiamo, è la sfera dei sentimenti, è il luogo del nostro inconscio, è il luogo dei sogni. La nostra vita spirituale è più ricca della semplice attività coscienziale e mentale. L’anima è la condizione e grande madre dello spirito. Essa è la nostra dimensione inconscia. Se noi escludiamo l’anima, riduciamo l’Io a mente con la conseguenza estrema che solo l’Io consapevole e razionale è persona. L’Io che ragiona è persona. L’identità dell’Io non è garantita soltanto dall’Io pensante. L’anima è l’alba, è l’interiorità profonda dell’Io. Il razionalismo riduce l’uomo a essere pensante, perciò chi non è pensante non è considerato uomo.

Scheler scrive che ciò che chiamiamo animo umano o cuore non è affatto un caos di cecità. Il cuore è perfino un’immagine speculare articolata del cosmo di tutte le possibili amabilità e pertanto è un microcosmo del mondo dei valori. “Il cuore ha le sue ragioni” ha scritto Pascal. Scheler vuole conferire piena dignità filosofica a questa frase dove il termine importante è ragioni. Il cuore ha delle ragioni, non è irrazionale, non è un caos. Il cuore ha un orientamento, direzione delle ragioni nel suo muoversi. Il nomos agraphos sono leggi di non scritte di cui parla Sofocle in Antigone; quelle leggi non scritte in base alle quali Antigone vuole seppellire il corpo del fratello perché la pietas lo vuole contro le leggi della città che lo vietano. Queste sono le eterne non scritte leggi degli dei, ma queste leggi non scritte sono scritte nel cuore. Quindi il cuore ha delle leggi non scritte che corrispondono al disegno in base al quale il mondo è costruito come mondo dei valori. Il cuore può amare o odiare ciecamente o avvedutamente cos’ come altrettanto avvedu-

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tamente o ciecamente possiamo giudicare. Il cuore può essere tanto cieco quanto avveduto. Può essere tanto ordinato nel senso della logica del cuore quanto violento e irrazionale quando non segue queste ragioni che stanno a fondamento della sua natura. Il cuore è un microcosmo del mondo dei valori. “Microcosmo” è espressione che proviene dal Rinascimento per cui l’uomo è un microcosmo rispetto al macrocosmo. Nell’uomo troviamo tutte quelle componenti che si ritrovano nell’intera natura. È questa visione della coincidenza tra grande e piccolo che obbedisce all’idea di armonia e di proporzione che è al centro della cultura rinascimentale che trova espressione nell’opera di Pico della Mirandola e nell’idea che l’uomo è al centro dell’universo nella famosa immagine di Leonardo da Vinci dell’uomo che è al centro di una circonferenza che esprime il cosmo. L’uomo è microcosmo del mondo dei valori. Il cuore possiede nel suo stretto ambito un analogon della logica che tuttavia non prende a prestito dalla logica dell’intelletto. Nel cuore vi è una logica analoga ma anche diversa rispetto alla logica dell’intelletto. Scheler sta lottando per strappare la nozione di cuore dal sentimentalismo. Il cuore non è il momento dell’irrazionale, il cuore ha delle ragioni, quindi ha una logica. Il cuore ha una sua natura. La logica del cuore non è identica a quella dell’intelletto e della ragione. Nel cuore vi sono delle leggi. Il fatto che il cuore abbia una sua logica implica che esistano delle leggi del cuore. Ci stiamo allontanando dalla concezione romantica del cuore e ci avviciniamo alla concezione articolata. Le leggi non scritte testimoniano che il cuore ha una sua logica non riducibile alla logica aristotelica. Il fatto che il cuore ha le sue leggi non significa che queste vengano sempre rispettate dal cuore medesimo. Il cuore può amare in modo irrazionale o secondo una logica, secondo le sue leggi. Il cuore può violare queste leggi, amare e odiare in maniera distorta. Il cuore ha le sue ragioni di cui l’intelletto non sa nulla e mai qualcosa potrà mai saperne. Le ragioni del cuore sono intuizioni oggettive ed evidenti su

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realtà di fatto per le quali l’intelletto è cieco. L’intelletto non capisce certe cose se non con l’ausilio del cuore. È vero che la logica dell’intelletto non coincide con la logica del cuore. Per questo Pascal dice che l’esprit de geometrie non è l’esprit de finesse. La logica geometrica nelle relazioni sociali non serve a nulla. La doppia logica corrisponde alla distinzione tra l’esprit de geometrie e l’esprit de finesse che indica una sensibilità in cui la dimensione del cuore entra in gioco nella sua logica. I sensi possono essere avvertiti solo mediante se stessi, ossia attraverso l’esperienza sensibile. Per questo Aristotele dice che i sensi sono principii. Non esistono soltanto i principi della logica, ma anche i principii della sensibilità. Allo stesso modo per Scheler il cuore sarebbe principio di una logica, di un’esperienza, di un’intuizione oggettiva che non può essere sostituita dalla logica. Per Scheler esiste un ordine oggettivo del cuore che intuirebbe dei valori oggettivi. Ci stiamo spostando molto lontano dalla concezione romantica per la quale il cuore è un sentimento vuoto pronto per ogni oggetto. Nella concezione romantica che noi critichiamo come sentimentale il cuore è disponibile ad ogni oggetto possibile. Nella concezione romantica il cuore è una forma senza contenuto. L’oggetto è irrilevante. L’Occasionalismo è la versione filosofica del Romanticismo. Nulla viene preso sul serio. Tutto è solo occasione di altro. Nella concezione romantica dell’amore inteso come sentimento, il sentimento è una forma rispetto cui il contenuto è indifferente. Un tale concezione è una concezione assolutamente relativistica del cuore. Il cuore non ha dei valori propri ma tutto può diventare oggetto del cuore, del sentimento o dell’amore. Scheler invece ci sta dicendo che il cuore ha un’intuizione di un ordine oggettivo di valori. Il cuore ha una sua legalità. Kant sarebbe inorridito a pensare che il cuore ha una legalità; per Kant l’unica legalità possibile è legge della ragion pratica: Invece Scheler estende la nozione di legalità al cuore. Ha il cuore una legalità intrinseca che è indipendente dalla organizzazione psicofisica del-

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l’uomo, ossia il cuore intuisce un ordine oggettivo che non è semplicemente psicologico. Se fosse psicologico sarebbe ancora una volta variabile rispetto alla psicologia individuale. Il nostro carattere singolare diventa il metro di fondazione di ogni scelta possibile. Se la psicologia diventa assoluta, ancora una volta non usciamo dalla prigione dell’Io. Noi potremmo parlare di un ordine oggettivo dei valori ma soltanto di valori psichici relativi alla singola psiche del singolo oggetto. Scheler critica Kant ma estende la pretesa di universalità e di oggettività, che per Kant vale solo nell’ambito della ragione, anche alla sfera del cuore. Anche il cuore ha e sue leggi. La differenza è che l’a priori è un a priori materiale, ossia un a priori indirizzato sui contenuti, non è un a priori formale come in Kant, ma è un a priori per cui esiste un ordine oggettivo di valori, cosa che in Kant non c’era.

Ci sono epoche che non riconoscono alla dimensione emozionale una dignità del conoscere. La dimensione emozionale diventa muta e soggettiva. Siamo arrivati a questa conclusione dell’irrilevanza della conoscenza affettiva per l’esperienza umana e per l’intuizione dei valori perché è prevalso un modello scientifico del sapere per il quale tutto ciò che non è conoscenza in senso intellettuale viene ritenuto meramente soggettivo. Quindi gli stessi giudizi di valore sono diventati giudizi di gusto, ossia giudizi estetici. La morale diventa un momento dell’estetica: non esiste più il buono e il cattivo, ma il disdicevole e ciò che è appropriato. L’estetica ha preso il posto dell’etica. Se l’etica entra nell’estetica, l’etico diventa soggettivo. Questo accade a causa del modello scientifico che pretende di definire oggettivo tutto ciò che rientra in quel modello e di ricacciare le soggettivo tutto ciò che non rientra nel modello. L’intero campo dell’esperienza umana viene confinato nel soggettivo. Scheler scrive che gli economisti cercano di evitare i giudizi di valore perché per loro stessa natura non sarebbero scientifici. Max Weber è l’autore di riferimento per questa distinzione tra giudizi di valore e i giudizi

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di fatto. I giudizi di fatto sono giudizi che nascono sul terreno della scienza. Solo la scienza può pronunciarsi sulla realtà o meno dei fenomeni e può descrivere esattamente le cose come accadono. Mentre i giudizi di valore nascono dai pregiudizi, chiamano in causa la psicologia sia individuale che di gruppo, le valutazioni personali, il contesto culturale nel quale si svolgono i nostri giudizi. I giudizi di valore sono giudizi non scientifici, sono giudizi che rientrano nell’Erlebnis, nell’esperienza vissuta. Sono giudizi soggettivi che non hanno valore oggettivo universale. I giudizi di fatto devono avere il criterio dell’universalità perché derivano dal sapere scientifico. Scheler contesta questa visione di Weber. Se il principio etico assoluto è la libertà di coscienza senza contenuti si cade in un formalismo assoluto da un lato e da un relativismo assoluto dall’altro. La libertà di coscienza non può essere il fondamento e la libertà di coscienza è semplicemente una forma. La libertà di coscienza è in funzione di una verità.

La vita emozionale è il luogo di svelamento di nessi oggettivi che nel loro mutevole rapporto con noi governano il senso e il significato della nostra vita ma come una serie di accadimenti assolutamente ciechi. La nozione di emozionalità è quella di un caos puramente cieco, una serie di impulsi che provengono dal profondo ignoto e che semplicemente non hanno logica: ora siamo schiavi di un impulso, ora di un altro e non riusciamo semplicemente a capire che logica c’è in tutto questo. Nel sentire vi è un prestare ascolto. L’uomo contemporaneo non prende più sul serio l’esperienza della vita che si palesa come esperienza del vivere. Non presta più attenzione a quei movimenti della vita che coinvolgono tuta la sfera dell’affettività che è dimensione fondamentale dell’esperienza, del senso della vita. Scheler anticipa la riflessione di Husserl Crisi delle scienze europee, opera del 1933 in cui Husserl capisce che le scienze europee sono in crisi perché hanno dimenticato il mondo della vita che è precondizione del sapere scientifico. Una delle conseguenze

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della riduzione scientifica della vita emozionale, del fatto che il modello scientifico è l’unico in grado di conferire l’ambito del sapere è che la sfera degli affetti è stata relegata nella psicologia che si appropria di questa sfera delle emozioni in quanto le oggetti vizza. Nella psicologia le passioni diventano stati e non atti. Sono condizioni statiche di una struttura psichica. Il paradosso della psicologia è che essa dovrebbe essere la scienza dell’anima, ma l’anima, oggetto della scienza, diventa un’anima scientifica, ossia l’anima diventa una struttura, uguale per tutti. L’anima che viene studiata dalla psicologia è un’anima in generale. La psicologia non concerne l’ontologia, non dice nulla sula verità dell’Io, dell’anima, del mondo ma ci parla soltanto degli atti psichici. Noi abbiamo relegato l’intera sfera delle passioni e delle emozioni nella psicologia. Questa è una conseguenza del modello scientifico del sapere. Nella psicologia tutto si muove verso l’interno. Tutto ciò che è atto non è mai nella psicologia. La psicologia è statica per definizione, mentre nella realtà la nostra anima è continuamente in atto, ossia percepisce effettivamente. Nella psicologia l?io non c’è mai. Lo psicologismo si rivela nel fatto che l’atto è più importante del contenuto. Se colui che guarda un paesaggio o un bel quadro, invece di guardare il paesaggio o il quadro si sofferma sulle emozioni che lui prova nel guardare il paesaggio o il quadro, non capirà nulla del paesaggio o del quadro. Quelle emozioni invece di introdurlo ad una maggiore comprensione del paesaggio o del quadro, fanno sì che lui si ripieghi su stesso; allo stesso modo nell’amore quelle emozioni, invece che introdurti ad una maggiore comprensione del contenuto diventano un’enfatizzazione dell’Io psicologico. Questo è il sentimentalismo che è quella posizione per la quale il sentimento è più importante del contenuto evocato e sentito. È il soggettivismo narcisistico che trionfa nelle sue mille forme e sul contenuto. In questo caso le emozioni non aprono all’ordo amoris, al contrario ti schiavizzano in una prigione psicologistica e lo psicologismo può diven-

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tare anche una patologia. Chi ha problemi psichici è perché è prigioniero della sfera psichica. La sanità è nel rapporto con la realtà.

L’atto psichico è sano quando corrisponde all’oggetto, non quando uno è ripiegato su di sé. Lo psicologismo è uno spostamento dall’oggetto al soggetto. Ma in questa maniera non intuisco il mondo: ho penso quell’intenzionalità che invece secondo Scheler è la caratteristica non solo della conoscenza teoretica ma anche morale-affettiva Questa era la lezione che gli era stata consegnata da Brentano per il quale l’intenzionalità vale anche per la coscienza morale. È conseguenza del modello scientifico la riduzione dell’uomo a conoscenza in senso teoretico e l’aver svalutato tutta la dimensione affettiva. Questa dimensione è stata recuperata nell’ambito della psicologia con il risultato però dello psicologismo per il quale i sentimenti hanno un valore eminentemente soggettivo. Lo psicologismo è l’altra faccia del razionalismo scientifico. Se l’unica conoscenza oggettiva è quella della scienza, tutta la sfera delle passioni e degli affetti ha il suo terreno proprio nel soggettivismo. I sentimenti descrivono gli stati d’animo che non hanno valore se non nel limite della mia soggettività e non hanno nessun valore oggettivo. Nella psicologia non usciamo dalla percezione interna, la psicologia non ci apre ad una concezione oggettiva, ma ci sa soltanto la via di una percezione interna la quale resta nell’ambito dell’interiorità. La psicologia studia gli stati dell’Io ma non gli atti di percezione dell’Io che sono finalizzati a qualcosa che è fuori dell’Io. Se l’atto emozionale è rivolto verso il soggetto e il suo sentimento e non è rivolto all’oggetto, non si esce dalla psicologismo. In questa maniera confermiamo che l’unico tipo di conoscenza è la conoscenza di tipo logico e non c’è una conoscenza di tipo alogico ed è invece quello che Scheler vuole raggiungere.

Negli anni 1916-17 il motto della scuola di Gottinga era diventato: “tornare alle cose stesse”. Dopo più di cento anni di kantismo, ossia di riduzione fenomenistica per cui la mente non coglieva più

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le cose stesse ma solo i fenomeni il pensiero tedesco stava reagendo a questo e affermava con la fenomenologia il ritorno alle cose stesse. Nel racconto dei contemporanei questo slogan aveva il valore di una liberazione. Questo, però, dice Scheler continua ad essere pensato solo per la filosofia in senso teoretico e non si capisce che anche la sfera affettiva può avere un valore conoscitivo nell’ambito degli oggetti. Scheler vuole estendere il ritorno alle cose stesse anche all’ambito delle affezioni e delle emozioni. Vuole estendere la categoria di intenzionalità non solo all’atto pensante ma anche all’atto emozionale. O può fare perché è rimasto colpito dall’opera di Brentano Saggio sull’esperienza morale in cui Brentano aveva esteso il concetto di intenzionalità anche all’esperienza morale.

Nell’ambito teoretico noi vogliamo sapere cosa intendono questi oggetti, perché la conoscenza si volge verso di loro e cosa intendiamo per conoscenza dell’oggetto. Scheler distingue il sentimento come stato psichico, ciò che io provo, dal sentimento come intenzionalità. Il sentire dell’uomo è in prima istanza interamente orientato ai valori che ineriscono alle cosa. Il sentimento è intenzionato ai valori che ineriscono alle cose, ossia nel sentimento si rivela il valore delle cose che sono apprese da noi non semplicemente come immagini che colpiscono il nostro occhio o il nostro udito ma esse hanno una loro qualità da subito e noi reagiamo emotivamente a queste qualità delle cose. Non è una reazione teoretica ma affettiva. Ognuno di noi incontrando qualcosa, è colpito emozionalmente da questo. Nel sentire io percepisco il valore o il disvalore della cosa. Nell’affettività si rivela il valore o il disvalore della cosa. La dimensione valoriale è una dimensione oggettiva colta nella cosa mediante l’intuizione emozionale. Le cose sono portatrici di valori che vengono percepiti mediante l’intuizione emozionale. La cosa è l’occasione in cui il valore si disvela.

Col sentimento rispondiamo al mondo nella sua dimensione di valore: Il sentimento è in gioco quando c’è qualche valore da ap-

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prendere. Se una cosa non ci interessa, ci è indifferente, il sentimento non è in gioco fino al punto estremo dell’apatia. Una cosa che mi lascia indifferente per me non ha valore. Ciò che ha valore sia in senso positivo che negativo mi coinvolge, entra in gioco la mia sfera affettiva. La dimensione del valore è percepita soltanto nella sfera affettiva, dal punto di vista dell’esperienza. All’inizio c’è un’esperienza in cui percepisco il valore della cosa in quanto sono emotivamente coinvolto nella percezione della cosa. Ma non senso che quella percezione è semplicemente soggettivistica ma nel senso che soltanto mediante quella percezione che il valore della cosa si palesa. La percezione della cosa è la modalità con cui il valore oggettivo si manifesta.

L’essere nel mondo presuppone l’intenzionalità. L’essere nel mondo presuppone il superamento della problematica moderna del ponte tra io e il mondo: da Cartesio in avanti il problema filosofico è come, partendo dal cogito, posso trovare il mondo. Martin Heidegger alla luce di Scheler, Di Husserl e della fenomenologia dice che noi non dobbiamo trovare il mondo, noi siamo originariamente in contatto con il mondo. Noi siamo nel mondo non solo con il nostro pensare ma anche nel nostro sentire. Il sentire è sentire il mondo. Quello che lo psicologismo non capisce è che sentire se stessi è operazione di secondo grado: non ci sarebbe sentimento di sé se non ci fosse sentire del mondo. Il ritorno a sé è sempre in seconda battuta. Il primum è l’essere nel mondo; in quanto io sento il mondo, io posso allora sentire me stesso. In quanto io mi pongo in raccordo con la realtà passando dalla potenza all’atto, così io conosco ciò che sono. L’Io conosce se stesso solo mediante le azioni.

Il movimento per cui io invece di concentrarmi sulla cosa mi concentro su di me è l’inizio di una patologia: è qualcosa di abnorme e di psicologico. Lo psicologismo conduce alla prigione dell’Io: l’Io non riesce a trovare il ponte con la realtà. Quando il perdo la direzione intenzionale verso i valori, che sono colti solo nelle cose, al-

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lora mi ritrovo come in una prigione. L’egoista è colui che si ripiega su di sé, sul suo sentire e non sui dati dell’esperienza. L’intenzionalità non può essere solo teoretica ma anche la sfera dello psichico è una sfera intenzionale. La filosofia per Scheler deve riportare in luce l’oggetto intenzionato, non può concentrarsi sulla psiche semplicemente come fa la psicologia. Se rinunciamo a questa intenzionalità allora non si potrà mai scoprire quale mondo e quale contenuto assiologico del mondo si dischiudono nel sentire, nell’amare e nell’odiare. Lo psicologismo è questa prigione dell’Io.

Husserl combatte lo psicologismo per rivalutare l’oggettività della conoscenza teoretica ma non estende questa battaglia anche alla sfera affettiva: questa è la novità di Scheler rispetto a Husserl. Ossia il concetto di intenzionalità non vale solo per il sapere teoretico ma anche per quello alogico. Scheler vuole estendere il campo della conoscenza in una forma tale che conoscere non è soltanto conoscere teoretico ma anche emozionale che è una forma diversa del conoscere. È una forma intuitiva non dimostrativa.

Se noi concepiamo soltanto il pensare come intenzionale sull’oggetto significa allora che in ogni tipo di conoscenza dovrà passare attraverso il pensare per avere un valore oggettivo e quindi anche i sentimenti e le affezioni dovranno essere mediate dal pensiero per poter avere un valore oggettivo. Ma non è di questo che secondo Scheler si tratta. Noi, in realtà, siamo sempre immersi nel mondo, facciamo da sempre esperienza del mondo che non è semplicemente l’esperienza della percezione interna, che non è semplicemente l’esperienza del riflesso sentimentale della cosa. Noi abbiamo esperienza degli oggetti e questa esperienza degli oggetti si palesa come esperienza dei valori, un’intuizione dei valori. L’esperienza che si rende sensibile nella lotta morale ci rende presente contenuti che non sono affatto presenti nel puro pensiero. L’esperienza morale ci offre dei contenuti che noi non potremmo altrimenti vedere, intuire, sperimentare. Il termine di esperienza qui è Erfahrung. Il tedesco

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distingue tra Erlebnis e Erfahrung perché l’Erlebnis è esperienza vissuta nel senso dell’esperienza che non esce dallo psicologismo. Era il limite anche di Dilthey che spiega le teorie filosofiche alla luce dell’esperienza vissuta dei singoli pensatori. Non c’è una dottrina che non abbia dietro un’esperienza vissuta. Dilthey non parla più di dottrine filosofiche ma di visioni del mondo. La filosofia diviene visione del mondo in quanto presuppone un’esperienza vissuta. Qui Scheler usa Ehrfahrung che è esperienza oggettiva.

L’appello alla trascendenza è il fatto che gli atti alogici rimandano al di là di se stessi. L’appello alla trascendenza vuol dire rompere con l’immanenza dello spirito. Gli atti di affetto, di amore e di odio rimandano al di là di sé, rimandano agli oggetti intenzionati. E una filosofia che non coglie questo tipo di conoscenza si condanna a non comprendere un’intera sfera di oggetti che altrimenti non sono manifesti. È una filosofia che riduce il campo della conoscenza. Paradossalmente il razionalismo consente di conoscere meno e ti pregiudica la possibilità della conoscenza alogico. Non capisce che anche questa è una forma di conoscenza. Non si possono conoscere i valori della cosa semplicemente con la ragione. La ragione presuppone l’esperienza l’Ehfahrung. Scheler sta ricucendo quel dualismo tra giudizi di valore e giudizi di fatto che Max Weber aveva codificato. Scheler sa andando al di là del neokantismo. La scissione tra giudizi di valore e giudizi di fatto, tra conoscenza logica e conoscenza alogica viene ricucita. Sono due modalità del conoscere che si completano l’uno l’altro ma non possono sostituirsi.

L’ordine del cuore presuppone quindi una gerarchia di valori, ossia nella percezione, intuizione emozionale viene colto un ordine dei valori. L’intenzionalità del cuore è orientato su un ordine dei valori che non viene colto in assoluto. Non è l’Iperuranio di Platone, il mondo delle essenze platoniche, ma un mondo dei valori che viene colto nel mondo delle cose. Noi percepiamo i valori mediante le cose. L’esperienza dei valori è sempre esperienza del mondo però

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questi valori hanno un valore ideale, trascendono anche le singole cose le quali sono percepite. Viene percepito un ordine gerarchico del prediligere: alcune cosa sono più importanti di altre. C’è un ordine dei valori. Scheler ha qui presente la lezione agostiniana perché è Agostino che teorizza un ordo amoris. Per Agostino il male non ha una realtà in se stesso, il male è non essere, non ha dignità ontologica; solo il bene è essere. Come nasce il male? Per Agostino il male nasce da uno stravolgimento dell’ordo amoris. Il male nasce quando io preferisco un bene inferiore nella scala ad un bene più grande. Il male è sempre uno stravolgimento di un ordine che è un ordine del bene. Nessuno vuole il male per se stesso, ognuno vuole il bene. Soltanto che questo bene diventa male in relazione ad altro non in se stesso. Questo bene diventa male quando io, per affermarlo, devo negare un bene più alto. Anche le cose buone diventano cattive quando sono riferite ad altre che sono più grandi. Scheler arricchisce il quadro agostiniano con la teoria dell’intenzionalità: è convinto che ai nostri sentimenti corrispondono dei valori. Noi siamo intenzionati su dei valori. Agostino non ha la teoria dell’intenzionalità di Scheler ma ha la teoria dell’inclinazione: per Agostino noi siamo inclinati al bene per natura la quale precede la nostra libertà che entra in gioco nel determinare i modi di raggiungimento del bene. Questa inclinazione è verso un ordo amoris. Non è un’inclinazione abbandonata ad un soggettivismo senza metro. Se noi deviamo, per Agostino ma anche per Scheler, dall’ordo amoris, l’amore si trasforma in odio: c’è uno stravolgimento dell’ordine stesso.

Se noi amiamo qualcosa di finito in maniera assoluta, si crea uno smarrimento metafisico. L’opera d’arte che viene amata in maniera assoluta, diventa come se fosse Dio, un simulacro, un idolo. Qui l’amore stravolge l’ordine: non posso consacrarmi all’oggetto che diviene l’essere in assoluto perché ne diventerei schiavo e perché non è più sano ma diventa insano, una follia. Ogni oggetto ha l’amore

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che gli conviene. L’amore deve graduare secondo la qualità e il valore dell’oggetto. Per Scheler un amore sano dovrebbe saper individuare l’oggetto nella giusta gerarchia con gli altri. Quando scambio un oggetto con un altro, inizio la corruzione dell’ordo amoris.

L’atto dell’odio è la conseguenza di un amore non retto, non corretto. L’odio non è originario per Scheler. La sfera dell’amore e dell’odio è la sfera dell’interesse. Nell’amore e nell’odio non viviamo nella sfera dell’indifferenza. “Interesse” etimologicamente significa “inter” “esse”, essere fra. Essere nel mondo significa interesse a questo sia nel senso della relazione, sia nel senso del fatto che l’essere non mi è indifferente. Scheler evidenzia il legame tra l’affezione e l’interesse. Io sono coinvolto nell’essere e quindi la sfera dell’affettività è la sfera mediante la quale noi siamo nel mondo realmente.

L’amore e l’odio condividono questa sfera dell’interesse. Per Scheler l’amore e l’odio son gli atti emozionali originari: tutta la vita affettiva secondo Scheler dipende dall’amore e dall’odio i quali sono intenzionalmente volti sulla sfera dei valori. La percezione dei valori, secondo Scheler, è una percezione extrateoretica che affonda nella vita affettiva la sua condizione di possibilità. Quindi è nell’esperienza concreta dell’amore e dell’odio che i valori si palesano nella loro oggettività.

L’odio è una conseguenza dell’amore che può essere deluso o frustrato ma l’odio presuppone l’amore. L’amore è originario, l’odio è secondario: senza l’amore non c’è l’odio. Gli atti d’odio dipendono da questa legge e ogni atto di odio è fondato su un atto di amore. L’atto di odio così come quello dell’amore hanno in comune un forte interessamento per l’oggetto in quanto portatore di valore. Questo, nel caso dell’amore, è ovvio: l’amore è interessato all’oggetto in quanto è portatore di valore.. Si ama ciò che per noi è valido, ciò che ha valore, ciò che vale. Vi è una connessione stretta tra amare e valore. L’essere nell’amore si palesa come valore e nell’amore si palesa la sfera dell’interessa. Nell’amore non siamo disinteressati

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ma coinvolti, interessati. Non siamo spettatori dell’amore ma siamo attori, protagonisti. Anche nell’odio siamo interessati. Anche l’odio ci coinvolge in una passione in cui la cosa o l’altro appare come disvalore. Anche nell’odio si entra nella sfera dei valori: qualcuno, ci ha deluso, non corrisposto, umiliato. Nell’opera Il formalismo etico e l’etica materiale dei valori Scheler scrive che l’odio è piuttosto un atto positivo in quanto in esso è dato immediatamente un disvalore. Quindi anche nell’odio c’è una percezione valoriale: ciò che l’odio percepisce è un disvalore. Esattamente come nell’atto d’amore è dato un valore positivo.

Scheler scrive che l’odio riduce a disvalore ciò che è valore, mentre l’amore opta per il bene più grande possibile. Se tu vuoi bene a qualcuno, non puoi che augurargli il bene più grande possibile. Se odi qualcuno, godi se la persona viene disprezzata: anche l’odio ha i suoi piaceri. Soffri se l’oggetto dell’odio ha una vita serena e questo ti crea un risentimento gradissimo. Proprio perché l’odio presuppone l’amore, l’amore è originario. Siamo inclinati ad amare e non odiare. Quindi entra in gioco la categoria del risentimento a cui Scheler ha dedicato un’opera. Scheler ha indagato molto sul risentimento dietro le suggestioni di F. Nietzsche che per lui tutta la morale si fonda sul risentimento. La morale, da Socrate in avanti, si fonda sul fatto che i valori dello spirito devono trionfare sui valori della natura. Con Socrate avverrebbe il ribaltamento della morale eroica dei greci consacrata da Omero e dall’Iliade per la quale solo i più forti hanno diritto a tutto. La morale platonica-cristiana porta i deboli sullo stesso piano dei forti. I malriusciti rivendicano diritti e hanno la pretesa di porsi sullo stesso piano dei forti e da qui lo stravolgimento della morale eroica che Nietzsche denuncia come la perversione dell’Occidente. Questa morale nasce dal risentimento che i malriusciti provano verso i forti e che, attraverso la morale, prendono in gabbia i potenti. La morale serve a rendere deboli i forti. Quindi la morale è la più grande astuzia con la quale i deboli inca-

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tenano i potenti. Se questi spiriti fossero così superiori, però, come riescono i deboli a ingabbiarli? Se ha diritto di comandare chi trionfa, perché Nietzsche recrimina con questi impotenti che son diventati potenti? Hanno dimostrato di seguire la volontà di potenza. Senza andare fuori di un millimetro dai principi di Nietzsche, lui non risponde mai a questa elementare domanda. Il risentimento diventa per Nietzsche il fondamento della morale perché essa stabilisce dei valori che sottomettono tutti e quindi impediscono agli aristocratici di trionfare al di là della legge perché il superuomo non ha morale, o meglio, l’unica morale del superuomo è quella che il superuomo stabilisce per sé, è la sua morale ed è la morale mediante la quale sottomette gli altri, ma la morale che sottomette tutti è semplicemente l’espediente dei più fragili che altrimenti verrebbero spazzati via dalla storia. La morale è solo la diga con cui i più deboli arginano la potenza dei potenti. E in questo c’è del vero, ma in senso del tutto rovesciato rispetto a quello che dice Nietzsche; quando Habermans dice che la morale deve tutelare anzitutto i più deboli, lo dice in senso anti-nietzscheano. I più forti si difendono da soli, i più fori non hanno bisogno della morale ma sono i più deboli che hanno bisogno di questa. Per difendersi. In questo senso la morale difende la fragilità della vita.

La critica che Nietzsche svolge alla morale viene presa molto sul serio nel suo saggio sul risentimento in cui Scheler risponde anche con arguzia e profondità ma anche con talvolta con debolezza: il clima in quegli anni era molto filo-nietzscheano. Gli anni della Prima Guerra Mondiale sono gli anni della retorica della volontà di potenza ed era molto difficile rispondere a Nietzsche che era diventato un mito. La sua follia alimenta il suo mito: il grande pensatore travolto dalla follia.

Per Scheler non è la morale che nasce dal risentimento ma è l‘odio che nasce dal risentimento. Anche l’odio ha a che fare con i valori ma con valori ridotti a disvalore. Anche l’uomo del risentimento

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amava originariamente, poi invece nell’attuale condizione odia: una persona si innamora di un’altra, non riesce a stabilire il legame che desiderava e l’odia per questo motivo. È sempre una delusione. Il risentimento è un prodotto dell’odio, ossia di un amore non ricambiato o non ottenuto. Ciò che Nietzsche pretende essere il fondamento dell’etica, in realtà, è il fondamento dell’odio. Ma d’altra parte questo era il tentativo di spiegazione che Nietzsche dava della morale. Poiché i poveri odiano i ricchi, si inventano la morale per costringerli ad essere loro pari grado. Il risentimento è una forma di odio.

L’odio non necessariamente nasce da me o da te. L’odio può nascere molto lontano da ciascuno di noi. E può essere partecipato.

Scheler si sta riferendo ai fenomeni di odio collettivo, di massa verso singoli di cui non abbiamo alcuna esperienza diretta. Solo perché altri odiano, anche noi odiamo. L’odio nasce anche dal fatto che si presume che chi detiene il potere non è la persona che deve stare in quel posto, ossia che quella persona occupa un posto di cui non è degna, che quella persona è ignobile e non meritevole. E, quindi, si scatena un processo di risentimento e di odio che può culminare anche in un processo rivoluzionario in cui la rivoluzione si nutre dell’odio verso il nemico. La rivoluzione da un lato è un processo molto astratto, dall’altro ha bisogno di singoli molto personali, moto evidenti che possono essere amati o odiati.

L’interessamento è fondamentale nei processi della conoscenza. Non esiste rapporto che non sia tra conoscenza e interesse. Gli atti della volontà che riguardano la sfera del desiderio e dell’avversione dipendono dagli atti della conoscenza. Scheler non è un volontarista, non afferma la priorità della volontà sull’intelletto perché gli atti della volontà presuppongono una conoscenza dell’oggetto. Ma gli atti dell’amore precedono quelli della conoscenza. Non è che l’atto della conoscenza è derivato dall’amore. Vi è una distinzione di atti. La priorità ideale spetta però all’amore. Nel senso che tra amore e conoscenza vi è una distinzione e anche una autonomia.

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Scheler sviluppa la sua teoria dei sentimenti che lui distingue dall’amore in senso proprio. La sfera emotiva non è riempita tutta dall’amore e dall’odio: vi sono i sentimenti che sono gli stati psichici i quali accompagnano gli atti dell’amore e dell’odio ma non si risolvono negli atti medesimi. Mentre amore e odio avrebbero a che fare con l’ordo amoris, gli stati sentimentali sono assiologicamente ciechi. Il sentimento di piacere o dispiacere non è connotato dal punto di vista assiologico: è posizione che va e che viene e che dipende da molti fattori. Possono dipendere dall’amore e dall’odio che possono provocare piacere e dispiacere tanto dal tendere quanto dal volere. Io tendo a raggiungere questo obiettivo e se lo raggiungo, ho un sentimento di piacere, se non lo raggiungo di dispiacere. Siamo appagati quando il tendere è un tendere verso qualcosa di amato.

I sentimenti non sono solo psicologia ma essi aprono, hanno un valore metafisico, sono spie della condizione umana. Se non si capisce questo, si rimane nello psicologismo col paradosso che ci sono sentimenti senza oggetto che risultano assolutamente inutili dal punto di vista etico. Non possiamo ridurre tutto ad appagamento e non appagamento anche perché l’appagamento e il non appagamento hanno a che fare con la realizzazione dell’umana natura. Sono appagato quando mi realizzo come uomo.

I sentimenti non hanno intenzionalità: questo è il punto limitato della prospettiva scheleriana. Sono l’amore ha questa intenzionalità ma non i sentimenti. Il sentimento sarebbe cieco nei confronti del valore, al contrario la passione vede il valore. Questo è il residuo del Romanticismo in Scheler Nulla è grande senza una grande passione. Ciò è vero. Ma quando dice che tutto quello che è grande lo è sicuramente senza affetto è come se la passione vera non si tramutasse in affetto: una passione che non diventa affetto è Romanticismo. È una passione che rimane dentro un fuoco che non può mai diventare forma. È l’atto che non può diventare forma. L’affetto è un processo che ha luogo nella sfera dell’Io corporeo.

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Scheler dà un contributo di grande impatto perché è come se avvenisse uno sdoganamento della dottrina degli affetti. Scheler si rende conto che la percezione dei valori non è una questione puramente teoretica ma ha a che fare con la sfera affettiva dell’uomo. In questo senso restituisce a tutta la dimensione affettiva un valore assiologico che era stato totalmente dimenticato e trascurato da gran parte del pensiero moderno. In questo egli apre certamente in quella direzione di complementarietà tra la posizione affettiva e quella teoretica. La conoscenza dell’uomo non è una conoscenza a senso unico. L’esperienza morale avviene nella convergenza tra conoscenza teoretica e esperienza affettiva. Il valore non è semplicemente un’affermazione teorica, ma è una percezione reale. Scheler è convinto che all’amore corrisponda un ordo amoris; l’amore è intenzionalmente volto su un sistema dei valori oggettivi che possono essere percepiti e quando non sono percepiti adeguatamente c’è una confusione dell’ ordo amoris che si riflette poi in una confusione dell’animo, quindi in uno stravolgimento dell’amore medesimo: Ma l’amore retto è in grado di cogliere i valori di cui i singoli enti della realtà sono i portatori. Noi cogliamo un determinato valore attraverso un determinato ente della realtà, attraverso una determinata persona, ma la persona è portatrice di valori come tale. Attraverso l’esperienza affettiva Scheler pone un rapporto di relazione costitutiva tra l’Io e il mondo o tra l’Io e l’altro. L’intenzionalità non è soltanto nella sfera conoscitiva teoretica, l’intenzionalità è nella sfera pratica-affettiva.

La nostra affettività è orientata fuori di noi, è orientata a percepire una realtà oggettiva che è fuori di noi. Scheler svilupperà il tema del rapporto nel suo trattato sulla simpatia dove metterà a fuoco la relazione “ io tu” per la prima volta come dimensione fondamentale. Scheler arriverà a teorizzare la simpatia come relazione io-tu proprio a partire dall’intenzionalità della sfera affettiva perché la sfera affettiva mi pone in una correlazione fuori della mia struttura psi-

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chica, mi fa uscire dalla mia solitudine e mi pone in una relazione originaria con la sfera dei valori che viene esperita nel mondo. Sia in Brentano che in Scheler c’è il tentativo di uscire dal solipsismo, di uscire da una posizione per la quale l’Io veniva confinato in una prigione; in quella prospettiva rientrano anche le varie riflessioni sull’empatia che caratterizzano la scuola etnologica degli Anni Dieci e la riflessione di Edith Stein. L’empatia è la dimensione fondamentale per la possibilità di un’esperienza morale a punto che se non c’è questa esperienza empatica, non c’è un’esperienza morale. L’empatia è la capacità di immaginare quello che l’altro sente, è la capacità di porsi al posto dell’altro, è la capacità di immedesimarsi. Non c’è esperienza morale se non c’è empatia.

La riflessione sull’ordoamoris e sull’amore e conoscenza servono ad allargare l’antropologia e la conoscenza morale. Per Scheler si dà una conoscenza morale soltanto a partire da una rivalutazione emotiva la quale non è semplicemente irrazionale ma ha un’intenzionalità oggettiva verso un vero e proprio ordine dei valori. La posizione di Scheler presenta una sorta di dualismo tra l’ambito del conoscere e l’ambito del cuore. L’affermazione di Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”» è certamente un’affermazione intrigante e che ha un suo fondamento di verità però ci pone di fronte al problema: quale ruolo svolge la conoscenza teoretica? In Scheler questa domanda rimane in sospeso nel senso che lui ribalta in senso forte la conoscenza emotiva però lascia in sospeso quale è il ruolo della conoscenza teoretica nella posizione morale. È vero che il cuore intenziona, però non possiamo dire che è infallibile e su questo punto Scheler è un po’ fragile: il dualismo che egli pone tra l’ambito della conoscenza e l’ambito affettivo è troppo rigido, è troppo marcato. Ciò che è importante è, tuttavia, evidenziare l’importanza che Scheler ha dato alle emozioni e all’amore quale sorgente dell’essere.

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L’IMPEGNO, ANTIDOTO ALLA DISPERAZIONE

TERESA SIMEONE

La condizione dell’uomo contemporaneo, col suo carico d’inadeguatezza e di precarietà, forse da pochi è così drammaticamente analizzata come da Günther Anders, il cui principio disperazione ne caratterizza la polemica e contro il mondo della tecnica e contro il suo protagonista, per lui irrimediabilmente affetto dalla sindrome di Prometeo.

Anders-Stern, pensatore controcorrente, difficilmente collocabile in una corrente o identificabile con un’ideologia, rappresenta una voce libera, originale e sempre attuale benché calata nel contesto novecentesco da cui trae alimento per una critica alla sua boriosa e devastante ὕβϱις. Le perplessità riguardo al potenziale distruttivo e autodistruttivo slatentizzato nella seconda guerra mondiale, con la pianificazione tayloristica dello sterminio nonché l’irreversibilità dell’uso nucleare su Hiroshima e Nagasaki seguito al progetto Manhattan, definiscono il punto di non ritorno con il quale, secondo Anders, la riflessione filosofica deve fare i conti.

Paradigmatica, in tal senso, la critica amara più volte espressa alla civiltà delle macchine: nella ricerca del dominio su una natura che avrebbe voluto inizialmente soltanto assoggettare per poterne controllare gli effetti negativi, l’uomo ha poi finito per creare un’asimmetria tra i prodotti che ha costruito e la capacità di immaginarne la possibile distruttività, diventando inadeguato rispetto alla sua stessa tecnica e cieco di fronte all’apocalisse. E, ormai obsoleto e antiquato riguardo al mondo “oggettuale” da lui creato, non può che avvertirne la vergogna.

Arrivato a costruire ciò che può annientarlo, incurante della minaccia incombente e avvolto nel vortice di un’ossessione consumi-

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stica per cui ciò che può essere prodotto deve essere prodotto e ovviamente ciò che può essere prodotto deve essere usato, ha finito per sperimentare la possibilità dell’annichilimento, non solo per se stesso, ma per l’umanità intera. La bomba atomica, sganciata in Giappone nell’agosto del 1945, rappresenta una possibilità realizzata che – è questo il fatto tragico – non preserva dall’eventualità che possa essere riutilizzata. Proprio tale probabilità deve far sì che noi teniamo viva la coscienza e vigiliamo ogni giorno perché se un evento passato è finito, non è finito il “disegno” che l’ha permesso. Auschwitz, Hiroshima, Nagasaki, che hanno infettato l’“umanità” civilizzata, rappresentano, perciò, situazioni-limite pericolosissime, segnando la mutazione dell’uomo novecentesco, non più incosciente della realtà del proprio Thanatos. «Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che visianomaipenetrati),equestodifattoèaccaduto.Ma,alcontrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità»1.

La ballata di Goethe che racconta dell’apprendista stregone, incapace di fermare l’incantesimo avviato, rimane ancora la metafora più efficace a descrivere un meccanismo che l’uomo ha avviato e i cui esiti ormai non è più in grado di controllare.

Sappiamo bene che il Famulus di Der Zauberlehrling può essere chiunque di noi e che arriva sempre il momento in cui chiameremo, disperati, il Maestro perché corra in nostro aiuto con la formula della ritrasformazione e riporti la scopa alla sua natura originaria, ma ciò che manca è la certezza che ci sia sempre un Maestro e che faccia in tempo ad aiutarci prima della catastrofe.

Niente – è questa la consapevolezza dell’era postatomica – è ormai più inevitabile.

Ciò vale – aggiungiamo noi – anche per qualsiasi costruzione umana, sociale, politica. Nonché, ovviamente, per l’imprevedibilità di una natura che, d’improvviso, può scatenare un’emergenza sanitaria mondiale. I fatti di Capitol Hill e la recrudescenza di episodi

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di razzismo, di suprematismo, di antisemitismo in tutto il mondo stanno ad ammonirci che niente è eternamente dato, neppure nella civiltà del terzo millennio, e che ciò che sembrava impossibile è sempre realizzabile. Allo stesso modo di pestilenze che possono ritornare a mettere in crisi i nostri modelli di vita e di società.

Una volta che l’homo faber – ritornando ad Anders – ha scoperto il proprio potenziale e lo ha attualizzato in oggetti che usa e che può riprodurre, ha iniziato a percorrere una strada da cui non può più tornare indietro, anche perché la vita nell’industria culturale di massa lo spinge a continuare a produrre, ad usare ciò che produce e a consumarlo in un parossismo che obnubila la sua coscienza, alienandolo rispetto a se stesso e spegnendo ogni intelligenza critica su cosa stia facendo e su dove stia andando. L’inserimento nel meccanismo di una produzione in cui si conosce soltanto ciò che si fa e non l’intero processo serve proprio ad annullare reazioni individuali e a indurre deresponsabilizzazione.

I prodotti tecnologici che ha costruito, e attraverso i quali si interfaccia con la realtà, finiscono per diventare, per lui, la realtà stessa e quegli oggetti che dovrebbero dargli sovranità, i suoi padroni. I mezzi di comunicazione di massa e la televisione, invece di aprirlo, lo portano a rinchiudersi volontariamente in un recinto e a renderne appetibile l’isolamento.

In questo, Anders è stato profetico: se sostituiamo il televisore con lo smartphone e aggiungiamo ai mezzi di comunicazione i social network, ci renderemo conto di quanto sia attuale la sua disamina. Tutta la nostra vita – ne abbiamo anche fatta esperienza con la pandemia – potrebbe svolgersi tra le quattro mura. Le notizie dal mondo ci arrivano in casa senza che noi dobbiamo uscire. Non c’è bisogno di condividere fisicamente con gli altri gioie, emozioni, cultura: tutto, nel rassicurante focolare domestico, è a disposizione e senza sforzi. Siamo eremiti di massa: viviamo quello che vivono gli altri, pensiamo e sogniamo quello che gli altri pensano e sognano,

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viviamo la vita degli altri ma senza gli altri. Ciò che Anders non poteva, invece, immaginare è che questa irrealtà diventasse realtà. Oggi lo spazio sociale non è meno vero di quello fisico e le relazioni sono possibili anche a distanza, tanto che tra OnLine e OffLine, il filosofo Luciano Floridi, per rappresentarne l’ibridazione, ha coniato il termine Onlife.

Il tabù mediafagocitante di qualche tempo fa è stato elaborato fino a essere superato da una vita non più percepita, scandalosamente, come immersa nel web ma socialmente accettata. Tutto è interconnesso. Lo stesso cellulare non è più soltanto un oggetto che usiamo per chiamare chi è lontano ma è il prolungamento dell’essere nel mondo. È la nostra finestra sull’esterno.

L’uomo, però, in questa narcosi intellettiva, come ammoniva Anders, non si rende conto della propria progressiva perdita di storicità. La sua coscienza è sommersa dal presente e la quotidianità costantemente centrata sul consumo dei prodotti tecnologici che ne invadono ogni aspetto e lo trascinano in una ripetizione meccanica che gli fa perdere il senso del succedersi degli eventi.

Non vive neppure proiettato verso il futuro, schiacciato com’è su un’istantaneità che continuamente lo supera. Non meditando su di essa e non potendo analizzarla e comprenderla, non gli resta che subire la storia, in un’incoscienza senza memoria e senza critica. Pressato dal continuare a produrre oggetti e a consumarli, è sempre meno capace di riflettere sul proprio destino. Attualizzando, il suo è il nostro tempo, inconsistente ed effimero. Il tempo di un clic, di un like. Il tempo dei social.

In questo mondo dominato da un progresso tecnologico inarrestabile, minacciato da strumenti che ne rappresentano la possibilità dell’annichilimento fisico (nucleare) e psicosociale (mezzi di comunicazione), c’è una speranza di salvezza? Anders era totalmente pessimista sul futuro, anche se la sua vita lo vede assumere posizioni precise, in un attivismo che nega l’apparente rassegnazione. Nono-

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stante la disperazione, che potrebbe precludere a un nichilismo schiacciato su posizioni rinunciatarie, c’è, nelle sue esperienze, il tentativo comunque di dare una risposta, non tanto speculativa, quanto pratica, all’autodistruzione dell’uomo che sente inevitabile. Quando intraprese la nota corrispondenza con Claude Eatherly, l’aviatore statunitense che partecipò alle operazioni preliminari allo sganciamento della bomba atomica su Hiroshima e cadde poi in uno stato di profonda depressione, Anders cercò sinceramente di aiutarlo.

Ciò che lo spingeva ad avventurarsi in un mondo così complesso e delicato era la necessità di esplorare l’anima di chi è schiacciato dal peso di scelte drammatiche fatte da altri, ma che ricadono inevitabilmente sul proprio vissuto, come fece anche nei confronti di Klaus Eichmann. Le conseguenze di tragedie dagli effetti devastanti mettono spesso in evidenza l’inadeguatezza degli strumenti emotivi e psicologici a disposizione ma possono diventare anche occasione per chiarire il mostruoso che è in ognuno di noi. E indicare una via di uscita.

Anders fu antimilitarista convinto; s’impegnò nel movimento antinucleare internazionale e partecipò al Tribunale Russell contro la guerra in Vietnam, quasi a sottolineare il bisogno comunque di far seguire, alla denuncia del male, la richiesta di antidoti, l’attivazione di meccanismi di difesa, la necessità, attraverso l’accensione della paura, dell’agire sulla disperazione paralizzante.

«Adesso, però, conosco angosce più grandi e compirò questa mossa anche se in tal caso dovessi rompere l’obbedienza nei Tuoi confronti o se Tu revocassi la Tua protezione su di me. La salvezza del mio prossimo mi sta più a cuore dell’acquiescente certezza della mia obbedienza»2 dice Noè a Dio, per strappare qualche altro giorno al diluvio, supplicandolo «di prolungare la scadenza finché coloro che oggi sono troppo ciechi per poter vedere la propria cecità possano presentarsi al Tuo cospetto dopo aver riacquistato la vista, e quelli che sono ancora troppo sordi per poter udire il Tuo avvertimento possano riacquistare l’udito»3.

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Anders non si limita, cioè, a evocare una speranza generica e vaga che rischia di bloccare l’agire4 né si abbandona a uno sterile sconforto, ma mobilita una consapevolezza realistica che stimoli risposte efficaci e praticabili. E lo faccia prima che i disastri avvengano: «E se Noè non avesse trovato il coraggio di sollevarsi contro l’ignavia, di recitare la commedia, di comparire in sacco e ceneri, di rovesciare il tempo, di versare le lacrime in anticipo e d’intonare benedizioni funebripercolorocheancoravivevanoequellichenoneranoancora nati, non soltanto l’Arca […] non sarebbe mai stata costruita; ma anche noi non saremmo qui, noi, i suoi pro-nipoti e nessuno di noi avrebbe mai avuto la gioia di ammirare la bellezza del mondo rifondato; e anche Dio non regnerebbe sul suo creato bensì su lande ammutolitechel’avrebberoannoiatosenzarequiepertuttal’eternità»5.

Contro la cecità di una coscienza che chiude gli occhi all’eventualità della catastrofe, ricorda che abbiamo una possibilità. «Non essere vile, abbi il coraggio di aver paura!» scrive in Essere e non essere. La paura è preventiva e, perciò, protettiva. La paura ci salva.

Il suo è sì pessimismo, ma vigile: un appello alle coscienze affinché superino l’ottundimento etico, l’effetto anestetizzante del divertissement e s’impegnino nell’azione; una scossa agli indifferenti e un pungolo agli “ottimisti di professione”, per usare un’espressione di Bobbio.

È un richiamo all’impegno non un cedimento al disimpegno. È disperazione, non resa.

NOTE

1 GÜNTHER ANDERS, L’uomo è antiquato, II Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, p. 377.

2 GÜNTHER ANDERS, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, Trieste, Asterios, p. 29.

3 Ivi, p. 27.

4 Günther Anders, Violenza sì, violenza no. Un dibattito necessario, Istrixistrix @libero.it, Nessuna proprietà, p. 9.

5 GÜNTHER ANDERS, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, op. cit,, pp. 53-55

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MISTER TANATÒ

(IL DESTINO, L’ESSERE E LA LEGGE EMPIRICA DEI GRANDI NUMERI)

ROSARIO D’AMICO

I più non trovano spregevole credere a questo o a quello e vivere in conseguenza, senza essersi resi conto prima delle ragioni ultime e più sicure in pro o contro e senza anche solo darsi la pena, dopo, di ricercare tali ragioni, –anche gli uomini più dotati e le donne più nobili appartengono a questi «più». Ma che rappresentano per me la bontà di cuore, la finezza e il genio, se l’uomo di queste virtù tollera in sé sentimenti fiacchi nel credere e giudicare, se il desiderio della certezza non costituisce per lui la brama più intima e la necessità più profonda, – come ciò che distingue gli uomini superiori da quelli inferiori?

F. Nietzsche, La Gaia Scienza

Sommario

Lo scopo di questo lavoro è quello di elaborare un significato pratico del termine «possibile», che possa poi diventare una chiave di lettura utile per tentare di decifrare la natura e il funzionamento del cosiddetto Essere, ossia dell’essere in sé, della realtà sottointesa, di ciò che c’è dietro a ciò che è. Grazie a questo strumento ermeneutico insieme conla singolare esperienza esistenziale di Mister Tanatò, il protagonista immaginario di questa trattazione, interpreteremo l’Essere come tutto ciò che è pre-destinato – cioè come l’insieme delle condizioni fondamentali per(ché ci sia) il tale essente o il nulla – e la realtà sensibile come tutto ciò che è destinato – cioè come l’avvicendamento delle evoluzioni guidate dell’Essere –. Infine, allo scopo di confermare e approfondire i risultati che avremo raggiunto, forniremo una soluzione sia all’ipotetico paradosso della predizione, in cui l’apparente antinomia sta nell’ammettere che si

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possano fare predizioni successivamente falsificabili, sia ad un interessante problema probabilistico.

Parole-chiave. Destino, Esistenza, Essere, Predizione, Probabilità, Possibilità.

Abstract

The aim of this paper is to give a practical meaning to the term «possible», which can then become a useful reading key to attempt to decipher the nature and functioning of the so-called Being, that is, of being-in-itself, of the reality implied, of what there is behind what it is. Thanks to this hermeneutic tool together with the singular existential experience of Mister Tanatò, the imaginary protagonist of this treatment, we will interpret the Being as all that is pre-destined - that is, as the set of fundamental conditions for (there to be) such being [essente] or nothingness – and sensitive reality as all that is destined – that is, as the rotation of the guided evolutions of the Being -. Finally, to confirm and investigate the results we have achieved, we will provide a solution both to the hypothetical paradox of prediction, in which the apparent antinomy lies in admitting that predictions can be subsequently falsified, and to an interesting probabilistic problem.

Keywords. Being, Destiny, Event, Existence, Prediction, Probability.

1. Introduzione

Che cos’è la realtà? La filosofia, fin dai suoi esordi, ha affrontato questo problema che verosimilmente ha avuto origine dalla semplice constatazione che tutto intorno a noi è soggetto ad un incessante e costante divenire, ad un perpetuo svolgersi nello o dello spazio-tempo: l’acqua gela e diventa ghiaccio, gli astri cambiano po-

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sizione in cielo, gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono e così via.

Qualunque sia o sia stata la soluzione a tale quesito proposta da questo o da quel pensatore, la questione di fondo su cui bisogna soffermarsi è quella del mutamento e quindi della possibilità di conciliare l’idea dell’essere in sé (cioè, la realtà sottointesa) con la varietà delle forme con cui essa si presenta. In altri termini, si tratta di condensare elementi di queste due posizioni in una sintesi che renda conto tanto dei molteplici fatti dell’esperienza quanto delle esigenze di invarianza proprie della ragione.

A ben guardare, le cose1 si dicono anche e in questo dire il nostro rapporto con esse occupa un posto importante. Esse sono oggetto dei nostri pensieri, delle nostre interpretazioni e, perciò, di riflessioni che, a loro volta, possono mutare nel tempo. Neanche la rigorosa razionalità scientifica può offrirci certezze assolute e immutabili sulla realtà, ma ci fornisce solamente una buona analisi dei fenomeni naturali così come ci appaiono, senza alcun impegno per la verità di ciò che provoca quei fenomeni o apparenze. Nessuna teoria o legge generale può infatti essere verificata, poiché resta sempre un’affermazione di generalità illimitata su entità che non fanno parte dell’universo, idealizzate, sebbene derivino da quelle che vi sono comprese, e qualsiasi numero di esiti positivi della teoria, per quanto grande sia, sarà sempre finito e, di conseguenza, insufficiente a garantire la sua veridicità al di là di ogni dubbio. Si scopre quindi che tra realtà e pensiero non c’è opposizione, ma unità originaria: in quell’incerto ed enorme scenario (il mondo sensibile, che d’ora in avanti verrà chiamato “il Mondo”) in cui tutto – sia le cose che i nostri pensieri su di esse – è in costante mutamento e movimento. Il Mondo si vede obbligato a divenire il suo proprio essere a poco a poco senza interrompersi mai, per affrontare il futuro che è nuovamente e soltanto possibilità: possibilità di divenire. Esso si trasforma, e con lui in un rapporto reciproco, si trasforma, impropriamente o propriamente, anche l’uomo.

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Sembrerebbe allora che la sola essenza attribuibile all’essente –i.e., all’insieme non vuoto formato da tutte le cose concrete, da tutto ciò che tangibilmente è – e al nulla2 risieda nella loro impossibilità di riposo, nella loro assoluta mancanza di sosta. Il divenire costituirebbe, in definitiva, l’essere intimo di tutto quello che appartiene al Mondo, l’imperitura dimensione alla quale sottostare se si vuole conseguire una conoscenza certa. Ma cosa nascondono l’essente e il nulla che provochi questo divenire e in che modo esso si svolge? La risposta a quest’ultima domanda va sicuramente ricercata in ciò che nel Mondo ancora non è ma mira legittimamente ad essere –ovverosia non è da escludere che si presenti –, nel mediatore tra il non-reale ed il reale: in ciò che è possibile.

Ladomanda filosofica di base allora è la seguente: Che cosa è la possibilità? In altre parole, eccetto i casi ovvi3, vi è un significato oggettivo nel dire che un dato evento è possibile? Se sì, è vero che la possibilità di realizzarsi di un evento è misurabile numericamente – da quello che i matematici chiamano probabilità – e quale è il senso concreto di questa affermazione? In sintesi: con che frequenza una certa cosa potrebbe apparire, appare o apparirà nel Mondo?

Molti testi anche quelli che si occupano di probabilità trascurano o trattano marginalmente l’argomento possibilità e più di una volta le loro formulazioni sono fuorvianti.

È dunque opportuno risvegliare la comprensione del senso di questo problema. Ed è ciò che sostanzialmente ci prefiggiamo di fare nelle tre sezioni che compongono questo scritto. Nella prima sezione raggiungeremo l’obiettivo intermedio del presente lavoro, che è quello di elaborare un significato del termine «possibile» che possa poi giocare un ruolo centrale ed ermeneutico nel processo di comprensione dell’essere in sé, del consistere, di ciò che c’è dietro a ciò che è. Nella seconda, punteremo al suo traguardo finale che consiste nell’interpretazione dell’essere in sé come l’Essere – ossia come tutto ciò che è pre-destinato, come l’insieme delle condizioni

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fondamentali per(ché ci sia) il tale essente o il nulla – e del Mondo come tutto ciò che è destinato – cioè come l’avvicendamento delle evoluzioni guidate dell’Essere –. Nella terza e ultima sezione, al fine di confermare e approfondire i risultati conseguiti nel paragrafo precedente, proporremo una spiegazione dell’ipotetico paradosso della predizione, in cui l’apparente contraddizione sta nell’ammettere che ci sia qualcuno in grado di fare predizioni che dopo potremmo vanificare. Infine, dopo alcune osservazioni conclusive, risolveremo in appendice un avvincente problema di matematica, mostrando come le considerazioni sulla possibilità che nel frattempo avremo sviluppato possono rivelarsi utili anche nel campo di applicazione della teoria delle probabilità.

2. Essente o nulla?

Martin Heidegger in Einfürung in die Metaphysik (Introduzione alla metafisica) considerava la domanda: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?»come la più vasta – perché comprende sia tutto l’essente nel suo senso più ampio, a prescindere cioè dal contesto spazio-temporale nel quale si trova, sia il suo opposto: il nulla; non abbiamo nessun’altra opzione –, la più profonda –perché ha per fine il fondamento dell’essente in quanto tale –e la più originaria –perché concerne l’essente nella sua totalità senza indicare alcuna preferenza di genere –tra le domande che l’uomo può porsi4. Tuttavia, come è evidente, formulare questo interrogativo è un atto inutile e superfluo, almeno fin quando si debba tacitamente ammettere, non potendolo di fatto escludere, che l’esserci dell’essente al posto del nulla possa essere stato un caso, una circostanza accidentale, o peggio, finché debba ritenersi che l’essente e il nulla possano sempre essere ambedue possibili stati del Mondo, oltre naturalmente a doversi presentare, l’uno o l’altro, con certezza e separatamente.

Ma se guidati dal ragionamento trovassimo, al contrario, che sempre o l’essente o il nulla fosse inattuabile nel nostro Mondo feno-

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menale - così come parrebbe essere il nulla, giacché abbiamo fatto e continuiamo a fare esperienza che c’è qualcosa di materiale anziché niente –, allora avrebbe più senso indirizzare i nostri sforzi verso la scoperta di ciò che rende impossibili o certe tali situazioni. In tal caso, infatti, la suddetta questione assumerebbe un’importanza imprescindibile e centrale, potendo ricevere una risposta appropriata e non ambigua. E l’uomo vuole e cerca sempre una ragione univoca per cui succedono determinate cose.

A fronte di quanto appena detto, sappiamo noi se, nello stato attuale delle cose, il nulla è o no un evento impossibile? Niente affatto.

Lo scopo di questo paragrafo è quello di provare che nulla ed essente non sono mai entrambi eventi possibili, ma sistematicamente l’uno è un evento certo e l’altro un evento impossibile o viceversa.

Definizioni e risultati preliminari

Prima di entrare nel vivo dell’argomentazione, è necessario preliminarmente concentrarci su due concetti chiave, a cui abbiamo già accennato e di cui tratteremo subito, che sono strettamente correlati: evento e possibilità. Iniziamo dunque la loro esposizione con l’enunciazione delle fasi principali in maniera generale, in modo che il lettore possa abbracciare con una rapida occhiata la sequenza dei ragionamenti.

i) Introdurremo le definizioni di evento e di prova, concetti base per chi, come noi qui, vuole o è costretto a navigare nel mare aperto di una realtà incerta e sfuggevole dove il ragionamento, la previsione e il calcolo sono spesso soggetti al dubbio e al rischio. Faremo infine vedere che ogni accadimento, sia a priori (i.e., l’evento – secondo la sua accezione abituale e più ristretta –) sia a posteriori (i.e., il fatto), possiede la caratteristica di essere casuale, certo o impossibile, essendo il fatto nient’altro che un tipo di evento.

ii) In stretta connessione con quanto esposto nel precedente punto, definiremo innanzitutto il concetto di possibilità di un 100

evento. Prenderemo poi in considerazione tra gli enti5 quelli, chiamiamoli viventi, che esistono, per i quali cioè il poter morire, l’essere-per-la-morte non è solo un modo di essere che caratterizza strutturalmente la loro condizione di esistenti, ma costituisce anche e soprattutto il fondamento ontologico del loro esserci, del loro esistere. Sfruttando questa prerogativa degli esistenti in combinazione con la nostra immaginazione e con le nozioni di evento e di prova che avremo fornito, metteremo in scena il personaggio di «Mister Tanatò», un poveruomo che diverrà, suo malgrado, il protagonista involontario di un pericoloso gioco d’azzardo, potenzialmente mortale, dal quale emergerà un significato pratico della possibilità di un evento.

Esaminiamo ora, in maggior dettaglio, i singoli elementi di questa sequenza.

i) La nozione di evento che qui adottiamo si può riassumere in tre punti fondamentali:

ε1) Per evento, s’intende un qualcosa che si riferisce totalmente ed esclusivamente ad un ben definito insieme (o classe) di condizioni6, tale che, quando si realizza questo insieme di condizioni, il qualcosa diventa un fatto di cui possiamo stabilire se si è o no verificato (presentato)7;

ε2) Un evento può essere casuale, certo o impossibile. Quando si parla di casualità, certezza o impossibilità o di qualche evento, s’intende sempre casualità, certezza o impossibilità rispetto al set di condizioni cui l’evento si riferisce8;

ε3) Quando si afferma che un qualche evento A è casuale s’intende che l’insieme di condizioni C, o più brevemente insieme C o solo C, cui l’evento A si riferisce, contiene l’intera classe di ragioni necessarie e sufficienti perché non vi sia alcun modo immanente di prevedere se A si verificherà o meno al realizzarsi di C 9. L’evento A è invece certo (impossibile) rispetto a C, se l’insieme C comprende le

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condizioni necessarie e sufficienti perché A si verifichi (non si verifichi) al realizzarsi di C.

La singola realizzazione dell’insieme di condizioni C, detta prova diC, può comprensibilmente svolgersi, almeno mentalmente, o un numero di volte arbitrariamente grande – in questo caso si parla di prova ripetibile diC –o una sola volta, quando cioè coincide con una totalità di prove ripetibili. Le varie prove, essendo soltanto ed esattamente singole realizzazioni di uno stesso insieme di condizioni, non possono che essere tutte identiche e mutuamente indipendenti, nel senso che il risultato di ciascuna di esse non influenza e non è influenzato in alcun modo da quello di un’altra o delle altre. L’insieme di tutte le prove fisiche o concettuali di C (i.e., di tutte quelle pensabili) verrà indicato con HC. HC è pertanto un singoletto10 o un insieme infinito numerabile.

Relativamente ad ogni singola prova, la certezza, la casualità e l’impossibilità sono qualità che non si limitano agli eventi, ma si estendono pure ai fatti; esse, di conseguenza, sono proprietà applicabili non solo a proposizioni concernenti avvenimenti futuri, ma anche a proposizioni che descrivono avvenimenti passati o presenti. Ciò si può provare agevolmente nel modo seguente: Supponiamo, senza perdita di generalità, di non sapere quale tra gli eventi casuali A e -A11 dell’insieme di condizioni C sia quello che presentandosi ha provocato il verificarsi di un certo accadimento B. Poiché B si è presentato inevitabilmente assieme a uno e a uno solo dei due eventi A e -A, si hanno le seguenti e contrastanti ipotesi:

H1: «Il fatto A è vero» e H2: «il fatto -A è vero».

Ora, a causa di ε1, deve potersi effettuare almeno (concettualmente) un test T – fosse solo una verifica diretta –che permetta di appurare se A si è o no presentato e, quindi, di controllare quale tra le ipotesi H1 e H2 è comprovata e quale è smentita. Si determinano così gli eventi complementari:

Ĥ: “l’ipotesi H2 è confermata” e Ĥ: “l’ipotesi H1 è confermata”, tutti e due inerenti all’insieme di condizioni Ĉ costituito dalla

-

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condizione «C si è realizzato» e da tutte le altre condizioni che, congiuntamente, definiscono le proprietà del test T e le modalità tecniche della sua esecuzione. Si noti inoltre che, per sua natura, l’evento Ĥ (-Ĥ) si presenta in una data una prova di Ĉ solo e soltanto se l’evento A (-A) si è già verificato nella corrispondente prova di C. Dalla verità delle premesse Ĉ non segue allora necessariamente quella della conclusione Ĥ o -Ĥ, perché A e -A sono entrambi eventi casuali di C e il loro verificarsi, siccome antecedente alla costruzione del test T, prescinde assolutamente da ogni sua (di T) caratteristica e specificità; per cui sia Ĥ che -Ĥ sono eventi casuali rispetto a Ĉ12 .

D’altra parte, come si constata facilmente, l’elemento «C si è realizzato», che compone il singoletto ĈH, è condizione necessaria e sufficiente non solo perché le ipotesi H1 e H2 abbiano senso, cioè siano, ma anche perché sia impossibile prevederne l’esattezza o la falsità allorché si è realizzato C o, il che è lo stesso, ogniqualvolta si realizza ĈH13. Ciascuna delle ipotesi H1 e H2 soddisfa quindi tutti e tre i requisiti ε 1, ε 2 e ε 3 sopra riportati e caratterizzanti la nozione di evento, ed è perciò un evento, nella fattispecie casuale, rispetto all’insieme di condizioni ĈH.

In definitiva, quel qualcosa che chiamiamo fatto non è altro che un peculiare tipo di evento e in quanto tale è casuale, certo o impossibile.

Ciò che è accaduto deve ancora accadere. Il fatto reale, la cosa che appare (non che sembra essere) a qualcuno, e che quindi appare nel Mondo, è dunque il risultato oggettivo dell’interazione tra due fenomeni: qualcosa che si osserva e la conoscenza – i.e., l’insieme di condizioni – che si ha di questo qualcosa14. Ne segue che il divenire (l’apparire) non ha una verità indipendente da sé stesso; esso è pertanto unico, costituendosi come realtà (come condizione realizzata o realizzabile) nel medesimo tempo in cui appare.

ii) Il punto di partenza argomentativo dell’analisi che verrà svolta in questo riquadro consiste, come anticipato, nella definizione di

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evento possibile sulla base di quanto appreso sopra, nel rettangolo (i). Diremo che un evento A è possibile rispetto ad un insieme C di condizioni se e solo se esso è un evento certo o casuale di C. Ne consegue che A e -A sono entrambi eventi possibili di C se e solo se ognuno di essi è un evento casuale di C.

Tra i vari eventi possibili ve n’è uno che merita senza dubbio la nostra attenzione poiché ci riguarda tutti molto da vicino, riguarda cioè l’esistente-uomo e in generale ogni esistente: l’evento della morte. Il non essere ancora andato e il poter andare ogni attimo incontro alla morte è difatti la caratteristica più propria, imprescindibile e insuperabile di ogni vivente, di ogni cosa che esiste e specialmente dell’uomo, essendo quest’ultimo l’unico essere ad avere abbastanza consapevolezza di sé da turbarsi per il fatto di dover morire. Se io sono nel Mondo, la mia morte non è, e quando la mia morte è io non sono più nel Mondo. L’esistenza e la morte di un essere vivente in un dato momento τ sono allora due eventi complementari rispetto alla classe di condizioni la cui realizzazione determina ciò che appare nel Mondo al tempo τ.

Vivere è dunque essenzialmente esistere, essere stabilmente evento15, ossia una specie di continuo tirarsi fuori da ciò che si è, un perenne uscire da sé stessi parzialmente o totalmente, in modo ordinario o eccezionale, per divenire nuovi esistenti o per morire, per essere lanciati verso l’istante successivo di un Mondo il cui svolgersi temporale, anche questa volta, produrrà il «nuovo» e conserverà il «vecchio», il cui interno sarà ancora tutto composto da condizioni che generano eventi possibili, inclusi gli eventi dell’esserci e del mancare di ogni essere vivente, di ogni elemento dell’esistente. Per le altre cose concrete, le non-esistenti, – quelle cioè che non muoiono ma semplicemente finiscono, scompaiono –, appartenere all’essente significa soltanto staticamente esserci, essere presenti. Tali cose, a differenza di quelle che esistono (dei viventi), non sono costantemente in cammino, non hanno nel dover migrare verso un

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altro essere il dato originario e costitutivo della propria natura; esse, in altri termini, non sono eventi, soggetti quindi a possibilità o ad impossibilità, ma al più elementi che compongono eventi, non possono attivamente diventare altre cose ma solamente subire modificazioni16.

Siamo adesso in grado di provare il seguente importante risultato:

R1) Sia A un evento rispetto ad un ben definito insieme C di condizioni. Se A è un evento possibile di C, allora A si verifica in almeno una prova di C e viceversa.

Dim: La proprietà è evidente se A è un evento certo o impossibile di C. Supponiamo allora che a Mister Tanatò, uomo condannato a morte, venga data la possibilità di evitare la pena capitale in un modo del tutto svincolato dalla sua volontà. Precisamente, verrà lanciata una moneta M (classe di condizioni C): se esce TESTA (evento casuale A), Mr. Tanatò avrà vinto la sua sfida per la vita e proseguirà la sua esistenza; se invece esce CROCE (evento casualeA), gli verrà prontamente somministrata per via endovenosa una sostanza letale che lo ucciderà all’istante.

In assenza di ulteriori informazioni, non può escludersi che, nell’istante di tempo τ2 immediatamente successivo al lancio della moneta M, il condannato Tanatò abbia vinto la suddetta scommessa e, dunque, sia riuscito a sopravvivere, sfuggendo al proprio carnefice. Infatti, per quanto mostrato nel punto (i), A, poiché è un evento casuale rispetto a C, è anche un fatto casuale rispetto al singoletto {«C si è realizzato»}. Mr. Tanatò potrebbe allora ritrovarsi membro di uno specialissimo cerchio Č di mutate condizioni, dell’essente nell’attimo τ 2 , finendo così costretto a ricrearsi come evento rispetto a Č, – e quindi a seguitare o a cessare di esistere al realizzarsi di Č –, andando incontro, incorporandole,

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ad una o più possibilità che gli vengono offerte o imposte. Sicché, nel momento τ2, il Mondo deve includere un insieme di condizioni Č1 in relazione al quale l’esistenza di Mr. Tanatò è un fatto casuale. D’altra parte, essendo l’eventualità della propria morte la prerogativa di ogni essere vivente (esistente), affermare, nell’istante τ2, l’impossibilità del fatto esistenziale di Mister Tanatò, del suo appartenere all’essente, del suo poter morire o dover migrare da sé verso un altro essere, verso un suo esistente-discendente, verso tutte le altre possibilità che altrimenti lo avrebbero riguardato, equivarrebbe logicamente ad annunciarne sempre l’avvenuto decesso, ad asserire (sempre) che, in τ2, Mr. Tanatò non è più nel Mondo, e dunque a sostenere che si sia realizzato l’insieme di condizioni Č2: «l’evento -A si è verificato in ogni prova dell’insieme HC, i.e., in ogni possibile (pensabile) lancio della moneta M».

Pertanto, per evitare di trovarci di fronte ad una antinomia 17 , vista l’arbitrarietà nella scelta di Mr. Tanatò e dell’esperimento casuale (lancio di M) che lo vede quale spettatore interessato, siamo obbligati a riconoscere la veracità dell’enunciato R1, che è così un teorema.

Eccoci così giunti al nocciolo del nostro ragionamento. Abbiamo, infatti, tutti gli strumenti teorici per raggiungere l’obiettivo di questa sezione concernente la contraddizione circa l’affermare che a volte l’essente e il nulla siano entrambi eventi possibili rispetto al Mondo, il quale, come visto, si riferisce esclusivamente a ciò che avviene e si modifica e tale come avviene e si modifica secondo il tempo. La successione che è posta in essere dalle apparizioni (nel Mondo) di quello di cui è fatto l’essente e di niente di tutto ciò, disposte nel loro ordine cronologico, costituisce quello che chiamiamo storia del Mondo o, più concisamente, Storia. Essa rimanda al significato scientifico del tempo, il quale permette una ricostruzione logica di tale successione. Storico è infatti un processo unico e unidirezionale consistente nel continuo depositarsi di irripetibili strati

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di senso – i.e., di fatti noti, prodotti dalla realizzazione degli insiemi di condizioni che li hanno definiti come eventi, o di cose di cui se ne riconosce la presenza –che aggiunti agli strati più vecchi l’estendono a nuovi eventi, compreso l’evento del nulla, imprimendo loro una cadenza non sempre totalmente prevedibile.

Ora, senza ledere la generalità dei casi, se fosse possibile sia che ciascuna delle cose che appartengono all’essente nell’istante di tempo τ1 morisse – se esistente –o finisse –se inanimata –sia il contrario, vale a dire, se il nulla fosse un evento casuale rispetto alla classe di condizioni che unitamente formano l’essente in τ1 (e quindi si realizzano nel successivo istante τ2), allora, per R1, il Mondo in τ2 dovrebbe contenere entrambi i due inconciliabili opposti: l’essente e il nulla. Ma ciò sarebbe palesemente assurdo, giacché vi è un’unica storia del Mondo, un solo mondo nel quale le cose sono collocate nello spazio e nel tempo e noi, se esistenti, possiamo captarle tramite i nostri cinque sensi terreni o inerirle mediante le nostre peculiari attività scientifiche, intellettuali, psichiche, emotive e volitive18.

Quindi, non può mai ritenersi un caso fortuito, un evento casuale che ci sia qualcosa di empiricamente individuabile piuttosto che il nulla, ma bisogna convenire sul necessario esserci di una causa, anzi, della CAUSA, la quale, seguendo un preciso criterio, determina, di volta in volta, secondo per secondo, se il nulla sia un evento certo o impossibile della Storia. Spieghiamo meglio questo concetto ritornando su quella sorta di roulette russa a cui è sottoposto Mr. Tanatò. Egli, come visto, scamperà alla morte o verrà ucciso a seconda che l’esito del lancio di una certa moneta M dia rispettivamente

TESTA o CROCE. Ciò, alla luce del risultato R1, implica che, nel momento immediatamente successivo al lancio della moneta M, rispetto al quale TESTA e CROCE sono ambedue eventi possibili, Mr. Tanatò dovrà contemporaneamente essere e non apparire nel Mondo.

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Ma è chiaramente inconcepibile che l’individuo Tanatò esista e non esista in uno stesso contesto spazio-temporale. Pertanto, se questo Mondo fosse l’unico mondo ad esserci, si avrebbe una chiara contraddizione. Il Mondo in cui siamo non è dunque l’unico mondo possibile, ma è solo uno di infiniti mondi possibili. Ne segue che da qualche parte, al di là della realtà, in dimensioni «meta-reali» che non possiamo vedere né percepire se non concettualmente, esistono cloni di noi stessi, con vite che possono essere simili alle nostre, appena o completamente diverse dalle nostre – e.g., in alcuni di questi infiniti mondi meta-reali siamo vivi, in altri già morti, in uno siamo commercianti, in un altro siamo impiegati, in un altro ancora siamo disoccupati, e così via –. Il meta-reale consiste, quindi, in una pluralità di mondi, ciascuno dei quali è un luogo dove accadono tutti gli eventi che sono compatibili tra loro, escludentesi l’un l’altro e definiti dalle condizioni che insieme costituiscono la nostra realtà attuale, il nostro presente.

Tutti questi mondi si moltiplicano momento per momento in base al continuo svolgersi del Mondo, all’ininterrotto verificarsi degli eventi ad esso relativi, per poi essere inattivati, privati dell’ambizione di diventare reali, collassati dall’intervento della sunnominata CAUSA che, senza costrizione alcuna se non quella dettata dal proprio modo di essere, filtra e canalizza incessantemente uno solo di questi mondi così da tramutarlo in ciò che sarà nel Mondo susseguente, nella pagina seguente del libro della Storia 19 . Infatti, rispetto all’insieme di condizioni: «essere il Mondo in cui stiamo vivendo», il cui porsi nella Storia è necessariamente uno solo – le cui prove ripetibili conducono, perciò, ognuna ai medesimi risultati –, nessuno di questi potenziali candidati meta-reali, eventi incompatibili e necessari, è per R1 un evento casuale, ma uno di essi deve necessariamente essere un evento certo. È quindi la CAUSA a rendere certo tale evento, decidendo costantemente quale tra i vari mondi meta-realmente disponibili debba entrare a far parte della

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storia del Mondo. La meta-realtà è pertanto una sospensione del divenire storico.

Il celebre e succitato interrogativo heideggeriano sul perché vi sia, di norma, l’essente e non il nulla ha ormai smarrito il suo originario appeal. Quello che ora appare più interessante non è tanto il chiedersi quale sia la natura di questa misteriosa CAUSA – cosa che forse è inaccessibile all’intelletto umano, incomprensibile nella sua ultima essenza –quanto il capire come essa possa influenzare la nostra vita quotidiana, quali siano i confini entro cui agisce, quali i limiti quantitativi che deve rispettare. Il confrontarsi con quest’ultima problematica sarà l’oggetto del prossimo paragrafo.

3. Probabilità, Destino ed Essere

Da quando Mister Tanatò ha scoperto di potersi salvare la vita non riesce più a dormire. Un uomo passionale e presuntuoso come lui non può che desiderare ardentemente di continuare a vivere.

Trovare almeno la percentuale di prove ripetibili in cui si manifesta l’evento casuale a lui più favorevole potrebbe forse segnare un primo passo utile in questa direzione. Tale percentuale non è però sperimentalmente riscontrabile nella storia del Mondo, perché non si può mai effettivamente disporre di tutte le possibili realizzazioni della classe di condizioni che definiscono un evento.

Se pensiamo all’evento “ieri sera ha nevicato” è chiaro che è tecnicamente impossibile ripetere indipendentemente «ieri sera» un numero arbitrario di volte. Potremmo fare al computer un grande numero di simulazioni numeriche (compatibili con ciò che si conosce della situazione metereologica di ieri sera) e annotando quale sia la percentuale dei casi in cui la simulazione dà neve. Così facendo però otterremmo solo un’approssimazione più o meno accurata della nostra situazione. La ripetibilità del complesso di condizioni «ieri sera» è invero possibile solo teoricamente, ipotizzando di poter riconfigurare le circostanze di «ieri sera» in modo uguale a come

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effettivamente erano configurate. Per trattare con simili idealizzazioni occorre far intervenire delle probabilità. Le probabilità sostituiscono l’incertezza con qualcosa di più fruibile e consistente. Diamo ora a questo «qualcosa» una struttura logica coerente e un senso operazionistico.

La teoria delle probabilità si serve di affermazioni del tipo «P(E) = λ », dove E rappresenta un qualsiasi evento e λ un numerale.

L’espressione «P(E) = λ» va letta come: «la probabilità dell’evento E è λ». Introduciamo ora un altro evento F. Ciò ci permette due nuovi accostamenti di simboli: EÚF e E&F ciascuno dei quali è un altro evento. L’evento EÚF corrisponde al verificarsi di tre distinti casi: E, o F, o E e F, mentre l’evento E&F corrisponde al verificarsi dell’unico caso: E e F.

Completiamo la nostra presentazione delle probabilità con quattro regole di base:

1) P(E) ≥ 0;

2) P(-E) = 1-P(E);

3) Se E e F sono eventi incompatibili, allora P(EÚF) = P(E) + P(F);

4) P(E&F) = P(F&E) = P(F)*P(E|F), dove P(E|F) è «la probabilità dell’evento E, supposto verificato l’evento F».

Tutte le altre regole del calcolo delle probabilità possono essere derivate da queste attraverso un ragionamento esclusivamente logico-matematico.

Ci sono vari punti di vista su quello che significano le affermazioni di probabilità e su come possa essere accertata la loro veridicità. Limitatamente alle esigenze di questa trattazione, considereremo la probabilità come la misura numerica della possibilità di realizzarsi di un evento e quindi come qualcosa di oggettivo, di indipendente da ogni giudizio umano e costante da persona a persona. La nostra interpretazione della probabilità di un evento si basa sul risultato seguente:

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R2) Sia A un evento collegato a un ben definito set C di condizioni. Supponiamo che l’evento A abbia una probabilità costante p di verificarsi in ogni prova di C e che si sia presentato μ volte in ν prove di C, con ν > 1.

Allora, la frequenza relativa con cui si verifica A, µ/ν, converge alla probabilità di A, cioè si stabilizza intorno al valore p, e l’approssimazione migliora al crescere del numero ν di prove di C.

Dim: Un teorema del calcolo delle probabilità, detto «Legge forte dei grandi numeri»20, implica che, se la probabilità che A si presenti in una qualsiasi prova di C è costante e pari a p, allora, con probabilità uguale a 1, la frequenza relativa dell’evento A, µ/ν, converge a p nell’insieme HC di tutte queste prove indipendenti, il quale (insieme), non potendo per ipotesi (ν >1) essere un singoletto, è, per effetto della sua definizione, un insieme infinito numerabile. Ora, se fosse anche ammissibile che la frequenza relativa di A non converga a p – probabilità uguale a 1 non significa necessariamente certezza –, allora “la frequenza relativa di A non converge a p” sarebbe un esito possibile della classe HC (intesa come un’unica prova) e perciò un evento casuale rispetto a quell’insieme di condizioni, chiamiamolo C’, la cui singola realizzazione consiste nello svolgersi di tutte le prove ripetibili di C 21. Ma se così fosse, per R1, la frequenza relativa dell’evento A di C dovrebbe simultaneamente convergere e non convergere a p, giacché è concepibile un unico insieme, HC, formato da tutte le possibili prove di C. Si è giunti ad una contraddizione. L’affermazione R2 è così dimostrata. Riepilogando: in una «lunga»sequenza di prove diC, nelle quali la probabilità p dell’evento A diCsia sempre la stessa, la frequenza relativa di A è pressappoco uguale alla probabilità p, l’approssimazione perfezionandosi all’aumentare del numero delle prove (diC) considerate22. Il risultato R2, noto come legge statistica dei grandi numeri, sintetizza la nostra concezione della probabilità –i.e., rappresentail

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significato che attribuiamo alle valutazioni di probabilità –e ci permette quindi di applicare il calcolo delle probabilità ai casi pratici. Un interessante esempio di ciò figura nell’Appendice. Il pensare che le cose stiano così, nei termini di quanto appena espresso dal risultato R2,fa sorgere però una domanda, seria e irresistibile:

Il fatto che il succedersi degli eventi sia riconducibile a qualche forma di regolarità indica che il Mondo in cui siamo è un mondo deterministico il cui andamento segue una direzione precisa e prestabilita?

Il divenire, ossia il susseguirsi dei fatti che alimentano la Storia, intesi nella loro totalità, è in effetti il frutto di una continua scelta che opera globalmente in modo che vengano sempre e obbligatoriamente rispettati i limiti di probabilità e quindi, per R2, di frequenza dei singoli eventi possibili; esso può perciò considerarsi come l’oggettivazione di una necessità inevitabile, che chiamiamo destino, causata e specificata da una forza superiore, da una entità soprannaturale: la CAUSA. Si osservi anche che la CAUSA, per poter agire su di un sistema comprendente sia i mondi del meta-reale sia il nostro divenire, deve indubbiamente farne parte. Alla realtà (sensibile) nella quale viviamo, pur in uno stretto e reciproco rapporto di interdipendenza, si contrappone così un ambiente metafisico, l’ Essere, che è costituito dalla combinazione della CAUSA con le classi di mondi che formano il meta-reale, e che quindi si pone al di fuori del nostro spazio-tempo e gode di attributi non riscontrabili nelle cose di questo nostro mondo fisico.

L’Essere è dunque la condizione che ha reso possibile ciò che è nella Storia, il promotore e il tutore del divenire, ciò che sottintendiamo quando facciamo qualsiasi cosa, anche i gesti più normali e usuali come prendere l’automobile per andare al lavoro, bere dell’acqua, raccontare qualcosa e così via. Possiamo invero fare o dire delle cose perché, innanzitutto, queste cose sono nel divenire, nel frutto dell’Essere.

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Ogni essente, ogni ipotizzabile nulla e, in particolare, ogni evento che costituisce il divenire trova in effetti la sua ragion d’essere nell’insieme di eventi-condizioni da cui deriva (e che lo precedono cronologicamente) e ciò secondo un processo casuale che è gestito dalla CAUSA ed è, almeno in linea di principio, infinito. Il complesso degli eventi che formano la storia del Mondo, ossia dell’apparire considerato nella sua interezza, non può quindi trovare la sua intima giustificazione in qualcosa che gli appartiene, in qualche evento che lo costituisce, perché questo evento, per esserci, deve necessariamente rinviare ad altri eventi – quelli da cui proviene –, non avendo in sé la ragione del proprio essere. Il fondamento logico del divenire va dunque ricercato in un principio ontologicamente differente dal divenire23. Tale principio non può essere il destino perché tra quest’ultimo e il divenire corre un rapporto di necessità, un nesso di causa-effetto, e si negherebbe così ogni differenza ontologica tra i due. La ragion d’essere del divenire deve risiedere allora in una entità non solo che lo precede, e che quindi precede il destino, ma anche che si manifesta in qualche modo in ogni sua singola evoluzione; essa deve stare in una entità che è per un verso al di fuori del divenire e per l’altro condiziona il divenire, in qualcosa di metafisico, senza tempo, che trascende il destino e che può essere solo atto. A guardare bene, l’Essere ha tutte le carte in regola per essere questa entità, per venire considerato come l’essere in sé, come la motivazione intrinseca del divenire.

Esso, come detto, è una realtà metafisica che pone in essere l’apparire tramite la volontaria e libera azione di scelta della CAUSA su ogni singola classe dei mondi meta-reali, e quindi tramite un atto personale, non di natura generativa, non indotto da nessun tipo di necessità; viene così salvaguardata la differenza ontologica tra l’Essere e gli eventi che nel loro complesso formano il divenire, compromettendo l’idea che tra di loro, altrimenti, sussista una relazione sostanziale che risolva l’uno nell’altro negando di fatto uno dei due

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termini del rapporto. Osserviamo infine che, se il divenire fosse venuto all’essere da una qualche sostanza primitiva non creata, allora, per quanto ne sappiamo, tale sostanza sarebbe dovuta appartenere al meta-reale e quindi derivare dal nulla o da un essente reale24. In questo caso, il divenire proverrebbe da un qualcosa che deve necessariamente essere apparso, ossia da qualcosa o da niente di concreto che lo ha almeno parzialmente composto; esso sarebbe perciò preceduto dal divenire stesso, il che è assurdo.

L’Essere, pertanto, non è l’artefice della realtà fisica, non foggia e destina alla Storia una sostanza meta-reale pregressa, come fa la figura-mito del Demiurgo platonico, ma adempie il divenire, riempiendo il meta-reale con un atto creativo ex nihilo, dal nulla assoluto, senza servirsi di niente e di nessuno. Da questa prospettiva, sembra che l’Essere possa anche interpretarsi come il Dio creatore a cui rimandano le tre grandi religioni monoteiste, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islamismo. E forse non può più esserci filosofia sganciata da sistemi e visioni trascendenti. Ma queste sono altre storie. Comunque sia, riconoscere di essere dipendenti dall’Essere è uno degli atti più intelligenti dell’uomo.

Alla luce di questa riflessione sull’Essere, la contingenza si configura come l’espressione di una libertà dentro una predefinita necessità25. Nell’alveo della contingenza, la parte che riguarda ciò che dipende da noi e dalla nostra volontà viene detta libero arbitrio umano, la restante parte è ciò che chiamiamo caso. Giacché vi è il destino, il caso non è altro che la manifestazione della nostra ignoranza sul pacchetto di condizioni e di variabili che bisogna conoscere per poter prevedere un dato evento26. Ciò è dovuto da un lato al fatto che il Mondo è un sistema piuttosto complesso per le nostre capacità di indagine e di giudizio – l’esatta previsione del futuro richiederebbe difatti una potenza di calcolo enormemente superiore alle possibilità di qualsiasi uomo –, dall’altro al fatto che le circostanze del nostro Mondo sono collettivamente controllate e gover-

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nate dall’Essere garante ultimo del loro ordine causale – non siamo in grado di comprendere, quello che esso decide o permette –. In sé e per l’Essere nessun evento è casuale, perché tutti nel loro complesso sono presenti all’onnisciente Essere, il quale li determina concretizzandoli nell’ambiente fisico in cui siamo collocati. Il caso riguarda perciò solo noi. Per la sua descrizione abbiamo a nostra disposizione soltanto la teoria delle probabilità, di cui ci siamo già occupati, con le sue regole e le sue conseguenze.

Eccoci infine ad affrontare il delicato tema del libero arbitrio umano.

Ciò che ci crea difficoltà è l’apparente inconciliabilità tra il determinismo dettato dall’Essere e il nostro libero arbitrio, il quale è caratterizzato dal fatto che abbiamo a disposizione varie possibilità e che possiamo, discrezionalmente e responsabilmente, sceglierne una. La libertà delle nostre scelte consiste concretamente nel potere di modificare gli insiemi di condizioni da cui dipendono le probabilità degli eventi, e quindi le frequenze relative con cui essi si verificano, contribuendo così, di volta in volta, a specificare, in tutto o in parte, i diversi mondi che formano il meta-reale, uno dei quali è consapevolmente selezionato dall’Essere per esserci poi consegnato dal destino sotto forma di realtà sensibile. Tale libertà è spesso fittizia – si potrebbe fare una cosa, ma non la si fa –, perché condizionata dal conformismo e dall’ereditata situazione storica nella quale siamo inseriti; in altri casi, invece, l’esperienza diretta ci convince che si fanno unicamente scelte volontarie, talvolta anche difficili, che non hanno di certo le connotazioni dell’a-noi-estraneo o del caso. Non possiamo perciò né negare che l’Essere sia onnisciente, ossia che conosca tutte le forze da cui dipende il divenire e la situazione rispettiva di tutte le cose, esistenti o inanimate, che lo compongono, né abbandonare definitivamente il libero arbitrio umano27.

A questo punto, però, il quadro si complica: possiamo infatti ipotizzare che un soggetto riesca a impadronirsi di quei segreti del-

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l’Essere che gli permettano di avere una capacità di previsione sufficiente per predire le azioni che compirà in futuro, e dopo si serva del proprio libero arbitrio per contraddire tali predizioni. Èun paradosso questo che forse si manifesta solo nei romanzi di fantascienza, ma è pensabile, e quindi sta in piedi logicamente, nel senso che non può condurci ad alcuna contraddizione logica. Deve pertanto potersi creare una scappatoia per risolvere questo dilemma, un artificio per confutarlo. Ed è esattamente ciò che proveremo a fare nella sezione seguente.

4. La predizione

Mr. Tanatò non vuole andare al patibolo, ma è impotente. Non vi sono ragioni terrene che lo rasserenino, nemmeno l’avere contezza del significato pratico di eventuali quantificazioni probabilistiche consolanti gli impedisce di essere sopraffatto da un’intima paura. Egli è oggi un uomo inquieto che vive nell’angoscia. Chi può biasimarlo? Ora che niente gli è d’aiuto, cosa non darebbe per avere un segno, una voce che gli sveli quale sarà la sua sorte. Se solo potesse rivolgersi a un guru, a un indovino che parli anche solo a lui. Si chiede perplesso e speranzoso: possono esistere gli indovini? Sì; è improbabile ma non impossibile che tali individui esistano. Essi potrebbero esserci, ma, naturalmente, solo a patto che l’Essere, per primo, sia in grado di profetizzare il futuro di ogni cosa che compone l’essente attuale. E l’Essere può avvalersi di questo precipuo requisito. Vediamo in che modo.

Come asserito nel precedete paragrafo, tutti gli eventi si dispongono seguendo il destino, il quale è governato dall’Essere e di conseguenza da leggi causali. L’Essere inoltre è onnisciente –i.e., conosce ogni verità che riguarda l’apparire –ed è al di fuori del tempo – i.e., non vi è né passato, né futuro davanti ai suoi occhi –. Esso, quindi, non antevede, ma vede come presenti anche quegli eventi (per noi) futuri che accadono come espressione della libera

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volontà dell’uomo. L’Essere può dunque prevedere la scelta che faremo senza che questo ci precluda la possibilità di scegliere apertamente un’altra opzione, senza minaccia alcuna per il nostro libero arbitrio; in altri termini, se noi scegliamo A, l’Essere aveva previsto A, se scegliamo B l’Essere aveva previsto B. Ma oltre a prevedere tutti gli eventi, l’Essere può anche preannunciarli senza che ciò infici la sua previsione su di essi? Se arrivasse a predire gli eventi, non potremmo falsificare le sue predizioni sulle nostre azioni, scegliendo di non fare quello che è stato o ci è stato predetto? Se sì, allora facendo ciò smentiremmo tali predizioni, che si rivelerebbero non corrette.

La conclusione che si potrebbe allora essere tentati di trarre da un simile ragionamento è che il preannunciare una nostra azione futura sulla base delle condizioni attuali è oltre le capacità dello stesso Essere. In altre parole, l’Essere potrebbe prevedere tutti i nostri avvenimenti futuri, ma non potrebbe preannunziarci quelli che ricadono sotto il nostro controllo28. Ma sarebbe una conclusione affrettata. Vi è infatti la seguente via d’uscita.

Supponiamo che un veggente, della cui attendibilità e completezza siamo sicuri, ci preannunci, oracolo infallibile dell’Essere, una certa azione che compiremo in un futuro prossimo (accadimento F); ci predìca, per esempio, che tra una settimana andremo a Firenze. Ciò tecnicamente significa che, nell’istante di tempo in cui avviene tale predizione, il Mondo include l’insieme delle condizioni C rispetto al quale F è un evento.

Osserviamo ora che le nostre azioni, da un lato, non sono direttamente determinate da leggi deterministiche – possiamo cioè esercitare il nostro libero arbitrio, il quale consiste nel potere di modificare, secondo il nostro carattere e le nostre propensioni, la composizione dei mondi meta-reali che rappresentano le alternative alla scelta reale dell’Essere –e, dall’altro lato, dipendono da fattori –dovuti alla complessità delle cause che sono alla base della nostra

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realtà attuale e, in quanto tali, incidenti, come si è detto, sulla struttura d’essere di ciò che appare nel meta-reale –che sono accidentali, nel senso che vanno al di là del nostro pieno controllo e il loro esito ci risulta imprevedibile29. Ne consegue che F e -F sono due eventi casuali rispetto a C, ossia che l’insieme C contiene le condizioni necessarie e sufficienti perché non si possa immanentemente prevedere il loro verificarsi. Pertanto, non potremo mai essere pienamente sicuri che faremo ciò che abbiamo già deciso di fare, che non andremo a Firenze tra una settimana perché abbiamo già deciso di non andare in quel luogo – potremmo invero giungerci, ad esempio, perché coattivamente trasportati –.

Dall’altra parte, se F è un evento casuale rispetto a C, allora, a causa del risultato R1, vi è almeno un mondo meta-reale in cui si è verificato F e che l’Essere può deliberatamente scegliere perché sia destinato a concretizzarsi storicamente, perché diventi il nostro nuovo Mondo.

Vi è dunque compatibilità logica tra il libero arbitrio umano e il determinismo dell’Essere. Partendo dagli argomenti e dalle evidenze di cui disponevamo, e mettendo in gioco la nostra ragione siamo così giunti ad una spiegazione del paradosso della predizione. Questo modo di procedere è il consueto ordine logico del ragionamento per chi ritiene che il ruolo della ragione sia quello di scoprire la verità. Non tutti però la pensano così. Per chi, come i credenti cristiani, identifica l’Essere con il Dio Biblico della creazione, noi possediamo già la verità – che è indiscutibile e rivelata nelle Scritture –, e quindi il compito della ragione è quello di farla emergere svelandone la razionalità intrinseca. Per dirla con Sant’Agostino credo ut intelligam, intelligo ut credam. Dal loro punto di vista la predizione può quindi ritenersi un problema meritevole di attenzione solo a condizione che qualche passo della Bibbia ci presenti tale situazione paradossale. Ma cosa dice la Bibbia al riguardo? Nel secondo capitolo del suo Vangelo, Luca narra di

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un uomo, un certo Simeone, che è stato il destinatario di una speciale rivelazione divina (dell’Essere) relativa alla venuta del Messia; lo Spirito Santo gli aveva predetto che avrebbe visto il Messia prima di morire. Il brano in questione è il seguente:

OraaGerusalemmec’eraunuomodinomeSimeone,uomogiustoetimorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele; lo Spirito Santo che era sopra di lui, gliavevapreannunziatochenonavrebbevistolamortesenzaprimaaverveduto ilMessiadelSignore.[…]Ormai,Signore,puoilasciarecheiltuoservosene vada in pace: la tua promessa si è compiuta. (Lc 2, 25-29).

Qui l’apparente contraddizione sta nel fatto che Dio non avrebbe potuto mantenere la promessa che ha fatto e preannunciato a Simeone, se quest’ultimo l’avesse annullata con la propria libertà, e.g., se si fosse suicidato non appena l’avesse appresa. Tuttavia, a causa della complessità del nostro sistema Mondo, nessun uomo può mai ritenersi del tutto sicuro di poter realizzare ciò che vuole, qualunque sia la situazione nella quale si trovi. Simeone, con il suo esistere, il suo talento e il consequenziale esercizio del suo libero arbitrio, non ha né avrebbe potuto fare altro, per R2, che ritoccare il valore di probabilità della già possibile profezia che lo ha riguardato, aumentando o riducendo la percentuale dei mondi meta-reali in cui essa, per R1, si è avverata almeno una volta e tra i quali Dio (l’Essere) ha voluto e potuto selezionare quello che poi il destino ha posto nella Storia. Dio è così riuscito ad attuare il proprio progetto, superando di fatto l’illusoria dicotomia tra la Sua prescienza e la libera volontà di Simeone.

Conclusioni

Nonostante molti abbiano ragionevolmente sostenuto che l’incertezza sia l’unica nostra certezza e quindi che tutto rientri nell’ambito di ciò che è possibile, la possibilità non sembrava a priori un qualcosa di molto promettente per uno studio preciso, e forse fino a qualche tempo fa i vari pensatori hanno tenuto verso di essa un

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atteggiamento di disinteresse e di distacco. Tuttavia, secondo l’interpretazione qui sviluppata, essa svolge un ruolo centrale nella nostra comprensione della realtà nel suo complesso, degli enti e quindi delle cose. Lo scopo di questo articolo, in definitiva, era quello di dare un’idea di questo ruolo.

Sfruttando un peculiare concetto di evento unitamente alla singolare esperienza esistenziale del personaggio-chiave di questo saggio, l’ipotetico Mister Tanatò, siamo riusciti a elaborare una concezione razionale e oggettiva della possibilità e dunque della probabilità di un evento. Il rigore di questa impostazione ci ha condotti verso il disciplinamento di una convinzione molto cara al pensiero moderno, secondo la quale ogni evento possibile alla fine si manifesterà con una frequenza relativa che è uguale alla probabilità che ha di verificarsi; vero. Il che ovviamente non significa negare che vi siano eventi al contempo possibili e incompatibili rispetto all’essente attuale, ma soltanto dire che, se A e -A sono due di questi eventi, allora sia A che -A devono necessariamente essersi verificati rispettivamente in nA e in nĀ mondi paralleli, meta-reali – n.b.: uno tra A e -A dovrà ineluttabilmente accadere anche nel nostro Mondo –, in modo tale che il rapporto nA/(nA + nĀ) [nĀ /(nA + nĀ)] sia uguale alla probabilità P(A) [P(-A)] dell’evento A [-A]. Grazie a questo valido strumento teorico-pratico, abbiamo poi messo in piedi un lungo ragionamento logico che ci ha forzosamente condotti a ripensare il famoso problema dell’uno e del molteplice, dell’essere in sé e del divenire, della realtà presupposta e di quella che appare ai nostri sensi.

Ne è venuto che la storia del Mondo non è alla mercé del caos o del non senso, ma si svolge secondo l’Essere, ossia secondo un percorso prefissato condizionato dalla complessità della realtà attuale, dal libero arbitrio dei viventi e dal filtro della volontà della CAUSA.

Precisamente:

L’Essere è una entità metafisica che ha dato inizio, mediante un libero atto creativo ex nihilo, alla possibilità e all’impossibilità di

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essere nel Mondo, al meta-reale, ossia alla sequenza delle classi contenenti ognuna tutti quei mondi meta-reali – i.e., quei mondi che stanno al di là della realtà, in dimensioni parallele che non possiamo percepire tramite i sensi ma soltanto intuire concettualmente –che sono esaustivi e vicendevolmente esclusivi rispetto allo scopo di guadagnarsi l’unico posto di loro pertinenza all’interno dell’apparire. Alla copertura di tali posti provvede una necessità, detta destino, il cui unico compito è quello di porre puntualmente nella Storia i singoli mondi che gli vengono consegnati dall’Essere, il quale, tramite la CAUSA,li ha volontariamente tratti perché diventino Mondi, scegliendone uno da ciascuna delle classi del metareale, secondo l’ordine in cui sono disposte.

È così venuta all’essere la totalità del divenire, ossia la successione di Mondi nella quale la composizione del termine n-esimo, cioè del Mondo attuale, condiziona le probabilità degli eventi che congiuntamente formano il suo successore immediato e, quindi, influenza materialmente la struttura d’essere dell’(n+1)-esimo termine della sequenza meta-reale, in modo che la frequenza relativa dei mondi meta-reali in cui appare ciascuno di questi eventi coincida con la sua probabilità di verificarsi nel reale. Il divenire nella sua interezza consiste allora nel susseguirsi delle scelte che l’Essere opera tra le varie opzioni meta-reali che stanno al suo interno e che gli si offrono, obbedendo ai vincoli e ai limiti che gli vengono imposti dalla probabilità dei singoli eventi; esso cioè consiste nell’avvicendamento delle evoluzioni «probabilisticamente» guidate dell’Essere, che si rivelano a noi in tutta la loro concretezza dispiegate nel tempo, affinché possiamo decifrarle solo nella loro sincronicità e non in uno sviluppo che rimane inaccessibile alla nostra esperienza e perfino alla nostra ragione.

In concomitanza con l’apparire registriamo quindi l’Essere, che è invece, innanzitutto e dopotutto, il quid grazie al quale il destino e, di conseguenza, i termini (della successione) del divenire apparten-

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gono all’essere. Esso può dunque intendersi come “tutto ciò che precede il destino, tutto ciò che è pre-destinato” ed è pertanto l’essere in sé, la ragion d’essere dell’apparire, la condizione essenziale perché ci sia il tale essente o il nulla.

Resta infine da vagliare un’ultima questione alla quale però non siamo qui in grado di dare una risposta esaustiva, ma che merita un breve accenno. La realtà è come ci sembra? Notiamo che possibilità e probabilità non riguardano solo le cose in sé stesse, ma si possono naturalmente applicare anche al fatto che noi facciamo esperienza delle cose e quindi al come le percepiamo. Se le cose che appaiono nella realtà potessero non coincidere con quelle che vediamo, allora, tale anomalia si configurerebbe come un evento possibile rispetto all’insieme di tutto ciò che diventa reale e quindi, per i risultati finora conseguiti, si manifesterebbe sicuramente nell’unica nostra realtà, con una frequenza relativa pari alla sua probabilità di uscita. Tuttavia, non disponiamo di una conoscenza così certa da consentirci di introdurre legittimamente questa supposizione. Se l’avessimo, potremmo benissimo sospettare che il cavallo che vediamo, alto, grasso e bianco, appaia ai nostri occhi in modo diverso da come è (appare) nel Mondo. Trovarla significherebbe quindi dare una qualche risposta alle perplessità attribuite al filosofo Roger Scruton, recentemente scomparso, il quale si chiedeva: «Come è possibile che il mondo non sia solo, ma sembri anche? Perché non era sufficiente che il mondo fosse?»30.

Appendice

Vediamo una singolare applicazione del risultato R2 appena raggiunto.

Problema (del vincitore certo). Sia C l’insieme delle condizioni che definiscono il seguente esperimento: «due giocatori X e Y lanciano alternativamente una coppia di dadi non truccati. Vince e conclude

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il gioco il primo che lancia una somma pari a 7. Il gioco non è a priori limitato».

Provare che:

A: “il gioco non viene vinto da nessuno dei due giocatori” è un evento impossibile rispetto a C.

Soluzione: Sia Ĉ la classe di condizioni definenti l’esperimento: «X o Y lancia una coppia di dadi non truccati». La probabilità P(B) dell’evento B: “X o Y ottiene un sette in un doppio lancio con dadi non truccati” di Ĉ , come è facile calcolare, è pari a 1/6. Se il giocatore X è il primo a lanciare, allora X vincerà in uno dei casi mutuamente esclusivi di seguito elencati con le rispettive probabilità:

X vince al primo lancio. Probabilità = 1/6; •

Xperde al primo lancio, poi Y perde, poi X vince.

Probabilità = (5/6)*(5/6)*(1/6) = 25/216;

Xperde al primo lancio, poi Y perde, poi X perde, poi Y • perde, poi X vince.

Probabilità = (5/6)*(5/6)*(5/6)*(5/6)*(1/6) = 625/7776; • • La probabilità che X vinca il gioco è allora:

+ … =(1/6)*[1 + (5/6)2 + (5/6)4 +…+ +(5/6)2n + …] = (1/6)/{1(5/6) 2 } = 6/11 , essendo l’espressione in parentesi quadra, come noto dall’Analisi Matematica31, lo sviluppo di una serie geometrica di ragione q = (5/6)2.

Analogamente, supponendo che Y sia il secondo a lanciare, la probabilità che Y vinca il gioco è uguale a:

(5/6)*(1/6) + [(5/6) 2 ]*(5/6)*(1/6) +…= (5/6)*(1/6)*[1 + (5/6)2 + (5/6)4 +…+ (5/6)2n+…] = =(5/6)*(6/11) = 5/11.

Vale la pena notare che la probabilità P(A) che si abbia un pareggio è pari a 1- [(6/11) + (5/11)] = 0, ma questo dato non è

(1/6) + (5/6)*(5/6)*(1/6) +(5/6)*(5/6)*(5/6)*(5/6)*(1/6)
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sufficiente per affermare che l’evento A (pareggio) è impossibile, perché non per forza eventi con probabilità uguale a zero sono impossibili. La teoria delle probabilità non sembra così in grado di risolvere il problema del vincitore certo posto sopra.Non sembra, ma lo è.

A tale proposito si osservi che, per costruzione, ogni prova di C consiste in una sequenza di prove equiprobabili di Ĉ32. In particolare, se X o Y fosse il vincitore del gioco, vi sarebbe almeno una realizzazione di Cformata da una sequenza finita di prove di Ĉ –come minimo di un termine, se il vincitore fosse X (il primo a lanciare); o di due, se avesse vinto Y –in una sola delle quali risulterebbe verificato l’evento B. Se ne deduce che X o Y può aver vinto il gioco se e solo se è possibile che l’evento B si sia verificato in almeno una prova di Ĉ. Inoltre, se fosse possibile che nessuno tra X e Y vinca il gioco, allora sarebbe evidentemente possibile che l’evento B non si presenti per una intera sequenza infinita di prove di Ĉ, cioè per una sequenza i cui termini costituirebbero un insieme equipotente 33 all’insieme formato da tutte le prove di Ĉ . In tale ipotesi, non potrebbe perciò escludersi che il complementare dell’evento B, si verifichi in ogni singola prova di Ĉ. Da tutto ciò, a causa del risultato R1, segue facilmente che il gioco ha sempre un vincitore, sempre un limite, se e solo se B si è presentato in almeno una prova di Ĉ. Quindi, se A fosse un evento certo o casuale di C, allora, per R1, nessuna delle possibili (pensabili) prove ripetibili di Ĉ potrebbe aver dato come esito un 7, ossia in nessuna di queste prove potrebbe essersi verificato l’evento B.

D’altra parte, poiché P(B) = 1/6 > 0, devono esserci, a causa di R2, almeno ν prove di Ĉ in cui l’evento B si è presentato µ volte, con µ/ν = (1/6). Pertanto, se A fosse un evento possibile (i.e., certo o casuale) di C, vi sarebbe una manifesta contraddizione.

L’impossibilità dell’evento A è così dimostrata, e con essa l’impossibilità di trovare una qualche funzione o regola prefissata

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NOTE

1 Per cosa intendiamo qui semplicemente “ciò che è (che appare)”.

2 Nel Mondo (nella realtà) dunque compare: o qualcosa di concreto – si ha quindi l’essente – oppure niente di concreto – si ha cioè la mancanza dell’essente, il nulla relativo (all’essente), o, più brevemente, il nulla –.

3 Vale a dire i casi in cui il termine «possibilità» viene usato come sinonimo di «capacità»: «l’essere messi in grado di fare qualcosa grazie ai mezzi morali e materiali di cui si dispone».

4 Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia, 1990, pp.12-18.

5 Un ente è, per noi, quella sottoclasse dell’essente identificata dalle proprietà sostanziali comuni ad ogni singola cosa in essa contenuta. Ad esempio, l’uomo è un ente, perché il termine «uomo» individua una classe non vuota di cose concrete accomunate da una certa proprietà essenziale, ossia da una proprietà (e.g., «essere un animale razionale») che ci consente di sapere cosa significa essere un uomo senza dover ricorrere ad esempi reali di uomo, senza dunque dover essere in grado di enumerare quali elementi dell’essente sono uomini e quali no.

6 Con il termine “insieme di condizioni” ci riferiamo qui non solo all’insieme di quelle che comunemente vengono indicate come tali ma anche a tutte quelle conoscenze che possediamo quando ci apprestiamo ad argomentare su un dato fenomeno.

7 L’evento, realizzata la classe condizioni cui si riferisce, è quindi un fatto cui è possibile attribuire un valore di verità: vero, se verificato; se no, falso, con un giudizio (umanamente parlando) oggettivo. Per fatto intendiamo, dunque, un accaduto descrivibile da una proposizione del tipo «la cosa o l’ente x ha la proprietà y» che abbia senso, cioè per la quale è dato un criterio tramite cui sia almeno concettualmente possibile accertarne la verità o la falsità. Poiché, come è ovvio, il significato e il valore di verità di una proposizione dipendono da alcuni aspetti del contesto in cui essa è inserita – e.g., la frase «su quel tavolo vi è una penna» ha senso ed è una proposizione perché viene posta, anche implicitamente, in ambienti nei quali si sa perfettamente cosa sia «tavolo» e «penna» e come si fa a riconoscerne la presenza; in alcuni di questi ambiti, essa potrebbe così essere (giudicata) vera, in altri falsa ecc. –, si può parlare di un fatto (come di un evento) soltanto relativamente ad un certo e ben definito insieme di condizioni. Cfr. GIOVANNI BUSSETTI , Esercitazioni Pratiche di Fisica, Torino, Libreria Editrice Universitaria Levrotto&bella, 1974, pp. 1-15.

che sia in grado di sottrarre da una qualunque successione di tutte le prove ripetibili di Ĉ – basandosi esclusivamente sul numero
d’ordine di tali prove –una sottosuccessione infinita nella quale l’evento B non si è mai verificato (impossibilità di un sistema di gioco d’azzardo).
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Cfr. GNEDENKO BORIS VLADIMIROVICH, The Theory of Probability, New York, AMS Chelsea Publishing Company, 2005, pp. 21-24. Infatti, tutto ciò che è necessario e sufficiente per la casualità, la certezza o l’impossibilità di un dato evento – così come per ogni altra cosa che lo riguardi prima che diventi fatto – non può che appartenere, per ε1, all’insieme di condizioni cui tale evento si riferisce.

9 Utilizzando i tre noti simboli dell’implicazione logica: “⇔” che sta per “co-implica”, “⇏” per “non implica” e “⇒” per “implica”, possiamo sintetizzare le definizioni di casualità e di certezza(impossibilità) di un evento, rispettivamente, mediante le seguenti relazioni:

{C ⇔ [«C ⇏ “A si verifica”» et «C ⇏ “A non si verifica”»]} ; {C ⇔ «C ⇒ “A si (non si) verifica”»}.

Ne segue facilmente, per ε2 e ε3, che:

[C ⇏ «C ⇏ (⇒) “A si verifica”»] ⇔ [C ⇒ «C ⇒ (⇏) “A si verifica”»], da cui si ottiene immediatamente che:

[C ⇒ «C ⇏ (⇒) “A si verifica”»] ⇔«C ⇏ (⇒) “A si verifica”».

10 Ricordiamo che per singoletto si intende un insieme che contiene esattamente un unico elemento.

11 Indichiamo con -A l’evento complementare di A. Ricordiamo che due eventi si dicono complementari se sono incompatibili e necessari, ossia quando, in una stessa realizzazione dell’insieme di condizioni cui si riferiscono, il verificarsi dell’uno esclude il verificarsi del secondo (incompatibili) ma uno dei due deve verificarsi per forza (necessari). Consideriamo ad esempio il singolo lancio di un dado. Come è facile intuire possono presentarsi i due casi seguenti: o viene fuori un numero pari o viene fuori un numero dispari. I due eventi sono complementari poiché uno dei due si verificherà per forza ed uno esclude l’altro.

12 Se fosse Ĉ ⇒ Ĥ(-Ĥ), poiché Ĥ(-Ĥ) ⇒ A(-A), si avrebbe che Ĉ ⇒ A(-A) e quindi che C ⇒ A(-A), essendo il verificarsi di A(-A) completamente indipendente dal test T. Ma ciò sarebbe assurdo, visto che A e -A sono due eventi casuali di C e quindi C ⇏ A(A). Va da sé infine che Ĉ ⇔ [«Ĉ ⇏ “Ĥ si verifica”» et «Ĉ ⇏ “Ĥ non si verifica”»], dal momento che [C ⇏ A(-A)] ⇒ [Ĉ ⇏ Ĥ(-Ĥ)],C⇒ [C ⇏ A(-A)] e Ĉ ⇒ C.

13 Se, come si è visto, le condizioni che costituiscono l’insieme Ĉ sanciscono l’impossibilità di prevedere se l’evento Ĥ si presenterà o meno in una qualsiasi prova di Ĉ, a maggior ragione le condizioni che formano ĈH risulteranno essere necessarie e sufficienti per non poter decidere se l’ipotesi H1 è no vera, poiché ĈH è un sottoinsieme di Ĉ, il realizzarsi di ĈH è compatibile con il realizzarsi di Ĉ e il verificarsi di Ĥ (-Ĥ) co-implica la verità di H1 (H2).

14 La validità di questa conclusione presuppone che la casualità sia una caratteristica oggettiva della realtà – del tipo della massa che compone l’universo – che coinvolge la conoscenza di colui che se ne serve. Il prerequisito/assioma fondamentale della nostra analisi è allora il seguente: tutto ciò che ci appare è ciò che appare, perché mentre viviamo questa nostra personale apparenza, abitiamo la realtà. In altri termini, condizioni che per alcuni osservatori sono indeterminate, cioè che appaiono loro (e dunque sono nella realtà) sotto forma di variabili incognite, possono paradossalmente apparire ad altri (e quindi appartenere alla realtà) come costanti, ossia,

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possono, per quest’ultimi, essere determinate. Grazie aquesta ipotesi, abbiamo la chiara conferma della piena realizzazione della classe delle condizioni Crispetto alla qualeun certo fenomeno è un evento casuale. Al contrario, se si assumesse la concezione soggettivista del caso, cioè se si pensasse la realtà come indipendente dalla conoscenza di chi la osserva, l’obiettività caratterizzante questa nozione di casualità non costituirebbe una proprietà oggettiva – i.e., di tipo ontologico – del fatto reale considerato –, ma sarebbe tale in relazione all’essere umano, e quindi, in ultima istanza, a ciò che in questo mondo è patrimonio conoscitivo comune a tutti gli uomini. Se così fosse, gli individui avrebbero soltanto dei “gradi di fiducia” sul manifestarsi del fenomeno da cui sono interessati e, di conseguenza, l’insieme C non potrebbe dirsi integralmente realizzato.

15 Il poter non essere più nel Mondo (non essere più in vita, essere uscito dal novero degli esistenti che appaiono) nell’istante di tempo successivo a quello in cui si esiste è, come detto, la caratteristica fondante e l’etichetta distintiva di ogni esistente. Pur mantenendo la nostra identità, noi adesso non siamo, quindi, né la stessa persona che eravamo nell’attimo prima né la stessa persona che eventualmente saremo tra un attimo. O moriamo o diventiamo altro da ciò che siamo, un nuovo esistente; non abbiamo altre alternative. Ogni esistente è pertanto un evento che si svolge e termina nel momento stesso in cui è presente. Il prefisso «ex» in ex-sistenza indica appunto una condizione di esteriorizzazione, significa proprio «ciò che è estraneo a tutte le cose».

16 Cfr. MIGUEL GARCÍA-BARÓ, Husserl e Gadamer, Milano, Hachette Fascicoli s.r.l., 2015, pp. 87-95.

17 Cioè di imbatterci nella concomitante presenza nell’essente di due insiemi di condizioni Č1 e Č2, entrambi realizzati, l’unione dei quali è una condizione tale da rendere l’esistenza di Mr. Tanatò nell’istante τ 2 un fatto la cui falsità risulti prevedibile e imprevedibile allo stesso tempo.

18 Va sottolineato che questa caratteristica fondamentale del Mondo non esclude che vi siano cose che stanno nello spazio invisibile in una collocazione concreta del nostro spazio, in una sorta di sub-spazio; esse sarebbero in un ambito spazio-tempo diverso da quello cui siamo abituati con strutture fisiche diverse dalle nostre.

19 A differenza di quanto asserito dal filosofo Leibniz, che sostiene una posizione simile a quella qui esposta a questo riguardo, gli infiniti mondi possibili, in questa sede, non possono essere presi come un’infinità di modi diversi per creare il Mondo futuro, come idee nella «mente» della CAUSA, bensì come alternative alla scelta reale, come costrutti originati dal Mondo attuale e presenti nella meta-realtà (cfr. L EIBNIZ G OTTFRIED W ILHELM ( VON ), Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio la libertà dell’uomo e l’origine del male, Milano, Fabbri, I volume, 2005, pp. 145-233; Cfr. ROLDÁN CONCHA, Leibniz, Milano, Hachette, 2017, pp. 80-97).

20 Cfr. MURRAY SPIEGEL, ALU SRINIVASAN, JOHN SCHILLER, Schaum’sOutlineof Theory andProblemsof ProbabilityandStatistics, New York, The Mc Graw-Hill Companies Inc., 2000, pp. 80-88.

21 Si noti che l’espressione «la frequenza relativa di A non converge a p», per costruzione, ha senso ed è suscettibile d’avere un valore di verità soltanto se riferita

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all’insieme di condizioni C’. Si noti inoltre che tale espressione descrive un fenomeno al quale è possibile assegnare un valore di probabilità pari a zero –, permettendoci così di stabilirne l’imprevedibilità; per cui tale fenomeno è un evento rispetto a C’ .

22 Cfr. ROSARIO D’AMICO, Il Dio Paradossale e la Congettura di Goldbach, Messina, Di Nicolò, 2018, pp. 6-44.

23 Cfr.ANTONIO MELI, Introduzione alla Filosofia, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2020, pp. 67-77.

24 Sappiamo infatti che il divenire procede dal meta-reale e che i loro contenuti sono legati da un rapporto di reciproca dipendenza, per cui delle due l’una: o tale sostanza (del meta-reale) è stata interamente creata oppure essa deriva almeno in parte dal divenire.

25 LUCIANO DE CRESCENZO, Il Dubbio, Milano, Arnoldo Mondadori, 1992, pp 13-32.

26 Il caso può dunque ancora ritenersi un nome per la nostra ignoranza, precisando però che per “nostra ignoranza” deve ora intendersi non già una nostra mancanza di informazioni sulla realtà bensì un preciso stato della realtà stessa nella quale siamo inevitabilmente coinvolti e che muta appunto al variare del nostro sapere su ciò che di essa osserviamo. Modificare lo stato conoscitivo sulla realtà equivale di fatto a cambiarla.

27 Cfr. DAVID RUELLE, Hasard et chaos, Paris, Edition Odile Jacob, 1991, trad.it. Caso e caos, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 35-41.

28 Cfr. MICHAEL CLARK, Paradoxes from A to Z., New York, Routledge, 2002, trad.it. I paradossi dalla A alla Z, Milano, Raffaello Cortina, 2004, pp. 187-197.

29 Tra questi fattori casuali figura, come caso emblematico, l’evento della morte naturale – l’esistenza non è infatti la necessità –, che verificandosi, provoca l’annullamento di ogni possibilità e di ogni progetto che si offre al soggetto vivente e soprattutto all’uomo.

30 Cfr. https://www.ilsussidiario.net/news/roger-scruton-morto-filosofo-britannicoconservatore-ribelle-stroncato-dal-cancro/1972020

31 Cfr. JAURES P. CECCONI, GUIDO STAMPACCHIA, Analisi Matematica, Napoli, Liguori, 1974, pp. 257-291.

32 Vale a dire che non vi è alcun motivo, né fattuale né di principio, per ritenere che una di tali prove (delle prove di Ĉ) abbia una maggiore probabilità di essere un certo elemento costitutivo di una fissata prova di C rispetto a quella di una qualsiasi altra prova di Ĉ. Ne segue che la possibilità dell’evento B è condizione sufficiente perché sia possibile che il gioco si concluda con un vincitore.

33 Si ricordi che due insiemi si dicono equipotenti quando i loro elementi si possono mettere in corrispondenza biunivoca, cioè se si può associare ogni elemento del primo insieme con uno ed un solo elemento del secondo e viceversa.

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DIMOSTRAZIONE EMPIRICA DELL’ESISTENZA DI DIO COME ANIMA DELL’UNIVERSO

SIMONE CAFORIO

Dio esiste? Questa è una delle grandi domande che l’uomo si pone da quando, almeno in Occidente, la scienza e la ragione hanno iniziato a mettere in discussione i dogmi della religione.

Mentre infatti in passato vi era una sola risposta a tale domanda, ovvero che Dio esiste e bisogna crederci per atto di fede, nell’epoca odierna, in cui la maggior parte del sapere si fonda sul metodo scientifico, ovvero sulla dimostrazione sperimentale di ogni ipotesi, risulta per molte persone assai facile dubitare dell’esistenza di un essere superiore di cui non si hanno le prove scientifiche.

Rispondere a questa domanda, però, risulta difficile, innanzitutto perché non vi è mai stata, nel corso della storia, una definizione univoca su chi – o che cosa –sia Dio.

Nelle religioni abramitiche, ad esempio, Dio è uno ed è il creatore di tutto il mondo. Secondo i Cristiani Cattolici e Ortodossi, inoltre, Dio non è soltanto uno, ma anche “trino”, poiché essi aggiungono alla figura del Creatore, che è il Padre, quelle del Figlio Gesù Cristo e dello Spirito Santo. Anche nell’Induismo è presente il concetto di trinità: il Brahman, ovvero l’Anima universale, il Respiro, il Tutto cosmico, si manifesta nelle sue tre espressioni formali, murti, più elevate, i tre deva che costituiscono la Trimurti; essi sono Brahma (colui che ha creato il mondo), Vishnu (colui che lo preserva) e Shiva (la divinità deputata a distruggerlo) 1 . A differenza del Dio di Abramo, però, il Brahman non è soltanto la Mente eterna, il Creatore dell’universo, ma anche l’anima presente in ogni elemento e in ogni essere vivente dell’universo da lui creato2.

Questa concezione della divinità non è molto dissimile da quella panteistica dello Stoicismo.

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Del tutto diverso, invece, è il modello cosmogonico, sempre ellenico ma molto più ancestrale, descritto da Esiodo. Nella sua Teogonia, l’universo e la stirpe di tutti gli dei e di tutte le creature della mitologia greca sono nati dal Caos, senza la presenza di una divinità suprema creatrice. Se volessimo però trovare, nella moltitudine degli dei e delle dee del pantheon greco, il corrispettivo per lo meno in senso etimologico del Dio delle religioni e filosofie monoteiste, dovremmo analizzare la figura di Zeus.3 Egli è il re di tutti gli dei dell’Olimpo e ha ordinato al Titano Prometeo di creare i primi esseri umani, che non ha esitato a punire con un diluvio quando questi si sono rivelati crudeli e sanguinari. Non è però Zeus, come si è detto, ad aver creato l’universo, ma è lui ad averlo liberato dalla tirannia infanticida di suo padre Crono, portando ordine in un mondo di violenza e barbarie generato dal Caos. Egli governa gli dei come un re saggio comanda sugli uomini; a differenza dello Zeus descritto dagli Inni Orfici4, però, la divinità esiodea non possiede quell’assolutezza e infinità del Brahman o del Dio monoteista. Per i Greci, infatti, l’infinità, ovvero la totale assenza di limiti e di confini, era sinonimo di mancanza di ordine e di armonia, ed era perciò caratteristica propria del Caos, non di una divinità ordinatrice quale Zeus. Una divinità ordinatrice o creatrice è presente in quasi tutte le religioni della storia dell’umanità, finanche nelle mitologie delle etnie più primitive e ancestrali, come i popoli Khoisan5 dell’Africa meridionale. Presso queste popolazioni, Tsui//goab6 è il dio benevolo, creatore del mondo e della stirpe dei Khoikhoi; egli controlla il cielo e regola le piogge, fondamentali per l’approvvigionamento di acqua, ed è perciò anche il dio del benessere, dell’abbondanza e della prosperità.7

Tutte le civiltà, insomma, hanno sempre parlato di Dio, o piuttosto, hanno avuto nelle proprie credenze religiose quella figura che nella nostra lingua potremmo chiamare “Dio”, senza però averne mai dato una definizione concorde. Per alcuni è il creatore del

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mondo, che lo trascende. Per altri, è l’anima che permea l’universo, immanente ad esso. Per altri ancora, invece, è il capo di una moltitudine di tante altre divinità. In questo articolo, allora, proveremo a dimostrare empiricamente che esiste qualcosa a cui forse, nella nostra lingua, si potrebbe dare il nome “Dio”, e questa cosa è l’anima dell’universo, ovvero l’anima che sta alla base di tutto il mondo materiale, quella che gli induisti definirebbero Brahman e gli stoici Logos.

Inalcuni punti del testo mi rivolgerò direttamente al lettore utilizzando la seconda persona singolare, in modo da rendere la dimostrazione più efficace, sperando di riuscire nel far corrispondere tutto quello che dirò a ciò che il lettore percepisce realmente.

Per dimostrare che l’universo ha un’anima, però, dobbiamo prima iniziare col prendere atto di due fatti che sono incontrovertibili.

Per prima cosa, tutto ciò che esiste nell’universo è costituito da materia, la quale è governata, anche se in modo non ancora del tutto chiaro, da leggi chimico-fisiche. Ogni cosa che ci circonda è costituita da molecole, atomi e particelle sub-atomiche, il cui funzionamento e le cui interazioni sono spiegabili tramite teorie scientifiche. Anche gli esseri viventi sono formati da macromolecole organiche, ovvero carboidrati, lipidi, proteine e acidi nucleici, le quali non sono altro che composti del carbonio. Al giorno d’oggi, persino il funzionamento della psiche umana si può spiegare tramite le leggi della materia. Grazie alle neuroscienze, infatti, sappiamo che la nostra mente si origina dalla trasmissione di segnali elettrici fra neuroni tramite i loro potenziali d’azione. Anche le emozioni che proviamo sono frutto di queste connessioni neurali, poiché derivano da alcuni neurotrasmettitori chimici che sono coinvolti nella trasmissione degli impulsi nervosi. La serotonina, ad esempio, produce la calma, il buon umore e la sensazione di benessere, mentre l’adrenalina è responsabile dell’eccitazione, della paura e della reattività in situazioni di stress o di pericolo, così come la dopamina genera emozioni

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positive quando riceviamo una ricompensa o svolgiamo un’attività che troviamo interessante. Anche la mente umana, quindi, non è che una funzione del cervello, un organo fatto di cellule, i neuroni, a loro volta composte da molecole.

Non è compito di questo articolo provare che quanto appena detto corrisponde al vero, dato che non vi sarebbe lo spazio per riassumere tutta la vasta letteratura scientifica di secoli di studi sulla vita e sulla natura. Basti solo tenere presente che tutte le teorie proposte dagli scienziati vengono sempre convalidate con degli esperimenti, i quali sono niente meno che delle osservazioni – del fenomeno studiato o di uno simile riprodotto in laboratorio –effettuate con strumenti più precisi dell’occhio umano. Ogni nozione che possiamo apprendere dalla scienza si basa quindi innanzitutto su ciò che si vede in natura, e negare che esistano i batteri o i buchi neri, perciò, sarebbe come negare che esistono gli alberi, le case o le automobili. A questo punto, però, è un altro il dubbio che dovrebbe sorgere nella mente di chi legge.

Se infatti tutte le creature viventi, persino l’uomo, funzionano in base a leggi chimico-fisiche, allora chi sta leggendo questo articolo dovrebbe essere una sorta di “macchina biologica” priva di vita, in cui alcune cellule trasmettono informazioni visive ad altre, che poi le trasformano in segnali elettrici e le rielaborano. Ma in questo momento – e qui pongo la domanda direttamente al lettore –c’è veramente un ammasso di cellule inanimato che sta leggendo questo articolo? La risposta è no: sei Tu che stai leggendo questo articolo.

Sei Tu infatti a leggere le parole di questo testo quando le cellule dei tuoi nervi ottici trasmettono le informazioni ricevute dagli occhi al cervello.

Sei Tu, poi, a riflettere su quello che stai leggendo man mano che i tuoi neuroni rielaborano le informazioni recepite. A fare tutto questo, sei Tu, e non una “macchina biologica” inanimata che lo fa al posto tuo.

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Tutto ciò ti potrà sembrare una totale banalità, ma se ci pensi bene, anche se riuscissimo a costruire, con i mezzi e le conoscenze adeguate, un automa così sofisticato da essere in grado di leggere un testo e di rielaborare le informazioni apprese, al posto suo non ci sarebbe nessun essere che, come te, potrebbe affermare di stare leggendo o di stare pensando.

Certo, se fosse progettato per parlare potrebbe dire “io penso” o “che brutto articolo”, ma lo direbbe soltanto perché è stato costruito per farlo, come un trapano che fa buchi in un muro o una motosega che taglia un albero. Tu, invece, percepisci veramente che stai leggendo questo articolo e che stai pensando a ciò che leggi, così come ogni qualvolta svolgi un’attività, come andare a lavoro, ascoltare una canzone o guardare un film, percepisci di starla facendo, ovvero percepisci te stesso che compie tali azioni. Tu, quindi, percepisci che stai esistendo.

È qui allora che giungiamo al secondo fatto incontrovertibile di cui dobbiamo prendere atto per compiere la nostra dimostrazione: l’uomo ha un’anima.

Ciò potrebbe generare confusione nel lettore, dal momento che anche l’anima, come Dio, è un concetto elaborato dall’uomo per esprimere idee differenti, spesso astratte e filosofiche, che cambiano fra le varie culture e religioni. In realtà, la nostra è una dimostrazione di tipo empirico, basata quindi su ciò che senti e percepisci realmente. Possiamo perciò affermare di aver dimostrato empiricamente che dentro di te esiste quella che gli antichi greci chiamavano psiche, o gli induisti atman8, e che in italiano si può definire anima, ma anche coscienza.

L’anima è quella cosa che tu senti di possedere. Quando tieni gli occhi aperti, vedi ciò che ti sta intorno. Se invece chiudessi gli occhi, sentiresti comunque tutti i suoni e i rumori che provengono dall’ambiente che ti circonda. Se anche ti tappassi le orecchie e tenessi gli occhi chiusi, senza sentire né vedere più nulla, percepiresti an-

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cora la tua presenza, dato che nella tua testa staresti pensando e la tua mente non smetterebbe di lavorare. Anche se la tua mente si “spegnesse”, praticamente nel momento in cui ti addormenti, potresti “riapparire” in un sogno, sentendo di essere presente in qualche luogo immaginario della tua fantasia. Persino se la tua mente dovesse rimanere invalidata, a causa di gravi traumi subiti dal cervello, potresti continuare a percepire qualcosa. Molte persone uscite da un coma, infatti, hanno raccontato di aver provato, durante lo stato vegetativo, delle “esperienze ai confini della morte”. C’è chi ha detto di aver attraversato un tunnel in fondo al quale intravvedeva una luce abbagliante, o chi invece ha raccontato di aver avvertito una sensazione di pace e serenità indescrivibili, con suoni e colori meravigliosi mai visti prima sulla terra. Altri, addirittura, hanno affermato di aver “abbandonato” il proprio corpo e di averlo potuto osservare dall’esterno circondato da medici e familiari.

Tutto questo è ciò che in questo articolo definiamo anima. È la tua auto-consapevolezza di stare vivendo, di trovarti in qualche luogo, sia esso reale o frutto della tua mente. È la tua auto-coscienza, il tuo percepire che esisti, una cosa che un automa, anche quello più simile all’uomo, non potrà mai provare. La tua auto-coscienza è tutto ciò che senti, dentro e fuori di te; Tu sei la tua autocoscienza. Tu sei la tua anima. Puoi percepire di esistere, e di conseguenza puoi pensare di stare percependo la tua esistenza, ma anche percepire di pensarlo o pensare che lo stai pensando.

Questa concezione dell’animo umano è molto simile al cogito cartesiano, ma con una differenza fondamentale. Cartesio, infatti, attribuiva alla tua res cogitans la tua certezza di esistere, dato che mentre pensi sei consapevole di stare pensando – e quindi di stare vivendo –, mentre la res extensa, ovvero il mondo materiale che ti circonda, potrebbe anche non esistere realmente ed essere soltanto un’illusione. In questo articolo, invece, non mettiamo in dubbio l’esistenza della resextensa (se però ciò non fosse vero, vorrebbe dire

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che il mondo in cui vivo è un’illusione e che tu, lettore, in realtà non esisti). Dal tuo cogito, la tua consapevolezza di esistere, deriva allora la tua assoluta certezza di non essere una creatura inanimata, nonostante tu sia fatto di materia, alla pari di un sasso o di una casa. Finora abbiamo quindi assodato che tu possiedi un’anima, essendo un essere cosciente, e che ogni cosa presente nell’universo conosciuto, anche Tu stesso, è fatta di materia. Del primo principio è stata fornita una dimostrazione diretta ed empirica, mentre per il secondo ci siamo affidati agli studi degli scienziati, prendendo ovviamente per vero che tutto il mondo e la natura esistano realmente, e che non siano un semplice inganno. Questi due enunciati, però, dovrebbero risultare contraddittori per chi legge. Se gli uomini, infatti, sono costituiti da materia e persino la loro mente funziona in base a leggi biochimiche, come è possibile che essi abbiano un’anima? Come è possibile che gli umani siano esseri coscienti, che sentono di esistere, se sono formati dalla stessa materia di cui sono formate le cose inanimate? Si potrebbe affermare che l’anima è una cosa che gli umani hanno in più – separata dalla materia di cui sono fatti –rispetto alle cose inanimate. In realtà, molti degli stati della coscienza sono direttamente correlati con l’attività elettrochimica del nostro cervello: basta ad esempio che le nostre onde cerebrali cambino dalla tipologia Theta a quella Beta perché si passi da uno stato di veglia a uno di sonnolenza, mentre con le onde di tipo Delta si ottiene il sonno più profondo. Come si può spiegare allora tutto ciò? Semplicemente, l’anima deriva dalla materia. È dalla materia, la stessa di cui è fatto tutto l’universo conosciuto, che si genera l’anima. La tua auto-coscienza è materia. Tu sei materia.

Ciò ovviamente non vuol dire che la tua auto-coscienza non esiste (sarebbe come affermare che Tu non esisti) ma significa, invece, che la materia non è una cosa inerte e inanimata, ma anzi è viva quanto è viva la tua coscienza. La materia di cui è costituito l’universo, dunque, possiede un’anima.

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In questo modo abbiamo quindi dimostrato che l’universo ha un’anima, o che comunque ha qualcosa che si potrebbe definire “anima”. Questa “anima dell’universo” potrebbe essere chiamata “Dio”, ma non è nelle nostre facoltà provare che essa sia effettivamente quel Dio supremo di cui gli uomini hanno sempre parlato. Come abbiamo visto all’inizio dell’articolo, infatti, il concetto di anima universale non corrisponde alla definizione che molte religioni hanno di Dio. Si potrebbe adattare al Brahman indù, o al Logos stoico, ma non al Dio abramitico, che è un creatore onnipresente ma che trascende l’universo. Quindi, per ora, non sappiamo quale sia il rapporto fra l’anima universale di cui abbiamo dimostrato l’esistenza e una possibile divinità suprema come il Dio monoteista. Si potrebbero pensare delle teorie, ma rimarrebbero di carattere puramente speculativo. Un’ipotesi che mi permetto di fare, ad esempio, è che quest’anima posseduta dalla materia dell’universo è a sua volta la sostanza di cui è costituita una divinità con una propria mente superiore trascendente; in questo modo, quindi, Dio starebbe all’anima dell’universo come il cervello sta al corpo umano. In realtà, difficilmente noi umani potremmo mai “avere prova” di una divinità superiore all’anima universale. Ciò che siamo in grado di fare, però, è di avere percezione di quest’anima dell’universo, in quanto abbiamo un’auto-coscienza che è parte integrante di essa. Potremmo allora tentare di capire com’ è questa grande “coscienza” dell’universo materiale analizzando in che modo la nostra coscienza si origina dalla materia del nostro cervello. Per fare ciò, sarebbe necessario conoscere esattamente come funziona il cervello umano, per comprendere come si genera la coscienza in ogni stato mentale che proviamo. Tale compito risulta arduo per i neuroscienziati, giacché esso consiste non tanto nello studiare i processi cognitivi correlati alle nostre varie funzioni mentali, quanto nel cercare il collegamento, a livello cerebrale, da cui scaturisce la nostra piena consapevolezza di possedere una mente. Bisognerebbe cioè trovare

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quel meccanismo sconosciuto che integra processi neuronali paralleli e distribuiti nell’esperienza unificata della coscienza, che è quella cosa che ci rende possessori e osservatori della nostra mente all’interno della mente stessa 9 . In tal senso, sono stati fatti dei passi avanti nell’identificare i correlati neuronali della coscienza10.

A questo punto, però, sarebbe interessante chiedersi come si originano esattamente questi circuiti neurali che sono responsabili delle varie funzioni del nostro cervello e dalla cui interazione reciproca dovrebbe risultare la nostra coscienza. Ebbene, la trasmissione degli impulsi nervosi, da cui scaturisce tutto ciò, nasce dallo scambio di impulsi elettrochimici fra i neuroni; questi impulsi generano in essi una variazione di carica rispetto all’esterno della membrana cellulare, che determina un’entrata di ioni sodio e una fuoriuscita di ioni potassio, fino a che non viene ristabilita la carica di riposo e il segnale viene trasmesso ad altre cellule. È questo spostamento di atomi dentro e fuori i neuroni, dunque, a dare origine alla trasmissione delle informazioni nel nostro cervello. In questo modo, il prodursi della nostra mente, e di conseguenza della nostra coscienza e della nostra anima, sembra essere correlato al muoversi degli atomi e delle particelle tramite forze elettriche. La nostra anima e quella dell’universo potrebbero quindi corrispondere al movimento della materia, e forse anche alle sue cause, ovvero i campi di forze e l’energia. Questa, ovviamente, è soltanto un’ipotesi, ma ci terrei a far notare che potrebbe essere plausibile la corrispondenza dell’anima dell’universo con le forze fisiche che lo “animano” mettendolo in moto.

L’unica conclusione generale che però possiamo trarre alla luce delle nostre attuali conoscenze è che la nostra auto-coscienza è soltanto una delle forme che può assumere l’anima dell’universo, in quanto condizionata dalla tipologia di materia di cui è costituito il nostro sistema nervoso e al modo in cui interagiscono le sue cellule. Un robot, infatti, non è un essere senziente, così come probabil-

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mente non lo sono tutti gli esseri viventi non dotati di un sistema nervoso come quello animale,11 nonostante la materia di cui sono fatti è la stessa che in noi genera quella che chiamiamo anima, o coscienza, la quale è quindi soltanto una forma dell’anima universale basata sulla forma che assume la materia di cui è parte. Nel nostro organismo, grazie al modo in cui è strutturato il sistema nervoso, l’anima della materia assume la forma di percezione e di auto-consapevolezza: Tu sei materia che è consapevole di sé stessa e che percepisce altra materia, ed è questo tuo percepire tè stesso e ciò che ti sta intorno a farti sentire un “individuo” auto-consapevole separato dal mondo circostante, nonostante questo sia fatto ugualmente di materia. Al contrario, una macchina, o qualsiasi cosa non animata, non si sente un individuo in grado di percepire sé stessa e l’ambiente circostante, poiché in essa l’anima della materia – che è comunque presente –non raggiunge il grado di auto-consapevolezza e di autocoscienza. Tu invece puoi perce pire –e quindi conoscere – te stesso e tutto ciò che ti accade. Il contenuto della tua mente è fatto di tutto ciò che sai riguardo alla tua persona e all’ambiente in cui vivi. Tu sei conoscenza. Questa tua conoscenza, però, non deriva soltanto da ciò che senti e percepisci momentaneamente, ma anche da ciò che ricordi esserti accaduto grazie alla tua memoria. Ogni volta che di mattina ti svegli nel tuo letto, sai dove ti trovi e sai anche chi sono le persone che incontri a casa o quando vai a scuola o a lavoro, perché ti ricordi di conoscerle; probabilmente, saprai anche ogni cosa che dovrai fare, perché ti ricordi qual è la tua routine quotidiana o quello che hai programmato per la giornata. Tutto questo avviene grazie alla tua memoria, che può essere a lungo termine, a breve termine o percettiva immediata, e che concorre – insieme alla percezione momentanea –a generare la tua conoscenza riguardo te stesso e all’ambiente che ti circonda, la quale è alla base della tua coscienza individuale. Tu sei tutto ciò che percepisci (dentro e fuori te stesso) e che ricordi di aver percepito. Quando vengono meno la

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percezione e la memorizzazione, allora, viene meno anche la tua auto-consapevolezza. Per esempio, mentre dormi, a parte nei momenti in cui stai sognando, non sai nulla di ciò che ti accade, e non percepisci neanche di stare dormendo; quando poi ti svegli, non ricordi assolutamente niente di ciò che è accaduto tra il momento in cui sei andato a dormire e il tuo risveglio, ed è come se in quel lasso di tempo Tu non fossi esistito. D’altronde, ogni cosa di cui non abbiamo avuto percezione diretta o che non ricordiamo di aver provato o vissuto, per noi è come se non fosse mai esistita. Se non sapessimo come funziona la riproduzione umana, potremmo facilmente credere che siamo stai portati nel mondo da una cicogna, poiché non conosciamo nulla di quello che ci è accaduto quando eravamo neonati. Anche di quello che è accaduto prima che fossimo concepiti, quindi prima che si generasse il nostro essere che percepisce e memorizza, non sappiamo niente, se non quello che ci è stato raccontato da persone nate prima di noi, ed è come se prima della nostra esistenza non ci fosse stato nulla. Ma come possiamo pensare allora all’esistenza di un’anima, di una “coscienza” dell’universo e della materia, se non appena vengono a mancare la nostra percezione e memorizzazione sembra che non ci sia più nulla, come se il resto del mondo materiale, che ovviamente continua ad esistere, non avesse alcuna forma di esistenza “cosciente”? In realtà, come abbiamo visto, il nostro Io cosciente, lo stesso che è in grado di distinguere tra i momenti in cui “sente di esistere” e i momenti in cui non percepisce nulla, è solo una forma dell’anima della materia, in quanto deriva dalla materia stessa, ed è frutto della conoscenza, cioè della percezione e della memorizzazione. Quando perciò per cause materiali vengono meno queste due funzioni, è come se “sparisse” il nostro Io, la nostra auto-coscienza, ma questo non significa che oltre ad esso non ci sia un’ulteriore anima della materia; semplicemente, quando viene meno la nostra individualità perché mancano le funzioni che la generano, la nostra coscienza torna ad essere parte

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dell’anima dell’universo e la sua identità individuale e auto-cosciente si annulla. Quando non siamo ancora venuti al mondo, o quando la nostra mente è “spenta” perché stiamo dormendo, non esistono quindi né un “Io” né un “Tu”, ma soltanto una grande anima della materia di cui siamo parte.

Da svegli e da “vivi” non abbiamo conoscenza di cosa si provi ad essere parte di quest’anima universale nella sua totalità, proprio perché il “provare” e il “conoscere” sono funzioni che implicano l’esistenza di un’anima individuale, la quale è una parte dell’anima universale ma che si sente “separata” da essa.

Anche quando moriamo, quindi, la nostra anima dovrebbe tornare a essere parte dell’anima dell’universo; non possiamo affermare con certezza, però, se a quel punto il nostro Io, la nostra coscienza individuale, scompaia veramente oppure si conservi in qualche modo.

Non è facoltà di questo articolo indagare ciò, così come non lo è dimostrare tutte le ipotesi che sono emerse sull’origine dell’anima dell’universo e sulla sua relazione con un’ipotetica divinità superiore intelligente. Vi è però un ultimo concetto fondamentale che vorrei il lettore apprendesse prima della fine di questo testo. Per arrivare infatti a comprendere l’esistenza di un’“anima” dell’universo materiale, si è dovuto accettare il fatto che una cosa “immateriale” e “spirituale” come l’animo umano possa derivare dalla materia fisica, superando così la logica della dialettica fra materialismo e spiritualismo. È proprio questo ciò che vorrei emergesse dalla lettura di queste pagine: se la coscienza e la mente umana possono essere spiegate dalle leggi della scienza, ciò non significa che l’uomo non possa comunque possedere un’anima, e il fatto che essa sia corporea e materiale non ne elimina il valore spirituale che le attribuiscono la religione o la filosofia; è la materia, invece, ad assumere “spiritualità”, e lo studio scientifico o metafisico di essa può trasformarsi in un’autentica indagine su Dio.

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1 Si veda FRANCO RENDICH, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, Venezia, L’Indoeuropea, 2018.

2 Si vedano i passi dell’Upanishad riportati nel testo citato alla nota 1.

3 Il nome Zeus deriva dal protoindoeuropeo Dyeus, da cui anche il termine deva, in sanscrito, o deus, in latino, da cui il nostro “dio”. Il Dyeus dei Protoindoeuropei era la divinità maschile guerriera, padrone e amministratore del cielo, della luce e dei lampi; il vocabolo è infatti connesso con la radice dyeu-, che significava “splendere”, ma anche “cielo”, “giorno”, “paradiso”, si veda The American Heritage Dictionary of the English Language: Fourth Edition, 2000.

4 Si veda ANGELO TONELLI, Eleusis e Orfismo: I Misteri e la tradizione iniziatica greca, Milano, Feltrinelli, 2015.

5 I popoli ottentotti e boscimani (Khoi-San), allevatori i primi, cacciatori e raccoglitori i secondi, sono il ramo più antico della nostra specie, da cui si separarono gli altri gruppi di esseri umani che uscirono dall’Africa e popolarono il pianeta, si veda l’articolo Complete Bantu and Khoisangenomes from southern Africa, «Nature», 18 febbraio 2010.

6 Le lingue Khoisan utilizzano i “suoni clic”, ovvero consonanti non polmonari che si ottengono facendo schioccare la lingua sui denti o sul palato. Per pronunciare la consonante alveolare laterale [ || ], così scritta nell’alfabeto fonetico internazionale, bisogna schioccare la lingua contro i denti molari, si veda l’articolo Oswin R. A. Köhler, Antony Traill, Khoisan languages, Encyclopedia Britannica (www.britannica.com).

7 Si veda DAVID CHIDESTER, CHIREVO KWENDA, ROBERT PETTY, JUDY TOBLER, DARREL WRATTEN, African Traditional Religion in South Africa: An Annotated Bibliography, Westport, Greenwood Publishing Group, 7 agosto, 1997.

8 L’uomo, secondo l’Induismo, non è soltanto un essere a immagine e somiglianza del Dio, ma contiene parte di esso in quanto, come le altre creature, è dotato di un’anima, l’atman, ovvero il Sé, l’individualità pura di ogni essere vivente, la quale è una scintilla del Brahman, lo Spirito universale; si veda il testo citato alla nota 1.

9 Si veda MICHELE FARISCO, Filosofia delle neuroscienze, Padova, Edizioni Messaggero, 2012.

10 Si veda THOMAS METZINGER, Neural Correlates of consciousness. Empirical and conceptual questions, Cambridge MA, The MIT Press, 2000.

11 Secondo alcuni studiosi, però, anche i vegetali sono esseri senzienti in quanto avrebbero capacità sensoriali molto più complesse di quanto si pensi e sarebbero anche in grado di lanciare segnali di pericolo comunicando fra di loro, si veda STEFANO MANCUSO, FRANTIŠEK BALUSKA, DIETER VOLKMANN, Communication in Plants - Neuronal Aspects of Plant Life, Berlino, Springer, 2006.

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RENDICH FRANCO, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, Venezia, L’Indoeuropea, 2018

TONELLI ANGELO, Eleusis e Orfismo: I Misteri e la tradizione iniziatica greca, Milano, Feltrinelli, 2015

Dalla letteratura classica

Upanishad

ESIODO, Teogonia

BIBLIOGRAFIA
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Simone Caforio è nato a Melzo (MI) nel 2002 ed è residente a Vignate (MI).

Rosario D’Amico, nato a Messina nel 1978, è dottore in Scienze Statistiche, Demografiche e Sociali. Ha pubblicato alcuni saggi che vertono sul problema dell’interpretazione della probabilità e sulle sue implicazioni filosofico-teologiche. Finalista sezione “Articolo Filosofico” del Premio Nazionale di Filosofia 2021.

Giancarlo Pillitu, nato a Cagliari il 21 aprile 1962, è residente in Assemini (CA). Insegnante di filosofia e storia al Liceo Scientifico “G. Brotzu” di Quartu Sant’Elena (CA), dal 2005 collabora regolarmente con il periodico «Vulcano» di Decimomannu, Assemini, Decimoputzu, Uta, Villasor, Villaspeciosa, curando la rubrica “Attualità filosofica”, da lui ideata. La giura della Tredicesima Edizione del Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero” gli ha assegnato il Terzo Premio sezione “Articolo Filosofico ” nel maggio del 2019.

Teresa Simeone è nata a Ponte, in provincia di Benevento, nel1962. Ha insegnato per molti anni Filosofia e Storia al Liceo Artistico Statale di Benevento; attualmente è docente al Liceo Classico “Pietro Giannone”. Da sempre impegnata nella promozione dell’antifascismo e nella difesa dei valori della Costituzione, fa parte dal 2016 del Comitato provinciale dell’ANPI di Benevento. È stata consigliera comunale nel proprio paese. Iscritta all’Ordine dei Giornalisti della Campania, ha scritto per diversi anni su un giornale online sannita, Il Vaglio.it.

BIOGRAFIA DEGLI AUTORI
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Rebecca Trabalza, nata a Foligno nel 1991 è filosofa, scrittrice e fotografa.

Piero Zanetov, nipote e studioso del pensiero del filosofo prof. Rosario Assunto, Accademico dei Lincei, ordinario di Estetica all’Università di Urbino e Professore Emerito di Storia della Filosofia Italiana all’Università La Sapienza Roma 3 (precursore degli studi sull’arte dei giardini e del paesaggio in Europa), ha partecipato con relazioni ai convegni organizzati in suo onore tra il 2003 ed il 2017. Sta portando a termine la raccolta critica di una serie di scritti e di elzeviri di Rosario Assunto presenti su quotidiani e riviste italiane tra il 1960 ed i primi degli Anni Novanta.

Tra il 2012 e il 2013 si è occupato, con lezioni e seminari, di problemi legati all’estetica ambientale, “Visual Art” e “Semiotica dell’Immagine” (corso di “Styling, Editing e Teoria – Storia della Moda” presso la sede romana dell’Istituto Europeo del Design –IED).

Ha pubblicato diversi saggi e articoli e ha partecipato come relatore a parecchi convegni nazionali.

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