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L’impegno, antidoto alla disperazione

L’IMPEGNO, ANTIDOTO ALLA DISPERAZIONE

TERESA SIMEONE

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La condizione dell’uomo contemporaneo, col suo carico d’inadeguatezza e di precarietà, forse da pochi è così drammaticamente analizzata come da Günther Anders, il cui principio disperazione ne caratterizza la polemica e contro il mondo della tecnica e contro il suo protagonista, per lui irrimediabilmente affetto dalla sindrome di Prometeo.

Anders-Stern, pensatore controcorrente, difficilmente collocabile in una corrente o identificabile con un’ideologia, rappresenta una voce libera, originale e sempre attuale benché calata nel contesto novecentesco da cui trae alimento per una critica alla sua boriosa e devastante ὕβϱις. Le perplessità riguardo al potenziale distruttivo e autodistruttivo slatentizzato nella seconda guerra mondiale, con la pianificazione tayloristica dello sterminio nonché l’irreversibilità dell’uso nucleare su Hiroshima e Nagasaki seguito al progetto Manhattan, definiscono il punto di non ritorno con il quale, secondo Anders, la riflessione filosofica deve fare i conti.

Paradigmatica, in tal senso, la critica amara più volte espressa alla civiltà delle macchine: nella ricerca del dominio su una natura che avrebbe voluto inizialmente soltanto assoggettare per poterne controllare gli effetti negativi, l’uomo ha poi finito per creare un’asimmetria tra i prodotti che ha costruito e la capacità di immaginarne la possibile distruttività, diventando inadeguato rispetto alla sua stessa tecnica e cieco di fronte all’apocalisse. E, ormai obsoleto e antiquato riguardo al mondo “oggettuale” da lui creato, non può che avvertirne la vergogna.

Arrivato a costruire ciò che può annientarlo, incurante della minaccia incombente e avvolto nel vortice di un’ossessione consumi-

stica per cui ciò che può essere prodotto deve essere prodotto e ovviamente ciò che può essere prodotto deve essere usato, ha finito per sperimentare la possibilità dell’annichilimento, non solo per se stesso, ma per l’umanità intera. La bomba atomica, sganciata in Giappone nell’agosto del 1945, rappresenta una possibilità realizzata che – è questo il fatto tragico – non preserva dall’eventualità che possa essere riutilizzata. Proprio tale probabilità deve far sì che noi teniamo viva la coscienza e vigiliamo ogni giorno perché se un evento passato è finito, non è finito il “disegno” che l’ha permesso.

Auschwitz, Hiroshima, Nagasaki, che hanno infettato l’“umanità” civilizzata, rappresentano, perciò, situazioni-limite pericolosissime, segnando la mutazione dell’uomo novecentesco, non più incosciente della realtà del proprio Thanatos. «Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che vi siano mai penetrati), e questo di fatto è accaduto. Ma, al contrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità»1 .

La ballata di Goethe che racconta dell’apprendista stregone, incapace di fermare l’incantesimo avviato, rimane ancora la metafora più efficace a descrivere un meccanismo che l’uomo ha avviato e i cui esiti ormai non è più in grado di controllare.

Sappiamo bene che il Famulus di Der Zauberlehrlingpuò essere chiunque di noi e che arriva sempre il momento in cui chiameremo, disperati, il Maestro perché corra in nostro aiuto con la formula della ritrasformazione e riporti la scopa alla sua natura originaria, ma ciò che manca è la certezza che ci sia sempre un Maestro e che faccia in tempo ad aiutarci prima della catastrofe.

Niente – è questa la consapevolezza dell’era postatomica – è ormai più inevitabile.

Ciò vale – aggiungiamo noi – anche per qualsiasi costruzione umana, sociale, politica. Nonché, ovviamente, per l’imprevedibilità di una natura che, d’improvviso, può scatenare un’emergenza sanitaria mondiale. I fatti di Capitol Hill e la recrudescenza di episodi

di razzismo, di suprematismo, di antisemitismo in tutto il mondo stanno ad ammonirci che niente è eternamente dato, neppure nella civiltà del terzo millennio, e che ciò che sembrava impossibile è sempre realizzabile. Allo stesso modo di pestilenze che possono ritornare a mettere in crisi i nostri modelli di vita e di società.

Una volta che l’homo faber – ritornando ad Anders – ha scoperto il proprio potenziale e lo ha attualizzato in oggetti che usa e che può riprodurre, ha iniziato a percorrere una strada da cui non può più tornare indietro, anche perché la vita nell’industria culturale di massa lo spinge a continuare a produrre, ad usare ciò che produce e a consumarlo in un parossismo che obnubila la sua coscienza, alienandolo rispetto a se stesso e spegnendo ogni intelligenza critica su cosa stia facendo e su dove stia andando. L’inserimento nel meccanismo di una produzione in cui si conosce soltanto ciò che si fa e non l’intero processo serve proprio ad annullare reazioni individuali e a indurre deresponsabilizzazione.

I prodotti tecnologici che ha costruito, e attraverso i quali si interfaccia con la realtà, finiscono per diventare, per lui, la realtà stessa e quegli oggetti che dovrebbero dargli sovranità, i suoi padroni. I mezzi di comunicazione di massa e la televisione, invece di aprirlo, lo portano a rinchiudersi volontariamente in un recinto e a renderne appetibile l’isolamento.

In questo, Anders è stato profetico: se sostituiamo il televisore con lo smartphonee aggiungiamo ai mezzi di comunicazione i social network, ci renderemo conto di quanto sia attuale la sua disamina. Tutta la nostra vita – ne abbiamo anche fatta esperienza con la pandemia – potrebbe svolgersi tra le quattro mura. Le notizie dal mondo ci arrivano in casa senza che noi dobbiamo uscire. Non c’è bisogno di condividere fisicamente con gli altri gioie, emozioni, cultura: tutto, nel rassicurante focolare domestico, è a disposizione e senza sforzi. Siamo eremiti di massa: viviamo quello che vivono gli altri, pensiamo e sogniamo quello che gli altri pensano e sognano,

viviamo la vita degli altri ma senza gli altri. Ciò che Anders non poteva, invece, immaginare è che questa irrealtà diventasse realtà. Oggi lo spazio sociale non è meno vero di quello fisico e le relazioni sono possibili anche a distanza, tanto che tra OnLine e OffLine, il filosofo Luciano Floridi, per rappresentarne l’ibridazione, ha coniato il termine Onlife.

Il tabù mediafagocitante di qualche tempo fa è stato elaborato fino a essere superato da una vita non più percepita, scandalosamente, come immersa nel web ma socialmente accettata. Tutto è interconnesso. Lo stesso cellulare non è più soltanto un oggetto che usiamo per chiamare chi è lontano ma è il prolungamento dell’essere nel mondo. È la nostra finestra sull’esterno.

L’uomo, però, in questa narcosi intellettiva, come ammoniva Anders, non si rende conto della propria progressiva perdita di storicità. La sua coscienza è sommersa dal presente e la quotidianità costantemente centrata sul consumo dei prodotti tecnologici che ne invadono ogni aspetto e lo trascinano in una ripetizione meccanica che gli fa perdere il senso del succedersi degli eventi.

Non vive neppure proiettato verso il futuro, schiacciato com’è su un’istantaneità che continuamente lo supera. Non meditando su di essa e non potendo analizzarla e comprenderla, non gli resta che subire la storia, in un’incoscienza senza memoria e senza critica. Pressato dal continuare a produrre oggetti e a consumarli, è sempre meno capace di riflettere sul proprio destino. Attualizzando, il suo è il nostro tempo, inconsistente ed effimero. Il tempo di un clic, di un like. Il tempo dei social.

In questo mondo dominato da un progresso tecnologico inarrestabile, minacciato da strumenti che ne rappresentano la possibilità dell’annichilimento fisico (nucleare) e psicosociale (mezzi di comunicazione), c’è una speranza di salvezza? Anders era totalmente pessimista sul futuro, anche se la sua vita lo vede assumere posizioni precise, in un attivismo che nega l’apparente rassegnazione. Nono-

stante la disperazione, che potrebbe precludere a un nichilismo schiacciato su posizioni rinunciatarie, c’è, nelle sue esperienze, il tentativo comunque di dare una risposta, non tanto speculativa, quanto pratica, all’autodistruzione dell’uomo che sente inevitabile.

Quando intraprese la nota corrispondenza con Claude Eatherly, l’aviatore statunitense che partecipò alle operazioni preliminari allo sganciamento della bomba atomica su Hiroshima e cadde poi in uno stato di profonda depressione, Anders cercò sinceramente di aiutarlo. Ciò che lo spingeva ad avventurarsi in un mondo così complesso e delicato era la necessità di esplorare l’anima di chi è schiacciato dal peso di scelte drammatiche fatte da altri, ma che ricadono inevitabilmente sul proprio vissuto, come fece anche nei confronti di Klaus Eichmann. Le conseguenze di tragedie dagli effetti devastanti mettono spesso in evidenza l’inadeguatezza degli strumenti emotivi e psicologici a disposizione ma possono diventare anche occasione per chiarire il mostruoso che è in ognuno di noi. E indicare una via di uscita.

Anders fu antimilitarista convinto; s’impegnò nel movimento antinucleare internazionale e partecipò al Tribunale Russell contro la guerra in Vietnam, quasi a sottolineare il bisogno comunque di far seguire, alla denuncia del male, la richiesta di antidoti, l’attivazione di meccanismi di difesa, la necessità, attraverso l’accensione della paura, dell’agire sulla disperazione paralizzante.

«Adesso, però, conosco angosce più grandi e compirò questa mossa anche se in tal caso dovessi rompere l’obbedienza nei Tuoi confronti o se Tu revocassi la Tua protezione su di me. La salvezza del mio prossimo mi sta più a cuore dell’acquiescente certezza della mia obbedienza»2 dice Noè a Dio, per strappare qualche altro giorno al diluvio, supplicandolo «di prolungare la scadenza finché coloro che oggi sono troppo ciechi per poter vedere la propria cecità possano presentarsi al Tuo cospetto dopo aver riacquistato la vista, e quelli che sono ancora troppo sordi per poter udire il Tuo avvertimento possano riacquistare l’udito»3 .

Anders non si limita, cioè, a evocare una speranza generica e vaga che rischia di bloccare l’agire4 né si abbandona a uno sterile sconforto, ma mobilita una consapevolezza realistica che stimoli risposte efficaci e praticabili. E lo faccia prima che i disastri avvengano: «E se Noè non avesse trovato il coraggio di sollevarsi contro l’ignavia, di recitare la commedia, di comparire in sacco e ceneri, di rovesciare il tempo, di versare le lacrime in anticipo e d’intonare benedizioni funebri per coloro che ancora vivevano e quelli che non erano ancora nati, non soltanto l’Arca […] non sarebbe mai stata costruita; ma anche noi non saremmo qui, noi, i suoi pro-nipoti e nessuno di noi avrebbe mai avuto la gioia di ammirare la bellezza del mondo rifondato; e anche Dio non regnerebbe sul suo creato bensì su lande ammutolite che l’avrebbero annoiato senza requie per tutta l’eternità»5 .

Contro la cecità di una coscienza che chiude gli occhi all’eventualità della catastrofe, ricorda che abbiamo una possibilità. «Non essere vile, abbi il coraggio di aver paura!» scrive in Essere e non essere. La paura è preventiva e, perciò, protettiva. La paura ci salva.

Il suo è sì pessimismo, ma vigile: un appello alle coscienze affinché superino l’ottundimento etico, l’effetto anestetizzante del divertissement e s’impegnino nell’azione; una scossa agli indifferenti e un pungolo agli “ottimisti di professione”, per usare un’espressione di Bobbio.

È un richiamo all’impegno non un cedimento al disimpegno. È disperazione, non resa.

NOTE 1 GÜNTHER ANDERS, L’uomo è antiquato, II Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, p. 377. 2 GÜNTHER ANDERS, Brevi scritti sulla fine dell’uomo,Trieste, Asterios, p. 29. 3 Ivi, p. 27. 4 Günther Anders, Violenza sì, violenza no. Un dibattito necessario, Istrixistrix @libero.it, Nessuna proprietà, p. 9. 5 GÜNTHER ANDERS, Brevi scritti sulla fine dell’uomo, op. cit,, pp. 53-55

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