Artim Magazine N.5

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editoriale

Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d'uomo mi diminusce, perchè io partecipo all'Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: Essa suona per te.

’’

John Donne, “No Man Is an Island”, in Devotions Upon Emergent Occasions, 1624, (trad. it “Nessun uomo è un’isola”, cit. in Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, 1940).


sommario 10 Rifugiato. Un’analisi concettuale, storica e politica

40 Ombrina Mare simbolo di un Paese in stand by: l’istanza di concessione di coltivazione ed il permesso di ricerca

58 Storie di ordinaria emarginazione: “Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo

72 WildAim, nel mondo dell’arte naturalistica. Intervista

97 Tecnologia per l’ambiente. Un nuovo eolico a basso costo e caratterizzato da una maggiore sostenibilità

22 Accoglienza e cittadinanza attiva. La realtà del Naga Onlus

32 Non mangiare il peperoncino con la mia bocca

48 Miscellanea di un barista disinformato dei fatti: l’uomo è acqua.

52 Neutrini e neuroni in salsa folle

60 “Quarto potere” di Orson Welles. Il più grande film di tutti i tempi

64 Introspezioni. Intervista a Mattia Arduini

82 Dio salvi l’eugenetica! Un raro caso di alleanza Stato-Chiesa e altri piccoli aneddoti evolutivi

88 Vite da spazio


redazione Direttore Miki Coluccia _redazione.artimmagazine@gmail.com Editor Eugenio Panzone Resp. Marketing&Comunicazione Nico V. Designer Leo Zelig Front&Back Michele De Matteis Traduzioni redazione Artim Magazine Collaboratori Isabella Ventura Inagoramorando Thanks to Francesca Ricciardi

su questo numero hanno scritto: Raffaella Vigilante, Enzo Di Salvatore e Enrico Gagliano, Simone Podu, Alberto Zaccagni, Myriam Pettinato, Marciano Santosuosso, Federica Del Deo, Giovanni Pirone. su questo numero abbiamo intervistato: Arianna Foletti (Naga Onlus), Mattia Arduini, Giorgia Oldano, Miguel Pascual Sacristán.

attribution: GUE/NGL (p.6), Oxfam Italia (pp.6,10,16), Boris Niehaus (p.12), AgenciaAndesv (p.14), Naga Onlus (pp.20 a 26), ASD. Atletico Brigante (p.33), Tommaso Maria Ferri (pp.30,32,33), Letizia Monaco (comunità accogliente) (p.34), ollesvensson (p.40), Me (p.46), Ferruccio Zanone (p.48), thelunch_box (p.50), Zingaro. I am a gipsy too (pp.80,84), Montage Communications (p.81), laimagendelmundo (p.82), NASA’s Marshall Space Flight Center (p.89), Nasa (p.90)



La resistenza della Grecia Il prossimo 5 luglio il governo greco proporrà un referendum ai cittadini sulla proposta dei creditori internazionali per evitare il default e continuare la previsione di un programma di aiuti. Il 29 giugno è stato reso pubblico il testo del quesito: "Deve essere accettata la proposta sottoposta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale all'Eurogruppo del 25 giugno 2015, composta da due parti che insieme costituiscono la loro proposta complessiva? Il primo documento è intitolato 'Riforme per il completamento dell'attuale programma e oltre' e il secondo 'Analisi preliminare per la sostenibilità del debito". Il Governo Tsipras sostiene il 'No'.



Rifugiati siriani in Libano Secondo i dati dell’UNHCR, nel quinto anno di conflitto civile in Siria sono circa 3,9 milioni i siriani costretti ad abbandonare il paese. La maggior parte è rifugiata in Libano, Turchia, Giordania, Iraq ed Egitto e, come recita il report pubblicato a marzo, “senza una soluzione politica all’orizzonte, [...], non ha alcuna speranza di tornare a casa in un futuro prossimo e le possibilità di ricominciare la propria vita in esilio sono scarse.”


polis/diritti

Rifugiato. Un'analisi concettuale, storica e politica di redazione Artim Magazine

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l giorno d’oggi campeggiano oramai da tempo immemore sui giornali, sui muri, per le strade, sulle bocche della gente così come orditi nei discorsi dei politici: i barconi del Mediterraneo, i movimenti di massa, il ‘problema’ dell’immigrazione. La lista potrebbe continuare all’infinito e sempre più spesso si tratta dei deliri di un Occidente fondato su una paura, mista ad un sentimento di colpa, tramutata in odio per lo straniero, che si fonda sull’innalzamento della barricata di una diversità superiore quanto irreale. Una diversità che riguarda concetti come i diritti - che oggi da universali si riscoprono artificiosamente particolari – e che prende le mosse da una preoccupante mancanza di coscienza, sempre di più sintomo di una comprensione che non vuole esserci e che, invece, è oramai in balìa delle trame strategicamente elaborate dal mondo partitico. La questione dei flussi 10

migratori è, infatti, preda di mitizzazioni e mistificazioni che nascondono sotto una fitta coltre di definizioni – basti pensare all’interminabile elenco di termini e concetti quali ‘rifugiato’, ‘richiedente asilo’, ‘sfollato’, ‘migrante economico’, emigrazione/immigrazione, persecuzione, rimpatrio, respingimento, e si potrebbe continuare per un bel po’ - una situazione che è così costretta perennemente nel limbo della confusione teorica e sottoposta a una vera e propria manipolazione e strumentalizzazione politica; ed è per questi e altri motivi che, invece, c’è sempre più il bisogno di orientare gli sforzi verso un’analisi che cerchi di essere il più possibile ‘scientifica’, per quello che vuol dire considerare ambiti e soggetti (la società internazionale e le relazioni tra Stati e individui che la attraversano e fondamentalmente la formano) che fanno riferimento a circostanze che non possono mai essere definite ‘ogget-


La priorità del ruolo dello Stato, dei suoi comportamenti e interessi, produce determinate conseguenze, soprattutto in riferimento alla posizione che l’individuo occupa nel campo delle relazioni internazionali

tive’ fino in fondo, ma all’interno delle quali partecipano elementi di natura etica e morale. Secondo un recente rapporto dell’UNHCR, il numero degli sfollati a causa di guerre e persecuzioni ha raggiunto un nuovo, agghiacciante, record: “Nel mondo, un essere umano su 122 è rifugiato, sfollato o richiedente asilo. Se queste persone formassero una nazione, sarebbe la 24esima più grande al mondo per popolazione”. La gravità crescente della situazione, che per ora non vede soluzioni nemmeno a lungo termine, risiede anche nell’evoluzione dei dati degli ultimi anni: alla fine del 2011, il rapporto annuale dell’UNHCR contava nel mondo 42,5 milioni di persone perseguitate e vittime di guerre; nel 2012 aumentavano a 45,2 milioni; nel 2013 ben 51,2 milioni, un anno dopo 59,5 milioni. Si tratta di cifre esorbitanti quanto drammatiche. Negli

ultimi due anni il numero dei nuovi casi è velocemente cresciuto (da circa 6 milioni a 8 milioni) e sembra essere destinato ad aumentare in modo costante, vista l’attuale congiuntura internazionale, caratterizzata da forti frizioni e conflitti tra Stati. E proprio le entità statuali fungono da punto di partenza di questo discorso. Ai fini di una maggior comprensione della questione che vogliamo affrontare, bisogna innanzitutto sottolineare il fatto che viviamo in una ‘società di Stati’: una società prodotta da una serie di conflitti e sempre in balìa di essi, in cui i rapporti sono basati sulla concezione della politica come dialogo e cooperazione ma anche conflitto in determinate circostanze; caratterizzata da determinate regole (diritto) e istituzioni, volte a realizzare specifici scopi e interessi (ordine, giustizia, pace, sicurezza, coesistenza, commercio); che si pone in contrasto con i diritti dei singoli individui, considerati oggi, ma per certi versi solo ‘su carta’, anch’essi soggetti dell’arena internazionale. Proprio questo contrasto sembrerebbe essere determinante nel generare gli specifici sviluppi che, in particolar modo, risultano visibili proprio nella realtà dei flussi migratori. La priorità del ruolo dello Stato, dei suoi comportamenti e interessi, produce determinate conseguenze, soprattutto in riferimento alla posizione che l’individuo occupa nel campo delle relazioni internazionali. A riguardo, risulta molto interessante considerare quelle che sono le vere istituzioni della società internazionale. Si potrebbe pensare che si vuol fare riferimento a organizzazioni come le Nazioni Unite, oppure le varie corti di giustizia, ma si tratta invece di tipi di condotte collaudate, azioni ragionate che si sono elevate al rango di ‘istituzione’. Più sopra si 11


è fatto riferimento alla politica anche come “conflitto in determinate circostanze”: in base a questa definizione, possiamo annoverare proprio la guerra tra le istituzioni della società degli Stati. Questa affermazione risulta molto utile per comprendere meglio le dinamiche prodotte dalle procedure utilizzate dagli Stati per il mantenimento della loro posizione gerarchicamente superiore e gli effetti che si sviluppano nell’ambito dei rapporti tra Stato e individuo, tra i quali spicca nel nostro discorso la creazione del fenomeno dei movimenti di massa e delle migrazioni forzate. Conviene fare qualche passo indietro e chiedere aiuto alla storia e alla letteratura politica. Secondo alcuni studiosi, il rifugiato rappresenta un’inevitabile seppur non voluta conseguenza del sistema internazionale degli Stati e la sua figura è costantemente rigenerata dall’esistenza dei moderni confini politici. Se, da un lato, il principio di autodeterminazione dei popoli ha incanalato la maggior parte della popolazione mondiale in strutture sociali organizzative fondate sul concetto di Stato-nazione, dall’altro ha prodotto l’effetto collaterale costituito dalla 12

nascita dei rifugiati, ovvero coloro che fondamentalmente sono rimasti esclusi dall’ambito di azione e protezione diretta delle nascenti organizzazioni politiche. Emblematicamente, proprio il continente europeo, a dispetto di quanto oggi lo si voglia considerare eccessivamente gravato e sfinito dal peso incessante e insopportabile degli imponenti flussi migratori che lo interessano, può essere considerato, dal punto di vista storico, l’incubatrice e la culla del fenomeno dei rifugiati. In nome del principio dell’identità nazionale, infatti, dal 1880 fino al primo dopoguerra, in poco meno di cinquanta anni, centinaia di migliaia di Turchi sono costretti a fuggire dalla nascente Bulgaria, mentre migliaia e migliaia di musulmani sono accolti come rifugiati in Turchia; circa 2,5 milioni di ebrei vengono perseguitati e deportati in Polonia, Russia e Ungheria; particolarmente significativa è la vicenda degli Armeni, la minoranza cristiana dell’Impero Ottomano ferocemente decimata dai Turchi in nome dell’autorità e coesione nazionale, per non parlare dei milioni di rifugiati


Il rifugiato rappresenta un’inevitabile seppur non voluta conseguenza del sistema internazionale degli Stati e la sua figura è costantemente rigenerata dall’esistenza dei moderni confini politici creati dalle guerre nei Balcani, dal conflitto tra Grecia e Turchia nel 1922; dalla guerra civile che sconvolge la Russia nel 1917, fino al conflitto russo-polacco del 1919, senza dimenticare il perno centrale costituito dalla Prima Guerra Mondiale, sintesi dell’unione e dello scontro fisico e ideologico della generale aspirazione all’indipendenza delle nuove entità politiche. Nel dopoguerra lo scenario risulta già catastrofico e premonitore dell’ulteriore sviluppo che negli anni a venire assumerà il fenomeno dei movimenti di massa: secondo alcuni dati, nel 1926 la popolazione di rifugiati in Europa era stimata intorno ai 9,5 milioni, mentre più di venti milioni erano gli individui sfollati all’interno degli Stati. Prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale diviene poi centrale la questione del popolo ebraico, mentre nel periodo di Guerra Fredda i riflettori sono puntati sugli individui “in fuga dal Comunismo”. Successivamente, sono i vari processi di decolonizzazione che travolgono gli ultimi baluardi degli imperi coloniali europei a determinare l’ondata di rifugiati “non-Europei” che comincerà lentamente a partire dagli anni Sessanta a fluire verso il Mediterraneo e a lambire le coste del vecchio continente.. Durante questa evoluzione temporale hanno visto la luce vari regimi di protezione internazionale improntati dagli Stati e dai vari organismi internazionali man mano istituiti (come, ad esempio, l’LNHCR, l’antenato dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) che, dal 1921 fino al 1951 e alle evoluzioni odierne, dimostrano come il concetto di rifugiato si sia evoluto nel tempo e, soprattutto, sviluppato secondo concezioni diverse in momenti storici diversi, caratterizzati da una continuità: la centralità e la sovrastante importanza degli interessi e delle preoccupazioni degli Stati-nazione. Così, un primo regime fondato su un ‘ap-

Quando la Germania invase la Polonia allo scoppio della Guerra, […], 300,000 persone furono immediatamente costrette ad abbandonare il paese in qualità di rifugiati. Allo stesso modo, quando l’Alsazia-Lorena fu occupata 100,000 francofoni furono espulsi. Nel 1940 quasi 5 milioni di rifugiati si stavano rapidamente muovendo verso la Francia, in fuga dai Paesi Bassi, dal Lussemburgo e dal Belgio. Quando la Transilvania del Nord fu ceduta all’Ungheria nell’agosto del 1940, 200,000 Rumeni fecero ritorno in Romania e 160,000 Ungheresi furono costretti a spostarsi in Ungheria. E 12 milioni di rifugiati furono determinati dall’avanzata delle truppe tedesche attraverso la Russia. Nel 1945 l’Europa era così un continente stracolmo di rifugiati. La Guerra aveva dislocato oltre 30 milioni di individui attraverso il continente europeo, sia all’interno degli Stati che lungo le frontiere, ognuno dei quali forzatamente trasferito, deportato o disperso

proccio giuridico’, sviluppatosi tra il 1920 e il 1935, si basava sul non riconoscimento dello status di rifugiato per coloro che la società internazionale considerava membri di un certo gruppo o minoranza; un successivo regime orientato da un ‘approccio sociale’, operativo tra il 1935 e il 1939, focalizzava l’attenzione sulla garanzia di protezione internazionale per i rifugiati, soprattutto per quanto riguardava coloro che erano oggetto delle persecuzioni del regime nazista; infine, un regime con un ‘approccio individualista’, negli anni 193850, diversamente dai precedenti, affrontava la questione mediante l’analisi di ogni singolo caso «sulla base di un’ingiustizia percepita o un’incompatibilità fondamentale con lo Stato d’origine». Inoltre, tutti e tre gli approcci si fondavano sull’idea che il rifugiato fosse un problema temporaneo, legato al ristabilimento di determinate condizioni nell’arena internazionale. Da un punto di vista storico, si evince subito che il fenomeno dei rifugiati nasce e si sviluppa in Europa – dove alla fine della Seconda Guerra Mondiale erano presenti oltre 30 milioni di sfollati - in conseguenza della 13




divisione dei popoli in Stati-nazione e, soprattutto, come accennato più sopra, del mondo in una comunità di entità politiche autonome con confini ben precisi, i cui diritti si applicano in ultima istanza anche con l’uso della guerra, dalla quale deriva la giuridicità dei confini e delle frontiere, e che in questo senso costituisce e continua a essere una vera e propria istituzione della società internazionale. Essa è uno degli strumenti che gli Stati adoperano per gestire le relazioni internazionali ed è per questo che anche il discorso sulle istituzioni è importante nell’ambito dei rapporti tra Stati e individui. La guerra viene percepita dalla società internazionale come mezzo di «promozione di cambiamenti nel diritto generalmente accettati come giusti». La Carta delle Nazioni Unite limita il ricorso a essa solo per ragioni di autodifesa nei confronti di uno Stato aggressore che abbia violato la sovranità territoriale di un altro Stato e prevede anche l’intervento di Stati terzi. La formula ‘guerra al terrorismo’, ad esempio, è utile per comprendere in che modo la guerra è il termino ultimo e fondamentale per gli Stati per affermare la loro posizione dominante nella società. Esistono specifiche convenzioni che disciplinano gli usi, i comportamenti e gli armamenti ‘legali’ degli Stati in situazioni di conflitto armato, dalle quali si evince che la guerra è un diritto esclusivo degli Stati sovrani. Le organizzazioni di individui definiti terroristi non sono considerate una controparte della stessa entità e vengono attaccate dagli Stati in modo indiscriminato e senza rispettare le normali regole di condotta in caso di conflitto con un altro Stato sovrano. E’ vero anche che la guerra, sebbene limitata rispetto al passato, ancora oggi è fondata principalmente su concezioni ideologiche e interessi economici, e in qualsiasi situazione, per causa giusta o ingiusta, può facilmente divenire uno strumento fuori controllo, così da generare condizioni di disordine realmente

La guerra viene percepita dalla società internazionale come mezzo di «promozione di cambiamenti nel diritto generalmente accettati come giusti» 16

pericolose per la tenuta della società umana. In modo ancora più simbolico rispetto alle altre istituzioni, il suo utilizzo come strumento ‘positivo’ spiega la determinazione e la volontà degli Stati di dare la priorità alla realizzazione dei propri scopi e di mantenere la titolarità dei diritti e dei doveri rispetto agli altri soggetti dell’arena internazionale. Tornando alla prima imponente comparsa di sfollati nel continente europeo, altrettanto significativo è il fatto che la maggior parte delle soluzioni previste dai suddetti regimi riguardassero operazioni di rimpatrio, trasferimento di popolazione e reinserimento e che, in base a specifici interessi, individuassero nella categoria di rifugiati determinati gruppi di individui piuttosto che altri (come nel caso degli individui “in fuga dal Comunismo” - letteralmente fleeing Comunism - che, svolgendo un ruolo particolare nel periodo di tensione tra Est e Ovest durante la Guerra Fredda, furono messi in primo piano dagli Stati occidentali rispetto alla situazione di coloro che non rientravano nella condizione di perseguitati dal regime comunista). Nessuno di essi operava alla base del problema, andando invece a ricreare tutta una serie di circostanze produttive proprio di quelle negatività sulle quali avrebbero dovuto agire:


I flussi migratori che interessano il continente europeo consistono in una conseguenza del funzionamento del meccanismo della società degli Stati, piuttosto che una frattura e un elemento indesiderato

un esempio su tutti, le massicce operazioni di insediamento degli Ebrei in Palestina che, a partire da fine Ottocento fino alla seconda metà del Novecento, furono ideate da alcuni governi europei a danno delle popolazioni arabe interessate, le cui nefaste conseguenze sono malauguratamente visibili e determinanti ancora oggi e lo saranno ancora per molto. La storia, poi, si riflette nelle definizioni e nei concetti, come nei vari trattati e nelle carte stipulate. Nell’Articolo 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati, ratificata a Ginevra il 28 luglio 1951 e sintesi finale delle varie esperienze storiche precedenti, il ‘rifugiato’ è definito come «Colui che, (...) temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra». Il termine in questione può essere così sviscerato e spiegato in base

al riferimento al fenomeno della migrazione e al suo carattere volontario o meno; al caso delle minoranze oppresse all’interno di un’entità statuale; alla legalità o meno dell’azione che l’individuo stesso intraprende (fuga dallo Stato d’origine e attraversamento di un confine internazionale); infine, al collegamento tra l’elemento economico e politico (migrante economico vs. rifugiato politico). Ed è partendo da questi presupposti che è possibile esaminare una definizione che cela, ancora una volta, la preminenza dell’elemento politico in quanto orientato dall’interesse e dal potere gerarchico degli Stati piuttosto che da un orientamento di carattere umanitario e realmente vicino all’individuo. Prima di tutto, il rifugiato non è un semplice migrante, essendo le ragioni di quest’ultimo ‘positive’, nel senso che gli stimoli per un’eventuale partenza sono indotti «dalla speranza per una vita migliore, mentre i rifugiati cercano semplicemente di ricostruire la vita che hanno perso». Anche per quanto riguarda i casi di minoranze oppresse all’interno di uno Stato, queste continuano a mantenere un legame, sebbene conflittuale, con l’entità nazionale in cui sono incluse fino al momento in cui non riescono a distaccarsene, mentre il rifugiato è escluso da una relazione del genere, avendo totalmente perso il contatto con il suo Paese d’origine. Non è nemmeno un immigrato illegale in quanto «ottenere lo status di rifugiato vuol dire essere legalmente riconosciuto come un individuo che necessita protezione secondo le norme del diritto internazionale». Infine, anche la distinzione tra migrante economico e rifugiato politico sembra essere insoddisfacente dal momento che «i fattori economici e politici nella scelta della fuga sono inestricabilmente connessi». Finanche il riferimento all’uscita da una comunità, all’attraversamento di un confine si rivela inefficace per una 17


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definizione che voglia essere completa perché “l’individuo può perdere il suo attaccamento nei confronti della comunità politica di appartenenza senza attraversare un confine internazionale che normalmente simbolizza l’estensione della giurisdizione nazionale” e, quindi, risulta fittizia anche la differenzazione che intercorre tra ‘rifugiato’ e ‘sfollato’, che a livello concreto si traduce nella sottoposizione a una diverso regime di protezione: se per il primo, infatti, si configura giuridicamente la tutela della comunità internazionale, il secondo invece è ancora sottoposto alla protezione dello Stato dal quale non è riuscito o non ha voluto fuggire. Non solo. Una volta garantito, lo status di rifugiato dimostra che uno Stato non è più capace o disponibile a provvedere a una tale funzione di tutela e il rifugiato deve trovare una fonte alternativa di protezione; in questo senso uno Stato che garantisce nuova assistenza a un individuo proveniente da un'altra nazione, così facendo automaticamente rende evidente e concreto il fallimento dello Stato di provenienza nell’esercizio delle sue funzioni sovra-

ne (sostegno e protezione dei propri cittadini nel proprio territorio), con tutte le ripercussioni che una tale situazione può produrre, dal punto di vista sociale, politico ed economico, tra gli Stati stessi. Il termine ‘rifugiato’ sembra, quindi, riferirsi piuttosto a un’etichetta, un concetto politicamente e socialmente costruito in base agli interessi degli Stati-nazione prima di tutto; oggettivato attraverso l’operato dei governi e delle agenzie intergovernative che hanno burocratizzato l’inclusione dell’individuo in ‘categorie di esistenza’, attraverso determinate procedure – richiesta di asilo, dello status di rifugiato, della cittadinanza; e che si concretizza in una ‘forma di controllo’ in cui le argomentazioni di natura umanitaria svolgono un ruolo secondario. Proprio il carattere politico della questione non permette una chiara e lucida spiegazione del fenomeno e, quindi, una definizione soddisfacente dell’individuo-rifugiato, il cui significato rimane offuscato dal e si estende fin dove si espande il potere dello Stato. Stiamo, allora, parlando di una situazione creata ad hoc che ribalta il concetto di ‘emergenza’ che i governi quotidianamente propinano all’opinione pub-


La voluta confusione teorica e pratica che contraddistingue la questione delle migrazioni si esplicita nelle paradossali dinamiche che interessano soprattutto quella parte del mondo partitico che diffonde il mito della minaccia economica e culturale costituita dai migranti e dallo ‘straniero’ blica. I flussi migratori che interessano il continente europeo consistono così in una conseguenza del funzionamento del meccanismo della società degli Stati, piuttosto che una frattura e un elemento indesiderato. Calando il discorso al livello del dibattito partitico, poi, la questione si fa ancora più interessante. Gli slogan e i modelli di pensiero che influenzano una parte dell’opinione pubblica sono ancora più assurdamente intrisi della strumentalizzazione politica che caratterizza il discorso dei rifugiati e delle migrazioni. E così la voluta confusione teorica e pratica che lo contraddistingue si esplicita nelle paradossali dinamiche che interessano soprattutto quella parte del mondo partitico che diffonde e propugna il mito della minaccia economica e culturale costituita dai migranti e dallo ‘straniero’. Il paradosso è costituito dal fatto che gli stessi discorsi che generalmente sono atti a considerare negativamente il fenomeno dei rifugiati e delle migrazioni (minaccia culturale vs. peso economico) trovano la loro ragion d’essere e basano indirettamente la loro sopravvivenza sulla continuità dell’esistenza del fenomeno stesso: in parole povere, senza il ‘problema’ degli ‘immigrati’ molti partiti e movimenti politici avrebbero seri problemi nel generare consensi all’interno del loro bacino elettorale. Si potrebbe andare avanti ancora per molto, ma conviene fermarsi per segnare un punto fondamentale. Una volta smascherata al suo interno la connotazione strumentale della costruzione del mito negativo dello straniero e del migrante, risulta più che evidente il carattere fittizio e strategico del processo di costruzione concettuale che sta alla base dell’estensione a tutta l’arena globale del 20

modello di società ideato dagli Stati ed è, quindi, forse proprio questa concettualizzazione il punto nevralgico sul quale pensare di poter agire. Di conseguenza, capovolgere la dimensione negativa, straordinaria ed esclusiva che ha caratterizzato il fenomeno dei rifugiati sin dall’inizio a favore dell’individuo e caratterizzarla, invece, in ragione della concreta minaccia che per quest’ultimo rappresenta la nascita dello Stato-nazione, col suo portato fatto di separazione e differenza, potrebbe rappresentare un passo non da poco. E’ importante porre l’accento sul fatto che qualsiasi cambiamento di prospettiva dovrebbe necessariamente interessare prima di tutto la formazione di concetti, valori e interessi che vanno a fondare una società, che influenzano concretamente le dinamiche che si svolgono al suo interno e che, solo in un secondo momento, si estrinsecano nella realtà delle relazioni istituite e degli effetti prodotti.

Fonti

Bull, Hedley, The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1977, pp. XV-335 (ora in Bull H., The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, New York, Palgrave, Third edition, 2002, pp. XXXV-329, trad. it., La società anarchica – L’ordine nella politica mondiale, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. XVI-366). Haddad, Emma, The Refugee in International Society. Between Sovereigns, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, pp. 254. Convenzione di Ginevra del 1951 UNHCR Global Trends



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Accoglienza e cittadinanza attiva

La realtĂ del NAGA ONLUS. di redazione Artim Magazine

Intervista ad Arianna Foletti

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a questione dei flussi migratori riguarda principalmente gli Stati e, in particolar modo, le lacune e i vuoti che questi ultimi generano nell’ambito della salvaguardia degli individui e dei diritti umani. In questo senso, nel sistema internazionale si costituisce una vera e propria falla - non solo da un punto di vista giuridico e burocratico, ma soprattutto culturale e sociale - alla quale si oppone l’azione di una parte della società civile (come nel caso di onlus, ong e associazioni) che tenta di porre un argine “dal basso” soprattutto alle conseguenze del dilagare del fenomeno dei movimenti di massa; e che, nonostante i limiti del “non essere Stato”, cerca di indirizzare il discorso sulle migrazioni in una direzione specifica: quella della tutela e protezione dell’individuo in quanto essere umano. In Italia esistono varie realtà sociali che uniformano le loro azioni secondo questo principio, che operano direttamente con i migranti cercando di arrivare laddove non giunge l’azione dello Stato. Una di queste è il Naga, un’associazione ONLUS che agisce nel territorio di Milano.

"Gli oltre 300 volontari del Naga garantiscono assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura e, inoltre, conducono attività di formazione, documentazione e lobbying sulle Istituzioni"

L’Associazione di Volontariato “Naga Onlus”, di natura laica e apartitica, si è costituita nel capoluogo lombardo nel 1987 con lo scopo esclusivo, come riportato nello statuto, di perseguire “finalità di solidarietà sociale attraverso la promozione dell'impegno umano e sociale dei cittadini democratici senza alcuna discriminazione su base etnica, religiosa, politica, di orientamento sessuale e di genere, al fine di stimolare attività di carattere socio-assistenziale, della difesa e garanzia dei diritti nei confronti di cittadini e popoli stranieri, rom e sinti”. In base a questo principio, gli oltre 300 volontari che ne fanno parte, garantiscono assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura e, inoltre, conducono attività di formazione, documentazione e lobbying sulle Istituzioni. Il Naga nasce da 23


un incontro particolare, avvenuto verso la fine degli anni Ottanta nel campo di Triboniano, all'estrema periferia nord-ovest di Milano, tra colui che poi ne diventerà il fondatore, Italo Siena, che in quel periodo agiva come medico nei campi rom dell’hinterland milanese, e un abitante del campo. In quegli anni non esisteva ancora una regolarizzazione dell’immigrazione considerata ‘clandestina’ e gli ‘irregolari’ semplicemente erano relegati nella paradossale condizione di invisibili, fisicamente emarginati in zone periferiche alla vita normale delle città, la cui lontananza - che a sua volta voleva dire assenza di servizi di ogni genere, da quelli igienico-sanitari a quelli sociali e aggregativi - veniva sancita da un’indifferenza di natura assurdamente burocratica. Da questo momento storico e da questo stato delle cose si avviava, e tuttora continua, l’avventura del Naga. Dall’apertura di un primo piccolo ambulatorio nel 1987, l’associazione si evolve e nel 1989 acquisisce una sede nuova e più estesa che contribuisce a far crescere le attività, così come il numero di volontari che gradualmente si avvicinano al suo obiettivo: “difendere e tutelare i diritti di stranieri e 24

nomadi al di là di qualunque legge che li veda regolari o irregolari, per noi sono semplicemente delle persone di questo mondo”. Nonostante l’opera della onlus milanese riguardi la sfera dei servizi offerti dalle istituzioni statali, al Naga ci tengono a sottolineare che si tratta di attività con uno scopo ben preciso. “Noi ci siamo e cerchiamo di tutelare i diritti nel momento in cui l’istituzione, che dovrebbe farlo,è assente”, ci dice Arianna Foletti, volontaria dell’associazione che abbiamo incontrato per una conversazione sull’argomento, “erogando un servizio nel momento in cui il potere pubblico non lo eroga e conducendo parallelamente un’azione politica affinchè poi sia quest’ultimo ad arrivare a occuparsene”. Le attività del Naga sono molteplici, parallele e si integrano tra di loro: Arianna ci spiega che è presente “un ambulatorio medico, esclusivamente per coloro che non hanno il permesso di soggiorno e, quindi, hanno difficoltà ad accedere al servizio pubblico sanitario, al quale è affiancato un servizio di facilitazione all'accesso alle informazioni legali: dai permessi di soggiorno ai ricongiungimenti familiari, dal


lavoro ai minori, dalle pratiche di matrimonio alle regolarizzazioni, dalle espulsioni, al decreto flussi e domande d'asilo; infine, una serie di attività parallele: quelle riguardanti la comunicazione, la sensibilizzazione e la divulgazione, le azioni di denuncia”. Il Naga dispone di un camper di medicina di strada e ha in seguito sviluppato una sede distaccata, dando vita al Centro Naga Har. “Il centro è situato in Via San Colombano a Milano, nella zona vicino Corsico (un comune nella periferia sud-ovest di Milano, ndr), svolge attività giornaliere per richiedenti asilo, rifugiati e vittime di tortura ed è aperto di pomeriggio dalle 14,30 alle 18,30. E’ ad accesso libero e nasce principalmente come luogo di aggregazione. L’attività principale svolta è quella di back office, basata sull’assistenza riguardo alla presentazione della domanda d’asilo, all’iter da seguire e a tutto l’aiuto necessario”. L’azione del Naga, però, vuole essere principalmente sociale e tende a considerare soprattutto l’importanza dell’integrazione. In questo senso, il centro funge innanzitutto da luogo di ri-creazione di relazioni e rapporti sociali, essendo la maggior parte dei suoi frequentatori portatori di esperienze tragiche e condizioni insopportabili, costretti a condurre una vita che ha dovuto subire una cesura dolorosa e profonda con il proprio passato a causa di un pericolo insormontabile. Attraverso attività di reinserimento e aggregazione, come lo sport, la vita del centro tenta di attenuare e ricucire uno strappo psicologico

di una tale importanza e gravità. Per questo il Centro Naga Har si è da subito presentato come casa e famiglia allo stesso tempo, un luogo aperto da frequentare liberamente, dove gli individui si incontrano in quanto narratori di storie ed esperienze, e non limitanti etichette; dove prima di cittadini, stranieri, migranti, vengono considerate le persone. “L’idea è comunque quella che la relazione è alla base di tutto”, sottolinea Arianna, “la relazione in sé è terapeutica. Si tratta di individui che vivono un taglio netto con quello che erano, con il loro bagaglio di relazioni, con la loro società e il loro modo di vivere. Dall’oggi al domani il cordone viene tagliato dalla fuga da quello che sei stato fino a quel giorno. A questo punto il recupero della relazione, intesa come rigenerazione di nuovi legami e riconoscimento del proprio bagaglio interrotto, diventa fondamentale, al di là del sostegno psicologico e di quello puramente legale”. Nel Centro Naga Har le relazioni tra persone nascono e si sviluppano indipendentemente dalla condivisione di determinati fattori come la nazionalità o la religione. Il fondamento principale di questo processo è l’importanza e la salvaguardia dell’individuo in quanto essere umano e titolare di determinati diritti, ideale che permea i concetti chiave su cui si basa il pensiero e l’azione dei volontari del Naga. Il fulcro della loro analisi riguarda soprattutto l’imponenza dei flussi migratori degli ultimi anni che, per certi versi, rende difficile ma non impossibile la reale comprensione del fenomeno stesso.

Il Centro Naga Har si è da subito presentato come casa e famiglia allo stesso tempo, un luogo aperto da frequentare liberamente, dove gli individui si incontrano in quanto narratori di storie ed esperienze, e non limitanti etichette 25


Innanzitutto, è proprio partendo dal bisogno fondamentale di divulgazione e sensibilizzazione riguardo a una tematica sempre attuale, delicata e confusa - basti solo pensare alle ormai centinaia e centinaia di episodi riguardanti le tragedie che si consumano quasi ogni giorno al largo di Lampedusa e alle contrastanti reazioni del mondo politico come dell’opinione pubblica - che si avvia l’azione della onlus milanese. “Rispetto a tutto quello che riguarda la questione degli sbarchi e a come viene gestita, si parla sempre di ‘emergenza’, quando in realtà non lo è”, chiarisce Arianna, “basta fare riferimento alle situazioni di conflitto in Siria, in Libia e ad altri accadimenti nei Peasi del Nord Africa, che sono in evoluzione oramai da anni. Proprio per questo, riguardo alle recenti tragedie nel Mediterraneo, la posizione del Naga è: ce lo aspettavamo, dal momento che le dinamiche dei flussi migratori in questione sono analizzabili attraverso studi e statistiche presenti da decenni e, quindi, alla larga abbastanza prevedibili. E in base a ciò, poi, possono essere affrontate in tutt’altra maniera”. Secondo questo punto di vista, una nazione come l’Italia, che si ritrova automaticamente nella posizione di ‘Stato-ponte’ da un punto di vista geografico, non può esimersi da un’assunzione di responsabilità che, tuttavia, va regolamentata sicuramente in un quadro europeo, che risulta ancora abbastanza indefinito ed equivoco. Il 13 maggio 2015, infatti, l’UE ha approvato l’Agenda europea sulla migrazione che, se da un lato presta relativamente attenzione ai vari appelli di svariati organismi tra cui ONG, associazioni, ma anche istituzioni nazionali e sovranazionali, dall’altro persevera nella direzione della sicurezza prima di tutto. Soprattutto in riferimento alla lotta agli smuggler, i trafficanti di uomini, e al problema delle tratte disumane, da quest’ultimi ordite, che insanguinano il

E’ importante volgere lo sguardo alle persone, alle loro storie e alle loro esperienze e in conseguenza di ciò assumere la giusta condotta e gli interventi necessari 26

La questione dei flussi migratori riguarda principalmente gli Stati e, in particolar modo, le lacune e i vuoti che questi ultimi generano nell’ambito della salvaguardia degli individui e dei diritti umani Mediterraneo con le vite di migliaia e migliaia di migranti in fuga da guerre e persecuzioni, la proposta di alcuni governi europei - tra cui quello italiano - è stata di intensificare il monitoraggio delle frontiere e affrontare, in ultima istanza, anche militarmente la questione dei tristemente famosi “barconi”. “Si tratta di una presa di posizione fondamentalmente politica”, ci dice Arianna, “ancora una volta ritorna il problema dell’ ‘emergenza’, al quale gli Stati decidono di rispondere in modo puramente automatico, agendo da ‘tappabuchi’ invece di organizzare un’agenda più ragionata e concretamente produttiva di effetti”. Il problema vero, in pratica, è alla base e riguarda direttamente la comprensione di un fenomeno come quello delle migrazioni, cui fa da controparte la confusione generata da un discorso strategicamente politico. “All’oggi la maggior parte dei movimenti di massa via mare proviene dalle zone di conflitto che interessano il Medio Oriente, l’Afghanistan, la Siria, l’Iraq, la Nigeria o il subcontinente indiano - pensiamo ad esempio al Pakistan - ma molti di più sono coloro che arrivano via terra oppure atterrano negli aeroporti con un visto turistico. I secondi, giornalisticamente parlando, ‘non fanno notizia’ rispetto ai primi, quindi poi sta a ognuno di noi voler approfondire seriamente la questione. I flussi migratori non sono un’emergenza, bensì un fenomeno strutturale e la migrazione è naturalmente congenita all’essere umano e alla società umana”. Esploso nella sua enorme drammaticità soprattutto nell’ultimo decennio, il problema dei movimenti di massa ci pone di fronte a una situazione paradossale: il mondo sembra essere diviso in due parti da una linea netta e da un lato ci sono i fortunati, quelli che riescono a godere a pieno dei propri diritti, tra i quali la fondamentale li-


bertà di muoversi, mentre dall’altro ci sono i rieietti, coloro che sono costretti a fuggire a causa di situazioni imputabili sempre e comunque alla condotta degli Stati, e che sono relegati nel limbo dell’irregolarità proprio perchè portatori di una colpa che, in fondo, è costituita dal fatto di essersi trovati dalla parte sbagliata. “Se l’uomo è libero, allora ogni individuo ha l’opportunità anche di spostarsi in base ai propri interessi e alle proprie volontà in qualsiasi parte del mondo e così come decide liberamente di muoversi, ad esempio, l’italiano che preferisce studiare negli USA perché lo ritiene più adatto alle proprie ambizioni, allo stesso modo altre persone, per altri motivi, dovrebbero poter fare lo stesso, senza cadere per questo nell’illegalità”. Inoltre, non bisogna dimenticare uno dei lati forse più oscuri del discorso in questione, ovvero che le politiche migratorie spesso e volentieri sono viziate già in partenza da elementi fortemente contrastanti tra di loro. “Oltre al fatto che l’azione di ‘tappabuchi’ è più sostenibile da un punto di vista economico, ancora più significativo è il fatto che l’Unione Europea spesso continui a intrattenere rapporti di cooperazione con gli Stati responsabili della fuga di massa di individui, che nella maggior parte dei casi sono retti da governi corrotti e dittato-

riali. A questo punto, per affrontare realmente tutti questi argomenti, è necessario adottare una linea politica diversa ed è la direzione in cui spinge il Naga, assieme a tante altre associazioni che agiscono nello stesso ambito. E’ importante volgere lo sguardo alle persone, alle loro storie e alle loro esperienze e in conseguenza di ciò assumere la giusta condotta e gli interventi necessari”. La stessa strumentalizzazione politica riguarda anche le categorie e le etichette che caratterizzano il discorso sui flussi migratori. Definizioni come ‘rifugiato’, ‘richiedente asilo’, ‘sfollato’ si configurano come concetti forgiati ad hoc all’interno del dibattito politico, tanto è vero che non fanno riferimento a condizioni oggettive, ma gravitano nello spazio dello Stato che le utilizza in relazione ai propri in-

“Rispetto a tutto quello che riguarda la questione degli sbarchi e a come viene gestita, si parla sempre di ‘emergenza’, quando in realtà non lo è”

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teressi e alle particolari contingenze storiche. “Il 'rifugiato' secondo la Convenzione di Ginevra del 1951 è: «Colui che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra». Un ‘richiedente asilo’ non è ancora un rifugiato, ma è un individuo che, dopo aver abbandonato il proprio paese, chiede protezione internazionale al Paese

Definizioni come ‘rifugiato’, ‘richiedente asilo’, ‘sfollato’ si configurano come concetti forgiati ad hoc all’interno del dibattito politico, tanto è vero che non fanno riferimento a condizioni oggettive, ma gravitano nello spazio dello Stato che le utilizza in relazione ai propri interessi e alle particolari contingenze storiche ospitante. Fino a quando non viene presa una decisione definitiva dalle autorità competenti dello Stato al quale viene chiesto asilo (in Italia prima era la “Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato”, ora trasformata in "Commissione nazionale per il diritto di asilo"), il richiedente ha il diritto di soggiornare fino al completamento dell'iter”. Proprio questa irregolarità è particolarmente densa di significati se rapportata all’influenza che esercita sull’immaginario dell’opinione pubblica. Prima di tutto, il termine ‘irregolare’, utilizzato in questo ambito, cela un artificio di natura giuridica: “Nel momento in cui un individuo entra nel territorio italiano per vie non legali - quindi, senza un documento che ne 28

attesti l’identità o con un visto emesso dalle ambasciate italiane presenti nel suo Paese di provenienza - viene dichiarato ‘irregolare’ dalle autorità; di conseguenza viene identificato e segnalato dalla polizia di frontiera e successivamente può decidere se presentare domanda d’asilo - richiedendola anche semplicemente a voce -, dopodiché viene avviato l’iter mediante il quale viene dimostrata la sussistenza dello status di perseguitato e viene richiesta la protezione allo Stato ospitante. In seguito, è compito della Commissione Territoriale stabilire se effettivamente esiste il diritto alla protezione o meno”. L’effetto che questo meccanismo provoca nell’opinione pubblica è la conseguente equiparazione dei concetti di ‘irregolarità’ e ‘illegalità’ e, ancora peggio, un accanimento nei confronti di chi, in fuga da un pericolo considerato mortale, si ritrova paradossalmente a essere percepito proprio come una minaccia e un peso. E questo vale soprattutto dal punto di vista dell’onere economico che comporta la responsabilità dell’accoglienza. “Il binomio ‘irregolare-illegale’ è sicuramente da sfatare, a maggior ra-


L’azione del Naga vuole essere principalmente sociale e tende a considerare soprattutto l’importanza dell’integrazione gione perché secondo il sistema vigente è lo Stato che ha il dovere di regolarizzare la permanenza di persone sul proprio territorio. La questione dell’accoglienza, poi, è strettamente collegata: durante l’iter burocratico per la richiesta dell’asilo, che può durare anche più di un anno, il richiedente ha la possibilità di accedere a un programma di accoglienza che prevede vitto, alloggio, un pocket money e che, a seconda del progetto in cui verrà inserito, può includere determinati programmi di integrazione come, ad esempio, l’inserimento lavorativo. E’ importante considerare che tutto ciò è previsto per legge e in base a specifici trattati e convenzioni internazionali che vedono l’Italia tra gli Stati firmatari”.

A questo punto della conversazione, ci risultano abbastanza chiari i presupposti sui quali dovrebbe basarsi ogni discussione riguardante argomenti come i diritti umani nell’ambito dei movimenti di massa e le possibili interpretazioni e soluzioni che possono essere pensate in riferimento a un fenomeno che è destinato a durare sicuramente ancora per molto. Se da una parte risulta difficile, se non impossibile, agire al livello degli Stati, principali fautori di un sistema all’interno del quale è possibile ritrovare allo stesso tempo le cause e, probabilmente con la volontà necessaria, le soluzioni a una problematica di questo livello, allora, dall’altra non rimane che sostenere l’azione di quella parte della società civile che, come il Naga e tante altre associazioni, cerca senza posa di riportare sempre al centro della questione quello che veramente conta: l’individuo e la sua vita. Qual è la via migliore creare un muro o benessere per tutti? 29



Striscia di Gaza (Palestina) È trascorso ormai quasi un anno dall’operazione militare israeliana denominata “Barriera protettiva”, cominciata l’8 luglio 2014 e terminata con la tregua del 26 agosto dello stesso anno, che ha causato distruzione e morte nella Striscia di Gaza, con un bilancio finale di 2143 vittime palestinesi, 11.000 feriti - nella stragrande maggioranza civili - (a fronte di 70 morti e circa 850 feriti tra gli israeliani, per la maggior parte soldati), e ingenti distruzioni materiali in 50 giorni di incessanti bombardamenti aerei e attacchi. Nella foto, la città di Beit Hanun dopo la fine dell’operazione. Fonti: Pchrgaza.org / The Jerusalem Post


polis/diritti

Non mangiare il peperoncino con la mia bocca di Raffaella Vigilante redazione Artim Magazine

my experience, we shall help migrants to go schools or to apprentice. So we will help them intergrate in the sistem.» Amin Suwareh, 30 anni, fuggito dalla Libia, mediatore culturale in Italia.

«English, Libyan Arabic, Algerian Arabic, Egyptian arabic, Tunisian arabic, French not very good, Mandigo, Bambara, Wolof, Genian and Fulata. I can speak eleven languages... The story of my journey from Libya to Italy. I started my journey on 26-06-2011 with 180 people on board. It was a terrified journey, it tooks us 3 days to reach Sicily. We got lost. During this 3 days no water no food. On the 29, around 11:30 in the evening, we found ourselves at Lampedusa, finally we've got safe. I am almost 5 years in Italy now, I am working as mediator or translator. So I’m always with refugees and migrants. From 32

C'è una trama di fili neri che lega i Paesi poveri ai Paesi ricchi. C'è il filo nero che lega il 'negro' che raccoglie pomodori nei campi italiani, sottopagato e drogato per rendere di più, alla famiglia italiana che mangia quei pomodori a tavola, guardando il Tg, esclamando che l'immigrazione sta rovinando l'Italia. C'è il filo nero che lega i morti dell'estrazione di metalli in Congo agli smartphone che usiamo per cliccare "mi piace" sulle numerose pagine razziste e xenofobe nate su Facebook. C'è il filo nero che lega le lacrime della ‘straniera’ picchiata, drogata e costretta a prostituirsi, alle lacrime della donna italiana picchiata dal compagno. C'è il filo nero che unisce chi sta per annegare al largo di Lampedusa e i turisti che si specchiano nelle stesse acque. Questa trama di sofferenza e lacrime la tessono le logiche di potere dei Paesi Occidentali. Ciascuno di noi, con la solidarietà, può afferrare uno di questi fili e percorrere a ritroso la


L’idea di “calcio popolare” alla base di questo progetto si riferisce a un vero e proprio movimento collettivo basato sulla passione, la condivisione e l’aggregazione, un moto spontaneo di ribellione a un sistema calcistico e di potere fondato esclusivamente sul business. trama, colorandola di giallo, di rosa, di rosso, di verde, di bianco. Cominciamo da un sorriso in più nei confronti dei numerosi richiedenti asilo che arrivano negli alberghi e nelle comunità campane, in questi nostri paesi piccoli, periferici, in cui ancora resiste il sentimento di solidarietà . Andiamo in Campania, a Benevento, per il primo filo colorato, l’Atletico Brigante, squadra di calcio popolare attiva nel territorio sannita, progetto che ha richiesto impegno e dedizione da parte di tanti e tante che hanno deciso di mettersi in discussione per costruire una squadra di calcio dal basso totalmente auto-

gestita. L’idea di “calcio popolare” alla base di questo progetto si riferisce a un vero e proprio movimento collettivo basato sulla passione, la condivisione e l’aggregazione, un moto spontaneo di ribellione a un sistema calcistico e di potere fondato esclusivamente sul business. Il calcio popolare si pone, quindi, come elemento di rottura di questo desolante contesto, opponendosi vivacemente ai poteri forti e al malaffare. In molte città italiane sono nate realtà che praticano questo sport in maniera gratuita e collettiva, basando ogni attività sull’autogestione e sull’autofinanziamento. L’ASD Atletico Brigante non è perciò una società sportiva tradizionale, ma è priva di una

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struttura verticistica al proprio interno e tutti, giocatori e sostenitori, hanno le stesse possibilità di partecipare alle iniziative e di definire i percorsi da costruire. L’Atletico Brigante è antirazzista, antifascista, antisessista, odia e combatte con ogni mezzo possibile il razzismo in tutte le sue forme, e proprio nel calcio ha trovato uno di questi mezzi: al di là di ogni discriminazione la squadra è aperta a tutti e tutte senza distinzione di sesso, identità di genere, razza, colore, altezza e religione. Anche i migranti giocano a calcio grazie all’Atletico Brigante: l’idea è che attraverso il calcio, attraverso l’aggregazione e la condivisione si possano abbattere stereotipi e pregiudizi imposti dalla società normalizzata, pregiudizi contro i quali ci si scontra quotidianamente. Animati da tali ideali, i fautori di questo progetto si definiscono così: «Siamo antifascisti, nel senso più ampio del termine perché amiamo la libertà e lottiamo contro le ingiustizie sociali derivanti da questo sistema economico iniquo e oppressore delle classi sociali più deboli; noi abbiamo una visione del mondo che va aldilà dei confini nazionali imposti.» Dove sono i nostri occhi? La Fondazione Rachelina Ambrosini è la voce del silenzio. Un focus sulla situazione dei bambini nel mondo. Anche di questo ci preoccupiamo. I bambini ci guardano. Dove sono i nostri occhi? Una tragedia quotidiana con circa 25.000 bambini (al di sotto dei 5 anni) che ogni giorno muoiono, nascosti dalla nostra indifferenza. Leggere, conoscere, pensare, agire. Tutti possiamo fare qualcosa. Restare seduti o indignarsi, alzarsi, parlare o volgere lo sguardo altrove. Noi siamo qui. Ci spostiamo in provincia di Avellino, a Venticano, in provincia di per il secondo filo colorato: Tommaso Maria Ferri, presidente della Fondazione Umanitaria Rachelina Ambrosini. «La carestia sociale», ci dice Tommaso, «è la piaga che oggi affama milioni di persone in un mondo che ha perso ideali di fratellanza, oscurati da una globalizzazione del profitto a vantaggio di alcuni per la disperazione dei tanti. Sono lontani i tempi della fuga di Mosè, dei 10 milioni di europei che migrarono durante la prima e seconda guerra mondiale e scopriamo oggi che 4 milioni di persone, nel solo 2014, sono state costrette a scappare, a trasformarsi in una nuova generazione di pro34

fughi che si trascinano in un lutto perenne. In Siria ogni 60 secondi una famiglia è costretta a fuggire, e così in Iraq, Mali, Ciad, Sudan, Nigeria, Myanmar, sottolineando che il 50 per cento dei profughi sono bambini, che vivono con l’orrore negli occhi. Profughi, per lo più famiglie, senza diritti e cittadinanza che la filosofa Hanna Arendt ha definito “la schiuma del mondo”. Quella stessa schiuma che eravamo

Sono lontani i tempi della fuga di Mosè, dei 10 milioni di europei che migrarono durante la prima e seconda guerra mondiale e scopriamo oggi che 4 milioni di persone, nel solo 2014, sono state costrette a scappare, a trasformarsi in una nuova generazione di profughi che si trascinano in un lutto perenne


noi europei agi inizi del secolo scorso, e che continuano a essere i nostri figli, emigranti con laurea, alla ricerca della dignità. Ma chi sono questi disperati che ci ostiniamo a vedere come usurpatori della nostra terra? Sono persone a cui abbiamo rubato la loro identità, in fuga da guerre, da persecuzioni, dalla fame, dalla sete, dalla morte. Ragazzi che, con una colletta, le famiglie provano a salvare da una scadenza vicina che si chiama morte. E Siamo Noi. Si, siamo noi, gli stessi che piangevamo ascoltando canzoni scritte “su bastimenti assai lontani” e che oggi sono quegli invisibili che guardiamo preoccupati solo perché sono neri. E così, siamo sempre noi, che per difendere le nostre conquiste, il nostro incontentabile progresso, costruiamo “in silenzio”, muri in Turchia, Marocco, Bulgaria, Grecia, per difenderci dai disperati ‘invasori’ fino a trasformare il Mediterraneo in una scogliera di sangue. Ma quali sono queste nostre conqui-

ste da difendere? Sono gli attuali valori della nostra carestia: falso perbenismo, ipocrisia, pregiudizio, egoismo… Vigliaccheria! Siamo consapevoli collaboratori di ingiustizia. Lavoriamo per una mondialità con un unico sentimento che si chiama i n d i ff e re n z a . Un’azione di guerra premeditata rivolta a chi ogni giorno rubiamo la speranza. Sfruttiamo per rubare l’aria ai deboli, distruggendo le loro foreste, privatizzando grandi giacimenti d’acqua e foraggiando con le armi i terroristi del male per annientare i missionari del bene con artificiose guerre sante. Così, a poco a poco, la carestia sociale è diventata morale, per arrivare sulle sponde del mare a toccare “la schiuma del mondo” che ci chiede solo la Carità della Vita sulla Terra di Tutti.» Terzo filo colorato, l’Associzione di volontari “Comunità Accogliente di Mercogliano”. «Noi volontari di Mercogliano ci siamo accor-

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Purtroppo è tutto lasciato al caso, non c’è governance, si fa tutto per sentito dire e Salvini con le sue opinioni diventa protagonista in tv

ti che i ragazzi richiedenti asilo, ospitati nelle strutture della zona, erano abbandonati a se stessi. Nessuna rappresentanza politica (non sono portatori di voti) e nessuna integrazione con gli abitanti del paese. A tutto ciò si aggiunge la totale assenza delle istituzioni, negligenti anche sulle esigenze di rispetto delle tradizioni. C’è bisogno di fermarsi e pensare, organizzarsi per l’istruzione, la salute e il benessere di questi ragazzi. Mercogliano ne ospita 106 ed è evidente il disagio e la tristezza diffusi tra loro. Sono in attesa del permesso di soggiorno, un’attesa che riguarda il loro futuro. Ho notato che molti traducono il disagio in disturbi di somatizzazione, per esempio. L’associazione ha cominciato con le lezioni di italiano, un’occasione per stare un po’ insieme, poi siamo passati a lezioni di convivenza civile, diritti, storia 36

e geografia. Molti di loro non sapevano di aver attraversato il mar Mediterraneo, altri invece non sapevano che l’Italia fosse divisa in regioni e province. E’ stato un continuo processo di scambio, loro apprendevano sull’Italia e noi sull’Africa. Dopo la scuola di italiano è partito il cineforum, grazie alla disponibilità del parroco e dei boyscout di Mercogliano, che mettevano a disposizione sedi per i nostri incontri. Purtroppo è tutto lasciato al caso, non c’è governance, si fa tutto per sentito dire e Salvini con le sue opinioni diventa protagonista in tv. La battaglia che adesso stiamo per intraprendere è quella dei CTP, i centri territoriali permanenti per la scuola pomeridiana per migranti, poichè in tutta la provincia di Avelino ce ne sono solo tre. Abbiamo fatto anche un’indagine sulle professionalità presenti tra


i migranti: falegname, idraulico, sarto, saldatore; adesso pensiamo di far partire anche un progetto sull’artigianato. Sono molto giovani, entusiasti e non vanno abbandonati.» Riscrivo queste testimonianze di resistenza al computer, le rileggo, penso a una conclusione per l’articolo, ma più leggo e più penso all’elogio del margine di Gloria Jean Watkins: «Capire la marginalità come luogo di resistenza è cruciale. Il margine non è solo un sogno che esprime disperazione ma il luogo di una possibilità. È nel margine tra vita e desiderio, tra fortuna e povertà che si trova lo spazio, stretto, del sentiero che apre la strada.»

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Disastro ambientale in California Lo scorso maggio, per la seconda volta (la prima è stata nel 1969), una marea nera, fuoriuscita dalla rottura di un oleodotto sottomarino, si è riversata sulle coste della contea di Santa Barbara, dove è stato subito dichiarato lo stato d’emergenza. Le stime ufficiali parlano di 80,000 litri di petrolio riversati in mare, mentre la Plains All American Pipeline LP, la società che gestisce l’impianto, ha dichiarato che la fuoriuscita potrebbe riguardare fino a 400,000 litri.


polis/ambiente di Enzo Di Salvatore e Enrico Gagliano

Ombrina Mare simbolo di un Paese in stand by:

l’istanza di concessione di coltivazione e il permesso di ricerca

All’«Ombrina Mare» oggetto del contendere tra il partito della Strategia Energetica Nazionale (SEN) montiana e oggi renziana, e i detrattori del modello di crescita che ha nel Piano Nazionale di Riforma contenuto nel DEF 2015 e nello Sblocca Italia i suoi principali riferimenti politico-programmatici, fa da sponda l'altra «Ombrina Mare», quella dei procedimenti autorizzatori, dei continui e improvvisi ‘stop and go’, frutto delle contraddizioni di un sistema prigioniero di se stesso, incapace di scegliere tra modelli alternativi e di mettere a sistema, se non in maniera deteriore come con l'art. 38 dello Sblocca Italia, il complesso quadro normativo che interessa le attività nazionali di ricerca e coltivazione di gas e petrolio. *** Il 17 dicembre del 2008 la Medoilgas Italia S.p.A. chiedeva al Ministero dello Sviluppo Economico che le venisse conferita la concessione di coltivazione in mare «d 30 B.C-MD». Il progetto – denominato «Ombrina Mare» – prevedeva la realizzazione di alcune strutture poste a circa 6,5 chilometri dalla costa (meno di 5 miglia marine), su un fondale di circa 20 metri prevalentemente sabbioso: una piattaforma di produzione gas e olio (OBM-A) da cui si dipartono 4-6 pozzi di produzione; un serbatoio galleggiante per il trattamento e lo stoccaggio della produzione di olio (FPSO); sealines e ombelicali per il trasferimento tra 40

OBM-A e FPSO; sealines per il trasferimento del gas da OBM-A alla piattaforma esistente Santo Stefano Mare 9, per complessivi 17 km circa di tubazioni sommerse di vario diametro. Il 3 dicembre 2009 la società Medoilgas Italia presentava domanda di pronuncia di compatibilità ambientale e lo stesso giorno provvedeva alla pubblicazione della documentazione relativa al progetto su due quotidiani («La Repubblica» e «Il Centro»), affinché il pubblico interessato potesse svolgere osservazioni. A seguito del disastro petrolifero occorso nel Golfo del Messico (2010), il Governo Berlusconi con il d.lgs. n.128/2010, modificava, però, l’art. 6, comma 17, del Codice dell’ambiente (2006), introducendo un espresso divieto di ricerca ed estrazione degli idrocarburi liquidi entro le cinque miglia marine dalle linee di base delle acque territoriali e per l’intero perimetro costiero nazionale; in questo modo si stabiliva che il divieto si applicasse anche «ai procedimenti autorizzatori in corso» e, in conseguenza di ciò, il procedimento relativo al progetto «Ombrina mare» subiva una battuta di arresto. L’art. 35 del «Decreto sviluppo» del 2012 tornava, tuttavia, sulla questione dei divieti, estendendo sì la tutela dei mari italiani fino alle 12 miglia marine dalle linee di costa - e ricomprendendovi anche la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi gassosi - ma facendo salvi i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 128/2010 e, dunque, anche


il procedimento su «Ombrina Mare». Così, dopo aver constatato che il procedimento di valutazione di impatto ambientale relativo al progetto di Ombrina fosse «ancora in corso», si dava comunicazione del riavvio del procedimento (11 luglio 2012), si sollecitava la Regione Abruzzo a far pervenire il proprio parere di competenza (11 luglio 2012) e si confermava che non fosse necessario acquisire, «per i primi quattro anni di funzionamento dell’impianto, l’Autorizzazione Integrata Ambientale in quanto, in questo periodo sono previste esclusivamente emissioni in atmosfera» (4 ottobre 2012); d’altra parte, l’obbligo di sottoporre gli impianti off-shore ad autorizzazione integrata discendeva solo dal d.l. n. 5/2012; dunque: da un atto normativo approvato successivamente all’avvio del procedimento di Ombrina. Nel gennaio 2013 la Commissione tecnica nazionale VIA-VAS dava il proprio parere positivo alla realizzazione del progetto, tenendo conto delle numerose osservazioni pervenute dal pubblico ai sensi dell’art. 24 del Codice dell’ambiente e delle controdeduzioni fornite dalla Medoilgas. Ai sensi dell’art. 26 del Codice dell’ambiente, il Ministero dell’Ambiente, congiuntamente al Ministero dei Beni Culturali, adottava il decreto di compatibilità ambientale, contenente alcune prescrizioni relative ai limiti di emissione in atmosfera, al monitoraggio, alle misure di prevenzione e mitigazione dei rischi, ecc.; mentre in ordine ai rifiuti, indirizzava una prescrizione specifica anche alla Regione Abruzzo: «deve essere approvato dalla Regione Abruzzo e ARPA Abruzzo» – si leggeva nel provvedimento – «il piano dei rifiuti che contenga le modalità di conferimento dei materiali prodotti durante la fase della perforazione, la data inizio lavori, nonché il volume per ciascuna tipologia di prodotto e l’elenco delle discariche autorizzate a ricevere tali rifiuti, le tecniche utilizzate per la riduzione volumetriche e/o il riutilizzo dei rifiuti». Il decreto, tuttavia, non sarebbe mai stato firmato. Successivamente alla diffusione della notizia (28 febbraio 2013), alcune associazioni

Il progetto «Ombrina Mare» è oggi al centro di un vivace dibattito che vede contrapposti, da un lato, i detrattori della SEN che fa dell'Abruzzo una delle Regioni deputate a ospitare il maggior carico infrastrutturale nell’ottica del raddoppio della produzione nazionale di idrocarburi, e, dall'altro, il Governo e taluni settori di Confindustria.

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ambientaliste organizzavano un’assemblea pubblica a Chieti (e successivamente una grande manifestazione a Pescara), alla quale avrebbe preso parte anche il Presidente della Regione, Gianni Chiodi. Quello che sconcertò l’opinione pubblica fu l'aver appreso che la Regione non avrebbe rilasciato il proprio parere sul progetto «Ombrina Mare»: il Ministero affermava, infatti, di aver inviato la sua richiesta di parere alla Regione (c’è il numero di protocollo in uscita) mentre la Regione sosteneva di non aver mai ricevuto la richiesta (non c’è il numero di protocollo in entrata). Resta il fatto che il 26 novembre 2012 il Ministero aveva chiesto ai Comuni interessati di rilasciare il proprio parere sul progetto e la richiesta era stata inviata per conoscenza anche alla Regione Abruzzo. Pertanto, la Regione non poteva non sapere. D’altra parte, la Regione non rilasciava pareri al Ministero dal 2008 e, quindi, delle due l’una: o doveva ritenersi che il Ministero non richiedesse pareri alla Regione dal 2008 o doveva concludersi che la Regione, pur sollecitata, non rilasciava pareri da quella data. Ora, a fronte di una richiesta di parere da parte del Ministero, la Regione avrebbe potuto assumere tre diverse posizioni: rilasciare un parere positivo; rilasciare un parere negativo; non rilasciare alcun parere. Quale che sia la posizione assunta, il Ministero avrebbe potuto comunque adottare il Decreto VIA, giacché il parere della Regione era obbligatorio ma non vincolante. E ‘obbligatorio’ voleva dire che il Ministero avrebbe dovuto richiederlo comunque in quanto previsto dalla legge. La domanda che andrebbe posta è la seguente: in assenza di richiesta di parere obbligatorio da parte del Ministero alla Regione, il decreto VIA sarebbe stato illegittimo perché adottato in violazione delle regole sul procedimento? Nel caso di «Ombrina Mare», qualora la Regione avesse proposto ricorso dinanzi al TAR avrebbe avuto probabilità di vincerlo? Vero è che la legge sul procedimento amministrativo (l. 241/1990) stabilisce che non sia «annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Tuttavia, qualora la Regione avesse dimostrato da42

vanti al TAR che il suo parere non fosse stato ‘privo di sostanza’, il giudice amministrativo avrebbe probabilmente accolto il ricorso e, quindi, annullato il decreto. Un conto, infatti, è il mancato rilascio di un parere che non modifica nella sostanza l’esito del procedimento e che, pertanto, si riassume in una mera irregolarità dello stesso; altro conto è il mancato rilascio di un parere che può modificare l’esito del procedimento e che, pertanto, costituisce motivo di invalidità dell’atto. Ciò ovviamente qualora il decreto VIA fosse stato firmato e pubblicato. In assemblea, il Presidente della Regione si impegnava, invece, a contrastare il progetto nel seguente modo: avviando, anzitutto, una discussione «con il Ministero» sul progetto «Ombrina Mare»; impugnando, in seconda battuta, il decreto VIA dinanzi al TAR Lazio; sostenendo, infine, una proposta impraticabile e, cioè, che venisse presentato un progetto di legge volto a estendere i divieti di esercizio delle attività petrolifere in mare dalle 12 miglia


marine alle 100/150 miglia marine (!). Il 7 marzo 2013 il Presidente della Regione si recava presso il Ministero dello sviluppo economico e, in quella sede, il sottosegretario De Vincenti acquisiva il parere negativo della Regione, dichiarando di voler riaprire il procedimento e di voler «approfondire la questione». La qual cosa induce a una ulteriore considerazione: se il Ministero ha ritenuto di riaprire il procedimento sulla base del parere acquisito dalla Regione, procedendo a una nuova istruttoria, vuol dire che con il suo parere la Regione è stata in condizione di apportare qualche elemento di novità al procedimento, al punto tale da modificare il giudizio espresso nel decreto VIA. Se questo è vero, è, allora, altresì vero che la Regione sarebbe stata in condizione di vincere il ricorso dinanzi al TAR abbastanza agevolmente. Con il parere reso, tuttavia, la Regione finiva per sanare l’illegittimità del procedimento, nonostante i termini per il rilascio dello stesso

fossero scaduti (il termine previsto dalla legge non è, però, perentorio: l’importante è che il parere giunga entro la conclusione del procedimento, ossia prima che il decreto risulti formalmente adottato). Successivamente, il Ministero decideva di avviare la procedura AIA prima dell’adozione del decreto VIA. Avverso questa decisione la Medoilgas proponeva ricorso dinanzi al TAR Lazio, chiedendo la sospensiva del provvedimento. Dopo essersi pronunciato negativamente sulla richiesta di sospensiva (24 ottobre 2013), il TAR si pronunciava nel merito il 9 gennaio 2014, dando torto alla Medoilgas. Contro il provvedimento del TAR, la società petrolifera promuoveva appello al Consiglio di Stato, che si pronuncerà ai primi di giugno di quest’anno. Nel frattempo, però, la società petrolifera Rockhopper Exploration – subentrata alla Medoilgas nella richiesta di concessione di coltivazione – accettava di sottoporre ad AIA il progetto «Ombrina Mare». Il Ministero dell’Ambiente, dopo aver ottenuto il parere positivo della Commissione Tecnica Nazionale VIA-AIA, sta predisponendo il provvedimento di compatibilità ambientale. Il progetto «Ombrina Mare» è oggi al centro di un vivace dibattito che vede contrapposti, da un lato, i detrattori della SEN che fa dell'Abruzzo una delle Regioni deputate a ospitare il maggior carico infrastrutturale nell’ottica del raddoppio della produzione nazionale di idrocarburi, e, dall'altro, il Governo e taluni settori di Confindustria. Ma la questione «Ombrina Mare» ha radici lontane che affondano nel procedimento del rilascio dell’omonimo titolo di ricerca («B.R269. GC»), avvenuto con decreto ministeriale del 5 maggio 2005 in favore della Società Gas della Concordia che in data 10 settembre 2002 aveva presentato istanza per ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi nel mare Adriatico, zona «B», adiacente alla costa abruzzese. La storia del titolo di ricerca «Ombrina Mare» eguaglia, per ricchezza di colpi di scena, mutevolezza del quadro di riferimento normativo e passaggi di mano, quella della richiesta dell'omonima concessione di coltivazione. 43



L’11 marzo 2008, infatti, la Società Gas della Concordia, divenuta nel frattempo Società Gas della Concordia Più S.r.l., chiede che «le proprie quote di titolarità dei permessi di ricerca e delle concessioni di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi vengano intestate alla Medoilgas Italia - S.p.A., a seguito dell'avvenuta modifica della denominazione, ragione e sede sociale, giusta delibera assembleare del 12 febbraio 2008, giusta rogito notaio dott.ssa Roberta Mori in Roma rep. n. 16049». Con decreto ministeriale del 1 aprile 2008 vengono intestate, dunque, alla Medoilgas Italia S.p.A. tutte le quote di titolarità dei titoli minerari presenti nel portafoglio della Società Gas della Concordia Più, titolo «Ombrina Mare» compreso. La ricostruzione della storia del permesso di ricerca «Ombrina Mare» consente di avere anche contezza degli accadimenti verificatisi tra l’entrata in vigore del c.d. Decreto Prestigiacomo e le modifiche apportate al d.lgs. n. 152/2006 dal Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134) e i relativi effetti sui procedimenti autorizzatori in corso di progetti petroliferi nell’off-shore italiano. Tornando a «Ombrina Mare», il decreto direttoriale del 7 novembre 2011 disponeva la sospensione del decorso temporale e la riduzione dell’area del permesso di ricerca. Il decreto giungeva a coronamento di alcuni passaggi endo-procedimentali, produttivi di effetti nei riguardi dell'iter della concessione del titolo di coltivazione. Come noto, infatti, il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e successive modifiche e integrazioni, recante «Norme in materia ambientale», come modificato dall’art. 2, comma 3 lettera h), del d.lgs. 128/2010, introduceva all’art. 6 del d.lgs. 152/2006, il comma 17, in base al quale «…Le disposizioni di cui al presente comma si applicano ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore del presente comma. Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla stessa data…». Tra questi ultimi rientrava di diritto il titolo di ricerca «Ombrina Mare»; tra i primi, invece, il

procedimento autorizzatorio di concessione di coltivazione in mare «d 30 B.C-MD». Con il citato decreto direttoriale, il Ministero disponeva la sospensione del titolo per un anno, ai soli fini del computo della durata, dal 5 maggio 2011 al 5 maggio 2012, e riduceva l'area del permesso di ricerca da 271,25 kmq a 109,2 kmq. Tutto questo avrebbe dovuto aver luogo nelle more della definizione del provvedimento di rigetto della richiesta di concessione «d 30 B.C.- MD», in quanto ricadente per intero in aree tutelate dal d.lgs n. 128/2010. È noto, invece, come in via di prassi, e fino alla successiva modifica legislativa operata dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134, il Ministero dello sviluppo economico abbia interpretato la previsione ex art. 2, comma 3 lettera h), del D. Lgs. 128/2010, non già come interruzione, ma come sospensione dei procedimenti in itinere, lasciando così ‘sopravvivere’ il progetto di coltivazione «Ombrina Mare». Con decreto direttoriale del successivo 27 aprile 2012, il Ministero dello sviluppo economico accordava una proroga di anni tre, accogliendo l’istanza presentata da Medoilgas Italia S.p.A. il 23 febbraio dell’anno precedente e tenendo conto della riduzione dell’area del permesso di ricerca. In tempi più recenti, il 14 novembre 2014 la società Rockhopper Exploration Italia ltd. chiedeva al Ministero che le venissero intestate tutte le quote di titolarità dei permessi di ricerca (quindi, anche del permesso di ricerca «B.R269.GC»), concessioni di coltivazione, istanze di permessi di ricerca e istanze di concessioni di coltivazione («Ombrina Mare» è tra queste) già della Medoilgas Italia S.p.A. Seguivano, rispettivamente il 23 febbraio e il 28 febbraio 2015, il decreto direttoriale di accoglimento dell'istanza e la pubblicazione sul BUIG.

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t

ratto da:

OSSERVAZIONI al Progetto di perforazione del

pozzo esplorativo ‘‘Gesualdo 1’’

Di recente il CROM (Centro di Ricerche Oncologiche di Mercogliano - AV), diretta emanazione tecnico-scientifica dell’ Istituto Nazionale dei Tumori – IRCCS “Fondazione G.Pascale” di Napoli, in collaborazione con l’amministrazione provinciale di Avellino, ARPAC, ASL Avellino, A.O. Moscati, Italdata, Ordine dei Medici della provincia di Avellino ha effettuato uno studio comune per comune su tutta la provincia di Avellino, relativo a mortalità, incidenza e ricoveri per tumori. Lo studio, coordinato dal Direttore Responsabile del SSD Epidemiologia del Pascale dott. Maurizio Montella, evidenzia il superamento di SMR in alcune realtà territo-

riali, sedi di insediamenti industriali come Solofra e Atripalda (a ridosso dell’area industriale di Pianodardine), ma anche in comuni apparentemente liberi da pressioni ambientali. Lo studio del CROM rappresenta anche per questo motivo uno stimolo a compiere nuovi approfondimenti epidemiologici sul territorio irpino, finalizzati a capire meglio la complessa situazione sanitaria di questa provincia. Tale studio deve mirare ad evidenziare le possibili connessioni tra comparsa di patologie e l’inquinamento ambientale coinvolgente le varie matrici (acque superficiali e profonde, aria e suolo).

DI SEGUITO ALCUNE TABELLE DELLO STUDIO



panem et circenses

Miscellanea di un barista disinformato dei fatti: L’uomo è acqua. di Simone Podu

Q

uesto è tutto. Te li ho cuciti nella tasca sinistra i soldi. Fra qualche ora conviene che t’incammini. Molti saranno già in spiaggia. Se non arrivi prima che giungano i convogli - quelli sono assatanati – ti ritrovi a viaggiare col muso al vento e il mare pronto. Quando arrivi non guardare nessuno in faccia e fingi di raggiungere qualcuno. Cammina dritto e spera ti vada bene. Arrivata al centro dello stormo è fatta. Flussi migratori. Qualcosa non torna. Non torna nel senso delle parole. La migrazione può essere un fatto biologico, fisico, geologico, zoologico. Nel caso umano parlano di fenomeno sociale o antropologico. Già m’infastidisco. Vogliono dire che tutte le migrazioni funzionano secondo principi riscontrabili, riconducibili, generati in natura; la migrazione umana no. Le migrazioni

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periodiche e stagionali compiute dai nostri parenti, gli animali, sarebbero altra cosa. Difatti è vero: l’uomo si è insediato ovunque. La natura, in senso stretto, non può spiegare la migrazione umana. Eppure tutte le circostanze dell’invivibile, qualsiasi sia la loro fonte originaria, conducono a soluzioni in cui il raziocinio poco ha da dire. La migrazione umana è un po’ zoologica. Vi starete chiedendo cosa importi una fisima linguistica tanto pedante quanto radical. Qualcosa porta: gli uomini migrano se morsi dalla disperazione e abbagliati dall’istinto. La loro missione non è, però, quella di continuare a migrare, ma quella d’insediarsi. L’uomo non è un uccello. Diversi studiosi si sono prodigati nel dimostrare il contrario: sostenere la natura migratoria dell’Uomo per sostenere calorosamente i disperati. Le migrazioni neuronali in ambito accademico sono un fenomeno tutto


La migrazione può essere un fatto biologico, fisico, geologico, zoologico. Nel caso umano parlano di fenomeno sociale o antropologico. da scoprire. Quando dico che qualcosa non torna nel senso delle parole, dico che il termine ‘migrazione’ sta all’umano come un film di Sorrentino sta a Canale 5. Nessun uomo si sposta per tornare. Forse lo spera in cuor suo, ma in realtà si sposta punto. Per questo adoro l’altra parola: flussi. L’Uomo si sposta a flussi. L’Uomo è acqua. L’uomo non esclude soluzioni. Quando tutto è perso, qualcosa è ritrovato. Il rapporto

volume-spazio determina la pressione. Quella che definiamo migrazione è, in realtà, canalizzazione, marea, evaporazione, condensazione, infiltrazione, scorrimento, flusso sotterraneo. L’uomo non migra, si muove. Infatti, seppur stanziale, possessivo, trasformatore, l’uomo ha sempre elaborato in contemporanea strutture d’insediamento e strutture di comunicazione. La stessa organizzazione produttivo - economica è fondata su tale accostamento ossimorico. Almeno 3 operatori aziendali su 10 svolgono una mansione fluida: relazioni fra aziende, relazioni istituzionali, gestione dei capitali, distribuzione, reti multinazionali. In ogni ambito, politico, economico, culturale, le comunità poco acquose, eccessivamente solide, hanno fatto la fine dello stagno o della pozzanghera. La Repubblica Romana in cinquant’anni, quasi senza volerlo, diruppe inarrestabile per ogni dove. La metà di un secolo e quella che allora si poteva bene definire ‘ecumene’, divenne loro totale possesso. Poi la stagnazione, la conservazione, il putridume di palazzo, le paludi del Nord. Una migliore liquidità giunge da Est e preme. Il limes, diga umana, crolla. Sono fluidi. Se c’è da combattere si combatte, se c’è da collaborare si collabora, se c’è da spartire si spartisce. Basta passare, come l’acqua. Due sono le tipologie d’evento in cui proprio non possiamo fare a meno d’intervenire risolutamente: il mal di denti e le perdite d’acqua. Il mal di testa si regge, finanche un’atroce frattura potrebbe, in circostanze speciali, essere sopportata, ma il mal di denti va affrontato. Così l’acqua. Non consente alternative. Bisogna chiamare un idraulico urgentemente. La


riprodurre un magnifico e affascinante scenario apocalittico, il Mediterraneo che ingoia corpi su corpi e, di anno in anno, s’alza di livello per, infine, debordare; la salsedine che corrode il continente, un mondo che svanisce come altri già svanirono. Invece no. Parliamoci schiettamente. Sono decenni che migliaia di ettolitri umani si riversano nelle correnti del cimitero marino che ci circonda. Ora mi chiedo: se un moto idraulico per decenni non si ripete a stagioni, bensì prosegue costantemente e indemeccanica dei fluidi è inquietante: «È più facile studiare il moto di corpi celesti infinitamente lontani che quello del ruscello che scorre ai nostri piedi.» diceva Galileo. In alcuni casi la politica ha affrontato il problema in modo vagamente corretto: la diga. Lo fecero i Romani con il limes e ultimamente i nostri governatori, con i campi di concentramento nel Nord dell’Africa: in questa direzione gli esempi si sprecano. Purtroppo il sistema a diga è provvisorio, non può reggere a lungo termine. I Paesi Bassi, il Veneto, diverse regioni asiatiche hanno optato per soluzioni inclusive: convivere con l’acqua. Non è detto che sia la soluzione più corretta, anche se in alcuni casi è sembrata essere la soluzione obbligata. Se escludiamo la canalizzazione, l’infiltrazione gestita, resta la vaporizzazione. Sicché dovremmo ergere Salvini a ministro della difesa idraulica? Io non gli affiderei l’impianto di casa mia. L’acqua vaporizzata si ricondensa. Che facciamo poi, un mega ombrello interstellare? Avete visto che fine ha fatto la Morte Nera in Star Wars? Devo concludere. Le soluzioni affettive, dolci e sentimentali le offrono gli umanisti. Politici e politologi danno le soluzioni pragmatiche. Le soluzioni di prospettiva le danno gli economisti. Io non sono nulla. Non sono preparato, non ho le competenze. Come concludo questo discorso assurdo? Potrei 50

Quella che definiamo migrazione è, in realtà, canalizzazione, marea, evaporazione, condensazione, infiltrazione, scorrimento, flusso sotterraneo. L’uomo non migra, si muove. fesso; se il vettore energetico per decenni non cambia, nonostante i disastri, nonostante l’olocausto non caustico, nonostante le guarnizioni; se tutto ciò è, come Dio è, come la stupidità è, come Baggio è; date le premesse, qual è il rapporto fra il volume e lo spazio di scorrimento, a quale valore corrisponde la forza attrattiva del bacino europeo, quale pressione può consentire tutto questo? E soprattutto, qualcuno sa in quale puntata MR Bean cercava disperatamente di arrestare con mani e piedi un tremendo getto d’acqua che sboccava dal bidet? È vero che solo noi italiani usiamo il ‘bidè’? Perché un oggetto che usano solo gli italiani ha un nome francese? È vero che la Storia è un po’ bislacca: come Dio, che l’ottavo giorno, dopo il riposo domenicale, alquanto infastidito dal rientro del lunedì, creò il raffreddore.



letteratura

NEUTRINI E NEURONI IN SALSA FOLLE di Alberto Zaccagni


Erbolario del fantastico, bestiario della realtà. Vinavil dell’immensamente grande e infinitesimamente piccolo. Adatto a tutte le età, sessi, religioni e sentimenti. Politicamente scorretto, religiosamente laico. Attivante per ogni interpretazione personale. Stimolante per commenti denigranti. Propedeutico allo studio della realtà paradossale. Indicato a chi sogna nuovi modi e nuovi mondi e per chi vuole iniziare. Consigliato a chi non invecchiera’ mai perché fatto di materia universale.

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Sono queste le Indicazioni per la guida alla lettura della raccolta di racconti e composizioni di Alberto Zaccagni che vi presentiamo in esclusiva su Artim Magazine. Una serie di novelle e poesie liberamente ispirate alla filosofia delle particelle e alla fisica del pensiero, una miscela di universi e mondi paralleli con un centro comune - l’essere umano - che vi somministreremo a dosi per i prossimi numeri. Primo racconto della serie e’ "La caverna delle meraviglie" dove storie di mondi passati e presenti, diversi e paralleli, si rincorrono come in una spirale, al centro della quale la ‘caverna’ rappresenta entrambi i lati di una stessa medaglia, costituita dall’umanità e dalla storia delle sue scelte più sagge e scellerate. Ne "I neutrini dell'anima" un flusso di pensieri viaggia nei meandri dell’universo e dell’uomo in una sorta di alchimia universale. Un’ode alla parte e al tutto.

La caverna delle meraviglie Giornata infernale oggi. Dembo è stato dilaniato da un orso. Se lo è trovato davanti durante la caccia sotto il costone roccioso. Non ha avuto scampo. A niente son valse le frecce di ossidiana, l’ascia di selce, la lancia di castagno temprata sul fuoco. Il fuoco nostro alleato, luce nelle tenebre, calore per i nostri corpi, figlio del Sole. Dembo invece è freddo come il ghiaccio. La neve che ricopre la terra mette alla prova le nostre donne e i nostri cuccioli rintanandoli nelle grotte. Giornata infernale oggi. Il tumore di Carlo è risultato maligno. Si era sentito male ai piedi dell’ascensore del condominio. Sembrava una semplice bronchite.

Niente ha potuto l’intervento d’urgenza, né il bisturi laser che ha asportato il linfoma dal polmone. A nulla è valsa la sala rianimazione, la chemioterapia, e tutta la scienza da cui dipendiamo. Carlo se ne è andato comunque. Il nostro ambiente è ormai inquinato, l’aria irrespirabile, le acque imbevibili. Tutto mette in dubbio il nostro futuro. I nostri figli si rifugiano nel profondo Web virtuale. Presto Madre Luna lascerà il passo al Padre Sole. Axul, lo sciamano, consultando il calendario litico sacrificherà il pegno al primo raggio che penetrerà la porta della egual luce. Domani ci incammineremo per la via del disgelo. Padre Sole ha concluso un nuovo giro. L’oscurità farà posto alla luce. Dalla terra rinascerà la vita. 53


Un altro giorno ci aspetta. Il pallido incerto sole sta per sorgere da sotto la coltre delle brume tossiche. Alte ciminiere di immonde fabbriche di vita e di morte emettono nubi purpuree. Il video lampeggia. Domani scatterà l’ora legale. Equinozio di primavera, dobbiamo risparmiare energia. La terra ha compiuto implacabile la sua orbita siderea attorno al Sole, incurante dei suoi affannati abitanti. Il nostro sistema solare della nostra galassia del nostro universo proseguirà la danza all’infinito come prima che comparissimo su questo pianeta. La squadra sarà organizzata così: Rasma e suoi figli Sgheo e Timco, i battitori, provocheranno disturbo agli uro selvatici spingendoli nelle fosse a punte che gli schiavi neandertaliani hanno scavato e approntato con grande forza e sacrificio. Menu, Maru Gasbo e i reietti difenderanno le retrovie dagli attacchi dei lupi e tigri dai denti a sciabola. Nel caso sacrificheranno i deformi e gli schiavi più vecchi, lasciandoli in pasto alle belve fameliche. Noi cacciatori della stirpe Sapiente figli del Sole terremmo pronte le armi. Nella forra della selvaccia attaccheremo più capi possibile. Prima con frecce e frombole poi finendo le prede con le lance e i bifacciali affilati. La gran caccia deve procurare il cibo fresco alla tribù. I macellai con rasoi di ossidiana taglieranno le carni. Le interiora calde di vita saranno consumate durante la festa sacrificale di ringraziamento. Le carni rosse saranno conservate nelle ghiacciaie tra terra e frasche. Le parti più prelibate saranno trattate con erbe e col prezioso sale. Conceranno la pelle i masnadieri e i prigionieri usando piscio, corteccia di quercia e midollo d’ossa. Le donne ammorbidiranno le cuoia con i denti. Gli artigiani dalle ossa caveranno utensili e modelleranno strumenti fini, altri con i crini intrecciati produrranno cordicelle, fili e lacci. Poi gli anziani mastri useranno gli aghi d’ossa e le trecce di crini e i morbidi cuoi per dar forma a faretre, zaini, contenitori, borse, tende…..Dembo non tornerà comunque. L’ufficio apre come sempre alle 9,00. Con Carlo o senza Carlo, il tragico gioco deve andare avanti. Il consiglio di amministrazione determinerà quindi le nuove cariche. Il settore commerciale si avvarrà di nuovi battitori liberi per espandere la nostra rete commer54

ciale. Attueremo quindi il dumping così da far cadere i concorrenti che rimarranno trafitti dai nostri prezzi. Per la produzione si prevede invece che il settore dei semilavorati sarà in outsourcing, sposteremo le lavorazioni più pericolose in paesi terzi a regimi sanitari bassi e con manodopera dai minimi salariali. Zone del mondo dove non esistono o sono aggirabili le leggi di tutela ambientale. Divideremo i prodotti in base alla qualità. Ogni prodotto sarà destinato alle varie fasce sociali attraverso mendaci campagne pubblicitarie. Ogni mezzo lecito e illecito deve essere usato per confezionare un prodotto, magari non sano, ma appetibile. Ogni scarto deve trovare il suo mercato lasciando poi che il mercato faccia il resto completando l’opera del nostro arricchimento. Un piano di corruzione verso gli organi di controllo avrà un budget illimitato, quasi come quello verso i politici di qualsiasi colore e partito. Tutto deve avere un risultato economico positivo. A ogni costo. Anche se è questo


che ha provocato la morte di Carlo. E Carlo comunque non tornerà. Dembo non tornerà mai più tra noi nonostante le nostre cacce, le nostre imprese, le nostre scoperte, le nostre frontiere superate. Dembo rappresenta quello che non sappiamo, e che vogliamo indagare e comunicare a chi passeremo il testimone della vita attraverso la nostra morte. Abbiamo bisogno di conoscere e trasmettere. Questo noi Cromagnoni sentiamo: scavare in noi stessi nel profondo della nostra anima terra. Niente potrà cancellare il nostro pensiero concentrando il ricordo in un segno. Un segno nel profondo della terra. Carlo rappresenta la nostra sconfitta, l’anello debole del nostro sistema creduto perfetto, risultato invece immondo e basso. Quale pensiero potrà sollevarci dal fango dove ci siamo gettati se non il domandarsi ancora sull’origine dell’universo. Quale altro obbiettivo possiamo porci per riscattare la nostra esistenza verso la futura discendenza. Non

guardiamo più dentro noi stessi per paura di trovare un vuoto che nessun social network potrà colmare. Un segno, solo un segno può salvarci, un seme germinante da sotto terra. Las Cau, il nostro sommo sacerdote rituale, lavora in uno stretto condotto sotterraneo che porta a una articolata caverna collegata all’esterno con tre diverticoli. L’entrata è orientata in modo che solo una volta nel giro del padre Sole permette il penetrare della luce. Il soffitto in calcare bianco è il libro dei segni che trasmetteranno la conoscenza ai figli dei figli dei nostri figli, che a loro volta completeranno la caverna con altri nuovi e a oggi sconosciuti segni. I tori saranno i primi a rappresentare la forza e la potenza numerosa degli astri, verranno in serie i cervi che nuotano guadando il fiume della via lattea, vi saranno stambecchi e uri, bovidi e cavalli che un giorno forse saranno nostri compagni come lo sono oggi la Luna e il Sole. Cinghiali e Bisonti in carica le paure conosciute. Orsi, Tigri, Leoni, Bufali le forze incontrollate. Come cacciamo, con quali armi e tecniche saranno rappresentate in modo che non solo noi Cromagnoni conosceremo. Un linguaggio universale oggi si apre a chi lo vorrà comprendere. Esiste un sito, una ‘caverna’ la chiamano. Insieme popoli di tutta la terra collaborano attorno a un profondo Anello. E’ questa la speranza che un giorno, magari è un’utopia, si possano vedere svelati i misteri dei segni che intorno a noi nell’universo freddo ruotano. Qui sulla terra abbiamo corrotto tutto e diluito nell’odio tutte le alleanze. La sotto, nel cuore dei cunicoli, di acceleratori di particelle, di rilevatori adronici, di lampi virtuali, di traiettorie immaginifiche, si rincorrono storie di mondi infiniti e lontani che alla velocità della luce si scontrano. Comprovare teorie, dar vita a soluzioni, svelare tecniche e sperimentare strumenti che cureranno i nostri danni e soddisferanno il nostro bisogno di conoscenza, assicurandoci che l’uomo del futuro potrà ancora una volta salvarsi.

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I neutrini dell’anima I neutrini, toccando i neuroni, mutano sapore, trasformandosi in neutrini dell‘anima Un fascio di neutrini mi trapassa lasciandomi nell’anima l’impronta dell’universo L’anima rivela il fascio di neutrini che il corpo trafiggono disegnando l’impronta dell’universo Attraversato da neutrini di pensiero, rilevo tracce di universo dentro di me. La sintesi dell’universo sconosciuto ha posto nel mio cuore trafitto da fasci di neutrini d’amore Il pensiero transita attraverso i corpi come neutrini. Non tutti hanno i rivelatori dell’anima per intercettarli La conoscenza come i neutrini attraversa tutti e tutto, senza mai fermarsi, senza mai poterla acquisire se non per il tempo di transito, sporcando l’anima della sua impronta universale.



letteratura

di Myriam Pettinato

Storie di ordinaria emarginazione: “Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo

La storia di Rico, il protagonista, è comune a quella di molte persone che da un giorno all’altro si sono ritrovate senza più nulla, fra le macerie dei ricordi e della vita costruita pezzo per pezzo nel corso degli anni

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n’umanità dolente e rassegnata al proprio dolore segna profondamente l’ultimo romanzo lasciatoci da Jean-Claude Izzo prima della sua morte prematura, nel 2000: Il sole dei morenti. È un romanzo tragico, duro, incredibilmente reale nel suo saper cogliere dall’interno e fissare sulla pagina la disperazione degli uomini che vivono sulla strada, quegli “esseri di cui perfino lo sguardo ci è insopportabile”, come dice in apice l’autore. Ma non è solo un libro

È un’umanità che vive di niente, quella dipinta quasi con toni romantici da Jean-Claude Izzo, esseri viventi che hanno smesso di esistere agli occhi del resto del mondo o che esistono solo come i rifiuti fra i quali si sistemano alla meglio. 58

sui senzatetto, anche se per scriverlo il romanziere si è documentato attraverso servizi, inchieste, interviste, testi sull’argomento. È anche un romanzo sulla potenza dell’amore che, se a volte salva, atterra quando l’amore lo si perde e non ci si rassegna, sull’ineffabile fragilità del limite che separa la felicità dalla disperazione, la normalità dall’irregolarità. La storia di Rico, il protagonista, è comune a quella di molte persone che da un giorno all’altro si sono ritrovate senza più nulla, fra le macerie dei ricordi e della vita costruita pezzo per pezzo nel corso degli anni: vive in un ricco Paese europeo (Francia), ha una moglie bellissima, Sophie, un bambino piccolo, una famiglia felice che scompare quando lei si innamora di un altro. La prima tessera di un domino che, a mano a mano, gli fa crollare addosso tutto quello in cui aveva creduto. Una moglie insoddisfatta dalla sua vita agiata, ritmi di lavoro eccessivi, il divorzio, l’alcol, un incidente, il licenziamento, e il passo verso l’emarginazione sociale diventa davvero breve. Quando perde anche l’unico amico che avesse mai avuto nella sua nuova vita randagia, sentendo che ormai la fine era vicina anche


per lui, decide di tornare a Marsiglia, a quel sole che gli rischiarava la memoria con il bellissimo ricordo di Léa: “crepare per crepare, meglio crepare al sole”. Nel viaggio, sulla strada, tra l’indifferenza, l’umiliazione e i piccoli gesti criminali, i ricordi “buoni solo a far piangere”, di felicità o dolorosi, sono tutti pieni di disperazione e di rimpianto, si aprono come squarci nel racconto delle disavventure, degli espedienti per sopravvivere, dell’incontro con Mirjana, che gli offre una nuova occasione di amare e che brutalmente, ancora, gli viene sottratta. Sul finire del romanzo, il ragazzo che racconta la storia si dice fra sé e sé che “questa vita non può continuare così. Non può”. E invece l’impressione che si ricava dal romanzo e che trova una perfetta corrispondenza nelle esistenze di quanti vengono chiamati “barboni”, “clochard”, “senza tetto”, o “senza fissa dimora”, o a questi accomunati da una condizione di emargina-

zione ed esclusione sociale, è quella di una vita finita in una latrina dalla quale è impossibile tirarsi fuori. La sensazione che si prova leggendo è una stretta allo stomaco, per l’ingiustizia, la cattiveria gratuita, la privazione anche solo della speranza nel futuro e nei sogni, l’impotenza a vivere, il disgusto che gli “invisibili” provano per sé stessi. È un’umanità che vive di niente, quella dipinta quasi con toni romantici da Jean-Claude Izzo, esseri viventi che hanno smesso di esistere agli occhi del resto del mondo o che esistono solo come i rifiuti fra i quali si sistemano alla meglio. “Lui era andato a fondo, mentre loro erano rimasti a galla. Per loro tutto continuava. La vita. L’amore. La felicità.”

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Cinema

“il più grande film di tutti i tempi”

Quarto potere di Orson Welles di Marciano Santosuosso

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arlare di “Citizen Kane” (titolo originale dell’opera di Orson Welles, traslato nell’edizione italiana del film in “Quarto potere”) vuol dire raccontare la storia del cinema con la ‘S’ maiuscola; l’importanza capitale che ha avuto e continua ad avere questa pellicola nella storia della cinematografia contemporanea per sceneggiatura, scelte stilistiche, modo innovativo e rivoluzionario dell’uso della macchina da presa, complessità narrativa e incredibile attualità è stupefacente, nonostante il lungometraggio sia stato effettivamente distribuito nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti d’America nientemeno che nel lontano 1941. A dirigerlo vi troviamo un vero e proprio enfant prodige, quell’Orson Welles che viene chiamato dalla casa di distribuzione RKO a Hollywood per girare il suo primo film all’età di appena 24 anni, dopo il suo celebre scherzo al programma

radiofonico della “Guerra dei Mondi” che terrorizza e manda nel panico più totale gli ascoltatori radiofonici americani dell’epoca. Per dirigere questo lungometraggio gli viene essenzialmente data carta bianca dalla casa produttrice - circostanza davvero unica e raramente riscontrabile nella storia del cinema - e Welles si ritrova a svolgere contemporaneamente le vesti di regista, attore (è proprio lui che interpreta il protagonista del film), produttore e sceneggiatore. La pellicola narra la storia di Charlest Foster Kane (interpretato, come evidenziato qualche riga fa, da un magistrale e inimitabile Orson Welles), magnate del giornalismo, nato povero, ma divenuto infinitamente ricco grazie a una miniera d’oro che sua madre ricevette in eredità. L’inizio del film rappresenta già di per sé un unicum nella storia del cinema di allora: Kane, infatti, ci viene mostrato solo nel suo castello, mentre vaneggia in punto di morte e nell’intento di pronunciare un’ultima misteriosa parola “Rosebud” - che rappresenta l’inizio dell’indagine che un giornalista (interpretato da William Alland) condurrà sull’oscuro passato del protagonista, con l’intento di scoprire il senso dell’ultima parola pronunciata dal magnate. Per far ciò, il reporter decide di incontrare molte delle persone vicine a Kane, come la seconda moglie Susan Alexander (Dorothy Comingore), il suo braccio destro Bernestein (Everette Sloane), il suo miglior amico, Jedediah Leland (Joseph Cotten), e il maggiordomo (Paul Stewart); grazie ai loro racconti scopre le svariate facce e i tanti segreti del magnate dell’editoria, ma nessuno


di loro riesce a rivelargli il mistero nascosto dietro quel semplice e, all’apparenza, insignificante vocabolo. La soluzione del mistero ci viene svelata solo a fine pellicola e appare tanto sorprendente quanto imprevedibile: “Rosebud” (nome completamente storpiato nell’edizione italiana del film in “Rosabella”, assieme a quello del suo castello che da “Xanadu” diventerà “Candalù”) era il nome della piccola slitta con cui Kane adorava giocare da bambino, un semplice pezzo di legno che finirà ad ardere in una caldaia, ma che per il protagonista, probabilmente, risultava di un’importanza trascendentale e superiore perfino alle enormi ricchezze e all’infinito potere che aveva acquisito nella vita piena di successi e di riconoscimenti, vissuta da personaggio e uomo illustre. Tutta la struttura narrativa della pellicola viene costruita a incastri, attraverso l’uso del flashback (tecnica incredibilmente innovativa e assolutamente coraggiosa per quei tempi, che ispirerà innumerevoli film successivi) che rappresenta il vero e proprio tratto distintivo di tutto il film di Welles; e grazie alla straordinaria e inarrivabile fotografia di Gregg Toland, il quale usa nuovi e rivoluzionari sistemi di illuminazione e obiettivi speciali, il film acquisisce una straordinaria e sorprendente profondità di campo per l’epoca. Per tutto lo scorrere della pellicola, Welles usa con grande audacia obiettivi particolari per dare significati espressivi a seconda di quello che vuole comunicare, utilizzando riprese mai nemmeno lontanamente pensate prima di allora. Fra gli innumerevoli pregi del regista americano c’è sicuramente anche quello di aver realizzato un film praticamente ‘immortale’, che tuttora mantiene la sua intramontabile validità a quasi ottant’anni di distanza, risultando alla visione dello spettatore una pellicola attuale e moderna, tanto nelle tecniche quanto nelle innovazioni stilistiche - che seppur ormai datate, rappresentano un punto di partenza fondamentale per il cinema dei giorni nostri - per non parlare dell’unicità del nucleo narrativo. Lo stesso Orson Welles rappresenta, inoltre, il

capostipite di quella particolare stirpe di registi che ameranno avere un controllo praticamente totale sui loro film, superando i limiti imposti da produzioni, sceneggiatori, esigenze pubblicitarie e di target di riferimento. La figura di Welles acquisisce negli anni una sorta di aurea mistica e mitologica, un autore predestinato, totalmente innovativo e inarrivabile, dotato di un ego smisurato che gli permise da un lato di perseguire sempre i suoi obiettivi, ma dall’altro di essere sempre percepito come una sorta di intruso nell’industria cinematografica: principalmente per questo motivo, la carriera del regista americano, viene sempre associata a quella di un’artista incompreso, probabilmente troppo avanti per i tempi in cui è vissuto, un

Welles racconta in “Quarto potere” l’esatto contrario del sogno celebre e stereotipato americano, narrando, tuttavia, la vicenda di un eroe che finisce in disgrazia


genio straordinario che, però, otterrà un pieno riconoscimento della sua arte e della sua giusta importanza soltanto dopo la morte, quando i tempi per la comprensione del suo enorme talento di cineasta e autore visionario saranno ormai maturi. Welles racconta in “Quarto potere” l’esatto contrario del sogno celebre e stereotipato americano, narrando, tuttavia, la vicenda di un eroe che finisce in disgrazia, ispirandosi alla reale storia dell’editore William Randolph Hearst che mosse mari e monti con l’intento di fermare la distribuzione della pellicola, tentando di screditarla in ogni modo e in parte riuscendoci, dato che il film andava a presentarsi ai botteghini cinematografici con un considerevole ritardo. Questo fu principalmente uno dei motivi che contribuì a far entrare quest’opera nel mito, unito al fatto, a dir poco sorprendente e inconsueto, che dietro la macchina da presa troviamo un ragazzo di appena 24 anni, che stava per

Fra gli innumerevoli pregi del regista americano c’è sicuramente anche quello di aver realizzato un film praticamente ‘immortale’, che tuttora mantiene la sua intramontabile validità a quasi ottant’anni di distanza rivelare al mondo tutto il suo genio creativo rivoluzionando l’universo della celluloide attraverso un nuovo e sconosciuto modo di fare cinema, con l’uso di un linguaggio atipico e di alcune tecniche rivoluzionarie e a dir poco audaci. Il film, nonostante ciò, non venne compreso dal pubblico e dalla critica di quegli anni, risultando un notevole insuccesso commerciale, nonché una notevole perdita economica per la casa produttrice e per il regista stesso. Riconosciuto all’oggi unanimamente come uno dei migliori e maggiormente influenti film della storia del cinema, “Quarto potere” rappresenta senza ombra di dubbio una tappa fondamentale e imprescindibile per l’uni-

verso cinematografico; riceve soltanto un Oscar nella categoria Sceneggiatura, ma i riconoscimenti che gli vengono insigniti postumi risulteranno numerosissimi: basti pensare che L’American Film Institute lo considera ufficialmente il più grande film di tutti i tempi. Dello stesso avviso sono importanti enti dell’industria cinematografica mondiale, come il Film Critic Circle di New York e il National Board of Rewiew. Sfogliando, studiando e analizzando tutt’oggi riviste, manuali ed enciclopedie relative alla storia della “settima arte”, non è un caso ritrovare citata questa pellicola almeno nelle prime dieci posizioni fra le opere che maggiormente hanno caratterizzato e segnato gli standard del cinema odierno. Questo articolo, infine, vuole rappresentare anche un piccolissimo omaggio a questo straordinario cineasta, visto che proprio il 6 maggio scorso, si è svolto il centenario della sua nascita.



pittura

INTROSPEZIONI intevista di redazione Artim Magazine

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attia Arduini nasce a Ostia il 23 giugno 1984. Nel 2002 si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Roma, dove frequenta il corso di Pittura tenuto da Gianfranco Notargiacomo, laureandosi nel 2010 con la docente e curatrice di mostre, Barbara Tosi. Fin da subito sviluppa un profondo interesse per l’astrattismo, che interpreta con maestria nei suoi lavori mediante un particolare uso di tecniche e colori. Terminato il periodo di studi, Arduini prende parte all'atelier StudioSotterraneo, che condivide con altri sei pittori. Sempre nel 2010 espone nel palazzo del Podestà di Ripatransone (AP), in una mostra collettiva "Giovani artisti da conoscere", curata da Giovanna Dalla Chiesa, Dario Evola e Barbara Tosi. Nel 2013 sei dei suoi dipinti sono stati selezionati dalla commissione DIVAG - Sopruntendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale del comune di Roma. Due sue opere sono esposte nell'auditorium dell'Accademia dei Lincei a Roma, e altre due negli uffici della Regione Lazio. Nel 2015 vengono selezionati ulteriori lavori dalla commissione DIVAG. Il 30 Aprile 2015 lo StudioSotterraneo ha inaugurato una sua mostra personale, dal titolo “Profondamente immerso”, esposta fino al 9 Maggio.

Intervista

a Mattia Arduini



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Nelle tue opere regna l’astrattismo, sia da un punto di vista concettuale sia riguardo alle tecniche utilizzate. In esse l’alternanza di intensità e opacità dei colori sembra dar vita a un flusso immateriale che a volte travolge chi osserva, altre lo abbraccia. Puoi spiegarci che tipo di tecniche utilizzi? Che relazione esiste tra quest’ultime e quello che dipingi? È piacevole per me scoprire questo duplice aspetto nel mio lavoro, abbraccio e travolgimento sono due emisferi di un contatto profondo. Come le sensazioni positive o negative, come il senso di conforto o lo smarrimento interiore. Il travolgimento è una spinta che non riusciamo a contenere, che ci butta giù...Riguardo la mia tecnica, ovviamente posso elencare i materiali, ma sono ingredienti che uso in maniera ingenua, provocando reazioni, a volte ostacoli nell'assorbimento del colore, a volte isole dove si deposita, o si staglia in orizzonti compositivi. A volte coscientemente riesco a ripetere ogni singolo sbaglio come il vizio prezioso di chi non impara mai. A volte no. Interagisco con l'opera dipingendo, versando scodelle di colore, giocando con le colature. Ma tutto all'interno di un ritmo dettato dall'asciugatura dell'acqua. Ogni fase di asciugatura comporta una differente compenetrazione del colore nella tela. Tutto sta nel prendere i tempi giusti, nel fermarsi, nel non toccare niente. Uso acrilici realizzati mischiando i pigmenti alla colla. Ma l'acqua è l'elemento fondamentale, che ne determina la composizione. Durante il tuo percorso formativo hai studiato pittura con Gianfranco Notargiacomo, uno dei protagonisti della post-astrazione. In che modo questo incontro ha influenzato la tua evoluzione artistica? Quali altri artisti hanno segnato il tuo modo di intendere l’arte? In quel periodo ho per la prima volta affrontato il tema della pittura in un suo aspetto che non conoscevo, e che ho trovato decisamente spiazzante. Non so cosa sia astratto o no, ma ho percepito il significato di astrarre l'opera da un contesto immaginativo legato al disegno, legato alla figura, al ricordo, al tra-


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Introspezioni. Intervista a Mattia Arduini

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scorso. Astrarla, rinunciare a tutto. Ripartire o semplicemente partire e poter comprendere nuovamente ogni termine nel suo significato più sincero. E tornano i primi colori, l'azzurro, il blu, il giallo. La pittura è un percorso con una mappa non scritta. Gianfranco Notargiacomo ha teso le fila di tutto questo in me. La sua aula e la sua visione dell'Accademia sono state una cosa preziosa e unica. Ovviamente mi hanno influenzato tutti gli esponenti dell'espressionismo astratto, dell'informale, o i color field di Barnett Newman, Clifford Still...Oppure Mario Schifano, Cy Twombly, Emilio Vedova... Dal 30 aprile fino al 9 maggio 2015 l’atelier StudioSotterraneo ha ospitato una tua

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mostra personale, dal titolo “Profondamente immerso”. La tua collaborazione con la galleria romana nasce nel 2010 e si basa sulla condivisione con altri artisti di uno spazio concreto e concettuale. Cosa ha aggiunto questa esperienza collettiva al tuo percorso individuale? Il mio percorso è individuale in quanto difficilmente si lega in collaborazioni. Ma tutto ciò che riguarda la vita, la serenità e la condivisione di esperienze, questo ricade anche nel mio lavoro, come ossigeno. È importante non perdere il contatto con i propri colleghi soprattutto per non perdersi nel vortice estraniante che spesso conduce la ricerca artistica. In alcuni suoi scritti, l’artista americano


Mark Rothko - che ci è venuto in mente osservando i tuoi quadri - confessa che la sua scelta stilistica dell’elemento astratto nasceva dalla costrizione e dalla condanna costituita dai limiti del mondo materiale e della realtà oggettiva. Da cosa nasce, invece, la tua ‘astrazione’? In che modo quello che rappresenti è legato al tuo universo emozionale interiore? Tutti noi percepiamo un limite o un senso di costrizione imposto a certe energie o propensioni. A volte sono imposizioni legate a cause esterne, di carattere politico o sociale, a volte prigioni interiori. Mark Rothko è un pittore che adoro e con lui ho viaggiato per la prima volta con la semplice osservazione di un quadro. Con un senso di smarrimento spesso angoscioso. In lui questi limiti non si sono mai vanificati, così decise di togliersi la

vita, all'età di 67 anni... Le mie emozioni provo a esprimerle attraverso colori, opacità e linee confuse. Composizioni traballanti o sospese che io riconduco al sogno, condizioni ambite, deriva. Cerco un luogo di pace nelle mie composizioni come in tutte le opere che in me suscitano una piacevole evasione. Spesso però cado in inganno e confondo con un paesaggio ideale un'ultima spiaggia di un'emotività tutt'altro che confortante. Progetti per il futuro? Sopravvivere ovviamente. Nella produzione di quadri, nel mantenimento del mio studio.

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interviste di redazione Artim Magazine

Nel mondo dell’arte naturalistica Continua il ciclo di interviste agli artisti del blog “Wild Aim” ( vedi le prime interviste nell’Artim Magazine N. 4): in questo numero conosceremo la passione per la Wildlife Art e la pittura di Giorgia Oldano; con Miguel Pascal Sacristán ci addentreremo, invece, nel mondo della fotografia naturalista. L’approfondimento su questo interessante blog, che vuole principalmente essere un luogo di incontro di artisti di diversa provenienza, le cui differenti esperienze artistiche sono accomunate da un interesse viscerale per il mondo naturale, proseguirà nei prossimi numeri dell’Artim Magazine.

Intervista

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a Giorgia Oldano

iorgia Oldano nasce nel 1984 a Torino, dove frequenta l'Accademia Albertina di Belle Arti, laureandosi nel corso di Pittura. Fin da subito attiva e autonoma nel suo studio di Vinovo, lontano dalla città, la Oldano sviluppa un amore viscerale per la natura e i suoi abitanti animali, che costituiscono i soggetti principali dei suoi lavori. Oltre alla pittura, si dedica soprattutto al disegno a matita, mantenendo costante ed evolvendo il suo studio sul mondo naturale. Nell'ultimo quinquennio ha collezionato molteplici importanti riconoscimenti: fra questi, nel 2012 il titolo di Campionessa Italiana di disegno naturalistico, al Festival italiano delle arti naturalistiche presso il Castello di Grinzane Cavour, che la porterà a vivere un’esperienza unica in Africa, tra Malawi e Zambia. Nel 2013 è stata premiata come vincitrice nella categoria mammiferi International Artists, nel Concorso BBC Wildlife Artists of the year 2013 in Gran Bretagna. Nel 2013 e 2014 è stata selezionata per esporre presso il Leigh Yawkey Woodson Art Museum, nella prestigiosa mostra annuale BIRDS IN ART, nel Wisconsin centrale. Nel 2015 è risultata finalista nel Golden Turtle Contest, a Mosca.


WildAim

arte e natura

Gli animali sono i soggetti principali dei tuoi lavori ed è soprattutto sull’ambiente naturale che il tuo sguardo si concentra. Di fronte alle tue opere, l’incontro tra l’osservatore e il soggetto è improvviso e funge come da catapulta in uno scorcio di natura selvaggia. Come è nata la tua passione per gli animali e il loro habitat? Cosa è per te “Wild Aim”? Ho sempre provato una particolare curiosità e un intenso amore nei confronti della natura e in particolar modo per il mondo degli animali. Sono affascinata dalla libertà, dal mistero, dalla bellezza che risiede in loro e nella natura stessa. L'unicità degli animali mi spinge a rappresentarli. Dipingerli e disegnarli significa cercare di capirli, conoscerli, amarli. Ricordo un episodio di quando andavo alle elementari. Avevo disegnato un'anatra nell'acqua e più la guardavo più mi piaceva. Forse è stato in quel momento che, inconsciamente, ho deciso che nella mia vita avrei disegnato gli animali e la natura. Wild Aim è un modo per condividere i miei lavori e le mie esperienze. Un modo per far avvicinare alla natura anche chi non può viverla costantemente. Trovo estremamente interessante la possibilità di leggere il racconto che sta dietro una foto o un dipinto o un disegno di un fotografo o di un artista. Credo amplifichi il suo valore o comunque permetta al fruitore di capire, di entrare dentro l'immagine e nel lavoro di ognuno di noi. Oltre alla pittura, ultimamente ti sei dedicata soprattutto al disegno a matita. In che modo hai connesso queste diverse tecniche nel tuo studio del mondo naturale? Le differenti tecniche mi permettono di indagare la natura con risultati diversi. Nell'ultimo anno e mezzo ho deciso di lavorare in bianco e nero per un pura scelta tecnica. L'olio era diventato difficile e non riuscivo più a concentrarmi sul colore. Forse è stata anche una scelta 'egoistica' per stare meglio con me stessa e i miei pensieri mentre lavoro. Sedermi alla mia scrivania davanti al banco reclinabile mi rilassa e mi aiuta a concentrarmi sull'immagine che sto realizzando. La matita è uno strumento semplice, alla portata di tutti, spesso considerata una tecnica minore. Io credo, invece, sia una tecnica molto complessa, che permette di realizzare sfumature infinite e lavori anche molto complicati. Inoltre è uno strumento con cui mi viene facile indagare i dettagli, essendo i miei lavori molto minuziosi e particolareggiati.


Unire arte e natura ti ha portato a viaggiare molto e negli USA hai avuto la possibilità di conoscere due grandi artisti del calibro di Robert Bateman e Chris Bacon. In che modo questi incontri hanno influito sulla tua evoluzione artistica? Ho conosciuto questi due artisti durante la mostra internazionale “Birds in Art” che si tiene ogni anno presso il Leigh Yawkey Woodson Art Museum di Wausau nel Wisconsin Centrale, a cui ho partecipato nel 2013 e 2014. Oltre alla mostra in sé, avvenimento molto importante, è un momento di condivisione e confronto tra gli artisti. Ho avuto la sensazione di essere accolta in una grande famiglia, nella quale nonostante le differenze culturali, tutti ti trattano con rispetto, uniti dall'amore per la pittura, il disegno, la scultura e la Wildlife Art. Robert Bateman in particolar modo è sempre stato un grande ispiratore. Nei miei momenti bui mi basta sfogliare uno dei suoi libri per trovare conforto, nuove energie e rimettermi a lavorare e pensare che tutto può diventare semplice, fluido e possibile. Osservare le loro opere mi ha aiutata a capire l'importanza dell'impaginazione dell'immagine, essendo loro i grandi maestri della composizione. Vivere a contatto con gli animali significa toccare con mano la forza profonda e, allo

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stesso tempo, la fragilità della natura. Nel mondo globalizzato di oggi oramai non si contano più gli attacchi agli ecosistemi da parte dell’uomo, ad opera di multinazionali, ma anche di governi (vedi il problema degli Ogm e quello delle trivellazioni). In che modo, secondo te, ogni singolo individuo può agire per cercare di arginare questo strapotere e preservare l’ambiente in cui vive? Innanzitutto credo sia importante sforzarsi di far conoscere e sensiblizzare le nuove generazioni al mondo della natura. La scuola, per esempio, può giocare un ruolo importante nell'educazione ecologica sul territorio. Nell'era di internet siamo bombardati da video e informazioni completamente sbagliate sugli animali. Innumerevoli filmati alterano la percezione degli stessi, spesso intesi come giocattoli o pupazzetti, e non come esseri pensanti, con dei sentimenti, e alle volte pericolosi. Bisognerebbe potenziare il contatto diretto con la natura e gli animali per far conoscere sia la loro grande bellezza, ma anche la loro grande potenza, quindi incrementare una corretta informazione poiché bisogna “informare per formare”.

circonda, che così assume un ruolo significativo. Cosa ti ha portata a sottolineare questa relazione tra soggetto e spazio circostante? Sostanzialmente il viaggio. Viaggiare e vivere la natura mi ha portata ad ampliare il mio campo visivo e di conseguenza a rappresentare gli animali nel loro contesto. Dalle mie esperienze al Parco del Gran Paradiso in Valle d'Aosta è nato “L'eremita”; non ho resistito a non disegnare quella vista mozzafiato di montagne che si stagliava dietro a quel piccolo stambecco in punta alla parete rocciosa in primo piano. Un altro esempio è “La sentinella”, un maschio di camoscio che spunta tra un intreccio di rami controluce. Qui ho provato a raccontare l'emozione dell'incontro con i camosci nel Parco Nazionale d'Abruzzo.

In una parte delle tue opere ti concentri maggiormente sugli animali, unici protagonisti dell’opera, mentre in altri lavori gli stessi sono calati nell’ambiente che li

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intervista A

Miguel Pascual Sacristán

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iguel Pascual Sacristán nasce nel 1980 a Segovia, in Spagna. Sin da piccolo scopre il suo amore per la natura, che successivamente sviluppa attraverso l’interesse per la fotografia, unendo cosi quelle che sono tuttora le sue due passioni principali. Nel suo percorso artistico collabora con varie associazioni di fotografi naturalisti, tra le quali spicca l’“AEFONA” (Asociación Española de FOtógrafos de NAturaleza). La maggior parte dei suoi progetti fotografici sono individuali e ambientati nelle vicinanze del suo luogo di residenza, Cantalejo, in provincia di Segovia, Spagna. Il Parco Nazionale del Duratón e il Parco Nazionale della Sierra di Guadarrama sono i luoghi dove Miguel

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attualmente trascorre la maggior parte del suo tempo a caccia di scatti, senza però mai porre limiti alle sue esplorazioni. Dal suo punto di vista, la fotografia e’ intesa come un mezzo per conoscere la natura e preservarne la sua conservazione in un mondo sempre piu basato sulla comunicazione visiva. Ha collaborato con i suoi lavori ad alcune pubblicazioni, come “Las aves de Segovia” e “El lobo en la llanura castellana”, ma anche in quotidiani stampati e web magazine. Ha coordinato e partecipato a una serie di esposizioni fotografiche che l’organizzazione animalista “SEO Segovia” e il comune di Segovia hanno allestito, dal 2012 al 2014, nella capitale, Madrid, mentre alcune sue mostre personali si sono tenute in diverse citta’ della Spagna.


Esiste sempre un momento rivelatore, nel quale ognuno realizza qual è il proprio scopo, in cui sembra di comprendersi profondamente per la prima volta: com’è nata la tua passione per la fotografia? Qual è la prima volta che ti sei avvicinato al mondo della fotografia? Ci sono molti elementi. Non ricordo un punto di svolta che mi abbia segnato e grazie al quale mi sia inserito a pieno nel mondo della fotografia. Essendo nato negli anni ‘80, mi ha influenzato molto la figura di Félix Rodríguez de la Fuente, passeggiavo per i campi a sperimentare e cercare ciò che vedevo nella sua serie “Fauna Ibérica”, poi la prima macchina fotografica e il teleobiettivo per immortalare gli uccelli…Sono molti i fattori. Senza dubbio, però, avere il campo cosi alla portata è stato determinante. Quando si immagina un fotoreporter, lo si vede in giro per il mondo nei posti più lontani e improbabili, tu invece hai sviluppato la maggior parte dei tuoi progetti fotografici dove risiedi, nei dintorni di Cantalejo, in provincia di Segovia (Spagna). Cosa ti lega a questi luoghi? Cosa rappresentano per te? Mi piace molto la fotografia, e’ una delle mie due passioni, però sono prima di tutto naturalista e poi fotografo. Credo che sia più intenso il piacere di esplorare i posti a noi più vicini, con i quali è necessario stabilire un legame, conoscerli. Senza dubbio cercherò di viaggiare e di conoscere anche posti lontani, ho già delle idee per la testa. Però per ora mi concentro sul Parco naturale del Duratón. Perchè? Ancora nessuna pubblicazione mi ha soddisfatto pienamente e così continua a lavorare a un progetto su questo parco, alle porte di casa. Tra i luoghi che prediligi per fotografare c’è il Parco Naturale del Duratón e il Parco Nazionale della Sierra di Guadarrama, posti privilegiati e lontani dai centri urbani, dove flora e fauna vivono protette. Durante i tuoi viaggi e le tue escursioni nei parchi nazionali, qual è l’incontro o l’episodio che più ha segnato non solo il tuo percorso artistico, ma anche il tuo rapporto con la natura e con le sue molteplici espressioni e sfaccettature? Anche se suona strano, gli incontri più singolari sono stati quelli con alcune persone. Nel Duratón ho conosciuto Juan Matute e nel Guadarrama Honorio e Abel. Loro sono stati tre dei miei principali compagni ‘sul campo’ e il loro aiuto è stato inestimabile: le loro opinioni, le conoscenze e la loro visione della natura hanno aiutato a formarmi come fotografo naturalista. Riguardo agli animali e alle piante, nel Duratón la visione dell’Allodola di Dupont ha catturato la mia attenzione e da due anni, infatti, lavoro a un progetto sugli Alaudidi. Nel Guadarrama ci sono stati molti incontri che potrei menzionare, tra tutti la visione più intesa è stata quella dell’orchidea, Cephalanthera rubra, che emanava una luce così speciale.

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Il tuo impegno nell’ambito della fotografia ti ha portato a diventare membro della AEFONA (Associazione spagnola dei fotografi naturalisti). Quali sono le attività che svolgi con questa associazione? Come hanno contribuito alla tua crescita artistica? Beh, il principale contributo di AEFONA è stato mettermi in contatto con altri membri dell’associazione. E’ una associazione nella quale rientrano sia fotografi dilettanti che professionisti di tutta la Spagna, dove si pubblicano articoli che trattano di fotografia naturalista, dove ci si relaziona con il lavoro degli altri, dove si possono avere riferimenti e idee sulle ultime tendenze in ambito fotografico, dove si può migliorare la tecnica e ottenere risposte ai propri dubbi. Spesso una foto è più comunicativa ed espressiva delle parole, riuscendo a cogliere un attimo fugace e a fermarlo in un modo tale che non basterebbero mille parole per immortalarlo e descriverlo diversamente. Secondo te, come si arriva alla foto perfetta? Quali metodi e/o intuizioni utilizzi per arrivare al miglior risultato? Non credo che esista una fotografia perfetta, il che è un sollievo perchè ciò presuppone che ci sarà sempre un motivo per continuare a lavorare e a migliorarsi. Con il passar del tempo mi sono reso conto che ci sono scatti fotografici che ti colpiscono a prima vista, e ti portano a pensare che siano insuperabili. Poi, dopo pochi mesi, immortali un’immagine che ti fa comprendere che quella che credevi insuperabile è stata migliorata in qualche modo. Spesso fotografo lo stesso soggetto con luci, tecniche e parametri diffententi, in momenti differenti dell’anno. Ho sperimentato la lunga esposizione, l’HDR (ndr high dynamic range o ampia gamma dinamica) e altre tecniche, ma le foto che più mi soddisfano sono quelle che rappresentano, fedelmente, il soggetto stesso: animali, piante e paesaggi. Ogni momento è diverso, vuoi per la luce vuoi per il tuo stato emotivo, per questo la fotografia perfetta non esiste. Partecipi raramente a concorsi e alcuni tuoi lavori sono stati pubblicati in varie 78

raccolte, mentre altri sono stati presentati in alcune esposizioni a Segovia. Cosa pensi dei principali canali di diffusione (musei, esposizioni, convegni, ecc) che utilizza il mondo dell’arte? In che modo l’arte può raggiungere le persone? Beh, non sono un esperto. La mia opinione è che tanto più l’arte si avvicina al pubblico e tanto meglio la si spiega, tanto più il pubblico la comprenderà e apprezzerà. Attualmente c’è molta concorrenza tra i fotografi naturalisti e non sempre è leale, molti regalano le loro opere e questo causa una svalutazione del mercato in generale.


Entrevista a Miguel Pascual Sacristán Siempre hay un momento revelador, en que todo el mundo se da cuenta de lo que es su propósito, en que parece que por primera vez te encuentras a ti mismo: ¿cómo ha nacido tu pasión por la fotografía? ¿Cuál es la primera vez que te has acercado al mundo de la fotografía? Hay muchos factores. No recuerdo un momento de inflexión que me marcara y me metiera de lleno en el mundo de la fotografía. Como muchos de los nacidos en los ochenta, la figura de Félix Rodríguez de la Fuente y las primeras salidas al campo a experimentar y buscar lo visto en su serie “Fauna Ibérica”, la primera cámara de fotos y el teleobjetivo para fotografiar aves…son muchos los factores. Pero sin duda tener el campo tan alcance fue determinante. Cuando imaginamos el típico fotoreporter, pensamos que viaja en lugares lejanos e improbables, tu en lugar has desarrollado la gran mayoría de tus proyectos fotográficos donde vives, cerca de Cantalejos, en la provincia de Segovia. Que es que te atrae de estos lugares? Que representan para ti? Disfruto mucho con la fotografía es una de mis dos pasiones, pero antes que fotógrafo soy naturalista. Creo que es más intenso el disfrute en el entorno más cercano y para mi es más necesario el conocimiento de lo cercano. No dudo en que en algún momento intentaré algún proyecto fuera en algún viaje, ya tengo alguna idea. Por ahora el Parque Natural del Duratón centra mis esfuerzos, ¿por qué? porque no he encontrado ninguna publicación que me haya llenado y estoy trabajando para hacer algo sobre este parque, que tengo a la puerta de casa. Entre los lugares que te gusta fotografiar se encuentra el Parque Natural de Duratón y el Parque Nacional de la Sierra de Guadarrama, sitios privilegiados y lejos de los centros urbanos, donde la

flora y fauna viven protegidas. Durante tus escapadas en los parques nacionales, cual es el ecuentro o el episodio que más marcó no sólo tu carrera artística, sino también tu relación con la naturaleza y con sus múltiples aspectos y expresiones? Pese a que suene extraño, los encuentros más singulares han sido con personas. En el Duratón conocí a Juan Matute y en el Guadarrama a Honorio y a Abel. Ellos han sido tres de los principales compañeros en el campo, ayuda inestimable, con opiniones, conocimientos y visiones de la naturaleza que me han ayudado a formar mi actual concepto de fotografía de Naturaleza. En cuanto a los animales y plantas, en el Duratón mi primera visión de la Alondra Dupont me enganchó con los aláudidos, con los que llevo ya dos años trabajando y dando forma a un proyecto. Y en Guadarrama hay varias que podría mencionar pero me quedo con la visión de una orquídea, Cephalanthera rubra, había una luz tan especial que fue una visión muy intensa. 79


Tu pasión por la fotografía y por la naturaleza te acercó a la AEFONA (Asociación Española de fotógrafos de la naturaleza). ¿Cuáles proyectos has desarrollado con esta asociación? ¿Cómo ha contribuido a tu crecimiento como artista? Bueno el principal aporte de AEFONA ha sido ponerme en contacto con otros miembros de la asociación. Es una asociación en la que caben tanto fotógrafos aficionados y profesionales de toda España, en la que se publican artículos sobre fotografía de naturaleza y en la que puedes encontrar el trabajo de otros compañeros, con lo que puedes tener referencias e ideas de por dónde van las tendencias en fotografía, donde puedes mejorar tu técnica y preguntar en caso de tener dudas. Muchas veces una foto es más comunicativa y expresiva que palabras, logrando capturar y detener un momento fugaz de una manera tan única que no serían suficientes mil palabras para inmortalizarlo y describirlo así. Según tu opinión, ¿cómo se llega a la foto perfecta? ¿Qué métodos y / o intuiciones utilizas para obtener el mejor resultado? No creo que exista una foto perfecta, lo que es un alivio, porque supone que siempre habrá un motivo para seguir trabajando y esforzándose. Me he dado cuenta con el paso del tiempo que hay fotos que en un momento te impactan y que llegas a pensar que es insuperable y a los poco meses

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consigues otra parecida que te hace ver que aquella fotografía que pensabas insuperable la has mejorado de alguna manera. Soy muy de repetir motivos con diferentes luces en diferentes momentos del año y usando diferentes parámetros y técnicas. He probado largas exposiciones, HDR y otras pero las fotos que me llenan son las que más fielmente representan lo que fotografío, animales, plantas y paisajes. Creo que cada momento, el personal y el de luz, son diferentes, no creo que la foto perfecta exista. Alguna vez has participado en competiciones, algunos de sus trabajos han sido publicados en diversas colecciones, otros


se han presentado en varias exposiciones en Segovia. ¿Qué opinas de los principales canales de distribución (museos, exposiciones, conferencias, etc.) que utiliza el mundo del arte? En que manera el arte puede llegar a la gente? Bueno no soy ningún experto. Mi opinión es que cuanto más se acerque cualquier tipo de arte al público y mejor se explique, más lo entenderá el público y más lo valorará. Actualmente la competencia es muy alta en fotografía de naturaleza y no siempre es competencia leal, muchos fotógrafos regalan sus obras lo que hace que el mercado esté a la baja.


scienza

Dio salvi l’eugenetica!

Un raro caso di alleanza Stato-Chiesa e altri piccoli aneddoti evolutivi di Federica Del Deo

N

on potendo purtroppo reperire facilmente informazioni a carattere medico-scientifico attendibili e soprattutto verificate, si associa l’eugenetica soltanto a congetture di nazista memoria, ovvero alla proclamazione della razza ariana come suprema e al tentativo di eliminare con metodi cruenti le etnie il cui fenotipo (aspetto fisico) non corrispondeva ai canoni anglosassoni. L’eugenetica degli anni Trenta è, infatti, famosa per i suoi scopi brutali e sconcertanti: in particolar modo nella Germania hitleriana si svilupparono vere e proprie politiche di “igiene razziale” - tra le quali spiccava il terribile “Aktion T4”, il Programma nazista di eutanasia che sotto responsabilità medica prevedeva la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili o supposte tali (tra le quali schizofrenia, epilessia, cecità, sordità, corea di Huntington e deficienza mentale) o da più o meno gravi malformazioni fisiche - basate sulla conservazione della presunta purezza genetica della ‘razza ariana’. Mi permetto di dire che i medici fautori di questa “teoria della razza” erano dei semplici invasati, non solo per l’insensato razzismo, 82

ma anche perché volevano purificare la razza basandosi solo su caratteristiche estetiche che non apportavano alcun vantaggio selettivo all’individuo (cfr. articolo sull’Artim Magazine n.2) in quanto non gli conferivano caratteristiche di adattabilità all’ambiente migliori dei cosiddetti ‘non ariani’. L’eugenetica dal Dopoguerra non è mai, però, passata di moda, anzi si è evoluta in una forma più subdola e in alcuni casi legalizzata. Cipro è una terra che costituisce un ottimo esempio di isolato genetico, ovvero un territorio con pochi contatti con l’esterno, sia geografici che interumani. Le piccole popolazioni degli isolati, spesso per ragioni culturali o religiose, tendono a sposarsi tra consanguinei. In questo modo l’incidenza di malattie genetiche rare aumenta. A Cipro, fino agli anni Sessanta, l’incidenza della beta talassemia era elevatissima. Un individuo su sette era portatore e uno su duecento nasceva malato. (Si può effettuare un calcolo molto semplice: la probabilità che due individui portatori abbiano un figlio è 1/7 x 1/7 = 1/49. Essendo una malattia autosomica recessiva c’è il 25% di possibilità che il nascituro sia


malato, dunque da 1/49 x ¼ si ottiene che un nato ogni 200 era malato). Secondo le tecniche allora a disposizione, questa era considerata una patologia letale entro il terzo anno d’età, oltretutto era molto dispendiosa per il sistema sanitario nazionale. Con un enorme investimento di soldi pubblici nella spesa sanitaria fu sviluppata una terapia capace di migliorare l’aspettativa di vita dei soggetti fino ai 30 anni circa. Questi pazienti si riproducono, aumentando il numero di affetti, e di conseguenza la spesa sanitaria. Alla fine degli anni Ottanta il numero di nuovi nati affetti da beta talassemia a Cipro arrivò a sfiorare lo zero assoluto. Magia? Miracolo? No, eugenetica! Il governo cipriota, molto sensibile alla questione economica, trovò nella potente Chiesa Ortodossa un’ottima alleata. Per legge la popolazione fu sottoposta a screening prematrimoniale, pena l’impossibilità del matrimonio religioso. Questo fu il primo di una serie di ricatti, visto che era impensabile non sposarsi in chiesa per i credenti ortodossi.

L’eugenetica dal Dopoguerra non è mai passata di moda, anzi si è evoluta in una forma più subdola e in alcuni casi legalizzata Le coppie che venivano diagnosticate come portatrici di talassemia dovevano impegnarsi ad abortire il feto nel caso fosse arrivata la diagnosi prenatale di malattia. L’alternativa all’aborto era la nascita del bambino al di fuori del sistema sanitario nazionale, il che avrebbe voluto dire che il costo delle cure avrebbe gravato interamente sulla famiglia, ovviamente incolpevole della malattia del figlio e impotente rispetto alle condizioni imposte. In un’ottica machiavelliana, il fine sembrerebbe giustificare il mezzo. Darwinianamente parlando, in questa occasione è stato accelerato il processo di selezione naturale. Gli individui con meno fitness (capacità di riprodursi e sopravvivere) vengono eliminati dalla selezione e con loro i caratteri genetici

inadeguati , in questo caso il gene mutato causante la talassemia. Possiamo pensare che questo processo di selezione sarebbe avvenuto comunque nel tempo e che, quindi, abbiamo semplicemente avvicinato il momento dell’eliminazione del gene mutato ( e non del gene in toto, attenzione!). Ma se la selezione fino a oggi ha conservato dei geni mutati, avrà avuto i suoi buoni motivi per farlo. Attualmente esistono ancora determinate malattie genetiche come la fibrosi cistica, l’anemia falciforme, il favismo, perché coloro che vengono definiti ‘portatori sani’ hanno o hanno avuto in passato dei vantaggi rispetto alla popolazione di riferimento completamente sana! Per portatore sano intendo colui che eredita un gene sano da uno dei due genitori, e l’altro malato dal secondo genitore. Queste persone, sia nel caso delle malattie autosomi che recessive, non si ammalano nel corso della loro vita, ma possono trasmettere la patologia ai discendenti. Nel caso dell’anemia falciforme, il portatore sano ha il 50% di globuli rossi normali e il 50% a forma di falce e difettivi nel trasporto di ossigeno. In Africa e nel bacino del Mediterraneo è stata a lungo endemica la malaria e, dunque, la selezione ha favorito i portatori dell’anemia falciforme.


Questo perché i globuli a falce non sono infettati dal parassita della malaria: ergo in soldoni, nei sani tutti i globuli normali sono attaccati e gli individui fino a pochi decenni fa morivano di anemia…i portatori di anemia falciforme salvavano il 50% di globuli che pur essendo a falce garantivano la sopravvivenza dell’individuo…Ecco perché abbiamo mantenuto questo gene e perché la sua prevalenza nelle nostre aree è più elevata della media. In Islanda il gene mutato che causa la stessa anemia è stato eliminato perché inutile e pericoloso, vista l’assenza della malaria. Ogni gene è attentamente vagliato e studiato, la selezione ha modi e tempi che la ragione umana non comprende e non sempre tollera. Quando ci mettiamo contro la selezione naturale, accelerandola o ostacolandola, non ne ricaviamo mai niente di buono. Un altro caso che merita attenzione è quello della fibrosi cistica (FC): il portatore sano in questo caso fino a qualche secolo fa era protetto dal colera, in Campania a oggi 4

persone su 100 ne sono portatrici. La proteina mutata nella fibrosi cistica causa secrezioni corporee più dense del normale. Il colera generalmente uccide per disidratazione, in quanto le feci sono acquose e si perdono vari litri di liquidi al giorno. Paradossalmente durante l’epidemia di colera che ha colpito Haiti dopo il terremoto del 2010 i portatori di FC si sarebbero salvati perché avrebbero perso meno liquidi! Ci dobbiamo convincere del fatto che se il gene mutato c’è, c’è anche una ragione! I pazienti con FC vengono sottoposti a trattamenti mediante tecnologie attuali, ma non guariscono e sono destinati a morire entro la terza decade. A differenza di Cipro, l’Italia non pone veti su gravidanze e aborti e lo screening è semplicemente consigliato a tutte le coppie. Inoltre, i pazienti con fibrosi cistica sono spesso infertili e vengono forniti loro trattamenti specifici, orientati verso il recupero della fertilità. Il risultato è che avranno figli malati, che resteranno presto orfani e che perpetueranno il gene mutato. Anche


in questo caso stiamo remando contro la selezione, ma in modo opposto, favorendo la diffusione di un gene mutato invece che cercare di eradicarlo. E’ impensabile obbligare ad abortire, è impensabile rifiutarsi di fornire le cure ai malati di FC, ma forse bisogna chiedersi quanto sia fattibile calcare la mano e contribuire alla diffusione di un gene mortale ancora oggi. Non c’è cura per la FC, ha senso far nascere consapevolmente e volontariamente sempre più malati? L’eugenetica, sia in senso di rimozione che

L’eugenetica, sia in senso di rimozione che di perpetuazione di un gene mutato con esplicito intervento umano, non è mai una scelta saggia di perpetuazione di un gene mutato con esplicito intervento umano, non è mai una scelta saggia. Nel caso di Cipro, potremmo aver perso per sempre la capacità di difenderci da infezioni parassitarie come la malaria, rischiando l’estinzione. Come nel caso di Haiti, una catastrofe naturale potrebbe peggiorare le condizioni igienico-sanitarie, con riaccensione di focolai malarici che a quel punto sarebbero incontenibili. E’ uno scenario drammatico, ma possibile; dunque Cipro rischierebbe l’estinzione? Sembra assurdo dire estinzione, ma in passato per una popolazione l’essere portatrice di talassemia in un territorio paludoso le avrebbe concesso il predominio su un popolo privo di quella caratteristica, nonostante lo svantaggio di qualche cipriota affetto. Oggi si parla tanto di ictus e infarto. Pare che ci sia una situazione di predisposizione genetica, che prende il nome di trombofilia. Corsi e ricorsi storici, in passato i geni mutati della trombofilia erano selezionati positivamente. Quando i fattori della coagulazione mutano, possono iperattivarsi e causare una coagulazione più potente e rapida. In guerra e nell’epoca in cui il parto avveniva ancora in casa, avere il gene iperattivo faceva la differenza tra il morire in battaglia

e il salvarsi nel primo caso, e tra il rischio di mortalità e la possibilità di rimanere in vita nel secondo. In passato, infatti, era comune avere geni che garantivano la coagulazione rapida ed efficace. In questo modo chi ne era in possesso, poteva sperare di sopravvivere alle emorragie che in tempi lontani erano molto comuni e non facilmente curabili. Le puerpere e i soldati, in particolar modo, traevano grande vantaggio dal possedere una ‘cascata’ della coagulazione così potente. In questo modo tali varianti geniche sono state conservate. Al giorno d'oggi un tale assetto genetico, però, risulta sfavorevole poiché, se si somma la predisposizione a formare coaguli potenti ad aterosclerosi, fumo e obesità, si ottiene un mix letale che aumenta il rischio di infarto. Quest’ultimo, infatti, non è altro che un coagulo misto a grasso che si blocca in un'arteria, ostruendo il flusso e causando la morte dei tessuti a valle. Nella nostra epoca, l’unione di gene mutato e stili di vita errati predispone enormemente a eventi patologici gravi e potenzialmente mortali. E’ sbagliata la selezione che ci ha fornito un meccanismo di salvataggio o sbagliamo noi a mangiare troppo e non muoverci? Ovviamente sbagliamo noi e non ci possiamo nascondere dietro la scusa della predisposizione. Tornando all’eugenetica razzista, i medici dell’epoca volevano salvare solo gli individui appartenenti alla razza ariana, considerata la più comune in Germania e paesi limitrofi. C’è, però, un motivo evoluzionistico nella presenza di determinati aspetti presso i popoli nordici. La pelle chiara, ad esempio, consente loro di assorbire meglio la poca luce solare, perché il nostro corpo necessita di raggi UV per poter attivare la vitamina D. Se le popolazioni

Il nostro genoma è il risultato di mezzo milione di scelte evolutive oculate, non volute da noi, ma che sicuramente si sono rivelate le più utili alla sopravvivenza della specie e non del singolo 85


del Nord avessero la carnagione tipica del Sahara morirebbero per rachitismo o soffrirebbero di osteoporosi. Se il Nazismo avesse preso piede in Siberia si sarebbero preservati i soggetti con il tipico aspetto degli abitanti degli igloo. Ad esempio, c'è un motivo anche per gli occhi fessurati degli Esquimesi. Le prime popolazioni umane si mossero dall’Africa alla volta dell’Europa e del resto del mondo, migrazione che prese il nome di “Out of Africa”. Il fenotipo era inizialmente quello che noi tutti oggi chiamiamo comunemente ‘uomo di colore’, ogni altro aspetto fisico non è altro che la selezione all’interno del genoma delle caratteristiche che meglio si confacevano al tipo di ambiente all’interno del quale le suddette popolazioni andavano a insediarsi. Il circolo polare artico è illuminato per sei mesi consecutivi 24 ore al giorno, farebbe comodo a chiunque avere gli occhi fessurati per poter meglio sopportare tutta quella luce, no? Gli esempi si sprecano e sarebbe meraviglioso poterli approfondire, forse ci torneremo su durante il viaggio con l’Artim Magazine. Quello che è fondamentale da ricordare è che così come selezioniamo caratteristiche fisiche per un migliore adattamento, a maggior ragione selezioniamo caratteristiche interne, biochimiche, che ci

consentono di poter funzionare e sopravvivere al meglio nelle condizioni in cui viviamo. (cfr. talassemia, FC) Il nostro genoma è il risultato di mezzo milione di scelte evolutive oculate, non volute da noi, ma che sicuramente si sono rivelate le più utili alla sopravvivenza della specie e non del singolo. La selezione sacrifica il singolo affetto pur di salvare cento portatori sani che poi usufruiscono di un grosso vantaggio. Riacquisterei grande fiducia nel genere umano se si abbandonasse la sciocca convinzione che l’eugenetica ci salverà. L’eugenetica ci estinguerà. L’unica eugenetica ammissibile è quella che, senza la mano dell’uomo, fa il suo naturale e darwinianissimo corso. E’ questa la genetica buona, che mantiene gli equilibri con il resto della biosfera e fa le scelte giuste per noi, come un genitore severo e incomprensibile, ma molto lungimirante.


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astronomia

VITE DA SPAZIO di Giovanni Pirone


‌.. This is Ground Control to Major Tom You've really made the grade And the papers want to know whose shirts you wear Now it's time to leave the capsule if you dare This is Major Tom to Ground Control I'm stepping through the door And I'm floating in a most peculiar way And the stars look very different today For here Am I sitting in a tin can Far above the world Planet Earth is blue And there's nothing I can do Though I'm past one hundred thousand miles I'm feeling very still And I think my spaceship knows which way to go Tell my wife I love her very much she knows Ground Control to Major Tom Your circuit's dead, there's something wrong Can you hear me, Major Tom? Can you hear me, Major Tom? Can you hear me, Major Tom? Can you.... Here am I floating round my tin can Far above the Moon Planet Earth is blue And there’s nothing I can do.


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opo che Neil Adam Armstrong nel ‘lontano’ 20 luglio 1969 mise piede sulla Luna, l’Unione Sovietica decise di investire la maggior parte del suo budget per scopi scientifici, in particolar modo per la progettazione di una missione senza precedenti per la specie umana: nel 1971 decolla la Saljut 1 (la prima stazione orbitale). L’idea di base, tanto geniale quanto utopistica, era di creare un ‘avamposto’ umano nello spazio che potesse ospitare gli astronauti per lunghe permanenze. Circa 44 anni dopo si sta ultimando l’assemblaggio del progetto internazionale della International Space Station (ISS), la Stazione Spaziale Internazionale. E’ costituita da un complesso di moduli pressurizzati lungo 74 metri e da una struttura reticolare che si estende per 110 metri. Tale struttura sostiene sia i pannelli solari, atti alla generazione di energia elettrica all’interno della stazione orbitale, che alcuni radiatori per la dissipazione del calore in eccesso. Per avere un’idea: l’intera stazione copre un’area complessiva delle dimensioni di un campo da calcio. L’ISS è in orbita a circa 400 km dalla superficie terrestre (un comunissimo aereo di linea vola a circa 10 km dal suolo), muovendosi a una velocità media di 25.000 Km/h che la porta a completare in un giorno 15 orbite complete. Sebbene la ISS segua sempre la stessa orbita, essa non sorvola incrocia sempre gli stessi luoghi del nostro pianeta. Ciò è dovuto al fatto che anche la Terra ruota intorno al proprio asse, compiendo una rotazione completa in circa 24 ore: ogni volta che la ISS raggiunge lo stesso punto della propria orbita, la Terra ha ruotato anch’essa e al di sotto della ISS vi è un luogo diverso. L’orbita della Stazione Spaziale copre l’85% della

“Mi sono reso conto guardando dall’alto che i confini sono un artificio umano. Li abbiamo creati e disegnati sulle mappe e sulle cartine geografiche, abbiamo preso i paesi e li abbiamo disegnati di colore diverso. È ciò di cui noi abbiamo bisogno per esternare i nostri limiti che sono interiori, ma in realtà dallo spazio le terre degli uomini sono un continuum” 90

superficie terrestre; soltanto dalle regioni più a Nord e più a Sud del nostro pianeta non e’ visibile. Ci sono diverse applicazioni per i nostri device per sapere a che ora transitera’ sopra la nostra testa. E’ facilmente osservabile perché i pannelli solari fungono da specchio alla luce del sole. L’assemblaggio dei vari moduli della ISS avviene in tantissime ore di lavoro che gli astronauti svolgono all’esterno della Stazione stessa (basti pensare che, nella sua prima ‘passeggiata’ spaziale, l’astronauta italiano Luca Parmitano ha impiegato circa 6 ore di attività in operazioni extraveicolari). Lo spazio


abitabile è di circa 900 metri cubi, all’interno del quale sono presenti laboratori multidisciplinari. Diversi ambiti scientifici sono oggetti di studi a bordo: medicina, biologia, fisica, metereologia, scienza dei materiali, astrofisica. Motivo che rende l’ISS così scientificamente interessante è la quasi assenza a bordo della gravità (microgravità) che è causata dalla distanza della stazione dalla superficie terrestre. La prima conseguenza di questo effetto è che gli astronauti non sono ancorati alla superficie della navicella e, quindi, fluttuano letteralmente all’interno della stessa. Studi di fisica sono collegati, per esempio, al cambia-

mento di stato di alcuni elementi in presenza di microgravità (https://www.youtube.com/ watch?v=JUUvlnnVMSQ ). Alcune indagini mediche riguardano, per esempio, fenomeni di decalcificazione ossea (osteoporosi) e perdita di tessuto muscolare (collegata ad atrofia muscolare) degli astronauti, derivanti dal lungo periodo che quest’ultimi trascorrono in microgravità. Nel Biolab dell’ESA si compiono esperimenti su microrganismi (i più importanti sono i tardigradi), cellule, piante e piccoli invertebrati. Durante le sperimentazioni svolte all’esterno vengono utilizzati alcuni strumenti che misurano l’attività solare. I dati di questi 91



strumenti sono importanti perché i cambiamenti nell'attività solare possono riflettersi sul clima terrestre. Per capire le condizioni di vita degli astronauti basti pensare al fatto che, durante i circa 6 mesi di permanenza a bordo, ogni giorno assitono a circa 15 albe e 15 tramonti, con conseguente totale sfasamento dei ritmi circandiani. Gli astronauti dormono e lavorano basandosi su programmi giornalieri ben precisi che prevedono attività calendarizzate. Sull’ISS non si dorme in comodi letti: non c’è un sopra e un sotto e tutto è senza peso e, dunque, gli astronauti possono dormire in qualsiasi posizione fissando le proprie cuccette a una parete della Stazione, in modo da tale non fluttuare e andare a sbattere contro qualcosa. È importante che le cabine siano ben aerate, altrimenti gli astronauti possono svegliarsi in debito di ossigeno. Sulla Terra l’aria viene costantemente mossa dalle correnti di convezione che si formano quando quella calda, più leggera, sale mentre quella fredda, più pesante, scende. In assenza quasi totale di peso, dove non vi sono oggetti piu’ o meno leggeri di altri, non si creano queste correnti con la conseguenza che, senza i ventilazione, l’anidride carbonica espirata durante il sonno rimarrebbe intrappolata intorno alla testa degli astronauti. L’olfatto e il gusto sono completamente falsati: il cibo viene appositamente prodotto da varie industrie specializzate. Il primo astronauta italiano sull’ISS è stato Umberto Guidoni nel 2001, mentre negli ultimi sei mesi abbiamo sentito più o meno tutti della presenza a bordo della prima astronauta italiana, Samantha Cristoforetti. La ISS è il frutto del lavoro congiunto di 5

agenzie spaziali rappresentanti 15 nazioni: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Inghilterra, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Russia, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia e Svizzera. Concludo con un’osservazione: aspetto molto importante della ISS è il concetto di cooperazione internazionale. Condizione necessaria per varcare i confini dell’ignoto è il superamento del concetto di barriere geografiche. A questo proposito, il già menzionato astronauta Luca Parmitano ha rilasciato in un’intervista questa interessante dichiarazione: “Mi sono reso conto guardando dall’alto che i confini sono un artificio umano. Li abbiamo creati e disegnati sulle mappe e sulle cartine geografiche, abbiamo preso i paesi e li abbiamo disegnati di colore diverso. È ciò di cui noi abbiamo bisogno per esternare i nostri limiti che sono interiori, ma in realtà dallo spazio le terre degli uomini sono un continuum.” (*)

canzone: Il testo in apertura è “Space oddity” , David Bowie . Album :Space oddity, 1969, Philips Records Fonti e approfondimenti: www.esa.int/ita/ESA_in_your_country/Italy www.asi.it/it/news/gli-esperimenti-di-samantha www.asi.it/sites/default/files/LISS_-_ISS.pdf (*) www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/approfondimenti/2014/07/20140723_ ueparmitano.html

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ARTIMTAUR


RASI.COM



Un nuovo eolico a basso costo e caratterizzato da una maggiore sostenibilità

tecnologia ecosostenibile

Una start up spagnola, Vortex, ha ideato un nuovo sistema di produzione di energia elettrica attraverso il vento, che però si basa sulle vibrazioni. Centro nevralgico del progetto è una turbina eolica a basso costo che presenta una particolarità rispetto alle turbine ‘classiche’. Mentre, infatti, quest’ultime si basano su sistemi di rotazione attraverso delle pale, le turbine ideate dalla Vortex, costituite solo da una struttura a forma di cono allungato, sfruttano il principio della vorticità, mediante un sistema di oscillazione: due magneti, all’estremità e alla base della turbina, generano un campo magnetico attraverso il quale uno speciale alternatore produce energia elettrica. Con questo meccanismo si ricava il 30% di quello che e’ in grado di rendere una normale pala eolica, ma la sua produzione costa la meta’ rispetto ai tradizionali aerogeneratori di energia, con l’80 % in meno di costi di manutenzione, senza dimenticare la sua maggiore sostenibilità dal punto di vista dell’impatto sul paesaggio. Potrebbe trattarsi di una vera e propria rivoluzione nel campo dell’energia rinnovabile che andrebbe a sostituire completamente il vecchio modello di pala eolica, sicuramente meno sostenibile ( basti pensare ai vantaggi riguardanti, ad esempio, la sicurezza per gli uccelli, dal momento che non sono installate pale in movimento, e l’estrema silenziosità della macchina). Per finanziare il progetto, la Vortex ha avviato una campagna su indiegogo.

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artimtaurasi.com/artim-magazine


Nessun uomo è un’isola


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