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SUL FILO DELLA MEMORIA

LA CORSA IN CIMA AL MONDO

PIKES PEAK, LA SCALATA AMERICANA DEL COLORADO.

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di Danilo Castellarin

“Se mi ricordo la Pikes Peak? Certo che sì. Fu la corsa più pazza alla quale partecipai con una delle automobili più esasperate che mi capitò di guidare in tutta la mia vita”. Walter Röhrl, nato a Ratisbona il 7 marzo 1947, non dimentica la straordinaria impresa dell’11 luglio 1987 quando su Audi S1, cinque cilindri turbo, 600 cavalli e 987 chili di peso affrontò e vinse la famosa corsa in salita lunga venti chilometri che ogni anno si disputa nel Colorado in piena estate. E aggiunge: “Ricordo che mi presentai quattro o cinque giorni prima senza nessuna esperienza mentre Ari Vatanen era già lì da alcune settimane con tutta la squadra Peugeot. Mi andò bene perché vinsi la scalata, fermando i crono sotto il muro degli undici minuti, cosa mai prima avvenuta”. Il tempo impiegato, 10’47”85, abbassò di ben venti secondi il record stabilito l’anno prima da Bobby Unser e distanziò di sette secondi Vatanen che salì in vetta impiegando 10’54” 83. Ma che tipo di corsa è la Pi es Pea La montagna da scalare è alta 4301 metri ed è situata 16 chilometri a ovest di Colorado Spings, all’estremità orientale delle Montagne Rocciose. Fu l’esploratore americano Zebulon Pike a disegnare i primi rilievi cartografci di questo colosso montuoso, ori-

ginariamente chiamato Pikes Peak (letteralmente “Cima di Pike”). Questo sito diventò prima una stazione meteo e poi, nei primi del Novecento un centro turistico. Nel 1915 l’uomo d’affari Spencer Penrose richiese al Ministero dell’Agricoltura Americano l’autorizzazione per ampliare ed ultimare la strada che raggiungeva la cima e una volta ultimati i lavori, avendo ottenuto una concessione ventennale, decise di organizzare una cronoscalata per autovetture e motociclette per promuovere il turismo. “Bisogna precisare”, sottolinea Röhrl, “che Il punto di partenza non era all’altezza del mare ma a quota 2800 metri e il percorso prevedeva 156 tra curve e tornanti per un dislivello di 1.439 metri, con una pendenza media del 7% e punte massime del 10.5%. Quando partecipai e vinsi, il traguardo era situato a quota 4.300 metri e per questo i giornalisti la chiamavano ‘Corsa degli Angeli’ e mi ricordo che parte dei venti chilometri erano asfaltati e un’altra parte sterrata, quindi la guida doveva cambiare a seconda del fondo stradale”. La completa asfaltatura del percorso è avvenuta per l’edizione 2012. Alla competizione, molto seguita dagli americani, possono partecipare mezzi di ogni tipo, a due o quattro ruote, auto, moto, camion, quad, prototipi d’ogni specie. Tradizionalmente la corsa viene sempre disputata il 4 luglio, data della Festa per l’indipendenza degli Usa. La vittoria di Röhrl avvenne nel 1987, la prima stagione corsa con le vetture gruppo A dopo l’abolizione dei “mostri” denominati Gruppo B. Un cambiamento dettato dalle prestazioni eccessive raggiunte da quei mezzi sui quali purtroppo si verifcarono gravissimi incidenti. Anche nella corsa del Colorado non sono mancate vittime. La settima di questa cronoscalata è stata registrata nel 2019: Carlin Dunne, già vincitore a Pi es Pea , ha perso il controllo della sua Ducati Streetfghter a pochi metri dal traguardo. “Ricordo la Pikes Pike come una gara temibile per la mancanza di guard-rail o di qualunque altro ti o i rote ione ungo gran arte e ercorso, ragion er cui si correva sforan o reci i i iuttosto profondi”, ricorda il driver tedesco. Inoltre, poiché il punto di partenza e quello d’arrivo si trovano ad altitudini differenti, le condizioni naturali possono rapidamente mutare e non è affatto raro partire col sole e arrivare con il nevischio. L’altitudine in uenza anche il rendimento dei motori (in maniera minore se si utilizzano motori turbocompressi e nulla se si usano motori elettrici) perchè la concentrazione di ossigeno e la pressione atmosferica diminuiscono con l’altitudine. Con il passare degli anni, l’evoluzione delle vetture e l’eliminazione dei tratti sterrati, i tempi di percorrenza si sono ulteriormente abbassati, ma l’impresa del pilota di Ratisbona avrà per sempre un posto speciale nella storia del motorsport europeo a caccia di gloria Oltreoceano. Fu a partire dalla seconda metà degli Anni Ottanta che questa competizione riscosse l’interesse delle Case europee, prima fra tutte l’Audi che, nel 1985, partecipò, e vinse, con la Sport 4 dell’affascinante Michèle Mouton. Ma è la famiglia Unser a detenere il record assoluto, con 113 partecipazioni e 38 vittorie. Bobby Unser rimane il membro della famiglia con il maggior numero di affermazioni alla Pikes Pike, dove ha vinto otto volte a ruote scoperte, due con le Stock Car e nel 1986 vinse su Audi Sport, un anno prima di Röhrl. Suo fratello Al Unser più noto per le sue quattro vittorie a Indianapolis, ha vinto il trofeo nel 1964 e 1965. Nel 2013 ha vinto Sebastien Loeb su Peugeot impiegando 8:13.87 e distanziando il secondo classifcato di un’eternità: 49 secondi.

RITORNO AL VERTICE CON L’ALFA ROMEO 33

LA 33 “DUE LITRI” PORTA L’ALFA ROMEO NEL CAMPIONATO MONDIALE MARCHE. L’INIZIO È DIFFICILE, POI ARRIVANO LE VITTORIE CHE CONTINUANO CON I PRIVATI QUANDO LA CASA PASSA ALLA “TRE LITRI”.

di Elvio Deganello – foto Actualfoto, Centro Documentazione Storico Alfa Romeo Arese, illustrazioni Massimo Grandi

Da italiani e da “Alfsti” proviamo affetto per la 33 che nel 1966 riporta l’Alfa Romeo nelle corse del massimo livello. Tutto inizia nel 1964 quando l’ingegner Giorgio Valentini arriva all’Alfa Romeo e, nella sua prima riunione, dice: “L’Alfa, che corre ancora con un 1600 quando la Porsche corre con un 2000 non è all’altezza del suo nome. Ci vuole un’auto di almeno 2 litri”. Subito Giuseppe Busso, responsabile della progettazione sbotta: “Se l’ultimo arrivato si permette di dire la sua opinione, io do le dimissioni!” E se ne va sbattendo la porta. Busso non si dimette, ma fa allontanare Valentini suggerendo al direttore, ingegner Orazio Satta di distaccarlo all’Autodelta. Per le parole di Valentini risuonano con insistenza nella mente di Busso e nel febbraio 1965 fa propria la proposta di una “2 litri” Sport, che la direzione subito approva. Nell’autobiografa Busso scrive: “Le intenzioni mie e di Satta erano di mettere in piedi qualcosa che nell’edizione più spartana mirasse al vertice e a categoria ue itri, ma che con a eguate fniture consentisse agli amanti delle alte prestazioni il normale uso giornaliero”. Nello stesso testo, Busso cita appena il motore V8 “due litri”, dicendo che non ha novità rivoluzionarie, ma si sofferma sull’autotelaio che, sospensioni a parte, è davvero unico. fatto con tre tubi di grande diametro di Peraluman (alluminio con il 7%-10% di magnesio), rivettati per formare una H sulle cui teste anteriori è angiata una fusione ultraleggera di Atesia T (magnesio con il 7,5-8,5 di alluminio), detta “castello”, che supporta le sospensioni, la pedaliera, lo sterzo, il cruscotto e, tramite un traliccio di tubi, i radiatori e le cerniere del cofano.

Le teste posteriori sono invece collegate a due “gambe” fuse in lega di Atesia T con sezioni tonde decrescenti che sostengono il motore, poi convergono per unirsi a una struttura di lamiera scatolata che sopporta il cambio e le sospensioni ed è sflabile, per facilitare lo smontaggio del gruppo motopropulsore.

SERBATOIO

All’inizio i grandi tubi sono rivestiti internamente di plastica per fungere da serbatoio e mantenere il baricentro stabile a dispetto del consumo in gara. Per le micro-fessurazioni verifcatesi nelle prove, consigliano di inserire nei tubi un vero serbatoio di gomma sagomato a U. Nel luglio 1965 arrivano le fusioni per il telaio, che è poi allestito dall’Aeronautica Sicula di Palermo. Il prototipo mette le ruote a terra l’8 gennaio 1966 con un motore Giulia T e il successivo 14 gennaio il Presidente dell’Alfa Romeo Giuseppe Luraghi ordina di consegnare tutto all’Autodelta. Ci sono solo pochi pezzi del motore “due litri”, così l’ingegner Chiti dell’Autodelta pu svilupparlo condensando il “savoir faire” dell’Alfa Romeo e le proprie esperienze con i V8 Ferrari e ATS. Ne esce un capolavoro della tecnica che ha la bella potenza di 240 CV con quattro alberi a camme in testa, l’alimentazione a iniezione, la doppia accensione e il carter secco. Il 7 gennaio 1966 durante una dimostrazione a Monza il prototipo 002 guidato dal collaudatore Teodoro eccoli esce distrutto da un incidente e la presentazione alla stampa slitta al 7 marzo. I

giornalisti elogiano la 33 e chiamano “periscopica” la vasta presa d’aria posteriore, che sorprende. Oggi si sa che quella presa d’aria è un espediente per aggirare il problema aerodinamico del parabrezza, che accelera i ussi dell’aria e crea una zona di depressione a regime vorticoso, rendendo irregolari i ussi dell’aria verso l’aspirazione e i freni posteriori “entrobordo”. Il “periscopio” esalta la tendenza all’alleggerimento dell’avantreno, che crea portanza alle alte velocità. Il tentativo di risolvere questo problema sono gli spoiler che si vedono negli esemplari della presentazione a Balocco. La 33 debutta in corsa il 12 marzo a Fl ron in Belgio con Teodoro eccoli che trionfa su una concorrenza non troppo agguerrita.

CAMPIONATO MONDIALE MARCHE

Il 2 aprile a Sebring c’è l’appuntamento con gli avversari davvero agguerriti del Campionato Mondiale Marche. Qui le 33 sono senza spoiler e hanno le prese d’aria dei freni anteriori chiuse. La 004 di Andrea De Adamich- eccoli è la più veloce in prova in 3’00”6, davanti a tre Porsche 910 e alla 005 di Roberto Bussinello-Nanni Galli. In gara per si ritira all’84° giro con una sospensione rotta, mentre la 005 di si ferma al 26° giro per noie all’accensione. Una settimana dopo nelle prove libere della 24 Ore di Le Mans debutta la 33 “coda lunga” con il cofano motore alto, liscio e allungato, che è più veloce della “periscopica” grazie alla migliore aerodinamica. Le 33 saltano gli appuntamenti con il Campionato Mondiale Marche del 25 aprile a Monza e del primo maggio a Spa.

Tornano il 14 maggio nella Targa Florio senza spoiler, con i rigonfamenti a goccia sul posteriore che dirigono l’aria sulla trasmissione e varie soluzioni per le prese d’aria per i freni anteriori: quella “Ge i” (Giacomo Russo)-Nino Todaro non le ha e quella di Nanni Galli-Ignazio Giunti le ha più grandi di tutte. Nelle prove De Adamich è il più veloce ma tutte le 33 hanno problemi con i bracci superiori delle sospensioni, che prudenzialmente sono fasciati con nastro metallico per la corsa. Il ritmo iniziale della gara delle 33 è entusiasmante, ma al terzo giro quella di o Bonnier si ferma con le sospensioni rotte, seguita al settimo giro per lo stesso guaio da quelle di “Ge i”-Todaro e di De Adamich ean Rolland che sta lottando per il primo posto. La sola 33 al traguardo è quella di Galli-Giunti, ma fuori tempo massimo perch af itta da problemi all’accensione. Due settimane dopo nella 1000 m del N rburgring le 33 danno spettacolo, ma quella di Roberto Bussinello- eccoli è solo quarta dopo tre Porsche, mentre le gemelle di De Adamich-Galli e di “Ge i”-Giancarlo Baghetti si fermano l’una per le sospensioni anteriori, l’altra per noie al cambio.

IN SALITA

Le 33 rinunciano alla 24 Ore di Le Mans in programma l’11 giugno e vanno a cercare gloria nel Campionato Europeo della Montagna. Il 4 giugno nella salita di Rossfeld la 33 De Adamich potrebbe trionfare se la Porsche non avesse preparato le leggerissime 910 “Bergspyder” Gruppo 7. De Adamich in igge 9” di distacco a quella di Gerahard Mitter, ma prende a sua volta 9” da Rolf Stommelen ed è secondo. Nella stessa occasione la 33 di Nanni Galli mostra per la prima volta il muso con quattro fari che tuttavia non servono in salita. Il 26 giugno Nanni Galli vince la Salita al Monte Pellegrino fuori Campionato e 16 luglio torna nell’Europeo alla Cesana-Sestriere con la 33 trasformata in Gruppo 7, con il parabrezza ridotto al minimo e senza “periscopio”, ed è terzo. Le 33 tornano nel “Mondiale Marche” il 23 luglio nel GP del Mugello la coda lunga, i parafanghini aggiuntivi e la “bocca” ingrandita. Nessuna termina la corsa e l’ingegner Gherardo Severi dal vicino box Porsche è testimone del battibecco fra Colin Davis, pilota della 33 n° 16, e l’ingegner Chiti che non vuole sentire le sue ragioni. Allora Davis si rivolge all’ingegner Bardini, AD dell’Alfa Romeo: “La macchina non va - gli dice ha ca ito erfno Fa ri io a chi uesto Fa ri io chiede Bardini sorpreso. Fa ri io il mio cane”.

In effetti, non ci vuole molto per capire che la coda per Le Mans non è buona per il Mugello”. Le 33 saltano le successive gare del “Mondiale Marche”, rinunciano anche alle salite del Campionato Europeo della Montagna e il 17 settembre cercano la gloria nel Trofeo Lumezzane, una garetta in salita, dove Galli con la 33 “coda lunga” è secondo dietro la Fiat-Abarth 2000 dello scatenato Peter Schetty. Per chiudere la stagione ci vuole un successo che accontenti i politici di Roma, perch all’epoca l’Alfa Romeo è un’azienda di Stato e il 14 ottobre 1967 a Vallunga è provvidenziale il primo posto di De Adamich con la “coda lunga” davanti all’altra 33 di Giunti e alla Porsche 910 di Carlo Facetti.

DA BALOCCO A DAYTONA

Chiusa la stagione 1967, l’Autodelta si mette al lavoro sul prototipo con la carrozzeria tutta nuova e le sospensioni modifcate che prova a Balocco nel gennaio 1968. Poco dopo tre vetture partono per la 24 Ore di Daytona che si corre il 3 febbraio. Quella di Nino VaccarellaUdo Schutz è quinta assoluta e prima di classe seguita a ruota da quelle di Mario Andretti-Lucien Bianchi e Giampiero Biscaldi-Mario Casoni. Finalmente è un successo pieno e il modello aggiornato prende il nome dalla gara. Fra le particolarità della carrozzeria della 33 Daytona c’è il tetto amovibile che consente la confgurazione coup o spider. Per la coda c’è la variante lunga tipo “Le Mans”, che quest’anno è impiegata con più giudizio. La principale modifca meccanica è lo spostamento dei radiatori dell’acqua e dell’olio sui fanchi per concentrare le masse attorno al baricentro e abbassare il frontale, rendendolo meno soggetto a sollevarsi alle alte velocità. In principio il muso è completamente apribile, poi la decisione di portare davanti il radiatore dell’olio nelle gare con alte temperature, consiglia un piccolo cofano tradizionale che pu avere o non avere la presa d’aria secondo le circostanze. Dopo Daytona, le rinnovate 33 corrono le altre gare del “Mondiale Marche” alternando buoni piazzamenti ad altri meno buoni. Il 7 aprile a Brands Hatch Baghetti-Galli e Vaccarella-Richard Attwood sono rispettivamente quinti e sesti di classe, mentre Lucien Bianchi-Schutz si ritirano per incidente. Il 25 aprile le due 33 in gara nella 1000 m di Monza si fermano con il motore rotto.

Il 5 maggio nella Targa Florio la debuttante versione 2,5 litri di Nino Vaccarella-Schutz esce di strada, ma le due litri ottengono un magnifco secondo posto assoluto e primo di classe con Galli-Giunti, il terzo assoluto con Bianchi-Casoni, il quinto assoluto con Teddy Pilette-Rob Slotema er e il sesto assoluto con Baghetti-Biscaldi.

AFFIDABILITÀ A TUTTA PROVA

Il 19 maggio nella 1000 m del N rburgring cinque 33 su cinque partite sono al traguardo con una bella dimostrazione di affdabilità. La migliore è la 2 litri telaio 017 di Galli-Giunti, che è quinta Assoluta mentre la 015 con il motore di 2,5 litri è settima. Il 26 maggio nella 1000 m di Spa le due 33 del team privato VDS sono terza e quarta di classe con Pilette-Slotema er e Gustave GosselinSerge Trosh. I ritiri riprendono il 14 luglio a at ins Glen, con il motore rotto nella 33 dei privati Horst wech- ohn Martino, ma il successivo 25 agosto le 33 tornano sulla buona strada nel G.P. d’Austria, con la 2,5 litri privata di Teddy Pilette quarta assoluta e la due litri di privata Serge Trosch quarta di classe. La 24 Ore di Le Mans conclude la stagione mondiale dell’Alfa Romeo il 29 settembre con un risultato che sintetizza le gioie e i dolori del 1968. Le 33 di Giunti-Galli, Spartaco Dini-Carlo Facetti e Casoni-Biscaldi occupano nell’ordine le prime tre posizioni nella

Classe 2 Litri e sono quarta, quinta e sesta nella classifca assoluta, mentre le 33 private di Pilette-Slotema er e di Trosch- arl von endt si ritirano. Nel 1969 l’Alfa Romeo sviluppa le 33/3 con il motore tre litri e affda le due litri ai team privati. Così, mentre i difetti di gioventù a volte fermano le 33/3, le 33 “due litri” brillano con tanti buoni piazzamenti e una ventina di vittorie. Da segnalare sono il primo posto di classe di Enrico Pinto-Giovanni Alberti nella 100 m di Monza il 25 aprile con la 33 022 della Scuderia Madunina, il magnifco quarto posto assoluto dello stesso equipaggio nella Targa Florio, il primo posto di Classe di Carlo Facetti-Herbert Schultze con la 026 dell’Alfa Romeo-Deutschland nella 1000 m del N rburgring, le cinque vittorie di Scooter Paric nel Campionato Americano SCCA con la 019 del Team Otto ipper, i tre primi posti di Carlos Pace nella 1000 m di Brasilia 1969 e nella 3 Ore di Rio de aneiro e nella 500 m di Salvador con la 33 dell’Alfa Romeo Brazil, la vittoria di Teddy Pilette a arama con la 015 del team VDS e la vittoria di Ignazio Giunti nel Rally Ronde C venole con una macchina presa a prestito dall’Autodelta. La 33 vince ancora fno al 1974 quando il portoghese Santos Peras è primo sul circuito di Carmoma con la 015 che ha acquistato da Ant nio Peixinho, già autore di cinque vittorie nel Campionato portoghese fra il 1971 e il 1973.

Si dice che i movimenti culturali dei primi anni del XX secolo abbiano in qualche modo condizionato anche il design delle automobili. Se questo fenomeno si è verifcato lo possiamo confermare facendo un confronto tra il nostro Futurismo e la contemporanea francese Art Déco, anche attraverso la carrozzeria e l’impostazione tecnica delle automobili nei due Paesi. Facendo però subito un distinguo, legato alle diverse condizioni economiche, decisamente più favorevoli alla Francia. Nei primi del Novecento in Francia l’automobile rappresenta una nuova opportunità in campo industriale. Alcuni gruppi importanti, come Peugeot, la inglobano nella produzione e tante altre realtà minori si cimentano nella costruzione di veicoli. La De Dion Bouton aveva iniziato la produzione in serie di motori, che molti artigiani acquistavano per equipaggiare i loro veicoli. Tra questi anche un giovane Louis Delage che nel 1905, dopo aver lavorato come capo della progettazione e delle prove tecniche in Peugeot, aveva deciso di mettersi in proprio e, al Salone dell’Automobile di Parigi dello stesso anno, presenta due autotelai dotati appunto di motori De Dion Bouton. Nel 1906 decide di partecipare alle competizioni, considerate un ottimo veicolo pubblicitario per i propri prodotti e contemporaneamente viene costruita una fabbrica a Levallois-Perret, a nord-ovest di Parigi. In questa nuova fabbrica viene studiato e realizzato un motore completamente nuovo. Nel 1908 la prima affermazione sportiva nel GP des Voiturettes di Dieppe, con un’automobile con motore monocilindrico costruito da Némorin Causan, precedendo i marchi più blasonati dell’epoca. “In seguito a questo successo del tutto inaspettato - ci racconta Patrick Delage - De Dion si offrì di fornire i motori a titolo gratuito alla Delage, promettendo anche una sponsorizzazione in caso di vittoria”. Inizia così un’entusiasmante avventura sportiva, che porta la Delage a vincere e, grazie all’ottima reputazione data dalle vittorie, ad incrementare la produzione, con l’ampliamento della fabbrica di Levallois. Dal punto di vista tecnico gli anni che vanno dal 1908 alla Prima guerra mondiale sono molto importanti e sono quelli che danno una connotazione precisa alla marca. La produzione si divide tra le vetturette da competizione e le eleganti vetture di rappresentanza carrozzate all’esterno della fabbrica da diversi stilisti. “Anche se i designer delle vetture erano diversi - spiega Patrick Delage - Louis Delage pretendeva che alcuni stilemi della marca ossero en efniti, come i ra iatore e i osi ionamento e ogo. n uesto mo o era ossi i e istinguere comun ue una Delage”.

Sono gli anni in cui si passa dalla dimensione artigianale a quella industriale con il nuovo stabilimento a Courbevoie nel 1912. Un esempio di industrializzazione tipica del periodo, con ampi spazi e la possibilità di lavorare contemporaneamente su diversi modelli, progettando e realizzando in proprio anche i propulsori. “La fabbrica di Courbevoie - precisa Patrick Delage - era molto moderna: luminosa, con spazi dedicati a tutte le fasi di lavorazione, dalla progettazione al collaudo. Occorre anche tenere presente che in quella sede convivevano la sezione sportiva e quella di normale produzione”. Il livello di qualità delle vetture prodotte è molto elevato e i modelli si collocano nella fascia medio-alta del mercato, grazie anche ai raffnati motori a 4 e 6 cilindri che equipaggiano sostanzialmente due tipologie di autotelai. L’esperienza delle corse, che richiede la ricerca di nuove soluzioni, viene trasferita sulla produzione di serie, come ci spiega il discendente di Louis Delage: “Nel 1911 viene progettato un motore che monta un albero motore scomponibile montato su supporti a sfere. In questo modo si evita il consumo dell’albero stesso”. Prima dello scoppio della guerra Delage ottiene buoni risultati nei GP ma, soprattutto, riesce a vincere a Indianapolis nel 1914 con René Thomas primo e Albert Guyot terzo, con le vetture equipaggiate con il motore 4 cilindri di 6234 cm .

Durante la Prima guerra mondiale la produzione della fabbrica di Courbevoie si concentra sul materiale bellico, come molte altre aziende metalmeccaniche.

I SUCCESSI DEL DOPOGUERRA

Terminato il con itto, Delage riprende l’attività, concentrata su due diversi floni: le competizioni e la produzione di vetture di lusso, affdando ai carrozzieri più in voga del periodo l’allestimento della carrozzeria di queste ultime. All’inizio ci sono delle diffcoltà legate ai pagamenti da parte dello Stato delle commesse di guerra, ma nel frattempo Louis Delage rafforza il suo staff tecnico e commerciale in previsione di una crescita economica che parte dagli Stati Uniti. Tra il 1919 e il 1920 la priorità è quella di produrre la “20 Chevaux”, modello di fascia medio-alta con telaio tipo CO e motore a 6 cilindri di 4522 cm , con una potenza di 70 CV, valvole laterali. Il catalogo prevede diverse versioni per la carrozzeria e commercialmente si rivela un grande successo. E nel 1921 propone anche un modello più economico, per coprire anche un altro segmento: la “11 Chevaux”, con motore 4 cilindri di 2116 cm e 32 CV di potenza e il telaio denominato DE. Un componente molto importante che Delage sviluppa è l’impianto frenante sulle 4 ruote con un sistema che permetteva di regolare la frenata in modo quasi automatico.

Nelle competizioni all’inizio si concentra sulle cronoscalate, dove le Delage si impongono con facilità. Viene poi progettato e realizzato un potente motore 12 cilindri di 10,7 litri di cilindrata, in grado di erogare una potenza di 280 CV a 3200 giri/minuto, che ottiene, il 16 marzo 1924, il primato europeo di velocità su strada a Ginevra: 203,500 m orari. Un primato che dura appena 5 giorni, ma le maggiori soddisfazioni in quel periodo arrivano dalle auto da Grand Prix, che lottano alla pari con le blasonate Alfa Romeo. Il regolamento prevedeva una cilindrata massima di 2 litri, ma i tecnici della Delage optarono per un sofsticatissimo motore 12 cilindri a V di 60°, con quattro alberi a camme in testa azionati da un complesso di ingranaggi. La rotazione su cuscinetti a rulli, posti tra gli alberi a camme e le bielle, dimostra un’elevata tecnologia motoristica, ma tanta innovazione viene vanifcata da un telaio piuttosto tradizionale, non in grado di competere con le più agile ed effcienti Alfa Romeo P2. Il motore sviluppava comunque una potenza di 120 CV a 6000 giri /minuto e la potenza venne leggermente incrementata con l’adozione della sovralimentazione mediante 2 compressori. “Alla sovralimentazione - spiega Patrick Delage avor ert or ma, uan o fna mente il motore risultò perfettamente a punto, cambiarono i regolamenti”. Così nel 1926 l’ingegnere francese si trova a dover costruire una nuova auto da competizione con motore di cilindrata massima di 1500 cm . Si opta per un 8 cilindri in linea, adottando comunque il sistema dei cuscinetti a sfera (circa 60) abbinati agli assi a camme, con una leggera sovralimentazione che consente comunque di raggiungere una potenza di 170 CV a 8000 giri. Una maggiore attenzione viene dedicata al telaio, decisamente più basso di quello precedente. Per abbassare al massimo il baricentro, il motore e l’albero di trasmissione sono disassati rispetto alla mezzeria del telaio. Nel 1927 le Delage da Grand Prix sono praticamente imbattibili e vincono il campionato Mondiale. Ma, subito dopo questo successo la squadra corse uffciale viene chiusa e le vetture vendute a team privati, che continuarono a farle vincere con Malcom Campbell, Dick Seaman e il principe Bira. Le Delage continuarono a corre e vincere anche negli anni Trenta, sempre guidate da piloti di scuderie private. LA GAMMA DI SERIE E LA CRISI DEL ‘29

Incoraggiato dalle vendite dei suoi modelli più prestigiosi, Delage presenta al Salone di Parigi del 1924 la sua ammiraglia, la GL (abbreviazione di Grand Luxe). Il mercato è in espansione e l’idea è quella di avviarne una produzione in serie piuttosto sostenuta. Il motore è un 6 cilindri in linea di 6000 cm , con albero a camme in testa. Ne vengono prodotti 200 esemplari: 180 in versione standard, con telaio lungo, e 20 in versione sport, con il passo più corto. Nel 1928 tutto sembra andare per il meglio. L’azienda si è dovuta ingrandire per il successo della serie delle DM, disponibili in diverse versioni. Nell’anno vengono prodotte 3600 vetture. Si studia anche un motore 8 cilindri in linea di 4060 cm , per equipaggiare l’autotelaio D8. Nel 1929 la gamma si compone delle D8, D6 e della più piccola 14 CV, tutte disponibili in diverse combinazioni di carrozzeria proposte dai vari carrozzieri del periodo. Le linee risultano piuttosto classiche e si punta sulla qualità e sul lusso. Alcune sono realizzate in un unico esemplare per clienti particolari. La crisi del ’29 colpisce anche l’Europa e, in particolare, le esportazioni verso gli Stati Uniti. Inoltre i primi anni Trenta sono un periodo di passaggio anche dal punto di vista stilistico e, soprattutto in Francia, le grandi industrie come Peugeot, Renault e Citroën riescono a produrre vetture complete in grande serie, ottimizzando i costi. In più sono dotate di grandi uffci di progettazione e di una rete di vendita nazionale internazionale che copre gran parte dei mercati. Per i costruttori di auto di prestigio - che in Francia sono molti - sono momenti diffcili e tra questi vi è anche Delage. Il crollo della produzione dovuto alla crisi lo costringe a cedere l’azienda a Delahaye nel 1935. “Incredibilmente le gamme dei due costruttori, seppur simili, coprivano fasce di mercato diverse - racconta Patrick Delage - e quindi vennero messe a punto sinergie economiche di produzione. Vista la bontà dei prodotti, Louis Delage venne nominato direttore della Delage, che mantenne il marchio rivoluzionando la gamma e rafforzando la collaborazione con i migliori carrozzieri francesi del periodo”.

I quali sono nel pieno del loro estro artistico ispirato all’Art Déco che si esprime con ampi parafanghi che coprono le ruote e linee tondeggianti. “Le Delage e le Delahaye vengono vestite da carrozzieri come Saoutchik, Figoni & Falaschi, Chapron, Retourneur & Marchand, Labourdette che portano l’eleganza ai massimi livelli, imponendosi anche nei concorsi di eleganza più prestigiosi”. Alcune biografe considerano l’ultima parte della vita di Louis Delage in povertà. “Questo non è vero - afferma Patrick Delage - il suo stipendio da direttore presso la Delahaye gli fruttava mensilmente l’equivalente del costo di una Citroën Traction Avant Cabriolet nuova. Durante gli anni di lavoro, continuò comunque a onorare i suoi debiti”. Il periodo di crisi economica modifc profondamente la sua personalità? e iti con anche e ornitori e a i fco t a agare g i sti en i ai suoi dipendenti lo fecero cadere in crisi profonda. Da sempre agnostico e incline a a e a vita g i attri uivano irt con e i e e attrici e erio o che faceva viaggiare sulle sue automobili) il mio bisnonno fece conoscenza con padre Pierre e trovò conforto nella religione. I fatti successivi gli consentirono una vita più che dignitosa. Lasciò la sua tenuta e il castello di Le Pecq alla moglie e divenne molto devoto, compiendo diversi pellegrinaggi in bicicletta e a piedi nei santuari di Notre Dame de Chartres, Sainte r se e our es, con ucen o una vita mo to sem ice fno a a morte . Che avvenne nel 1947, lo stesso anno della scomparsa di Ettore Bugatti. Dopo la Seconda guerra mondiale l’industria automobilistica ebbe molte diffcoltà a riprendersi soprattutto per la mancanza di materie prime. Il Governo francese elaborò un piano di ripresa che favoriva unicamente le grandi imprese Peugeot, Renault e Citroën. Delage e Delahaye proseguirono la produzione di auto di lusso, ma con scarsi successi commerciali. Le cause furono molteplici. “I carrozzieri francesi - analizza Patrick Delage - hanno dato il meglio nel periodo tra le due guerre, esaltando l’Art Déco. In Italia, invece, i grandi carrozzieri hanno espresso al meglio la loro arte nel dopoguerra, portando vere innovazioni nello stile delle fuoriserie che si sono poi riversate nella produzione di serie”. In Francia si è invece assistito a un progressivo declino dei marchi di lusso, anche se Delage è rimasto in vita fno al 1954 con la 3 Litre, carrozzata da diversi stilisti secondo canoni più moderni. “Una Delage si riconosceva sempre dallo stile e dalla discreta eleganza. Aveva comunque conservato anche in quegli anni le sue caratteristiche peculiari”.

RESTAURO O CONSERVAZIONE?

Dal 1974 Patric Delage si occupa di restauro e manutenzione prevalentemente di auto francesi di lusso nel suo atelier nella valle della Loira, a Veigné, nei pressi di Tours. Cosa prova quando incontra una Delage? “Noto soprattutto una grande qualità e uno spirito di buon gusto alla francese soprattutto nelle auto costruite tra le due guerre, un periodo nel quale la Francia ha fatto scuola anche in altri settori, come l’arte, la cultura, la moda”. Da dove viene la sua passione? “Da sempre mi piace studiare come sono nate le auto, i loro progetti, la loro costruzione”. A tal proposito nella sua offcina si possono ammirare molti strumenti dei carrozzieri. Tra questi anche gli imponenti macchinari per il modellamento dei parafanghi provenienti dalle offcine Chapron.

“Per quanto concerne la carrozzeria cerchiamo di restaurare seguendo le stesse procedure di un tempo. Abbiamo gli strumenti dei battilastra, costruiamo le sagome in legno sulle quali andiamo poi a modellare le varie parti della carrozzeria. Dubito che anche in futuro con il miglioramento della tecnologia sarà possibile agire in modo diverso”.

Ci sono flosofe diverse per l’approccio al restauro. C’è chi considera unicamente la conservazione, chi ricostruisce a volte con qualità e dettagli superiori all’originale. Qual è la sua opinione? “A titolo personale considero che una vettura conservata abbia il suo fascino, ma al contrario, penso sia un non senso nel caso di un’auto di gran classe: i proprietari di un tempo la volevano sempre al massimo delle condizioni di carrozzeria e selleria. Non tolleravano mediocrità e penso che anche oggi chi possiede una di questa auto desideri che essa sia nelle migliori condizioni possibili, con vernice della carrozzeria e selleria perfette”.

Corrono gli anni ’90, e gli adolescenti milanesi di quell’epoca meravigliosa - che ancora godono degli strascichi del boom economico della “Milano da bere” in un clima leggero che non è ancora stato stravolto dall’incubo di Tangentopoli - sono accomunati da una convinzione assoluta: non esiste nulla di più “fgo” che montare in sella a un Honda “G’-Dash”, noto al giovane pubblico con il nome di “GP”. Il fenomeno, in realtà, non è soltanto milanese e non riguarda soltanto il GP. Da Napoli a Torino, passando per Roma, Bologna e Genova, un adolescente di quegli anni non può desiderare nulla di più che scorrazzare per la città con uno dei famosi scooter di piccola cilindrata che la giapponese Honda Motor Company ha prodotto tra la fne degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90: piccoli capolavori di meccanica e di design destinati a divenire veri e propri status symbol per i giovani dell’epoca. Mentre i più modaioli si limitano a modifcare le colorazioni originali delle carene e ad aggiungere adesivi di vario tipo per personalizzare il proprio mezzo, gli appassionati di motori spendono ore (e patrimoni) per assicurarsi la componentistica necessaria a elaborare i loro “Dio” fno a renderli veri e propri “razzi da strada”. Non è chiaro il perché la Honda abbia scelto proprio il nome “Dio” per questa nuova serie di scooter, anche se la meccanica estremamente raffnata e la perfezione stilistica di questi motocicli qualche indizio ce lo forniscono, senza il rischio di essere blasfemi. È tuttora leggenda il GP del campione di motociclismo Luca Cadalora, “scooter bomba” allora in grado di raggiungere gli 82 km/h in poco meno di 100 metri, e di toccare i 116 km/h: performance semplicemente eccezionali per un “cinquantino”, tanto da meritare una copertina di Tuttomoto del 1995. Il desiderio di rendere il proprio Honda estremamente performante ha poi favorito l’apertura di alcune offcine specializzate che, negli anni, diventeranno altresì punti di ritrovo per molti giovani delle aree urbane. A Milano, per esempio, la mitica Scooterissimo di piazzale Martini non è semplicemente un’offcina specializzata in “Hondini”, ma un luogo di raduno per ragazzi e ragazze che, tra un carburatore da pulire, una centralina da modifcare e una biella da riparare, socializzano tra loro prima di rimontare in sella in cerca di nuove avventure cittadine. Scooterissimo è ormai chiusa da vent’anni, ma questa e altre offcine hanno senz’altro contribuito a scrivere la storia degli Honda “Dio” in Italia. Oggi, a distanza di trenta anni, il GP e gli Honda della serie “Dio” si sono trasformati in veri e propri oggetti di culto, che contano migliaia di appassionati e alcuni collezionisti sparsi in tutta Italia. (Tra le collezioni più signifcative quelle di chi scrive, Giovanni Lovisetti, e degli amici Alessandro Francia e Filippo Fadini, che hanno prestato alcuni dei loro scooter per il servizio fotografco che vedete in queste pagine). HONDA DIO SP E SR: L’ORIGINE DELLA SPECIE

Ma veniamo alla storia di questi piccoli grandi motocicli. Sul fnire degli anni ’80 la Honda Motor Company decide per prima di rivolgersi al pubblico dei giovani con una serie di scooter di piccola cilindrata (50 cm³) caratterizzati da un design innovativo particolarmente aggressivo e dal carattere marcatamente sportivo. Il 1988 è l’anno di lancio del primo scooter della serie, l’Honda “Dio” SP. Si tratta di uno scooter dalle dimensioni ridotte e dal peso contenuto, equipaggiato con un propulsore a 2 tempi raffreddato ad aria. Il blocco motore, siglato AF18E, con trasmissione a cinghia trapezoidale V-Matic, è in grado di erogare una potenza di 6,4 CV.

Il telaio bitrave in acciaio consente il posizionamento del serbatoio della benzina sotto la pedana, soluzione questa che permette altresì di realizzare un comodo e ampio vano sottosella in grado di ospitare un casco integrale. L’impianto frenante è caratterizzato sia anteriormente sia posteriormente da un sistema a tamburo. Dato il successo di questa prima serie, nel 1990 viene prodotta la seconda, il “Dio” SR. Pur apparendo praticamente identico all’SP, l’SR è in realtà leggermente più potente (6,8 CV). Adotta inoltre un freno a disco anteriore da 160 mm, una nuova marmitta e una diversa veste grafca della strumentazione. Come la versione precedente, monta una forcella anteriore a molla denominata VR-SUS, un portapacchi posteriore, un gruppo ottico anteriore di colore bianco e la centralina elettronica CDI a due spinotti. Gli Honda “Dio” SP ed SR verranno prodotti in circa 20 varianti cromatiche (molte delle quali non faranno mai ingresso in Europa), importati nel nostro Paese a partire dal 1990 dalla BSV Motor Trading S.r.l. di Crespellano (BO), che giocherà un ruolo fondamentale nella storia degli Honda “Dio” in Italia. Non solo infatti ne permette l’importazione, apportando alle versioni originali delle piccole modifche che garantiscono il pieno rispetto del Codice della Strada, ma modifca anche i nomi con cui tali scooter vengono identifcati nel linguaggio dei giovani: il “Dio” SP infatti, diventerà BSV SP. La BSV di Crespellano, inoltre, come si legge sui libretti di circolazione dell’epoca, risulta di fatto azienda produttrice. Stesso importante ruolo di importatore sarà giocato, per alcuni modelli successivi, dalla società francese HSC.

G’-DASH: IL MITO

Tra il primo ed il secondo modello della serie “Dio”, nel 1989, la Honda dà il via alla commercializzazione del G’-Dash. Il nome di questo piccolo gioiello evoca chiaramente il carattere grintoso e performante di uno scooter di nuova concezione, per alcuni versi estremo (per esempio è assente il vano sottosella), caratterizzato da dimensioni e peso ridottissimi e da un’accelerazione fulminea. La lettera “G” richiama infatti la grandezza utilizzata in fsica per indicare la accelerazione gravitazionale, mentre “dash”, in inglese, signifca “scatto”. La strategia commerciale della Honda non prevede l’esportazione del G’-Dash in Italia: nella sua confgurazione originale raggiunge infatti i 65 km/h, cioè ben 20 km/h oltre il limite di legge. Convinta tuttavia del successo commerciale che avrebbe potuto avere, la BSV ne im-

porta parallelamente dal Giappone circa 3.500 esemplari (nelle sole colorazioni nero e rosso) che vengono immessi sul mercato italiano con nuovi documenti riportanti un numero di telaio a 4 cifre e l’omologazione “OL 92020” (corrispondente a quella di alcuni mezzi agricoli) e con il nuovo nome di BSV GP. Il prezzo del GP è proibitivo per un giovane di allora: 2.800.000 lire; un GP oggi ha raggiunto valori di mercato che sono di gran lunga superiori rispetto a ogni altro motorino della stessa cilindrata e della stessa epoca. Resta infatti tra i mezzi più desiderati dai collezionisti, che fanno a gara per garantirsi i pochi esemplari rimasti in circolazione. Nonostante il grande successo del G’-Dash - dato dalla capacità unica del mezzo di combinare comodità e agilità negli spostamenti urbani con un grado di divertimento simile a quello riservato a piloti di moto di cilindrata maggiore - dopo appena un anno dalla sua commercializzazione la Honda decide di cessarne la produzione per concentrarsi sulla produzione di nuovi modelli, comunque dal carattere sportivo.

ARRIVA LA FRANCESE HSC

Il 1991 è l’anno del nuovo Honda “Dio” SR, prodotto nelle due versioni con freno anteriore a tamburo o a disco. I motori delle prime versioni sono identici a quelli del modello precedente, mentre successivamente ne viene adottata una versione rivista con albero motore, pulegge e cinghia più grandi. In questo caso è l’azienda francese HSC a occuparsi dell’importazione in Italia. Anche la HSC cambia il nome originale dello scooter che, da Honda “Dio” SR, diventa HSC Sc01. A differenza delle versioni che la stessa Honda inizia più tardi a far sbarcare direttamente, quelle importate dalla HSC montano un faro anteriore di colore giallo. Il 1992 è l’anno di lancio sul mercato dello scooter della serie “Dio” che ha riscosso il maggiore successo di sempre in termini di apprezzamento da parte del giovane pubblico: il “Dio” ZX. Disponibile solo nella versione con freno anteriore a disco, si distingue visivamente dall’ultimo SR poiché, invece del portapacchi posteriore, monta un alettone con stop integrato. Anche in questo caso è la francese HSC a occuparsi dell’importazione, e anche in questo caso ne cambia il nome, questa volta semplicemente aggiungendo la dicitura HSC davanti alla sigla ZX (HSC ZX). Il motore a 2 tempi raffreddato ad aria siglato AF18E è il medesimo di quello montato sulle versioni precedenti, seppur con dimensioni leggermente più generose. Nel 1994 si ha una piccola ma signifcativa rivoluzione in gamma “Dio”. Il modello prodotto a partire da quell’anno, infatti, presenta un telaio e un propulsore del tutto nuovi. Il blocco motore, siglato AF34E, monta per la prima volta il cilindro in posizione orizzontale, con un nuovo attacco al telaio, più alto rispetto a prima. Ciò permette l’abbassamento del baricentro dello scooter e offre un vano sottosella di capacità maggiore. Le forcelle a molla VR-SUS, usate sui modelli precedenti, vengono sostituite con forcelle idrauliche Showa HD-SUS. È inoltre inserita sotto la sella una levetta azionabile per bloccare il cavalletto così da permetterne il parcheggio su strade in pendenza e disincenti-

vare i tentativi di furto (purtroppo assai frequenti). Dal punto di vista estetico presenta una carena anteriore più futuristica e una coda allungata e sfuggente dal caratteristico alettone con stop incorporato. Lo ZX, riproposto in nuove versioni di scarso successo fno al 2009, è il modello con cui la Honda ha chiuso l’epoca gloriosa dei “Dio” 50 cm³.

SH FIFTY: MAESTRO DI ELEGANZA PER RAGAZZE ALLA MODA

Se i ciclomotori elencati sopra spopolano tra i ragazzi, le ragazze degli anni ‘90, che non sono alla ricerca di esperienze di guida adrenaliniche, prediligono scooter meno performanti, dalla linea rassicurante, magari “a ruota grande” (16 pollici), tale da garantire maggiore stabilità. È ancora Honda, con uno scooter 50 cm³, a dominare il mercato milanese e romano con un modello che sarebbe divenuto un’icona fra le ragazze di quegli anni: il SH Fifty (da non confondere con l’omonimo modello prodotto dall’italiana Malaguti a partire dal 1974, quello tutt’altro che adatto alle ragazze…). Nome che, forse proprio per la sua diffusione tra il pubblico femminile, viene comunemente storpiato in Honda “She Fifty”. Prodotto a partire dal 1984, l’Honda SH Fifty non presenta alcuna delle caratteristiche corsaiole dei “Dio”, rispetto ai quali rappresenta un opposto, e le adolescenti sono ben felici di distinguersi dai maschietti accompagnandosi con scooter così diversi dai loro. La linea squadrata ma elegante dell’SH, il motore a due tempi silenzioso e dai consumi contenuti, i cerchi a raggi con freni a tamburo e i caratteristici indicatori di direzione anteriori e posteriori sporgenti rispetto alle carene, rendono ancora oggi l’SH Fifty uno scooter dal fascino tutto particolare.

EZ-9: UNA LEGGENDA CHIAMATA “CUB”

Non è infne possibile chiudere la rassegna degli scooter della Honda che hanno scritto la storia degli anni ’90 nelle principali città italiane senza menzionare il leggendario “Cub”, uno scooter che, in ogni caso, stimola sensazioni forti: per i tantissimi ragazzi che non ne posseggono uno, infatti, vedere in marcia un Cub desta la stessa sorpresa, ammirazione e riverenza che potrebbe destare in un esploratore l’avvistamento improvviso di una rara tigre bianca; mentre per i pochissimi che riescono ad accaparrarsene un esemplare, è forse più motivo di perenne preoccupazione che di gioia, posto che ha rappresentato l’oggetto del desiderio dei ladri di motorini per eccellenza: all’epoca, lasciare un Cub parcheggiato in strada a Milano o a Roma senza controllarlo a vista, anche solo per poco tempo, signifcava - certamente - farselo rubare. Presentato per la prima volta al Salone di Tokyo del 1990 nella tipica colorazione bianco, blu e rosso, viene prodotto e commercializzato dalla Honda tra il 1991 e il 1996. Questo scooter è tutt’altro che un best seller nelle città italiane: circostanza questa che anziché decretare il fallimento del progetto, senza dubbio contribuisce ad accrescerne l’aura leggendaria. L’Honda Cub (all’anagrafe giapponese EZ-9, acronimo di “Easy-Nine”), è un mix perfettamente riuscito tra una moto da cross e uno scooter. Immaginato dalla Honda come mezzo dalla guida facile per il divertimento di tutta la famiglia, grandi e piccini, sulle strade sterrate delle campagne e dei boschi, diviene presto anche un tipico mezzo da paddock per i piloti professionisti.

Viene importato in Italia dalla HSC (che ne modifca il nome in EZ-5 CUB), la quale però questa volta non si limita a modifche marginali per renderne legale l’utilizzo su strada: il motore monocilindrico a due tempi ha infatti una cilindrata ben al di sopra del limite di legge (89,7 cm³). Si rende perciò necessario sottoporre il mezzo ad un “trattamento” che, da un lato, riduce la cilindrata entro tale limite, dall’altro lato eleva il prezzo di vendita a livelli diffcilmente approcciabili (7.500.000 lire!). Il Cub presenta una lista di caratteristiche semplicemente uniche. Oltre a una linea futuristica e “funky” - e alla natura ibrida scooter/moto da cross, a un motore centrale fsso, a una combinazione di forcella telescopica anteriore e braccio oscillante posteriore, a una marmitta con scarico alto posto sotto la sella per permettere al mezzo di solcare terreni anche con acque relativamente profonde senza otturarlo - la Honda supera ogni limite immaginabile di tecnica e di fantasia, rendendo addirittura possibile la conversione del Cub in una motoslitta!!! Nel 1991 viene infatti presentato un kit comprendente uno sci da montare al posto della ruota anteriore e un cingolo da utilizzare al posto di quella posteriore (ci risulta che siano state prodotte in totale solo 300 unità del kit da neve). Tecnica, creatività, prestazioni e stile unici... crediamo che gli scooter Honda degli anni ’90, oltre all’apprezzamento dei numerosissimi appassionati e nostalgici, si meritino a pieno titolo un posto di primo piano nella storia delle due ruote!

LA DOLCE VITA DEL TRIDENTE

Alla fne della stagione sportiva del 1957, con in tasca due titoli iridati (Campionato del Mondo di F1 con Fangio - alla sua 5 volta - su 250 F e Campionato Europeo della Montagna con illy Daetwyler su 200 Si) e una medaglia d’argento (Mondiale Sport con la 450 S di Behra-Fangio) ma considerati anche i problemi fnanziari del proprio gruppo industriale, Omer Orsi sarà chiamato a scegliere: continuare con l’impegno nelle competizioni, o, forti di tali affermazioni sportive, accantonare per un po’ le corse e “buttarsi” sulle auto stradali, magari delle eleganti GT, “alternative” a quelle prodotte dal suo concittadino Enzo Ferrari. Opterà per quest’ultima strada, consegnando nelle mani di scuderie esterne e gentleman driver i modelli da gara e riadattando lo stabilimento Maserati di viale Ciro Menotti, Modena, per accogliere desideri, vizi e capricci di clienti facoltosi e divi del et set da applicare alle proprie vetture di prestigio. Questa manovra vuol anche dire convertire la produzione da una modalità ancora quasi del tutto artigianale, come quella che sforna le stradali A6, risalenti al 1946 e quindi in aria di sostituzione, in una realtà industriale (peraltro utile a superare la situazione di amministrazione controllata all’epoca vigente) in grado sì, di mantenere quella cura del dettaglio e quell’attenzione verso il cliente che sono sempre state caratteristiche peculiari del Tridente - anzi, dove possibile ottimizzandole - ma anche far registrare numeri di produzioni ben più importanti che in passato.

LO SVILUPPO DELLA 3500 GT

Il primo risultato di questa nuova flosofa costruttiva sarà la “saga 3500 GT/GTI”, con tutte le sue varianti e modifche che si sarebbero succedute fno al 1964 (senza tener conto delle derivate Sebring e Mistral, che avrebbero calcato il mercato fno al 1970).

PIÙ DELLA COUPÉ DI TOURING, È STATA LA SPYDER DI VIGNALE A FARE DELLA 3500 GT/GTI UNA DELLE VETTURE SIMBOLO DEL BOOM ECONOMICO PER POTENZA, FASCINO E PRESTIGIO. COME LA SORELLA CHIUSA, HA CONTRIBUITO A FAR AFFERMARE MASERATI NELL’OLIMPO DEI COSTRUTTORI DI VETTURE ESCLUSIVE E PER PALATI FINI.

di Luca Marconetti

Padre di quella che sarà ricordata come la massima espressione Maserati della vettura sportiva ma elegante, potente ma innovativa, veloce ma affdabile, è l’ingegner Giulio Alferi che, partendo dalla Sport Biposto 350 S del 1956, realizza il prototipo Tipo AM 101, opportunamente addomesticato per l’utilizzo su strada: motore “6 in linea” di 3,5 litri, passo di 2600 mm e telaio in struttura di tubi d’acciaio a sezioni ovale, quadrata e cilindrica sulla quale applicare i pannelli della carrozzeria. A lavorare sull’autotelaio, Orsi mette in competizione due fra gli stilisti più in voga all’epoca, Allemano e Touring, entrambi chiamati a esporre la propria proposta al Salone di Ginevra del 1957, quando apparirà per la prima volta la denominazione uffciale 3500 GT. Alla fne si propenderà per il modello declinato dal carrozziere milanese e, a partire dal 1958, anno di reale messa in produzione, si rivelerà un successo (ne abbiamo parlato nel numero di aprile 2021 de La Manovella).

ALLA GT SI AGGIUNGE LA GT SPYDER: ARRIVA LA MASERATI DELLA “DOLCE VITA”

Nonostante la vettura venga prodotta in (piccola) serie presso gli stabilimenti Touring di viale Ludovico da Breme a Milano, Maserati fornirà alcuni telai a carrozzieri che li chiedono per realizzarvi versioni scoperte, inizialmente non previste nei piani di viale Ciro Menotti. Vi si cimentano Frua, Moretti, Touring stessa, con risultati apprezzabili, tanto che, considerato anche l’inaspettato e più che ottimo successo, Orsi deciderà di produrre un lotto di vetture spider in serie ma con una carrozzeria inedita. Come ci racconta Alfredo anellato Vignale nel suo libro “Vignale. Ferrari and all the others” (Società Editrice Il Cammello, Torino, 2015) Renzo Bordese, concessionario Maserati e amico sia di Orsi sia di Alfredo Vignale, viene a sapere dell’intenzione sopracitata e propone quindi a Vignale di farsi avanti. Al carrozziere piemontese l’idea piace e, intanto Bordese è riuscito a portare in visita agli stabilimenti di via Cigliano a Torino il Commendator Adolfo Orsi e l’ingegner Alferi: è suffciente una breve trattativa per affdare la commessa a Vignale. Questo metterà immediatamente all’opera il fdo Giovanni Michelotti che, dopo qualche schizzo, arriverà alla linea defnitiva, subito trasferita sul mascherone di legno 1:1 e, in una vettura fnita, che verrà presentata

al Salone di Parigi del 1959. Il modello, che presenta una linea piuttosto conservativa della variante chiusa di Touring, presenta in realtà alcune soluzioni particolari come gli angoli del frontale molto incassati, la presa d’aria laterale piazzata in alto e i passaruota sfuggenti verso la parte posteriore. Il prototipo verrà proposto anche al successivo Salone di Torino ma, prima della messa in produzione, verranno realizzati alcuni prototipi di pre serie, per lo più per approntare ulteriori modifche volte a far assomigliare la 3500 GT Spyder di più alla GT Touring e che porteranno all’eliminazione degli stilemi che abbiamo esposto sopra operazione che, effettivamente, avrà il risultato di alleggerire, rendere più omogenea ed elegante la linea: i passaruota sono stondati come quelli della Touring il frontale è lo stesso, senza i vistosi rostri al paraurti e con la parte inferiore più morbida per ospitare i proiettori secondari le prese d’aria laterali non sono più in alto a forma di freccia ma alla base del parafango, con proflo quadrangolare, simili a quelle della GT Touring ma più piccole e incassate, impreziosite da una scalfttura che arriva a lambire metà della portiera. Ma sarebbe un grave errore considerare la GT Spyder Vignale una 3500 GT Touring senza tetto. Le modifche, infatti, sono moltissime, tanto da farne, alla fne, due macchine diverse, a partire da un dato fondamentale: la GT Spyder nasce su un inedito pianale con passo accorciato di 100 mm, dai 2600 della GT a 2500, per rispondere a quel principio che le vetture scoperte, risultino più attraenti se compatte e raccolte attorno all’abitacolo, piuttosto che affusolate e rastremate come le corrispettive versioni chiuse. La GT Touring, essendo realizzata col brevetto “Superleggera”, è totalmente in alluminio, mentre per la Spyder Vignale si opta per una struttura in lamiera d’acciaio con sole porte e cofani in lega. Totalmente rivisto è poi il disegno della fancata a partire dal parabrezza, più inclinato, e soprattutto in prossimità del parafango posteriore, incentivato dal taglio digressivo della linea di cintura e dalla muscolatura del proflo superiore. La coda, pur presentando le ampie pinne laterali con i proiettori all’estremità, questi ultimi hanno un disegno dedicato, con uno scalino a metà del proflo.

Di serie ci sono le ruote in lega a disco Borrani da 16” (con gomme 185/400-16) ma molti, come anche nell’esemplare del nostro servizio, opteranno per i più eleganti cerchi a raggi, sempre della Borrani, esattamente il contrario della Touring, scelta per lo più con le ruote a disco. Fra gli accessori troviamo l’hard top (punzonato con lo stesso numero di telaio della vettura alla quale vengono abbinati), quasi sempre in tinta, che, una volta montato, la trasforma in una temibile concorrente della berlinetta realizzata da Touring a tetto fsso. Diversi anche gli interni, qui più sobri, quasi francescani rispetto alla plancia della GT Touring caratterizzata dal bizzarro proflo a palpebra che si arrotola su s stesso fno a diventare una maniglia per il passeggero: su un pannello in colore carrozzeria, troviamo la classica strumentazione a due elementi grandi più 5 supplementari inscritti in un ovale rovesciato con fondo verniciato nero opaco antiri esso, e i comandi secondari collocati in basso, tutto sovrastato da un proflo in vinile nero. Nuovi sono anche i pannelli porta, mentre il tunnel centrale è rivestito in pelle come i sedili e non in moquette come sulla GT. Anche qui troviamo di serie gli alzacristalli elettrici (la 3500 GT è stata la prima vettura italiana a prevedere tale accessorio). Tolta la correzione di passo, la meccanica è la medesima della GT Touring: motore anteriore longitudinale 6 cilindri in linea di 3485,27 cm “corsa lunga” (alesaggio e corsa 86x100 mm), basamento e testa entrambi in alluminio, camicie dei cilindri in ghisa, distribuzione a due alberi a camme in testa, 2 valvole per cilindro e tripla catena dentata, camere di combustione emisferiche, alimentazione a tre carburatori doppio corpo eber 42 DCOE, accensione a doppia candela per cilindro con spinterogeno Magneti Marelli “2 in 1” e due ruttori in cassa unica. La potenza è di 220 CV a 5500 giri/min, la velocità massima di 220 m/h. La sospensione anteriore è a ruote indipendenti con quadrilateri deformabili, la posteriore a ponte rigido con balestre Semicantilever e bracci longitudinali. Mantenuta la flosofa tipica della Maserati dell’epoca che, se non si è in grado di realizzare componenti affdabili e robuste, si ci rivolge a fornitori esterni più preparati. E allora ecco

IL MASERATI CLUB ITALIA

Il Maserati Club Italia è l’unico sodalizio italiano uffcialmente riconosciuto dalla casa madre Maserati s.p.a., presso cui ha sede, al civico 322 di Viale Ciro Menotti a Modena. Il club è federato all’ASI. Presidente Onorario è Ermanno Cozza, la memoria storica della Casa del Tridente, subentrato alla mitica Maria Teresa De Filippis, che ha presieduto il sodalizio nei primi cinque anni di attività. Il Maserati Club Italia riunisce possessori di vetture Maserati e Osca di qualunque epoca e modello, dalle barchette sport del passato alle gran turismo degli anni ’60 e ’70, dalle Biturbo e derivate degli anni ’80 e ’90, alle oungtimer di inizio millennio, fno ai modelli attuali. Ogni anno il club organizza raduni in tutta Italia, di cui uno dedicato espressamente alla storia del marchio (nel 2022 avrà come tema le Biturbo). Nonch le edizioni italiane del Maserati International Rally, ritrovo dei Maserati Club europei. Il club stampa una rivista annuale e possiede al suo interno un Registro Storico, in cui è possibile registrare la propria Maserati di almeno vent’anni di età. Per informazioni: www.maseraticlubitalia.it

differenziale Salisbury, gruppo frizione Borg Bec , freni Girling, cambio e sterzo F, strumentazione aeger.

3500 GTI SPYDER: L’INIEZIONE ANCHE PER LA SCOPERTA

La produzione della GT Spyder inizierà nel 1960 ma, già nel 1962, come per la GT Touring, ecco arrivare la possibilità di montare l’iniezione meccanica indiretta con pompa Lucas, che permette un incremento della potenza a 235 CV a 5800 giri/min: è un “pallino” di Alferi, ma i pochi esemplari dotati di questa alimentazione avranno problemi di affdabilità e messa a punto, tant’è che l’ambiente collezionistico ha sempre preferito le versioni a carburatore di entrambe le 3500. Tale soluzione non sostituisce la versione a carburatori che, anzi, nel 1960, adotta nuove unità eber 42 DCOE2 e pistoni Borgo di inedito disegno. Se per le 3500 GT Touring si differenziavano dalle 3500 GTI per alcuni particolari di carrozzeria, le GT e le GTI Spyder Vignale sono assolutamente identiche (se non per i fregi recanti la “i.” in aggiunta alla denominazione). Fra le novità che interesseranno la produzione delle 3500 GT/GTI chiuse o aperte, l’introduzione del cambio a 5 marce (sono pochissime le Spyder con cambio a 4 marce) e, a fne produzione, i quattro freno a disco (mentre, essendo prodotta dopo il ’59, nessuna Spyder monterà mai i 4 freni a tamburo peculiarità delle vetture chiuse del primo lotto di produzione antecedenti la primavera del ’59). Saranno 242 in totale le 3500 GT/GTI Spyder Vignale prodotte, un numero limitato, ma suffciente a far apprezzare agli Orsi talmente il lavoro della coppia Michelotti-Vignale, che commissioneranno loro la produzione della Sebring, coup col pianale accorciato della Spyder e che, in un certo senso, avrebbe sostituito la 3500 coup originaria e interromperanno la collaborazione con Touring. Nonostante ci fossero grandi aspettative verso il mercato USA, solitamente molto ricettivo nei confronti delle scoperte, la maggior parte delle Spyder Vignale (era decisamente più costosa della coup : 4 milioni 950 mila lire contro 4 milioni e 800 mila lire) è stata consegnata in Italia: sintomo del benessere generato dal boom economico e dalla voglia di esprimere, attraverso un’automobile elegante, potente e distintiva come questa, lo status symbol dell’individuo realizzato e protagonista della “Dolce Vita” che tanto ha reso l’Italia celebre e amata nel mondo. Fra i proprietari famosi Little Tony, con la quale, durante un Cantagiro - mentre insieme a un amico insegue un autobus zeppo di ragazze - fnisce in una scarpata, per fortuna senza conseguenze alle persone, i principi Aga han, Hassan II di Marocco e Ranieri di Monaco. La 3500 GT/GTI Spyder Vignale è sempre stata una delle Maserati stradali più ambite dai collezionisti, vuoi per il tipo di carrozzeria, vuoi per i pochi esemplari prodotti fatto sta che negli anni ’80, alcune sono passate di mano a prezzi più alti di quelli di una Miura. Consultando poi gli archivi Maserati, scopriamo che, in proporzione agli esemplari prodotti, le Spyder Vignale ancora esistenti sono moltissime, a dimostrazione dell’interesse che ha sempre suscitato.