Artribune 77

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Maternità e lavoro nel settore artistico sono conciliabili?

La violenza maschile contro le donne è un problema di cultura +

Biennale di Venezia: intervista ad Adriano Pedrosa

N. 77 L MARZO –APRILE 2024 L ANNO XIV
centro/00826/06.2015 18.06.2015 ISSN 2280-8817
+

della Repubblica

Marino

20 Aprile 24 Novembre 2024
IL SUPPORTO
ARTISTA
Padiglione
di San
FB: @biennaleveneziasanmarino IG: @biennalevenezia_sanmarino LA FUCINA DEL FUTURO CALLE SAN LORENZO 5063B (CASTELLO), VENEZIA
SEDE ESPOSITIVA ORGANIZZATO DA CON
DI
EDDIE MARTINEZ
FR Istituto d’Arte Contemporanea S.p.A Via 3 Settembre, 89 47891 Dogana (RSM) info@biennaleveneziasanmarino.com www.biennaleveneziasanmarino.com
Eddie Martinez, Borderlord, 2024. Olio, acrilico e pittura spray su lino, 152.4 x 182.9 cm. Foto JSP Art Photography. Courtesy the Artist
A CURA DI ALISON M. GINGERAS
Eddie Martinez, 2024. Foto Jason Schmidt
SELF-PORTRAIT AS A COFFEE-POT
cura di Carolyn
Arsenale
for Politics of Representation, Venezia
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17.04-24.11.2024 A
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TOMOKO SAUVAGE TALK

WITH NATURE ON RUINART.COM
12 - 14
APRIL
PLEASE DRINK RESPONSIBLY
MIART, MILAN

Alex Urso Montalto delle Marche: il borgo di papa Sisto V si trasforma con la cultura

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Alberto Villa

Decolonizzare il passato, il presente e il futuro. Intervista ad Adriano Pedrosa

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Alberto Villa (a cura di) Cosa non perdere a Venezia

STORIES

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Desirée Maida

VIOLENZA MASCHILE

CONTRO LE DONNE

LA PIAGA CULTURALE

DA COMBATTERE CON LA CULTURA (E CON L’ARTE)

La violenza maschile contro le donne è il gravoso risultato di un sistema di pensiero ben radicato. Analizziamo il tema dal punto di vista dell’arte ma in modo trasversale, attraverso casi studio e pratiche artistiche attuali

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Livia Montagnoli

I RISTORANTI PIÙ VISIONARI

D’ITALIA AL CONFINE TRA GASTRONOMIA E ARTE

Quando si parla di buon gusto, arte e cibo fanno da protagonisti. Un viaggio in Italia alla ricerca di quei ristoranti visionari che, tra creatività e buona cucina, creano sinergie ed esperienze uniche per il palato e per gli occhi

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Santa Nastro

MATERNITÀ E LAVORO: UNA

SFIDA ANCHE NELL’ARTE

Purtroppo, quella tra maternità e carriera è ancora una scelta. Questo è vero soprattutto nel precario mondo dell’arte, che tanto si professa inclusivo e “di sinistra” ma che sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici è molto indietro

OPENING 12 Luca Garofalo e Flavia Rossi Giro d'Italia: Ascoli Piceno 20 Saverio Verini Studio Visit: Luca Ferrero NEWS 24 IED – Istituto Europeo di Design La copertina "Chi è veramente Straniero?" di Caterina Frattin 28 Dario Moalli (a cura di) Libri 30 Marta Atzeni Archunter 34 Caterina Angelucci (a cura di) Osservatorio curatori: La curatela non può essere neutrale 42 Valentina Tanni (a cura di) Window 44 Alessia Caliendo Avanguardia e mecenatismo. Lo CHANEL Culture Fund celebra il talento di Julien Creuzet alla Biennale di Venezia 46 Elisabetta Roncati Queerspectives + Necrology 47 Claudia Giraud Art Music 48 Ferruccio Giromini Opera Sexy 50 Cristina Masturzo (a cura di) Mercato artribunetv MARZO L APRILE 2024 www.artribune.com ENDING 122 Enrico Pinto Short novel: Volver a Barcelona 126 Massimiliano Tonelli Il nuovo Codice della Strada sarà un disastro per i centri storici, il loro patrimonio e il turismo culturale 127 Anna Detheridge Dimmi come vedi il mondo e ti dirò chi sei 128 Marcello Faletra Dialettica del silenzio 129 Angela Vettese La Biennale multicellulare, una ricchezza di cui si è dubitato 130 Fabrizio Federici Statue di Roma, vecchie e nuove 131 Christian Caliandro Il cambiamento difficile GRANDI MOSTRE #39 92 Alberto Villa Fantasmagorie dell’alterità. Pierre Huyghe a Venezia 96 Nicola Davide Angerame Guercino, il mestiere del pittore. La mostra a Torino 98 Emma Sedini Una vita di colore. Franco Fontana protagonista del Brescia Photo Festival 102 Nicola Davide Angerame Anselm Kiefer. L’arte alchemica di un angelo caduto è in mostra a Firenze 104 Livia Montagnoli Donna in scena. A Treviso il nuovo secolo tra mondanità, erotismo ed emancipazione 106 Giulia Giaume L’incanto del vero. A Modena la storia dell’alimentazione nei secoli 110 Caterina Angelucci KOSMOS. La storia della conoscenza è al Castello di Miramare 112 Stefano Castelli De Nittis italiano, parigino e londinese. A Milano la modernità “incarnata” 114 Fausto Politino Willem de Kooning e l’Italia:
mostra
Venezia
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Marta Santacatterina Come nasce una grande mostra. Un mega allestimento per scoprire le origini di Aosta
Grandi Mostre in Italia in queste settimane 52
#77 artribune

GIRO D'ITALIA: ASCOLI PICENO

a cura di EMILIA GIORGI

LUCA GALOFARO architetto e professore associato

UNICAM - Scuola di Architettura e Design, Ascoli Piceno [testo]

FLAVIA ROSSI [foto]

Si può descrivere una città guardandola dall’interno? Costruendo quindi un’altra immagine mentale dei luoghi vissuti nel quotidiano. Ad Ascoli Piceno è possibile perché è una città di stanze, dove il dentro e il fuori quasi si confondono. Scrive

Hans Belting: “Si sa che tutti noi abbiamo o possediamo delle immagini, che vivono nei nostri corpi o nei nostri sogni e che aspettano di essere richiamate dai nostri corpi per mostrarsi. […] I corpi (ossia i cervelli) fungono da medium vivente che ci permette di percepire, proiettare o ricordare immagini e che permette anche alla nostra immaginazione di censurarle o trasformarle come noi viviamo nei nostri corpi”.

Ma che cos’è l’immagine mentale di una città se non la sensazione che proviamo quando la attraversiamo? L’immagine così creata determina la neutralità e la cancellazione del mondo, vuole che tutto rientri nel fondo indifferente in cui niente si afferma, tende all’intimità di ciò che sussiste ancora nel vuoto: è proprio questa la sua verità.

Flavia Rossi, Ascoli Piceno, 2021-2024, Courtesy l’autrice

Ad Ascoli l’immagine mi parla, e sembra che mi parli di ciò che è rimasto dentro di me la prima volta che l’ho visitata, o meglio quando ho avuto la prima esperienza fisica di quei luoghi e quegli spazi. Questa esperienza è ciò che resta e che ci parla, a proposito di ogni cosa, di noi. Nel suo libro Interni o esterni, Andrea Branzi rilegge la propria ricerca attraverso continue rifondazioni di significato, e quindi di forma, dell’architettura.

Il suo pensiero istruisce costantemente nuove pratiche conoscitive secondo una teoria della conoscenza nella quale l’immagine è sempre uno strumento cognitivo, che indaga il proprio compito e la propria origine, ma all’interno di un paradosso: l’assenza del corpo solido dell’architettura. Branzi immagina una storia dell’architettura raccontata attraverso la storia degli interni, un’esperienza diversa del mondo che forse si avvicina di

più alla nostra percezione dei luoghi. Ed è proprio questo paradosso che è contenuto nelle immagini di questa città in cui si cancellano i limiti fisici tra interno ed esterno. Ad Ascoli trionfa la continuità spaziale e l’architettura perde il suo valore oggettuale. Si sostituisce quindi, all’architettura della città, l’immagine degli interni che la rappresentano.

Questo nuovo pensiero sull’urbano genera discontinuità per risiedere in un mondo più aperto, inclusivo, agile, dinamico, sovrapposto, creativamente orientato.

Ora, guardando le immagini depositate nella mia memoria, mi chiedo come sia possibile esplorare uno spazio senza un corpo, senza il corpo dell’architettura come contenitore assoluto e assolvente.

Lo spazio interno all’universo urbano è sempre stato interpretato come testimonianza di fenomeni che interessano una parte della sociologia urbana e non un’area centrale della cultura del progetto. Esiste una difficoltà oggettiva nel ricostruire le vicende storiche di questa attività che si pone sul limite estremo tra progetto e non progetto; infatti nel mondo “non esistono due abitazioni uguali” perché ciascuna di loro costituisce un fenomeno autonomo, il teatro di una memoria o di una vicenda individuale rappresentata da tutte le immagini di città che ognuno di noi produce a getto continuo perché ogni individuo stabilisce un legame profondo con la realtà urbana, attraverso relazioni affettive e simboliche, che danno luogo a un imprinting profondo nel suo subconscio. L’interno è quindi una sorta di scatola diagnostica, un laboratorio psicoanalitico che ogni soggetto elabora in maniera originale.

L’immagine più forte della città di Ascoli è rappresentata dalle soglie, o meglio, dal limite tra interno ed esterno. Come quella del tempio di S. Emidio alle Grotte, esempio del periodo barocco di Giuseppe Giosafatti, che sorge sui resti dell’antico cimitero romano, con la facciata completamente addossata alla roccia tufacea, un avancorpo ellittico coronato da una cupola e sorretto da otto colonne. O ancora nella griglia della facciata romanica della Chiesa San Vincenzo e Anastasio divisa in 64 riquadri, su cui erano affrescati personaggi ed episodi tratti dal Vecchio e del Nuovo Testamento. È racchiusa nell’interno del suo caffè più antico, le cui decorazioni liberty sono una proiezione del paesaggio naturale che l’avvolge. È una caratteristica delle sue piazze chiuse nel corpo stesso di una città edificio.

A MONUMENTAL EXHIBITION BEARING WITNESS TO A CHANGING PLANET

‘THERE WILL BE NO MORE BEAUTIFUL, AND NO MORE IMPORTANT ART SHOW […] IN EUROPE THIS YEAR’ SIR SIMON SCHAMA, COLUMBIA UNIVERSITY 21.06.24

> 12.01.25
- MUSEO DEL ’900 VENEZIA MESTRE M9 is a project by Under the patronage of Thanks to In collaboration with
M9

STUDIO VISIT LUCA FERRERO

Ci sono opere che costringono a uno sforzo per mettere a fuoco ciò che si ha di fronte agli occhi. È il caso di Birdwatching di Luca Ferrero. Aguzzando la vista, quel groviglio nero su sfondo trasparente, apparentemente indistinto, inizia a prendere forma: i contorni rivelano le silhouette di ali d’uccello sovrapposte e mescolate, quasi i pennuti si fossero infranti contro quella superficie, simile a una barriera antirumore come se ne trovano lungo le tangenziali. Quei volatili, spiaccicati eppure elegantissimi, mi pare dicano molto sulla poetica di Ferrero. Le sue opere possono suscitare insieme attrazione e repulsione; il carattere residuale dei soggetti è mitigato da un’innata compostezza; la ripetizione, la stratificazione e l’accumulazione che si trovano in diversi lavori non prendono mai il sopravvento su un senso della composizione a tratti chirurgico. Tra questi opposti fa capolino un’ironia sottile e paradossale, attraverso la quale l’artista commenta alcune ossessioni della contemporaneità, per esempio il desiderio di lasciare un segno, a cui si contrappone l’inesorabile transitorietà delle cose, la loro consunzione. Ferrero sembra ricordarcelo quasi in ogni opera; ma per farlo, cerca sempre di adottare nuove forme, nuove strategie.

Le tue opere manifestano un’attrazione irresistibile per tutto ciò che è scarto e residuo, talvolta ai limiti del repellente, come nel caso della serie Birdwatching. Da dove arriva questo richiamo?

L’osservazione del mondo e le regole che lo compongono sono il primo passo della mia pratica artistica. Il centro della mia ricerca risiede in un linguaggio preso in prestito dalla realtà: frammenti estrapolati dal loro contesto di origine che vengono traslati con un’accezione, un punto di vista e una regola sfuggiti agli occhi di tutti. Come in un’operazione chirurgica, l’immagine viene esportata dalla realtà e trasfigurata, mantenendone ancora viva l’unicità.

Nella serie Birdwatching, i materiali impiegati sono fedeli per composizione e impiego a quelli realmente utilizzati. Così, il plexiglass fonoassorbente diventa il supporto della serie e gli stickers vinilici ad alte prestazioni adesive diventano il materiale per eccellenza che può comporre l’immagine. Il residuo – o in generale ciò che la contemporaneità offre quotidianamente – viene così elevato a materiale che posso utilizzare per il mio lavoro, per rielaborare una realtà che presenta nuove regole pronte per essere colte, senza bisogno di riscriverle, ma scoprendo ed evidenziando linguaggi ancora nascosti.

Mi piace trattare certi temi con un’attitudine irriverente e altri con un profondo rispetto. Non credo che, oggi, ci si ponga ancora il problema della distinzione tra cultura alta e bassa

Ci sono diversi lavori che originano da processi di collaborazione (penso alla serie nata dalle bruciature di sigarette spente su carta), se non da una vera e propria delega (è il caso degli stacchi di affresco del ciclo 4Ever). Che peso ha nella tua pratica il coinvolgimento di altre persone?

Gran parte di quello che faccio necessita del coinvolgimento e del confronto con le persone, un atto di fiducia, fino a delegare le eventuali mansioni per la realizzazione dell’opera, affidandomi così alle regole dei mestieri, dei materiali e della loro lavorazione. La mia successiva manipolazione è l’unico momento al di fuori di una metodologia rigorosa e consequenziale. Nel lavoro delle bruciature di sigarette su carta, l’altro da me è colui che scandisce un gesto, un momento, il tempo dell’azione. Mentre nella serie 4Ever, l’opera presuppone un gesto che può essere attribuito a un singolo oppure a un istinto collettivo, nel quale ognuno riconosce i segni dell’altro, li sa leggere e riprodurre o è lui stesso il primo a compierli, lasciando così una traccia del proprio passaggio.

Trovo ci sia spesso un atteggiamento ironico nelle cose che fai: nella scelta dei titoli, per esempio, ma anche nella simulazione beffarda di una certa manualità. Ho l'impressione che questo aspetto – l’ironia – sia una cifra della tua ricerca artistica. Mi piace trattare certi temi con un’attitudine irriverente e altri con un profondo rispetto. Non credo che, oggi, ci si ponga ancora il problema della distinzione tra cultura alta e bassa: oramai persiste una scala valoriale puramente omogenea in cui ogni cosa è appiattita e posta allo stesso livello.

Diventa quindi fondamentale per me dare al lavoro una stratificazione di significati, in cui certamente esiste una componente ironica, accompagnata però da molteplici modalità di comunicazione.

Luca Ferrero è nato a Torino nel 1995. Si è laureato all’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, attualmente vive e lavora tra Roma e Torino. La sua ricerca si concentra sulle contraddizioni e i paradossi che caratterizzano l’essere umano: le opere giocano con la presunzione dell’eternità, prima chiamata in causa, mostrata e poi messa in discussione attraverso il suo opposto: l’istante, la cessazione del “per sempre”. bio

Ci sono tanti artisti che, proprio su questa specie di black humor, hanno fondato la loro poetica: rimanendo in Italia, i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Maurizio Cattelan, Paola Pivi, Vedovamazzei... Sono autori a cui effettivamente guardi? In generale, quali sono i tuoi riferimenti, anche in ambito extra-artistico?

In linea generale, per una mia indole curiosa, ho un interesse aperto a 360 gradi, un’osservazione che passa anche attraverso ricerche distanti dalla mia, credo sia un ottimo antidoto per non stagnare nella propria bolla e aprire di un ulteriore grado il proprio punto di vista.

Mi ritrovo spesso a considerare la storia dell’arte

STUDIO VISIT a cura di SAVERIO VERINI
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Luca Ferrero,  Sette giorni , 2020, carta bruciata, 32 x 24 cm, courtesy l’artista. Photo Sebastiano Luciano

in alto: Luca Ferrero, 4Ever , 2023, incisione su affresco, 25 x 18 cm ciascuno, courtesy l’artista. Photo Refe Studio

in basso: Luca Ferrero,  Birdwatching , 2022, vinile su plexiglass, 80 x 100 cm, courtesy l’artista. Photo Sebastiano Luciano

Luca Ferrero, Untitled , 2022, spray su pelliccia di pecora, 50 x 100 cm, courtesy l’artista. Photo Sebastiano Luciano

NEI NUMERI PRECEDENTI

#58 Mattia Pajè

#59 Stefania Carlotti

#61 Lucia Cantò

#62 Giovanni de Cataldo

#63 Giulia Poppi

#64 Leonardo Pellicanò

#65 Ambra Castagnetti

#67 Marco Vitale

#68 Paolo Bufalini

#69 Giuliana Rosso

#70 Alessandro Manfrin

#71 Carmela De Falco

#72 Daniele Di Girolamo

#73 Jacopo Martinotti

#74 Anouk Chambaz

#75 Binta Diaw

#76 Clarissa Baldassarri

come un edificio in continua costruzione: ci sono opere che sono pilastri, su cui poi si possono costruire ulteriori dialoghi, sviluppi, rilanci. Tra gli autori che citi, Maurizio Cattelan ha lasciato, per me, un segno nel modo di fare arte, mentre Paola Pivi e Vedovamazzei sono maestri che fanno parte di un immaginario fondamentale nella storia dell’arte contemporanea. Se dovessi far riferimento agli artisti che ritengo i miei capisaldi, rimanendo in Italia, direi senz’altro Lucio Fontana, Pino Pascali e Alighiero Boetti.

Come tanti coetanei (e non solo) che si cimentano con l’arte in Italia, hai un altro lavoro (sei consulente creativo per un’importante azienda di design); e in passato hai fatto l’assistente per altri artisti. Quanti sacrifici – se così si possono definire – fai per portare avanti il tuo percorso? Quali difficoltà stai incontrando? Fare l’artista è un ruolo che nasce da un impulso e da una necessità, che ha come finalità il poter riconoscersi nella propria ricerca, potendo poi farne, idealmente, un vero e proprio mestiere. Naturale che sia difficile, si tratta di un

Sembrerà un po’ masochista, ma in fondo trovo sia giusto non essere subito riconosciuti, così da sviluppare una propria forma di “resistenza”

ambito complesso, con un linguaggio sempre più articolato da comprendere. Bisogna però trovare una strategia, una visione altra, una alternativa per stare nella società. Sembrerà un po’ masochista, ma in fondo trovo sia giusto non essere subito riconosciuti, così da sviluppare una propria forma di “resistenza” e prendersi del tempo per riconoscere quale linea vale la pena mantenere nel proprio percorso.

Ti va di raccontare i progetti a cui stai lavorando?

Attualmente mi sto dedicando a una nuova serie di opere che si basa sull’appropriazione di immagini e contenuti di altri artisti, entrando sia a stretto contatto con archivi e fondazioni storiche sia collaborando direttamente con artisti contemporanei.

STUDIO VISIT
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CHI È VERAMENTE STRANIERO?

Caterina Frattin

La 60. Esposizione Internazionale d’Arte si intitola Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Il titolo è tratto da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo. L’espressione è stata a sua volta presa dal nome di un omonimo collettivo torinese che nei primi anni Duemila combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia. Adriano Pedrosa, curatore della manifestazione, illustra così la sua scelta: “l’espressione Stranieri Ovunque ha (almeno) un duplice significato. Innanzitutto vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”. Questo il punto di partenza del workshop che ha coinvolto 17 studenti di IED Milano. Di seguito il commento di Caterina Frattin – 20 anni, iscritta al secondo anno di Design di Comunicazione allo IED di Milano –, il cui lavoro è stato scelto come copertina di questo numero. “Essere stra-

Il leggendario gallerista

Gavin Brown ha aperto un nuovo spazio a Roma: La Pulce

GIULIA GIAUME L L’importante (ex) gallerista Gavin Brown raddoppia la sua presenza a Roma. Dopo Sant’Andrea De Scaphis, galleria d’arte inaugurata nove anni fa nel piccolo oratorio di Trastevere, e con la definitiva chiusura post-pandemica del suo storico spazio di New York, il leggendario mercante torna a concentrarsi sulla capitale italiana con l’inaugurazione de La Pulce, in via dei Tre Archi 5. Associato da alcuni anni a Barbara Gladstone, Brown ha aperto la nuova galleria al pubblico a metà febbraio con la mostra Die ring di Marc Kokopeli. Brown si è detto attirato da Roma, nonostante la trovi “una zona arretrata, sulla strada che non porta da nessuna parte”: se forse non un punto di riferimento internazionale, la città è in grado di ospitare progetti innovativi e informali, senza dimenticare la flotta di gallerie storiche così come i molti spazi non profit. La Pulce punta a inserirsi in questa bizzarra varietà.

nieri, in qualsiasi luogo e circostanza, significa sentirsi estraneo nei confronti di se stessi e degli altri, ma può anche significare sentirsi diverso, sbagliato e solo. Lo straniero che si sente appartenere a tale denominazione si guarda intorno impaurito e dubbioso. Chi è lo straniero? Sono io o lo siete voi? Ecco che gli occhi che osservano il mondo esterno, ma anche l’interiorità nel suo profondo, sono i molteplici sguardi di chi si sente estraneo circondato da altrettanti estranei, ovvero straniero nella propria vita e in quella degli altri”.

Scopri i dettagli del progetto seguendo il QR code qui a fianco

IED x ARTRIBUNE

Il progetto Fragile Surface si propone di raccontare attraverso immagini e contenuti multimediali realizzati da studentesse, studenti e Alumni dell’Istituto i temi centrali della contemporaneità. Per il secondo anno di collaborazione abbiamo scelto di affidarci ai temi delle più importanti manifestazioni di arte e design, prendere in prestito spunti di riflessione e restituire immagini fragili ma potenti. Superfici sottili che racchiudono complessi punti di vista.

Le biennali (triennali – quadriennali – quinquennali) sono l’occasione per artisti e designer di riflettere sugli argomenti centrali della contemporaneità. Partendo da manifestazioni del recente passato e tenendo in considerazione le tematiche delle prossime, cercheremo collegamenti espliciti o implicite contrapposizioni e ci interrogheremo proponendo un punto di vista inedito: quello di giovani persone che si affacciano sul futuro.

La Fondazione Nicola Trussardi pronta a riempire Milano di manifesti d’artista

DESIRÉE MAIDA L Toccherà diversi luoghi di Milano, dal Cimitero Monumentale al centro storico, da CityLife a Porta Romana, il nuovo progetto che la Fondazione Nicola Trussardi inaugurerà l’8 aprile, per protrarsi nelle due settimane successive, quelle che vedranno la città animarsi con le “week” dedicate all’arte e al design. ITALIA 70 – I NUOVI MOSTRI è il titolo della mostra a cura di Massimiliano Gioni che coinvolgerà 70 artisti italiani nella realizzazione di manifesti che verranno affissi per le strade e le piazze di Milano. Un’iniziativa che intende celebrare i venti anni trascorsi dalla prima “edizione” del progetto, risalente al 2004, dal titolo I NUOVI MOSTRI – UNA STORIA ITALIANA

ITALIA 70 – I NUOVI MOSTRI rientra così nella visione della Fondazione Nicola Trussardi, nata nel 1996 con sede a Palazzo Marino alla Scala per poi assumere la sua attuale forma di istituzione “nomade” a partire dal 2003, sotto la guida di Beatrice Trussardi e la direzione artistica di Massimiliano Gioni, con mostre pensate e organizzate in diversi siti della città, con interventi di artisti internazionali. ITALIA 70 – I NUOVI MOSTRI inviterà a guardare la città da prospettive diverse, componendo “una collezione temporanea di arte a cielo aperto: un museo metropolitano, nascosto tra le comunicazioni commerciali, che riflette desideri e inquietudini dell’Italia di oggi”, sottolinea la Fondazione Nicola Trussardi.

NEWS
LA COPERTINA
77 24 a cura di DESIRÉE MAIDA
Petrit Halilaj
Dorsoduro 701, 30123 Venezia guggenheim-venice.it Jean Cocteau La rivincita del giocoliere
Cocteau La rivincita del giocoliere 13.04 16.09.2024 Con il sostegno di programmi educativi sono realizzati con il sostegno di Main sponsor
Philippe Halsman, Jean Cocteau, New York City, 1949. © Philippe Halsman / Magnum Photos Jean

DIRETTORE

Massimiliano Tonelli

DIREZIONE

Santa Nastro [vicedirettrice]

Desirée Maida [caporedattrice]

COORDINAMENTO MAGAZINE

Alberto Villa

Giulia Giaume [Grandi Mostre]

REDAZIONE

Caterina Angelucci | Irene Fanizza

Claudia Giraud | Livia Montagnoli

Valentina Muzi | Roberta Pisa

Emma Sedini | Valentina Silvestrini

Alex Urso

PROGETTI SPECIALI Margherita Cuccia

PROGETTO GRAFICO

Alessandro Naldi

PUBBLICITÀ

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COPERTINA ARTRIBUNE

Chi è veramente straniero? Caterina Frattin Collage digitale Courtesy IED - Istituto Europeo di Design

COPERTINA GRANDI MOSTRE

Pierre Huyghe, Liminal (temporary title), 2024 - ongoing, Courtesy of the artist; Anna Lena Films, Paris, © Pierre Huyghe, by SIAE 2023

STAMPA

CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS)

DIRETTORE RESPONSABILE

Paolo Cuccia

EDITORE & REDAZIONE

Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

Chiuso in redazione il 28 marzo 2024

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Una targa per ricordare il gallerista Pasquale Leccese a Milano

LIVIA MONTAGNOLI L Al civico 8 di via Gorani, nel cuore della Milano romana, Pasquale Leccese, scomparso prematuramente nell’estate 2023, fondava nel 1986 Le Case d’Arte. Ora è tempo di omaggiare la sua ricerca, che ne ha fatto un punto di riferimento per il sistema dell’arte milanese, con una targa che ne conservi la memoria, celebrando al contempo il legame del gallerista con la città dove era arrivato dalla Puglia nel 1982, per non lasciarla più. Voluta dai suoi più cari amici, insieme con i figli Paolina e Vito Leccese, la piccola targa che gli rende omaggio sulla lesena di via Gorani “vuole ricordare un grande uomo, un colto pensatore e un puro idealista che è stato, senza compromessi, punto di riferimento per il sistema dell’arte milanese”. Nella Milano degli Anni Ottanta, Leccese collaborò con Domus, conobbe e frequentò molti artisti, da Paladino a Boetti e Merz; fino all’inaugurazione della galleria destinata a esercitare un’influenza nazionale e internazionale. Ma in città, Leccese è stato anche direttore artistico della fiera miart, dal 2001 al 2007, e fondatore dell’associazione di galleristi Start Milano.

Milano sboccia di spazi per l’arte, nuovi e rinati. La mappa

GIULIA GIAUME L Laboratori di sperimentazione e contaminazione, spazi espositivi e di ricerca: Milano si apre alla primavera con un rifiorire di gallerie e studi che, tra nuove aperture e rinnovi, ampliano e approfondiscono l’offerta artistica e culturale della città. Eccoli:

Opos

Via Ermenegildo Cantoni 3

10 Corso Como Corso Como 10

Playlist

della Galleria

Giampaolo Abbondio Via Carlo Poma 18

BKV Fine Art Via Fontana 16

Settantavendidue

Via Ludovico il Moro 11

Sottoscalo Via Mantova 17

Velò Project

Via Arcivescovo Romili 20

Fondazione Galleria Milano

Via Arcivescovo Romili 7

PEFC/18-31-992

LA REALTÀ DI UNA BUGIA

“La bugia descrive la mia vita meglio della verità […]. Queste dichiarazioni non sono aforismi alla Oscar Wilde che si dilettano di paradossi e difendono lo stile, ma sono piuttosto proposte su come l’artificio, lo splendore utopico della finzione, possa essere messo al servizio del reale”. È attorno a questo concetto che ruota il saggio di Hal Foster, intitolato Finzioni Reali e pubblicato da Krisis Publishing. Il libro parte dal lavoro dell’artista tedesco Thomas Demand di cui indaga il concetto di sfocatura della realtà, che nelle sue opere produce un’intensa attivazione del reale che svela invece di nascondere. Il medesimo approccio, Hal Foster lo ritrova nella produzione artistica di Tacita Dean, Harun Farocki, Hito Steyerl e Trevor Paglen, che attraverso l’escamotage della finzione riabilitano il mezzo documentaristico come sistema critico efficace. Questo paradosso, nell’analisi dell’autore, diventa un approccio artistico, una poetica che permette agli artisti di comporre delle narrazioni potenziante in cui non esiste il disvelamento o l’inganno ma solamente un’attivazione della realtà che passa attraverso la finzione della stessa: “produrre un’interruzione, una crepa o una distanza, che permetta di intravedere una realtà nascosta”. In questo libro il concetto del reale viene riportato al centro, perchè “il problema del reale non tanto la sua presenza, quanto la sua posizione: dov’è situato?”.

“La centrale di Montemartini a Via Ostiense è un posto meraviglioso dove la statua di Afrodite, la cui prima origine è del quinto secolo avanti Cristo, biancheggia luminosa davanti al nero delle ‘pompe di estrazione del condensato’, apparecchi industriali attivi dagli anni Dieci dello scorso Novecento”. È con la volontà di mostrare queste opposti che è stato scritto da Alessandro Mauro il libro Di questa doppia Roma. Una guida unica nel suo genere, che accompagna il lettore in tutte le contraddizioni di questa città così complessa, stratificata, ricca di ogni contraddizione e piena di paradossi. Un luogo umorale, disperato e unico, che nonostante anche questo libro rimane a suo modo imperscrutabile.

Alessandro Mauro, Di questa doppia Roma ExOrma, 2024 pag. 216, € 16,50

ATHENA Le presenze femminili delle Biennali/Triennali di Monza/Milano 1923-1940, pubblicato Nomos Edizioni, è un libro di ricerca che ha portato alla luce, una storia e molte storie fino a qui dimenticate. Il libro infatti ha fatto riemergere la presenza di artiere, pittrici, scultrici, architette nelle esposizioni che si susseguirono tra Monza e Milano a cavallo delle due guerre. Il volume, oltre al merito di aver redatto un monumentale apparato di biografie, ha riportato alla luce le numerose istituzioni, spesso a guida femminile, che si impegnarono su tutto il territorio nazionale per valorizzare i saperi femminili.

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Anty Pansera e Mariateresa Chirico, ATHENA Le presenze femminili delle Biennali/ Triennali di Monza/Milano 1923-1940 Nomos edizioni, 2024 pag. 402, € 29,90

A metà tra il mockumentary e la narrazione fantastica, il libro Fauna di Joan Fontcuberta e Pere Formiguera accende i riflettori su uno degli studi più controversi della storia della zoologia. Ma dove finisce la realtà? E quando inizia la finzione? Sono probabilmente queste le parole che pronunciarono gli autori del libro quando nel 1980, in uno scantinato polveroso, portarono alla luce gli archivi a lungo persi dello zoologo tedesco Peter Ameisenhaufen. Un ritrovamente eccezionale che dimostrava l’esistenza di animali fantastici e inconsueti, tutti dettagliatamente descritti e fotografati; ma il dilemma è ancora lì, siamo di fronte alla realtà o è tutta una finzione?

Joan Fontcuberta e Pere Formiguera, Fauna Mimesis, 2024 pag. 128, € 25

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Il tempo passa troppo presto. Lettere alla famiglia di Alberto Giacometti, edito da Casagrande, apre una finestra preziosa sulla vita interna di Giacometti, attraverso una raccolta di lettere inviate alla sua famiglia in Svizzera, dalla sua gioventù fino agli anni della maturità artistica. Pubblicate per la prima volta in italiano nella loro versione originale, questa corrispondenza offre un ritratto inedito dell’artista. Ogni pagina è un passo lungo il cammino dell’artista verso la definizione del proprio stile e della propria visione, un percorso costellato di incontri fondamentali, svolte improvvise e una costante lotta contro il tempo, tema ricorrente nelle sue riflessioni.

Il tempo passa troppo presto. Lettere alla famiglia di Alberto Giacometti

a cura di Casimiro Di Crescenzo Edizioni Casagrande, 2023 pag. 252, € 38

UN VIAGGIO NEL TEMPO DI DAVID FRIEDRICH

Il 2024 è l’anno in cui si celebrano i 250 anni dalla nascita del pittore Caspar David Friedrich, e Marsilio Arte, per rendere onore al pittore tedesco, ha deciso di pubblicare il libro dello storico dell’arte Florian Illies, dal titolo La magia del silenzio. Il viaggio nel tempo di Caspar David Friedrich. Il libro – strutturato in capitoli che hanno il nome degli elementi naturali, aria, acqua, terra e fuoco – attraversa con un approccio libero e non cronologico la vita del pittore e porta alla luce aneddoti e aspetti poco conosciuti. Il volume si apre infatti con il carteggio tra Goethe e Friedrich, in cui emerge come all’autore del Faust non piacessero i dipinti del compatriota tedesco, perché li riteneva troppo malinconici. Altro aspetto che emerge nel libro sono le difficoltà di Friedrich con la figura umana “E chi li capisce, gli esseri umani! Per non parlare delle donne! Fossero degli alberi, saprebbe per istinto come regolarsi. Allora sì che potrebbe studiarle e dipingerle per ore intere, fino all’ultimo dettaglio”. Ed è forse questa la sua grande fortuna, le sue figure così dimesse, spesso raffigurate di spalle, hanno permesso a chiunque di immedesimarsi nelle sue opere, di entrarci dentro. Il libro ripercorre molta parte della vita del pittore tedesco fino a includere anche Walt Disney, che si innamora delle sue opere tanto da volerci ambientare dentro Bambi.

Florian Illies, La magia del silenzio. Il viaggio nel tempo di Caspar David Friedrich Marsilio, 2024 pag. 208, € 19

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In Cleopatra e il serpente, Nicola Fano propone al lettore un viaggio attraverso la storia, la mitologia e l’arte per esplorare come la bellezza femminile sia stata utilizzata, manipolata e spesso trasformata in un’arma contro le donne stesse. Questo saggio è un’esplorazione profonda e a tratti dolorosa di come la bellezza sia stata elevata a standard inaccessibile, diventando una gabbia dorata per quelle che ne sono state considerate depositarie. Attraverso le storie di figure storiche e mitologiche, da Elena di Troia a Marilyn Monroe, l’autore ci mostra come la bellezza sia stata contemporaneamente un dono e una maledizione.

Nicola Fano, Cleopatra e il serpente. La bellezza come arma del patriarcato Elliot Edizioni, 2024 pag. 192, € 20

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Global Painting. La Nuova pittura cinese emerge, catalogo della mostra allestita fino al 5 maggio al MART, è un volume che offre uno sguardo inedito sulla scena artistica contemporanea cinese. Attraverso la lente di ventiquattro artisti nati tra il 1980 e il 1995, il libro non solo presenta una selezione di opere poco note al pubblico occidentale ma apre anche una finestra sul dinamismo e sulla complessità del contesto storico e sociale della Cina. La mostra, così come il catalogo, sono un manifesto della capacità dell’arte di superare barriere geografiche e culturali, scrivendo una nuova storia dell’arte, globale nella sua essenza ma radicata nelle esperienze e nelle visioni individuali.

Global Painting. La Nuova pittura cinese emerge a cura di di Lu Peng e Paolo De Grandis con Carlotta Scarpa e Li Guohua Skira, 2024 pag. 136, € 28

LIBRI a cura di DARIO MOALLI
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ARCHUNTER

L’ARCHITETTURA POLITICA DI SOCIAL DESIGN COLLABORATIVE

L'eroina dimenticata di Chandigarh Urmila Eulie Chawdhury, la pioniera della terra cruda Revathi Kamath, le promesse Ramalakshmi Ramachandran e Surabhi Shingarey. Sono solo alcune delle ottanta progettiste indiane protagoniste della mostra Samatva: Shaping the Built, celebrazione dell’impegno femminile nel dare forma all’ambiente costruito del Paese nell’ultimo secolo. Allestita nelle sale del Forte di Delhi, l’esposizione è curata dall’architetta locale Swati Janu, che dell’inclusione e dell’uguaglianza sociale ha fatto gli obiettivi del suo studio Social Design Collaborative “Crediamo fermamente che il design abbia il potenziale per affrontare e risolvere molte delle sfide della nostra società”, dichiara l’architetta, “ma non può farlo solo attraverso il progetto [...] Il nostro lavoro non si limita all’esecuzione di un brief, ma interagisce criticamente con il sito di progetto, riconoscendolo come un’entità geografica modellata da fattori sociali, economici, politici, temporali e storici”. Un’idea di architettura come pratica politica, che trova il suo campo di azione negli insediamenti spontanei della regione di Delhi. In risposta agli sfratti forzati lungo il fiume Yamuna, Social Design Collaborative ha reclamato il diritto allo studio delle comunità agricole locali, progettando e realizzando insieme a queste una scuola che può essere smontata (e rimontata); mentre a Bela Gaon ha guidato la costruzione di uno spazio flessibile, asilo al mattino, scuola nel pomeriggio e centro comunitario la sera. Servizi spesso mancanti o inadeguati, come dimostrano gli altri 10 anganwadi (centri rurali di assistenza all’infanzia) su cui lo studio è al lavoro dal 2023: con la loro struttura modulare e la varietà di soluzioni che offrono, potranno in futuro assurgere a prototipi da replicare in altre località del Paese.

Tre domande ad Alessia Caruso Fendi, nuova direttrice di Rhinoceros Gallery a Roma

VALENTINA MUZI L Tra il Foro Boario e il Circo Massimo, Rhinoceros Gallery prende forma in un palazzo storico nel 2018 per volontà di Alda Fendi, su progetto dell’architetto Jean Nouvel. Dopo sei anni di attività, e diversi progetti espositivi e installativi realizzati, lo spazio dedicato alle arti contemporanee cambia registro con Alessia Caruso Fendi (figlia della stilista e mecenate Alda) e si conferma protagonista della scena culturale romana, annunciando collaborazioni temporanee con realtà internazionali.

Chi ha inaugurato il nuovo corso di Rhinoceros Gallery a Roma?

A inaugurare il nuovo programma è stata la collaborazione con Galerie Kreo di Parigi, un laboratorio di ricerca del bello in pezzi unici di design. Per l’occasione sono state presentate opere realizzate dall’artista francese Ronan Bouroullec.

Che ruolo ha la galleria romana in questo nuovo progetto?

Alle azioni progettuali partecipate, Social Design Collaborative affianca l’elaborazione di strumenti open source. Tra questi, un gioco da tavolo che permette alle fasce di popolazione della capitale solitamente escluse dai processi di pianificazione di navigare e prendere consapevolezza dei tecnicismi e delle zone grigie del nuovo Master Plan; un archivio che documenta le periodiche politiche di sfratti e ricollocamenti attuate dall’amministrazione cittadina e ne denuncia le conseguenze; una mappa che valorizza gli oltre 500 mercati informali di Delhi; un manuale per avviare e gestire anganwadi.

In qualità di “facilitatrice che dimostra che l’architetto ha un posto accanto agli avvocati per i diritti umani, agli attivisti e ai leader della comunità” Janu è stata insignita del Moira Gemmill Prize for Emerging Architecture. Se la strada verso la parità di genere che la comunità architettonica indiana (e non solo) sta percorrendo è ancora lunga, il contributo di Social Design Collaborative sta accorciando le distanze.

socialdesigncollab.org

MARTA ATZENI

© Social Design Collaborative.

Samatva: Shaping the Buil t. India

Art Architecture and Design Biennale, Red Fort, Delhi

La galleria è parte generativa di questo scambio con il mondo. Rappresenta un’identità, un luogo di metamorfosi artistica e creativa.

Ovvero?

È qui che fisicamente incontriamo il mondo con esempi concreti, diventando un luogo per scoprire cosa sta accadendo altrove e dove cerchiamo partner che condividano la nostra visione.

Il programma espositivo 2024 del Museo MAXXI di Roma

VALENTINA MUZI L Nel primo anno di direzione artistica di Francesco Stocchi, il museo romano pone l’attenzione sul visitatore e sui diversi linguaggi delle arti. Dall’arte all’architettura, dal design alla moda, ecco tutte le mostre da vedere:

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Ambienti 1956 – 2010. Environments by Women Artists II, dedicata alle donne che hanno dato il loro contributo alla storia delle arti visive.

Le mostre dedicate a Guido Guidi, Giovanni Anselmo e Italo Rota.

Un focus sulla Torre Velasca di Milano e il progetto InMotion, a cura di Diller Scofidio + Renfro.

Memorabile: Ipermoda, in collaborazione con la Camera Nazionale della Moda Italiana.

Artificial Hell e Briganti Eleganti: le prime due mostre realizzate in collaborazione con il MiC ospitate negli spazi Extra e Corner del Museo MAXXI.

Nuove avventure sotterranee: il progetto di committenza fotografica dedicato alle infrastrutture in Italia, Argentina, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

La Casa Museo di Antonello da Messina si farà

LIVIA MONTAGNOLI L Circa tre milioni di euro. A tanto ammonta l’investimento che Messina si impegna a stanziare per la realizzazione di un museo interattivo dedicato ad Antonello da Messina nell’antico quartiere dei Sicofanti, dove l’artista rinascimentale visse e operò. L’operazione sarà fulcro del rebranding di Messina come “Città di Antonello”.  Il pittore quattrocentesco, tra i più talentuosi interpreti della “pittura di luce” di importazione fiamminga, è passato alla storia proprio con il toponimo della città che gli diede i natali, tra il 1425 e il 1430. Una volta realizzata, nel palazzo dell’ex Ismig, la Casa Museo potrebbe funzionare, quindi, da snodo centrale nell’itinerario cittadino alla scoperta dei luoghi di Antonello, come la Chiesa di San Francesco all’Immacolata, il Monastero di Montevergine, le colline di Camaro, i resti del convento di Santa Maria del Gesù, dove Antonello fu sepolto.

Fondazioni, gallerie e non solo. È boom di nuove aperture a Venezia in vista della Biennale Arte

DESIRÉE MAIDA

Un Museo della Guerra Fredda nell’ex bunker sul Lago di Garda

LIVIA MONTAGNOLI L Scavato nel Monte Moscal, non distante dalla sponda veronese del Garda, il rifugio antiatomico West Star fu inaugurato nel 1966, sotto la gestione della Nato, nel periodo della Guerra Fredda. Dismesso solo nel 2007, il bunker di Affi potrebbe presto trasformarsi in spazio museale, con annesso Centro Studi sulla Guerra Fredda, con l’obiettivo di raccontare un’epoca che ha segnato il secondo ‘900. L’amministrazione locale ha infatti ottenuto il riconoscimento del vincolo monumentale dal MiC, e potrà muoversi per ottenere fondi italiani ed europei – necessari 8 milioni di euro – per fare dell’ex base Nato un Museo della Guerra Fredda, in collaborazione con l’Università di Firenze.

100 anni fa si pubblicava il Manifesto Surrealista. Bruxelles lo celebra con tre mostre

CATERINA ANGELUCCI L Era il 1924 quando a Parigi André Breton pubblicò il Manifeste du Surréalisme, e in Belgio nascevano medesime tendenze sotto la guida di Paul Nougè, Macel Lecomte e Camille Goemans. A 100 anni da quella dichiarazione programmatica, Bruxelles celebra con due mostre (+1) l’attività del movimento surrealista: Histoire de ne pas rire. Surrealism in Belgium al Bozar e IMAGINE! 100 Years of International Surrealism – from De Chirico to Pollock ai Musei Reali, oltre a un inedito dialogo tra i mondi immaginari di Magritte e dell’illustratore, pittore e scultore belga Jean-Michel Folon al Museo Magritte.

L Laguna in fermento in vista della 60. Mostra Internazionale d’Arte, con nuovi spazi già aperti o in procinto di inaugurare. Attivo come residenza artistica dal 2022, Palazzo Diedo apre come hub polifunzionale della Berggruen Art & Culture (dell’imprenditore e filantropo francese Nicolas Berggruen) il 20 aprile con la mostra Janus, a cura di Mario Codognato e Adriana Rispoli. Ha inaugurato il 22 marzo, all’interno della recentemente restaurata Palazzina Masieri, la prima sede veneziana di Galerie Negropontes, fondata nel 2012 a Parigi da Sophie Negropontes, con la doppia mostra Armonia Metis. A Murano nasce la Fondazione Barovier&Toso, dalla volontà della storica impresa specializzata nella lavorazione del cristallo soffiato. Negli spazi dell’atelier di Gianmaria Potenza (fondatore della vetreria La Murrina) nasce la Fondazione Potenza Tamini, con l’obiettivo di supportare i giovani creativi. È stato acquistato dall’artista turco di origine curda Ahmet Güneştekin Palazzo Gradenigo, nel sestiere di Castello, per destinarlo a sede della sua nuova fondazione d’arte, la Güneştekin Art Refinery.

René Magritte, Le double secret , 1927, oil on canvas, Centre Pompidou, Paris –Musée national d’art moderne / Centre de création industrielle. © succession Magritte –Sabam Belgium 2024

A Torino una scuola per le arti grazie a Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT

CLAUDIA GIRAUD L La neo-Presidente della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, ha presentato un programma culturale di quattro anni che prevede la creazione a Torino di una scuola per le arti contemporanee. Si chiama Aperto e proporrà ogni anno, a partire da giugno 2024, sei seminari intensivi gratuiti, accessibili tramite open call, sulle professionalità dell’arte contemporanea (curatori, educatori, ricercatori, archivisti, registrar, scrittori e comunicatori), con lezioni tenute da docenti italiani e stranieri. Ogni seminario, rivolto a 25 partecipanti – laureati, dottorandi, giovani professionisti, artisti under 35 – si svolgerà negli spazi delle istituzioni e dei soggetti partner, come Fondazione Sandretto, Castello di Rivoli, i non profit Almanac e Cripta e l’artist-run space Mucho Mas.

Exposed 2024. In arrivo a maggio il grande Torino Foto Festival

CLAUDIA GIRAUD L Il nuovo Festival Internazionale di Fotografia di Torino si terrà dal 2 maggio al 2 giugno 2024. Prevede 29 mostre (8 gratuite e 21 a pagamento) in 23 sedi: un unico cartellone di eventi dedicati all’immagine, che coinvolge le principali istituzioni culturali cittadine come OGR, sede dell’opening, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Gallerie d’Italia – Torino di Intesa Sanpaolo, la fiera THE PHAIR e il festival Liquida by Paratissima, e realtà indipendenti come Mucho Mas. Una rassegna dove è forte la matrice pubblica, a partire dal pass unico valido per tutta la durata del Festival e acquistabile a 25 euro (ridotto a 20 euro per under 18 e studenti) che fa accedere a tutte le mostre. “A Torino sono già presenti due musei di fotografia e un ricco tessuto culturale, così ci siamo chiesti quale valore aggiunto potevamo dare”, ha detto Menno Liauw, co-direttore del festival insieme a Salvatore Vitale. La risposta è nel programma che prevede cinque punti cardine: internazionalità, impatto del mezzo foto sul futuro, collaborazione tra curatori e artisti coinvolti, inclusività, centralità dell’artista.

LA CURATELA NON PUÒ ESSERE NEUTRALE

Qual è stato il tuo percorso di studi? Che peso (e valore) ha nella tua carriera da curatore indipendente il ruolo da assistente curatore?

Ho iniziato studiando storia dell’arte a Venezia, per poi proseguire con il biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA di Milano. Tuttavia, ciò che mi ha avvicinato all’arte è la musica e le sperimentazioni post-rock e shoegaze. Come curatore mi divido tra progetti indipendenti con giovani artisti, i collettivi Sa.turn e Provinciale11 di cui faccio parte e il mio ruolo da assistente curatore per i progetti espositivi di Marco Scotini. È innegabile come quest’ultimo contribuisca alla formulazione del mio pensiero teorico, permettendomi di poter approfondire figure straordinarie, come quella di Nanni Balestrini (tra azione politica e artistica) che abbiamo recentemente portato presso il Center for Italian Modern Art di NYC, presentando le relazioni dell’artista con grandi esponenti della musica d'avanguardia come Luigi Nono e Demetrio Stratos.

In occasione della 60. Biennale di Venezia sarai assistente curatore per il progetto Disobedience Archive di Marco Scotini. Di che cosa si tratta? Credo che Disobedience Archive sia uno dei progetti espositivi più radicali degli ultimi venti anni. Ideato da Marco Scotini nel 2005, a Berlino, attualmente conta 15 edizioni assumendo un formato diverso a ogni sua formulazione. I materiali d’archivio che vengono presentati hanno a che fare con la disobbedienza e le lotte di liberazione, e vanno dalle forze dirompenti degli Anni Settanta fino ai giorni nostri. Come assistente di progetto partecipo a Disobedience Archive dalle due ultime edizioni, tenutesi alla 17. Biennale di Istanbul nel 2022 e alla Beta Biennale di Timișoara, sempre nello stesso anno. In entrambe le versioni, il fil rouge è stato la scuola: in Turchia, per esempio, il progetto espositivo disegnato da Can Altay – e allestito in una scuola femminile greca, ormai fatiscente a causa delle politiche nazionalistiche di Erdogan – si ispirava al cinema pedagogico di Jean-Luc Godard, analizzando la pedagogia radicale, il femminismo e l’ecologia. Quest’anno il progetto sarà esposto alla 60. Biennale d’Arte di Venezia e tratterà il tema dell’attivismo della diaspora e della disobbedienza di genere. Il mio ruolo, in questo caso, è partecipare alla ricerca di materiali filmici e seguire gli artisti invitati.

Credo che la curatela possa essere intesa come una spia, una modalità per cacciare indizi e collocare l’opera e il pubblico in una battaglia terribilmente complessa contro le condizioni ideologiche e politiche dominanti

Parlando dell’attività da curatore indipendente: qual è la tua idea di curatela? Ci sono temi che prediligi?

bioLa mia idea di curatela tenta di attuare un modo di fare mostra a partire da una coscienza e critica di classe all’interno della produzione culturale. Nel costruire una mostra ci si trova sempre di fronte a un doppio sfasamento dello spazio e del tempo (Okwui Envezor, The Black Box), ecco: è importante riconoscere da che punto si guarda quell’idea di tempo e di spazio, tanto quanto di storia. Nella realizzazione di una mostra sono sempre stato affascinato dall’idea di instaurare un approccio drammaturgico (riprendendo Harald Szeeman e il collettivo curatoriale croato WHW), riconoscendone la performatività nella gestione del tempo, della narrazione, del processo, dell’uso dello spazio, della co-presenza del pubblico, dei ruoli messi in gioco. Credo che infatti possa essere uno sforzo intellettuale attraverso cui intendere la non-neutralità dell’esposizione. Sulla linea di Brecht, credo che la curatela possa essere intesa come una spia, una modalità per cacciare indizi e collocare l’opera e il pubblico in una battaglia terribilmente complessa (e non necessariamente vincente) contro le condizioni ideologiche e politiche dominanti. La mia posizione, per esempio, tenta di mantenere (o recuperare) una prospettiva decoloniale del Sud Globale, dando voce a una serie di reti sociali e politiche culturali che si basano sulla pluralità del discorso. In particolare, tra i principali progetti curatoriali che ho pre-

Arnold Braho, classe 1993, vive a Milano muovendosi tra il ruolo di assistente curatore e l’attività di curatore indipendente. Oltre a scrivere come contributor per varie riviste di settore tra cui Flash Art, Artribune, Exibart, L’Essenziale Studio e Segno, è co-fondatore della piattaforma curatoriale Sa.turn (tra editoria, arti visive e musica) e del collettivo Provinciale11. Come curatore indipendente ha recentemente presentato Racconti dalle Terre Piumate, mostra personale di Pietro Fachini da ArtNoble Gallery a Milano (2024), Não contes à mãe, mostra personale di Delio Jasse presso la Zet Gallery di Braga in Portogallo (2023) e la collettiva Fare i conti con il rurale alla Fondazione Arsenale di Iseo (2023). Come assistente curatore, invece, ha preso parte a diversi progetti internazionali curati da Marco Scotini, collaborando con varie istituzioni come il Center for Italian Modern Art (NYC), la 17. Biennale di Istanbul, Villa Arson (Nizza, FR), FM Centro per l’Arte Contemporanea (MI) e il MAXXI di Roma.

ARNOLD BRAHO
OSSERVATORIO CURATORI a
di CATERINA
cura
ANGELUCCI
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Giorgio Mattia, Dead flag blues (2022), detail, installation view, Fare i conti con il rurale, curated by Arnold Braho, Fondazione Arsenale, Iseo, 2023 sopra: Break-in. Temporal Displacement , installation view, The Address, Brescia, 2022 sotto: Delio Jasse, As Colónias Vão Ser Países (2023), installation view, Não contes à mãe curated by Arnold Braho and Helena Mendes Pereira, Zet Gallery, Braga, Portugal, 2023

NEI NUMERI PRECEDENTI

#46 Marta Cereda

#47 Vasco Forconi

#49 Greta Scarpa

#50 Federico Montagna

#52 Pierre Dupont

#54 Giovanni Paolin

#58 Arianna Desideri

#61 Marta Orsola Sironi

#63 Caterina Avataneo

#65 Giuliana Benassi

#68 Erinni

#71 Collettivo Amigdala

#72 Caterina Angelucci

#74 Gaia Bobò

sentato nell’ultimo anno c’è la mostra personale Não contes à mãe di Delio Jasse, tenutasi presso Zet Gallery a Braga in Portogallo, che ho curato in collaborazione con Helena Mendes Pereira. Presentando le più recenti opere dell’artista abbiamo decostruito la visione modernista, unidirezionale e gerarchica della storia coloniale portoghese in Mozambico e Angola, lasciando una domanda aperta: è possibile concepire l’immagine fotografica come dispositivo attraverso cui rimpossessarsi delle voci soppresse dal passato coloniale? Inoltre, con il collettivo Provinciale11 abbiamo inaugurato il primo ciclo di residenze d’artista, in collaborazione con il comune di Mulazzo in Lunigiana (Toscana), il supporto di Toscanaincontemporanea2024 e della Cassa di Risparmio di Carrara. Infine, insieme a Paola Shiamtani curo specchiospecchio, una vetrina in Porta Genova gentilmente concessa da Studio SBT, che attiviamo mediante modalità completamente anarchiche.

Di recente hai iniziato a collaborare con ArtNoble Gallery a Milano, dove a febbraio hai curato la mostra per-

La mia posizione tenta di mantenere (o recuperare) una prospettiva decoloniale del Sud Globale, dando voce a una serie di reti sociali e politiche culturali che si basano sulla pluralità del discorso

sonale di Pietro Fachini Racconti dalle Terre Piumate e a giugno proporrai una collettiva con Sa.turn. Con Racconti dalle Terre Piumate, prima mostra personale di Pietro Fachini presentata a marzo 2024 a Milano, il tentativo era quello di servirsi dell’espediente narrativo della fiaba per raccontare la vita all’interno di un bosco di sughere in Sardegna, tra microstorie, tracce e memorie fatte di apparizioni, allegorie, suggestioni magiche ma anche di ferocia. Invece, il secondo progetto che proporrò da ArtNoble Gallery inaugurerà a giugno 2024 e lo curerò con il collettivo Sa.turn, di cui faccio parte insieme a Stefano De Gregori, Giordano Cruciani e Camilla Cassinari. Fondato nel 2021 a Verona grazie anche al supporto di Stefano Pizzamiglio, Sa.turn nasce con lo scopo di proporre progetti interdisciplinari tra editoria, arti visive, performance e musica. La mostra in questione si intitolerà Theater of Dis-Operations e presenterà processi e operazioni artistiche capaci di offrire nuove strategie di sabotaggio della violenza, attraverso un repertorio di dispositivi di vario genere e atti potenziali.

OSSERVATORIO CURATORI a cura di CATERINA ANGELUCCI
Pietro Fachini, Racconti dalle Terre piumate , curated by Arnold Braho, 2024, Installation view, courtesy ArtNoble gallery, ph credit M. Pedranti
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23 MAR  1 SEP 2024

AliPaloma  Monia Ben Hamouda  Costanza Candeloro

Filippo Contatore  Isabella Costabile Binta Diaw

Giorgia Garzilli Sophie Lazari  Lorenza Longhi

Magdalena Mitterhofer Jim C. Nedd Luca Piscopo

Raphael Pohl Davide Stucchi Tobias Tavella

OPENING & VG AWARD 2024 22 MAR 19.00 MUSEION BOLZANO BOZEN MUSEION.IT Institutional Partners Main Partner & VG Award 2024 Vordemberge-Gildewart Foundation Media Partners In collaboration with Design: Studio Mut
CEN LONG SEMINARE SPERANZA SOWING HOPE PALAZZO QUERINI CALLE LUNGA SAN BARNABA 2691, VENEZIA FREE ENTRY 20/04 - 24/11/2024 11.00 -19.00 MARTEDÌ CHIUSO www.cenlong.cc LAURAVILLANI
a
cura di Metra Lin e Laura Villani

“Stiamo cercando di realizzare un anti-metaverso, costruito dal basso, fatto male, dove gli utenti non siano tristi, o perlomeno non si sentano programmaticamente sfruttati”. Così, si presenta al mondo – o meglio, alla Rete – il progetto Superinternet.world, un mondo virtuale dal look semplice e iper-colorato, pensato come esperimento alternativo alle patinate (e sorvegliate) proposte corporate. Lanciato dalla Superinternet Foundation – collettivo composto da Silvia Dal Dosso, Gabriele Donini, Pablo Galbusera, Pietro Parisi, Stefano Redaelli e Giacomo Scandolara – consiste in un ambiente tridimensionale navigabile e accessibile online tramite browser. Le stanze, inizialmente soltanto dei cubi bianchi vuoti, sono interamente disegnabili, pronte ad essere occupate creativamente da persone di tutto il mondo. Al momento, il Superinternet. world ha raccolto il contributo di 72 artisti, designer e illustratori, tra cui Chiole Comics, Ciang, Clusterduck, Dinamo, LaTigre, Anna Magni, Omer Mosseri, Vola Noemi, Nick Öhlo, Gio Pastori, Alex Valentina, Shut Up Claudia, Zipeng Zhu. A loro è stato chiesto, nel corso di due residenze online, di personalizzare un ambiente in maniera totalmente libera. Mettendo in discussione le dinamiche speculative legate al Web 3.0, la fondazione ha poi deciso di utilizzare la blockchain –Polygon, una delle più ecologiche in termini di consumo energetico – esclusivamente per sostenere gli artisti coinvolti e alimentare l’economia dell’ambiente virtuale. Ogni stanza viene assegnata tramite uno smart contract e poi messa in vendita sulla piattaforma OpenSea. Chi decide di acquistarla, si conquista anche il diritto di continuare a disegnare, contribuendo al processo di worldbuilding. L’iniziativa, che è stata presentata anche nello spazio fisico di Marséll Paradise a Milano alla fine di febbraio 2024 in occasione della sesta edizione di The Wrong Biennale, continuerà con altre mostre ed eventi, con l’obiettivo di dipingere tutte le 7225 stanze a disposizione.

superinternet.world

L’ARTE DELLA FOTOGRAFIA IN-GAME

3992 immagini per un totale di 5.1 Gigabyte. Sono i numeri della Alternative Videogame screenshot exhibition, una mostra online curata da Robert What che raccoglie fotografie realizzate all’interno dei videogiochi. Nella sconfinata collezione si possono trovare scatti di ogni genere, con una predilezione per l’assurdo, il glitch e l’inaspettato.

robert-what.itch.io/alternative-videogame-screenshot-art-exhibit

DOOM GIRA SU TUTTO

Il videogame Doom, lanciato dalla id Software nel 1993, è uno degli esempi più influenti del genere sparatutto in prima persona, oltre che uno dei giochi più amati al mondo. Negli ultimi anni è diventato protagonista di una sfida tra appassionati di tutto il mondo, che si divertono a farlo girare sui dispositivi più impensati: dalle macchine fotografiche ai forni a microonde, passando per le sigarette elettroniche e i termostati.

IL CINEMA IN ASCII

L’ultima trovata del collettivo artistico MSCHF, famoso per le sue azioni ironiche e vagamente situazioniste, si chiama Ascii Theater ed è un sito web in cui si possono vedere film in streaming senza pagare alcun abbonamento. Le immagini però sono tutto meno che ad alta risoluzione; i film sono tradotti in codice Ascii e visibili tramite la app terminale del proprio computer. Un progetto che ricorda molto da vicino l’Ascii Cinema del pioniere della net.art Vuk Ćosić, messo online per la prima volta nella seconda metà degli Anni Novanta.

ascii.theater

SUPERINTERNET.WORLD:
L’ANTI-METAVERSO
reddit.com/r/itrunsdoom

VIDEO D’ARTISTA PER KANYE WEST

Atmosfere cupe, immagini surreali e scenari apocalittici caratterizzano il video che l’artista canadese Jon Rafman ha realizzato per Kanye West in occasione del lancio del suo nuovo album con Ty Dolla $ign, intitolato Vultures. Pubblicato su Instagram e YouTube come “teaser” per il disco, è stato realizzato utilizzando programmi di intelligenza artificiale generativa.

@kanyewest

L’AVANGUARDIA È POST

Si può essere così all’avanguardia da finire direttamente nel futuro? È questa la bizzarra trama del cortometraggio

POSTPOSTPOST, pubblicato sulla piattaforma dis.art e prodotto da Al Hassan Elwan, fondatore dell’omonima pubblicazione. L’obiettivo di questo nuovo movimento artistico è quello di provare a rispondere alla difficile domanda: “Che cos’è l’avanguardia in un’epoca in cui il presente è collassato?”

dis.art/postpostpost

CHATGPT E LA POESIA

Lo sviluppatore britannico Matt Webb ha lanciato una campagna sulla piattaforma di crowdfunding Kickstarter per realizzare un orologio chiamato Poem/1. Si tratta di un display elettronico che indica l’ora corrente utilizzando l’intelligenza artificiale di ChatGPT e la poesia in rima. Le poesie sono molto evocative e spesso divertenti, ma stando alle dichiarazioni dell’autore, pare che l’AI menta sull’ora oppure inventi delle parole per far funzionare meglio le rime.

kickstarter.com/projects/genmon/poem-1-the-ai-poetry-clock

ASPETTATIVE E RISULTATI

La storia del terribile parco divertimenti di Glasgow dedicato a Willy Wonka ha fatto il giro del mondo nelle scorse settimane. La distanza abissale tra le aspettative e il risultato ha scioccato non soltanto gli sfortunati avventori, ma anche gli utenti di Internet di tutte le latitudini. Un caso di fail così spettacolare da far concorrenza al famigerato restauro dell’Ecce Homo di Borja, risalente all’ormai lontano 2012. Ma c’è anche chi l’ha amato, come dimostra non solo la valanga di meme prodotti, ma anche il lancio di una petizione per riaprirlo.

change.org/p/reopen-the-beloved-glasgow-willy-wonka-experience

ENTROPOPHONE

Nell’opera Entropophone. La qualité de l’air, l’artista Filipe Villas-Boas ha trasformato le immagini video di una telecamera di sorveglianza – installata sulla tangenziale di Lione – in una partitura musicale, utilizzando un software di analisi dell’immagine. Ogni macchina che passa viene letta dal sistema come se fosse una nota e trasformata in suono, ottenendo una composizione affascinante e ipnotica.

filipevilasboas.com/Entropophone

UBUWEB SI FERMA

Dopo ben 27 anni di attività, UbuWeb si ferma. Lo annuncia il fondatore – l’artista e poeta americano Kenneth Goldsmith – con una sintetica comunicazione sulla home page. Fondato nel 1996, il sito rappresenta la fonte primaria per chiunque si occupi d’arte d’avanguardia, grazie al suo vastissimo archivio di film, video, testi e registrazioni sonore di ogni epoca e stile. Anche se non sarà più aggiornato, il sito resterà online “per sempre, nella sua interezza”, come recita l’annuncio.

ubu.com

WINDOW a cura di VALENTINA TANNI
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AVANGUARDIA E MECENATISMO

LO CHANEL CULTURE FUND CELEBRA

IL TALENTO DI JULIEN CREUZET ALLA BIENNALE DI VENEZIA

Julien Creuzet, artista dall’espressività caleidoscopica e dalle opere metamorfiche, incarna l’essenza artistica francese e presenta l’opera dal titolo suggestivo e lirico, Attila cataratta la tua sorgente ai piedi dei pitoni verdi finirà nel grande mare gorgo blu noi ci annegammo nelle lacrime maree della luna, una narrazione visiva carica di significati e simbolismi culturali.

Creuzet, nato nel 1986, di ascendenza franco-caraibica, tessendo la sua pratica artistica con fili di poesia, musica, scultura e variegate forme di espressione, indaga le complesse maglie delle connessioni postcoloniali e la ricchezza delle dimensioni temporali. Il suo percorso si distingue per la deliberata evasione dalle narrazioni omologate e dal riduzionismo culturale, ergendosi a testimonianza palpabile di storia, tecnologia e identità personale.

La direzione curatoriale di Céline Kopp e Cindy Sissokho trasforma il Padiglione in un microcosmo che

Nell’ambito della 60ª Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, il Padiglione francese diventa epicentro dell’arte contemporanea, esaltato dal mecenatismo dello CHANEL Culture Fund.

L’ARTISTA JULIEN CREUZET

“Cosa significa indigeno quando sei francese? Qual è il significato del Padiglione francese a Venezia e della rappresentanza nazionale? Come si interpreta il tutto quando vieni definito cittadino “d’oltremare”, qualcuno consapevole di essere parte di una storia francese molto più complessa? Penso che bisognerebbe provare a enfatizzarlo. È importante trasportare fisicamente e simbolicamente le persone in una realtà che per lo più ha poco a che fare con la questione delle istituzioni e delle politiche culturali. Probabilmente non è realistico, ma potrebbe contribuire a cambiare alcune prospettive in futuro”.

specchia le concezioni artistiche di Creuzet: uno spazio dinamico di interscambio e dialogo, un punto d’incontro tra la tangibile realtà veneziana e l’universo poetico del creatore.

Eva Nguyen Binh, Presidente dell’l’Institut français, descrive il Padiglione francese come un luogo di prominente visibilità, un ambiente in cui le creazioni di Creuzet stimolano il pubblico a uno sguardo decentrato, immergendosi nel dinamismo delle opere che si fondono con le acque di Venezia.

Julien Creuzet, «Oh téléphone, oracle noir (...)» , vue de l’exposition au Magasin CNAC, Grenoble, 17 novembre 2023 au 26 mai 2024. © Magasin CNAC, Courtesy de l’artiste. Photo: Aurélien Mole

A PROPOSITO DI CHANEL CULTURE FUND

Perpetuando un’eredità secolare di dedizione alle arti, lo CHANEL Culture Fund è catalizzatore di una rete dinamica di artisti e pensatori avanguardisti, impegnati nel modellare il panorama culturale globale.

Le iniziative cardine del fondo comprendono i “CHANEL Art Partners”, collaborazioni con istituzioni di spicco, le cui guide visionarie ambiscono a concretizzare progetti pionieristici di lungo periodo che imprimono una traccia indelebile nel tessuto culturale contemporaneo.

Lo “CHANEL Next Prize” si configura come un riconoscimento degli artisti più promettenti, fornendo loro sostegno e mentorship per il conseguimento dei loro aspirati traguardi futuri. Attraverso il podcast “CHANEL Connects”, voci influenti da svariati ambiti disciplinari, generazionali e geografici convergono nell’esplorazione di tematiche di stringente attualità, delineando nuove frontiere del discorso culturale.

Lo CHANEL Culture Fund incoraggia e sostiene la temerarietà creativa quale propulsore verso un avvenire di innovazione e progresso: dai curatori in ascesa del MCA di Chicago ai più illustri ambientalisti del Leeum Museum of Art di Seoul, passando per gli artisti che ridefiniscono i canoni presso la Biennale di Venezia fino a giungere ai più eccelsi cineasti affiliati al British Film Institute.

IL PADIGLIONE FRANCESE

DI JULIEN CREUZET

Contrapponendosi alle tradizionali convenzioni espositive, Creuzet conferisce ai titoli delle sue opere un carattere lirico, che invita a un’interpretazione personale e a una profonda esperienza sensoriale. L’indagine dell’artista sull’essenza del “centro” e sul ruolo della rappresentanza nazionale nel panorama artistico veneziano illumina la complessità di un retaggio francese che è al contempo intimo e sfaccettato. In questo senso, il Padiglione si propone come un foro utopico dedicato alla riflessione e al rinnovamento delle prospettive. L’esposizione (orientata intorno a una replica della Fontaine de l’Observatoire che si trova nel Jardin du Luxembourg a Parigi) si manifesta come un centro polisensoriale che conta oltre ottanta sculture di sei distinte tipologie, sei videoinstallazioni, sette composizioni musicali e una componente olfattiva, ciascuna contribuendo alla stratificata esperienza proposta.

All’esterno delle pareti, Creuzet persegue l’indagine sull’oralità, un elemento chiave del suo percorso artistico. Dalla Martinica, terra d’origine del suo progetto, sino a Venezia, questa tradizione diventa veicolo di condivisione culturale. Un “sonic reader”, arricchito da un corpus di oltre settanta tracce audio, si affianca alla pubblicazione di un libro d’artista, il quale include una serie di collage e testi letterari inediti, frutto di una prestigiosa collaborazione tra Beaux-Arts de Paris éditions e l’Institut français.

La partecipazione nazionale francese alla 60ª Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia si rivela, quindi, non solo una finestra sull’arte francese contemporanea, ma anche una piattaforma di dialogo interculturale, orchestrata dall’Institut français con il sostegno del Ministero dell’Europa e degli Affari Esteri, del Ministero della Cultura, della Fondazione LUMA, nonché dal supporto significativo dello CHANEL Culture Fund.

Parigi Envisioning New Futures con il Centre Georges Pompidou

Alcuni dei progetti

CHANEL Culture Found

Londra Reframing Narratives con la National Portrait Gallery

Chicago Elevating Underrepresented Voices con il Museum of Contemporary Art

Shanghai Exploring Craft and Architecture with la Power Station of Art

Seoul Fostering Global Dialogue con il Leeum Museum of Art

YANA PEEL, GLOBAL HEAD OF ARTS & CULTURE DI CHANEL DAL 2020

“CHANEL Culture Fund è onorato di fornire un supporto eccezionale a Julien Creuzet e alla sua presentazione nel Padiglione francese. Creuzet è un ispiratore: artista multidisciplinare, docente, è la prima persona di origine caraibica a rappresentare la Francia alla Biennale di Venezia.

Grazie alle conversazioni istruttive intercorse con Julien, entrare per la prima volta nel Padiglione francese sarà un momento meraviglioso. Julien è esperto di poesia, musica, film e animazione. È un prodigioso assemblatore di ready made e possiede una capacità intuitiva di intrecciare molte eredità culturali diverse. La sua arte è ispirata dalle sue conoscenze maturate come docente d’arte presso l’Ecole des Beaux-Arts de Paris. Ma è anche alimentata dalla sua volontà di viaggiare il mondo, per assimilare tutto ciò che vede. Oggetti trovati sulla battigia portati a riva dalla marea oceanica possono essere esposti a fianco dell’opera di un vecchio maestro. È audace ed emozionante, è una figura ispiratrice dell’arte contemporanea.  Per più di un secolo, CHANEL ha sostenuto l’eccellenza nell’arte e nella cultura con uno spirito di curiosità, generosità e abbracciando l’avanguardia. CHANEL Culture Fund è impegnato a favore di artisti come Creuzet, creatori e produttori che oggi promuovono la cultura”.

FOCUS CHANEL CULTURE FUND
CALIENDO
ALESSIA
77 45
Yana Peel

FRIEDA TORANZO JAEGER: DISOBBEDIRE ALLA PITTURA

Alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, a cura di Adriano Pedrosa, Frieda Toranzo Jaeger presenta un’ampia installazione composta da 20 tele che si estendono per oltre 15 metri di lunghezza e 4 metri di altezza.

Il lavoro si intreccia con l’eredità di muralisti messicani come Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros, rinvigorendo le loro influenze e intrecciandole ad un immaginario distintivo, ovvero ad una pratica artistica caratterizzata da un femminismo palese e da una libertà queer che mira ad aprire uno spazio che guardi oltre l’attuale confinamento della società all’interno delle strutture capitaliste, coloniali e di sfruttamento che l’hanno modellata. Spesso riformulandole visivamente per sostenere il pensiero radicale, il progresso sociale e una rinnovata connessione con la natura.

Non a caso una sola lettera distingue il suo nome da quello di un’icona della storia dell’arte, messicana come lei: Frida Khalo. Ma Frieda Toranzo Jaeger, a differenza di chi l’ha preceduta, osserva con occhio ben attento i rapporti di potere che si instaurano tra maschile e femminile. Non si lascia sopraffare e, a volte, annientare dal sentimento. Al contrario, nella produzione artistica di Toranzo Jaeger domina un’attenta critica alle rappresentazioni della femminilità e della mascolinità nella cultura visiva del tardo capitalismo e soprattutto ai simboli stereotipati di quest’ultimo. Nata a Città del Messico nel 1988, Toranzo Jaeger esplora il mezzo pittorico criticandolo dall’interno e facendolo letteralmente collassare a causa del peso del paradosso artistico per eccellenza: ovvero lo stretto legame tra Occidente e mondo dell’arte. La storia della figurazione è spesso la narrazione di una parte del mondo conosciuto e solo di recente si sta cercando, senza troppo sforzo, di proporre delle visioni alternative. Così, avendo ben in mente questo obiettivo, l’artista ha iniziato a trafiggere le tele con la tecnica del ricamo, profondamente legata alle tradizioni della sua terra d’origine. Una sorta di atto di “disobbedienza epistemologica contro la pittura” che suggerisce come la storia in generale sia un costrutto escogitato da coloro che detengono il potere.

NECROLOGY

RICHARD SERRA

(2 NOVEMBRE 1938 - 26 MARZO 2024)

L GIULIANO VANGI

(13 MARZO 1931 - 26 MARZO 2024)

L DIANA MANSUTTI (25 MARZO 2024)

L MAURIZIO POLLINI

(5 gennaio 1942 – 23 marzo 2024)

L ORIO VERGANI

(31 maggio 1974 – 22 marzo 2024)

L GAIL COCHRANE

(30 dicembre 1952 – 22 marzo 2024)

L FRÉDÉRIC MITTERAND (1947 – 21 marzo 2024)

L MARCELLO GANDINI

(26 agosto 1938 – 13 marzo 2024)

L VALENTINA BERARDINONE (14 febbraio 1929 – 10 marzo 2024)

L IRIS APFEL

(29 agosto 1921 – 1 marzo 2024)

L AKIRA TORIYAMA

Un altro concetto fondamentale della sua pratica artistica è quello di “autonomia”: una nozione centrale anche della teoria postcoloniale. La pittura si libera così del rapporto biunivoco con la parete di fondo per occupare uno spazio molto più ampio, esplorando altre dimensioni e avvicinandosi alla scultura. Le strutture di tele ideate da Frieda Toranzo Jaeger assumono curiosamente una forma che le fa assomigliare a degli autoveicoli: un’allegoria per parlare di corpi non conformi e per dimostrare come, a volte, ciò che sembra incarnare un’idea di libertà e movimento si trasformi in un ennesimo mezzo di costrizione, similmente a quando ci si trova chiusi all’interno di un abitacolo. Le automobili diventano perciò delle metafore per raccontare l’esperienza di “persone queer, uomini e donne di colore in un sistema che non si augura il meglio per noi”. È a questo punto che entra in gioco lo spettatore: girando intorno alle conformazioni pittoriche esposte, sedendosi al loro interno acquisisce una sorta di controllo che gli permette di esternare le sensazioni vissute senza narrazioni imposte dall’esterno: liberamente. Nonostante il costante lavoro di costruzione di utopie queer non si considera un’attivista: intende la pittura come strumento per analizzare lo sguardo maschile e la sottorappresentazione delle donne, ribadendo quanto sia necessario per l’umanità nel suo complesso ripensare la storia e decolonizzare l’immaginazione, le idee e soprattutto i sentimenti. E quest’ultimo punto è forse il più difficile.

ELISABETTA

RONCATI

Frieda Toranzo Jaeger, Hope

The Air Conditioning Is On While Facing Global Warming (part I) , 2017. Courtesy the artist; Arcadia Missa, London; Reena Spaulings Fine Art, New York and Los Angeles; and Galerie Barbara Weiss, Berlin

(5 aprile 1955 – 1 marzo 2024)

L ENNIO CALABRIA

(7 marzo 1937 – 1 marzo 2024)

L PAOLO TAVIANI

(8 novembre 1931 – 29 febbraio 2024)

L ERNESTO ASSANTE

(12 febbraio 1958 – 26 febbraio 2024)

L LUCIA SPADANO (22 febbraio 2024)

L STEVE PAXTON

(21 gennaio 1939 – 21 febbraio 2024)

L GÜNTER BRUS

(27 settembre 1938 – 10 febbraio 2024)

L ALFREDO CASTELLI

(26 giugno 1947 – 7 febbraio 2024)

L ANTONIO PAOLUCCI

(29 settembre 1939 – 4 febbraio 2024)

L SANDRA MILO

(11 marzo 1933 – 29 gennaio 2024)

L GIULIANO GORI

(1930 – 25 gennaio 2024)

QUEERSPECTIVES

Il programma 2024 della Biblioteca degli Alberi di Milano

LIVIA MONTAGNOLI L Come ogni anno, la Fondazione Riccardo Catella rinnova il palinsesto di eventi gratuiti che animerà il parco all’ombra dei grattacieli di Portanuova. Oltre 300 gli appuntamenti in programma fino alla fine del 2024. Tra gli highlight:

fino al 21 aprile, l’installazione esperienziale Mandala

Lab sarà allestita sui prati di BAM, ospitando attività culturali ed educative

dal 24 al 26 maggio, appuntamento con il BAM Circus –Il Festival delle Meraviglie del Parco, con una serie di spettacoli fuori scala

ogni prima domenica del mese, i BAM Community Day rappresentano la novità di questa edizione, e si concentrano sulla tutela e la cura dell’ambiente

a inizio ottobre torna il BAM Open Air Design, con installazioni site-specific

Riapre a Roma l’affascinante Museo Mario Praz

CATERINA ANGELUCCI L Ha riaperto a Roma dopo i restauri il museo dedicato all’anglista Mario Praz. La casa-museo presenta oltre 1200 pezzi, tra dipinti, sculture e arredi databili tra la fine del Settecento e la prima metà del XIX secolo che il critico collezionò in oltre sessant’anni: mobili inglesi, bronzi francesi, malachiti russe, cristalli boemi, porcellane tedesche e numerosi ritratti di famiglie regnanti (come i Borbone e i Bonaparte). Lo Stato acquistò dagli eredi l’immobile a pochi passi da Piazza Navona alla fine degli Anni Ottanta, aprendo il museo nel 1995. Oggi, grazie all’intervento della Direzione generale Musei del Ministero della Cultura guidata da Massimo Osanna, ha riaperto le porte un prezioso tassello del nostro patrimonio culturale. “Grazie ai restauri – coordinati dalla direttrice Francesca Condò, insieme alla restauratrice Silvana Costa –, alle nuove assegnazioni di personale dedicato e agli ulteriori finanziamenti stanziati, questa casa-museo si candida a meta imprescindibile nei percorsi di visita di Roma”, dichiara Osanna.

L’Aquila è la Capitale italiana della Cultura 2026

LIVIA MONTAGNOLI L Il capoluogo abruzzese si aggiudica il titolo, assegnato dalla giuria presieduta da Davide Maria Desario, con un progetto incentrato sulla “città multiverso”, fondato sui cinque cardini della multiculturalità, multidisciplinarità, multitemporalità, multiriproducibilità e multinaturalità. Ecco perché:

puntando sulla cultura, si recupera l’identità, intesa come volano per la crescita e come elemento fondante di una comunità

il palinsesto degli eventi e delle iniziative si svilupperà per l’intero anno e coprirà tutto il panorama delle espressioni artistiche e culturali, cinema, teatro, musica e arti visive

i giovani non saranno solo fruitori del progetto, diventandone attori

tra i principi fondanti si privilegia l’integrazione tra pubblico e privato

il progetto coinvolgerà inoltre un numero rilevante di realtà, creando un forte collante con i territori circostanti il budget previsto è coerente con gli obiettivi

ART MUSIC

PERI FIUSEOS DI LORENZO MINOZZI: UN DISCO TRA FILOSOFIA E MUSICA AMBIENT

é un incontro tra viaggio metaforico e reale il concept dei brani che compongono il Peri Fiuseos, EP d’esordio di Lorenzo Minozzi: il titolo è, infatti, un riferimento all’opera filosofica di Parmenide, Sulla natura, dove si narra il lento avvicinarsi del filosofo verso la conoscenza dell’essere. Un percorso che questo producer di Roma – classe 1997, cresciuto artisticamente negli USA ma attivo da diversi anni come produttore e arrangiatore per Warner Music, su progetti italiani e internazionali (IlTre, Kidult, All In 5) e come sound artist per istituzioni museali (Museo del Novecento di Firenze) e gallerie d’arte contemporanea (Soho House e Cosmo di Roma) – ha fatto in prima persona. Il disco nasce da un viaggio compiuto attraverso il Nord Europa, da Skjolden, villaggio che sorge lungo i fiordi norvegesi, a Brunico. Al suo fianco un registratore portatile, grazie al quale boschi, fiumi, fiordi e strade di paese sono diventati il materiale da campionare per la produzione dei cinque pezzi che hanno ispirato l’artista visivo Marco Celentani. “Con Marco abbiamo un rapporto di amicizia di molti anni in cui abbiamo lentamente avvicinato i nostri interessi (musica e pittura) fino a farli incontrare per questo progetto”, racconta Minozzi ad Artribune. “Negli ultimi due anni abbiamo passato diverso tempo in una casa sull’Appennino abruzzese, dove io potevo concentrarmi sulla produzione dei miei lavori e Marco sullo studio della pittura. In questi mesi sono nati i brani che compongono il Peri Fiuseos. Ci siamo aiutati l’un l’altro nella scoperta delle nostre discipline, e alla fine del processo di scrittura abbiamo deciso di associare ad ogni brano un’opera”. Le opere di Celentani, fondatore del progetto curatoriale Orma, sono realizzate con inchiostro su carta tradizionale giapponese e fanno da copertine ai brani del disco, incarnandone l’essenza musicale. “Le forme dei quadri sono per me la più interessante rappresentazione visiva delle forme sonore che andavo cercando in quel periodo”. Una ricerca di suoni naturali tradotti in un lavoro che musicalmente viaggia tra ambient, soundscapes ed elettronica glitch/IDM e che si è inserito anche in un contesto di arte contemporanea: il 21 marzo alla Tevere Art Gallery di Roma, in occasione della presentazione live del disco, le opere di Celentani sono state esposte in una mostra dedicata.

Iamnot_lorenzo

CLAUDIA

NEWS
GIRAUD
Lorenzo MinozziPeri Fiuseos
→ → → → → → → → 77 47 a cura di DESIRÉE MAIDA

OPERA SEXY

Ci sono tre diverse referenze geografiche alla base del lavoro dell’artista statunitense Sarah Slappey, a suo stesso dire. La prima è il South Carolina dove è nata nel 1984, caldo Stato del Sud, dove i ruoli sessuali sono tuttora piuttosto ben distinti, e dove lei è cresciuta con le sorelle sotto la forte influenza della madre sarta, che tendeva a vestire le figlie di sete rosa e a infiocchettare loro i capelli. La seconda è New York City, dove la giovane si è trasferita al termine dei suoi studi artistici e dove ha trovato un ambiente sociale e un’atmosfera culturale molto differenti da ciò che già conosceva, anche una sessualità più libera che le ha istigato molti momenti di riflessione sulla propria educazione e sul rapporto con il proprio corpo. La terza è l’Europa, e in particolare l’Italia, dove ha avuto modo di viaggiare e risiedere per un certo periodo e dove ha scoperto, in particolare tramite la cultura figurativa religiosa tradizionale, un atteggiamento diciamo più “sanguigno” verso la materia corporale, dal punto di vista estetico ma anche da quello simbolico-contenutistico. Di fatto, sono queste le radici più essenziali della sua espressività, che hanno dato origine a un’arte molto femminile ma anche molto surreale, in una rutilante miscela sexy che risulta da un lato leggera e divertente e dall’altro inquietante e provocatoria. Ogni suo disegno, ogni suo dipinto combina al proprio interno una ridda di membra – braccia, gambe, soprattutto piedi e mani, ma senza dimenticare tonde natiche e seni gonfi –che giocano intersecandosi assurdamente tra loro, in un vorticoso agghindamento di nastri, fiocchi, collane di perle, fili del telefono, ma pure spille da balia, pastiglie medicinali, gocce di latte sgorganti da capezzoli turgidi, il tutto costretto in ambienti appena intuibili: interni di docce piastrellate, tappezzate camerette di adolescenti. Perché questo universo così deviante? Lei risponde: “Ci penso spesso. Vorrei che le persone provino un senso di gioia, dolore e vergogna. Vorrei che le donne si sentano comprese dagli uomini, credo, in modo da poter stare davanti a uno di questi quadri e pensare: ‘Sì, conosco questa sensazione, anche se non sono mai stata capace di esprimerla a parole’; ma voglio che altre persone, e soprattutto gli uomini, guardino tutto ciò per capire qualcosa. Anche se nemmeno io stessa saprei dire cosa sia questo qualcosa”. Mettiamoci alla prova tutti, chissà mai...

sarahslappey.com

È TEMPO DI CAMBIARE PER MOLTI MUSEI ITALIANI: GLI OBIETTIVI DEI NUOVI DIRETTORI

Livia Montagnoli L Il 2024 ha visto insediarsi al posto di comando di importanti musei nazionali nuove personalità pronte a impegnarsi per assicurare un futuro all’insegna dell’innovazione e dell’accessibilità agli istituti che ora dirigono. Cosa dobbiamo aspettarci, da Milano a Taranto, passando per Genova e Firenze

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Costantino D’Orazio alla Galleria Nazionale d’Umbria: “coinvolgimento” è una delle parole chiave – insieme a “ricerca” e “accessibilità” –che contraddistinguono la visione del neonominato direttore del museo umbro, dai focus sull’arte del Novecento alla valorizzazione dell’arte contemporanea, al nuovo profilo TikTok.

Simone Verde agli Uffizi di Firenze: sempre più aperti e smart sono gli Uffizi immaginati dal neodirettore, che prevede l’apertura nelle ore serali, l’introduzione del biglietto digitale e l’attesa riapertura del Corridoio Vasariano.

Ilaria Bonacossa a Palazzo Ducale di Genova: attenzione al contemporaneo e al digitale, accessibilità e ricerca tra le priorità di Bonacossa. Oltre a due grandi mostre per il 2024: la collettiva Nostalgia e il focus su Berthe Morisot.

Serena Bertolucci all’M9 di Mestre: impegno sul territorio locale e posizionamento in ambito nazionale sono i due binari complementari su cui si concentra l’azione della neodirettrice per valorizzare il ruolo del museo sulla storia del Novecento.

Angelo Crespi alla Pinacoteca di Brera di Milano: si concentra sulla prossima apertura del rinnovato Palazzo Citterio, per concretizzare il sogno della Grande Brera, il mandato del neodirettore, che per sostenere il progetto punta a coinvolgere una rete di imprenditori privati.

Martina Bagnoli all’Accademia Carrara di Bergamo: stringere il rapporto con Bergamo, concludere i lavori sugli esterni dell’edificio, curare i rapporti con le istituzioni culturali di tutto il mondo. Ambizioso il programma per il futuro dell’istituzione bergamasca.

Stella Falzone al Museo Archeologico di Taranto: la neodirettrice progetta un museo che sia inclusivo, si ponga sempre più come punto di riferimento per la ricerca in ambito internazionale e che comunichi con i giovani e la città.

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Stefano Raimondi al MAC di Lissone: al dialogo diretto e indiretto tra la collezione e le opere di artisti emergenti italiani, il neodirettore accosta l’impegno per rivoluzionare il Premio Lissone.

FERRUCCIO GIROMINI
Sarah Slappey, Blue Cloud and String , 2020, oil on canvas

Competenze digitali per il patrimonio culturale Scopri l'offerta formativa

INNOVATIVA GRATUITA CERTIFICATA
DICOLAB.IT Dicolab. Cultura al digitale è promosso dal Ministero della Cultura – Digital Library nell’ambito del PNRR Cultura 4.0, è realizzato dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali e finanziato dall’Unione europea – Next Generation EU.

COME STA IL MERCATO DELL’ARTE?

Lo abbiamo chiesto a due dei suoi massimi esperti, la fondatrice di Arts Economics, Clare McAndrew, e il CEO del gigante Art Basel, Noah Horowitz, in occasione della pubblicazione dell’Art Basel and UBS Global Art Market Report 2024.

L’Art Market Report 2024 evidenzia un decremento delle vendite nel 2023 del 4%, per un totale stimato di $65 miliardi, mentre il numero delle transazioni è in crescita. Qual è lo stato di salute del mercato dell’arte?

Clare McAndrew: Il 2023 ha segnato un rallentamento nel mercato, ma dopo due anni davvero resilienti di crescita e recupero dalla pandemia, con l’arrivo alle sue vette più alte di sempre nel 2022. Quindi la flessione nel 2023 non è stata una contrazione severa, quanto un assestamento della fascia più alta del mercato, che nel 2022 aveva guidato la crescita, mentre nel 2023 si è assottigliata e sono cresciute i segmenti di prezzo inferiori.

Del 2023 si è detto che è stato un momento di “correzioni”, sarà questa la tendenza anche nel 2024?

Clare McAndrew: Non sono così certa che il 2023 sia stato una correzione, credo si sia trattato solo di un rallentamento del segmento apicale, dovuto anche alla riluttanza dei venditori a offrire opere più

costose in un momento di incertezza economica e politica. Questo forse continuerà ad accadere anche nel 2024; il sentimento che mi pare diffuso è di un “cauto ottimismo”, ma nessuno può sapere davvero cosa accadrà.

In attesa dell’apertura della Biennale Arte 2024 a Venezia, quale relazione tracceresti con il mercato e questo evento?

Noah Horowitz: La 60. Esposizione Internazionale d’Arte tornerà di certo a offrire fondamenta essenziali e opportunità per nuovi dialoghi cross-culturali e nuove scoperte. Il tema curatoriale di Adriano Pedrosa, Stranieri Ovunque, con il suo focus su artisti e artiste queer, outsider, indigeni e folk potrebbe lasciare un profondo impatto sul dibattito culturale globale e credo sia inevitabile che alcune nuove stelle nasceranno. La mia sensazione è che la Biennale evidenzierà ulteriormente l’importanza di artisti di origini latine e africane. L’inclusione di nuovi padiglioni nazionali per il Benin, l’Etiopia, la Tanzania, per esempio, ha tutta la potenzialità di elevare il profilo di quelle scene artistiche e di creare sentieri di maggiore visibilità, dialogo e supporto istituzionale.

Puoi leggere l’intervista completa sul sito di Artribune, seguendo il QR code qui sopra

Il valore delle vendite nel mercato globale secondo l’Art Basel and UBS Global Art Market Report 2024 Fonte: Arts Economics

Come faranno a sopravvivere le gallerie d’arte? A Torino la II edizione del Forum Italics

Si è tenuta a Torino il 19 marzo 2024 la seconda edizione del Forum Italics, il think-tank della rete istituzionale di gallerie di arte antica, moderna e contemporanea nato per favorire riflessioni e scambi sul sistema dell’arte. In collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e ospitato nei suoi spazi a Torino, l’appuntamento è stata occasione di riflessione sul ruolo delle gallerie come imprese culturali e sulle strategie di lobby da implementare – in uno scenario produttivo, fiscale e normativo in evoluzione – per sopravvivere in un mercato dell’arte globale sempre più complesso e competitivo.

In una collaborazione tra Italics e ANGAMC e alla vigilia di alcuni appuntamenti determinanti per le politiche fiscali sui beni artistici, la filiera del commercio prende un nuovo passo per favorire infrastrutture all’altezza e driver imprenditoriali e di sviluppo, scommettendo sulla revisione dell’aliquota e delle norme sulla circolazione dei beni, ma anche sulla responsabilità sociale per il comparto.

La nuova indagine sul collezionismo in Italia di Intesa Sanpaolo

È stato pubblicato Collezionisti e valore dell’arte in Italia – 2024, il terzo volume dei report prodotti da Intesa Sanpaolo Private Banking con la Direzione Arte, Cultura e Beni Storici e la Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo (Edizioni Gallerie d’Italia | Skira). Un nuovo contributo per comprendere le più rilevanti tendenze del collezionare e dello stato del mercato dell’arte in Italia. Con un focus particolare sul mercato del design (uno dei contributi è di chi scrive) e sulle opere vincolate dallo Stato, la ricerca si articola in cinque macro-capitoli: Il mercato internazionale e italiano 2023 e prospettive 2024; Il ritratto dei collezionisti italiani nel 2023; La valutazione dei beni dichiarati di interesse storico-artistico; Le nuove traiettorie del mercato: dall’arte decorativa al collectible design; Le collezioni di Intesa Sanpaolo, tra nuove acquisizioni ed esposizioni al pubblico.

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MERCATO a cura di CRISTINA MASTURZO
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MONTALTO DELLE MARCHE: IL BORGO DI PAPA SISTO V SI TRASFORMA CON LA CULTURA

Coniugare i vantaggi di un ecosistema metropolitano con la qualità della vita e il benessere che è propria dei borghi. È questa la sfida lanciata da Montalto delle Marche, il piccolo borgo in provincia di Ascoli Piceno che nell’ultimo anno ha dato il via a un ambizioso progetto di recupero e di valorizzazione – urbana, economica e sociale. Comune di circa duemila abitanti situato nella fascia collinare che va dalla costa adriatica alla catena dei monti Sibillini, la cittadina (da sempre legata al nome di Sisto V, il “papa tosto” che con i suoi interventi urbanistici stravolse il volto di Roma) è stata selezionata come borgo pilota della Regione Marche, nell’ambito dell’investimento “Attrattività dei Borghi” del MiC – linea di azione A del PNRR: un’occasione unica, che entro il 2026 promette di portare nell’area una radicale trasformazione. Il tutto all’insegna della cultura, elemento conduttore dell’intera iniziativa.

L’ambizione e gli aspetti tematici alla base del progetto vincitore sono espressi sin dal titolo: Metroborgo MontaltoLab. Presidato di Civiltà Future, una definizione che racchiude al suo interno la volontà di rimanere ancorati alle radici e alle peculiarità del passato locale (il termine “presidato” rappresenta un ampio territorio di cui Montalto era a capo al tempo del papa Peretti), traghettando tuttavia il borgo verso una dimensione per certi versi pionieristica e capace di rispondere a quelle che saranno le richieste del domani.

“Metroborgo intende essere un laboratorio in cui sperimentare insieme nuove strategie e modalità per rigenerare i borghi che rappresentano il 70% dei Comuni italiani e quasi 1/5 della popolazione del Paese”, dichiarano i responsabili del progetto, testimoniando la volontà di rendere il disegno di trasformazione un esempio replicabile anche su scala extra-territoriale. E non è un caso che ArtLab. Territori, Cultura, Innovazione (il più importante appuntamento indipendente italiano dedicato all’innovazione delle politiche, dei programmi e delle pratiche culturali) abbia scelto proprio Montalto delle Marche come sede ospite dei prossimi incontri – che si terranno in città l’11 e 12 aprile, convogliando nel borgo operatori pubblici e privati, istituzionali e indipendenti, per condividere analisi

UN BORGO VIVO E "CONDIVISO"

Rispetto ad altri borghi delle aree interne del centro Italia che mi è capitato di osservare e studiare, Montalto delle Marche mi è subito apparso come un borgo non comune. Un paese che, pur inserendosi in un contesto naturalistico e paesaggistico di straordinaria bellezza, non parla solo di ruralità, di silenzio, di convivialità, ma in cui emerge un forte tratto culturale legato alla grande storia, a quel Rinascimento italiano che ha visto la città distinguersi come baricentro politico, economico e relazionale. E proprio la densità storica e culturale, la vitalità relazionale e l’imprinting imprenditivo, così impressi nel DNA del luogo e della comunità, sono diventati materia viva del progetto e del concept del “Metroborgo”. Montalto è un borgo che vuole vivere la modernità, e non cristallizzarsi in stereotipi di borghi storici a uso e consumo del turista. Nella strategia di progetto elaborata, e condivisa con continue azioni partecipative, Montalto delle Marche diventa borgo vivo, animato, popolato, condiviso. E attraverso l’interconnessione pubblico-privato-terzo settore – incarnata da un sistema di partenariato solido e strutturato che mette insieme Istituti del Ministero, Università, Fondazioni bancarie, imprese sociali, aziende, associazioni culturali ed artistiche e compagnie di spettacolo – la comunità del luogo viene affiancata nel processo verso una nuova maturità, per cui diventa sempre più in grado di innovare, organizzarsi e autogestirsi per un rafforzato e duraturo benessere di territorio.

Montalto delle Marche. Photo: Francesca Tilio

MONTALTO DELLE MARCHE: HUB CIVICO, ARTISTICO E CULTURALE

In occasione del prossimo Art Lab. Territori, Cultura, Innovazione, in programma a Montalto delle Marche l’11 e il 12 aprile, abbiamo intervistato il sindaco Daniel Matricardi. Con il progetto Metroborgo MontaltoLab la sua città diventa un enorme hub artistico e culturale.

Con quale approccio avete affrontato la candidatura per l’ottenimento dei fondi PNRR, e quali sono state le principali sfide a livello politico e progettuale?

Avevamo già avviato uno studio per il rifunzionamento delle strutture danneggiate dal sisma 2016 e questo ci ha permesso di essere già sensibili rispetto al tema della rigenerazione urbana. Con il bando Borghi Linea A, abbiamo colto l’occasione per mettere a sistema tutte le azioni in un unico grande progetto. E fra le sfide che abbiamo affrontato al momento della stesura del piano, le principali sono state il fattore tempo, in quanto abbiamo lavorato in poco più di un mese, e l’alto livello di progettualità richiesto. Determinante è stata poi la si-

CANTIERI E SINERGIE

1. Torre Civica Camm. Centro archivi Montalto Marche

2. Spazio Pubblico Borgostory, installazioni artistiche

3. Ex Monastero Santa Chiara Le Clarisse: custodi della Cultura immateriale

4. Palazzo Paradisi Paradiso Cultura

5. Palazzo Comunale MUTeB. Museo del Territorio e della Civitlà del Borgo

6. Palazzo Sacconi Incubatore di sviluppo per il borgo

7. Palazzo Verdi Albergo nel Borgo

8. Ex Cantine Botteghe neo.artigiane

9. S. Agostino Spirito Teatro

nergia tra l’Amministrazione e gli uffici comunali che hanno accolto subito con entusiasmo questa sfida.

A che punto del percorso siete?

Siamo a un punto cruciale. Stiamo avviando o in parte concluso alcuni cantieri, come la Torre Civica, Palazzo Paradisi e la Chiesa di Sant’Agostino, e siamo alla fase progettuale di altri due importanti cantieri: Palazzo Sacconi e il Monastero di S. Chiara. Abbiamo poi avviato numerose azioni a sostegno del piano, coinvolgendo la comunità su diversi fronti, dalla scelta del logo di progetto alla partecipazione in occasione di residenze artistiche. Oltre all’avvio di attività artistico-culturali, dal cinema alla poesia, dalla fotografia al teatro.

Quali auspichi che possano essere le ricadute di Metroborgo MontaltoLab sul territorio?

Quello che auspico e per cui stiamo lavorando è la realizzazione del nostro “Metroborgo”. Un luogo in cui le oppor -

tunità delle grandi città possano essere concretizzate e realizzate anche in un piccolo Comune delle aree interne, come Montalto. Quindi penso a ricadute da un punto di vista occupazionale, residenziale e turistico, per attrarre anche tipologie di visitatori e abitanti che, fino a oggi, non avrebbero mai pensato di poter lavorare o vivere in un piccolo borgo.

La presenza di ArtLab a Montalto segna un ulteriore riconoscimento di questo progetto, che ha un’anima evidentemente “locale” ma che sposa delle linee guida di respiro nazionale. ArtLab rappresenta un’occasione importantissima, perché avremo modo di riflettere e confrontarci insieme agli altri 20 borghi della Linea A sulle criticità e potenzialità che progetti di questo tipo possono presentare. Lo immagino quindi come un primo importante passo per portare avanti un lavoro sinergico tra i Comuni e le altre istituzioni coinvolte, per lavorare al meglio in rete e attuare pienamente la filosofia della misura stessa.

IL “PAPA TOSTO” SISTO V

Perimetrazione Nucleo Storico Cantieri di Progetto Ambito Culturale Ambito Sociale Ambito Economico Sinergie

ed esperienze su come arte e cultura contribuiscono alla crescita sociale ed economica del nostro territorio.

Elementi centripeti di Metroborgo MontaltoLab sono i nove cantieri progettuali, che mirano a convertire altrettanti edifici storici, ormai in disuso e pesantemente compromessi dal sisma del 2016, in strutture catalizzatrici di nuove energie, connessioni, attività innovative e servizi d’eccellenza. Palazzo Paradisi, Palazzo Verdi, Palazzo Sacconi, il Palazzo Comunale, il Monastero di S. Chiara, la Chiesa di S. Agostino, la Torre Civica, le Ex Cantine e Borgostory (quest’ultimo cantiere di intervento sarà diffuso nel centro sto-

rico): sono questi i luoghi scelti per essere ripristinati nel loro splendore e all’interno dei quali saranno attivate funzioni su vari ambiti, tra cultura, teatro, ospitalità, archivi storici, ricerca e formazione, installazioni urbane, tutela e valorizzazione delle tradizioni e dell’enogastronomia del territorio, per diventare cuori pulsanti del nuovo ecosistema del “Metroborgo”. Il patrimonio storico, degradato e sottoutilizzato della città, diventa così il punto di partenza per una serie di azione rivolte al futuro, in grado di generare nuove soluzioni per rompere l’isolamento e la marginalità che spesso colpisce i borghi del nostro Paese.

C’è un papa che in soli cinque anni ha cambiato il volto di Roma, trasformandola in una delle capitali europee più all’avanguardia dal punto di vista urbanistico e architettonico. Parliamo di Sisto V, originario proprio di Montalto delle Marche, dove visse parte della sua esistenza. Sempre legato al borgo nonostante la distanza e l’incarico pontificio, Felice Peretti conferì a Montalto l’impronta di “Capitale del Presidato”, composto da 17 Comuni dall’Adriatico ai Sibillini. Con lui Montalto si fa borgo “moderno”, capace di diventare un baricentro politico, economico e relazionale.

L’ARCHITETTO GIUSEPPE SACCONI

Insieme a Sisto V, Giuseppe Sacconi è la seconda figura storica legata all’identità di Montalto delle Marche, e per questo centrale all’interno del progetto Metroborgo MontaltoLab. Nato nel borgo ascolano nel 1854, Sacconi fu restauratore e architetto, e vero protagonista della cultura artistica dell’Italia postunitaria.

A lui si deve la progettazione dell’Altare della Patria a Roma, ma anche l’ampliamento di Piazza Venezia. Il grande palazzo che porta il suo nome a Montalto sarà trasformato in una struttura polifunzionale con spazi multimediali, coworking e strutture dedicate a food e benessere.

FOCUS MONTALTO DELLE MARCHE
1 2 5 6 7 4 2 3 8 9 2 2
Montalto delle Marche
77 53
Ascoli Piceno Ancona
Mutative transitions into Organic Utopia ALJOSCHA 10.04.24—28.06.24 FORO BUONAPARTE 68, MILANO

DECOLONIZZARE IL PASSATO, IL PRESENTE E IL FUTURO.

INTERVISTA AD ADRIANO PEDROSA

Che Adriano Pedrosa (Rio de Janeiro, 1965) non veda l’ora di tagliare il nastro della sua Biennale Arte lo si capisce da quanto poco fermo riesce a stare sulla sedia mentre parliamo. Un’energia positiva e contagiosa quella del curatore brasiliano, direttore del MASP - Museu de Arte de São Paulo e direttore artistico della 60. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, in programma dal 20 aprile al 24 novembre 2024. L’abbiamo incontrato a Ca’ Giustinian, sede della Biennale affacciata su Canal Grande, per parlare della sua mostra Stranieri Ovunque.

Sei il primo curatore della Biennale Arte proveniente dal Sud America e dichiaratamente queer. Quali responsabilità emergono dall’incontro fra il tuo background e il ruolo che sei chiamato a ricoprire?

Dico spesso che questa nomina porta con sé tante responsabilità, soprattutto perché sono il primo curatore della Biennale Arte che vive e lavora nel Sud del mondo (non solo in Sud America). Prima di me c’è stato sicuramente il compianto Okwui Enwezor nel 2015, che è stato effettivamente il primo curatore del Sud del mondo, ma all’epoca lavorava a Monaco di Baviera. Ovviamente aveva le sue responsabilità e ha realizzato una splendida Biennale; è stato senza dubbio uno dei curatori più importanti del nostro tempo. Probabilmente sono il primo curatore di una Biennale Arte di Venezia ad aver fatto ricerca sul campo a Nairobi, Luanda, Asunción, e forse il primo a farsi guidare da considerazioni come “non ho ancora inserito artisti dell’Indonesia, del Ghana…”. Ho studiato molto attentamente questi luoghi, questa era la responsabilità che sentivo più importante, molto più che selezionare artisti dalla Spagna, dalla Germania o dalla Francia, anche se ho incluso artisti immigrati che vivono e lavorano in questi Paesi.

In che modo hai organizzato la ricerca degli artisti che saranno esposti in Biennale?

Viaggiando intensamente. Dall’inizio di questo progetto ho sentito la necessità di sviluppare la mia ricerca nel Sud del mondo, viaggiando tra Sud America, Africa, Medio Oriente, Sud-est asiatico. Nel 2011 sono stato co-curatore della Biennale di Istanbul, esperienza che mi ha dato l’opportunità di esplorare quell’angolo di mondo, il Medio Oriente e il mondo arabo; da allora ho sempre cercato di sviluppare la mia ricerca in diverse aree geografiche, ma naturalmente quando si riceve una nomina come questa si ha poco tempo.

Stranieri Ovunque è il controverso tema della 60. Biennale di Venezia: abbiamo ancora bisogno della retorica dello straniero per parlare di diversità? Lo abbiamo chiesto al curatore Adriano Pedrosa

Quanto tempo hai avuto per il tuo giro del pianeta? Meno di un anno. Si viene nominati a dicembre, forse lo sai a novembre, ma devi presentare la lista degli artisti partecipanti a ottobre dell’anno successivo. In undici mesi ho viaggiato moltissimo, ma è molto difficile esplorare luoghi per la prima volta e riuscire a farsi un’idea corretta del posto e del suo panorama artistico. Tra i Paesi che non avevo mai visitato e che ho avuto l’occasione di scoprire in quest’anno di lavoro ci sono la Repubblica Dominicana, il Guatemala, l’Angola, il Kenya e lo Zimbabwe; tuttavia ho avuto la fortuna di viaggiare spesso nella mia vita, per cui per lo più sono tornato in luoghi che già conoscevo, come Sudafrica, Paraguay, Singapore, Filippine, Turchia e molti altri.

Il titolo che hai scelto, “Stranieri Ovunque” cela la condizione universale di “stranieri” che ci unisce al di là dei confini nazionali e continentali, ma fa ovviamente riferimento a coloro che sono percepiti come tali dal sistema dell’arte occidentale, ovvero artisti provenienti da comunità o aree geografiche finora ritenute marginali. Pensi che la retorica dello “straniero” sia ancora necessaria per offrire una tale diversità? Non è forse giunto il momento che la Biennale si ponga come esempio di inclusione senza bisogno di “giustificazioni”? Penso che ci siano molti modi di realizzare una mostra e molte prospettive differenti per intenderla. Quella che hai indicato è sicuramente una prospettiva valida e interessante. Questa non è l’ultima né l’unica Biennale possibile. “Stranieri Ovunque” è un’espressione molto ricca e penso sia solo una traiettoria che ho ritenuto potesse essere interessante. Non sono nemmeno parole mie, ma del collettivo Claire Fontaine che a sua volta si è appropriato del nome di un

altro collettivo, attivo a Torino contro il razzismo e la xenofobia, trasformandole in sculture al neon in diverse lingue. Si tratta di un’espressione con molti livelli di significato: si può leggere come “ovunque tu vada ci sono stranieri e immigrati” ma anche come “ovunque tu vada sei sempre uno straniero”. Trovo che abbia una connotazione sia poetica che politica, e persino psicanalitica; in questo senso ho pensato che fosse un buon punto di partenza. Naturalmente non si limita solo agli stranieri, agli immigrati, ai rifugiati o agli espatriati. È una mostra molto ampia, ho pensato che forse sarebbe stato troppo ridondante concentrarsi solo sullo straniero in sé: per questo l’esposizione si allarga alle soggettività queer, indigene e outsider. Ho pensato che fosse pertinente, ma vedremo cosa ne penserà il pubblico quando la mostra sarà inaugurata!

Quest’anno ricorre il 50° anniversario della Biennale del 1974, dedicata al popolo cileno che nel 1973 ha subito il Golpe di Pinochet. Fu un’occasione per discutere di fascismo e libertà. In che modo la tua Biennale affronta l’ascesa (a livello globale) dei movimenti di estrema destra, che fanno dello straniero una chiave di volta per costruire una comunicazione populista?

Credo che questa Biennale si presenti come un’alternativa a questa narrazione, una riflessione diversa. Celebriamo lo straniero, la diversità, le comunità emarginate e sottorappresentate, e penso che questa idea potrebbe non essere così attraente per i movimenti di estrema destra; ma quello che pensano non è esattamente fra le mie priorità (ride).

Pensi che la Biennale, come istituzione, porti ancora con sé dei lasciti di stampo coloniale? Se sì quali?

Credo che siano in qualche modo inscritti nella storia stessa della Biennale e sarà difficile allontanarsene. Certamente il fatto che io sia il primo curatore che vive e lavora nel Sud del mondo è un passo avanti in questo senso, e credo che il presidente della Biennale

Roberto Cicutto abbia dimostrato grande attenzione, come rivela anche la sua scelta di Lesley Lokko come curatrice della scorsa Biennale di Architettura. Direi che la struttura stessa dei Giardini, dove ci sono per lo più padiglioni di Paesi occidentali, anche perché naturalmente è stata la sede delle prime edizioni della Biennale, esplicita bene questo residuo storico. Gli unici Paesi non occidentali ad avere un padiglione ai Giardini sono Egitto, Israele, Venezuela, Brasile e Uruguay. Ma credo che la Biennale, in particolare in questi anni di presidenza di Roberto Cicutto, stia cercando di aprirsi a nuove narrazioni (sia in termini di geografie che di parità di genere) dell’arte: se si guarda agli ultimi vent’anni c’è sempre stata un’attenzione nei confronti di curatori e curatrici non occidentali, rispetto a quanto succedeva negli anni Ottanta, Settanta e Sessanta, ancora molto ancorati a prospettive eurocentriche; ma la Biennale è un riflesso di quello che succede nell’intero sistema dell’arte, oggi come ieri. Tuttavia, non saprei come superare l’impasse strutturale e architettonica di cui abbiamo parlato.

“Stranieri Ovunque” con i suoi due nuclei espositivi – storico e contemporaneo – guarderà tanto al passato quanto al presente delle pratiche artistiche che si situano al di fuori del sistema occidentale. E riguardo al futuro?

CELEBRIAMO LO STRANIERO, LA DIVERSITÀ, LE COMUNITÀ EMARGINATE E SOTTORAPPRESENTATE, E PENSO CHE QUESTA IDEA POTREBBE NON ESSERE COSÌ ATTRAENTE PER I MOVIMENTI DI ESTREMA DESTRA

È una domanda che ci si pone spesso: può una mostra puntare verso il futuro o addirittura prevederlo? Purtroppo possiamo esporre solo opere già realizzate. Al massimo il futuro fa capolino in performance che verranno eseguite dopo l’apertura della mostra, e naturalmente ci sono anche opere che vengono realizzate appositamente in occasione della Biennale. Non provo mai a prevedere il futuro, ma dico spesso che spero che la mia mostra – o meglio – la nostra mostra, tanto per gli artisti contemporanei viventi quanto per quelli del XX secolo, possa indirizzare verso nuove comprensioni dell’arte e delle sue storie. Credo davvero che si possa imparare anche dalla propria mostra; posso avere tutti i piani, le checklist e le giustapposizioni, ma spero che l’incontro concreto tra le opere una accanto all’altra in una stanza sia rivelatore per me, per il mio team e soprattutto per le altre persone (artisti, curatori, critici, collezionisti, commercianti e il pubblico in generale), che potrebbero dispiegare diversi significati e intuizioni in grado di condurci al futuro. Ma il futuro tiene necessariamente in considerazione il passato, dato che stiamo parlando di rivedere una certa storia dell’arte. Si tratta di una nuova comprensione di un passato che è largamente ignorato, tranne forse in quei contesti geografici e culturali in cui si è svolto: ecco perché dico che il XX secolo e il modernismo nel Sud del mondo sono così contemporanei e rilevanti per il presente. Non so dove ci porteranno queste nuove prospettive; spero solo che possano essere un’occasione di apprendimento e apertura a nuovi modi di pensare l’arte.

ALBERTO VILLA

FOCUS BIENNALE DI VENEZIA
Adriano Pedrosa. Photo Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia
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LE MOSTRE E LE RASSEGNE DA NON PERDERE A VENEZIA

SANTA CROCE

20 aprile – 15 settembre

1 Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna

LO STILE Chiara Dynis

a cura di Alessandro Castiglioni, Chiara Squarcina, Elisabetta Barisoni

20 aprile – 15 settembre

1 Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna

ARMANDO TESTA

a cura di Gemma De Angelis Testa, Tim Marlow, Elisabetta Barisoni

CANNAREGIO

18 aprile – 24 novembre

2 Fondazione Wilmotte

LA MAISON DE LA LUNE BRÛLÉE Lee Bae

a cura di Valentina Buzzi

dal 20 aprile

3 Palazzo Diedo – Berggruen Arts & Culture

JANUS Urs Fischer, Piero Golia, Carsten Höller, Ibrahim Mahama, Mariko Mori, Sterling Ruby, Jim Shaw, Hiroshi Sugimoto, Aya Takano, Lee Ufan, Liu Wei

a cura di Mario Codognato e Adriana Rispoli

Padiglioni, eventi collaterali, spazi indipendenti, gallerie, musei: tutta la città è un fermento d’arte contemporanea e non. Abbiamo selezionato per voi gli appuntamenti più interessanti

ISOLA DI SAN SERVOLO

fino al 18 maggio

35 VIU – Venice International University, Isola di San Servolo

TRAVELLERS MIRROR CITIES Qiu Anxiong, Josè Angelino, Rä di Martino, Guo Fei, H.H. Lim, Matteo Nasini, Oliviero Rainaldi, Gabriele Silli, Fu Tong, Jin Wang, Yang Yongliang

1 2 4 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 18 17 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 NUOVO SPAZIO NUOVO SPAZIO NUOVO SPAZIO NUOVO SPAZIO 3

CASTELLO

20 aprile – 24 novembre

4 Arsenale e Giardini della Biennale

60. Esposizione Internazionale d’Arte

La Biennale di Venezia

STRANIERI OVUNQUE a cura di Adriano Pedrosa

17 aprile – 24 novembre

4 Arsenale

SELF PORTRAIT AS A COFFEE POT

William Kentridge

17 aprile – 24 novembre

5 Palazzo Grimani

THE ARC WITHIN THE ARC Rick Lowe

17 aprile – 30 giugno

5 Palazzo Grimani

I AM HYMNS OF THE NEW TEMPLES

Wael Shawky

17 aprile – 24 novembre

6 Complesso dell’Ospedaletto

NEBULA Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, Giorgio Andreotta Calò, Saodat Ismailova, Basir Mahmood, Cinthia Marcelle e Tiago Mata Machado, Diego Marcon, Ari

Benjamin Meyers, Christian Nyampeta by Fondazione In Between Art Film

19 aprile – 30 settembre

7 Chiesa di Santa Maria della Pietà

TRANSCENDENCE Wallace Chan a cura di James Putnam

fino al 13 ottobre

8 Ocean Space

RE-STOR(Y)ING OCEANIA

Latai Taumoepeau, Elisapeta Hinemoa Heta

a cura di Taloi Havini

GIUDECCA

14 aprile – 24 novembre

29 Le Stanze del Vetro

SAN MARCO

dal 6 aprile al 29 settembre

9 Palazzo Ducale

I MONDI DI MARCO POLO a cura di Giovanni Curatola e Chiara Squarcina

16 aprile – 16 giugno

10 Victoria Miro

SARAH SZE

16 aprile – 2 ottobre

11 Chiesa di San Fantin

NUMBER 207 Reza Aramesh a cura di Serubiri Moses

17 aprile – 22 settembre

12 Ateneo Veneto

LION OF GOD Walton Ford a cura di Udo Kittelmann

17 aprile – 24 novembre

13 Museo Correr

MUSEI DELLE LACRIME Francesco Vezzoli a cura di Donatien Grau

17 aprile – 24 novembre

14 Procuratie Vecchie

THE SWEET MYSTERY Robert Indiana a cura di Matthew Lyons

fino al 6 gennaio 2025

15 Palazzo Grassi

ENSEMBLE Julie Mehretu a cura di Caroline Bourgeois

SAN POLO

16 aprile – 16 giugno

16 Tommaso Calabro

HAROLD STEVENSON

20 aprile – 24 novembre

17 Fondazione Prada

MONTE DI PIETÀ Christoph Büchel

20 aprile – 24 novembre

18 Fondazione dell’Albero d’Oro, Palazzo Vendramin Grimani

PER NON PERDERE IL FILO Karine N’guyen

Van Tham, Parul Thacker a cura di Daniela Ferretti

1912-1930 IL VETRO DI MURANO

E LA BIENNALE DI VENEZIA a cura di Marino Barovier

17 aprile – 29 settembre

30 Fondazione Giorgio Cini

CLAIRE, GRASS AND WATER Alex Katz a cura di Luca Massimo Barbero

20 aprile – 24 novembre

31 Carcere femminile della Giudecca

CON I MIEI OCCHI - PADIGLIONE DELLA SANTA SEDE

Maurizio Cattelan, Corita Kent, Sonia Gomes, Claire Fontaine, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Tabouret, Marco Perego Zoe Saldana

a cura di Chiara Parisi, Bruno Racine

e con la collaborazione di Hans Ulrich Obrist

DORSODURO

dal 6 aprile al 23 giugno

19 Capsule Venice

HOVERING Morehshin Allahyari, Ivana Bašić, Leelee Chan, Nicki Cherry, Sarah Faux, Elizabeth Jaeger, Emiliano Maggi, Lucy McRae, Kemi Onabulé, Catalina Ouyang, Bryson Rand, Marta Roberti, Young-jun Tak a cura di Manuela Lietti

13 aprile – 16 settembre

20 Collezione Peggy Guggenheim

LA RIVINCITA DEL GIOCOLIERE Jean Cocteau a cura di Kenneth E. Silver

16 aprile – 27 luglio

21 Galleria Alberta Pane

FOLDING ROADS Luciana Lamothe

17 aprile – 9 giugno

22 Patricia Low

STRANGER THINGS Xenia Hausner

17 aprile – 15 settembre

23 Gallerie dell’Accademia

WILLEM DE KOONING E L’ITALIA a cura di Gary Garrels e Mario Codognato

17 aprile – 29 settembre

24 Ca’ Foscari Esposizioni

UZBEKISTAN: L’AVANGUARDIA NEL DESERTO.

LA FORMA E IL SIMBOLO a cura di Silvia Burini e Giuseppe Barbieri

fino al 3 giugno

25 Ca’ Rezzonico

RINASCIMENTO IN BIANCO E NERO.

L’ARTE DELL’INCISIONE A VENEZIA 1494-1615 a cura di Giovanni Maria Fara e David Landau

fino al 23 giugno

23 Gallerie dell’Accademia e

26 Casa dei Tre Oci (Giudecca)

AFFINITÀ ELETTIVE.

PICASSO, MATISSE, KLEE E GIACOMETTI a cura di Giulio Maniera Elia, Michele Tavola, Gabriel Montua, Veronika Rudorfer

fino al 24 novembre

27 Galerie Negropontes

ARMONIA METIS

Ulrika Liljedahl, Erwan Boulloud, Perrin & Perrin, Mauro Mori, Benjamin Poulanges,Étienne Moyat, Dan Er Grigorescu, Éric de Dormael, Gianluca Pacchioni, Mircea Cantor, Hervé Langlais

fino al 24 novembre

28 Punta della Dogana

LIMINAL Pierre Huyghe a cura di Anne Stenne

19 aprile – 10 luglio

32 Galleria Michela Rizzo GIBIGIANE Brian Eno

20 aprile – 30 giugno

30 Fondazione Giorgio Cini

IN NEBULA Chu Teh-Chun a cura di Matthieu Poirier

fino all’11 agosto

33 Le Stanze della Fotografia

OUT OF FOCUS Patrick Mimran

fino al 30 agosto

34 Crea – Cantieri del Contemporaneo, Giudecca

FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MEDIA ART CYFEST 15

fino al 24 novembre

33 Le Stanze della Fotografia

LEGACY Helmut Newton a cura di Matthias Harder e Denis Curti

FOCUS BIENNALE DI VENEZIA
77 59
28.3—24.11.24 Le Stanze della Fotografia Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia Helmut
Legacy Helmut Newton. American Vogue. Paris, 1974 © Helmut Newton Foundation Un’iniziativa congiunta Partner Partner tecnici In collaborazione con Radio ufficiale Fashion partner Official green carrier Media partner
Newton

“C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna”

Pitagora

“L’uomo è per natura superiore, la donna inferiore; il primo comanda, l’altra ubbidisce, nell’uno v’è il coraggio della deliberazione, nell’altra quello della subordinazione”

Aristotele

“Oggetto necessario, la donna, per preservare la specie”

San Tommaso d’Aquino

“Nulla si trova così da ogni parte stomacoso, quanto una femmina sbardellata e sporca”

“Affiancare all’uomo la donna, animale, sì, stolto e sciocco, ma deliziosamente spassoso, che nella convivenza addolcisce con un pizzico di follia la malinconica gravità del temperamento maschile”

Erasmo da Rotterdam

VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE

LA PIAGA CULTURALE DA COMBATTERE CON LA CULTURA (E CON L’ARTE)

DESIRÉE MAIDA

Filosofi, santi, intellettuali, artisti attraverso le cui teorie sono stati strutturati i sistemi di pensiero che hanno retto e continuano a reggere i sistemi socioculturali, politici ed economici di ogni epoca (compresa quella odierna), sembrerebbero tutti concordi nel ritenere l’uomo misura (come sosteneva Pitagora) e al centro di tutte le cose, per una forma di antropocentrismo che si alimenta e spazia da considerazioni di natura ontologica fino a ragioni che di trascendentale hanno poco o nulla. Riflettendo su questa forma di pensiero, appare una silenziosa (perché ritenuta ovvia) assimilazione di due concetti: per “uomo” misura e al centro di tutte le cose si intende automaticamente quello di “maschio” misura e al centro di tutte le cose. Una forma di autoreferenzialità che vede protagonista quindi la figura maschile, attirando a sé ogni tipo di concetto studiato e teorizzato dai pensatori di tutti i tempi, dal linguaggio alla creatività, dall’etica all’estetica, dall’epistemologia alla psicanalisi, e che vede la figura femminile messa letteralmente in ombra se non addirittura dimenticata; nella migliore delle circostanze, la donna è ritenuta una figura accessoria dell’uomo o, per dirla in termini biblici, una sua “costola” (restando in ambito filosofico, il non plus ultra in tal senso è probabilmente rappresentato dal saggio di Arthur Schopenhauer

L’arte di trattare le donne del 1851).

Tutte congetture culturali, queste, che hanno determinato millenni di convinzioni e convenzioni secondo cui la donna è inferiore all’uomo, contribuendo alla costruzione di un sistema sociale patriarcale che a sua volta alimenta e rafforza queste convinzioni e convenzioni. Le conseguenze del patriarcato non colpiscono soltanto le donne (sebbene queste ne siano il principale bersaglio), ma l’intera società che, strutturata con ideologie e codici linguistici propri del patriarcato, rimane intrappolata in un sistema in cui la disparità di genere blocca ogni opportunità di sviluppo e progresso. Del resto, come potrebbe un sistema evolvere se alcune delle sue parti vengono emarginate, sabotate, danneggiate o, nella più tragica delle ipotesi, annientate?

Dati sugli omicidi e l’identificazione dei femminicidi in Italia omicidi omicidi di donne

Accessi al pronto soccorso e ricoveri ospedalieri delle donne vittime di violenza

2022

14.448

2020

accessi delle donne in Pronto Soccorso con indicazione di violenza -25,2%

accessi totali al Pronto Soccorso

80% avviene in ambito familiare partner, ex partner e altri parenti

Chiamate ricevute dal numero di pubblica utilità 1522 contro la violenza e lo stalking

-39,8% 1522 2023

51.713

16.283

Fonte: Commissione Parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, Audizione dell’Istituto Nazionale di Statistica

Dott. Saverio Gazzelloni, Direttore della Direzione centrale delle statistiche demografiche e del censimento della popolazione. 23 gennaio 2024

+13% rispetto al 2021 +52% rispetto al 2022 +37,7% rispetto al 2022 87,2% è italiana

DISPARITÀ DI GENERE E VIOLENZA

MASCHILE CONTRO LE DONNE.

LA CONVENZIONE DI ISTANBUL

Violenze sessuali e femminicidi sono tra le notizie che ogni giorno inondano telegiornali e prime pagine dei quotidiani, e alcuni casi nei mesi scorsi hanno particolarmente infiammato e colpito l’opinione pubblica, come lo stupro di gruppo al Foro Italico di Palermo e l’uccisione di Giulia Cecchettin per mano del suo ex fidanzato. Una piaga che non accenna a sparire, sebbene sia al centro di dibattiti anche di natura politica e normativa: il 10 maggio 2023 l’Unione Europea ha dato il consenso per aderire alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, anche nota come Convenzione di Istanbul. Un traguardo necessario, e purtroppo non scontato, dato che ci sono voluti diversi anni prima di giungere alla sua ratifica, “a causa del rifiuto di alcuni Stati membri”, sottolinea una nota del Parlamento Europeo risalente a quei giorni. “Tuttavia, il parere della Corte di giustizia dell’UE del 6 ottobre 2021 ha confermato che l’Unione Europea può ratificare la Convenzione di Istanbul senza l’accordo di tutti gli Stati membri”; infatti a non avere aderito sono Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Secondo la Convenzione, con l’espressione “‘violenza nei confronti delle donne’ si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”

vittime che hanno cercato aiuto accessi con indicazione di violenza

14.455

sono donne +143% rispetto al 2019

LA GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE E IL SUO LEGAME CON L’ARTE

COME POTREBBE UN SISTEMA EVOLVERE SE ALCUNE

DELLE SUE PARTI VENGONO

EMARGINATE, SABOTATE, DANNEGGIATE O, NELLA PIÙ

TRAGICA DELLE IPOTESI, ANNIENTATE?

Shirin Neshat, Stories of Martyrdom (Women of Allah series), 1994. Copyright

Shirin Neshat. Shirin

Neshat e Gladstone Gallery, New York e Brussels

Se la “nascita” della Convenzione di Istanbul risale al 2011, anno in cui il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’ha adottata e aperta alla firma, è del 1999 l’istituzione – da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che ogni anno ricorre il 25 novembre. A simboleggiare la Giornata è un’opera d’arte, Zapatos Rojos, l’installazione che l’architetta e artista messicana Elina Chauvet ha realizzato per la prima volta nel 2009: 33 paia di scarpe femminili dal colore rosso denunciavano, in una piazza di Ciudad Juárez, i femminicidi e i maltrattamenti subiti dalle donne nella città messicana, compreso l’assassinio della sorella di Chauvet per mano del marito. Zapatos Rojos da allora è stata replicata in diversi Paesi del mondo, momento di riflessione immancabile il 25 novembre, ed è anche diventata un film: presentata nel 2022 alla 79. Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti Extra, l’opera prima del regista Carlos Eichelmann Kaiser è stata accompagnata dall’installazione di Chauvet, un centinaio di paia di scarpe usate e verniciate di rosso collocate intorno alla Sala Giardino. Il 25 novembre di ogni anno, sono numerosi i musei e le

STORIES VIOLENZA SULLE DONNE
LA VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE IN ITALIA. I NUMERI -4,76% 330 +2,48% 2023 2022 322 120 126 106
femminicidi
i
presunti
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DISCRIMINAZIONI DI GENERE E MOLESTIE

NEL SETTORE CULTURALE.

LA NUOVA INCHIESTA DI MI RICONOSCI?

Rientrano a pieno titolo tra le forme di violenza maschile contro le donne anche molestie e discriminazioni legate al genere, che spesso trovano riscontro soprattutto nel mondo del lavoro. A indagare questa realtà nell’ambito delle professioni culturali è Mi Riconosci?, associazione di attivisti nata nel 2015 che si pone come obiettivi il censimento e la vigilanza delle condizioni lavorative nel settore culturale. Dopo un primo questionario-indagine risalente al 2019 – dal titolo Discriminazioni di genere e molestie nel settore culturale – adesso Mi Riconosci? lancia la nuova inchiesta Discriminazioni e molestie nel settore culturale – Luoghi di lavoro e formazione, con un’attenzione rivolta in particolare alle donne: stando ai dati diffusi da Fondazione Libellula nel recente sondaggio L.E.I. (Lavoro, Equità, Inclusione) sulle discriminazioni e la violenza sulle donne nel mondo del lavoro, a subire maggiormente molestie fisiche e/o verbali sono proprio le donne, registrando per il 2023 un aumento dei casi pari all’81%. Tendenza, questa, riscontrata anche in casi di identità, orientamento sessuale e genitorialità: in quest’ultimo ambito, a subire maggiori discriminazioni sono sempre le donne. È possibile partecipare alla nuova inchiesta di Mi Riconosci? fino a maggio 2024: è aperta a tutti coloro che a vario titolo sono impiegati nei settori della Cultura e dello Spettacolo, anche a persone disoccupate o in fase di formazione. “Sentiamo la necessità di inserirci nel dibattito su violenza e discriminazioni di genere perché quello della Cultura è un settore a prevalente occupazione femminile”, sottolinea Valentina Colagrossi, attivista di Mi Riconosci?. “Negli ultimi anni le nostre denunce si sono concentrate soprattutto su precarietà e sfruttamento, fenomeni ormai strutturali nel comparto culturale, ma è importante sviluppare un’ulteriore riflessione su come queste condizioni espongano ancora di più le donne e le soggettività marginalizzate a ricatti, vessazioni e disparità”

miriconosci.it

istituzioni culturali italiani e internazionali che dedicano alla Giornata iniziative ad hoc, con eventi e percorsi mirati alla riflessione e soprattutto alla sensibilizzazione sul tema.

DISPARITÀ DI GENERE E VIOLENZA

MASCHILE CONTRO LE DONNE (RI)LETTE ATTRAVERSO L’ARTE (E VICEVERSA). TRA ICONOGRAFIE

E MANIFESTI CONTROVERSI

A rafforzare il concetto che disparità di genere e violenza contro le donne siano fenomeni che affondano le proprie radici nel terreno del sistema della cultura, è anche la storia dell’arte, da intendersi qui nella sua “funzione” di rappresentazione della realtà, e quindi anche della forma mentis degli individui di tutte le epoche. Sono tantissime le opere che, per mezzo della pittura e della scultura, hanno reinterpretato racconti mitologici e biblici che vedono donne violentate, oltraggiate e uccise dagli uomini, capolavori in cui virtuosismo tecnico e superbia estetica spesso adombrano la drammaticità dell’episodio narrato. Quando ci troviamo dinanzi alle versioni del Ratto delle Sabine realizzate da Pietro da Cortona, Nicolas Poussin e Jacques-Louis David, riflettiamo sul fatto che questo episodio descrive l’orrore di donne rapite e stuprate in massa per dare vita a una nuova stirpe per volontà di Romolo, fondatore dell’Urbe? A questo esempio si aggiungono anche i tantissimi “innamoramenti” degli dei dell’Olimpo che spesso sfociano in rapimenti, come il Ratto di Proserpina da parte di Plutone (nelle celeberrime versioni di Giambologna, Gian Lorenzo Bernini e Rembrandt), o in rapporti sessuali consumanti “a tradimento” – ovvero stupri – architettati da Zeus, come quello subito da Danae (abusata dal dio sotto forma di pioggia dorata) e noto nel sensualissimo dipinto di Gustav Klimt, o quello subito da Leda da uno Zeus che ha assunto le sembianze di cigno (raccontato da Leonardo da Vinci, Correggio e Tintoretto). Tratta il tema del femminicidio l’affresco realizzato nel 1511 da Tiziano presso la Scuola del Santo di Padova, dal titolo Miracolo del marito geloso: un marito, convinto di essere stato tradito, uccide la moglie; venuto a sapere la verità, chiede perdono a Sant’Antonio, il quale resuscita la donna ingiustamente accusata. Altre forme di violenza sono anche l’ingiuria, la molestia e la minaccia, attorno ai quali ruota l’episodio biblico di Susanna e i Vecchioni (che ricordiamo nei dipinti di Artemisia Gentileschi e Tintoretto): Susanna viene molestata da due anziani che frequentano la casa di suo marito, e la minacciano di accusarla di adulterio se non si fosse a loro concessa. Questo tipo di rilettura dei capolavori della storia dell’arte può apparire ardua (probabilmente lo è), ma è necessaria: l’arte offre la possibilità di inventare e ribaltare punti di vista e consuetudini, offrendo spunti di riflessione e prospettive sempre nuovi con cui osservare, criticare e cambiare la realtà. Un tentativo di ribaltamento in chiave anti-patriarcale della società, anche se frutto di continue contraddizioni concettuali, avviene nell’ambito del Futurismo, movimento artistico nato nel 1909 dall’intuito di Filippo Tommaso Marinetti, autore del relativo Manifesto “Noi vogliamo glorificare la guerra — sola igiene del mondo — il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, si legge nell’articolo 9 del Mani-

Rembrandt, Il ratto di Proserpina Berlino, Staatliche Museen

ARTEMISIA GENTILESCHI, L’ARTISTA CHE SUBÌ E DENUNCIÒ

LO STUPRO. MA VA RICORDATA SOLO PER QUESTO?

Tra le artiste e gli artisti più celebri della storia, Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1656 ca.) è stata una pittrice dagli spiccati talento e tenacia, riuscendo a ritagliarsi un ruolo da protagonista in un’epoca in cui per una donna era impensabile affermarsi professionalmente facendo un mestiere considerato “da uomo”. Figlia d’arte – suo padre era il pittore Orazio Gentileschi – Artemisia si avvicinò alla pittura da giovanissima, collaborando proprio insieme al padre che, per completare la sua formazione, decise di introdurla al pittore Agostino Tassi per approfondire la tecnica della prospettiva.

Ed è proprio l’incontro con Tassi, personaggio dai trascorsi personali e giudiziari parecchio turbolenti, a stravolgere la vita di Artemisia: nel 1611, nella dimora dei Gentileschi, Tassi violentò la pittrice.

Un abuso al quale Tassi, in un primo momento, volle porre “rimedio” attraverso la promessa di un matrimonio riparatore, mai celebrato perché il pittore era già coniugato: Orazio, nonostante la collaborazione professionale con Tassi (quando accadde lo stupro, i due stavano lavorando alla loggia della sala del Casino delle Muse a Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma), decise di denunciarlo, dando vita a un processo che vide Artemisia al centro di continue umiliazioni, tra improbabili visite ginecologiche e interrogatori anche sotto tortura. Alla fine, Tassi venne condannato per “sverginamento”, pagando con l’allontanamento da Roma, mentre Artemisia, su spinta del padre Orazio, sposò l’artista Pierantonio Stiattesi. La storia di Artemia Gentileschi è divenuta emblema a livello globale della violenza maschile contro le donne, e alcune delle sue opere più celebri sono spesso collegate alla vicenda dello stupro subito, come le due versioni di Giuditta che decapita Oloferne (una è custodita agli Uffizi di Firenze, l’altra al Museo di Capodimonte a Napoli). Ed è proprio l’episodio dello stupro ad avere suscitato accese polemiche, da parte delle studentesse dell’Università di Genova e le attiviste di Nonunadimeno, attorno alla mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e Passione, presentata dal 16 novembre 2023 all’1 aprile 2024 al Palazzo Ducale di Genova, che l’ha promossa insieme ad Arthemisia. A cura di Costantino D’Orazio e con oltre cinquanta opere provenienti da Europa e Stati Uniti, l’esposizione è stata criticata perché “ridotta alla cronaca di uno stupro”, cui viene dato spazio in una sala appositamente pensata, con gli atti originali del processo, una voce che racconta la violenza subita dall’artista, e ancora proiezioni di dettagli pittorici sanguinolenti sulle pareti e su un letto allestito all’interno della stanza. Una “spettacolarizzazione”, come è stata definita, che avrebbe messo in secondo piano il racconto di un’artista iconica del periodo moderno, dando vita a un convulso valzer di accuse e repliche tra le parti interessate: in particolare, Arthemisia ha risposto alle critiche affermando che la mostra “è una chiara ed evidentissima denuncia contro la violenza sulle donne. Non a caso si celebra la donna che per prima ha avuto il coraggio di denunciare pubblicamente la violenza subita e che, 400 anni fa, ha addirittura sfidato l’intera società per rivendicare la sua libertà. Se si parla di Artemisia, non è possibile omettere il racconto del fatto che ha segnato tutta la sua vita, soprattutto quella artistica”. Bisogna dire però che finora, di questa mostra, si è (quasi) esclusivamente parlato della “sala dello stupro”.

Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne Napoli, Museo di Capodimonte

festo. Affermazione che non lasciò indifferente una scrittrice e danzatrice francese, Valentine de SaintPoint, che nel 1912 rispose con Il Manifesto della donna futurista: “L’Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Esse sono uguali. Tutte e due meritano lo stesso disprezzo”. Un modo esageratamente e tipicamente futurista di rivendicare per le donne uguaglianza e parità di diritti, con concetti audaci e per i tempi anche spregiudicati: “è assurdo dividere l’umanità in donne e uomini; essa è composta soltanto di femminilità e mascolinità”; “ciò che manca di più alle donne come agli uomini è la virilità”; “non più donne piovre dei focolari, dai tentacoli che esauriscono il sangue degli uomini e anemizzano i fanciulli; DONNE BESTIALMENTE AMOROSE, CHE DISTRUGGONO

NEL DESIDERIO ANCHE LA SUA FORZA DI RINNOVAMENTO!”. Nel 1913 Valentine de Saint-Point firma anche il Manifesto della Lussuria dove quello che è comunemente inteso come “vizio” viene interpretato come “elemento essenziale del dinamismo della vita”, “una forza”; “BISOGNA ESSERE COSCIENTI DAVANTI ALLA LUSSURIA. Bisogna fare ciò che un essere raffinato e intelligente fa di se stesso e della propria vita; BISOGNA FARE DELLA LUSSURIA UN’OPERA D’ARTE”. Valentine de Saint-Point può essere considerata una sorta di femminista ante litteram, sebbene le sue idee abbiano molto poco in comune con quelle del femminismo odierno. È indubbia, però, la volontà di scardinare codici e pregiudizi, e soprattutto la necessità di abbattere gli stereotipi di genere e la disparità tra uomo e donna, anche se ciò avrebbe comportato la “mascolinizzazione” della donna stessa.

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ARTETERAPIA, ASSOCIAZIONI E CENTRI ANTIVIOLENZA A VOCAZIONE ARTISTICA PER COMBATTERE LA VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE

Se da un lato il mondo dell’arte si impegna, con i propri linguaggi e canali, a promuovere la riflessione e la sensibilizzazione sul tema della violenza maschile contro le donne, dall’altro c’è il mondo di chi – per mestiere e vocazione –combatte questa piaga sul campo, tra associazioni, carceri, centri antiviolenza e progetti di imprenditoria sociale. E spesso lo fanno anche grazie alle arti e la creatività, intese come strumenti in grado di guarire, educare e cambiare. Tra le realtà attive in Italia, è l’associazione culturale Le Kassandre, nata a Napoli nel 2004 e dal 2010 entrata a fare parte della Rete Nazionale Centri Antiviolenza. Il centro supporta le donne vittima di violenza, con percorsi di fuoriuscita che, laddove possibile, utilizza anche gli strumenti dell’arte definiti, dalla psicologa Elisabetta Riccardi, “importanti” perché riescono a “veicolare linguaggi non verbali: l’arte nelle sue varie forme offre uno spazio per l’elaborazione di situazioni di violenza (psicologica, sessuale, fisica) molto efficace. È fondamentale”, continua Riccardi, “che una donna, dopo aver fatto una prima elaborazione della fuoriuscita dalla violenza, possa accedere a canali di espressione: l’arte tira fuori quello spazio che la vittima di violenza non ha, lo spazio legato al piacere di sé, della riappropriazione del proprio corpo, di esserci, di esprimersi e di mostrarsi per quello che si è, per raggiungere la consapevolezza di sé”. Restando a Napoli, Le donne di Artemisia è un progetto giunto alla seconda edizione promosso da Poesie Metropolitane –associazione nata nel 2016 che, attraverso la poesia, opera anche nel sociale – che prevede un contest aperto ad autori di tutta Italia, al fine di dare vita a una pubblicazione “che includa anche voci di donne attive socialmente, donne vittime di violenza e non solo, per poi presentare l’antologia nelle scuole o anche per strada, coinvolgendo il pubblico nel dibattito sul femminile per contrastare la violenza di genere”, ci racconta Rosa Mancini, presidente dell’associazione. “Ogni anno l’antologia prevede anche la partecipazione di un fotografo, con uno scatto che fa da cover al libro: quest’anno ha collaborato con noi Ljdia Musso, con il suo progetto ‘Non vedo, non sento, non parlo’” Arteterapia nel carcere contro la violenza di genere: Le donne nell’arte è il titolo del laboratorio artistico e arteterapeutico tenuto nel 2020 all’Istituto Penale Minorile di Firenze da Progress – Associazione di Promozione Sociale, nata nel 2005 e con sede a Firenze e a Perugia “per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” Grazie al finanziamento di Fondazione CR Firenze, Fondazione Carlo Marchi, Regione Toscana, CGM Firenze, KPMG e Associazione Mus-e Firenze Prato onlus, il laboratorio ha coinvolto per un anno i ragazzi della struttura maschile. “Per noi era importante portare questo laboratorio sulla violenza contro le donne, perché ci siamo accorti delle tematiche che affiorano

all’interno dell’istituto, dai pregiudizi fino al loro rapporto con le donne”, spiega l’arteterapeuta Elisa Bestetti. “Abbiamo pensato così di proporre la tematica parlando di come la donna sia stata rappresentata nell’arte, facendo vedere ai ragazzi immagini di capolavori che potessero stimolare sia la riflessione sia la produzione di opere”. Una fase del laboratorio era dedicata alle “tre età della donna”, con l’ausilio dell’omonimo dipinto di Gustav Klimt: “infanzia, maternità e vecchiaia hanno stimolato i ricordi personali dei ragazzi, molti di loro hanno rivisto persone care della propria vita”, continua Bestetti. Non poteva mancare infine un focus sulla violenza maschile contro le donne, che “sicuramente ha innescato una riflessione; quasi tutti dicono che la donna va preservata, probabilmente perché viene subito in mente la figura materna; poi però il pensiero è un po’ diverso rispetto al mondo delle coetanee. Speriamo che da queste riflessioni ci sia stata anche una trasformazione” “Mai più paura, mai più in silenzio, non siamo vittime ma combattenti!” è il motto di Cuoche Combattenti, progetto di imprenditoria sociale nato dalla storia di Nicoletta Cosentino, che a Palermo ha dato vita a un laboratorio di produzione alimentare che aiuta le donne vittime di violenza a emanciparsi economicamente. “Il progetto nasce in collaborazione con il centro antiviolenza Le Onde Onlus, al quale mi sono rivolta anni fa”, ci racconta Cosentino. “Tra i vari progetti di opportunità di inserimento al lavoro che il centro offriva, scelsi di fare un tirocinio in un laboratorio di trasformazione alimentare: ho iniziato a fare dolci, innamorandomi di questo lavoro. Al termine del percorso, ho cominciato a fare conserve e marmellate in casa, e mi è venuta l’idea di realizzare etichette – in passato mi sono occupata anche di grafica – che recassero messaggi motivazionali rivolti alle donne, e che potessero aiutarle ad aprire gli occhi e a reagire”. Un’idea che, dalla cucina di casa di Cosentino, è diventata attività imprenditoriale, coinvolgendo altre donne che hanno attraversato le medesime vicissitudini. “Dopo il tirocinio, con l’aiuto del centro antiviolenza, ho intrapreso un percorso di accompagnamento all’autoimpresa, frequentato corsi specifici per l’alimentazione e presentato in banca una richiesta di microcredito di 20mila euro, mettendo su un primo laboratorio.

“L’amore non mette catene”, “Sei libera, non appartieni a nessuno mai”, “Senza paura la vita è meravigliosa”, “L’amore non ammette minacce mai”, “Sei la persona più importante della tua vita”: sono alcune delle frasi che contraddistinguono le oramai iconiche etichette antiviolenza di Cuoche Combattenti.

Ljdia Musso, Non vedo, non sento, non parlo

VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE. COSA PUÒ FARE

IL MONDO DELL’ARTE OGGI?

Facendo un balzo in tempi più recenti, l’impegno del mondo dell’arte alla lotta contro discriminazioni di genere, patriarcato e sessismo si fa sempre più intenso, soprattutto tra gli Anni Sessanta e Settanta, nel clou delle contestazioni giovanili che hanno interessato molte aree del mondo. In Italia, uno dei primi gruppi di femministe – Rivolta Femminile – fu fondato nel 1970 dalla storica dell’arte Carla Lonzi (cui si devono saggi considerati pietre miliari sul tema, come Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e la donna vaginale), dall’artista Carla Accardi e dall’attivista Elvira Banotti, che insieme ne scrissero anche il manifesto. Tantissime sono le artiste che, nel corso dei decenni e ancora oggi, spesso attraverso pratiche che prevedono il proprio corpo come strumento di denuncia, parlano di donne dalla libertà e dai diritti violati, per imposizioni sociali o politiche: Faith Ringgold, Judy Chicago, Ana Mendieta, Renate Bertlmann, Martha Rosler, Barbara Kruger, Shirin Neshat, Regina José Galindo, per citare solo alcune delle artiste più note a livello globale impegnate attivamente nella causa, e il cui lavoro rappresenta fonte di ispirazione per iniziative mirate alla sensibilizzazione e alla conoscenza della condizione femminile nel mondo.

Tra le iniziative italiane più recenti dal respiro internazionale è Progetto Genesi. Arte e Diritti Umani, nato nel 2021 dalla visione di Associazione Genesi, fondata da Letizia Moratti con l’obiettivo di diffondere attraverso l’arte contemporanea messaggi che possano contribuire “alla creazione di una cittadinanza più responsabile e socialmente attiva”. A cura di Ilaria Bernardi, Progetto Genesi è una grande iniziativa espositiva itinerante giunta alla terza edizione, in cui a essere protagoniste sono le opere della omonima

LA SILENZIOSA SOPRAFFAZIONE NELL’AMBIENTE DOMESTICO.

LA VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE

NELLA RICERCA DELL’ARTISTA SILVIA GIAMBRONE

La dimensione domestica è uno dei luoghi – da intendersi in senso reale e anche concettuale – in cui si consuma maggiormente la violenza maschile contro le donne, con soprusi a volte tangibili (fisici e sessuali), a volte dalla natura meno visibile: sopraffazione psicologica e verbale, vessazioni silenziose che si reiterano travestendosi da “normalità”. Uno spazio intimo, quello domestico, che è spesso al centro della ricerca di Silvia Giambrone (Agrigento, 1981), artista che – attraverso installazione, performance e video – indaga il tema della violenza maschile contro le donne, focalizzando la propria sensibilità sulle sottili dinamiche di potere che esistono tra uomo e donna, e le forme di addomesticamento e assoggettamento che ne conseguono.

Con la tua pratica indaghi la dimensione domestica entro cui soprusi e violenze (non solo quelle evidenti, ma anche quelle che rimangono “silenziose”) degli uomini sulle donne vengono consumate. Che tipo di linguaggio e di codici hai deciso di adottare per veicolare questi messaggi?

Proprio perché mi interessa indagare la dimensione dell’addomesticamento che può sfociare in forme più o meno sotterranee di violenza, ho deciso di adottare linguaggi che mantenessero una certa ambiguità, almeno nella maggior parte dei casi; in altri invece ho voluto adottare linguaggi più diretti. Utilizzo oggetti propri dell’ambiente domestico, apparentemente innocui, per trasformarli e renderli inquietanti, lasciando che questi tradiscano la loro funzione tradizionale per rivelarne un’altra, con l’obiettivo di far passare concetti sottili, non urlandoli ma inoculando attraverso di essi tutta una seria di sospetti rispetto alla realtà che si vive quotidianamente.

Per un’artista femminista, quanto è determinante la scelta del linguaggio da utilizzare affinché arrivi il significato delle proprie opere?

La scelta del linguaggio è un tema che riguarda qualsiasi artista. Sicuramente possiamo dire che le artiste femministe, negli anni Settanta e Ottanta, si sono rivolte a linguaggi nuovi, prediligendo performance e video, proprio perché si trattava di linguaggi che non appartenevano alla storia dell’arte più patriarcale. Al medium che sceglievano, apportavano così qualcosa che consentiva loro di dare dignità a quelle cose che all’interno della storia dell’arte non avevano ancora trovato dignità, essendo ancora piena di epica fatta di battaglie, guerre e miti che non includevano la vita e le battaglie delle donne. Oggi è molto diverso, perché il movimento femminista che si è espresso nell’arte ha ampliato di molto il linguaggio. E l’utilizzo in una parte del mio lavoro degli oggetti domestici, “le buone cose di cattivo gusto” come le chiamava Guido Gozzano, in un certo senso rientra in questa idea.

Negli ultimi mesi stiamo assistendo a una crescente quantità di casi di violenze contro le donne che spesso sfociano in femminicidi. Da artista impegnata, come e quanto credi possa essere determinante il lavoro di voi artiste/i?

So che il lavoro che abbiamo fatto negli anni è stato importante e so che lo sarà ancora. Naturalmente la costruzione di senso e la penetrazione nel tessuto sociale e nell’immaginario richiede molto tempo, all’artista e anche al pubblico, per capire i messaggi che si stanno veicolando, al di là delle mode. C’è poi da combattere anche chi fa ancora resistenza attiva sminuendo la costruzione di un immaginario rinnovato per diverse serie di ragioni: invidia, smania di potere, impotenza, smanie ideologiche, accidia, ecc. Chi come me lavora su questa sensibilità da tanti anni, si è ritrovato a capire di avere contribuito alla crescita di questa sensibilità. L’arte contemporanea è senza dubbio una élite, ma è anche vero che la forza delle idee e la forza estetica delle opere si espande, va per il mondo, lo penetra e lo trasforma. Anche altri linguaggi artistici si sono fatti portavoce di questi messaggi, e credo che questo processo continuerà a evolvere.

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Silvia Giambrone, Traum , still video

FEMMINISMO E ARTE IN ITALIA DA CARLA LONZI A OGGI. INTERVISTA A PAOLA UGOLINI

Artiste e femminismo in Italia. Per una rilettura non egemone della Storia dell’arte (Christian Marinotti Edizioni, 2022) è il titolo del saggio con cui la critica d’arte Paola Ugolini indaga come le vite e le ricerche di una serie di artiste (tra cui Carol Rama, Carla Accardi, Suzanne Santoro, Renate Bertlmann, Francesca Woodman, Silvia Giambrone, Claire Fontaine, Benni Bosetto) si siano intrecciate e si intreccino alla filosofia del femminismo, diventandone portavoce e sperimentando nuove forme di linguaggio che possano ribaltare i codici delle strutture patriarcali della società.

Storie di vita e d’arte che si intessono e offrono la possibilità di riflettere su quanta strada sia stata fatta finora ma soprattutto su quanta sia quella ancora da fare, e su come il mondo dell’arte e l’impegno delle artiste femministe possa contribuire a combattere le piaghe della disparità di genere e della violenza maschile contro le donne. “Il problema della violenza sulle donne è prima di tutto un problema culturale e poi politico, ed è incistato nelle strutture societarie patriarcali”, sottolinea Paola Ugolini. “Dal momento in cui si pensa che la forza muscolare sia una caratteristica dell’uomo, è evidente che la figura della donna venga percepita come non forte, e quindi come una figura da sottomettere a un potere più forte che è quello virile. Si tratta di una questione culturale che è stata fatta passare come naturale”

Nella parte introduttiva del tuo libro si parla della nascita del femminismo in Italia, e del ruolo che hanno avuto le donne del mondo dell’arte. Come raccontare e spiegare questo legame? Ci sono state artiste, critiche d’arte e attiviste politiche estremamente acculturate e aperte alle novità che – entrate in contatto con le idee del femminismo militante che si era sviluppato in America alla fine degli Anni Sessanta, durante le rivoluzioni giovanili – avevano capito (perché evidentemente la disparità di genere l’avevano subita sulla loro pelle) che si poteva agire il femminismo in maniera militante e intellettuale. In Italia il primo movimento separatista femminista è stato quello di Rivolta Femminile, fondato a Roma nel luglio 1970 da un’artista, Carla Accardi, da una critica d’arte e filosofa, Carla Lonzi (che proprio in quell’anno abbandonerà la critica d’arte per dedicarsi esclusivamente alla militanza), e da un’attivista politica, Elvira Banotti. In questo gruppo erano confluite molte artiste (tra cui Suzanne Santoro) che possiamo mettere sotto il cappello di

“artiste attiviste femministe”, ovvero artiste che hanno inglobato il pensiero militante femminista nel loro lavoro per poter veicolare messaggi di rottura con il patriarcato e di riposizionamento del ruolo femminile all’interno della società.

La creatività – in particolare quella artistica – è sempre stata vista come un’attitudine propria soltanto degli uomini. In che modo Carla Lonzi si pone nei confronti della creatività femminile?

È un tasto molto delicato, perché non si può parlare di un interesse attivo di Carla Lonzi per la creatività femminile, anzi: Lonzi pensava che la produzione artistica femminile fosse una sorta di “scimmiottamento” all’interno di regole e strutture sociali che rimanevano patriarcali; teorizzava quindi di fare “tabula rasa” e auspicava a una fuoriuscita totale della donna dal campo della produzione. Riconosceva invece come originale e necessaria l’espressione attraverso la scrittura. Questa posizione così radicale nei confronti della creatività artistica femminile la porterà a un’inevitabile rottura con le artiste di Rivolta Femminile: nel 1974 con Suzanne Santoro – dopo la pubblicazione del suo libretto Per una espressione nuova/Towards a New Expression, messo al bando per oscenità dall’Institute of Contemporary Art di Londra quando fu presentato in una mostra di libri d’artista –, nel 1976 con Carla Accardi.

Cosa accadde dopo la rottura?

Le artiste fuoriuscite da Rivolta Femminile fondarono a Roma la Cooperativa del Beato Angelico: qui Accardi fece la sua prima mostra nel 1976, una delle sue esposizioni più intime e personali

dal titolo Origine, in cui ricostruiva la storia della sua famiglia dal punto di vista matrilineare; successivamente presso la Cooperativa fece una mostra anche Santoro.

Oggi come viene letto e interpretato dagli studi femministi di arte il rapporto tra Carla Lonzi e la creatività femminile?

In Italia, gli scritti femministi di arte hanno sempre sentito la problematicità della rottura avvenuta nel 1976. Il lavoro delle studiose che negli anni si sono occupate del pensiero di Lonzi –penso a Laura Iaumurri, Giovanna Zapperi, Carla Subrizi, Lara Conte, Flavia Frigeri – è stato quello di ricucire questo strappo per poter compensare con un dialogo fecondo tra pensiero filosofico femminista e il lavoro delle artiste. D’altronde, il lavoro di artiste come Santoro e Accardi è fortemente femminista e politico: Accardi, per esempio, si è appropriata di un genere – quello dell’Astrattismo – che è stato sempre considerato appannaggio dell’uomo.

La società è sempre stata strutturata in maniera patriarcale, quindi tutti i codici creativi e linguistici – non solo quelli dell’arte – si basano su strutture patriarcali. Come superare questo ostacolo?

Il pensiero di Carla Lonzi è interessante proprio perché così radicale: lei infatti affermava di sradicarsi completamente da questo tipo di strutture. È anche interessante però indagare in che modo alcune artiste abbiano sperimentato per sovvertire le strutture patriarcali dal loro interno, rinnovando e innovando il linguaggio dal punto di vita formale e concettuale.

Nel tuo libro analizzi il lavoro di diverse artiste. Guardando all’Italia oggi, le nuove generazioni di artiste in che direzione vanno e in che modo i codici stanno cambiando e/o evolvendo?

Adesso la divisione di generi è molto meno netta rispetto a 20 o 30 anni fa. Della generazione più recente, prenderei in esame Benni Bosetto (1987), la cui ricerca indaga il contrasto tra reale e finzione, umano e non umano. Rifacendosi alle teorie sul postumanesimo delle filosofe femministe Donna Haraway e Rosi Braidotti, l’artista nei suoi lavori spesso rappresenta un mondo in cui la distinzione binaria maschio-femmina non ha più significato e dove gli esseri umani si ibridano, attraverso esperimenti di ingegneria genetica, con altre specie.

LA VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE SPIEGATA DALLA PSICANALISTA MARINA VALCARENGHI NEL FILM IL POPOLO

DELLE DONNE DI YURI ANCARANI

“Malgrado la liberazione delle donne, malgrado le donne siano più forti, malgrado la crisi sempre più evidente del patriarcato e quindi l’indebolimento dell’autorevolezza maschile, come mai aumentano gli stupri, gli omicidi e i maltrattamenti? E io la rovescio questa cosa: proprio perché c’è stata la liberazione velocissima del mondo femminile, proprio perché questo ha cominciato ad aprire una voragine dentro il patriarcato, proprio perché gli uomini non sopportano di essere esautorati dalle loro tradizioni di oppressione femminile, proprio per questo aumentano l’omicidio, il maltrattamento, lo stupro”. Sono parole forti e incisive quelle pronunciate da Marina Valcarenghi – psicoterapeuta e psicoanalista che per dodici anni, nei penitenziari di Opera e Bollate a Milano, ha lavorato nei reparti di isolamento maschile con detenuti condannati per reati di violenza sessuale – ne Il popolo delle donne, film diretto dall’artista Yuri Ancarani (Ravenna, 1972) presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2023, nell’ambito delle Giornate degli Autori.

Un’opera che tratta in maniera scientifica il tema della violenza maschile sulle donne, filtrato attraverso la prospettiva e la sensibilità artistica di Ancarani, che così racconta l’incontro con Valcarenghi: “l’incontro con Marina è avvenuto durante le riprese del film ‘Atlantide’, dove era coinvolta come consulente, dato che gli attori del film sono minorenni che interpretano se stessi. In particolare, parlando del protagonista Daniele, un emarginato non voluto dal gruppo, con Marina abbiamo affrontato anche i temi del branco e della violenza di genere: quando mi spiegava certe dinamiche, lo faceva in un modo preciso e semplice. Così le ho chiesto di realizzare un progetto insieme: ero convinto fosse necessario dare anche agli altri la possibilità di ascoltare un discorso legato a un argomento così delicato”. Argomento delicato e allo stesso tempo affrontato con una visione ben precisa: “la liberazione femminile ha a che fare con la liberazione di tutti, come dice Valcarenghi nel film”, continua Ancarani, che sottolinea come Il popolo delle donne inviti “uomini e donne a lavorare insieme per arrivare a un risultato, ovvero la libertà di tutti: il sistema educativo deve essere rivisto, e uomini e donne devono lavorare per abbattere gli stereotipi”

Collezione, incentrata sui temi legati alla difesa dei diritti umani, tra cui la “condizione femminile”. “A partire dalla fine dell’anno scorso, dato quello che è successo in Iran con l’uccisione di Mahsa Amini, in Italia con il caso Giulia Cecchettin e le molteplici violenze cui assistiamo tutti i giorni, abbiamo pensato che quello della donna dovesse essere un tema cardine da indagare”, ci spiega Bernardi. “È nata così la mostra sull’Iran in collaborazione con la Fondazione Brescia Musei, Finché non saremo libere (tenutasi dal 10 novembre 2023 al 28 gennaio 2024 al Museo di Santa Giulia, ndr), introdotta da opere di artiste della Collezione che indagano tematiche sociali contemporanee da una prospettiva femminile. Seguivano poi tre affondi sull’Iran, attraverso sale monografiche dedicate a due artiste storiche iraniane, Farideh Lashai e Sonia Balassanian che, lasciando il loro Paese, si sono affermate nel mondo dell’arte. L’altra sezione era dedicata a una giovane artista, Zoya Shokoohi, anche lei fuggita dall’Iran e che ha scelto l’Italia come Paese in cui trovare la propria libertà”

SONO TANTISSIME LE OPERE

CHE HANNO REINTERPRETATO

RACCONTI MITOLOGICI E BIBLICI CHE VEDONO DONNE

VIOLENTATE, OLTRAGGIATE E UCCISE DAGLI UOMINI

La violenza psicologica e fisica dell’uomo nei con-

fronti della donna è stato il tema su cui si è focalizzata la mostra Mai la luna gridò così tanto (titolo ispirato al verso di una poesia di Alda Merini, legato alla tragica memoria dello stupro subito dall’autrice durante il suo internamento in un ospedale psichiatrico), organizzata in collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo negli spazi di Palazzo Banca d’Alba (dal 25 novembre al 10 dicembre 2023), in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Il tema della condizione femminile è ancora al centro della terza edizione di Progetto Genesi, con quattro mostre che presentano altrettanti focus dedicati ad artiste che indagano la condizione della donna nel mondo, anche attraverso i loro racconti di vita. La prima tappa, in corso fino al 7 aprile a Gubbio, presso le Logge dei Tiratori della Lana, vede protagonista del focus Simone Fattal; dal 4 maggio al 2 giugno sarà la volta di Monica Bonvicini, al Collegio Borromeo di Pavia. Si proseguirà dal 20 giugno al 13 ottobre alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino con Binta Diaw e dal 20 settembre all’1 dicembre presso Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno con Shirin Neshat. “Per noi la tematica della donna è fondamentale”, conclude Bernardi, “cerchiamo in tutti i modi di affrontarla e di mostrare le diverse lesioni di diritti perpetrate nel mondo nei confronti delle donne, e sono tantissime. Le raccontiamo attraverso visite guidate, workshop, lezioni, per aprire la mente dei visitatori a questi temi attraverso l’arte contemporanea”

STORIES VIOLENZA SULLE DONNE
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Yuri Ancarani, Il Popolo delle Donne , 2023. Still da video. Courtesy Studio Ancarani

La moda fotografata dalle donne

Centro Saint-Bénin

Via B. Festaz, 27

dal 23 marzo

al 22 settembre 2024 martedì-domenica, dalle 10 alle 13

e dalle 14 alle 18

SGUARDI
DI INTESA
PRODUZIONE
UNA
AOSTA
Maria Vittoria Backhaus, Bus, 2000, 150 cm × 200 cm. Pellicola negativa a colori poi digitalizzata. © Maria Vittoria Backhaus

AL CONFINE TRA GASTRONOMIA E ARTE

I RISTORANTI PIÙ VISIONARI D’ITALIA
Spinaci, banana, ostrica, musetto di maiale, IO Luigi Taglienti, Piacenza. Photo Fausto Mazza

sanno immaginare una proposta nuova, libera da obblighi e regole imposte

sanno produrre un cambiamento positivo

IL MANIFESTO DEI VISIONARY PLACES

Sono “Visionary Places” quelli che:

sanno leggere la realtà, coglierne le sollecitazioni e i mutamenti e definire nuove traiettorie

maneggiano l’innovazione senza rimanerne incastrati

introducono nuove modalità di fruizione, di organizzazione, di produzione

danno una lettura di ingredienti, tradizioni, territori profonda e significativa

sanno dare risposte nuove alle esigenze di oggi e anche a quelle di domani

sanno creare situazioni, proposte, esperienze inusuali

sanno portare l’arte nella quotidianità, intercettandone visioni e prospettive

sanno immaginare il futuro, e cominciare a costruirlo sin da ora

sanno dialogare con l’ambiente in modo originale

puntano al benessere di chi ne fruisce e di chi ci lavora, attraverso una progettazione mirata degli spazi

Siamo andati alla ricerca di quei ristoranti fuori dal comune, in cui la creatività culinaria e artistica si incontrano per dare vita

a esperienze complete e complesse. Ma cosa deve fare un ristorante per essere definito “visionario”?

LIVIA MONTAGNOLI

Intuizione, libertà di pensiero, ma anche coerenza e progettualità. Sono le qualità che alimentano una visione, spesso a partire dalla lettura di una realtà che può suggerire nuove strade da percorrere. Ed è questa la premessa di cui tiene conto il progetto Visionary Places – una dichiarazione di intenti, ancor prima che un premio – volto a individuare e valorizzare chi dall’essere visionario ha tratto beneficio in ambito imprenditoriale, con ricadute positive sull’economia territoriale, il contesto (urbano o ambientale), la comunità. Parliamo, nello specifico, di ristoranti, tornando a concentrarci –dopo la ricognizione sulla ristorazione museale italiana, mappata su queste pagine poco più di un anno fa – su un segmento dello spazio collettivo che, nel focalizzarsi sulle esigenze del cliente, non può più identificarsi solo nella condivisione di buon cibo. In questa direzione, un ristorante visionario è un luogo capace di fare stare bene le persone, che declina il concetto di benessere non solo a vantaggio dei commensali, ma anche di chi in quello spazio lavora, fino a contemplare l’impatto del progetto sul contesto sociale e ambientale in cui opera. Dunque, una realtà che investe sul prodotto e sulla tecnica gastronomica non meno che sulle risorse umane e sul design, nel quadro di una progettazione mirata degli spazi. Ecco,

quindi, che la sfera d’azione (e d’altro lato, il campo di indagine di chi registra questa dinamica) si amplia a comprendere le discipline dell’architettura e della rigenerazione del territorio – progettando in modo che l’interesse del singolo sia un vantaggio per la collettività – la dimensione storica e l’innovazione tecnologica, sull’orizzonte di un’idea di ospitalità basata sulle relazioni e sull’attivazione di stimoli culturali.

IL PROGETTO VISIONARY PLACES, TRA GASTRONOMIA, ARTE E CULTURA

L’operazione Visionary Places, promossa da Artribune insieme a Gambero Rosso e  Feudi di San Gregorio  (azienda vinicola di Sorbo Serpico, nell’Avellinese, riprogettata come cantina d’autore nel 2004, e promotrice di numerose connessioni con il mondo dell’arte), nasce nel 2024 con una prima edizione che individua i  10 ristoranti più visionari d’Italia, e per tre di loro decreta un piazzamento sul podio. La selezione ha potuto contare su un comitato costituito da rappresentanti del mondo della gastronomia, dell’arte e della cultura: oltre a Gambero Rosso e Artribune, l’artista e appassionato “conoscitore” enogastronomico Gabriele De Santis, l’AD di MondoMostre Simone Todorow, ed Emilia Petruccelli, co-fondatrice di Galleria Mia a Roma e fondatrice di EDIT Napoli. Per Feudi di San Gregorio riassume il senso dell’iniziativa la direttrice creativa del gruppo, Ella Capaldo: “Siamo

STORIES RISTORANTI VISIONARI
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I 10 FINALISTI

LUMINIST

Via Toledo 177. Napoli

Luminist è l’avamposto gastronomico delle Gallerie d’Italia a Napoli. Solo il primo approccio (chi vuole può scoprire il formato gourmet dell’esperienza, 177Toledo, all’ultimo piano dell’edificio) con il modello di ristorazione museale che il gruppo Intesa Sanpaolo ha saputo mettere al servizio di un’idea di museo moderno e vivo perché aperto alla città. “Se il museo è il luogo che valorizza e promuove la cultura, in Italia non può non tener conto di quanto la gastronomia esalti le identità territoriali: il connubio ci è sembrato naturale”, ha avuto modo di spiegare a più riprese il direttore di Gallerie d’Italia, Michele Coppola

E la caffetteria-bistrot cui si accede al piano terra di Palazzo Piacentini – negli spazi restaurati e ripensati da Michele De Lucchi all’insegna di una scenografica funzionalità – è l’esempio più concreto di una filosofia votata a fare del visitatore il centro dell’esperienza museale. E si traduce al tavolo nella cura del servizio, oltre che nella qualità della proposta gastronomica, tanto sul versante di pasticceria e gastronomia fredda, per una colazione o una pausa estemporanea, quanto per il menu del bistrot, identitario nel preservare il suo legame con la città, ma pure originale per esecuzione e libertà di pensiero. Per concretizzare l’idea è stato scelto Giuseppe Iannotti, cuoco e patron del ristorante Kresios di Telese Terme, che con Gallerie d’Italia è finalmente approdato a Napoli, occupandosi personalmente di configurare la brigata al lavoro nelle due cucine (quella di Luminist è guidata da Antonio Grazioli), in caffetteria e nel cocktail bar panoramico Anthill con le carte da parati Mindthegap.

Nel frattempo, a quasi due anni dall’esordio di Luminist, il progetto è diventato anche contenitore di altre esperienze, in sinergia con la programmazione del museo – grazie a un ciclo di mostre collaterali allestite negli spazi del bistrot – o da incubatore di idee votate alla sostenibilità come Urbee, primo progetto di apicoltura urbana di Napoli, nato proprio all’interno di Palazzo Piacentini, con tre arnie che monitorano la qualità dell’aria in città e 18mila api da adottare.

SANBRITE

Località Alvera.

Cortina d’Ampezzo (BL)

A Cortina d’Ampezzo, Riccardo Gaspari e Ludovica Rubbini hanno sviluppato un ecosistema che, attraverso la produzione e la trasformazione di cibo e grazie a un’ospitalità centrata sull’etica del lavoro e la sostenibilità ambientale ed energetica, si distingue per piacevolezza dell’accoglienza, bellezza degli spazi, qualità della proposta gastronomica. Il modello per un’agricucina rigenerativa di montagna che sa tradursi in coccola per i clienti, invitati anche a sperimentare di persona l’approccio sostenibile del SanBrite (esempio concreto è il format Genesis). L’origine di questa avventura si rintraccia nell’esperienza embrionale di El Brite de Larieto, malga con cucina adiacente a una stalla con diversi animali, operativa dal 2004: da allora, passati vent’anni, la baita è assurta a modello di ristorazione di montagna capace di coniugare il fine dining (SanBrite nasce come ristorante nel 2017)

con la cura per il territorio, che si esprime nelle molteplici attività di produzione e trasformazione, dal pascolo libero al caseificio Piccolo Brite (avviato nel 2012), all’allevamento di maiali (tutti i salumi e i formaggi serviti in tavola sono di produzione propria). La componente rigenerativa – concetto che qui può dirsi valido tanto per l’approccio “zero sprechi” alla materia prima, quanto per la capacità di mettere il cliente nella condizione di ritemprarsi – ispira tutto, perché mangiare, secondo lo chef “significa sentire la montagna”. Non a caso, gli ospiti possono anche sperimentare un pasto in vetta, o nel bosco, grazie all’espediente della cucina mobile perfezionata da Gaspari, che associa l’impegno agricolo alla conoscenza di erbe e prodotti spontanei del territorio. Al ristorante, invece, la cura degli spazi si realizza nella sinergia tra la natura che entra dalla grande finestra affacciata sulle Tofane e un allestimento che fa del design italiano un alleato per rispettare l’identità alpina (il legno di recupero per i tavoli, il pavimento frutto di un raffinato lavoro di falegnameria, le sedie in ferro e legno di Rossella Reale) Una visione incentrata sulla sostenibilità in tempi non sospetti, e per questo futuristica, soprattutto perché concretamente calata nella realtà locale, con solido approccio imprenditoriale.

Nell’ex falegnameria annessa al complesso di Sant’Agostino, riqualificato da Enrica De Micheli e oggi sede della galleria d’arte Volumnia, il ristorante di Luigi Taglienti ha aperto nell’estate 2022. Il progetto della gallerista ha restituito a Piacenza una preziosa chiesa sconsacrata, affacciata sullo Stradone Farnese che taglia la città, e il ristorante adiacente, che Taglienti guida privilegiando i sapori della cucina italiana classica (però con twist contemporaneo e creativo, come dimostra il menu degustazione più audace tra i tre proposti agli ospiti, incentrato sulle salse), si relaziona alla galleria coerentemente con l’obiettivo di ampliare l’offerta culturale cittadina. Volumnia – spazio espositivo, di vendita e ricerca – è un progetto dedicato principalmente al design italiano. E in sintonia è la scelta di allestire la sala del ristorante, da 35 coperti, con arredi Anni Cinquanta e oggetti di grandi designer italiani del Novecento (dalla Sedia Leggera di Gio Ponti per Cassina al grande tavolo in marmo bianco di Carrara di Angelo Mangiarotti per Skipper, alla libreria Stildomus che arreda la parete principale), che si ritrovano anche nel giardino progettato dalla paesaggista Anna Scaravella con l’idea di inventare un’altra sala, en plein air, complementare allo spazio interno. L’illuminazione è curata da Davide Groppi, che ha “vestito” i tavoli con TeTaTeT bianche e oro, illuminando la sala con una grande Moon. Opere d’arte sono esposte a rotazione in sala (in questi mesi, fino alla fine di giugno 2024, è il momento della mostra dedicata al lavoro più personale dell’architetto Michele De Lucchi). IO è “uno spazio dove le persone possono stare bene, non solo per quello che mangiano, ma per il valore di ciò che le circonda”, per usare le parole dello chef. Un ristorante che può dirsi classico, per la tradizione a cui attinge, ma moderno nell’approccio, che punta sulla comprensibilità delle pietanze e sulla sostenibilità del lavoro, per migliorare non solo l’esperienza dei clienti, ma anche la condizione del personale in squadra.

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partiti dalla considerazione che nel mondo della ristorazione, anche quella di qualità, ancora non si presta la giusta attenzione al lavoro di sala, fondamentale nel veicolare il valore aggiunto dell’esperienza, la cultura e la storia del progetto”. C’è poi l’elemento centrale del benessere, e dunque della cura: “Non è sufficiente cucinare bene; contano la ricerca, la capacità di stabilire relazioni con il contesto locale, la bellezza, parola sottovalutata ma importante, che alimenta un posto vivo e dà sollievo e stimoli a chi nel ristorante lavora ogni giorno. In Italia c’è una cultura del bello spiccata, come dimostra la selezione di posti molto diversi l’uno dall’altro emersi in questa prima edizione del progetto, che ha proprio l’obiettivo di aiutare a riscoprire questa attitudine”. Corrobora il concetto Marco Mensurati, direttore di Gambero Rosso: “Quando ci siamo chiesti quali caratteristiche dovesse avere un locale per essere visionario,

UN RISTORANTE VISIONARIO È UN LUOGO CAPACE DI FARE STARE BENE LE PERSONE, CHE DECLINA IL CONCETTO DI BENESSERE NON SOLO A VANTAGGIO DEI COMMENSALI, MA ANCHE DI CHI IN QUELLO SPAZIO LAVORA

a sinistra: Luminist, Napoli SanBrite, Località Alverà

sopra: Il giardino di IO Luigi Taglienti, Piacenza.

ci siamo trovati di fronte alla difficoltà di circoscrivere tutto in poche righe: è evidente che essere visionari può avere mille e più risvolti diversi; noi li abbiamo messi nero su bianco, per puntellare un’idea che spesso pareva sfuggire. Ne è uscito un manifesto che abbiamo impiegato come cartina di tornasole per leggere con ottica nuova il panorama ristorativo che abbiamo intorno a noi. Questi parametri, per quanto aperti, definiscono infatti alla perfezione lo scenario attuale, in cui la visionarietà emerge in modo incontrovertibile, ma sempre diverso. Con un certo compiacimento ci siamo trovati di nuovo di fronte a una difficoltà, stavolta quella di dover scegliere la rosa dei candidati (prima) e dei finalisti (poi): sono tantissimi i locali meritevoli per qualità della cucina, visione, originalità, coerenza. Una lista potenzialmente molto più lunga di quella che ci siamo obbligati a limitare, che copre in modo capillare tutto il territorio”.

IL GIRO D’ITALIA

IN DIECI VISIONARY PLACES

Il cerchio si è stretto su dieci realtà che esprimono i valori contenuti nel manifesto. Diverse, come si diceva, per posizionamento geografico e contesto territoriale di appartenenza, orizzonte gastronomico di riferimento e ambizioni. Si evidenziano, però, anche dei temi ricorrenti: la qualità progettuale degli spazi, la capacità di distinguersi anziché seguire le mode, la responsabilità sociale e ambientale, l’atteggiamento prensile verso le sollecitazioni di altri mondi e discipline, la cura.

Così si compone la decina, a partire dal vincitore della prima edizione – Luminist, avamposto gastronomico delle Gallerie d’Italia a Napoli, a proposito di ristora-

STORIES RISTORANTI VISIONARI
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Photo Fausto Mazza

Gli interni progettati dall’altoatesino Martino Gamper – che ha basato il suo studio a Londra ma resta ancorato al “saper fare” della sua terra d’origine, convinto che il designer debba esprimersi al meglio sia artisticamente che artigianalmente – introducono un elemento di sorpresa e innovazione rispetto all’immaginario di un classico rifugio alpino, che AlpInn non vuole essere. Ciò non significa rinnegare la relazione con l’ambiente circostante, che anzi si esalta nel confronto costante tra interno ed esterno, divisi solo dalla superficie in vetro che abbraccia l’edificio su tre lati, regalando una visuale mozzafiato su Plan de Corones e le montagne tutt’intorno. Nell’ex stazione della funivia del Kronplatz – quasi una palafitta affacciata sul vuoto, dal forte impatto scenografico – il ristorante nasce come prosecuzione di Lumen (il Museum of Mountain Photography) e ne completa le intenzioni, in coerenza con il progetto artistico e ambientale di uno spazio culturale dedicato alla montagna. Cultura di montagna, infatti, si fa anche a tavola, con la cucina di Fabio Curreli che interpreta la filosofia Cook the Mountain di Norbert Niederkofler e Paolo Ferretti. Siamo a 2.275 metri di quota, ed è necessario tenere conto dell’impatto delle produzioni alimentari sull’ambiente, ripristinando, il più possibile, la spontaneità di una cucina che segue il ritmo delle stagioni e la disponibilità limitata di risorse in ambienti “ostili” (eppure ricchi di alternative, quando si scava sotto la superficie). Così, oltre a perseguire la riduzione degli scarti – dalla valorizzazione delle bucce di patate al riutilizzo dell’acqua di cottura delle verdure – AlpInn vive del rapporto con gli allevatori e i contadini locali, foraggiando una rete sociale ed economica virtuosa sul territorio. Tutto questo in un contesto decisamente piacevole per gli ospiti, che godono della bellezza e della funzionalità degli spazi, oltre che della buona cucina.

Inaugurato nel 2018 come ultimo tassello del progetto di riqualificazione architettonica che a Milano ha trasformato una distilleria degli inizi del Novecento nel quartier generale della Fondazione Prada –oggi uno degli spazi espositivi e di ricerca artistica più vitali e interessanti d’Europa – il Ristorante Torre, come dice il nome, si sviluppa al sesto e settimo piano della torre in vetro e cemento firmata da Rem Koolhaas. Si può quindi scegliere di prendere posto a tavola al termine di una visita all’esposizione permanente di arte contemporanea allestita con sviluppo ascensionale nell’edificio; o proiettarsi direttamente verso il ristorante e la sua terrazza, che offre uno degli affacci più belli sulla città. In sala si è scelto di assecondare la vocazione del luogo: alle pareti quadri di William N. Copley, Jeff Koons, Goshka Macuga e John Wesley, mentre parte degli arredi arriva dal “Four Seasons Restaurant” di New York progettato da Philip Johnson nel 1958; spazio anche a elementi dell’installazione The Double Club (2008-2009) di Carsten Holler, e ai piatti d’artista (da esposizione) realizzati per il ristorante da John Baldessari, Thomas Demand, Nathalie Djurberg & Hans Berg, Elmgreen & Dragset, Joep Van Lieshout, Goshka Macuga, Mariko Mori, Tobias Rebherger, Andreas Slominski, Francesco Vezzoli e John Wesley. In cucina, dopo una prima fase di rodaggio, nel 2020 è arrivato Lorenzo Lunghi (scuola Pierangelini), che ha reso anche l’esperienza gastronomica meritevole di visitare la Torre. Nel 2022, l’insegna ha meritato il riconoscimento di Miglior ristorante museale per Artribune. Ma in Fondazione Prada

l’esperienza si completa con un passaggio al banco dell’immaginifico Bar Luce, ideato da Wes Anderson per omaggiare i vecchi caffè milanesi. Due progetti complementari, entrambi votati a dotare i servizi al pubblico di un effetto sorpresa fondato sulla qualità delle idee e degli spazi.

IL SALE

Strada di San Bartolo, 100 San Vincenzo (LI)

RISTORANTE TORRE IN FONDAZIONE PRADA

Via Giovanni Lorenzini, 14 Milano

Il primo impatto con Il Sale, sulla collina di San Vincenzo, è dovuto alla bellezza dello scenario: da questa porzione rilassata di campagna toscana, la vista spazia fino a rintracciare l’Elba e Gorgona. Nelle giornate migliori si intercetta anche la Corsica. L’intenzione del progetto, che vede in Francesca Vierucci una patronne lungimirante, però, resta saldamente ancorata alla terra, declinata in un ristorante agricolo che considera, innanzitutto, la sostenibilità sociale e ambientale dei suoi modelli produttivi e commerciali. Una filosofia che si nutre (letteralmente) dell’azienda agricola biologica ultraventennale dov’è nata, nel 2020, l’ultima incarnazione del ristorante Il Sale, con l’arrivo di Shimpei Moriyama e della sua compagna Sayuri Tanaka, lui cuoco, lei pasticcera. Una coppia di giapponesi che ha ritrovato in Poggio ai Santi (che è pure relais rurale) quella propensione all’ascolto e alla cura che è tipica della cultura nipponica, e a migliaia di chilometri da casa loro viene attuata a San Vincenzo, ancor prima che nel confronto con gli ospiti, nel lavoro quotidiano in azienda. Per chi mangia o soggiorna nel relais, la comodità di un lusso che si esprime al meglio nell’esaltazione della natura è insomma rinsaldata da ciò che avviene intorno e dentro la cucina, in nome di una dedizione rivolta tanto verso il prodotto quanto verso il cliente. Si lavora con la materia viva, da zero, foraggiati dall’orto aziendale (ispirazione pure per i cocktail del bar agricolo Sal8) e dagli allevamenti locali. Il risultato è una proposta schietta e fondata sulla trasparenza di un linguaggio comprensibile per tutti: un cibo che vuole nutrire corpo e anima. E per ridurre l’impatto ambientale, oltre al contenimento degli scarti, si è optato per la realizzazione di un grande impianto fotovoltaico, con pannelli solari che alimentano tutte le strutture dell’azienda. Ma l’idea non è certo quella di operare nell’autarchia: la condivisione – di idee, conoscenza, bellezza – è il principio cardine di quella propensione alla tutela del territorio e dei rapporti umani che orienta l’attività nel suo complesso.

Con oltre quarant’anni di storia alle spalle, il ristorante fondato dai fratelli Giuseppe e Gaetano Trovato nel 1982 è oggi una delle tavole più importanti d’Italia, riconosciuta anche come fucina di talenti che nella cucina dello chef toscano hanno avuto modo di crescere, prima di affermarsi nel settore. Con il trasloco concretizzato nel 2022, Arnolfo ha dimostrato di sentirsi parte di quel movimento che del piccolo borgo di Colle Val D’Elsa ha fatto, negli anni, un centro di riferimento dell’architettura e dell’arte contemporanea, valorizzato dagli interventi di Daniel Buren, Jean Nouvel, Sol Lewitt, Giovanni Michelucci, e di tutti i nomi richiamati dal visionario (anche questo) progetto decennale Arte all’Arte. La nuova sede del ristorante, che dedica l’insegna ad Arnolfo di Cambio, sulla sommità di una lieve collina proprio di fronte alla città, è stata infatti progettata dall’architetto Andrea Milani, che ha ideato una scenografica struttura a forma di

ARNOLFO Viale della Rimembranza, 24 Colle Val d’Elsa (SI)

ALPINN Kronplatz (BZ)

in alto: AlpInn, Plan de Corones in basso: Il Sale, San Vincenzo

zione museale – che condivide il podio con secondo e terzo classificato, rispettivamente il SanBrite di Cortina d’Ampezzo e IO Luigi Taglienti di Piacenza, nato in sinergia con la galleria d’arte e design Volumnia. Gli altri nomi – pari merito – toccano nord, centro e sud della Penisola, città e località di montagna o rurali: AlpInn a Plan de Corones (BZ), Ristorante Torre in Fondazione Prada a Milano, Il Sale di San Vincenzo (LI), Arnolfo a Colle Val d’Elsa (SI), Mazzo e Ninù a Roma, Vettor a Bari.

in alto: Ristorante Torre, Milano in basso: Arnolfo, Colle Val d'Elsa

dove stare bene. Con il sostegno di un gruppo che agisce da mecenate, sostenendo la nostra caparbietà con investimenti seri”.

SI EVIDENZIANO DEI TEMI

RICORRENTI: LA QUALITÀ

PROGETTUALE DEGLI SPAZI, LA CAPACITÀ DI DISTINGUERSI

“Luminist è il brutto anatroccolo che diventa cigno” spiega Giuseppe Iannotti, chef patron dell’insegna vincitrice “Il fine dining è sempre stato nelle mie corde, Luminist ha rappresentato una sfida a confronto con una città che ha molte facce, suggerendo una visione diversa di ristorazione nel contesto di via Toledo, affollata di formule street food senza troppe ambizioni. E invece con Luminist dimostriamo che la qualità può essere applicata ai grandi numeri, senza scendere a compromessi, impostando degli standard alti, lavorando per la città, conquistando prima la platea locale, per poi attrarre anche un turismo in cerca di spazi

ANZICHÉ SEGUIRE LE MODE, LA RESPONSABILITÀ SOCIALE E AMBIENTALE

Anche a Piacenza, dove si scopre il terzo classificato, fondamentale si è rivelata la comunione di intenti tra una mecenate illuminata – la gallerista Enrica De Micheli – e lo chef Luigi Taglienti: “Piacenza non è una città semplice, e la progettualità di Volumnia, nel recuperare la chiesa di Sant’Agostino per farne uno spazio dedicato al design, è stata visionaria” spiega Taglienti “Io ho portato la mia visione, legando un concetto di soft gourmet, alimentato da una seria ricerca gastronomica, a un servizio più snello. Il cibo è un elemento importante, ma qui ci sono altri contenuti che offrono un’esperienza diversa: chi visita la galleria si sorprende nel trovare una tavola coerente con il contesto e concreta, all’interno di uno spazio che è magnifico. Galleria e ristorante procedono in sinergia, condividendo una visione, ma mantenendo la propria autonomia. E avere la possibilità di lavorare nella bellezza alleggerisce anche l’impegno della squadra: c’è una bella energia”. Raggiungere il SanBrite – secondo classificato –tra le montagne di Cortina d’Ampezzo apre una prospettiva ulteriore sul tema della visionarietà: “La mia cura è essere in contatto con la materia che poi lavorerò, vederla nascere, toccarla, farla crescere, darle l’importanza che merita” racconta lo chef Riccardo Gaspari, per cui “mangiare significa sentire la montagna. Ed essere miei ospiti significa darmi la possibilità di costruire la mia eredità”.

STORIES RISTORANTI VISIONARI
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cornice (Frame, com’è stata ribattezzato il progetto), conciliando estetica e funzionalità (e dunque benessere degli ospiti e di chi lavora all’attività). Uno scrigno in vetro inquadrato da una cornice in acciaio riflettente, tutt’intorno una piazza lastricata con scivoli di accesso, e un giardino con orto e uliveto. Nel basement la grande cucina delle preparazioni e un’importante cantina, sopra la sala da pranzo “sospesa” tra nuvole di giorno e galleggiante sulle luci della campagna di sera, affacciata sulla cucina a vista progettata con il contributo del Politecnico di Milano, a propria volta incorniciata da marmo giallo di Siena, che cementa il legame con il territorio. Un’architettura sfidante, alimentata dalla collaborazione con il mondo dell’arte, attraverso la selezione di opere della locale galleria iSculpture. E propedeutica ad amplificare la (riconosciuta) solidità della proposta gastronomica, nell’intento di attrarre le nuove generazioni, con un progetto contemporaneo perché piacevole, funzionale e sostenibile.

La storia di Mazzo – progetto ideato e portato avanti dai The Fooders, Francesca Barreca e Marco Baccanelli – nasce a Roma nel 2006. I due conquistano la città da un piccolo avamposto nel quartiere di Centocelle, di cui presto diventa centro propulsore per propiziare un inedito fermento gastronomico. Poi la chiusura, nel 2019, i nuovi progetti nati in parallelo, il periodo nomade nel mondo. Alla fine del 2023, Mazzo riapre nel nuovo spazio di San Lorenzo: la superficie aumenta, il format si sdoppia tra trattoria contemporanea e vineria, un angolo è dedicato ai vinili della collezione personale di Francesca e Marco. Per l’allestimento si è lavorato sull’artigianalità, sul design, sull’arte: per la vineria, maioliche Anni Settanta a terra, legno, banconi in pietra e travertino, una vetrina per ospitare le preparazioni di gastronomia fredda, sgabelli colorati che, come i bagni, sono un’opera di street art; nella sala principale il pavimento è in legno, la cucina si avvista dietro un grande oblò che funge da pass. La cucina si riconferma quella che ha conquistato la Capitale più di dieci anni fa. Ma è proprio la visione di futuro – che c’era all’inizio, e si conferma motore dell’ultima ripartenza – a fare di Mazzo un luogo “visionario” (e pioniere), da sempre. Il punto fermo è parlare di grande cucina con un linguaggio pienamente aderente alla street culture, dunque comprensibile e godibile, per tutti, anche nei suoi accenti più sfrontati. Con la musica – quella in vinile – a rappresentare la piacevole novità di un progetto che cresce nella direzione di far sentire a casa l’ospite, non solo attraverso i piatti che arrivano in tavola, ma anche per l’atmosfera intima e informale al tempo stesso, personale ma inclusiva. Perché la buona ristorazione sa tenere insieme anche gli opposti, collezionando idee e intuizioni che fanno entrare il mondo tra le mura di un locale.

MAZZO

Via degli Equi, 62. Roma

NINÙ Via della Frezza. Roma

In via della Frezza, a due passi dal Mausoleo di Augusto, Alessandra Marino ha aperto al pubblico le porte della sua casa-galleria, facendone un luogo di ospitalità che unisce ristorazione e hôtellerie. Interior designer e raffinata collezionista (ma anche storica imprenditrice della ristorazione romana, con ‘Gusto), Marino si era già preoccupata della rinascita di via della Frezza con il progetto Fondaco, tra galleria d’arte e boutique, studio di architettura e showroom, che

ha propiziato la sistemazione del vicolo con piacevoli arredi urbani. Ninù, inaugurato nell’estate 2023, è l’evoluzione di quella idea: 850 metri quadri articolati su due livelli, in cui Marino ha vissuto in passato, e oggi locale aperto all day long, con caffetteria, ristorante, cocktail bar, mentre tre suite per gli ospiti si scoprono al primo piano. Il dehors su strada anticipa l’infilata di sale che porta a scoprire la biblioteca di casa, dove si mangia circondati dai libri (oltre 9mila volumi d’arte, fotografia e design!) collezionati negli anni dalla padrona di casa. Ci sono anche una piccola serra, e una cuisinette che gli ospiti possono affittare per organizzare una cena privata; la luce entra dai grandi lucernari che segnano la verticalità del progetto. Senza soluzione di continuità si rivela l’allestimento della collezione contemporanea, che contempla nomi di livello del mondo dell’arte e del design, da Luigi Ontani a Pietro Ruffo, Marc Quinn e Maurizio Nannucci, Paola Navone e Giorgio Lupattelli. Ma l’organizzazione degli interni beneficia anche di pezzi d’arredo antichi e vintage, oltre a oggetti di design iconici. In sintonia con l’accoglienza di una casa rilassata seppur curata nel minimo dettaglio è la proposta gastronomica supervisionata da Marco Gallotta (in cucina c’è Simone Ianiro), all’insegna della sobrietà e dalla riconoscibilità di pietanze in prevalenza di mare. Per mangiare in un bel posto al giusto prezzo, nel centro di Roma.

Dedicato all’artista barese Vettor Pisani, Vettor è un ristorante-galleria d’arte aperto a Bari nel 2019 dal gallerista e collezionista Michele Spinelli in zona Umbertina per unire l’arte e il design con la cultura del cibo. La proposta gastronomica, curata da Nicola Ricci, si orienta sull’incontro tra Mediterraneo e tradizione nipponica, in nome di una fusion attenta. Il progetto di interior design porta la firma dell’architetto Simone Esposito, il logo ricorda le linee delle vetrate di uno dei più iconici palazzi della città barese: l’Acquedotto Pugliese.  Oltre all’esposizione permanente di un disegno di Pisani, Vettor ospita mostre e progetti artistici temporanei e site-specific, opere di grande formato esposte nel bar del ristorante, fruibili anche dalla strada riprendendo il concetto di vetrina già sperimentato da Spinelli con il Tender, lo spazio project temporaneo della galleria Doppelgaenger, che ha fondato in città insieme ad Antonella Spano. E tutti gli spazi beneficiano di una visione che coniuga l’amore per l’arte con le esigenze di un luogo di ospitalità: persino il bagno è il risultato di un progetto di ceramica artistica a opera dei francesi Sarah Jerome e Gael Davrinche. “Abbiamo interpretato Vettor come uno strumento di diffusione culturale, con l’idea che i nostri clienti si sentano ben accolti e che l’esperienza di una cena in un luogo così intimo possa attraverso il cibo avvicinare tutti all’arte contemporanea” spiega Spinelli a proposito del format “Dopo l’esperienza da gallerista ho pensato di stimolare lo chef del ristorante Nicola Ricci e la brigata di cucina. Ogni creazione dei menu stagionali è simile al processo creativo che si compie per la preparazione di una mostra d’arte: si parte da un momento di condivisione di idee, si scelgono gli ingredienti da utilizzare, per poi passare a bozze di immagini”.

VETTOR

Via Giuseppe Bozzi, 73. Bari

dall'alto in basso: Mazzo, Roma

Ninù, Roma

Vettor, Bari

I RISTORANTI CHE IN ITALIA PUNTANO SULLA SINERGIA CON ARTE E DESIGN. QUALCHE SUGGERIMENTO IN PIÙ

VARESE

Luce a Villa Panza

MILANO

Ristorante Torre in Fondazione Prada

Il Bistro di Aimo e Nadia

Andrea Aprea alla Fondazione Luigi Rovati

Enrico Bartolini al Mudec Verso

CORNAREDO (MI)

D’O

TORINO

Il Cambio

La Pista, Lingotto

GENOVA Etra

ROMA Mazzo Ninù

Retrobottega Ruvido

NAPOLI

Luminist Sustanza

FIRENZE

Il Gusto di Xinge

Gucci Osteria

C-ucina

COLLE VAL D’ELSA (SI)

Arnolfo

SAN VINCENZO (LI)

Il Sale

Per approfondire: consigli di lettura

PALERMO

Maison Bocum

POLLINA (PA)

Stazione Vucciria

KRONPLATZ (BZ)

AlpInn

BRUNICO (BZ)

Atelier Moessmer

ROVERETO

Senso, Mart

D’AMPEZZO (BL)

VENCÒ (GO) L’Argine a Vencò

PIACENZA

IO Luigi Taglienti BOLOGNA Calmo

L’AQUILA Forma

BARI

Vettor

OSTUNI (BR)

Masseria Moroseta

Antonio Montanari, Progettare la ristorazione professionale (Tecniche Nuove, 2019)

Julius Wiedemann e Marco Rebora, Restaurant & Bar Design (Taschen, 2014)

Knife and Fork (Gestalten, 2014)

Christoph Ribbat, Al ristorante. Una storia culturale dalla pancia della modernità (Marsilio, 2016)

Riccardo Salvi, Manuale di architettura d’interni. Bar e ristoranti (Franco Angeli, 2016)

STORIES RISTORANTI VISIONARI
CORTINA
SanBrite
VENEZIA Quadri
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MATERNITÀ E LAVORO: UNA SFIDA ANCHE NELL’ARTE

Curatrici, studiose, operatrici culturali, uffici stampa e soprattutto artiste. Come affrontano la sfida della genitorialità e l’organizzazione della vita di tutti i giorni in un settore precario, professionalmente instabile e molto demanding

SANTA NASTRO

Mentre comincio a scrivere questo articolo, mia figlia ha da poco compiuto undici mesi. Abbiamo già superato la fase più complessa dell’allattamento, ha messo i primi dentini, ha risposto in maniera eccellente allo svezzamento, gattona e ora si arrampica ovunque, cercando di tirarsi su. Undici mesi sembrano pochi, sembrano tanti, questi cambiamenti descritti in poche righe avvengono improvvisamente, e il genitore deve essere pronto a riorganizzare le proprie reazioni ad esse in maniera altrettanto rapida. Di conseguenza, la propria vita.

Il tempo è la chiave di volta dell’intera esperienza genitoriale, in una intersezione di piani riguardevole. Il tempo dei bambini è quello della scoperta: per l’adulto è un tempo ritrovato, dalle emozioni amplificate, le cose piccole, precedentemente scomparse dall’esperienza quotidiana, tornano ad essere importanti. I bimbi non conoscono l’attesa, l’orologio della loro esperienza di vita viaggia di pari passo alle loro necessità. Tutto rallenta, si definisce, si moltiplica. Proporzionalmente però il tempo dei genitori si assottiglia, scompaiono i vuoti, ogni minuto va riempito con un problema da risolvere, qualcosa da fare.

Tutte le donne, artiste, curatrici, operatrici culturali, che ho intervistato per questa indagine, che prima o poi diverrà un libro, hanno messo in luce questo aspetto. “La rinuncia più importante è stata quella di avere pochissimo tempo vuoto”, spiega l’artista Eugenia Vanni, “quello che si usa solo per pensare. Questo perché intanto mi sono accorta che esiste un tempo libero e un tempo non più libero: prima della nascita di Norma per me il tempo era un concetto già libero di suo. Tempo e libertà coincidevano. Non ero mai alla ricerca del tempo libero perché non ne conoscevo l’esistenza. La libertà del mio tempo era quella che mi permetteva di fare ciò che volevo e quando volevo. Lavoro e vita combaciavano perché si fondavano su principi simili, sempre rivolti a me stessa, al mio benessere e alla mia sopravvivenza”.

È POSSIBILE CONCILIARE MATERNITÀ E LAVORO?

Il corpo umano è una macchina complessa e meravigliosa e dona alle donne una fonte di energia fisica e mentale che prescinde da condizioni di partenza, età, allenamento ginnico. Una roba da supereroi, alla

illustrazioni: Marco Raparelli, 2020, disegno per Pianoterra , china su carta, 21 x 29. Courtesy dell’artista

quale compartecipano anche i compagni/e di questa avventura, che fa sì che, dopo una esperienza stremante come quella del parto, la mamma sia nelle condizioni (quasi) ottimali per affrontare la cura e l’assenza di sonno inevitabilmente immediati. E il lavoro? Sono tornata al computer dalla maternità quando mia figlia aveva quattro mesi. Una circostanza fortunata ha voluto che lo scadere dei cinque mesi a me concessi coincidesse con l’inizio del mese di agosto, quindi, come molti hanno teso a sottolineare, il rientro è stato soft, confortato anche dal grande sostegno che ho ricevuto da tutti i miei committenti.

Col senno di poi posso dire che per fare le cose per bene, una maternità per essere realmente efficace dovrebbe durare, senza ulteriori diminuzioni di retribuzione, almeno nove mesi, per permettere a madre e bambino di costruire e costruirsi, ma anche di rendere effettiva una organizzazione quotidiana e di lavoro che nei primi mesi non è realmente possibile. Invece, nella maggior parte dei casi, si preferisce avere alla scrivania donne piene di sensi di colpa, solo parzialmente realmente “sul pezzo”, mentre la sveglia dell’allattamento suona ogni tre ore a ricordare che dall’altra parte c’è un dovere importantissimo ed inderogabile.

Non è stato il mio caso: devo ammettere che – forte della comprensione dei colleghi e delle possibilità dettate da quello che oggi si chiama smart working, ma che da (quasi) sempre è stata la cifra del mio percorso professionale –, pur senza sostegni quotidiani da parte della famiglia, che purtroppo non vive nella mia stessa città, probabilmente non avrei resistito ulteriormente ad un prolungamento della maternità. Tornare a lavorare ha richiesto un impegno e un sacrificio e ancora una volta, una riorganizzazione, non indifferenti, ma è stato pure un piacere e una forma di realizzazione personale. Ciò non toglie che come molte, forse per tutte le donne, ci siano stati attimi nei quali alla mia testa è stato richiesto di essere su troppi fronti nello stesso momento e di risolvere dei problemi che richiedevano il dono dell’ubiquità, attimi in cui pensavo che non ce l’avrei fatta, attimi in cui ho meditato di non lavorare più. Ma oltre alla passione e alla necessità sono mossa, da madre di figlia femmina, dal senso di responsabilità nell’insegnarle anche nei fatti l’orgoglio di fare bene il proprio lavoro e di portare come donna un contributo alla società. Inoltre, la consapevolezza di costruire valore, non solo economico, anche per lei. In tal senso sembra andare anche il racconto della curatrice Federica Forti: “organizzo la mia giornata, e le mie settimane in base agli impegni di mia figlia e aggiusto questi solo se i miei impegni professionali non mi permettono di seguire i suoi. In tal caso scatta l’emergenza tata, papà, amiche, spesso anche last second. Ho ridotto i viaggi e le inaugurazioni ad una attenta e spietata selezione che spesso mi porta nostalgicamente a pensare a quando, alle 18:00, iniziava la giornata tra gallerie, mostre, amici e chiacchiere. Non mi fraintendere, sono stata da subito resiliente e ho viaggiato ovunque con Bianca per lavoro; ricordo una riunione da Assessore (alla Cultura del Comune di Carrara, ndr)

a Venezia in cui mi spostavo a piedi issando il pesante passeggino sui ponti e anche un meeting UNESCO a Cracovia in cui ero l’unica mamma con figlia da intrattenere. Però, e senza retorica, devo anche dirti che mia figlia ha stupito tutti prendendo parola alla riunione italiana delle città creative UNESCO a Torino e parlando con l’approccio, lucido e onirico al contempo, che i bambini hanno; all’epoca aveva 6 anni (ora 8)”.

NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI, SI PREFERISCE AVERE ALLA SCRIVANIA

DONNE PIENE DI SENSI DI COLPA, SOLO PARZIALMENTE REALMENTE

“SUL PEZZO”

Eugenia Vanni, Il lavoro è solo rispetto all’artista , 2017 olio su tela, 60 x 40 cm

Courtesy Galleria Fuoricampo. Photo Ela Bialkowska, OKNO studio

LA MATERNITÀ COMPORTA RIORGANIZZAZIONE

L’assunto a volte è che sia maggiormente desiderabile una vita scandita da una successione inesorabile di impegni ed eventi di una che richiede una maggiore razionalizzazione. E non obbligatoriamente questo è vero, se sulla bilancia si pone il peso della dispersione del tempo in situazioni talvolta non necessarie o economicamente sostenibili. Lo spiega bene la studiosa e curatrice Valentina Tanni, quando dice: “Cambiare ritmo, riorganizzare la vita, riconsiderare le priorità. Sono tutti processi che la maternità tende a innescare, e sono processi che possono essere molto benefici. Soprattutto per una persona come me, che tende sempre a prendere troppi impegni e a sovraccaricarsi di responsabilità. Avere meno tempo libero mi ha aiutata anche a capire come davvero voglio impiegarlo. C’è anche da dire, però, che ho avuto mia figlia a 39 anni; quindi, in una fase della vita in cui ero già molto predisposta alla ricerca di un ritmo diverso. Non è stato semplice e ci ho messo molti anni, ma pian piano ho rimesso le cose in equilibrio. E alla fine, questo nuovo equilibrio – una situazione in cui il lavoro invade molto meno la mia vita – si è rivelato più produttivo del precedente. Giusto per

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MATERNITÀ E LAVORO ARTISTICO NEL POSTPANDEMIA

Non è un caso che durante il primo lockdown sia nato, con l’obiettivo di riflettere sul tema della genitorialità e sulle sfide che ogni giorno affronta una mamma artista per portare avanti il proprio lavoro, il gruppo The Glorious Mothers, composto da una compagine serrata di artiste trenta-quarantenni residenti in tutta Italia, con background differenti – Sara Basta, Cristina Cusani, Grossi Maglioni (Francesca Grossi e Vera Maglioni) Mariana Ferratto, Caterina Pecchioli, Jonida Prifti, Dafne Salis e Miriam Secco – che ha avviato un percorso aperto a tutti, anche agli uomini, per confrontarsi insieme sui problemi e le soluzioni da attivare in questo ambito. Anche per ciò che concerne le questioni di tutela. Molte operatrici del settore, infatti, raccontano di non aver potuto usufruire di un assegno di maternità e quindi di aver dovuto affrontare in un momento delicato della propria vita l’ansia di un rientro imminente e lo stress da competizione, la paura o la certezza di non ritrovare un lavoro, la necessità di un sostegno familiare nei mesi di interruzione. Non è un caso che nel 2020 tra le proposte del manifesto di AWI Art Workers Italia figurasse anche quella di creare all’interno del lavoro autonomo “nuovi codici ATECO o la riformulazione di quelli già esistenti allo scopo di renderli più adeguati alle nostre specifiche professionalità e aprire alla possibilità di beneficiare di tutele come l’indennità di disoccupazione, i permessi per la malattia, la maternità e i congedi parentali”.

In una recente intervista su Artribune le madri gloriose commentavano: “nel diventare madri, ognuna con il proprio vissuto, ci siamo rese conto di come questa nuova condizione abbia implicato l’allontanamento dal mondo dell’arte. Siamo state discriminate nel momento in cui non abbiamo potuto o non abbiamo voluto rispondere alla richiesta costante di produttività e presenza implicita nel mondo professionale. La maternità intesa come desiderio di cura, non solo nei confronti de3 nostr3 figl3 ma di tutte le nostre relazioni, ci impone di non ascoltare i canti delle sirene sulla produttività ad ogni costo, magari a discapito delle comunità di cui facciamo parte. Questa scelta, a volte anche dolorosa, di non partecipare a tutto il partecipabile, dal mondo dell’arte viene percepita come mancanza, invece che come atto politico consapevole”. Il lockdown è stato fonte di riflessione anche per la giornalista e curatrice Marta Silvi, che della sua esperienza racconta: “la pandemia è stata una mannaia per chi come me si è trovato a gestire (insieme al partner per fortuna) una famiglia con bambini più o meno piccoli (quasi 1 anno, 7 e 9 anni, allora). Per diversi mesi io e mio marito abbiamo vissuto col pilota automatico, come automi indemoniati. Sveglia, prepara i bambini, attiva la DAD, lavora, lavora, lavora, cucina, intrattieni il piccolo, lavora, lavora, lavora, pulisci, cucina, sistema, prepara la cena, metti a dormire e infine… crolla. Ma, come ci ricorda il buon De Andrè, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Subito dopo abbiamo fatto tesoro di quell’incubo assaporando nuovamente tutte le piccole e grandi libertà che si danno sempre per scontate. Forse un lockdown come quello vissuto a casa nostra farebbe bene a tutti una volta ogni tanto”.

dirne una: da quando è nata mia figlia (fine 2015) ho pubblicato due libri e ne ho un terzo in cantiere. Tuttavia, ogni equilibrio è provvisorio, e anche questo verrà rimesso in discussione. Non vorrei dare l’impressione che la maternità mi abbia risolto la vita; resto la stessa persona inquieta, ansiosa e perennemente alla ricerca che ero prima”.

Nel mio caso, anche durante i mesi di maternità tenevo sempre il cervello collegato: ti dicono quando lei dorme, dormi. Io leggevo, studiavo, partecipavo a bandi, cercavo notizie, passeggiavo e facevo lunghe telefonate mantenendo un contatto con quelle persone che sentivo più vicine umanamente e professionalmente. La lucidità che mi ha donato la nascita di mia figlia è stato un regalo che non credevo che avrei ricevuto: ho sentito di aver conquistato una nuova capacità di lettura delle cose, dei processi, una empatia con il mondo, una visione delle cose concrete della realtà e un distacco da quelle fatue, una percezione sistemica e una capacità organizzativa che mai avrei pensato di poter avere. Come scrive una delle intervistate sono ed ero fin dall’inizio un vulcano di idee. È come se improvvisamente avessi guadagnato un potenziale che forse la routine anche professionale e la stanchezza negli anni aveva sopito. Riesco a fare cose che prima diluivo nel tempo, con un senso di sintesi che non mi conoscevo. So anche dire di no, cosa che leggendo le interviste raccolte mi accomuna alla maggior parte delle intervistate. Sempre Forti spiega: “sono diventata molto più concreta e selettiva. Ho imparato il valore del mio tempo, a guardare i miei limiti con affetto ma anche con volontà di migliorarmi e soprattutto ho scoperto la pazienza e la dolcezza, anche nel lavoro”.

BEAST MOTHER: LA MATERNITÀ COME PROTEZIONE

IL RIENTRO AL LAVORO

E IL PESO DELLE ASPETTATIVE

IL DISTACCO DALLA REALTÀ È UNA MALATTIA ENDEMICA

CHE SPESSO AFFLIGGE

UN MONDO CHE PIÙ DI

ALTRI DOVREBBE ESSERE

VIRTUOSO IN TERMINI DI CONSAPEVOLEZZA, QUELLO DELLA CULTURA

Luana Perilli, Amata, 2021, scultura in pelle, ceramica e legno

Sul tema del supporto reciproco durante le prime fasi della maternità, una ricerca importante viene dal duo artistico Grossi Maglioni con il progetto Beast Mother, nato grazie ad Italian Council e sviluppatosi attraverso incontri, dibattiti, workshop con interlocutori di tutte le età. La ricerca, si legge nel libro testimonianza del progetto, “ormai intrapresa nel 2015, è nata dall’esperienza personale delle due artiste e dalla loro esigenza di avviare un percorso condiviso di coscienza e di emancipazione, un’indagine sulla maternità per svincolarla dai limiti linguistici e iconografici”. Come formalizzare il tema della cura, della relazione, della solidarietà e della protezione in un’opera? Il progetto Beast Mother offre qualche risposta. Scrive Vera Maglioni: “nel 2015 Francesca aspettava la sua prima figlia Bianca, io mi ero trasferita nuovamente a Roma da poco, in seguito a una separazione. Franci (Francesca Grossi, ndr) era molto propositiva, si sentiva energica. Quell’anno avevamo ricevuto un invito per una residenza per artistз in una situazione che mi sembrava estremamente faticosa ma non riuscivo a comunicarle quanto sarebbe stato stancante il primo periodo di vita di una neonata. Non volevo frenare questa sua spinta vitale, perciò ci avventurammo verso Cosenza con una bambina di due mesi in treno. Ci siamo trovate a vivere e lavorare in una casa studio su due piani con una parete completamente trasparente, in vetro; la residenza si svolgeva in un clima di autogestione non troppo baby friendly. La situazione di emergenza mi spingeva verso una condizione di protezione istintiva, irrefrenabile, mi sentivo come un’orsa che deve proteggere i cuccioli e Francesca e Bianca in quel momento rappresentavano la fragilità di cui mi dovevo occupare. A Cosenza, in quella casa di legno e vetro, è nata la prima formalizzazione del progetto Beast Mother: per creare un luogo di cura e protezione per la mamma e sua figlia abbiamo realizzato un accampamento, che in seguito avremmo chiamato Tenda dell’Accudimento”

Tutto bene, quindi? Sì e no. Perché a ciò che cambia fuori e dentro di te, corrisponde un contesto che non sempre di razionalizzazione, ottimizzazione e tempo ritrovato vuole sentire parlare. Il distacco dalla realtà è una malattia endemica che spesso affligge un mondo che più di altri dovrebbe essere virtuoso in termini di consapevolezza, quello della cultura. Non conto gli innumerevoli WhatsApp surreali che ho ricevuto subito dopo la nascita della mia bambina. Cinque giorni dopo il parto: “Sei già rientrata al lavoro?”. E successivamente: “Lo so che sei in maternità, ma potresti scrivere della mia mostra? Intervistarmi? Promuovere il mio evento?”. O ancora: “ma adesso che hai avuto la bambina lavorerai ancora? O pensavi di stare a casa?”. Fino a far seguire, più avanti, ad una mail inviata di venerdì sera alle 21, una mail il lunedì mattina alle 8,30, oggettivamente non di vitale importanza, con messaggi del tipo: “so che sei presa dalla bambina e quindi forse la mia mail ti è sfuggita…”. O ancora: “c’è una inaugurazione, ma tu sicuramente non puoi venire” (e chissà perché no?). O ancora quel “come stai?” pronunciato con voce sommessa, come se invece dell’esperienza più bella della mia vita stessi affrontando un momento difficile. Il settore dell’arte aveva già dimostrato alcune falle nella sua capacità di connettersi con la realtà durante l’epidemia da Covid-19. Lasciando indietro la parte più bella che lo riguarda, cioè l’umanesimo, negli anni immediatamente precedenti la pandemia, il nostro mondo aveva cominciato a parlare un finto “managerese”, chiedendo riunioni a tutte le ore, non rispettando i normali momenti di pausa, i pranzi, le cene, le domeniche, i giorni di festa, le telefonate non oltre le 20, e così via. Non era insolito sentire qualcuno pronunciare frasi del tipo: “il collega/la collega è rimasta a casa perché aveva la febbre: io con la febbre a 38 vado a lavorare!”. Poi è arrivato il Covid e questa frase ha mostrato il lato debole e poco ortodosso della realtà che palesava. “Il rientro al lavoro è stato complesso”, spiega Mariacristina Ferraioli, giornalista, docente e curatrice. “È stato molto faticoso trovare un equilibrio tra le nuove responsabilità familiari e il ritorno alle attività lavorative. Senza contare la difficoltà emotiva del distacco, se pur breve, dalla bimba dopo mesi di rapporto esclusivo e totalizzante. L’aspetto più difficile da gestire è stato ed è il tempo in relazione alle aspettative degli altri. Nel mondo dell’arte c’è una pretesa all’immediatezza che quasi mai tiene conto delle esigenze di una donna che ha partorito da poco”. È incredibile come un ambiente che si reputa in fin dei conti progressista, e qualche d’uno direbbe di sinistra, abbia poi scardinato in larga parte le regole e i principi legati ai diritti dei lavoratori. Sarà che l’arte è prima di tutto una passione e una malattia, come il gioco d’azzardo, e io sono la prima ad esserne affetta, sarà che quando si lavora da casa, pratica molto diffusa tra gli operatori culturali, il conteggio delle ore e dei minuti è molto diverso rispetto a quando si timbra il cartellino, ma improvvisa-

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mente questioni di solidarietà sociale e professionale, malattia, difficoltà familiari (non solo per chi ha prole) vengono meno, diventando quasi un fastidio. Riparte dunque la guerra, che riguarda in generale tutti i settori delle professioni, tra persone con figli e persone senza figli, tutti intenti ad accusarsi gli uni con gli altri di non lavorare abbastanza e di non essere comprensivi con le difficoltà reciproche.

L’IMPORTANZA

DEL SUPPORTO RECIPROCO

Nonostante questo, ci sono anche le esperienze positive di reti solidali, o semplicemente professionalità che contano su percorsi di vecchia data, consolidati, anche nelle relazioni interpersonali. “Mi sono sentita”, spiega l’artista Luana Perilli, “supportata dal dialogo con le persone che credono nella mia ricerca. In particolare, vorrei ringraziare i miei galleristi che mi hanno proposto un nuovo progetto per il 2021 e poi per una personale il 2022. Ricordo una telefonata con Fabrizio del Signore mentre ero in uno stato di trance tra un lockdown e un altro, con la bambina piccolissima e lui mi diceva “mettiti lì due ore al giorno per iniziare un nuovo progetto: tu ce la fai” e con mia grande incredulità sono riuscita a riprendere a lavorare a delle sculture e un video elaborando un progetto di ceramica su Narciso e Boccadoro e la loro amicizia oltre la pestilenza e la sciagura. L’amicizia mi è venuta in soccorso in molte forme in quel periodo ed è stato spontaneo celebrarne la magia e il mistero. Mi alzavo di notte per andare a ritoccare le sculture ed ero di nuovo ossessionata da quel pensiero del fare. Questo mi ha dato la misura che ero davvero ancora me stessa come artista e come persona. Devo dire che non mi sono sentita abbandonata nono-

LA TRASVERSALITÀ DELLE

PROBLEMATICHE FINO AD OGGI

SOLO PARZIALMENTE AFFRONTATE

DAL SISTEMA HA BISOGNO DI UNA

ORIZZONTALITÀ NEL TEMA DEL

SOSTEGNO, METTENDO AL CENTRO

LA QUESTIONE DI GENERE

stante fossi distante, appannata o poco partecipe per ovvi motivi. Specialmente la comprensione di altre donne, non solo professionale, è stata fondante e fondamentale. La sorellanza è un fatto naturale che va enfatizzato e nutrito. Questa è una consapevolezza che è emersa per me in modo sempre più forte sul lavoro e altrove”. E ancora sempre Perilli racconta dell’esperienza di solidarietà tra artiste, il Pensiero stupendo, che ha coinvolto, tra le altre, Elena Bellantoni, Roxy in the Box, Lucia Veronesi, Guendalina Salini, Delphine Valli, donne non necessariamente madri che si sono rese conto di come la trasversalità delle problematiche fino ad oggi solo parzialmente affrontate dal sistema ha bisogno di una orizzontalità nel tema del sostegno, mettendo al centro la questione di genere. “Proprio Laura (Cionci, scomparsa nel 2022 ndr.) ha organizzato da me”, continua Perilli, “una serie di pranzi e momenti con artiste donne di Roma e mi rendo conto solo ora che aveva capito che avevamo bisogno di rinforzare quella rete che ha poi avuto un momento bellissimo nell’ incontro nazionale ‘il Pensiero stupendo’. Lei ha fatto da collante e da motore mettendomi al centro di un gruppo eccezionale in quei giorni in cui mi sentivo profondamente sola e avrei continuato sicuramente ad isolarmi come mia abitudine”. Per molto tempo la maternità è stata solo un tema da ritrarre, oggi è anche una questione culturale e sociale. Come scrive Hettie Judah nel suo saggio (scoperto grazie a Vera Maglioni) How Not To Exclude Artist Mothers (and other parents) (Lund Humphries, 2022), per molto tempo agli artisti è stato detto che non potevano avere successo ed essere genitori. Ora è necessario un cambio di paradigma, che riguarda non solo gli artisti ma tutti gli operatori del settore. E si può partire cominciando a raccontare delle storie positive (il libro di Judah, ad esempio, offre molti esempi di successo e la presentazione di buone pratiche e reti alternative pur condividendo con gli intervistati l’idea di un iniziale svantaggio professionale ai nastri di partenza), di come affrontare questo momento importante, offrendo punti di riferimento, idee, progettualità, proposte e nuove chiavi di lettura. Anche in Italia.

DO IT YOURSELF INTERVISTA A JOHANNE AFFRICOT, CURATRICE

Com’è la tua giornata tipo?

Rispetto all’anno scorso è cambiata, sia lavorando da quest’anno come curatrice all’American Academy in Rome sia continuando il mio lavoro di direttrice artistica e co-curatrice della programmazione e delle mostre di SPAZIO GRIOT.

Avendo figli, il sistema di gestione della vita famigliare è diventato ancora più ad incastro, più complesso, nonostante l’aiuto di nonne e nonni. In genere, li porto a scuola e a fare le varie attività extra-scolastiche, a rotazione con mio marito; per quanto riguarda il lavoro, controllo le varie comunicazioni, e in base a come ho organizzato l’agenda porto avanti i vari impegni dei progetti che seguo, tra ricerca, pianificazione, riunioni, organizzazione e sviluppo. In parallelo con la scuola, faccio i compiti con il più grande, o li controlliamo e correggiamo assieme, se ci sono errori.

Hai usufruito di un periodo di maternità pagato?

Con il primo figlio, in parte sì, non una grande somma, essendo principalmente una libera professionista.

Come è stato il tuo rientro a lavoro subito dopo la maternità?

Come lavoratrice autonoma, non ho mai avuto molti momenti di stasi. È una dinamica abbastanza feroce, che cambia anche a seconda del tipo di lavoro e visione che porti avanti, alla scala di reddito in cui ti trovi e alla tua posizionalità.

Hai dovuto fare delle rinunce importanti?

Passare meno tempo con i miei figli è già di per sé una rinuncia molto importante. Il tempo è una risorsa preziosa che scorre, scorre, scorre velocemente. Il lavoro non dovrebbe entrare in contrasto con la cura della famiglia, ma di fatto il sistema in cui siamo inserite/i come persone e lavoratrici e lavoratori (in questo caso della cultura), che ingenuamente o consapevolmente alimentiamo, ostacola fortemente le ambizioni e il desiderio di conciliare nel miglior modo possibile famiglia-lavoro. Poi bisogna sempre tener conto, come dicevo prima, delle diverse posizionalità che abbiamo, che impattano in maniera significativa sulle dinamiche o scelte di rinuncia.

Ad ogni modo, se prima cercavo di non

dire mai di no a progetti particolarmente interessanti e in linea con la mia visione culturale, oggi cerco di stare focalizzata il più possibile su una produzione che copra le diverse sfaccettature del mio essere sia una donna nera sia una lavoratrice della cultura, e che mi permetta di generare reddito e crescita professionale. Sono rinunce o traguardi che influiscono sulla mia vita e

su quella di chi mi è vicino, e che non possono mai essere fisse; cambiano a seconda delle opportunità che si aprono e delle necessità che si hanno. Oggi lavorare nell’American Academy in Rome diretta da Aliza S. Wong, prima donna di colore in 130 anni di storia dell’Istituzione, è sicuramente una grande opportunità e un importante riconoscimento a livello culturale.

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Johanne Affricot. Photo Emmanuel Anyigor

In che modo sei stata aiutata e supportata sul lavoro dal settore, se lo sei stata?

Ho sviluppato una strategia molto DIY (Do It Yourself, ndr) in chiave collettiva e professionale, e sempre riferita alla mia esperienza con la piattaforma editoriale e quella curatoriale. Quando lanci un progetto-visione che ha a che fare con la parola scarsità, e a tutto l’impianto storico, politico, sociale da cui deriva, l’approccio, sempre e comunque in una cornice di possibilità, non può essere che DIY. Con questo non voglio dire che non aspiri ad avere più supporto, anzi, negli ultimi anni il nostro lavoro è stato sostenuto molto e in maniera continuativa dalle istituzioni, come l’Azienda Speciale Palaexpo, gli Istituti Italiani di Cultura all’Estero, le Accademie estere in Italia, il Museo delle Civiltà con Andrea Viliani, aziende, ma è una ricerca continua di conferme e contare sulle proprie risorse intellettuali e creative è parte di un processo su cui riesco ancora a fare affidamento. Speriamo duri.

Hai visto un cambiamento in termini di percezione della tua persona/ del tuo lavoro da parte del mondo circostante (sia in termini positivi che negativi)?

Non particolarmente, proprio per i motivi di cui ti ho parlato.

E quale è stata/quale è invece la tua percezione di te stessa nel mondo del lavoro?

Un po’ più limitata, per ovvie e naturali ragioni del prendersi cura di altre vite, ma non limitante.

Chef Binta. Riformulare le tradizioni, a cura di Johanne Affricot, Eric Otieno Sumba, Museo delle civiltà, Roma, 2022.

Courtesy Spazio Griot, Photo di Emmanuel Anyigor

In che modo invece la maternità ha influito positivamente sul tuo lavoro? Tantissimo, soprattutto nella spinta e nella necessità di produrre qualcosa di diverso di cui anche i miei figli beneficeranno.

In che modo invece la pandemia da Covid-19 ha influito sulla gestione della tua giornata professionale? Ha influito, certamente, in particolar modo in chiave progettuale. Essendosi riversato quasi tutto online, e avendo anche il magazine online, GRIOTmag, ho traslato la maggior parte dei nostri progetti sul virtuale in quel periodo, specialmente perché erano commissionati e in collaborazione con istituzioni, organizzazioni artistiche o aziende. Se da una parte è stato un bene, perché mi ha permesso di portare avanti la produzione culturale e avere reddito, dall’altra, come per tutte le persone, non è stato semplice. Ma la presenza del mio compagno, nella prima fase di quarantena, che era obbligatoria per tutte e tutti, mi ha aiutato nella gestione della mia giornata professionale.

Credi che ci sia parità nella gestione dei figli tra uomini e donne? E che gli uomini affrontino gli stessi sacrifici? Se riconduciamo la domanda al periodo gravidanza-nascita in generale, assolutamente no. Ad oggi il congedo parentale obbligatorio è ancora fortemente squilibrato, perché l’esclusività del lavoro di cura è rimasta ancorata a un’idea di società in cui la madre è relegata all’ambiente domestico-prole e il padre a quello lavorativo: cinque mesi per le donne e dieci giorni per gli

uomini. È ovvio che un quadro giuridico di questo tipo ha delle ripercussioni a catena anche nella sfera sociale-famigliare, nella percezione e definizione dei ruoli di genere. Poi, in alcune situazioni che mi viene da definire – a gradi diversi e con le pinze –privilegiate, le famiglie possono costruire insieme un equilibrio, se lo vogliono. Ma sono sempre vari i fattori che contribuiscono a questo equilibrio. Con il mio compagno affrontiamo più o meno le stesse incombenze o comunque cerchiamo di redistribuire in maniera equa gli impegni per la cura della dimensione famigliare.

Consiglieresti ai tuoi figli di intraprendere la professione culturale da grande?

Spesso racconto loro quello che faccio, cosa provo a costruire e migliorare insieme ad altre persone e perché la loro madre lavora molto. Cerco di avvicinarli il più possibile al mio mondo, di far comprendere loro l’importanza della cultura e di quello che realizziamo. Quando posso li porto con me alle mostre o programmazioni a cui lavoro, ma anche a quelle di altre realtà, a teatro, ai concerti. Sicuramente mi farebbe piacere se crescendo manifestassero un interesse genuino verso l’ecosistema cultura, soprattutto in chiave sociale e di comunità. Allo stesso tempo, li renderei consapevoli delle difficoltà in cui versa il nostro settore e che è una lotta continua per la sopravvivenza.

CURARE È TESSERE LEGAMI

INTERVISTA A BENEDETTA CARPI DE RESMINI, CURATRICE

Com’è la tua giornata tipo?

Le mie giornate si sviluppano in maniera abbastanza eterogenea e non regolare. Sono piuttosto i progetti, gli artisti e le varie comunità a stabilire le mie giornate tipo. Una cosa certa è che mi alzo molto presto e vado a dormire molto tardi. Solitamente si tende a definire le proprie giornate dal bioritmo interno: il ritmo mio emozionale e quello intuitivo viaggiano in parallelo e tendono a non essere regolari mentre quello fisico e quello intellettuale si basano proprio sulla regolarità di una giornata di lavoro lunga che inizia alle 8.00 e termina verso le 20.00. Orario in cui, il bicchiere di vino, mi chiama!

Hai usufruito di un periodo di maternità pagato?

Non ho mai usufruito del periodo di maternità pagato.

Come è stato il tuo rientro a lavoro subito dopo la maternità?

È stato piuttosto traumatico, i miei figli avevano tre mesi e mezzo e non ero assolutamente preparata a lasciarli.

Hai dovuto fare delle rinunce importanti?

Quando loro avevano quasi un anno, ho scelto di lasciare il lavoro che svolgevo all’epoca, in una galleria privata. Ero giovane e non avevo assolutamente nessuna certezza di cosa avrei trovato dopo, ma i ritmi di una galleria (sto parlando del 2007) non coincidevano assolutamente con la vita dei miei figli. Il giorno dopo mi chiamò Carolyn Christov-Bakargiev per lavorare come assistente dall’Italia per la Biennale di Sydney, accettai!

In che modo queste hanno influito sul tuo lavoro e sul tuo bilancio in termini economici?

L’impossibilità di avere certezze economiche è stata direttamente proporzionale alla tenace volontà di costruirmi un curriculum e una reputazione da un punto di vista professionale.

In termini pratici come è cambiato il tuo modo di lavorare?

Ho imparato che curare significa studiare, approfondire, cucire e soprattutto tessere legami, con il pubblico, perché il pubblico è il veicolo principale del lavoro che svolgiamo.

In che modo sei stata aiutata e supportata sul lavoro dal settore, se lo sei stata?

Credo che gli artisti siano il mio nutrimento quotidiano e loro sicuramente mi hanno dato una carica emotiva molto forte ma soprattutto in quel momento particolare della mia vita c’è stato un riconoscimento da parte di colleghi curatori più affermati. Per questo credo nella solidarietà tra colleghi e soprattutto nel lavoro di squadra. Non ho mai creduto nell’idea della figura unica al comando….

Hai visto un cambiamento in termini di percezione della tua persona/del tuo lavoro da parte del mondo circostante (sia in termini positivi che negativi)? Quando sono diventata mamma ero abbastanza agli inizi del mio percorso lavorativo e nessuno metteva nelle possibilità che potessi avere già due figli (i miei figli sono gemelli). Quindi non c’è stato un benché minimo cambiamento, ero la giovane che doveva farsi le ossa, figli o non figli!

E quale è stata/quale è invece la tua percezione di te stessa nel mondo del lavoro?

Non credo che in quegli anni avessi una percezione di me stessa così precisa.

In che modo invece la maternità ha influito positivamente sul tuo lavoro?

Ho sempre ritenuto che l’essere stata mamma a trent’anni mi abbia portato a guardare in maniera più ampia e forse anche disincantata il mondo del lavoro. Penso che mi abbia infuso una grinta che forse prima non avevo.

In che modo invece la pandemia ha influito sulla gestione della tua giornata professionale?

La pandemia non ha molto cambiato la mia vita professionale nei ritmi, l’ho soltanto svolta in maniera più creativa. Ero alle prese con un grande progetto espositivo all’estero (Magic Carpets Landed per Biennale di Kaunas) e mi sono solo adattata a svolgere tutti gli studio visit e sopralluoghi via zoom.

Credi che ci sia parità nella gestione dei figli tra uomini e donne? E che gli uomini affrontino gli stessi sacrifici? Fortunatamente con mio marito abbiamo affrontato la maternità/paternità in maniera assolutamente paritetica: se non potevo, interveniva lui e viceversa. Purtroppo, però non costituiamo un modello, infatti credo che gli uomini siano assolutamente agevolati nella gestione dei figli, sia nel nostro settore che negli altri: non fosse altro che non partoriscono, non allattano e non devono affrontare una gravidanza che anche quella influisce, soprattutto se difficile, sul lavoro. Ritengo comunque ci siano delle eccezioni date dalla volontà del singolo.

Consiglieresti ai tuoi figli di intraprendere la professione culturale da grande?

Hanno quasi diciott’anni e oramai una idea più o meno precisa di quello che vorranno fare dopo il liceo, l’hanno già.

Certamente gli consiglio di inseguire i loro sogni!

STORIES MATERNITÀ E LAVORO
Benedetta Carpi De Resmini.
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Photo Martyna Stasiulionyte
RGB: 175, 155, 88 RGB: 20, 18, 21
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Fantasmagorie dell’alterità. Pierre Huyghe a Venezia

Chi s’appresta ad entrare a Punta della Dogana a Venezia non è “ogne speranza” a dover lasciare, bensì ogni certezza. La catabasi orchestrata da Pierre Huyghe (Parigi, 1962) ci invita, più che a vagare in una fatale e ultraterrena dimensione, a immergerci in un abissale luogo di passaggio: un interstizio di futuro in cui l’umano è compreso e al tempo stesso negato, per fare spazio a tutto quello che umano non è.

LIMINAL: UNA MOSTRA VIVENTE

L’esposizione, nata dalla collaborazione tra Huyghe e la curatrice Anne Stenne, si rivela quindi una condizione transitoria e complessa, in cui le tematiche care all’artista si intrecciano in sottili giochi di rimandi. Ad accogliere il visitatore, un primo livello di crisi: l’invadente oscurità che avvolge gli spazi di Punta della Dogana. Affrontarla significa innanzitutto mettere in discussione l’affidamento sulla nostra percezione, attraversando una soglia che conduce all’estroflessione del sé. Predisporsi alla ventura delle tenebre è il primo passo per esperire una mostra che si presenta come un organismo vivente e mutevole. Molte delle opere presenti sono dotate di una continua e imprevedibile evoluzione, guidata dalla rilevazione di impulsi da parte di sensori disposti nello spazio espositivo e alla loro rielaborazione in tempo reale attraverso sistemi di intelligenza artificiale: è questa contingenza a determinare il montaggio del video Camata – in cui un gruppo di macchine paiono compiere un rituale su uno scheletro umano nel deserto cileno di Atacama – o a modificare i colori e i suoni della vaporosa installazione Offspring

Allo stesso modo, le luci degli acquari che compongono Circadian Dilemma (El Dia del Ojo) – contenenti le due varianti (cieca e vedente) dei pesci Astyanax Mexicanus – si spengono e si accendono in base in base a ciò che accade nell'ambiente circostante. Al centro dell’interesse di Huyghe vi è dunque la possibilità di innescare processi che, partendo da condizioni precostituite, si evolvano indipendentemente, accogliendo le variazioni determinate dal caso e dall’ambiente come parte dell’opera stessa.

OLTRE L’UMANO

Prendendo in considerazione agentività umane, animali e artificiali, la mostra di Huyghe si configura come un’entità ibrida, una chimera le cui parti riecheggiano l’una nell’altra, replicandosi o ribaltandosi costantemente. Se in Idiom i performer si aggirano nelle tenebre con il volto nascosto da una maschera dorata e luminescente, che produce i fonemi di una lingua inventata in tempo reale, la protagonista del video-simulazione Liminal (opera che dà il titolo alla mostra) vaga nuda in una landa para-lunare, dello stesso colore della sua pelle: al posto del suo viso, una cavità che si apre su un cranio vacante, oscuro, che accoglie e inghiotte la fioca luce esterna. Tramite l’elisione del volto, ovvero di ciò che più di ogni altra cosa incarna l’espressività umana, il corpo si rivela nella banalità dell’assemblaggio delle sue membra, privato della sua facoltà di esprimere i propri turbamenti e dunque di generare empatia. Parallelamente, in altre opere le fattezze umane vengono abitate da menti e fisicità non umane: è il caso del granchio eremita dell’acquario Zoodram 6, che vive all’interno della riproduzione della scultura Musa dormiente di Constantin

Brâncuși, raffigurante appunto un volto femminile. Forse quello assente in Liminal. Ma soprattutto è il caso di uno dei video più curiosi della mostra: Human Mask, in cui una scimmia si aggira nei locali vuoti di un ristorante di Fukushima, indossando una maschera umana e una parrucca. Il disturbo generato dall’incontro del maldestro travestimento e i gesti umani (come quello di passarsi i capelli tra le dita) è il veicolo di riflessioni sulle problematiche dell’umanizzazione del non umano, soprattutto alla luce del fatto che il video è ispirato a un episodio analogo a cui l’artista ha realmente assistito.

#39 92
PIERRE HUYGHE / VENEZIA
Alberto Villa

L’installazione di Klaus Littmann per la Biennale di Venezia 2024: un albero e una nuova isoletta in mezzo alla Laguna

Il rinnovato Palazzo Diedo, spazio di produzione artistica e mostre della Berggruen Arts & Culture

Le nuove gallerie, da Tommaso

Calabro a Capsule Shanghai fino alla nuova sede delle Galerie

Negropontes

INTERVISTA ALLA CURATRICE ANNE STENNE

Alla base della mostra vi è una stretta collaborazione tra te e l’artista: in che modo si è articolata?

Per me il concetto di curatela è molto vicino a quello di produzione per un artista come Huyghe. Con questa prospettiva, negli ultimi dieci anni ho lavorato con lui in quasi tutti i suoi progetti, a partire dal concepimento delle opere, passando dal coinvolgimento di tutte quelle professionalità che ne permettono l’esistenza (architetti, scienziati, biologi, giardinieri, ecc.), fino ad arrivare all’esposizione: per Huyghe è difficile immaginare l’opera senza considerare il contesto espositivo. Le mostre che abbiamo organizzato, così come quella a Punta della Dogana, non sono mai una mera raccolta di opere, ma un milieu, un ambiente che evolve nel corso del tempo.

NASCITA, MORTE, RINASCITA

Quella di Pierre Huyghe a Punta della Dogana è un’esposizione stratificata come poche altre, fatta di cornici e nervature che dal particolare sfociano nell’esistenziale senza soluzioni di continuità. Perché se questa mostra parla di vita, parla anche necessariamente di nascita, sesso e morte: punti collegati l’uno all’altro da una linea che non è retta bensì curva e, per la precisione circolare. Al principio e al termine della mostra sono esposti rispettivamente il calco di un ventre gravido in basalto e una coltura di cellule tumorali umane: nonostante la loro estrema carica mortifera, tuttavia, le variazioni della loro velocità di riproduzione risultano nella generazione di un video morphing, dal quale Huyghe ha poi modellato una creatura biomorfa. La continuità fra morte e nascita è sottolineata dalla possibilità, una volta conclusa la visita, di ricominciarla attraversando il varco che separa il principio e la fine della mostra; ma è oltremodo racchiusa in un video (De-extinction, 2014) che sembra perfettamente spiegare la locuzione francese che battezza l’orgasmo “petite mort”: una sequenza di riprese realizzate con telecamere macroscopiche e microscopiche rivela, all’interno di una pietra d’ambra, l’amplesso di due insetti preistorici, vissuti un milione di anni fa e cristallizzati per sempre nel momento in cui i loro addomi si incontrano. Per una mostra che sembra indagare il futuro, lo sguardo così ravvicinato ad un passato tanto distante non può che sottolineare una condizione del vivente (e non solo) libera da ogni cronotopia, e dunque inevitabilmente ancorata ad un eterno presente.

Una caratteristica importante della mostra è la sua capacità di modificarsi in base a stimoli interni ed esterni riprocessati dall’intelligenza artificiale. Possiamo quindi parlare di una co-autorialità tra artista, macchina e ambiente?

Credo che quello che Pierre intenda fare è porre i presupposti per la formazione di una volontà, esplorando le condizioni di possibilità e impossibilità. Nel catalogo della mostra, il filosofo francese Tristan Garcia si riferisce a Pierre Huyghe come a un “involontario inventore di volontà”: l’incertezza è la condizione dell’evoluzione delle sue creazioni e della loro esistenza così come della decentralizzazione dell’idea del sé. Si viene dunque a creare una dimensione esterna dalla quale è la creatura a guardare il suo creatore, e non solo il contrario. Non parlerei di co-autorialità, ma di co-esistenza e sviluppo autonomo a partire da condizioni predeterminate.

Qual è stata la sfida maggiore nella realizzazione della mostra a Punta della Dogana? Negli ultimi anni Pierre ha lavorato su tanti progetti site specific. In questo, la sfida era portare il suo lavoro all’interno di un edificio con delle caratteristiche specifiche e poco modificabili (non potevamo, per esempio, scavare nel pavimento o aprire il soffitto, com’è successo in altri contesti). Tuttavia, tali restrizioni ci sono apparse come opportunità per sfidare il suo solito processo creativo e lavorativo, e quindi come occasioni di crescita.

Il panorama teorico e speculativo legato al postumanesimo oggi è guidato dalle posizioni (talvolta contrastanti) di pensatrici e

pensatori come Donna Haraway, Rosi Braidotti e Nick Bostrom, tra gli altri. In che modo la pratica di Huyghe si inserisce in questo contesto?

Le tematiche dell’umano, del non umano e del postumano sono molto presenti nella pratica di Huyghe sin dal suo principio. Certamente la forma in cui queste tematiche si offrono muta e si evolve, ma la questione della decentralizzazione del sé rimane capitale e accomuna il lavoro di Huyghe alle ricerche dei filosofi che hai citato, ma anche a quelle di Federico Campagna e Reza Negarestani, in particolare per quanto riguarda il ruolo presente e futuro delle rovine. In passato ha esplorato soprattutto la questione della contingenza dell’accidentale nella materia vivente, mentre ora lavora anche con aspetti tecnologici per i quali, tuttavia, Huyghe non ha particolare fascinazione: nella sua prospettiva, l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie che adopera sono strumenti di narrazione, che aiutano a creare situazioni qui nous échappe, che sfuggono al nostro controllo. Credo che, al di là delle dimensioni filosofiche, siano quelle poetiche e speculative a costituire il fulcro della pratica di Pierre Huyghe.

In che misura possiamo parlare di fantascienza per quanto riguarda il lavoro di Huyghe?

Certamente la fantascienza è un’importante fonte d’ispirazione per narrazioni, come quella di Huyghe, che indagano le dimensioni dell’impossibile. L’oscurità in questo senso è centrale, in quanto elemento che pratica una distorsione spaziotemporale, come un ponte che unisce opere che si estendono dall’archeologia alle ipotesi di futuro; una distanza che è essenzialmente mediata dal racconto.

Fino al 24 novembre 2024

PIERRE HUYGHE

LIMINAL

A cura di Anne Stenne

Punta della Dogana – Venezia

in alto: Pierre Huyghe, Untitled (Human Mask), 2014, Pinault Collection, Courtesy of the artist; Hauser & Wirth, London; Anna Lena Films, Paris, © Pierre Huyghe, by SIAE 2023

in basso: Pierre Huyghe, Mind’s Eyes, Courtesy of the artist and Galerie Chantal Crousel, Marian Goodman Gallery, Hauser & Wirth, Esther Schipper and TARO NASU

93 #39 PIERRE HUYGHE / VENEZIA
Punta della Dogana
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

NEBULA

BASEL ABBAS AND RUANNE ABOU-RAHME GIORGIO

ANDREOTTA CALÒ SAODAT ISMAILOVA

BASIR MAHMOOD CINTHIA MARCELLE AND TIAGO MATA MACHADO DIEGO MARCON

ARI BENJAMIN MEYERS

CHRISTIAN NYAMPETA

FONDAZIONE IN BETWEEN ART FILM 17.04—24.11 2024

COMPLESSO DELL’OSPEDALETTO VENEZIA

Guercino, il mestiere del pittore. La mostra a Torino

A ROMA, CON PAPA GREGORIO XV, E L’ATELIER-AZIENDA

IGiovanni Francesco Barbieri (Cento, 2 febbraio 1591 – Bologna, 22 dicembre 1666), detto il Guercino per via dello strabismo, rappresenta un tipo psicologico tra il workaholic ed il self made man, uno che sacrifica tutto sull’altare del proprio talento. Già infante, e senza alcune educazione specifica, dipinge sul muro esterno della casa natia una Madonna, che lo farà notare prima dai genitori, perduti prematuramente, poi da maestri e mentori, tra cui spicca il suo talent scout, il canonico Antonio Mirandola.

Nell’adolescenza centese, mentre lo Stato Pontificio conquista il ducato estense di Ferrara, Guercino frequenta pochi e scarsi maestri, ma un’opera gli è quasi sufficiente per apprendere il linguaggio e lo stile di una nuova relazione tra la realtà, la pittura e la luce: quella Madonna col bambino dipinta nel 1591 da Ludovico Carracci che lo inizierà a quella retorica delle passioni fino ad allora sconosciuta e che anni dopo, nel 1617, lo elogerà come “mostro di natura e miracolo da far stupire”. Guercino sfrutta la precoce fama e fonda la sua Accademia del nudo, a cui accorrono 23 alunni, anche dalla Francia. L’anno successivo visita Venezia, dove riceve il plauso di un Palma il Giovane estasiato dai suoi disegni. Studia i maestri veneti e apprende quel “tinger di forza” che rende la sua pennellata più sprezzante e di un colorismo più vigoroso. Ciò si aggiunge al suo linguaggio schietto e popolare con cui trasforma i miti classici in narrazioni vivide e drammatiche.

Quando il cardinal Alessandro Ludovisi, che lo ha sempre ammirato, sale al soglio pontificio come Gregorio XV, Guercino lo raggiunge nella Roma del nepotismo e del culto controriformista delle immagini per creare alcune delle sue opere più alte. Sono tre anni di lavoro ispirato ma anche di promesse infrante, come quella di affrescare la Loggia della Benedizioni in San Pietro che sfuma quando il pontefice e protettore muore nel 1623.

Rientrato a Cento, Guercino lavorerà nei decenni successivi in terra natale. Grazie a ciò potrà organizzare la sua bottega come una vera azienda, con regole ferree e compiti assegnati.

Fino al 28 luglio 2024 GUERCINO IL MESTIERE DEL PITTORE

A cura di Annamaria Bava e Gelsomina Spione

Musei Reali

Piazzetta Reale, 1 – Torino

in alto: Guercino, San Matteo e l’angelo, 1622, olio su tela, 120 x 180 cm Roma, Musei CapitoliniPinacoteca Capitolina

La mostra di Robert Capa e Gerda Taro da Camera – Centro italiano per la fotografia

La nuova galleria Edge Art Space, con artisti che rivoluzionano la pittura e una curatela di taglio sperimentale

Il debutto del primo grande Torino Foto Festival, in calendario da maggio a giugno con 29 mostre in 23 sedi

Quarantenne, rifiuterà sia di prender moglie sia gli inviti delle corti d’Inghilterra, della regina di Francia, Maria de’ Medici, e poi di Luigi XIII. Restare libero e prolifico è il suo obiettivo. La trasparenza è un valore e nel suo “Libro dei conti” annota ogni vendita: una miniera per gli storici dell’arte e uno strumento per la futura fama. Dotato di tariffario e tempi di attesa, l’atelier del Guercino è una macchina moderna che mal sopporta gli intermediari e i trafficoni. Il lavoro procede celato, nessuno può vederlo dipingere, tranne il suo copista Bartolomeo Gennari: ogni nuova creazione, infatti, viene copiata più volte e ogni copia venduta per un terzo del prezzo dell’originale, ma soltanto dopo che l’originale sia stato consegnato. Non c’è spazio per la sregolatezza, soltanto per il genio, anche organizzativo.

LA MOSTRA A TORINO

E IL PERIODO STORICO

Dopo la riapertura della Pinacoteca Civica di Cento, danneggiata dal terremoto del 2012, la Pinacoteca Nazionale di Bologna ha organizzato una monografica del pittore centese e un’altra giungerà in autunno alle Scuderie del Quirinale. Quella nella capitale sabauda rappresenta un capitolo fondamentale per quantità dei temi affrontati e per qualità delle opere. Il catalogo (Skira editore) è ricco di studi e di analisi di quel mestiere del pittore di cui Guercino

#39 96 GUERCINO / TORINO
Nicola Davide Angerame Guercino, Il ritorno del figliol prodigo, Torino, Musei Reali - Galleria Sabauda
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
Musei Reali di Torino

è l’emblema. Lui è un ingranaggio principale del sistema dell’arte della prima metà del Seicento, quando il Manierismo lascia il campo al Barocco. Galileo è costretto all’abiura nel 1633 ma gli ideali di una conoscenza metodica del reale iniziano ad imporsi dentro una rivoluzione scientifica che è nata a metà Cinquecento ma che matura nella filosofia empirista di Bacone (il Novum Organum è del 1620) e nel razionalismo di Cartesio (il Discorso sul metodo data 1637). Sacro e profano s’intrecciano nella danza degli affetti. Miti pagani, eroi ed eroine della storia antica, Ercoli e Sibille (una delle dieci sezioni della mostra è dedicata a loro) sono soggetti validi al pari di Madonne e Padri eterni (ve ne sono almeno tre in mostra). La magia, l’alchimia e l’astrologia (allegorizzata dalla Musa Urania) sono ancora parte di un mondo, quello principesco e cardinalizio colto, in cui laicità e religiosità procedono affiancate.

BOLOGNA, ATTO FINALE

Nello Stato Pontificio, di cui Bologna è la seconda città, l’arte s’infiamma di poesia ed estasi, assumendo l’afflato drammatico dei poemi dei letterati di corte, a cui anche il Guercino attinge, primi fra tutti l’Ariosto e il Tasso. Caravaggio, con la sua luce, il suo istinto cinematografico e (diremmo oggi) neorealista

sono un riferimento dell’epoca, così come la grazia e il distacco classicista di Guido Reni, che sarà per il Guercino un modello ma anche il concorrente più silenziosamente temuto. Dopo la scomparsa di Reni nel 1642, Guercino andrà a Bologna e vi passerà il resto della vita, concedendosi brevi viaggi. Nel 1649, la morte dell’amato fratello Paolo Antonio, autore delle più belle nature morte del suo studio, gli procura una depressione; con lui, il Guercino ha condiviso una solidissima fede cattolica e la casa-studio, dove ora subentrano la sorella e il cognato per aiutarlo nell’amministrazione. Il primo dei due infarti che colpiranno il pittore centese avviene nel 1961, cinque anni prima di quello fatale. Il suo lascito oggi appare enorme, come dimostrano le tante mostre a lui dedicate: segno certo di come il talento ben organizzato possa tramandare la propria fortuna nei secoli.

“LA GUERCINO-MANIA È ESISTITA DA SUBITO”.

INTERVISTA AD ANNAMARIA BAVA E GELSOMINA SPIONE, CURATRICI DELLA MOSTRA

Come avete lavorato su questa mostra?

Circa un anno fa abbiamo iniziato a pensare all’impostazione del progetto, facendo sopralluoghi, confrontandoci con la notevole mole di studi dedicati al pittore a partire dalle fondamentali ricerche di Sir Denis Mahon.

Abbiamo coinvolto alcuni dei più importanti studiosi del pittore nel Comitato scientifico.

È stato complicato ottenere i prestiti più importanti?

Alcuni prestiti importanti nascono dalla politica di scambio dei Musei Reali per valorizzare le proprie opere in un circuito nazionale e internazionale. In altri casi i prestatori hanno apprezzato il taglio dato alla mostra.

Sembra che esista una sorta di “Guercino-mania”?

È esistita sin da subito, come dimostra il gran numero di richieste giunte al pittore e alla sua strutturata bottega. Nella contemporaneità sono tante le mostre a lui dedicate, un numero quasi pari a quelle del Caravaggio. Ciò si spiega con la forza comunicativa e la straordinaria qualità delle sue opere.

Chi era Guercino nella vita privata?

Lo dicono le fonti e lo si deduce dalle sue lettere: era un uomo riservato e al tempo stesso schietto, legatissimo alla sua terra e alla sua famiglia, ma con un vero fiuto per gli affari. Era capace di tenere relazioni con personaggi molto diversi e di soddisfare anche committenti di rango.

Qual era il suo mondo, tra Cento e Roma, tra la periferia e la città eterna?

Cento è il luogo dell’anima, vi ritorna continuamente e lo lascerà solo nel 1642, costretto dalla guerra di Castro a rifugiarsi a Bologna. Roma è un episodio quasi imprevisto, legato all’invito che riceve da Gregorio XV; dopo la sua morte, Guercino non tornerà più nella capitale pontificia.

Cosa caratterizza questa mostra?

Al di là delle opere inedite presentate, l’esposizione permetterà di ragionare su alcuni snodi fondamentali della carriera del Guercino e innanzitutto sul ciclo Ludovisi, cioè sulle quattro tele commissionate dall’arcivescovo di Bologna tra il 1617 e il 1618, riunite

dopo più di quattrocento anni, e sulle quali ci si potrà nuovamente soffermare grazie al confronto attraverso una visione diretta.

Cosa porta in luce il ciclo Ludovisi?

Il momento della prima affermazione del pittore, tra l’exploit bolognese e l’aggiornamento sulla grande pittura del Cinquecento veneto avvenuto con il suo soggiorno nella Serenissima. Si vede una progressiva maturazione che è misurabile sulla diversa temperie stilistica dei quattro dipinti.

Che ruolo aveva la committenza nell’opera di un artista così orientato agli affari come Guercino?

In realtà Guercino, pur dentro i meccanismi del mercato e nonostante l’importanza dei committenti, conserva una grande autonomia e rivendica la libertà d’invenzione, anche nella resa dei soggetti. Il suo processo creativo prevedeva l’esecuzione di numerose prove grafiche prima di metter mano ai pennelli e sviluppare i soggetti sulla tela.

97 #39 GUOERCINO / TORINO

Una vita di colore. Franco Fontana protagonista del Brescia Photo Festival

Emma Sedini

l centro del VII Brescia Photo Festival

Ail Museo di Santa Giulia dedica una grande mostra a Franco Fontana, maestro indiscusso della fotografia a colori. La rassegna - un racconto che ripercorre tutta la sua carriera - è l’occasione per celebrare (con qualche mese di ritardo) il novantesimo compleanno del fotografo, nato il 9 dicembre 1933 in quella Modena a cui è rimasto legato per tutta la vita e dove ancora risiede. “Il colore… è la vita” - lo si sente affermare con sicurezza, come se raccontasse una di quelle verità esistenziali che l’umanità ricerca per tutta la permanenza terrena, e che solo con molti anni alle spalle è in grado, raramente, di afferrare. Che i colori siano tutto per Fontana, lo si intuisce guardando le sue foto. Scatti che non vogliono riprodurre il reale, ma rielaborarlo pittoricamente per esprimere l’essenza del fotografo che li realizza. Paesaggi naturali o urbani, liberi dai vincoli geografici, che non documentano, ma esprimono. Nelle sue mani, la macchina fotografica – analogica o digitale che sia: “non m’importa nulla” – diventa un mezzo funzionale a rendere visibile ciò che di solito non lo è: la sua interiorità, il suo vissuto. Come la penna per lo scrittore, o il violino per il musicista.

CINQUANT’ANNI E PIÙ DI FOTOGRAFIA A COLORI

Protagonista della grande mostra - curata dallo Studio Fontana, con il sostegno della Fondazione Brescia Musei e in co-produzione con Skira Arte - è il suo amato, e vissuto, colore.

Fino al al 28 luglio 2024

FRANCO FONTANA. COLORE

A cura di Studio Franco Fontana

Museo di Santa Giulia

Via Musei 55 – Brescia

in basso a sinistra:

Franco Fontana, Parigi, 1979 a destra: Franco Fontana, Riviera, 1990

nella pagina a fianco a sinistra:

Franco Fontana, Kuwait, 1979 a destra:

Franco Fontana, Basilicata, 1975

Che si vede in più di centoventi immagini che raccontano la sua carriera dal 1961 al 2017, dall’analogico al digitale, abbracciato da subito come un’innovazione utile, da usare a suo vantaggio, e poi “dimenticare”. L’allestimento - connubio sonoro, cromatico ed emotivo – funge da guida alla scoperta del lavoro di Fontana, il cui interesse non è mai stato riprodurre la natura in modo naturale. Ma trasformarla, reinterpretarla secondo la propria sensibilità. Quattro sezioni compongono il percorso: in ciascuna di esse, il visitatore va a indagare la presenza del fotografo che ha selezionato e scattato, cogliendo l’esperienza che ora condivide con il pubblico. Paesaggi umani, urbani, naturali, e gli Asfalti Titoli che devono ridursi a una semplice classificazione di convenienza, di necessità. Ciò che l’autore vuole trasmettere è altro: scompare il

campo assolato della Puglia, e così pure le strisce pedonali sulla strada. Emergono forme, geometrie, contrasti. Emergono colori: i colori della sua vita, che la illustrano, la ricordano, e la fanno continuare in eterno.

L’INTERVISTA AL MAESTRO FRANCO FONTANA

Cominciamo con una domanda che - in un certo senso - abbraccia tutta la sua vita. Che cos’è per lei la fotografia?

La fotografia per me è un modo di vivere. È qualcosa che mi dà soddisfazione, che mi corrisponde come se fosse uno specchio di quello che sono dentro. La fotografia mi fa esistere.

E il colore?

Il colore è la vita. Se si toglie il colore dalla vita, non rimane niente: solo il bianco e nero. Un’esistenza così, che valore potrebbe avere? Nessuno. Nel colore, poi, io rivivo il passato, quello che ho vissuto e che ormai è chiuso per sempre. E sarà ancora il colore - il colore delle mie fotografie - ciò che rimarrà di me, quando me ne andrò.

Come si approcciato al digitale, quando è arrivato? Con curiosità, o scetticismo?

Ho subito iniziato a utilizzarlo anche io. Sono convinto che sia il risultato quello che conta, e non il mezzo con cui lo si ottiene. Non capisco quelli che sono contrari al digitale: se permette di risparmiare tempo e migliorare il processo, perché non usarlo? In fondo, per me la

#39 98 FRANCO FONTANA / BRESCIA

macchina fotografica è solo un mezzo. La adopero per fare le foto, e poi me ne dimentico. Ciò che importa è quello che si esprime. E il digitale per me è uno strumento con cui esprimermi, come fosse la penna per lo scrittore.

Parliamo della mostra: che immagini ci aspettano? Come interpretarle?

Nessuna delle mie fotografie va vista come qualcosa di documentaristico: non intendono rappresentare la realtà, ma me stesso. Quello che io sono e la quotidianità che è già stata parte di me.

Vale lo stesso per i paesaggi, immagino. Certamente. Quelli che vedete non sono i paesaggi reali della Puglia o della Basilicata. In essi, sono io - prima di tutto - che divento paesaggio, ed è il paesaggio che diventa me. Chi li osserva, può sempre imparare qualcosa: ne può trarre delle prospettive che altrimenti non avrebbe mai visto.

Testimoni è il tema Festival di quest’anno. Lei, personalmente, di che cosa si sente testimone?

Testimone dello spirito. E dell’invisibile.

I TESTIMONI DEL BRESCIA PHOTO FESTIVAL 2024.

INTERVISTA ALLA PRESIDENTE

Dodici mostre sono previste per la VII edizione del Brescia Photo Festival 2024, promosso dal Comune e dalla Fondazione Brescia Musei. A fare da filo rosso è l’essere testimoni. “Testimoni di un modo di fotografare che non ci sarà più; di un clic che sarà superfluo con l’AI” - spiega il curatore Renato Corsini. Si apre con l’omaggio a Franco Fontana e con una testimonianza - nel senso vero del termine - in memoria della strage di Piazza della Loggia, realizzata da Maurizio Galimberti. A seguire, tre mostre vedono protagonisti Federico Garolla, Chiara Samugheo e Carlo Orsi. Aprirà in estate il progetto di dieci fotografe, chiamate a reinterpretare il Vittoriale, per poi concludere con

un’ultima mostra a settembre. In occasione dell’inaugurazione, abbiamo intervistato la Presidente della Fondazione Brescia Musei, Francesca Bazoli

Qual è il valore della fotografia per il pubblico di oggi?

La fotografia si trova a dover esprimere il proprio valore artistico rispetto al proliferare dell’immagine digitale. Il compito delle Istituzioni culturali che se ne occupano - come il Museo di Santa Giulia - è approfondire questo medium come espressione simbolica e artistica,

3

COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

Il Corridoio UNESCO, una passeggiata monumentale di quasi un chilometro attraverso 2500 anni di storia che collega in un unico percorso pedonale, aperto al pubblico, l’area del Capitolium al complesso di Santa Giulia

La mostra sui Macchiaioli a Palazzo Tosio Martinengo, che presenta oltre 100 capolavori di Fattori, Lega, Signorini, Cabianca, Borrani, Abbati e altri, provenienti in gran parte da collezioni private

Il Teatro Romano, per osservarlo allo stato attuale prima che David Chipperfiel presenti il progetto per la valorizzazione del sito archeologico, così da ripristinarne la funzione di teatro

Museo di Santa Giulia

stabilendo un percorso di lettura destinato a chi, domani, impiegherà l’immagine per dare senso alle proprie comunicazioni, ma in modo consapevole delle ragioni artistiche del mezzo. “Il mezzo è il messaggio”, parafrasando Marshall McLuhan.

Arrivate da un 2023 di grandi numeri e spinte al futuro. Come sta andando il cambiamento innescato dall’essere Capitale?

Questa occasione ha letteralmente trasformato la nostra Fondazione. L’essenziale è stato comprendere il ruolo che la cultura, il patrimonio, i musei hanno per la comunità. Stiamo tutt’ora implementando decine di programmi di inclusione; il cambiamento si dirige verso partecipazione ed empowerment dei cittadini. La fotografia è per questo fondamentale, in quanto linguaggio più formativo della grande storia dell’arte.

E il Festival, come è cambiato dagli inizi a oggi?

Il Festival è sempre stato per noi un accompagnamento alla trasformazione strategica dell’Ente nella valorizzazione del patrimonio bresciano e della promozione della cultura contemporanea in Italia. Quest’anno ci dedichiamo proprio al tema della testimonianza del cambiamento, in atto nel nostro Paese dal Dopoguerra, con fotografi italiani che ci hanno raccontato al mondo negli ultimi ottant’anni. L’obiettivo è abilitare il pubblico - grazie al medium fotografico - a una lettura del proprio tempo.

Parliamo del tema di questa VII Edizione. Chi sono i Testimoni?

Sono tutti i fotografi protagonisti. Testimoni, appunto, della trasformazione della nostra società che, dal dramma della Guerra è riuscita a entrare prima nella modernità, poi nelle contraddizioni, nel benessere, negli abusi dell’opulenza, e ora nell’epoca dell’incertezza. Per citare giusto il primo, Franco Fontana racconta la potenza della modernità e la nascita della civiltà dei consumi, con colori binari e tracce essenziali, che evidenziano le contraddizioni e la solitudine di questo sviluppo.

99 #39 FRANCO FONTANA / BRESCIA

120 immagini di due leggende

CAMERA

Centro Italiano per la Fotografia 14 febbraio – 2 giugno 2024

TORINO

Via delle Rosine 18 www.camera.to

Rober t Capa Ger da Tar o l ’amor e la guerr a

Anselm Kiefer.

L’arte alchemica di un angelo caduto è in mostra a Firenze

Nicola Davide Angerame

Se fossimo tutti angeli caduti, Anselm Kiefer lo sarebbe di più e meglio, perché su questa nostra condizione esistenziale, in bilico tra il male del mondo ed il tentativo di redenzione, si gioca tutta la sua arte. “L’arte non smette di oscillare tra perdita e rinascita”, dice.

La mostra di Palazzo Strozzi è incentrata sulle ultime produzioni, ma ospita opere prodotte a partire fin dagli esordi nel 1969. Il viaggio ha inizio nel cortile interno, su un “fondo oro” di 63 metri quadrati, Engelssturz, ispirato al dipinto di fine Seicento di Luca Giordano, quel San Michele arcangelo che scaccia i rivoltosi dal Paradiso, quei “poveri diavoli” che per il maestro tedesco siamo tutti noi: angeli caduti.

ARTE ALCHEMICA

La mostra procede per temi, mettendo in risalto come l’arte di Kiefer non smetta mai di fare filosofia e poesia in un processo di trasformazione alchemica di materiali, segni e simboli. Una metamorfosi di linguaggi (della memoria personale, del mito, della religione, della storia, della letteratura e della filosofia) che avviene dentro le sue opere-crogiolo dedicate all’Eliogabalo di Artaud come a Raffaello, a Lucifero come ai Presocratici, a Raymond Roussel come a James Joyce o Robert Fludd, il filosofo, medico, occultista e alchimista inglese del XVII secolo che è una delle figure di riferimento di Kiefer.

Le direttrici spesso stabiliscono punti di fuga imperiosi; dai dipinti di Kiefer sembra raggiungerci un passato atavico. Sono quadri memoria, risultati di processi costruttivi che usano l’elettrolisi ed incamerano il tempo nelle stratificazioni delle rielaborazioni. Nell’installazione immersiva creata ad hoc per la mostra appaiono sessanta Dipinti irradiati (1983 – 2023) che saturano pareti e soffitto della sala espositiva con i loro corpi malati: Kiefer ha dipinto con le radiazioni.

Il collage di tela su tela è alla base di Ave Maria (2022), in cui le teste dei filosofi, decollate

Nasce a Donaueschingen, in Germania

8 marzo 1945

Non riesco a vedere un paesaggio in cui la guerra non abbia lasciato traccia

Le macerie sono come il fiore di una pianta; sono l’apice radioso di un metabolismo incessante, l’inizio di una rinascita

Per me un quadro non è quasi mai finito (…) lavoro a molti progetti contemporaneamente e il risultato è simile a un giardino dove crescono molte piante nello stesso momento

Il mio rapporto con Palazzo Strozzi è molto speciale (…) è uno dei miei palazzi preferiti al mondo

1966 Primi dipinti e studi presso le accademie di Friburgo e Karlsruhe

Di notte mi sposto in bicicletta da un quadro all’altro

Senza metamorfosi, non abbiamo nulla in cui sperare dopo la morte

Gli angeli assumono molte forme. Satana era un angelo. Non siamo in grado di immaginare Dio in uno stato puro, abbiamo bisogno di simboli meno puri che comprendano elementi umani

Quello che mi interessa (…) è la sfida di tradurre in termini plastici dei pensieri spirituali

I girasoli sono un simbolo della nostra “condition d’etre”

L’arte dovrebbe permettere di guardare al di là delle cose, il visibile dovrebbe essere semplicemente il supporto dell’invisibile, l’emanazione del mistero divino

come tanti Giovanni Battista, sono sospese come stelle nel firmamento verginale che introduce al Paradiso. L’iperuranio di Kiefer è ctonio, giace negli inferi terrosi di una pittura da cui emergono tracce di miti e simboli ancestrali sepolti e dove civiltà, culture e natura si fondono e stratificano da oltre mezzo secolo in opere fuori scala realizzate negli atelier di Germania e di Francia, divenuti opere d’arte essi stessi, laboratori alchemici in cui la materia bruta si trasforma nell’oro di un’arte poetica ed espressiva, abnorme ed intimista, materialista e spirituale, opulenta e desolata.

EBRAISMO

Cattolico di formazione, e delusione, Kiefer si converte allo studio del misticismo ebraico e della Cabala dopo aver studiato la prova dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, così come la questione di Dio e il male, nella teodicea. In

1969 Esordio con le fotografie della serie Besetzungen (Occupazioni). Affronta la storia del Terzo Reich e l’identità post-bellica della Germania

1971 Entra in contatto con Joseph Beuys e partecipa alla sua azione Save the Woods Concepisce l’arte come strumento di catarsi e sceglie di lavorare con materiali poveri

1973 Sposa Julia, sua amica ai tempi dell’università, apre lo studio a Ornbach

mostra, la scultura En Sof (L’Infinito) del 2016 richiama lo Zohar, il Libro dello splendore che tratta dell’Uno e delle sue emanazioni. Morte e resurrezione sono il tema di Hortus philosophorum (1997-2011) in cui girasoli neri alti cinque metri sbocciano dal ventre del filosofo; l’opera

Fino al 21 luglio 2024

ANSELM KIEFER

ANGELI CADUTI

A cura di Arturo Galansino

Palazzo Strozzi

Piazza Strozzi – Firenze

in alto: Anselm Fiefer. Photo Davide Corona, SayWho

a destra: "Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio

Con G. Baselitz rappresenta la Germania Ovest alla 39esima Biennale Arte di Venezia, dove espone i suoi libri d’artista

1980

1988 Mostra monografica itinerante e affermazion e negli Stati Uniti

1992 Lascia Höpfingen, e il suo studioinstallazione, e si trasferisce a Barjac in Francia

#39 102
KIEFER / FIRENZE
ANSELM KIEFER IN 10 CITAZIONI

è basata su un collage di xilografie che sono un altro elemento caratteristico, così come la fotografia, spesso montata su grandi lastre di piombo. Le prime Kiefer le realizza nel 1969. Sono coraggiosi autoritratti con braccio teso e in divisa, quella paterna della Wehrmacht nazista; sono le celebri Occupazioni, con le quali un figlio del dopoguerra ha sfidato la memoria di una nazione, raccogliendo ostracismi e plauso. Con esse si conclude la mostra, un viaggio a ritroso che va dalle cadute attuali a quelle della storia passata.

LA GUERRA

“La distruzione è un mezzo per fare arte”, sostiene Kiefer, “le rovine non rappresentano solo una fine, ma anche un inizio”. Se Beuys ne ha fatto materia per la sua arte performativa e sciamanica e se Richter ne ha dipinto quel che appariva su giornali e vecchie foto di famiglia, Kiefer ha usato la guerra come tragica presa di coscienza conseguente alla distruzione della Germania e la separazione traumatica del suo

2003 Progetta set e costumi per Edipo a Colono del Burgtheater di Vienna e per Elektra di Strauss al San Carlo di Napoli

3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

2007 Prima mostra di Monumenta al Grand Palais di Parigi. Il Louvre acquista tre sue opere. Nuovi atelier: uno nel Marais, l’altro a Croissy-Beaubourg vicino Parigi

Il Guerriero con lo scudo di Henry Moore, finalmente tornato a Palazzo Vecchio (per cui era stato pensato)

La casa museo Franco e Lidia Luciani, un luogo di collezionismo e memoria inaugurato da pochi mesi

Il controverso murale di Nemo’s, in via Palazzuolo, in uno spazio polifunzionale connesso al Museo

Novecento

2009 L’Opera Bastille gli commissiona Am Anfang ispirata ai testi biblici dell’Antico Testamento

2010 Primo artista plastico ad ottenere la cattedra di Creazione artistica del Collège de France

popolo. Un evento dal quale trarre non logiche speculazioni di geopolitica o di psicologia delle folle, ma per realizzare, in una pittura che va ben oltre se stessa, una grande elaborazione estetica del Senso della Storia: delle sue radici, relazioni e destini.

“Da bambino giocava con le macerie e costruiva piccoli edifici con i mattoni”, ricorda il direttore della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra Arturo Galansino: sembra trattarsi, con il senno del poi, di un imprinting infantile destinato a segnare un cammino. O una caduta.

Tra la Storia magistra vitae di Cicerone e la “malattia storica” di Nietzsche, Kiefer sembra trovare una terza via trasfigurando la Storia in Arte, il “fatto storico” in azione creativa e la memoria in scenografia sublime intesa come dimensione spalancata e fagocitante in cui siamo chiamati a smarrirci e ritrovarci, per declamare infine i versi del poeta amato, Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera”.

2020 Sue opere sono installate, in permanenza, al Pantheon di Parigi

2022 Apertura al pubblico della Fondazione Kiefer di Eschaton-Anselm a Barjac, Francia

2023 Wim Wenders gli dedica il documentario Anselm. Das Rauschen der Zeit (Il rumore del tempo) presentato al Festival di Cannes

103 #39 KIEFER / FIRENZE
Metà Anni ’90
viaggi in India, Asia, America e Nord Africa
Palazzo Strozzi
Lunghi

DONNA

Donna in scena. A Treviso il nuovo secolo tra mondanità, erotismo ed emancipazione

Livia Montagnoli

Fasciata in un abito di seta gialla, con ipnotico copricapo en pendant, Wally Toscanini punta lo sguardo su chi le sta di fronte, oltre il ritratto che la immortala – sdraiata su un elegante sofà, come una dea della bellezza – in occasione di una festa in casa Visconti. È Alberto Martini, nel 1925, a prestare il suo talento per rappresentare la fascinosa figlia del celebre direttore d’orchestra –distintasi per l’impegno in diverse cause sociali e culturali, oltre il muro del pettegolezzo – nel pastello scelto come locandina della mostra Donna in scena Boldini, Selvatico, Martini, al

Museo Santa Caterina di Treviso, dal 13 aprile al 28 luglio. Con Wally, sono numerose le protagoniste di un progetto espositivo, a cura di Fabrizio Malachin, che si propone di “fotografare” un passaggio d’epoca, a cavallo tra XIX e XX secolo, attraverso il cambiamento di ruolo e prospettive della figura femminile nella società. A finire nei quadri degli acclamati ritrattisti del tempo – da Giovanni Boldini a Giacomo Grosso e Vittorio Corcos, fino al britannico John Lavery, oltre agli Italiens de Paris Giuseppe de Nittis e Federico Zandomeneghi, e ai veneti in nutrita compagine, da Ettore Tito a Eleuterio Pagliaro, Giulio Ettore Erler e Lino Selvatico – è la modernità che si nasconde dentro ai salotti

mondani, nel tempo libero di una nuova borghesia, persino dietro all’apparente frivolezza di vestiti all’ultima moda, merletti, gioielli. E che si manifesta anche attraverso l’erotismo. Seppur parziale nel suo restituire l’immagine di una parte minoritaria e privilegiata della società (quella delle Eleonora Duse, Toti Dal Monte, Lydia Borelli…), la mostra descrive un mondo che si muove verso il progresso, e che presenta alle donne l’opportunità di conquistare spazi di indipendenza e libertà prima preclusi. Sono più di 150 le opere riunite per l’occasione, frutto di prestiti da musei e collezioni pubbliche e private ma anche risultato di un lavoro di riscoperta delle collezioni dei Musei Civici di Treviso,

#39 104
IN SCENA / TREVISO

che aiuta a cogliere la vivacità economica e artistica del Trevigiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. L’input per la realizzazione della mostra si deve, peraltro, all’acquisizione di un vasto nucleo di opere di Lino Selvatico, campione del ritratto alla moda del primo Novecento tra Venezia, Milano e l’Europa.

LE DONNE DELLA MODERNITÀ. INTERVISTA AL DIRETTORE

DEI MUSEI CIVICI DI TREVISO, FABRIZIO MALACHIN

Con Donna in scena si rappresenta lo snodo di un’epoca verso la modernità attraverso la storia di donne che vivono questo passaggio come conquista di nuovi spazi. Che società ci raccontano queste protagoniste? Le donne ci raccontano il cambiamento di una società. Nell’epoca postunitaria il Paese sente la necessità di mettersi al passo con i più moderni Stati europei: si afferma la nuova borghesia, le città e i servizi subiscono processi di modernizzazione, vengono fatti investimenti pubblici in vari settori. Soprattutto si tratta dell’epoca in cui la donna entra in scena con prepotenza reclamando diritti elettorali, economici e sociali. Non a caso il ritratto femminile si afferma come genere in questo periodo, e con esso acquisiscono una straordinaria attenzione la moda, l’abbigliamento, gli accessori al femminile. Le donne diventano le protagoniste delle campagne pubblicitarie delle fabbriche emergenti di automobili, cioccolato, biciclette, birra. A loro si aprono attività prima esclusivamente riservate agli uomini, come andare a cavallo o in bicicletta per sport e tempo libero, o intraprendere professioni che gli erano state precluse (la prima donna medico entra in un ospedale trevigiano nel 1911).

E in questo contesto emerge il lavoro di grandi ritrattisti…

Il successo del genere del ritratto femminile dipende dall’estro di straordinari artisti – Boldini,

Dal 13 aprile 2024 al 28 luglio 2024

DONNA IN SCENA.

BOLDINI, SELVATICO, MARTINI

A cura di Fabrizio Malachin

Museo di Santa Caterina

Piazzetta Botter Mario, 1 – Treviso

De Nittis, Zandomeneghi, Grosso, Tallone, Bertini – ma anche dalle protagoniste, quelle donne che fanno a gara per farsi ritrarre: regine, nuove borghesi, attrici, cantanti, figure che assurgono a star, come la marchesa Casati. In mostra due sale sono riservate a queste personalità, per raccontarne le storie, che alternano sofferenze a vittorie e successi. Quello dell’emancipazione è in definitiva quasi un filo rosso che sottende il racconto artistico espositivo, volendo dare un senso forte e attuale alla mostra: una rassegna che presenta oltre 30 artisti, una galleria di oltre 150 opere, ma soprattutto il racconto di un processo di affermazione che purtroppo non è ancora completamente raggiunto.

Come le precedenti retrospettive dedicata a Canova, Martini, Ravenna, anche questa mostra fa luce su un periodo fortunato dell’attività artistica trevigiana. Che quadro si prospettava all’epoca?

il nostro patrimonio, mostrare al grande pubblico quel Genius loci che si esprime nell’arte, nel fare impresa, nel nostro paesaggio, nei nostri prodotti.

Negli ultimi anni si è lavorato con impegno alla valorizzazione dell’eredità e del patrimonio artistico trevigiano, con la programmazione espositiva temporanea e con l’apertura di nuove sale. Come riassume questo lavoro e i suoi obiettivi?

Uno dei primi obiettivi di un Istituto Museale è la valorizzazione del proprio patrimonio, dei beni spesso confinati nei depositi. Nuove sale sono state quindi aperte dedicandole ad artisti ben rappresentati nelle collezioni, finora non esposti – ultime quelle dedicate a Bepi Fabiano, Giovanni Barbisan, Nino Springolo, o la sala dedicata alla grafica di Alberto Martini grazie a un accordo con la Pinacoteca di Oderzo. Nuovi allestimenti, grandi mostre apprezzate da pubblico e critica, nonché le attività scientifiche proposte hanno riportato il museo al centro dell’attenzione anche dei collezionisti, che sono tornati a donare o ad affidarci opere in deposito. Proprio una di queste donazioni è stato l’innesco della rassegna. Dunque non vogliamo solo valorizzare il nostro patrimonio, ma anche incrementarlo per arricchire l’offerta e offrire al nostro pubblico nuove opportunità di visita e conoscenza. Con questo attivismo, proponiamo un modello di museo aperto, dinamico, continuamente da scoprire: alle esposizioni permanenti, limitate in termini di spazio, si predilige un costante rinnovamento espositivo, con sale monografiche e rotazioni di opere dai depositi. Per un museo che invita a tornare periodicamente e frequentemente.

a sinistra: Giulio Ettore Erler, Ritratto contessa

Calzavara, Musei Civici di Treviso

in alto: Alessandro Milesi, Ritratto di gentildonna, collezione privata

Con questa serie di mostre abbiamo voluto rappresentare l’eccezionalità di quel periodo per Treviso. Nel territorio nasce, si forma e afferma una quantità incredibile di talenti artistici, moderni, geniali e rivoluzionari, che certifica una unicità a livello nazionale. Oltre a Canova, Borro, Carlini, Arturo Martini e Ravenna, pensiamo ai protagonisti di questa rassegna: Alberto Martini, eccezionale nella grafica simbolista, strepitoso nei pastelli fino a raggiungere esiti geniali nelle opere surrealiste; e Lino Selvatico, il “pittore delle bionde”, il “Boldini veneto”. A questi si potrebbero aggiungere i Ciardi, e ancora gli artisti protagonisti delle esposizioni di Ca’ Pesaro promosse da Nino Barbantini, Gino Rossi tra tutti. Insomma Treviso davvero si presenta come una “piccola Atene”. Progettare queste mostre significa affermare il ruolo di Treviso nella storia dell’arte moderna, valorizzare

3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

Ca’ Scarpa, tempio laico in omaggio a Carlo Scarpa e al figlio Tobia

L’ex chiesa di San Teonisto, oggi parte della Fondazione Benetton Studi e Ricerche

La Fondazione Imago Mundi, che ha trovato casa nelle ex carceri asburgiche della città

105 #39
/ TREVISO
DONNA IN SCENA
Museo di Santa Caterina

L’incanto del vero. A Modena la storia dell’alimentazione nei secoli

Giulia Giaume

La natura morta come veicolo per parlare della vita, passata e attuale. Nasce dalla volontà di proporre dei capolavori anche inediti della collezione di BPER Banca la mostra L’incanto del vero. Frammenti di quotidiano nella natura morta tra Sei e Settecento, e di avvicinare all’arte le nuove generazioni e quei visitatori meno avvezzi ai percorsi espositivi di ricerca. A Modena sono presentati quindici tra i dipinti più significativi del nucleo tematico della collezione, cui si affianca una selezione di undici pezzi da collezioni private e istituzioni pubbliche come i dipinti di Pier Francesco Cittadini dalla risorta Pinacoteca di Cento, in un afflato tra l’estetico, il didattico e il sociologico.

LA NATURA MORTA

COME STUDIO DELLA VITA

Lungi da una (anche apparente) banalità, lo studio del vero, che spazia dalle tavole imbandite alle variopinte raffigurazioni floreali, risveglia nell’oggetto domestico e inanimato una dimensione simbolica e permette ai soggetti di uscire “dalla loro dimensione meramente estetica e decorativa per ritrovare anche il senso del forte legame con lo scorrere della vita”, illustra la curatrice Lucia Peruzzi. Una lettura che si presta anche a confronti storici più ampi: l’esposizione affianca infatti alle opere pittoriche

Dal 5 aprile al 30 giugno 2024

L’INCANTO DEL VERO.

FRAMMENTI DI QUOTIDIANO

NELLA NATURA MORTA

TRA SEI E SETTECENTO

A cura di Lucia Peruzzi

La Galleria BPER Banca

Via Scudari, 9 – Modena

a sinistra: Bartolomeo Passerotti, Contadino che suona il liuto, olio su tela, 111 x 77 cm, Collezione BPER Banca, Modena

in alto: Adriaen Van Utrecht, Natura morta di ortaggi, frutta e cacciagione con figure, olio su tela, 151,5 x 196 cm, Collezione BPER Banca, Modena

nella pagina a fianco: Cristoforo Munari, Natura morta con frutta e spartito, olio su tela, 95 x 74 cm, Collezione BPER Banca, Modena

una raccolta di preziosi documenti d’archivio, che vanno dalle ricette alle curiosità, che permettono di osservare somiglianze e differenze con le nostre abitudini alimentari odierne. In bilico tra maioliche di pregio e semplici mazzi di fiori, tra mense aristocratiche e sporte domestiche, la mostra realizza così un tableau vivant che conduce il pubblico alla scoperta delle mode dell’epoca – come per i tulipani de La terra dona a Nettuno i bulbi di tulipano di Giovanni Andrea Sirani –, delle credenze religiose e popolari – come nella simbologia cristiana de La Madonna della rosa di Michele Desubleo e nel Contadino che suona il liuto di Bartolomeo Passerotti – ma anche solo del semplice gusto. È il caso delle Nature morte con vaso di fiori di Cittadini, in dialogo con il capolavoro d’ambiente estense Natura morta con frutta e spartito di Cristofaro Munari, e ancora di più della Natura morta di ortaggi, frutta e cacciagione con figure di Adriaen Van Utrecht, che porta alla corte piacentina temi e stili mutuati dalla sua nativa Anversa. La riflessione che ne risulta è estetica, psicologica, pedagogica, ponendo l’accento su temi dal carattere indispensabile, non da ultimo lo spreco alimentare.

#39 106
L'INCANTO DEL VERO / MODENA

L'INCANTO DEL VERO / MODENA

APRIRE UN TESORO AI CITTADINI.

L’INTERVISTA A SABRINA BIANCHI, RESPONSABILE DEL PATRIMONIO BPER

Come nasce la Collezione di BPER?

La Galleria Corporate Collection nasce nel 2017 come presa di coscienza dell’importante patrimonio culturale, sia pittorico sia archivistico, accumulato da BPER sin dagli Anni Cinquanta. Quando tutte le banche acquistavano dipinti per decorare palazzi e stanze di rappresentanza, anche la Banca Popolare di Modena acquistò un nucleo di opere emiliano-romagnole dal Quattrocento al Settecento, e oggi ha uno dei nuclei più significativi di opere del tempo. Con le incorporazioni e acquisizioni esterne, dalla ex Cassa di Risparmio di Ferrara, Ubi Banca e infine Cassa di Risparmio di Genova, la collezione si è arricchita: a fine 2022 il patrimonio è di 10mila opere inventariate, di cui 2500 di elevato valore storico artistico. A fianco delle opere sono entrati importanti archivi storici delle città ove le banche risiedevano, che raccontano la storia del territorio dall’Ottocento.

Oggi la collezione è diffusa sul territorio? Sì, a livello nazionale: c’è l’Emilia-Romagna con Modena, la Lombardia con Brescia, la Liguria con Genova, l’Abruzzo con L’Aquila, la Campania con Napoli, e la Sardegna, con un nucleo importante di opere di autori come Sironi. Di fatto è proprio una collezione diffusa.

Come avete deciso di condividere il vostro patrimonio?

Una volta completata la ricognizione, cioè la precisa catalogazione e gestione digitale per capire quali sono le opere, in che stato di conservazione sono e quale sia il loro valore d’acquisto fair value (considerando che molte opere sono vincolate), abbiamo preso coscienza di questo immenso patrimonio, e si è subito pensato alla valorizzazione. Con diverse modalità: la più semplice è la conservazione corretta, il restauro e il libero accesso per motivi di studio. A questo concetto quotidiano e costante, BPER ha aggiunto anche il prestito a progetti scientifici significativi, e il passo ulteriore è stata la prioritarizzazione della fruizione. L’idea è quella di restituire alla collettività il patrimonio, a lungo chiuso nelle stanze dei palazzi: da qui la scelta di aprire la prima sede, la Pinacoteca di Modena, cui nell’ultimo anno si sono aggiunte le sedi espositive di Brescia, Genova e Milano. La restituzione alla collettività contribuisce

alla sostenibilità e al miglioramento della società: BPER è una banca molto impegnata, tra tutela dell’ambiente, governance e sociale, dal sostegno ai centri antiviolenza alla creazione di percorsi formativi dei giovani in centri periferici. La fruizione del patrimonio nasce proprio da questo concetto di “restituire al sociale” e di promuovere una crescita sostenibile, e le mostre fatte negli anni (quasi una ventina) stimolano anche dei percorsi di riflessione, dalla parola alla diversità fino al valore del talento femminile.

Nella vostra ottica di sviluppo c’è un dialogo con il territorio? Sì, ne è esempio il sostegno al Festival della Filosofia di Modena, un’ iniziativa importante per il territorio modenese, o ancora il lavoro con la Fondazione Brescia Musei a Brescia, con cui abbiamo uno stretto rapporto di reciproci comodati, a Genova lavoriamo con la Fondazione Carige, sia in termini di apertura della nostra sede al 14esimo piano sia in occasione dei Rolli: ne risulta un dialogo con la città e un percorso di visita difficile da eguagliare. La nostra sede, ancora arredata come al tempo, non è più appannaggio di un’élite ma aperta a tutti. Poi a Milano, in Duomo, ci sono i progetti site specific che danno spazio a giovani artisti come Fabrizio Dusi, e apriamo la nostra sede anche qui con le giornate del FAI. La nostra idea non è quella di sostituirsi all’offerta delle istituzione pubbliche ma di affiancarvisi.

Una vera collaborazione tra pubblico e privato Stiamo scrivendo e muovendo i primi passi in questo senso: siamo nel mezzo di un percorso evolutivo che prevede la crescita della Galleria BPER e si concluderà nel giro di un paio d’anni. La prospettiva è quella di un’apertura di nuovi poli culturali, guardando oltre i grandi centri, alle città di provincia: hanno un altissimo potenziale culturale, ed è giusto che beneficino di un ulteriore propulsione culturale dai privati. Pubblico e privato secondo devono dialogare in modo trasparente e diretto.

E delle nuove aperture potete anticiparci qualcosa?

Sicuramente l’Emilia-Romagna verrà potenziata, tra Modena e Ferrara. Poi si aprirà in Abruzzo, all’Aquila, in un’ottica di sostegno a

un territorio che ha sofferto tantissimo ma che ha anche altissime potenzialità di crescita culturale, e anche qui ci affiancheremo alle istituzioni territoriali. Poi guarderemo alla Campania, non possiamo dimenticarcela! È un percorso innovativo e in fieri: abbiamo tantissimi palazzi storici importanti, a cui possiamo abbinare dei grandi nuclei collezionistici. Sarà una restituzione ancora più importante.

La mostra per festeggiare i 50 anni di Lupo Alberto al Museo della Figurina

Il gruppo scultoreo di sette statue in terracotta realizzate da Antonio Begarelli, nella chiesa di San Domenico affacciata sull’omonima piazza

La street art, raccolta su un sito web apposito grazie al progetto Urbaner promosso dal Comune

La Galleria BPER Banca

107 #39
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

KOSMOS. La storia della conoscenza è al Castello di Miramare

Caterina Angelucci

Il tema del viaggio come metafora dell’eterno desiderio umano di superare i propri limiti di conoscenza è al centro della mostra presentata alle Scuderie del Castello di Miramare, a Trieste, che per l’occasione riaprono dopo una lunga pausa post-pandemica. Curata da Andreina Contessa insieme ad Alice Cavinato, Fabio Tonzar e Daniela Crasso dell’Ufficio mostre del museo, l’esposizione KOSMOS. Il veliero della conoscenza racconta l’evoluzione del sapere scientifico e l’impatto che questo ha avuto sulla società attraverso i secoli. Il tutto, anche grazie a un allestimento che si avvale di tecnologie innovative: attraverso installazioni digitali, modelli in scala e diorami, il pubblico può infatti salpare idealmente a bordo della celebre fregata Novara che nel 1857 – su iniziativa di Massimiliano d’Asbrugo – circumnavigò il mondo percorrendo più di 51mila

Fino al 16 giugno 2024

KOSMOS

IL VELIERO DELLA CONOSCENZA

A cura di Andreina Contessa insieme ad Alice Cavinato, Fabio Tonzar e Daniela Crasso

Scuderie del Castello di Miramare – Trieste

in alto e a destra Kosmos. Il veliero della conoscenza, fotografie della mostra

miglia marine e toccò cinque continenti, contribuendo alla conoscenza geografica, antropologica e scientifica del tempo. “Negli stessi anni in cui Massimiliano costruiva il Castello di Miramare e definiva la collezione botanica del suo grande giardino, promuoveva la scienza supportando una rete di conoscenze e contatti tra gli studiosi del tempo” , spiega Contessa, direttrice del Museo Storico e del Parco del Castello di Miramare. “La mostra è, infatti, un omaggio a Massimiliano d'Asburgo e alla sua passione per il mare, i viaggi e le navi. Principale promotore di missioni internazionali della Marina austriaca, di cui detenne il comando dal 1854, partecipò in prima persona alla spedizione in Brasile tra il 1859 e il 1860 e seguì a distanza il viaggio di carattere diplomatico, scientifico, commerciale e militare compiuto dalla Novara tra l’aprile del 1857 e l’agosto del 1859, con lo scopo di effettuare la circumnavigazione del globo”.

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KOSMOS / TRIESTE

LA MAPPATURA DEL MONDO E UNA PRIMA IDEA DI ECOLOGIA

La descrizione cartografica di luoghi inesplorati, la conoscenza e lo studio delle popolazioni indigene, la raccolta e la catalogazione di reperti di minerali e di specie vegetali e animali, oltre agli interessi di carattere economico, strategico e diplomatico, hanno mosso la spedizione ottocentesca. La mostra è un omaggio a questo periodo – in cui, mai come prima, fu esplorata una così ampia superficie della Terra in così poco tempo – e ai suoi protagonisti, a cominciare dal grande geografo e naturalista tedesco Alexander von Humboldt (1769 – 1859) e alla sua opera letteraria Kosmos (da cui il nome del percorso), un’esaustiva descrizione fisica del mondo che raccoglieva tutte le conoscenze del tempo e che venne pubblicata pochi anni prima della spedizione della Novara. “Alexander Von Humboldt, nel volume in cui faceva riferimento alle scoperte scientifiche conosciute all’epoca, teorizzava che tutte le cose fossero collegate tra loro, anticipando il nostro concetto di ecologia”, puntualizza Contessa “La mostra vuole inquadrare il percorso che sempre viene fatto per scoprire il mondo. Ogni iniziativa e desiderio di scoperta nasce, infatti, da una necessità innata di conoscenza che ha l’uomo. Per scoprire il mondo bisogna intraprendere un viaggio e, questo percorso, porta ad altre domande e, inevitabilmente, ad altre culture”.

IL GRANDE VIAGGIO DELLA NOVARA

Partita da Trieste il 30 aprile 1857, la fregata Novara, scortata dalla corvetta Carolina, fece tappa a Gibilterra e poi a Funchal, sull’isola di Madeira. Il 20 giugno, la fregata si separò dalla corvetta (che farà rotta prima verso lo stato di Pernambuco, in Brasile, poi lungo la costa occidentale dell’Africa), giungendo a Rio de Janeiro all’inizio di agosto. Ad ottobre dello stesso anno, la Novara sbarcò a Capo di Buona Speranza, l’unica sosta programmata sulla costa africana. Toccando le isole di St. Paul, Amsterdam e Ceylon, durante la primavera del 1858 fece sosta in India (a Madras, oggi Chennai), alle Isole Nicobare, a Singapore e a Giava, giungendo a Manila, nelle Filippine, il 15 giugno. Durante l’estate, la fregata raggiunse Hong Kong e Shanghai, partendo poi alla volta dell’Australia (Sydney) e della Nuova Zelanda (Auckland), dove il geologo Ferdinand von Hochstetter rimase nove mesi per studiarne le isole dal punto di vista geografico e geologico. Nel gennaio 1859, la fregata toccò Tahiti e dal 17 aprile raggiunse le coste del Cile (Valparaiso). L’8 maggio gli ufficiali della nave ricevettero via posta la notizia degli scontri contro la Francia e il Regno di Sardegna – la Seconda guerra d’indipendenza italiana era di fatto già cominciata il 27 aprile – e cancellarono le successive tappe sudamericane. Karl von Scherzer lasciò la Novara per ottenere notizie commerciali, etnografiche e statistiche utili alla spedizione e informarsi sulla

sorte delle famiglie di emigranti tirolesi in Perù, passando per Lima e raggiungendo Panama via terra, da dove si imbarcò su un piroscafo per raggiungere Gibilterra e reimbarcarsi sulla fregata austriaca. L’11 giugno 1859 la Novara incrociava la rotta tenuta nel 1857, compiendo la circumnavigazione del globo e facendo rotta nuovamente per Trieste. Il viaggio si concluse il 26 agosto 1859.

UNA COLLEZIONE DI MERAVIGLIE

Tra strumenti storici di navigazione e rilevamento dati, reperti naturalistici ed etnografici ma anche libri antichi, dipinti, disegni e fotografie, il percorso espositivo presenta oltre 150 oggetti di pregio, molti dei quali raccolti durante la spedizione e che vennero presentati a Trieste al rientro della spedizione nel 1860. “È stato possibile raccogliere una così ampia varietà di reperti grazie ad alcuni importanti prestiti nazionali e internazionali. Per esempio, dal Civico Museo di Storia Naturale di Trieste arrivano oltre 200 reperti naturalistici, tra cui minuscole conchiglie, farfalle e l’esemplare di pinguino crestato dell’isola di St. Paul nell’oceano Indiano, mentre dal Civico Museo del Mare 12 strumenti nautici utilizzati a metà Ottocento per le misurazioni di bordo e per la navigazione”, racconta Alice Cavinato. A questi si aggiungono anche opere d’arte in prestito da alcuni tra i principali musei di Vienna, che al tempo entrarono a far parte della collezione asburgica: il Museo di Storia militare (l’Heeresgeschichtliches Museum Wien) ha contribuito con un dipinto di Alexander Kircher raffigurante la fregata Novara in alto mare e uno di Joseph Selleny (il pittore di bordo) che ritrae una colonia di pinguini sull’isola di St. Paul. Sempre di Selleny, che documentò ampiamente l’esperienza, sono anche i 37 disegni a matita, pastello e acquerello prestati dalla galleria Albertina, tra paesaggi marini, foreste tropicali e

Il Teatro Romano, riaffiorato nel 1938 con l’abbattimento di alcune case e costruito con pietra masegno, resistente alla salsedine

La grande mostra sul Vincent van Gogh che dopo Roma giunge al Museo Revoltella con 50 capolavori e due novità: i ritratti di Monsieur e Madame Ginoux

Il set brutalista del video “Tuta Gold” di Mahmood, nel quartiere di Rozzol Melara

persone in abiti tradizionali, mentre di interesse etnografico sono i 12 oggetti prestati dal Weltmuseum Wien, in cui rientra uno spettacolare scudo da parata con decorazioni in madreperla delle isole Salomone e il ventaglio di piume di pappagallo dal Brasile. È anche da questi manufatti che si evince come il viaggio esposto a Miramare non si limiti a documentare le scoperte di un tempo, ma racconti (di riflesso) l’importanza dei dati raccolti nella costruzione del sapere contemporaneo, tra strumenti aggiornati e tecnologie innovative che oggi aspirano a una conoscenza universale del mondo.

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3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
Castello Miramare
KOSMOS / TRIESTE

De Nittis italiano, parigino e londinese. A Milano la modernità “incarnata”

Ripercorrere le evoluzioni dell’opera di Francesco De Nittis (Barletta 1846 – Parigi 1884), come consente di fare la monografica che gli dedica il Palazzo Reale di Milano, significa anche seguire la nascita e lo sviluppo dell’idea di modernità in pittura. È il “fascino retrospettivo” dell’arte di fine Ottocento, momento in cui si compie il passaggio definitivo all’idea odierna di opera d’arte e di artista. Un mutamento che, letto nel lavoro di un singolo autore, si incarna e appare come un corpo in trasformazione che subisce progressive, ravvicinate e convulse, ma coerentissime, metamorfosi. Certo, c’è anche il fascino dell’accostamento tra opere e biografia: de Nittis parte da Barletta, passa brevemente da Parigi, torna in Italia per poi diventare “definitivamente” parigino e londinese. E c’è il fascino suggestivo dei soggetti raffigurati e trasfigurati dall’artista, che oscillano tra la dimensione popolare e quella aristocratica, avvicinandosi sempre più all’idea Impressionista. Ma l’approccio più stimolante alla mostra rimane la scoperta dei successivi, piccoli o grandi momenti di rivoluzione che si riscontrano nell’opera.

LA RIVOLUZIONE DI DE NITTIS

L’esposizione alterna la sequenza tematica e cronologica ad affondi di particolare intensità, come quello che si incontra poco dopo l’inizio del percorso. All’interno della sezione sui paesaggi italiani, spicca infatti un gruppo di studi sulle pendici del Vesuvio: vero e proprio laboratorio di ricerca e innovazione nel quale il pittore scopre come “in diretta” nuovi modi di approfondire e trascendere il realismo, si dedica in anticipo a una sorta di astrazione, fonde con agilità ma in modo solenne analisi e sintesi, disegno e colore.

Con la successiva sezione su Parigi si fa spazio in mostra il De Nittis più conosciuto, ma anche qui si è testimoni di un’evoluzione progressiva. Prima, il mito e l’esperienza di Parigi si traducono in scene sì luminose ed eleganti, ma ancora “terrose”, concrete oppure popolari (si veda in quest’ultimo senso la densità di architettura e persone di un dipinto come la Place des Pyramides del 1875, in prestito dal Musée d’Orsay). In seguito, si fa strada l’influenza della luce, che trasforma profondamente la rappresentazione – e diventa ancora più suggestiva quando si manifesta per contrasto, all’interno di dipinti prevalentemente oscuri come Il

salotto della principessa Mathilde (1883). Straordinario come laboratorio di segni e forme anche un dipinto come Perla e conchiglia (1879), con il vestito che diventa parte dell’ambiente e elemento di “pittura in sé”, quasi completamente autonoma dalla rappresentazione tradizionale.

DA PARIGI A LONDRA, E L’APPRODO GIAPPONISTA

C’è poi la Parigi innevata, dove la luce è abbaglio totale e sensuale, quella delle corse al Bois de Boulogne, in pieno immaginario Belle Époque, prima di un ulteriore colpo di scena: le vedute londinesi che si abbracciano con lo sguardo in una sala dalla conformazione semicircolare - ed è un coronamento delle ricerche incontrate fin qui, tra luce e porosità, tra sensibilità per il “ventre pulsante” della città e ricerca di raffinata elevazione. Fino all’ultimo scarto, quello nel quale l’Impressionismo diventa maggiormente conclamato e si tinge di giapponismo. Nella sezione dedicata a quest’ultima tendenza, gli universi di colore - sprazzi cromatici improvvisi e totali - rappresentati dalla presenza del kimono sono il point d’orgue dell’intera sala. Infine, la straordinaria, luminosa malinconia dei dipinti degli ultimi anni chiude la mostra, lasciando immaginare la prosecuzione delle ricerche che De Nittis avrebbe potuto compiere se non fosse scomparso prematuramente.

Fino al al 30 giugno 2024 DE NITTIS.

PITTORE DELLA VITA MODERNA

A cura di Fernando Mazzocca e Paola Zatti Palazzo Reale

P.za del Duomo, 12 – Milano

Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Mathilde, 1883, Pinacoteca Giuseppe De Nittis, Barletta

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NITTIS
DE
/ MILANO

A cura di Riccardo Caldura

Mercoledì – Domenica, 11:00 – 19:00

Per informazioni: fondazionealbertoperuzzo.it

Nuova Sant’Agnese, via Dante 63 Padova

sponsor design partner partner tecnico con il contributo di
Plessi Nero Oro 6.4. — 13.10.2024 A P
Fondazione Alberto Peruzzo

Willem de Kooning e l’Italia: la mostra a Venezia

Fausto Politino

Willem de Kooning è stato classificato in modi diversi: espressionista astratto, esponente dell’action painting o semplicemente della Scuola di New York, anche se le sue astrazioni, a differenza di quelle di Jackson Pollock o Mark Rothko, sono quasi sempre supportate da figure, oggetti o luoghi. In ogni caso sia l’Espressionismo astratto sia l’Action painting non sono mai stati movimenti rigidi, piuttosto atteggiamenti critico-creativi che hanno frantumato ogni aspetto dello schema figurativo, sia formale sia geometrico, adottando la carica dirompente dell’azione pittorica mediante il linguaggio segnico e la materialità cromatica. È proprio questa caratteristica di de Kooning a spiccare nell’esposizione, Willem de Kooning e l’Italia, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, in una rassegna che riunisce circa 75 opere, dalla fine degli Anni Cinquanta agli Anni Ottanta.

DE KOONING E I PAESAGGI TRA ITALIA E SPRINGS

Con la scelta curatoriale che presenta in contemporanea disegni dipinti sculture per favorire una narrazione completa e coerente del percorso dell’artista, questo è il primo progetto espositivo che approfondisce i due periodi che de Kooning passa in Italia, nel 1959, all’apice del successo, e nel 1969, quando si accosta alla

scultura, e il profondo influsso che entrambi hanno avuto sul suo lavoro.

A Roma trascorre quattro mesi, dove entra in contatto con l’arte classica italiana e con il lavoro degli artisti italiani suoi contemporanei, creando una notevole quantità di opere in bianco e nero su carta, contraddistinte da metodi sperimentali: dipinge sul pavimento, mescola smalto con pietra pomice, strappa e fa collage con la carta. Tornato a New York, de Kooning lavora a grandi dipinti astratti che rivelano una nuova luminosità e una struttura più aperta. Verso la fine degli anni Cinquanta abbandona il caos urbano di Manhattan e si trasferisce nella frazione di Springs, Long Island, dove vive dal 1963 fino alla sua morte nel 1997. Stimolato dalla luce, dall’acqua del litorale di Springs, dai paesaggi ammirati in Italia, produce un gruppo di astrazioni per impri mere sulla tela precarie visioni natura listiche. Come in Screams of Children

Come from Seagulls del 1975. Con le impronte cromatiche tra il grigio pun tellato, il blu brillante, il rosa carne a ri chiamare il mare, la sabbia e la luce costiera di East Hampton: il vitali smo del segno qui è accentuato, ma senza l’urto drammatico delle masse e del colore di altre opere.

In A Tree in Naples de Kooning semplifica il proprio vocabolario visivo ricorrendo a poche pen nellate robuste ed estroverse che evocano le cromie presenti in natura. In Door to the River, le estese pennel late rosa giallo bianco marrone grigio configurano una sorta di rettan golo che rimanda a una porta posta al centro della tela:

Dal 16 Aprile 2024 al 15 Settembre 2024

l’opera non ha né i tracciati dell’insistente rielaborazione tipici dei primi dipinti, né l’agitazione coloristica dei lavori successivi. In Villa Borghese, del 1960, le ampie aree di colore suggeriscono corrispondenze naturalistiche: luce solare gialla, cielo e acqua blu, erba e fogliame verdi. In mostra questi tre lavori sono esposti insieme per la prima volta

L’OSCILLAZIONE TRA ASTRAZIONE E FIGURAZIONE

Tutto il percorso artistico di Willem de Kooning si distingue per il suo oscillare tra astrazione e figurazione. Nella mostra alla Sidney Janis Gallery, nel 1953, presenta una serie di donne di grandi dimensioni: figure turbate brutali, arcaiche, aggressive, grottesche che s’impossessano dell’intero spazio della tela. Il ghigno sui loro visi e gli occhi scuri dilatati rimandano alle Demoiselles d’Adi Pablo Picasso. Red Man with Moustache, del 1971, lo si può collegare a questa serie. Lo spazio, con una figura scultorea, è configurato mediante fitte pennellate gestuali che comunicano un’estrema vitalità in cui prevale il colore rosso. Come a veicolare passione e rabbia. Come se volesse emettere un grido abissale che necessariamente ricorda la spasmodica deformazione delle figure di Francis

WILLEM DE KOONING E L’ITALIA

A cura di Gary Garrels e Mario Codognato

Gallerie dell’Accademia

Campo della Carità, Dorsoduro 1050 Venezia

Willem de Kooning in his East Hampton Studio, New York, 1971 photograph by Dan Budnik ©2024 The Estate of Dan Budnik. All Rights Reserved Artwork © 2024 The Willem de Kooning Foundation, SIAE

Willem de Kooning, Clamdigger , 1972, bronze 151 x 63 x 54 cm, Purchase, 1979 Centre Pompidou, Paris Musée national d’art moderne/ Centre de création industrielle © 2024 The Willem de Kooning Foundation, SIAE

LA SCULTURA DI DE KOONING

Notevole la sezione della scultura, che intraprende dopo la seconda esperienza italiana del 1969. I soggetti ricordano la vischiosità del materiale dal quale derivano: l’argilla. In tali opere il gesto affonda e si perde come nelle sabbie mobili. Iniziando a scolpire sul serio a sessantacinque anni non si può non citare Clamdigger del 1972, una delle sue sculture in bronzo più famose. Gli scavatori di vongole che osserva ogni giorno lavorare sulla spiaggia, gli hanno ispirato l’opera che sembra strappata alla melma primordiale. Per questo tipo di scultura de Kooning prima prepara un’armatura di ferro e metallo su cui modella l’argilla bagnata, creando strati che si trasformano in una figura nodosa e tattile con lineamenti un po’ neanderthaliane: una piccola testa, occhi infossati e i piedi allungati.

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DE KOONING / VENEZIA
WILLEM

GIORGIO GRIFFA

23 MARZO - 25 DICEMBRE 2024

Una linea, Montale e qualcos’altro Castello di Miradolo Via Cardonata, 2 San Secondo di Pinerolo (TO) fondazionecosso.it

L'AREA MEGALITICA DI AOSTA

Come nasce una grande mostra. Un mega allestimento per scoprire le origini di Aosta

Marta Santacatterina

Era il 1968, le città italiane erano in pieno sviluppo e spuntavano ovunque cantieri per riammodernare o espandere le aree urbane. Ruspe, gru e betoniere giunsero anche vicino all’abside della chiesa di San Martino ad Aosta, cominciando a sbancare il terreno per costruire degli edifici abitativi. Ma i lavori si fermarono poco dopo, poiché in quell’area emersero le prime testimonianze archeologiche di un sito estremamente interessante, che da qualche mese è stato riaperto al pubblico – insieme al relativo museo che “contiene” l’area archeologica –dopo importanti lavori di riqualificazione e riallestimento. Abbiamo interpellato Alessandra Armirotti, istruttore tecnico del Dipartimento soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta, per approfondire tutti gli aspetti legati a questa significativa operazione culturale che ha valorizzato in situ un ritrovamento unico in Europa per la sua straordinaria continuità di vita, ininterrotta dal V millennio a.C. fino all’età moderna, testimoniata da strutture megalitiche perfettamente conservate e da reperti di eccezionale valore.

UN PROGETTO CORALE

Sono stati numerosi i professionisti grazie ai quali Aosta può ora vantare un museo all’avanguardia, dove le nuove tecnologie sposano la preistoria e la storia. “Il progetto dell’allestimento si deve all’architetto Massimo Venegoni e alla sua équipe di Dedalo Architettura e immagine di Torino, oltre all’architetto Margherita Bert”, precisa Armirotti. “Gli apparati multimediali e di illuminazione sono stati realizzati da Acuson di Torino, gli allestimenti da Fallani di Venezia, le opere edili da Caruso di Aosta e quelle impiantistiche dalle aziende Péaquin e Actis Alesina, entrambe di Aosta”. Si deve inoltre aggiungere un cospicuo team composto da architetti, archeologi, topografi, operatori archeologici, geometri, restauratori della Soprintendenza regionale, coordinati dal responsabile scientifico Gianfranco Zidda.

“Uno dei principi cardine dell’allestimento è il coinvolgimento del visitatore attraverso un percorso scandito da momenti di forte impatto emotivo e cognitivo, finalizzati a trasmettere l’impressione di un viaggio alla scoperta delle storie. Il registro spettacolare non

Si apre un cantiere edilizio dietro l’abside della chiesa di San Martino di Aosta

Il Ministero dell’Istruzione dichiara i resti preistorici “di interesse archeologico e storico particolarmente importante” e notifica il sito

Si rinviene un torquis in bronzo e si avvia un’indagine archeologica diretta da Rosanna Mollo e Franco Mezzena

Si conducono nuove indagini archeologiche sotto la guida di Patrizia Framarin

Si succedono campagne di scavo che portano in luce l’intera area megalitica, una tomba dell’Età del Ferro e un insediamento romano

A sud di via Saint-Martin-de-Corléans vengono alla luce altri impianti megalitici e si scavano quattro tombe

Si identificano i primi due nuclei della necropoli romana

Si inaugura l’Area megalitica, comprensiva degli allestimenti museali

Si lavora al primo lotto degli allestimenti, progettati e diretti dall’architetto Massimo Venegoni con lo studio COPACO di Aosta

Si costruiscono le strutture e i volumi architettonici del futuro museo su progetto dell’architetto

Vittorio Valletti

Viene inaugurato il parco archeologico nell’Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans

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L’AREA MEGALITICA DI AOSTA: UNA TIMELINE 12 1969 1969 1991 1968 10/06 1969 02/08 1969 2001 2008 2004 2016 2016 11/11 2023 2004 2010 1972 1978

è però fine a sé stesso, così come le tecnologie impiegate, in quanto strutturalmente connesse alla comunicazione dei temi archeologici”, spiega Armirotti. Gli obiettivi sono quindi due: stimolare la curiosità di chi attraversa il museo, anche grazie a precise scelte di materiali, colori, luce, e consentire un approfondimento scientifico. Le operazioni di riqualificazione si sono svolte in tre fasi distinte a partire dal 2004 (si veda la timeline) e lo scorso 11 novembre 2023 è stato finalmente possibile tagliare il nastro dell’ Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans, che da allora ha già accolto circa 7mila visitatori. L’importo dei lavori concernenti le parti attualmente aperte al pubblico è ammontato a circa 12 milioni di euro, provenienti da fondi europei e regionali.

LE EMOZIONI DELLA STORIA

Vediamo allora come è stato pensato il percorso grazie al quale è possibile attraversare le stratificazioni di Aosta, fino ad arrivare alle impronte dei primi esseri umani giunti in quel territorio. I visitatori vengono accolti da un “tunnel emozionale” dove sono state predisposte delle grandi riproduzioni fotografiche dei più significativi reperti del museo; le immagini si accendono man mano che si percorre il tunnel,

L'AREA MEGALITICA DI AOSTA

mentre dalle aperture vetrate si può già sbirciare l’area archeologica collocata a quota -6 metri dal piano stradale. Mediante una “rampa del Tempo” accessibile anche a persone disabili – il museo è infatti interamente accessibile a coloro che hanno problemi motori – si scende quindi in profondità, dove sono raccolti i reperti archeologici: si tratta di una sorta di “andata a ritroso nel tempo attraverso immagini e ricostruzioni 3D di personaggi e monumenti che hanno fatto la storia dell’umanità” spiega Armirotti. Lo sguardo può quindi abbracciare l’immensa area archeologica (circa 2500 mq) caratterizzata da antichissimi solchi di aratro, dalle stele antropomorfe e dalle costruzioni megalitiche visibili da una passerella in legno. Anche in questo caso il coinvolgimento è garantito da un’illuminazione artificiale fornita da 500 corpi illuminanti a led che simulano la diversa intensità della luce nello scorrere delle ore del giorno e della notte. E l’inabissamento in quel mondo a noi lontanissimo si completa nella sala immersiva, in cui un video ad altissima risoluzione racconta le evidenze archeologiche presenti nell’area: “Si può quindi ‘entrare’ virtualmente tra le tracce antiche lasciate dall’uomo, che per ovvi motivi di conservazione non posso essere calpestate dai visitatori, accompagnati da una musica altamente suggestiva e appositamente creata dal maestro Giovanni Sollima per l’Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans”, fa sapere l’istruttore tecnico. Le sale dedicate alla conservazione dei reperti comprendono invece le arature sacre, i pozzi, gli allineamenti di pali e di stele antropomorfe e infine le tombe megalitiche. Di particolare fascino è la sala delle Stele, dove si concentrano gli imponenti monoliti, alti anche più di 2 metri: “Per la prima volta vengono esposte al pubblico le stele antropomorfe del III millennio a.C. rinvenute abbattute nel sito o reimpiegate nelle tombe dell’età del Bronzo. Dopo un lungo lavoro di restauro e

ricostruzione, mediante un sistema di esposizione brevettato all’avanguardia, le stele sono state verticalizzate e orientate secondo gli allineamenti originari”, racconta Armirotti. Segue quindi il focus sull’Età del Bronzo, epoca in cui l’area diventa principalmente uno spazio da coltivare: si sono conservate infatti le tracce dell’aratura e, “cosa assai sorprendente e rara, delle orme umane databili al 2400/2200 a.C. impresse nel terreno da quattro individui dotati di scarpe”. Nell’Età del Ferro l’area assume una nuova funzione, sacra e funeraria, evidente dalle sepolture monumentali e dai ricchi corredi rinvenuti attraverso gli scavi. Tra i manufatti di maggior pregio, il grande tumulo funerario con la sepoltura a inumazione e il preziosissimo corredo in bronzo databile tra IV e inizio III sec. a.C., composto da un torquis, una fibula e un bracciale liscio. Il girocollo, in particolare, è proprio quello ritrovato fortuitamente nel 1968 e da cui presero origini le indagini archeologiche.

UN VIAGGIO

NELLA STORIA DI AOSTA

Il viaggio nel tempo, dopo una pausa relax nella sala realizzata ad hoc, risale il corso dei secoli e conduce i visitatori nell’età romana e poi medievale: si possono così conoscere le abitudini quotidiane degli antichi Romani, per poi avvicinarsi al contesto della grande necropoli che ha restituito una quantità impressionante di oggetti, “alcuni dei quali estremamente rari, tra cui unguentari in alabastro, utensili in ambra, un rarissimo abaco in bronzo e un bicchiere in vetro decorato a foglia d’oro con una teoria di Santi”. Gli oggetti di età medievale, tra cui spiccano alcune monete in argento, testimoniano infine la continuità di vita del sito tra epoca repubblicana fino a età moderna.

a sinistra e sopra: Area megalitica Aosta, photo Enrico Romanzi

117 #39

MILANO

Fino al 30 giugno

GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE

DE NITTIS PITTORE DELLA

VITA MODERNA

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Fino al 30 giugno

CÉZANNE / RENOIR

Capolavori dal Musée de l’Orangerie e dal Musée d’Orsay

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

AOSTA

Fino al 7 aprile

FELICE CASORATI

PITTURA CHE NASCE

DALL’INTERNO

Museo Archeologico Regionale regione.vda.it

TORINO

Fino al 2 giugno

ROBERT CAPA

E GERDA TARO: la fotografia, l’amore, la guerra

Camera – Centro Italiano per la Fotografia

camera.to

Fino al 10 giugno

LIBERTY

Torino capitale

Palazzo Madama

Museo Civico d’Arte Antica palazzomadamatorino.it

Fino al 28 luglio

GUERCINO

Il mestiere del pittore

Musei Reali museireali.beniculturali.it

GALLARATE

Fino al 7 aprile

DADAMAINO 1930 – 2004

Museo MA*GA museomaga.it

SAVONA

Fino al 15 luglio

ARTURO MARTINI

La trama dei sogni

Museo della Ceramica musa.savona.it

PISTOIA

Fino al 14 luglio

‘60 POP ART ITALIA

Palazzo Buontalenti pistoiamusei.it

PRATO

Fino al 22 settembre

WALTER ALBINI. Il talento, lo stilista Museo del Tessuto museodeltessuto.it

FIRENZE

Fino al 7 aprile

ALPHONSE MUCHA. La seduzione dell’Art Nouveau

Museo degli Innocenti arthemisia.it

Fino al 21 luglio

ANSELM KIEFER Angeli Caduti

Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org

BRESCIA

Fino al 9 Giugno

I MACCHIAIOLI

Palazzo Martinengo bresciamusei.com

Fino al 28 luglio

FRANCO FONTANA

Colore

Museo di Santa Giulia bresciamusei.com

PALERMO

Fino al 3 giugno

JAGO. Look Down

Palazzo Reale ars.sicilia.it

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PADOVA TRIESTE TREVISO

Fino al 12 maggio

DA MONET A MATISSE. French Moderns 1850-1950

Palazzo Zabarella zabarella.it

Dal 13 aprile al 28 luglio

DONNA IN SCENA

Boldini, Selvatico, Martini

Musei Civici di Treviso museicivicitreviso.it

VENEZIA

Fino al 24 novembre

PIERRE HUYGHE Liminal

Punta della Dogana pinaultcollection.com

Dal 17 aprile 15 settembre

WILLEM DE KOONING E L’ITALIA

Gallerie dell’Accademia gallerieaccademia.it

Fino al 30 giugno

VAN GOGH

Capolavori dal Kröller

Müller Museum

Museo Revoltella museorevoltella.it

Fino al 30 giugno

ANTONIO LIGABUE

Museo Revoltella museorevoltella.it

FERRARA

Fino al 21 luglio

ESCHER

Palazzo dei Diamanti palazzodiamanti.it

BOLOGNA

Fino al 9 giugno

MIMMO PALADINO

NEL PALAZZO DEL PAPA

Palazzo Boncompagni palazzoboncompagni.it

FORLÌ

Fino al 30 giugno

PRERAFFAELLITI. Rinascimento moderno

Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it

PESARO

Fino al 30 giugno

MARINA ABRAMOVIĆ

The Life

Centro Arti Visive Pescheria fondazionepescheria.it

ROMA

Fino al 9 giugno

CARLA ACCARDI

Palazzo delle Esposizioni coopculture.it

Fino al 5 maggio

ARCHITETTURE INABITABILI Centrale Montemartini centralemontemartini.org

Fino al 26 maggio

ANTONIO DONGHI

La magia del silenzio Palazzo Merulana palazzomerulana.it

NAPOLI

Fino al 7 aprile

NAPOLI AL TEMPO DI NAPOLEONE

Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano gallerieditalia.com

Fino al 30 giugno

GLI DEI RITORNANO

I bronzi di San Casciano

Museo Archeologico Nazionale mann-napoli.it

CATANIA

Fino al 7 luglio

MIRÓ

La gioia del colore

Palazzo della Cultura beniculturali.it

119 #39 GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE
IL GIUDIZIO UNIVERSALE POMBO IN DIALOGO CON MICHELANGELO a cura di Sandro Orlandi Stagl OPERA MONUMENTALE DI JORGE R. POMBO
LIFE LIGHT IS ART waterlight.it
WATER IS
Bressanone 24/4–12/5/2024 ore 21–24 Abbazia di Novacella 24/4–29/6/2024 ore 10–17
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Mentre scrivo la legge e i decreti che andranno a modificare il Codice della Strada italiano (una norma approvata nel 1992 e poi ritoccata varie volte) sono stati approvati alla Camera; a breve si passerà al Senato e il grande rischio è che le nuove misure vadano in vigore entro la fine del 2024. Ma perché “il rischio”? I funzionari e i dirigenti del Ministero delle Infrastrutture, spalleggiati dal Ministro Matteo Salvini, hanno scritto una riforma davvero inverosimile e sbalorditiva per distacco dalla realtà ma soprattutto per distacco da ogni buona pratica in questo ambito apprezzata in tutti i nostri Paesi partner in Europa. Basti pensare che nell’ambito di una napoleonica sottrazione di potere ai sindaci a favore dei prefetti, di fatto si impedisce ai primi cittadini di realizzare nuove Zone30 (molti ricorderanno le pretestuose polemiche di Salvini contro l’istituzione di una vasta Zona30 a Bologna che però sta già dopo pochi mesi producendo risultati apprezzabili sulla sicurezza stradale) quando invece ad esempio il nuovo Codice della Strada spagnolo (approvato nel 2022) obbliga i comuni ad istituirle nei centri storici. Ciò che sta diventando normale se non addirittura obbligatorio in tutta Europa, diventa di fatto vietato o difficilissimo da realizzare da noi. Una riforma che scava un solco attorno all’Italia, riportandola agli Anni Sessanta e agli anni del boom dell’auto. Facile prevedere che questo genererà problemi di sicurezza stradale con un ulteriore aumento di morti e feriti (con costi sanitari ed economici spaventosi) in un Paese - l’Italia - che ha già il record assoluto da questo punto di vista.  Ma perché parliamo di sicurezza stradale in un giornale che si occupa di arte e di cultura? Non solo per sottolineare, casomai ce ne fosse bisogno, come si sta raccontando e collocando il nostro Paese rispetto agli altri Paesi occidentali e per stigmatizzare i danni che fa questo continuo sentirsi fermi immobili ad almeno cinquant’anni fa. Ma anche perché il Codice della Strada è la norma dello Stato che regola come sono organizzati gli spazi pubblici delle nostre città. E le nostre città, sempre o comunque molto molto spesso, sono un concentrato di patrimonio culturale, artistico, paesaggistico, urbanistico e architettonico che non ha tanti eguali nel resto del Pianeta. Invece di garantire una massima tutela a tutto questo ed una salvaguardia dall’attacco del trasporto privato, si va in senso contrario. I sindaci saranno fortemente ostacolati dall’istituire non solo nuove Zone30, ma anche nuove zone a traffico limitato e nuove isole pedonali. Per pedonalizzare una strada o una piazza un sindaco eletto direttamente dai suoi concittadini dovrà passare da una bizantina autorizzazione prefettizia dopo aver prodotto scartoffie e giustificativi: a molti passerà la voglia, se invece molti andranno avanti si creerà un tale congestionamento negli uffici dal rendere impossibile un iter autorizzativo sano. Il processo di espulsione delle auto dai centri storici (che è la norma in tutto il mondo) si arresterà e in alcuni casi potrebbe indietreggiare. Ai costi sanitari

I nuovi limiti di velocità a Bologna rendono la città più sicura.

I dati si riferiscono ai primi due mesi di Bologna Città 30 (15/01–10/03/2024) e sono confrontati con lo stesso periodo del 2023

(e umani!) per i maggior incidenti e ai costi economici per la perdita di produttività dovuta alla congestione stradale, si aggiungeranno i costi di manutenzione visto che una delle cause principali di ammaloramento del nostro patrimonio artistico nelle città sono le automobili private. O dovremo investire di più sottraendo risorse pubbliche ad altro, oppure avremo un patrimonio sempre più ammalorato.

Le conseguenze più serie saranno sul turismo di qualità, quello rispettoso, quello a valore aggiunto, quello sostenibile e a più alta capacità di spesa

73 persone ferite in meno

-5,8% di pedoni coinvolti negli incidenti

+29% di persone che utilizzano la bicicletta per andare al lavoro

C’è poi una ricaduta turistica. Il turismo estrattivo, straccione e superficiale non subirà un grande impatto: l’Italia è e rimarrà specializzata ad attrarlo purtroppo. Le conseguenze più serie saranno sul turismo di qualità, quello rispettoso, quello a valore aggiunto, quello sostenibile e a più alta capacità di spesa. Il turismo culturale, ad esempio, o il ciclo-turismo. Ci avviamo ad avere città – uniche in Europa – non solo con isole pedonali che faticano ad allargarsi, ma con una dotazione di piste ciclabili inaccettabile, con l’impossibilità di realizzare “case avanzate” sulle strade, con il divieto di concedere controsensi ciclabili. Sono quelle misure che hanno cambiato nell’ultimo quarto di secolo il volto alle principali città europee: Vienna, Berlino, Parigi, Londra. Peccato che i turisti migliori (quelli su cui dovremmo puntare) vogliono proprio quello, scelgono proprio quello, decidono le loro destinazioni in base a dove possono girarsi in sicurezza le città in bici o a piedi. Ed ecco quindi quanti addentellati ha un semplice codice della strada; che non è banalmente questione di limiti di velocità e di multe (che diventeranno sempre più difficili da comminare a chi si comporta in maniera pericolosa) bensì un dispositivo strategico che ha a che fare col mondo della sanità, con la capacità di attrarre o respingere investimenti e classe creativa e addirittura con la tutela del nostro patrimonio artistico e sulla possibilità di accogliere finalmente un turismo che dia valore aggiunto ai territori e non li depredi. Il Ministro delle Infrastrutture a quanto pare non capisce questa complessità, dovrebbero dunque muoversi i Ministri della Cultura, del Turismo e della Salute. Il tempo per fermare questo clamoroso errore è pochissimo.

MASSIMILIANO TONELLI

IL NUOVO
UN
CODICE DELLA STRADA SAR Ë
DISASTRO PER I CENTRI STORICI, IL LORO PATRIMONIO E IL TURISMO CULTURALE
BOLOGNA 2023
452 357
-16% -19,4% 2024
Fonti: Comune di Bologna, Ansa

DIMMI COME VEDI IL MONDO E TI DIRñ CHI SEI

Molte biennali e istituzioni d’arte in Occidente, di questi tempi, ospitano mostre di arte ancestrale di popoli a noi lontani. Ma quali strumenti abbiamo per comprendere realmente l’arte degli altri? È sufficiente bollare il nostro recente passato come “coloniale”, restituendo “dignità” alle identità e ai riti altrui per capirli? Quale significato attribuire alla cultura animista dei popoli sparsi nelle foreste dell’Amazzonia? Che idea farsi del totemismo degli Indiani d’America o del continente australiano?

Per noi occidentali che viviamo immersi in un mondo di immagini non dovrebbe essere così difficile misurarsi con un’ontologia del visivo, trovare una grammatica delle immagini che ci aiuti a comprendere le relazioni che le diverse civiltà intrattengono con il mondo che li circonda? Eppure è proprio la nostra visione da occidentali contemporanei, abituati a comprendere le immagini per analogia con altre simili, che ci oscura la vista. Nonostante le somiglianze, il loro significato profondo ci sfugge.

Possiamo rimanere incantati da una certa poeticità, dall’apparente ingenuità di una maschera yup’ik che rappresenta l’inua (lo spirito o essenza) di un’ostrica, per esempio, indossata durante i riti invernali che rendevano presente l’anima della “persona-animale”, festeggiata insieme ad altre perché potessero continuare di buon grado a offrirsi ai cacciatori per permettere agli esseri umani di nutrirsi dei loro corpi. Tuttavia che cosa capiamo di loro?

Forse – ipotizza Philippe Descola, ex filosofo francese convertito all’antropologia – i popoli totemici, e gli animisti in particolare, hanno inventato modalità completamente diverse dalla nostra per decifrare il mondo, a partire da un allargamento dei confini della loro idea di società ben oltre la specie umana, al fine di comprendere anche il non umano, gli animali, le piante, la terra e le rocce.

Descola, antropologo sui generis, allievo di Claude Levi-Strauss, approdato a una “ecologia delle relazioni”, nella conta dei popoli osservati ci mette anche noi occidentali, con la nostra ossessione per la rappresentazione. La Natura è una grande enciclopedia dalla

quale le popolazioni amerindiane come anche quelle australiane attingono ciò che a loro serve, selezionando delle qualità per farne dei simboli. I popoli totemici dell’Australia hanno molto affascinato gli etnografi dei primi del Novecento, ma anche pensatori come Freud. Gli idoli totemici sono “esseri” dotati di qualità fisiche e morali particolari, trascendono le barriere tra le specie. Qualsiasi siano le loro forme apparenti, fanno parte degli “esseri del Sogno”, prototipi primordiali che i racconti eziologici descrivono come ibridi, usciti dal sottosuolo, dalle avventure infinite, che poi ripiombano nelle viscere della terra. Hanno una funzione di guida e di protezione delle comunità e possono trasformarsi in elementi topografici, lasciando le loro tracce nel paesaggio in modo che i tratti caratteristici dell’ambiente, i luoghi d’acqua, i litorali, le colline, le rocce e i boschi portino testimonianza delle loro peripezie. Prima di sparire lasciano un seme vitale che s’incorpora negli esseri umani e non umani, rinnovando l’emanazione totemica, frutto di un “essere del Sogno”. E così le qualità rappresentate dal totem si trasformano a ogni generazione,

negli esseri umani, negli animali e nelle piante che a dispetto della loro apparenza, costituiscono manifestazioni della comunità, qualità estetiche e morali attraverso le quali si afferma la loro identità comune.

È dunque normale, afferma Descola, che in Amazzonia o in Siberia si chieda a un animale, oggetto di caccia, di non vendicarsi, oppure si possa frustare una montagna per punirla di non essersi comportata bene, come apparentemente fece un governatore della

Le qualità rappresentate dal totem si trasformano a ogni generazione, negli esseri umani, negli animali e nelle piante che a dispetto della loro apparenza, costituiscono manifestazioni della comunità

Mongolia.

Una maschera Yup'ik che rappresenta lo spirito di un'ostrica

Quando guardiamo gli animali, le piante, le cose, rileviamo una serie di caratteristiche (le piume, le radici, le pinne) che li differenzia e li confina a un certo ambiente o nicchia ecologica, il mare, la terra ecc. Nel 2010 Descola ha curato una mostra che ha fatto epoca, La Fabrique des Images: visions du monde et formes de la Représentation, al Musée du Quai Branly a Parigi, commentata in maniera entusiasta persino dal sociologo Bruno Latour Le molteplici facce della rappresentazione dei popoli animisti con le loro maschere, copricapi, oggetti totemici fatti dei materiali della terra e dei mari, dal legno, alla corteccia, alle piume, fibre vegetali, pigmenti, conchiglie, denti di cane, avorio sono decifrabili se partiamo dalla loro interiorità, dalle doti morali loro attribuite. In questa visione animista del mondo viene riconosciuta a tutti gli esseri viventi un’intenzionalità e un’organizzazione sociale che vanno comprese. La differenza principale con il pensiero occidentale è che noi crediamo di essere gli unici a possedere una intenzionalità, o come viene definita dalle religioni, un’anima.

ANNA DETHERIDGE

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DIALETTICA DEL SILENZIO

Ognuno sa per esperienza che le parole, punteggiate da lunghi silenzi, acquistano più peso”, osservava Susan Sontag in un saggio memorabile del 1967 dal titolo L’estetica del silenzio

Il silenzio nella visione di Sontag era una strategia in funzione della “trasvalutazione dell’arte”, vale a dire un rovesciamento radicale dell’orgia dei segni che occupano e colonizzano la nostra facoltà di immaginazione. Il silenzio in questa prospettiva è un arresto del tempo del consumo di immagini, suoni e parole. Come accade nell’eccesso di consumo di altre sostanze nei rituali di massa.

L’ipertrofia segnica secondo Gillo Dorfles equivarrebbe a un “nuovo tribalismo”, dove prevale solo l’impulso o l’ossessione al consumo, cioè una specie di coazione a ripetere. “Al di là del principio del piacere è un al di qua del principio nel ripetere la stessa cosa”, con ossessione. Ma non bisogna mai dimenticare il silenzio politico: quello imposto dal potere di turno a cui si adeguano schiere di mercenari d’ogni specie. È il silenzio più brutale, il silenzio senza condizioni, se non al prezzo della propria vita.

Si potrebbe vedere nel “pieno” l’equivalente del mito dello “sviluppo”, una specie di ipercrescita, che corrisponde ad una ripresa dell’ideologia escatologica

Le politiche e le poetiche del silenzio hanno una lunga storia. L’ultima parola di Giordano Bruno, arso vivo per eresia a Campo de Fiori a Roma, è stata quella di tagliarsi coi denti la lingua e sputarla in faccia al boia. Ci sono silenzi che deviano le nostre certezze. Come gli spazi bianchi del poema di Mallarmé Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, in cui avverte il lettore che “sono i ‘bianchi’ ad assumere importanza”. Qui il silenzio dei bianchi assume la posizione dell’imprevedibilità, dove un verso o un’immagine all’altezza di uno sguardo, azzera il soggetto che lo incontra. Ci si aspetta qualcosa di prevedibile... e invece nulla, o il contrario. In questo scenario si potrebbe aggiun-

gere che ogni epoca non preesiste ai silenzi che la esprimono. Rilke pensava che il presupposto dello “svuotare” consistesse nella capacità di capire di cosa si è “pieni”. Si potrebbe vedere nel “pieno” l’equivalente del mito dello “sviluppo”, una specie di ipercrescita, che corrisponde ad una ripresa dell’ideologia escatologica: prosperità e benessere per tutti a partire dal volto commerciale dell’estetica. Oppure vedere nella saturazione mediatica dei segni (e delle immagini) una specie di rivolta delle apparenze. Si volgono verso di noi come guerrieri pronti ad avere il nostro sguardo, e prendere in ostaggio l’esigenza di una pausa, di un intervallo... di un silenzio. Ma il frastuono dei segni, come un riflesso condizionato, non fa che aumentare il prestigio del silenzio.

Il poeta Francis Ponge poetava sul “partito preso delle cose”, cioè dare la parola al silenzio degli oggetti o al materialismo degli oggetti. E anche il grande drammaturgo Samuel Beckett, quando chiese a Giacometti di allestire il suo capolavoro Aspettando Godot (1952), questi si limitò al quasi-nulla. Un simulacro di albero senza foglie e pochi rami. Beckett ne fu felice. L’eccesso scenografico avrebbe compromesso il suo dramma.

D’altra parte la gioia di godere dell’eccesso di segni è una gioia oggettiva. Chi non ha mai provato l’esperienza di abbandonarsi al flusso ininterrotto del consumo di visioni d’ogni specie?

Roland Barthes nel 1965 pubblica Critica e verità Deliberatamente lasciò delle pagine vuote con la frase “pagina lasciata intenzionalmente vuota”. Qui l’indicazione referenziale contraddice l’esistenza stessa della pagina vuota. Affinché il soggetto sia posseduto dal vuoto o dal silenzio è necessario che si spossessi del pieno di segni. Il silenzio in questa prospettiva appare come un’anti-filosofia della pervasività totalitaria dei segni. È necessario che ciò che resta del soggetto si spossessi di questa coazione a fagocitare ogni cosa come un ventre affamato, un leviatano che ingoia ogni cosa pur di nutrirsi e sopravvivere alla propria condizione di schiavo del consumo.

Barthes, dopo un soggiorno in Giappone, nota la differenza tra pieno e vuoto (o tra rumore e silenzio) fornendo un esempio gastronomico: “qui la leggerezza del brodo, fluido come acqua, il pulviscolo di soia o di fagioli che vi galleggia, la scarsità delle due o tre cose solide (fili d’erba, filamenti, particelle di pesce) che solcano fluttuando questa piccola quantità d’acqua, dànno l’idea di una densità chiara, d’una nutrizione senza grassi, d’un elisir tanto più corroborante quanto più puro: qualcosa d’acquatico...di delicatamente marino”. Ecco, in questa semplice testimonianza il nostro “grasso” consumistico, equivalente anche del “pieno” di informazioni, pieno di immagini, pieno di qualsiasi altra cosa che non tollera altra esistenza.

Il frastuono, il rumore, oggi, se hanno un senso, non è d’ordine estetico, ma politico e sociale.

Odilon Redon, Il Silenzio , 1900

LA BIENNALE MULTICELLULARE, UNA RICCHEZZA DI CUI SI é DUBITATO

La Biennale di Venezia è una di quelle mostre che si rifiutano di morire”, scriveva un commentatore su Artforum dopo l’edizione del 19781. In particolare, suggeriva che “quei pittoreschi padiglioni venissero rasi al suolo” e non era il primo a pensarla così. Dieci anni prima di lui, Lawrence Alloway aveva definito la mostra “una bolla da pesce rosso”2, la cui struttura multicellulare era ormai incapace di dar conto della cosiddetta avanguardia3.

Oggi possiamo dire che, se la Biennale si è salvata dalla sua obsolescenza, se resta la rassegna a cui gli artisti desiderano maggiormente partecipare, con tutti i suoi difetti strutturali ed effetti celebrativi, è anche grazie ai padiglioni e a ciò cui hanno dato origine: mostre collaterali, eventi speciali, persino un numero crescente di istituzioni permanenti che non sarebbero nate né resisterebbero nella Venezia spopolata di oggi se non per il traino della Mostra Internazionale d’Arte.

Qual è il vantaggio che arrecano? Anzitutto, evitano che il punto di vista rappresentato dalla mostra sia unitario. Con un sistema basato sulle forti autonomie di circa cento padiglioni e quasi altrettante mostre a latere, allestite in grandi palazzi o in bettole, ristoranti, cantine e centri controculturali, se è vero che non tutte le edizioni hanno avuto direttori artistici autorevoli, per ciascuna è rimasto qualcosa da ricordare. Inoltre, la pluralità degli sguardi non va sottovalutata in un momento in cui i medesimi curatori saltano da un incarico all’altro in una giostra non necessariamente salutare: da Sidney a Kassel, da Istanbul a Sharjah e Riyad, da Venezia ai maggiori musei del mondo e viceversa: è evidente il rischio che si consolidi un canone artistico internazionale, a dispetto delle dichiarazioni di attenzione per i singoli territori. È interessante vedere anche l’arte fatta da chi non fa parte di alcun mainstream, perché concettualmente distante da ogni parola d’ordine o perché troppo nascosto nel suo contesto locale. Il Padiglione della Cina Popolare, per fare l’esempio di una realtà gigantesca e solo apparentemente conoscibile, è bene che lo curi un cinese che conosce almeno la lingua degli artisti che sceglie, anche se ciò non ne garantisce la qualità.

È chiaro che la proliferazione di voci crea un coro vagamente stonato, considerando che è andata persa la norma per cui il direttore artistico dovrebbe dettare un tema generale: impossibile farsi dare retta quando non si controllano i fondi: la Biennale paga solo la mostra centrale, il resto è in capo ai Paesi singoli, con fondi di gallerie, musei, altri donors che hanno opinioni loro. Inoltre, ognuno ha un sogno da fare uscire dal cassetto o un’occasione espositiva che potrebbe non ripetersi: gli artisti sono volubili, le sedi sono transitorie, gli sponsor vanno afferrati quando appaiono… Impossibile dunque avere uno statement estetico o etico che salga come un monito da tutta intera la manifestazione, la quale è condannata ad avere mille sapori e nessun tono dominante.

Le affluenze delle ultime dieci edizioni della Biennale Arte di Venezia

2003 Sogni e Conflitti - La dittatura dello spettatore (a cura di Francesco Bonami)

260.000

2005 L’esperienza dell’arte (a cura di María de Corral) Sempre un po’ più lontano (a cura di Rosa Martínez)

265.000

2007 Pensa con i sensi – Senti con la mente. L’arte al presente (a cura di Robert Storr)

320.000

2009 Fare Mondi (a cura di Daniel Birnbaum)

375.000

2011 ILLUMInazioni (a cura di Bice Curiger)

440.000

2013 Il Palazzo Enciclopedico (a cura di Massimiliano Gioni)

475.000

2015 All the World’s Futures (a cura di Okwui Enwezor)

501.000

2017 Viva Arte Viva (a cura di Christine Macel)

615.000

2019 May You Live In Interesting Times (a cura di Ralph Rugoff)

593.000

2022 Il latte dei sogni (a cura di Cecilia Alemani)

800.000

Tuttavia, ne deriva che la mostra più ingessata del mondo è anche quella più libera. E da tempo. Nel 1966, per esempio, Lucio Fontana pagò la produzione delle sfere riflettenti che una giovane Yayoi Kusama si mise a vendere per due dollari in mezzo ai Giardini, di fronte al Padiglione Olanda, vestita con un kimono argentato e senza che nessuno l’avesse invitata; è vero che fu rapidamente mandata via, ma i globi del suo Narcissus Garden non autorizzato rimasero ancora un po’. Se le maglie non fossero così larghe, del resto, chi ci avrebbe dato un “Padiglione Clandestino” costituito da Sisley Xhafa che dava calci a un pallone (1997)? Come sarebbe stato possibile vedere un grande palazzo veneziano vuoto, col pavimento lavato e rilavato da parenti di vittime di scontri a fuoco e con grandi tappezzerie impregnate di sangue, alludendo a quello versato dalle vittime dei conflitti per droga in Messico, così come fu allestito da Teresa Margolles nel 2009? Come avremmo potuto vedere, anche se per poche ore, installazioni poi censurate come quella di Pipilotti Rist sul soffitto della chiesa di San Stae (2005) o alla Misericordia, trasformata in moschea dal padiglione islandese (2015)? Chi avrebbe voluto, tollerato, pagato installazioni potenti ma pericolose come quella di Anne Imhof al Padiglione Germania del 2017?

I padiglioni e le mostre rincorrono oltretutto l’attualità più bruciante. All’inaugurazione dell’edizione 2022 si era da poco verificata l’invasione dell’Ucraina e il padiglione del paese divenne un’occasione di dibattito anche prima che fosse ufficialmente aiutato dalla direzione della Biennale; quest’anno, qualsiasi cosa se ne pensi, sono state raccolte entro il 15 marzo 14.500 firme perché Israele non possa aprire il suo. Il Padiglione Russia e un’eventuale presenza palestinese, al di là degli eventi già varati, potrebbero rivelare sorprese. Sapendo quanto sono state incisive nel permettere questi sviluppi le presidenze di Paolo Baratta e Roberto Cicutto e, in altri tempi, quella di Carlo Ripa di Meana, c’è da sperare che il nuovo presidente Pietrangelo Buttafuoco desideri supportare tanta poliedricità di voci, spesso improntate a franche provocazioni e a un impegno che tocca corde sensibili anche sul piano politico.

Note:

1 Jan Van Der Marck, The Venice Biennale: Can It Rise Again?, “Artforum”, september 1978, vol. 17, no 1, pp 74-77, p. 74

2 Lawrence Alloway, The Venice Biennale, 18951968; from salon to goldfish bowl, Greenwich, Connecticut: New York Graphic Society, 1968

3 ivi, p. 149

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STATUE DI ROMA, VECCHIE E NUOVE

Roma ha una nuova statua, e bella grossa: da qualche settimana il ricostruito Colosso di Costantino ha preso posto sul Campidoglio. Se la sua apparizione alla mostra Recycling Beauty della Fondazione Prada di Milano, tra il novembre 2022 e il febbraio 2023, aveva suscitato entusiasmo, vuoi per la novità della cosa, vuoi per l’effetto sorpresa e il repentino cambio di scala in un percorso espositivo caratterizzato soprattutto da pezzi piccoli, vuoi perché il pur vasto ambiente della Cisterna sembrava contenerlo a stento, l’accoglienza del Costantinone sul Colle Capitolino è stata più tiepida, da un lato perché non è più una novità, dall’altro perché infilare una ricostruzione tra tanti autentici monumenti antichi per molti sa di Disneyland, o al più di Cinecittà. O ancora perché non convince la collocazione esterna della copia di un gigante nato per stare in un grandioso ambiente interno (quello della Basilica di Massenzio). In ogni caso, nel valutare l’iniziativa ne va tenuto presente il carattere a quanto pare temporaneo: l’imperatore non siederà per sempre sul Campidoglio, ma, passato l’anno giubilare 2025, sarà trasferito altrove, forse al Museo della Civiltà Romana (e questa sarebbe un’ottima notizia, perché vorrebbe dire che il museo, chiuso da tempo immemorabile, si appresta a riaprire i battenti).

Infilare una ricostruzione tra tanti autentici monumenti antichi per molti sa di Disneyland, o al più di Cinecittà

Chissà se il nuovo arrivato si unirà alla scelta e celebre compagine delle statue parlanti di Roma: certo sarebbe inquietante, non tanto per l’accento meneghino che ne caratterizzerebbe la parlata, quanto per il vocione terrificante che, dai suoi tredici metri di altezza, potrebbe sfoderare. Una compagnia, quella delle statue loquaci romane, che non se la passa bene: Madama Lucrezia è quasi dimenticata in un angolo di Piazza San Marco, a due passi dallo sconvolgente cantiere della metro in Piazza Venezia; l’Abate Luigi,

Courtesy/ Mo(n)stre

circondato dalle auto, sembra un parcheggiatore abusivo. La più famosa e chiacchierona di tutte, Pasquino, è ormai muta: non solo perché la comunicazione social ha preso da tempo forme assai più eteree, ma soprattutto perché l’applicazione distorta del concetto di tutela ha portato alla fine di una tradizione plurisecolare, di un valore almeno pari a quello del frammento scultoreo antico. Il destino dell’opera è stato segnato dal restauro del 2009-2010, quando si è ritenuto che il basamento della statua (vecchio, e magari pure antico, ma certo non quanto il gruppo del Pasquino) non potesse più sopportare l’onta di fogli e foglietti con polemici componimenti. Addirittura in quell’occasione fu installato accanto alla scultura un tristissimo surrogato in plexiglass su cui affiggere le pasquinate, poi fortunatamente scomparso. Da allora l’illustre tradizione satirica è stata a più riprese osteggiata e denunciata come esempio di degrado, secondo una prospettiva che pericolosamente accosta l’idea di “tutela” a quella di “decoro”. Risultato: la base della statua è quasi sempre spoglia.

Se Pasquino tace, forse, come si diceva, sarà Costantino ad aprir bocca. Da lassù può vedere molte cose e, se non mancherà di lamentarsi e punzecchiare Roma per i suoi infiniti irrisolti problemi, forse avrà anche parole di elogio per qualche timido segnale positivo. Uno gli giunge da pochi metri di distanza: con l’utilizzo degli spazi di Villa Caffarelli, dove è in corso la rassegna su Fidia, è drasticamente diminuito lo scandaloso uso per le esposizioni temporanee delle sale storiche del Palazzo dei Conservatori, ogni volta soggette a rivoluzioni e all’invasione di opere esterne e di pannelli. Un po’ più lontano, sul Celio, ha da poco aperto al pubblico il Museo della Forma Urbis, ricavato all’interno della ex palestra della GIL. Accanto al museo si stende il Parco Archeologico del Celio: una distesa di frammenti lapidei antichi, corredati di informazioni essenziali, tra cui si può (liberamente) passeggiare, quasi novelli milordi del Grand Tour. Sui ‘serci’ svetta la Casina del Salvi, bell’edificio degli Anni Trenta dell’Ottocento che dovrebbe presto riacquistare l’originaria funzione di coffee house: una caffetteria così bella in piena area archeologica sarebbe un sogno, e il segnale di un’inversione di rotta rispetto a quella concezione punitiva della visita ai siti ancora così diffusa nella Penisola.

FABRIZIO FEDERICI

IL CAMBIAMENTO DIFFICILE

Non si può compiere nessuna giustizia storica se non si impegna il futuro. Non ci può essere nessuna responsabilità altrui e passata verso il nostro presente se non nella misura in cui ve n’è una nostra verso l’avvenire. Scegliere una discendenza vuol dire scegliere una tradizione”1. Così Franco Fortini concludeva le sue Precisazioni nel 1962: e, va detto, sessantadue anni dopo queste parole non hanno perso nulla della loro forza e della loro attualità. L’assunzione di responsabilità – sempre: ma in particolare nei periodi di grande cambiamento, come senza dubbio è quello attuale – si esercita sul presente, ma ancora di più sul futuro. È chiaro come un’idea (e una pratica) del genere, che connette organicamente le diverse dimensioni del tempo, collide e stride con il ‘presentismo’ attuale. Un presentismo che ha già una sua storia molto lunga e, per così dire, piuttosto polverosa: è un presentismo, infatti che dura da oltre un quarantennio, estendendo la sua ombra avanti e indietro, continuamente.

Il presentismo è ontologicamente contrario al concetto di “giustizia storica”, allegramente disimpegnato, e felicemente irresponsabile. Solo che questa sua impoliticità pretesa è, come tutti (anche i bambini) ormai sanno, una specie inquietante di posizione politica: retriva più che retrograda, oscurantista, irrazionale. Soprattutto, questa impoliticità è fondata sull’abolizione totale di quella legge non scritta, delle avanguardie come delle neoavanguardie, che recita: “l’arte è la forma sperimentale della vita”.

Attraverso le opere (almeno quelle che funzionano come si deve), gli artisti prima e tutti quelli che le fruiscono poi sperimentano, appunto, una vita possibile al di là di quella contingente. Sperimentiamo ciò che potrebbe essere. Il restringimento progressivo del campo dell’opera al territorio decorativo-mercantile, la limitazione delle sue possibilità e l’amputazione della sua operatività – vale a dire: della sua capacità trasformativa ed evolutiva – spiega molti aspetti, a mio parere, anche del restringimento della nostra capacità immaginativa. Della capacità, cioè, di immaginare una diversa condizione del presente e dunque dell’avvenire, così come dell’avvenire e per questo del presente.

Eppure, pochi anni dopo le affermazioni di Fortini, queste istanze si erano pure affermate prepotentemente nel campo dell’arte visiva, lasciando presagire non anni ma decenni, un’intera epoca nuova del rapporto tra arte e vita: “…tutto si riconduce a ‘costruire’ l’idea intuita. Lo sforzo è quindi portato all’intento di comunicarla mediante un medium che non conceda nulla all’ambiguità e all’apertura semantica. Ne deriva una fisicizzazione dell’idea, un’idea tradotta ‘in materia’, un modello, formato ingrandito, dell’apprendimento mentale e fattuale, naturalmente non una fisicizzazione vitalistica e orgiastica, ma ‘mentalistica’. L’autore, ponendosi alla convergenza fra idea e immagine diventa il vero protagonista dell’evento, si integra all’attualità ed al divenire evolutivo delle sue idee. (…) Così il cinema regredisce alla sua manifestazione più libera ed elementare, una singola immagine che si muove. (…) Piano sequenza illimitato che diventa ora in Warhol e Godard un cinema sequenza illimitato, un continuo avvicendarsi di azioni e di contrazioni finte e vere, di apprensioni cinematografiche ostentate come possibili acquisizioni del e sul reale, tali da definire ogni evento, di n metri di pellicola presentati al pubblico, la ‘fine di un inizio’ (Godard)”2 . A partire dagli Anni Ottanta, l’inversione di tendenza, dapprima camuffata con le spoglie neoespressioniste e citazioniste, poi chiarita con la caduta di questi orpelli dalla natura del ‘nuovo’ post-concettualismo che ha caratterizzato buona parte degli ultimi trent’anni…

Tranne che in qualche luminosa eccezione, l’opera ha teso e tende decisamente verso il decorativo. Anche (e forse soprattutto) se e quando si ammanta di statement e dichiarazioni, di intenti e di intenzioni. Ma l’essere “forma di vita”, il modello perfetto per provare un modo-di-esistere, e di coesistere, diverso, non è affatto uno sport o un diversivo: in un momento del genere, in un’epoca del genere, è l’aspetto invece da ricercare (da ritrovare) con più assiduità e costanza.

Si potrebbe persino pensare, anzi, che proprio la rinuncia generalizzata da parte dell’opera contemporanea sia uno dei fattori che ha contribuito all’aumento di intensità nella tensione e nella conflittualità: un’arte (e una cultura) acquiescente sono infatti – è inevitabile – parte integrante dell’arretramento, non della progressione. Indipendentemente da quanto vengano valutate le opere.

CHRISTIAN CALIANDRO

Note:

1Franco Fortini, Precisazioni, in Verifica dei poteri, Il Saggiatore 2017, p. 51

2Germano Celant, Arte povera, Galleria De’ Foscherari, Bologna 1968, pubbl. in Precronistoria 1966-69, Quodlibet 2017, p. 66

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Franco Fortini

LEHMANN MAUPIN at Circolo Milano

April 12–June 22, 2024

Villa Della Spiga, 48 Milan, Italy

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Museo nazionale delle arti del XXI secolo Una mostra del MAXXI e della Haus der Kunst München. La mostra originale Inside Other Spaces. Environments by Women Artists 1956–1976 è stata ideata e prodotta dalla Haus der Kunst München 2023 MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo Roma via Guido Reni, 4A | maxxi.art soci innovation partner Design by Tomo Tomo Inside Other Spaces. Environments by Women Artists 1956–1976. Aleksandra Kasuba: Spectral Passage, 19752023. Haus der Kunst München, 2023. Photo: Agostino Osio –Alto Piano a cura di Andrea Lissoni, Marina Pugliese, Francesco Stocchi
Faccia a faccia Omaggio a Ernst Scheidegger 18.02.2024 – 21.07.2024 Shahryar Nashat Streams of Spleen 17.03.2024 – 18.08.2024
Ernst Scheidegger, Allieva della scuola di danza di Madame Rousanne (dettaglio), Parigi, ca. 1955 © 2024 Stiftung Ernst Scheidegger-Archiv, Zürich Shahryar Nashat Lover_03.JPEG (dettaglio), 2022 Courtesy David Kordansky Gallery, Los Angeles. Photo: Jeff McLane © the artist Alexander Calder Quatre systèmes rouges, 1960 Louisiana Museum of Modern Art, Humlebaek, Denmark. Donation: The New Carlsberg Foundation.
Calder. Sculpting Time 05.05.2024 – 06.10.2024
Photo credit: Louisiana Museum of Modern Art / Poul Buchard / Brøndum & Co © 2024 Calder Foundation, New York / Artists Rights Society (ARS), New York
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