Artribune #76

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N. 76 L GENNAIO – FEBBRAIO 2024 L ANNO XIV

centro/00826/06.2015 18.06.2015

ISSN 2280-8817

Cultura contro dittatura. Il Cile a 50 anni dal Golpe + Cosa e come vogliono comunicare i musei d'impresa?

+ Correva l'anno 1978, tra terrore e divertimento ribelle


Henri de Toulouse-Lautrec, Étude de nu, femme assise sur un divan, 1882, olio su tela. Albi, Musée Toulouse-Lautrec © Musée Toulouse-Lautrec, Albi, France / foto F. Pons

ROVIGO 23 FEBBRAIO 30 GIUGNO 2024 contact center 0425 46 00 93 www.palazzoroverella.com

HENRI DE

PARIGI 1881-1901

TOULOUSE LAUTREC MOSTRA PROMOSSA DA

IN COLLABORAZIONE CON COMUNE DI ROVIGO

ACCADEMIA DEI CONCORDI

MAIN SPONSOR

DIPINTI, PASTELLI, DISEGNI E MANIFESTI MOSTRA PRODOTTA DA


in collaborazione con

Dal FUTURISMO INFORMALE Capolavori della collezione del Mart Mole Vanvitelliana Sala delle polveri, Ancona

8.12.2023 1.4.2024

Da un’idea di Vittorio Sgarbi A cura di Alessandra Tiddia EMILIO VEDOVA Ciclo 62-B.B.9, 1962 (tecnica mista su tela) Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto - Deposito a lungo termine (dettaglio)


a cura di / curated by Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di / with the curatorial assistance of Sabrina Samorì

MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna 1 febbraio / February - 5 maggio / May, 2024 via Don Minzoni 14 | Bologna mambo-bologna.org

Monowe, still da video / video still, 2024

Ludovica Carbotta. Very Well, on My Own


#76 OPENING 6 Gianluca D’Incà Levis & Mattia Balsamini Borca di Cadore

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Saverio Verini Studio Visit: Clarissa Baldassarri

NEWS 18

IED – Istituto Europeo di Design La copertina "SCANDAL" di Matteo Ribet

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Dario Moalli (a cura di) Libri: L’atelier di Anselm Kiefer I diversi e necessari futuri del Museo

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Marta Atzeni TO: l’architettura come pratica collettiva

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Livia Montagnoli Pesaro Capitale Italiana della Cultura 2024

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Caterina Angelucci (a cura di) Marea Art Project

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Valentina Tanni (a cura di) Window

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Claudia Giraud Musica Automata: il disco nato da un’orchestra di robot

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Ferruccio Giromini Mickalene Thomas: Black Sexiness

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Elisabetta Roncati Sasha Gordon: pittura, identità e auto-accettazione

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Cristina Masturzo (a cura di) Le 10 opere più costose aggiudicate in asta nel 2023 L’atterraggio morbido del mercato dell’arte

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Appunti per una storia di Arte Fiera a Bologna

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Santa Nastro (a cura di) Arte Fiera: 50 anni di ricordi

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Uliana Zanetti A un passo dal museo. La performance ad Arte Fiera nel 1976

STORIES 44

Federica La Paglia IL CILE DELL’ARTE E DELLA CULTURA A 50 ANNI DAL GOLPE Nel 1974, la Biennale di Venezia veniva dedicata al Cile, sconvolto dal Golpe di Pinochet avvenuto l’anno precedente. Una panoramica sull’ambiente culturale cileno di quegli anni, tra resistenza e cambiamento dello spazio pubblico

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Fabio Severino IL MUSEO D’IMPRESA. CASI STUDIO, BUONE PRATICHE, PROSPETTIVE Perché sempre più aziende scelgono di raccontarsi dando vita a un museo? Abbiamo realizzato un’indagine qualitativa e quantitativa sui motivi e sull’efficacia di questa scelta, analizzando i casi di imprese come Campari, Ferrari e Juventus

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Giulio Solfrizzi IL DIVERTIMENTO RIBELLE. L’ALTRO VOLTO DEL 1978 Da una parte il rapimento di Aldo Moro, Acca Larentia, il terrore e il piombo; dall’altra Raffaella Carrà, Ugo Tognazzi, il movimento femminista e quello omosessuale. Ripercorriamo l’Italia del 1978, nella sua complessità e nelle sue contraddizioni

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ENDING 88

Juta Short novel: Serata Tipo

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Massimiliano Tonelli Per una federazione europea dei giornali di cultura

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Anna Detheridge Il pensiero femminista e l'arte delle donne

GRANDI MOSTRE #38

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Santa Nastro (a cura di) Arte e natura. Quali prospettive?

Stefano Castelli Con Goya, l’artista diventa cittadino

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Angela Vettese Educazione artistica: buone pratiche internazionali e criticità italiane

Claudio Musso La prossima critica? La critica prossima

Marcello Faletra Spettri del Surrealismo

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Fabrizio Federici Il catalogo di museo, dai coccodrilli al digitale

101

Giulia Zompa Tra (iper)esposizione e realtà. Come i social stanno cambiando il modo in cui viviamo l'arte

Marta Santacatterina A Forlì Preraffaelliti e Old Master: un dialogo ininterrotto

Federica Lonati Finisce l’anno di Picasso. L’ultimo omaggio tra Madrid e Barcellona in dialogo con Mirò

Fausto Politino Giotto e Fontana, lo spazio d’oro al Man di Nuoro

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Livia Montagnoli Henri de Toulouse-Lautrec e la Parigi fin de siècle. La mostra a Rovigo

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Nicola Davide Angerame Gerard Richter, ritorno in Engadina

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Marta Santacatterina Come nasce una grande mostra. L’exhibition designer Andrea Isola

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Grandi Mostre in Italia in queste settimane


GIRO D'ITALIA:

BORCA DI CADORE a cura di EMILIA GIORGI

GIANLUCA D’INCÀ LEVIS curatore di Dolomiti Contemporanee e Progettoborca, direttore dello Spazio di Casso al Vajont [testo] MATTIA BALSAMINI [foto]

Mattia Balsamini, Borca di Cadore, 2016, Courtesy l’autore


Q

uando vieni da Sud e dalla Bassa padana muovi verso la montagna veneta, prendi l’A27 a Mestre e la lasci a Pian di Vedoia, poco prima di Longarone. È lì che finisce l’autostrada, è lì che cominci a guadagnare quota. Se continui dritto, inerpicando su per la SS 51 di Alemagna, dal paese di Termine stai già risalendo il Cadore e, se procedi per la vecchia strada Cavallera, trovi Perarolo, dov’è la confluenza di Piave e Boite, e dove Carducci, lieto del fresco regale amor di Margherita, nel 1892 scriveva l’Ode eponima. Se dopo Perarolo pieghi a sinistra, entri nella Valle del Boite, che ti porta verso Cortina d’Ampezzo, e sedici chilometri prima di arrivarci passi da Borca di Cadore, eccoci giunti.


L’Alemagna è ora in trasformazione: son partiti i cantieri delle Olimpiadi Invernali Milano-Cortina 2026, talpe e pale in azione, attraversi il paesaggio e passi vicino agli scavi e alle campate dei nuovi ponti slanciati tra i prati e i boschi. Se cerchi Anatomia e dinamica di un territorio, trovi un progetto che mappa queste trasformazioni. Di Borca (945 metri sul livello del mare) si è parlato in questi mesi anche a proposito del Villaggio Olimpico, che a Corte troverebbe una collocazione ideale. Diceva Mattei: “L’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non le vedono”. E per la montagna contemporanea occorre una visione – ch’è un sentimento, eccolo – capace di cogliere le opportunità, usando in modo intelligente la Risorsa, ambientale, culturale.


Borca, beborca, vuol dire snodo, biforca. In realtà biforchi se cambi quota e mezzo, altrimenti tiri dritto in auto a Cortina e oltre. Se invece ti fermi, e sei interessato all’attività extraveicolare (esplorazione dello spazio), immerso che sei nelle Dolomiti bellunesi, sei preso tra i monti Pelmo (3.168 m) e Antelao (3.263 m), puoi salirli per le vie normali o d’arrampicata, a piedi e con le mani, coi ramponi e gli sci. Il Pelmo lo vedi arrivando. Il Gruppo ti si staglia lì nell’occhio un poco a Ovest, la Croda da Lago dietro alle Rocchette, col sereno, se ti levi un poco, scorgi già le Tofane. Il Pelmo ha la schiena dritta e accogliente, così è detto il “Caregon del Padreterno”, sedia di Dio. Ci saliamo per le cenge di Ball e di Grohmann, quassù c’è la storia dell’Alpinismo e anche un’altra cosa più recente,


detta “Alpinismo Culturale”, se la cerchi la trovi. Si dice che nel carsico ventre del Pelmo stesse un antico oceano, di questa storia trovi traccia nel libro Storie Pallide di R. Giacomini e G. M. Belli (Gaspari 2021) e nel lavoro pittorico La terraformazione di Borca... (2023) di M. Mastropieri. Antelao viene da aante-lacuum o ante-loo, acque o lupo, due grandi temi critici di risorsa qui, quello idrico e quello della biodiversità. Borca è lì, proprio sotto alla parete Sud dell’Antelao, agli sfasci del suo Castello sommitale, alla fascia di mughi. Là sotto, perfettamente integrato al bosco, trovi l’ex Villaggio Eni di Corte, che occupa due terzi della superficie del Comune, un’altra sorta di castello, non diroccato, ma certo da ri-scalare.


Scalare il paesaggio, concediamoci quest’espressione, vuol dire due cose, che qui andrebbero fatte. Scalare è misurare, e misurare equivale a non passare contemplando, perché è un agire. Misurare il valore delle cose e usarle, per una montagna produttiva, che non è una mangiatoia. Scalare è anche arrampicare, evidentemente: seconda accezione operativa. Preferivi dei consigli in Natura? Ma per quelle hai le guide ordinarie, oltre a Hegel. Noi viviamo qui. D’estate devi farti le legne per la stuba, e puoi prendere i bagni nelle polle sorgive della foresta ombrosa, se le trovi. Forse alleverai un cervo, tenendolo selvatico. Qui qualcosa di selvatico per chi è solitario lo trovi ancora: va tenuto. Ma devi addentrarti, penetra nelle cose chi non scorre in superficie, come il traffico. Se Borca è snodo e porta, occorre decidersi a salire, se lo fai le direttrici si moltiplicano, sentieri e vie e viaz, aria sottile, zieli smaltati, crode infocate ai crepuscoli.


STUDIO VISIT CLARISSA BALDASSARRI

P

er Clarissa Baldassarri il linguaggio è uno strumento per disorientarsi. L’artista ne sfrutta il potenziale visivo, quasi grafico; ma al tempo stesso ne cavalca le contraddizioni, le sfasature, le crepe. La parola scritta non chiarisce, bensì complica: le sue opere, in particolar modo le più recenti, sembrano frutto di un fraintendimento, un lost in translation pieno di incongruenze felici. Baldassarri ingaggia con il pubblico un confronto intimo che tocca questioni esistenziali – su tutte la religione – attraverso l’utilizzo disinvolto di media come installazione, video, performance. Ne nascono opere che mettono in luce la frammentarietà della società contemporanea e, insieme, il nostro desiderio – ossessivo e quasi disperato – di accumulare e contenere quante più informazioni possibili.

Mentre il tempo corre veloce nello spazio digitale, la realtà resta immobile nella sua forma tangibile e con essa, il nostro punto di vista

dell’intelligenza artificiale e dei mezzi tecnologici le basi per costruire una contemporanea Torre di Babele. L’era dell’iper-comunicazione ci illude di poter eliminare le distanze attraverso l’accelerazione temporale, ma mentre il tempo corre veloce nello spazio digitale, la realtà resta immobile nella sua forma tangibile e con essa, il nostro punto di vista. È proprio in questa sottile quanto invalicabile e permanente distanza che la parola, sia essa restituita tramite la scrittura o attraverso l’audio, è presente nel mio lavoro. L’utilizzo della parola scritta e la riflessione sul linguaggio hanno una lunga tradizione nell’arte contemporanea. Ci sono artisti – o autori in altri ambiti – che hanno segnato la tua ricerca? Certamente. Il segno più importante l’ha lasciato lo studio della “Parola”, teologicamente parlando. Molti miei lavori partono dallo studio e dall’analisi di passi biblici, che sono stati fonte d’ispirazione per diversi progetti, e dall’approfondimento di opere letterarie di autori come il teologo e matematico Pavel Florensky. Nella formalizzazione del lavoro non posso non citare come punti di riferimento gli artisti italiani Alighiero Boetti, Piero Manzoni e Giovanni Anselmo, un’altra grande perdita per il mondo dell’arte.

Ho l’impressione che molte delle tue opere nascano da una volontà di mappare, campionare, catalogare, in modo analitico e insieme ossessivo. Da dove deriva questa urgenza? È un’urgenza che nasce in risposta a un altro tipo d’urgenza. Anche se non emerge in primo piano, molti dei miei lavori hanno una radice performativa, che spesso e volentieri viene sottratta alla visione del pubblico. L’archivio, la parola incisa, le stampe sono spesso le immagini ultime di viaggi, percorsi, azioni effettuate decontestualizzando o decostruendo mezzi L’inaugurazione di una tua recente mostra coincia nostra disposizione. L’obiettivo è quello di restituire deva anche con il giorno della sua chiusura. Puoi in una forma visibile testimonianze, tracce di una raccontare quest’esperienza? nuova interpretazione della realtà attivando nel pubA novembre del 2022 occupai per un intero mese lo blico dei cortocircuiti visivi e concettuali. spazio della Galleria Gian Marco Casini di Livorno per Nella recente serie Nome comune di cosa, per esemrealizzare, a porte chiuse, un affresco di 8 metri per pio, le frasi che troviamo incise sugli oggetti – anche 80 centimetri, mai esposto nella sua interezza. Il se a primo sguardo sembrano giorno dell’inaugurazione, coinfrasi pensate appositamente cidente con il giorno di chiuClarissa Baldassarri è nata a Civitanova Marche nel 1994. per quella specifica cosa – sono sura, esposi al pubblico solaDopo aver studiato Decorazione all’Accademia di Belle Arti di in realtà il risultato finale della mente un frammento dello Macerata, nel 2017 si trasferisce a Napoli per concludere gli traduzione del nome comune stesso e due lavori: il dittico fostudi in Scultura. Nello stesso anno vince il Premio Quarelli dell’oggetto dopo aver attravertografico L’attimo prima dell’inicon l’opera Limite cieco, entrando a far parte della collezione sato tutte le lingue disponibili zio e subito dopo la fine e il frotpermanente del Parco Quarelli. Attualmente vive a Livorno e, su Google Translate, sfruttando tage da cui prende il titolo la dal 2018, è rappresentata dalla Gian Marco Casini Gallery. mostra, Quanto dura una giorl’errore di generazione del siTra i progetti personali si segnalano: Alla fine della fiera, Liste stema stesso. nata, come uniche testimoArt Fair, Gian Marco Casini Gallery, Basilea (2023); Lo Spazio nianze dell’avvenuta azione della durata, Linea project, Lecce (2022); Riflesso silenzioso di nella galleria nei giorni preceIn effetti la parola scritta riuna sonora immagine, Una Boccata d’Arte, a cura di Fondazione corre spesso nel tuo lavoro, denti. Elpis e Galleria Continua, Castellaro Lagusello (MN) (2020). Tra le recenti mostre collettive: Visibilia, Museo d’arte Contemma con una “funzione” spaeLe ragioni di questa scelta coinporanea Villa Croce, Genova (2023), Pebble in the Sky/Lodi Basél, sante, come a voler mettere in cidevano con le motivazioni alla Casa studio Carlo Orsini, Lodi (2023); Kárusiäll, Jet leg resievidenza i limiti del linguagbase del progetto: indagare la dency program, Lothringer 13, Monaco di Baviera (2022); Ora, durata in relazione al quotigio e della comunicazione. Ambasciata Italiana della Santa Sede, Palazzo Borromeo, Sì, esatto. Gli ultimi progetti a diano e la questione della framRoma (2021); Rilevamenti 2, CaMusAC, Cassino (2020). Tra i cui sto lavorando evidenziano i mentazione temporale attrapremi: Ala for Art Prize, finalista (2022); Level 0 Art Verona, selimiti del linguaggio e della sua verso la decostruzione della lezionata dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (2021); trasmissione in riferimento a tecnica classica dell’affresco. Ducato Prize, vincitrice sezione Accademia (2020). un’epoca in cui stiamo facendo Secondo i manuali, il pittore,

bio


STUDIO VISIT a cura di SAVERIO VERINI 76

Clarissa Baldassarri, Dalla Parola (da generazione in generazione) 1 CO 13:8, 2023, incisione su vetro, 35 x 27 cm. Courtesy l’artista. Photo Alessio Belloni.

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Clarissa Baldassarri, Trave (Nome comune di cosa), incisione su legno, dimensioni ambientali. Courtesy Carlo Orsini e Gian Marco Casini Gallery. Photo Alessio Belloni. Clarissa Baldassarri, Genesis (da generazione in generazione), 2023, video 24’19”, tablet e gesso. Courtesy l’artista e Gian Marco Casini Gallery. Photo Alessio Belloni.


STUDIO VISIT

Clarissa Baldassarri, Limite Cieco, 2017, plexiglass, ferro e Bibbia, dimensioni ambientali. Collezione Permanente Parco d’Arte Querelli (AT). Courtesy l’artista e Collezione Basso.

NEI NUMERI PRECEDENTI #58 Mattia Pajè #59 Stefania Carlotti #61

Lucia Cantò

#62 Giovanni de Cataldo #63 Giulia Poppi #64 Leonardo Pellicanò #65 Ambra Castagnetti #67 Marco Vitale #68 Paolo Bufalini #69 Giuliana Rosso #70 Alessandro Manfrin #71

Carmela De Falco

#72 Daniele Di Girolamo #73 Jacopo Martinotti #74 Anouk Chambaz #75 Binta Diaw

prima di procedere con la pittura, doveva pianificare la porzione di muro che riusciva a dipingere in un giorno prima che lo strato di intonachino si asciugasse del tutto. Queste porzioni di spazi prendevano tecnicamente il nome di “giornate” e le giunture tra una giornata e l’altra venivano abilmente nascoste nella visione finale dell’opera, come a voler cancellare il tempo. Nel progetto espositivo Quanto dura una giornata, questo processo è stato ribaltato dando valore non più all’opera finale, ma al frammento, alla singolarità, agli unici “spazi di giornate” che, estirpati dal loro insieme, mettono in discussione la linearità del tempo confondendo il vero con il falso, l’inizio con la fine, il prima con il dopo, l’interezza con l’unità. Se provi a immaginare il tuo percorso, cosa ti auguri in prospettiva? E cosa vorresti evitare? Mi auguro di continuare a essere sempre fedele e autentica. Di continuare a incontrare lungo il mio percorso persone meravigliose che condividono la mia stessa passione, determinazione e spirito di sacrificio che l’arte richiede. Di saper essere in grado di riconoscere le situazioni e le circostanze da evitare e rifuggire, affinché non tradisca mai me stessa e il mio lavoro inseguendo le

richieste o le mode del mercato a discapito della ricerca e dell’espressione artistica che hanno, al contrario, esigenze e tempi ben diversi.

Troppe spese fisse e continue nella vita di tutti i giorni che contrastano con un sistema artistico basato principalmente su opportunità occasionali

Essere artista (emergente) in Italia, oggi: quali sono le opportunità e le difficoltà che stai incontrando? Penso che il nodo sia proprio nel fatto che le difficoltà sono spesso nascoste nelle opportunità. “Fare carriera” è un aspetto che non do mai per scontato e sono grata e onorata per ogni invito che ricevo. Ma organizzare il quotidiano in attesa di essere accettata e invitata, a volte è impossibile. E questo è destabilizzante e frustrante. Per sostenere le spese dell’affitto di una stanza, di uno studio, di libri, materiali, e spostamenti ho sempre dovuto fare parallelamente la cameriera, la barista, l’insegnante o addirittura più lavori insieme. Troppe spese fisse e continue nella vita di tutti i giorni che contrastano con un sistema artistico basato principalmente su opportunità occasionali e con amministrazioni poco trasparenti. Sarebbe bello poter avere degli aiuti statali per svolgere serenamente e liberamente il nostro lavoro come in altri Paesi ma, fin quando questo in Italia non sarà possibile, sarò disposta a fare tutti i sacrifici del mondo per continuare a perseguire questa inclinazione a cui è impossibile sottrarsi.

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Curator : Daisy Wang

Subterranean Organ

is an experienced curator and interdisciplinary feminist artist with academic credentials from the Royal College of Art and Kingston University London. Her rich portfolio includes collaborations with notable institutions like the Royal Academy of Arts, the Design Museum and the Architectural Association.

is a durational experimental programme and time-based exercise curated by Daisy Wang. The exhibition programme inquires into the interiority and exteriority of the more-thanhuman body in relation to fluidity, contingency, and the architectural and performative spaces within and without.

With extensive experience in curating both nationally and internationally— including prestigious venues such as Perrotin Gallery in France, Kaikai Kiki Studio, Hajime Sorayama Studio, Nanzuka Gallery in Japan, The Long Museum, and X-Museum in China.

Kate Howe,Susanna's Howling Liver, Delivered Unto the Organ of Healing, 2023, Courtesy The Crypt Gallery

Exhibition Critique: "Subterranean

Selfie

In addition, she has extensive experience in organising design events and conferences, conducting design as well as researching and communicating with clients. Her curatorial interest lies in ecofeminism, performance art and a wider dialogue in collaboration with multidisciplinary practitioners. Her key areas of interest and knowledge focus on gender & identity politics, body as a medium and metaphor.

Opening 1, Subterranean Organ

The program uses the structure of biological organs and the concept of osmosis to examine how a body or space can be seen as a whole with various interconnected parts. Like the way organs in our bodies function, the program explores how elements within a space interact with each other and the environment. It connects the humad body with the broader natural world, creating a "cosmology" of life where forms are constantly changing. The artists in the program use different forms of art, such as sound, images, text, and live performances, to explore the idea that art can be alive, flexible, and part of a larger collective. By blurring the boundaries between inside and outside, individual and collective, human and non-human, the artworks turn the exhibition space into a living and dynamic entity.

Friendred Peng(director) Pierre Engelhard(visual artist), The Triad Entanglement, Courtesy The Crypt Gallery

Organ" Curated by Daisy Wang Büket Yenidogan, Breath Magick, 2022,

Participating artists include Buket Yenidogan, Celeste Viv Ly, Dr. Chang Gao, Cherry Song, Di Chen, Eleanor Turnbull, Eleni Zervou, Emma Papworth, Evangelia Dimitrakopoulou, Freya Fang Wang, Friendred Peng, Kate Howe, Li Yilei, Lulu Wang, Maya Masuda, Noëlle Turner, Pierre Engelhard, Sasha Ercole and Shadow Collective.

Courtesy The Crypt Gallery

Group Exhibition curated by Daisy Wang-Contemporary Vanguard Exhibition-The Crypt Gallery, London, UK

Subterranean Organ 2023

"Subterranean Organ," an avant-garde exhibition curated by Daisy Wang, ambitiously seeks to redefine the boundaries of art and biology, exploring the symbiosis of the human and the more-than-human. Moreover, while the thematic exploration of fluidity and boundary transgression is intellectually stimulating, it sometimes risks becoming abstract to the point of opacity, potentially alienating those not already versed in these concepts. In conclusion, "Subterranean Organ" is a daring and thought-provoking exhibition that succeeds in pushing the boundaries of conventional art. It is a testament to Daisy Wang's curatorial prowess and the artists' creative ingenuity. The exhibition offers a unique exploration of the interconnectedness of life, inviting the audience to reconsider the conventional perceptions of space, biology, and art. While its complexity may be daunting for some, its ability to engage, provoke, and inspire makes it a significant and worthwhile experience in contemporary art. -Dr. Chang Gao



LA COPERTINA SCANDAL Matteo Ribet Il tema di questa copertina è preso in prestito dalla Biennale Danza di Venezia 2023, dedicata agli Stati di alterazione del presente e le possibili visioni alternative che la cultura ci può offrire rispetto ai modelli imperanti. “La nostra consapevolezza nasce da un’impronta somatica, deriva in primo luogo dal corpo. Il corpo arriva alla mente e noi allora percepiamo le cose”, spiega il direttore artistico Wayne McGregor. A partire da questa consapevolezza abbiamo identificato nel lavoro di tesi di Matteo Ribet (corso triennale in fotografia di IED Roma) l’ideale trasposizione visiva del concetto di percezione del corpo e di costruzione dei significati ad esso associati, sia in forma individuale che collettiva. Eppure, l’immagine di copertina non è immediatamente riconducibile al corpo dell’artista, ma si avvale della metafora: “La fotografia – spiega Matteo – è parte di un progetto di autoritratti intitolato Scandal, in cui uso il medium fotografico come strumento per cicatrizzare e generare un qualcosa di positivo a partire da un episodio di bullismo avvenuto per via del mio corpo non conforme durante le scuole medie. Ho sempre avuto un’inclinazione verso la tematica dell’alte-

I ritratti più piccoli mai realizzati da Rembrandt tornano visibili dopo due secoli CATERINA ANGELUCCI L Sono fruibili dal 13

dicembre 2023 al Rijksmuseum di Amsterdam i ritratti di Jan Willemsz van der Pluym e Jaapgen Caerlsdr, i più piccoli mai dipinti da Rembrandt, grazie al prestito a lungo termine della famiglia Holterman. Realizzati nel 1635, scomparvero per quasi due secoli riemergendo solo due anni fa: dopo una ricerca approfondita, il museo di Amsterdam ne ha attestato l’attribuzione, riconoscendo che i dipinti sono significativi non solo per la dimensione inedita ma anche perché i due erano membri della famiglia dell’artista. I pigmenti corrispondono a quelli frequentemente utilizzati, come il bianco di piombo e il nero di osso. Lo stesso museo riporta che quando Rembrandt realizzò i due dipinti, era il ritrattista più ricercato del tempo: data la parentela e lo stile dinamico e “schizzato” in un formato di piccole dimensioni, probabilmente il lavoro fu un favore.

rità, la quale spesso trova migliore soddisfazione nella vasta diversità che il regno animale ci offre. Mi piace calarmi nelle vesti dello scorpione per via di alcuni suoi aspetti, come la sua resistenza alle radiazioni, che molto ironicamente riprende la tematica del trauma e della violenza subita sul mio corpo. Nel Medioevo la figura dello scorpione si collegava al concetto di eresia e di maldicenza per via della sua velenosità, cosa che probabilmente lo avvicina al mio stile fotografico, alla mia tensione verso un allontanamento da normative sociali che possono in realtà ledere il singolo e non preservare la bellezza della diversità”. Scopri i dettagli del progetto seguendo il QR code qui a fianco IED x ARTRIBUNE Il progetto Fragile Surface si propone di raccontare attraverso immagini e contenuti multimediali realizzati da studentesse, studenti e Alumni dell’Istituto i temi centrali della contemporaneità. Per il secondo anno di collaborazione abbiamo scelto di affidarci ai temi delle più importanti manifestazioni di arte e design, prendere in prestito spunti di riflessione e restituire immagini fragili ma potenti. Superfici sottili che racchiudono complessi punti di vista. Le biennali (triennali – quadriennali – quinquennali) sono l’occasione per artisti e designer di riflettere sugli argomenti centrali della contemporaneità. Partendo da manifestazioni del recente passato e tenendo in considerazione le tematiche delle prossime, cercheremo collegamenti espliciti o implicite contrapposizioni e ci interrogheremo proponendo un punto di vista inedito: quello di giovani persone che si affacciano sul futuro.

Come rinasce il Real Albergo dei Poveri di Napoli, su progetto dello studio ABDR LIVIA MONTAGNOLI L Il Real Al-

bergo dei Poveri di Napoli è l’im2 3 1 ponente struttura settecentesca – tra le più grandi costruite in Europa in quel periodo – nata per volontà di Carlo III di Borbone e progettata da Ferdinando Fuga, affacciata su piazza Carlo III, al confine con l’Orto Botanico, il museo di Paleobotanica ed Etnobotanica, l’osservatorio astronomico, il parco e il Museo Nazionale di Capodimonte. Grazie a 100 milioni di euro del PNRR, dopo decenni di abbandono, rinascerà come polo culturale, su progetto dello studio romano ABDR Architetti Associati, articolato sul principio del “box in the box”, per preservare le preesistenze storiche. Consegna dell’intervento prevista per giugno 2026. 1. 13mila metri quadri a disposizione, nell’ala che prospetta su piazza Carlo III, per l’Università Federico II, che qui aprirà la Scuola superiore meridionale, con aule e foresteria da 180 posti letto. 2. 10mila metri quadri, nel braccio confinante con l’Orto Botanico, per il MANN, con la sede distaccata dedicata alla storia di Pompei e alla ricostruzione dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Di pertinenza anche un ristorante con terrazza panoramica. 3. 6mila metri quadri, nell’ala centrale, per la Biblioteca Nazionale, che si trasferisce dentro al Real Albergo. Quest’area di svilupperà in altezza, con una sequenza di risalite, per culminare nella grande public library di 70 metri di lunghezza e 18 di profondità, costeggiata da una costola verde che conduce verso la caffetteria in terrazza.


VALENTINA SILVESTRINI L Doppio (prestigioso) incarico

internazionale per Carlo Ratti. Il fondatore dello studio di architettura e innovazione CRA-Carlo Ratti Associati, con sedi a Torino, New York City e Londra, ha infatti concluso il 2023 con la nomina a direttore della 19. Mostra Internazionale di Architettura, al via a Venezia il 24 maggio 2025. “Per affrontare un mondo in fiamme, l’architettura deve riuscire a sfruttare tutta l’intelligenza che ci circonda. Sono profondamente onorato di avere l’opportunità di curare la Biennale Architettura 2025”, ha commentato il progettista torinese classe 1971, di formazione architetto e ingegnere. Dopo aver disegnato, con Italo Rota, il Padiglione Italia a Expo 2020 Dubai, Ratti lega il proprio nome anche a Expo 2025 Osaka: con lo studio francese Coldefy, CRA si è infatti aggiudicato il Padiglione Francia alla kermesse giapponese. Intitolata Theatrum Naturae, la struttura evidenzierà il contributo della Francia nella salvaguardia dell’ambiente, attraverso un percorso di visita tripartito culminante in un tetto-giardino evocativo della varietà paesaggistica del Paese.

I NUOVI INCARICHI DEL 2024. COSA CAMBIA ALLA DIREZIONE DEI MUSEI D’ITALIA E DEL MONDO LIVIA MONTAGNOLI L Il 2024 di molti musei e istituzioni culturali italiani (e non solo)

inizia all’insegna di nuovi insediamenti con incarichi dirigenziali. Accanto alle nomine ministeriali dei cosiddetti “super direttori”, ecco altri cambi della guardia significativi da segnalare.

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Ilaria Bonacossa alla direzione di Palazzo Ducale a Genova. Torna nel capoluogo ligure, dove dal 2012 al 2016 è stata curatrice del museo di arte contemporanea di Villa Croce, Ilaria Bonacossa (Milano, 1973) che assume la direzione di Palazzo Ducale, succedendo a Serena Bertolucci. Nel recente passato della critica d’arte anche la direzione di Artissima, dal 2016 al 2021. Serena Bertolucci alla direzione dell’M9 di Mestre. Dopo i cinque anni alla guida di Palazzo Ducale di Genova, la storica dell’arte di Camogli prende il testimone di Luca Molinari alla direzione del Museo del Novecento, selezionata dal CdA della Fondazione di Venezia. Intanto, il museo ha inaugurato una nuova sezione, ribattezzata Orizzonti: un allestimento immersivo, grazie a un sistema evoluto di proiezioni che animano i 400 metri quadri di superficie della sala, dedicata ad approfondimenti sui temi centrali del presente. Mariët Westermann alla direzione della Fondazione Solomon R. Guggenheim. La storica dell’arte olandese è la prima donna ad assumere la guida dei musei Guggenheim, succedendo a Richard Armstrong. Dal primo giugno 2024 le sarà affidata la direzione strategica della Fondazione e del Museo Guggenheim di New York, e sarà a capo delle collezioni e della rete museale in Europa e Abu Dhabi.

DIREZIONE Santa Nastro [vicedirettrice] Desirée Maida [caporedattrice] COORDINAMENTO MAGAZINE Alberto Villa Giulia Giaume [Grandi Mostre] REDAZIONE Caterina Angelucci | Irene Fanizza Claudia Giraud | Livia Montagnoli Valentina Muzi | Roberta Pisa Emma Sedini | Valentina Silvestrini Alex Urso Carlo Ratti. Photo by Sara Magni

PROGETTI SPECIALI Margherita Cuccia PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi PUBBLICITÀ Cristiana Margiacchi | 393 6586637 Rosa Pittau | 339 2882259 adv@artribune.com EXTRASETTORE download Pubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it COPERTINA ARTRIBUNE Scandal, Matteo Ribet, 2023 Digital Photography Courtesy l’artista e IED – Istituto Europeo di Design COPERTINA GRANDI MOSTRE Dante Gabriel Rossetti, La vedova romana (part.), 1874, olio su tela, Museo de Arte de Ponce / The Luis A. Ferré foundation, Inc STAMPA CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS)

a cura di DESIRÉE MAIDA

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Cristiano Leone alla presidenza della Fondazione Santa Maria della Scala di Siena. Il manager culturale napoletano, 39 anni, si è dottorato a Siena in Filologia Romanza, prima di intraprendere una brillante carriera internazionale sia nel settore pubblico sia privato, dalla Sorbona al Museo Nazionale Romano. A Siena si insedia per fare del Santa Maria un polo culturale di prima grandezza. “Farò frutto dell’esperienza professionale presso diverse realtà internazionali; indirizzerò i miei sforzi a intessere partenariati sia pubblici sia privati; proporrò di portare la cultura performativa tra le mura del museo”, spiega lui.

DIRETTORE Massimiliano Tonelli

NEWS

Carlo Ratti tra la Biennale Architettura 2025 e Expo 2025 Osaka

DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Cuccia EDITORE & REDAZIONE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 25 gennaio 2024

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L’ATELIER DI ANSELM KIEFER “Il nulla. È questa la meta ultima a cui tende Kiefer”. Con questa riflessione arriva a congedarsi Vincenzo Trione dall’atelier di uno dei più importanti artisti viventi dopo un lungo e intenso viaggio all’interno di La Ribaute, un labirinto di trenta ettari, dove Kiefer all’inizio degli anni Novanta decide di stabilire il proprio studio. Questo luogo viene riempito da un carico trasportato da settanta camion, provenienti dal precedente atelier in Germania, e nel corso del tempo tutto viene trasformato. Nascono labirinti, ipogei, recinti, piste, padiglioni, tunnel. Dentro questo luogo così denso di significati Trione si interroga sulla dimensione, la pratica e la ricerca di Kiefer. Ad accompagnare il suo viaggio e le sue riflessioni è l’artista ma è soprattutto lo spazio, i contenuti, la dimensione fisica e concettuale dell’atelier. Emerge fin da subito che questo luogo non è semplicemente uno studio ma qualcosa di molto più complesso. È un’opera d’arte, è un quaderno degli appunti, un archivio, un affastellamento di riflessioni concrete, uno spazio utopico, una città, un essere vivente: “smarrimenti, forse rimorsi. A tratti si respira un’aria ostile. Mentre si passeggia a volte, si ha come la sensazione che siano disseminate trappole. Poi, all’imbrunire, questo sito si trasforma in una versione tridimensionale di un quadro surrealista, attraversato da un protagonista intangibile, invisibile, ma sempre presente: il silenzio” Vincenzo Trione, Prologo celeste Einaudi, 2023 pag. 376, € 36 ISBN 9788806257064 einaudi.it

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Dalla A di America alla Z di Zombi, passando per Callas, cazzeggio, dandy, Italia, museo, rap, sodomia e vaffanculo: Alberto Arbasino – il maggiore narratore della Neoavanguardia, nonché membro del Gruppo 63 – viene descritto con una selezione di termini scelti a cura di Andrea Cortellessa, che nell’insieme dipingono in maniera straordinaria una figura poliedrica, ossessiva, colta e appassionata (anche d’arte) come nessun classica biografia avrebbe potuto fare. A completare il libro tre interviste, ricche di ironia e aneddoti immergono il lettore ancora di più nella vita di Arbasino: un mondo fatto di racconti, incontri e personaggi che sembrano sempre uscire da un suo romanzo.

“Ci sono tantissimi progetti creativi fatti da puttane: un’intera corrente di nuovo cinema diretto da prostitute nere, antologie indipendenti di battone, romanzi di fantascienza scritti da sex worker, non li conosciamo nemmeno tutti”. Estrapolata dal contesto questa citazione presa dal libro Una donna in carriera. Vendere arte e vendere sesso può disorientare. I pregiudizi attorno le sex workers sono così radicati che è quasi impossibile pensare che tra queste numerose persone esistano anche delle artiste. Sophia Giovannitti esplora e mette in relazione arte contemporanea e sesso, svelandone i punti di contatto, le dinamiche di mercificazione della creatività, del desiderio e dell’intimità.

Vecchi di merda svela la verità, è il Morpheus del film Matrix in forma di libro. Infatti questo divertente racconto inizia proprio con la celebre citazione della scelta: pillola rossa o pillola blu? In questa narrazione politically incorrect, Mattia Tombolini si prende gioco di tutte le teorie del complotto: migranti, dittatura sanitaria, terrapiattisti. Ma al centro del racconto ci sono loro, i vecchi, a cui il protagonista del racconto si unisce camuffandosi, diventando un infiltrato e scoprendo i loro piani per vessare la vita quotidiana delle nuove generazioni. Il finale è amaro quanto veritiero, e forse necessario per non fare la stessa fine da quando chi ora è giovane sarà vecchio.

Arbasino A-Z a cura di Andrea Cortellessa Electa, 2023 pag. 272, € 35 ISBN 9788892824195 electa.it

Sophia Giovannitti, Una donna in carriera. Vendere arte e vendere sesso Johan & Levi, 2023 pag. 200, € 20,00 | ISBN 9788860103468 johanandlevi.com

Mattia Tombolini, Vecchi di Merda Momo Edizioni, 2023 pag. 128, € 12,00 ISBN 9791280298386 momoedizioni.it


Il Museo Necessario. Mappe per tempi complessi a cura di Anna Chiara Cimoli e Simona Bodo, edito da Nomos edizioni è una sfaccettata antologia di riflessioni a cui hanno preso parte importanti professionisti, italiani e stranieri, con expertise diverse quali la curatela, la gestione, la ricerca e il coinvolgimento del pubblico. Questo mix di diversi punti di vista ha dato vita a un complesso insieme di contributi che mette in discussione il ruolo attuale delle istituzioni museali, proponendo, allo stesso tempo, nuovi approcci che spaziano dall’idea del museo “utile”, interconnesso, partecipe dell’attivismo, decoloniale, post-etnografico e che, allo stesso tempo, si interroga su questioni come l’accessibilità fisica, sociale e di classe. Quello che emerge in maniera trasversale all’interno dei vari saggi e interviste è sintetizzato nelle parole delle curatrici del volume: “in anni segnati da una progressiva polarizzazione, in cui le opinioni sembrano potersi solo appiattire, e mai articolare, pare invece più che mai utile provare a porsi dentro il campo vivificante della possibilità. Piuttosto che nello schieramento manicheo, è nella scelta di resistere alla stereotipia, reclamare il tempo per pensare e dialogare, indicare il ventaglio delle sfumature che sembra risiedere un vero e coraggioso posizionamento”.

LIBRI

I DIVERSI E NECESSARI FUTURI DEL MUSEO

Il Museo Necessario. Mappe per tempi complessi a cura di Anna Chiara Cimoli e Simona Bodo Nomos edizioni, 2023 pag. 264, € 24,90 ISBN 9791259580917 nomosedizioni.it

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Nel 2020, durante la sospensione temporale dovuta alla pandemia, il fotografo Luigi Spina ha avuto modo di compiere un viaggio in una Pompei deserta. Qui realizza più di 1450 scatti che sono confluiti nel progetto editoriale Interno pompeiano. Il libro si presenta come un passeggiata tra gli scavi, dove tra immagini di scorci inediti e dettagli decorativi emerge il ritratto di una città vitale. Sarebbe però sbagliato considerare questo libro fotografico come un semplice raccolta documentaristica perché attraverso gli scatti di Spina “scopriremo un mondo che si poneva gli stessi interrogativi e che, spesso, aveva la capacità di trovare risposte nell’unico luogo possibile. L’animo umano”.

“Musei, fondazioni, monumenti, piazze, parchi, e chi più ne ha più ne metta. [...] spazi di grande qualità che cercano di avvicinare il pubblico, allontanandosi da quell’atteggiamento elitario ed esclusivo che ha da sempre accompagnato l’arte contemporanea, ma senza diventare ruffiani nel tentativo di fare numeri”. Con queste parole, Nicolas Ballario introduce il libro 100 luoghi del contemporaneo in Italia, una guida ragionata creata per chi cerca alternative ai classici percorsi e monumenti storici ai quali l’Italia e gli italiani sembrano troppo spesso legati in maniera esclusiva, tralasciando le meraviglie della contemporaneità in tutte le sue sfaccettature, inclusa quella dell’arte.

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica DeriveApprodi, 2023 pag. 416, € 28 | ISBN 9788865484876 deriveapprodi.com

Luigi Spina, Interno pompeiano 5 Continents Editions, 2023 pag. 480, € 150,00 ISBN 9791254600306 fivecontinentseditions.com

100 luoghi del contemporaneo in Italia a cura di Nicolas Ballario Il sole 24 ore cultura, 2023 pag. 272, € 70,00 | ISBN 9788866486572 24orecultura.com

a cura di DARIO MOALLI

“Sei sicuro di non essere un poliziotto? L’ultima persona che mi ha chiesto queste cose era un poliziotto”. Con questa battuta Gianfranco Baruchello risponde alle domande di Jacopo Galimberti sulla sua militanza in Potere Operaio. Questa e altre esperienze sono al centro del saggio Immagini di classe, uno studio inedito sul discorso estetico sviluppato da diverse generazioni di militanti come Mario Tronti, Antonio Negri, Franco Berardi Bifo e Silvia Federici. Nel libro vengono mostrati e analizzati esempi di artisti, architetti e designer particolarmente influenzati dal movimento operaio. Emerge così un flusso inesplorato e interessante di connessioni fino ad oggi sostanzialmente invisibili.

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In Corea del Sud inaugura il Sorol Art Museum. Con una mostra su Lucio Fontana

TO: L’ARCHITETTURA COME PRATICA COLLETTIVA

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centri più vivaci della Corea del Sud. La città affonda le sue radici nella tradizione coreana che a tutt’oggi conserva e tramanda, ed è famosa anche per la sua attenzione alle arti. Tra i progetti più recenti è infatti il Sorol Art Museum, a firma di Meier Partners Architects e realizzato dalla Fondazione Korean Research Institut of Contemporary Art. Il museo intende diventare un nuovo punto di riferimento culturale della comunità internazionale, fondando la sua ricerca sull’approfondimento dell’arte astratta e sui linguaggi dell’arte contemporanea coreana. A inaugurare il nuovo museo, il 14 febbraio 2024, sarà Lucio Fontana: Spatial Concept, la prima mostra dedicata all’artista italiano padre dello Spazialismo mai organizzata in Corea del Sud e curata in collaborazione con la Fondazione Lucio Fontana.

Al Museo Egizio di Torino apre la Galleria della Scrittura GIULIA GIAUME L È con una riapertura clamorosa che il Colectivo c733, Estacion Tapachula, Messico. Photo Rafael Gamo

ra i giovani architetti che si sono maggiormente distinti nello scorso 2023 vi è certamente lo studio messicano TO, che ha concluso l’anno aggiudicandosi tanto l’ambìto titolo di migliore emergente dell’Architectural Review quanto un Dezeen Award, assegnato dall’omonima piattaforma di design più cliccata del web. Alla base di questi successi vi è un credo nell’architettura come pratica collettiva, in cui voci, abilità e realtà diverse si incontrano. “Siamo grandi amici fin dall’infanzia”, raccontano José Amozurrutia e Carlos Facio ad Artribune, “siamo stati compagni di squadra di calcio e membri di gruppi musicali: crediamo da sempre che i processi creativi siano la somma coordinata delle diversità, il lavoro collaborativo di molte mani e menti”. Emblematica è l’esperienza con gli abitanti di Yuguelito, ai margini sud-est di Città del Messico, dove il duo ha realizzato una scuola di musica. Progettata con i giovani allievi attraverso una serie di workshop, la struttura è stata eretta su un terreno donato dalle famiglie e realizzata con materiali di riciclo e manodopera offerta da costruttori locali. Inaugurata nel marzo 2022, la piccola opera collettiva è diventata in poco tempo un punto di riferimento per la comunità, che organizza regolarmente, al di sotto della sua volta affacciata sul vulcano Xaltepec, spettacoli, concerti e incontri. Tuttavia, il concetto di collaborazione non si limita agli utenti del progetto. “Siamo uno studio indipendente”, spiegano Amozurrutia e Facio, “ma in diverse occasioni collaboriamo con altri studi e colleghi, per la gioia di condividere ciò che facciamo e perché questo ci rende più forti e flessibili di fronte agli scenari di crisi”. Sotto il nome di Colectivo c733, TO e altri tre studi sviluppano spazi pubblici a sostegno delle comunità e a protezione dell’ambiente in aree vulnerabili del Paese: in cinque anni di attività, il collettivo ha recuperato il molo di San Blas, trasformato la ferrovia dismessa di Tapachula in un parco lineare, realizzato la casa della musica di Nacajuca, il mercato di Matamoros e una passerella pedonale che permette di visitare la laguna di Quintana Roo riducendo al minimo l’impatto sulle mangrovie. Una produttività che per TO caratterizza anche questo inizio di 2024: “Siamo al lavoro su tre progetti di residenze rurali sostenibili e su due interventi di recupero di costruzioni preesistenti; abbiamo anche in cantiere un complesso abitativo a Città del Messico”, rivelano gli architetti. Inoltre, proseguono con Colectivo c733 i lavori nel Parco Nazionale Jaguar di Tulum: “È un grande progetto a cui stiamo lavorando da due anni: comprende due strutture per l’accoglienza dei visitatori, un edificio di accesso alla zona archeologica, un osservatorio della flora e della fauna, un museo, servizi e interventi di rigenerazione del paesaggio”.

Museo Egizio di Torino – dopo la proposta di introduzione del biglietto gratuito e la decisione di applicarlo già alle persone in difficoltà economiche – si è approcciato alle trascorse vacanze natalizie. Dopo i lavori di restauro, riapre il terzo piano del museo con un nuovo allestimento: la Galleria della Scrittura. All’interno di 1000 metri quadrati di spazio sono esposti 248 reperti, in un viaggio a ritroso di 4mila anni scandito in 10 sezioni. Il progetto espositivo curato da Paolo Marini, Federico Poole e Susanne Toepfer (già responsabile della Papiroteca del museo) racconta la storia della scrittura antica tra geroglifici, ieratico, demotico e copto, descrivendo la società del tempo e la figura dello scriba, custode della memoria storica della civiltà egizia.

È nata Render, la newsletter di Artribune sulla rigenerazione urbana e culturale VALENTINA SILVESTRINI L Dopo il de-

butto di Incanti, a gennaio 2024 ha esordito la seconda newsletter verticale di Artribune: Render. Gratuita e focalizzata sulla rigenerazione urbana e culturale, si rivolge a un pubblico eterogeneo; curata da Carolina Chiatto e Valentina Silvestrini, arriva agli iscritti a lunedì alterni. Ogni uscita, oltre a un osservatorio sui processi di rigenerazione in Italia e all’estero, è affiancata da approfondimenti, interviste, mappe e da un'agenda con iniziative selezionate. Render si propone come strumento di informazione in grado di anticipare e commentare le trasformazioni urbane. Il progetto si pone in continuità con l’attenzione che, fin dalla sua nascita, Artribune ha riservato alla scena architettonica globale; dal 2021 è inoltre attivo il dipartimento Artribune Produzioni, che opera in attività di consulenza, curatela e comunicazione di progetti artistici in contesti di rigenerazione urbana. Per info e segnalazioni: render@artribune.com. Scannerizza il QR code per abbonarti a Render!


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Pesaro Capitale Italiana della Cultura 2024

Aperto ufficialmente il 20 gennaio, il 2024 da Capitale italiana della Cultura di Pesaro vedrà la città marchigiana protagonista di una programmazione di attività ed eventi in stretta connessione con il territorio circostante, che esplora il legame tra arte, natura e tecnologia. Ma è sul centro urbano che ci concentriamo nell’articolare un itinerario per tappe tra storia antica e arte contemporanea, musica e gastronomia.

piazzetta mosca 29 pesaromusei.it

GALLERIA SPAZIO BIANCO Spin off del Centro Arti Visive Pescheria (punto di riferimento per l’arte contemporanea in città, all’interno della Pescheria ottocentesca, oggetto di un restyling tecnologico nel 2023), Spazio Bianco – dal colore che ne caratterizza gli ambienti – è nato per valorizzare la fotografia contemporanea. Ricca la programmazione di mostre, che punta a sostenere i talenti emergenti. via zongo 45 pesaromusei.it

MUSEO OLIVERIANO Riaperto al pubblico alla fine del 2022, si tratta di uno dei musei più antichi delle Marche. Il progetto di riallestimento del piano terra del seicentesco Palazzo Almerici è stato curato da STARTT e omaggia Jannis Kounellis nell’evocare la lezione sull’uso del frammento. In esposizione la Pesaro archeologica, dai Piceni all’età romana, con una digressione sul collezionismo settecentesco. via domenico mazza 97 oliveriana.pu.it

GALLERIA ROSSINI Accanto a Casa Rossini, la Galleria omonima ha inaugurato nell’estate 2023 per sostituire l’impegno della travagliata Piccola Galleria Comunale. Un palinsesto mensile racconta gli artisti del territorio, privilegiando la pittura; spazio anche per esposizioni ed esibizioni a tema musicale, che arricchiscono la proposta dell’adiacente museo dedicato al compositore pesarese. via gioacchino rossini 38

TEATRO ROSSINI Inaugurato nel 1637 per volere di Urbano VIII, nell’Ottocento è frutto del profondo rinnovamento a opera di Pietro Ghinelli. Nel 1855 è intitolato a Rossini, che presta il nome anche al prestigioso Opera Festival estivo (che da quest’anno poggerà anche sull’avanguardistico Auditorium Scavolini). Per saperne di più, visitate la Casa museo del compositore: in via Rossini, ca va sans dire. piazza lazzarini 1 teatridipesaro.it

IL LABORATORIO BARATTI Lo studio-museo di Bruno Baratti apre al pubblico su appuntamento o in occasione di esposizioni temporanee, grazie all’impegno dei pronipoti del pittore, scultore e ceramista scomparso nel 2008. Nei locali dove era la sua bottega, l’antico laboratorio è infatti rinato come percorso museale, tra tavoli, strumenti di lavoro, calchi in gesso, disegni, ceramiche e bronzi. piazzale collenuccio

LA SFERA DI ARNALDO POMODORO In piazzale della Libertà, a breve distanza dal mare, la Sfera di Pomodoro venne collocata nel 1998, realizzata sul modello del 1967 per l’Expo di Montreal. Diventata simbolo della città, da febbraio 2024 dialogherà idealmente con la Biosfera, installazione sferica del diametro di 4 metri, illuminata da milioni di led, collocata in piazza del Popolo. piazzale della libertà

RISTORANTE NOSTRANO Riminese d’origine, pesarese d’adozione, Stefano Ciotti dirige la cucina del ristorante affacciato sul lungomare di Pesaro con personalità. Protagonista è l’Adriatico (ma c’è spazio anche per l’entroterra marchigiano), portato in tavola attingendo a cotture tradizionali e invenzioni che divertono. Si chiude con la piccola pasticceria che omaggia Gioachino Rossini. piazzale della Libertà 7 nostranoristorante.it

a cura di LIVIA MONTAGNOLI

MUSEI CIVICI - PALAZZO MOSCA Una visita alle collezioni nell’ex residenza nobiliare della famiglia Mosca è occasione per scoprire il ruolo artistico di Pesaro e delle Marche nel corso dei secoli. Si apprezzano, tra le altre, diverse opere di Simone Cantarini e l’imponente Pala Pesaro di Giovanni Bellini. Prima di andare, uno sguardo alla libreria en plein air che si arrampica su una parete della corte interna del palazzo.

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MAREA ART PROJECT Dal numero #76, in alternanza con OSSERVATORIO CURATORI e OSSERVATORIO NON PROFIT, si aggiunge OSSERVATORIO RESIDENZE, la rubrica dedicata alle residenze d’artista a cura di Caterina Angelucci

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area Art Project è un programma di residenze nato nel 2021 da un’idea di Imma Tralli e Roberto Pontecorvo. La consulenza scientifica è affidata a Stefano Collicelli Cagol, direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, e si arricchisce della collaborazione di Carol LeWitt, storica dell’arte, collezionista, mecenate e moglie dell’artista Sol LeWitt. Con l’obiettivo di ri-abitare un territorio principalmente fruito nel periodo estivo da un turismo di massa, che ne snatura i connotati e lo piega al consumo, Marea Art Project promuove una conoscenza alternativa della costiera amalfitana nei mesi in cui è “abbandonata” (da novembre a marzo) ospitando nelle nove strutture messe a disposizione tra Praiano e Positano, artisti, ricercatori, curatori, poeti, musicisti e altri professionisti delle arti. Dagli sviluppi del progetto alle problematiche legate alla necessità di un riconoscimento istituzionale delle residenze d’artista, Artribune ha intervistato Imma Tralli e Roberto Pontecorvo. Come si svolgono i momenti in residenza? Il processo alla base delle residenze di Marea prevede diverse fasi: si parte sempre da un primo incontro e confronto con l’artista, molto importante per noi perché ci permette di individuare i bisogni alla base della ricerca connessa al territorio, e di preparare il lavoro da svolgere una volta in loco. Questo processo è accompagnato dalla creazione di un documento condiviso dove iniziamo a scambiarci idee che possano arricchire la ricerca. Una volta in costiera e trovato il ritmo con la nuova dimensione spaziale e temporale di Praiano o Positano, l’artista ci trasmette l’evoluzione della sua ricerca. A partire da questo momento, pianifichiamo visite o incontri con personalità o con maestranze del territorio e della regione che possano essere di supporto al progetto. Nel mentre organizziamo incontri, presentazioni o proiezioni di film e documentari connessi alla storia del luogo e che siano in risonanza con la ricerca dell’artista. A fine residenza, inoltre, prevediamo una restituzione alla collettività in cui l’artista condivide i risultati del lavoro svolto durante il periodo di permanenza. Quali sono gli strumenti messi a disposizione dell’artista? Rispetto agli strumenti messi a disposizione, l’artista in residenza può contare sul nostro lavoro di supporto dal punto di vista della mediazione culturale sul territorio, facilitando l’incontro tra artisti anche stranieri con la comunità e i luoghi; la condivisione del nostro archivio bibliografico, video e fotografico; su spazi di lavoro luminosi e dotati dell’attrezzatura necessaria

L’artista in residenza può contare sul nostro lavoro di supporto dal punto di vista della mediazione culturale sul territorio, facilitando l’incontro tra artisti anche stranieri con la comunità e i luoghi

che varia in base alle esigenze dell’artista; sul nostro lavoro di documentazione del processo di residenza e di comunicazione sui diversi canali. Inoltre, l’artista in residenza può vivere e approfondire la ricerca in antiche dimore nei paesi di Praiano o Positano, lasciandosi ispirare dalle atmosfere sempre mutevoli del mare e della costiera e dell’Isola De Li Galli, di Punta Campanella e dei Faraglioni di Capri. In più, partecipare alle residenze di Marea Art Project significa anche entrare in contatto con una rete nazionale e internazionale, grazie alla collaborazione con The LeWitt Collection. Come si sostiene Marea Art Project? Relativamente alla sostenibilità economica, stiamo lavorando per affiancare all’attività no-profit, un programma a pagamento chiamato MAP rivolto sia ad artisti e professionisti delle arti che intendono lavorare a un progetto personale in costiera amalfitana con il nostro supporto, sia a gallerie d’arte, case discografiche, case editrici e collezionisti che abbiano interesse a investire sul lavoro di un artista. Attraverso le entrate di questo programma, sarà possibile continuare a sostenere economicamente le attività dell’associazione, la ricerca sul territorio attraverso il coinvolgimento di esperti e ricercatori, il lavoro degli artisti che invitiamo in residenza, e a garantire la gratuità delle attività rivolte alla comunità locale e al pubblico che partecipa ai nostri eventi. Una riflessione sul ruolo delle residenze in Italia oggi: che posizione occupano nella carriera di un’artista? Ci sono spazi di miglioramento? Se sì, quali? La residenza artistica ha una valenza centrale nella carriera di un artista poiché rappresenta uno spazio di astrazione in cui sperimentare nuove forme di esistenza nella specificità di luoghi molto spesso marginali, prendendosi cura della complessità che li anima. Diventa l’interstizio in cui parlare di legami, di costellazioni, di cosmologia, di politica affettiva. D’altra parte, le residenze sono sostanza nutritiva anche per i territori poiché rappresentano quell’humus capace di suscitare una reazione rigenerativa nelle comunità, mettendo in pratica un altro modo di vedere, vivere, respirare insieme. Ma a questa vitalità, purtroppo, non corrisponde in Italia un riconoscimento della residenza artistica da un punto di vista istituzionale, come organismo culturale di riferimento. Nell’ultimo anno abbiamo trascorso periodi tra Parigi, Bruxelles e New York per conoscere ed entrare in contatto con musei, centri d’arte contemporanea, etichette discografiche e centri di produzione musicale, ma anche


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I fondatori di Marea Art Project Imma Tralli e Roberto Pontecorvo a Casa L'Orto, Courtesy Marea Art Project

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Casa Eugenia a Positano, una delle nove residenze artistiche messe a disposizione del progetto dalla comunità locale Con il ricercatore Giorgio Di Domenico in visita all'abitazione moresca di Vali Myers a Positano


OSSERVATORIO RESIDENZE

L'artista visiva e scrittrice Giulia Crispiani durante una performance nel mare di Praiano, Courtesy Marea Art Project

Progetti futuri, scenari, prospettive di Marea Art Project Tra gli scenari che si prospettano lungo l’orizzonte di Marea, a febbraio, in collaborazione con il duo Lemonot, che combina pratiche spaziali e relazionali, ospiteremo una classe di architetti della Royal College of Art di Londra. Lavoreremo sul concetto di convivialism inteso come strumento architettonico utile a costruire nuovi quadri inclusivi, creando progetti in cui voci diverse si aprono alla condivisione di conoscenze attive perseguendo desideri e aspirazioni, attraverso

Le residenze sono sostanza nutritiva anche per i territori poiché rappresentano quell’humus capace di suscitare una reazione rigenerativa nelle comunità

scambi spontanei ma progettati. Inoltre, ospiteremo la fotografa Francesca Todde, co-fondatrice di Départ Pour L’Image, casa editrice e laboratorio di sperimentazione editoriale che si concentra sulla relazione tra fotografia e arte contemporanea. Dal 2017, Todde sta sviluppando un progetto intorno all’immaginario di Goliarda Sapienza, autrice del mirabile romanzo L’Arte della Gioia, che ha frequentato a lungo la costiera amalfitana tra gli anni Cinquanta e Settanta, come testimonia il romanzo Appuntamento a Positano. Ripercorreremo le tracce di Sapienza in costiera, visitando i luoghi vissuti e narrati dall’autrice, anche grazie al dialogo che Todde ha instaurato con Angelo Pellegrino, vedovo ed erede della scrittrice. La ricerca di Todde si colloca in un progetto più ampio che sta prendendo forma nel grembo di Marea, volto a far riemergere l’esperienza di intellettuali e artisti che sono stati ispirati da questo luogo nel corso del XX secolo, creando al contempo connessioni con la scena artistica femminista e queer indipendente contemporanea.

Caterina Angelucci svolge dal 2020 attività di ricerca nell’ambito delle residenze d’artista, tematica a cui ha dedicato la tesi di laurea in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal 2021 fa parte di Endless Residency, osservatorio e piattaforma di scambio curato da Giulio Verago e Silvia Conta. Dal 2021 al 2022 ha seguito come organizzatrice e curatrice la residenza per artisti Lido La Fortuna (Associazione Lido Contemporaneo, Fano, PU). Nel 2023 ha pubblicato insieme a Giulio Verago Endless Residency. Un osservatorio sulla mobilità artistica, edito da postmedia books.

a cura di CATERINA ANGELUCCI

con realtà come la nostra. Ci siamo resi conto di quanti sforzi debbano fare gli artisti e chi gestisce questi spazi in Italia rispetto a contesti nemmeno troppo lontani da noi. In Francia, ad esempio, la residenza artistica è un’istituzione riconosciuta e supportata dallo stato, basti pensare a luoghi come Poush o alla Cité internationale des arts a Parigi che può ospitare fino a trecento artisti ogni mese, garantendo borse di studio e spazi di lavoro. La differenza della situazione italiana rende sia problematico il supporto alla creazione artistica contemporanea che l’accesso e la diffusione dell’arte e della cultura in luoghi più periferici. Tra le possibilità di miglioramento, nel 2021 è nata STARE - Associazione delle Residenze Artistiche italiane di cui anche Marea è parte. Uno degli obiettivi di questa rete è l’interlocuzione con enti territoriali e con il Ministero della Cultura per il riconoscimento delle residenze d’artista come istituzione culturale di riferimento. Qualcosa inizia a muoversi sotto la superficie del mare.

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YOUTUBE SURREALE: IL CASO BOBBY FINGERS

Il canale YouTube Bobby Fingers contiene soltanto cinque video. Nella foto del profilo ci sono due dita con le inziali: BF. Non è insomma, il tipico canale da influencer, basato sulla creazione del personaggio e sulla pubblicazione martellante di contenuti. I filmati sono lunghi – durano tra i venti e i trenta minuti – e vengono rilasciati con cadenza casuale. Il primo, Drunk Mel Gibson Arrest Diorama, pubblicato nell’agosto del 2022, è un mini-documentario che segue Bobby Fingers passo passo durante la realizzazione di un plastico dettagliatissimo: dalla scultura in plastilina fino all’assemblaggio definitivo, passando per il calco e la pittura. Il diorama riproduce un evento minore della vita dell’attore americano, che ha però avuto molta risonanza nei media: il suo arresto a Los Angeles per guida in stato di ebbrezza. Altri video, pubblicati a mesi di distanza, ripetono l’operazione con altri personaggi famosi, come Michael Jackson e Steven Segal. Fingers, che ha dichiarato di lavorare in solitaria, in questi video mette in scena una molteplicità di talenti: scultura, pittura, effetti speciali, teatro, musica, narrazione. Il tutto, impacchettato nel classico format del video ASMR, con tanto di sussurri, rumori e voce suadente. Non mancano tuttavia i momenti surreali, che arrivano a spezzare la narrazione in maniera caotica e inaspettata. Infine, c’è l’aspetto partecipativo: i diorami, una volta completati, vengono sotterrati in una location misteriosa. Chi li trova, seguendo gli indizi, può tenerseli. Dietro lo pseudonimo “Bobby Fingers” si nasconde un professionista di modellismo ed effetti per il cinema che vive a Limerick, in Irlanda, noto anche per aver fatto parte di un duo comico molto popolare, i Rubberbandits. Nel video più recente della serie, Jeff Bezos Rowing Boat, il livello di surrealtà e l’approccio dadaista raggiungono vette altissime: Fingers costruisce una vera barca che ha la forma e le sembianze del CEO di Amazon. Ma durante il processo succede di tutto, in una carambola di eventi che include una stand-up comedy, un trapianto di capelli e un finale in stile Pirati dei Caraibi. @bobbyfingers

IL MAGO DELL’AI

HOT DOG IN FORMA LIQUIDA Sunday Nobody si definisce un “meme artist”, cioè un artista memetico. Ventinovenne originario di Seattle, si è fatto notare per una serie di bizzarre opere concettuali divulgate tramite i suoi canali social. Il lavoro più recente, pubblicato lo scorso agosto, lo vede impegnato nella realizzazione di una serie di complicatissime sculture di ghiaccio a forma di hot-dog, ricavate dall’acqua di cottura di veri salsicciotti. Un progetto assurdo, che necessita di un’abilità manuale altissima, messa a servizio di un compito totalmente insensato. @sunday.nobody.art

UN PIANTO ALLA SETTIMANA Alan Warburton è un artista inglese specializzato nella creazione di immagini digitali. Oltre che per le sue opere – fotografie, video, installazioni – è noto per una serie di video-saggi dedicati all’esplorazione di temi teorici importanti, come il fotorealismo nella grafica 3D e la storia culturale dell’animazione. Alla fine del 2023 ha pubblicato la sua ultima fatica: Wizard of AI, un documentario realizzato utilizzando tool di intelligenza artificiale generativa. alanwarburton.co.uk

Alcuni studi scientifici sostengono che piangere aiuti ad alleviare lo stress, e che l’effetto del pianto possa durare fino a una settimana. Si basa su questa premessa il sito web Cry Once a Week, che fornisce una selezione di video strappa-lacrime per aiutare le persone a “sentire qualcosa”. Per tenere a bada lo stress con un bel pianterello, basta cliccare sul link al centro della pagina. cryonceaweek.com


LA BIBLIOTECA DI BABELE IN REALTÀ VIRTUALE Un programmatore di nome Mahu ha ricreato la struttura della Biblioteca di Babele descritta da Jorge Luis Borges all’interno della piattaforma di realtà virtuale VRChat. Su Twitter ha commentato: “l’ambiente contraddice le leggi della geometria euclidea, permettendo agli utenti di attraversare senza soluzione di continuità quello che io chiamo uno spazio frattale”.

WINDOW

IL MUSEO DEL WEB

vrchat.com

Internet Artifacts è un progetto che mira a preservare la storia del web, esponendo e catalogando siti, applicazioni, video e interfacce che vengono dal passato. L’idea è di Neal Agarwal, programmatore venticinquenne già noto per progetti come The Deep Sea e The Password Game. Un viaggio nella storia di internet che farà versare qualche lacrimuccia a chi ha più di quarant’anni. neal.fun/internet-artifacts

AVANGUARDIA LEGO

C’è una strana cabina telefonica rossa che galleggia nello spazio di internet. Cliccandoci sopra, si avvia una videochiamata criptata gratuita di 45 minuti. Funziona come una call di Zoom o Skype, ma a differenza di queste ultime è completamente privata. Si tratta di theinternetphonebooth.com, un sito web offerto da Birdcalls, un servizio di comunicazione incentrato sulla privacy. theinternetphonebooth.com

ARCHIVIANDO TWITTER

a cura di VALENTINA TANNI

L’intelligenza artificiale generativa è stata al centro di gran parte dei dibattiti nel 2023 e pare esserlo ancora. Programmi come DALL·E, Midjourney e Stable Diffusion sono diventati accessibili a tantissime persone, dando vita a una cascata inarrestabile di immagini. Tra queste, spicca una serie recente, lanciata su X e Facebook da vari utenti, che immagina dei set LEGO a tema artistico, con protagonisti grandi autori come John Cage, Karlheinz Stockhausen e movimenti d’avanguardia come Fluxus.

LA CABINA TELEFONICA DI INTERNET

@tarikoregan

IL GIOCO DELLA POST-VERITÀ Il videogioco What’s Your Truth (WYT) è un progetto degli artisti Sara Bezovšek e Dorijan Šiško. Il tema, delicato e complesso, è il ruolo di internet come luogo di proliferazione di infinite versioni della realtà, tra bolle algoritmiche, fake news e frammentazione sociale. All’interno di un ambiente virtuale, i giocatori intraprendono un percorso che li porta ad auto-profilarsi e a scegliere ognuno le proprie “verità”. sarabezovsek.com/whats-your-truth-tipping-point

Da quando Elon Musk ha acquisito la società, Twitter (o meglio X) se la passa sempre peggio. Sono moltissimi gli utenti che hanno abbandonato la piattaforma, migrando su altre applicazioni, e si moltiplicano le voci che invocano una sua imminente chiusura. Per questo, il magazine The Verge ha pensato di creare The Great Scrollback of Alexandria, un archivio tematico dei migliori tweet pubblicati tra settembre e ottobre 2023, “l’anno in cui Twitter è morto”. theverge.com

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ART MUSIC

Un tempio per la diva della lirica. Ad Atene ha aperto il Museo Maria Callas

MUSICA AUTOMATA: IL DISCO NATO DA UN’ORCHESTRA DI ROBOT

GIULIA GIAUME L Ha aperto ad Atene la casa eterna di

Maria Callas (New York, 1923 – Parigi, 1977). Inaugurato per il 100esimo anniversario dalla nascita dell’artista in Via Mitropoleos 44, il Museo Maria Callas si trova in un edificio neoclassico a tre piani nel centro della capitale ellenica. Al suo interno, una ricca collezione di memorabilia appartenuti alla grande soprano statunitense (naturalizzata italiana e poi greca) come lettere, fotografie, libri e costumi di scena, ma anche gli (odiati) occhiali da vista e il quadernetto che utilizzava per memorizzare i ruoli. E ancora regali – come un disegno dello stilista Manolo Blahnik ispirato a Callas – e ricordi dal gusto vagamente inquietante (ciocche incluse). Il tutto, corredato da una grande raccolta di clip audio-video rari e d’epoca.

L’Auditorium Parco della Musica di Roma verso una nuova fase?

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leonardobarbadoro.bandcamp.com

CLAUDIA

GIRAUD

Courtesy Alvisi Kirimoto + Partners e Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone

’è di mezzo la più grande orchestra di robot esistente – quella della Fondazione Logos a Ghent, in Belgio –, ma non stiamo parlando della ormai super inflazionata Intelligenza Artificiale, in questo incontro tra elettronica e fonti sonore acustiche. Nel suo nuovo album Musica Automata, il compositore e producer Leonardo Barbadoro ha il dominio di ogni sfumatura esecutiva, pur delegandola a un ensemble di oltre 80 automi che sono veri e propri strumenti analogici, controllati digitalmente dal computer. Quello che si ascolta, dunque, è esattamente il suono immaginato dall’autore che veste anche il ruolo di interprete del proprio lavoro. In questo, Musica Automata, pur sgorgando da una sorgente digitale, va in direzione contraria rispetto alle attuali ricerche in campo AI. “Oltre l’aspetto compositivo, anche quello performativo è stato senza dubbio uno dei motivi principali che mi ha spinto verso questo incontro tra controllo digitale e strumenti acustici”, ci spiega il musicista che, sotto lo pseudonimo di Koolmorf Widesen, ha attraversato la scena rave europea negli ultimi dieci anni, al fianco di artisti del calibro di Apparat, Bill Kouligas, Lorenzo Senni. “Proprio per questo spero di avere occasione di poter presentare l’album in alcuni concerti in futuro”. Intanto, il disco, uscito sotto la sua etichetta Helical, co-fondata con l’amico, artista, videografo e musicista della scena noise e grindcore Lorenzo Arioni (autore anche dell’artwork), ha già una sua dimensione performativa ed estetica nei videoclip dei due singoli Bomi e Hybr Spiro, dove l’ascoltatore può sentire e vedere da dove provengono i suoni durante la loro esecuzione, trovando una precisa correlazione tra il movimento dello strumento e il suono percepito. “Nei video realizzati da Tanja Busking ho cercato di catturare la performance nel modo più esaustivo possibile: qui, infatti, possiamo vedere gli strumenti che suonano nel Logos Tetrahedron (il teatro dove è stata composta e registrata la musica dell’album), così come anche alcune animazioni in sovrapposizione che rappresentano il flusso di dati digitali, ovvero la ‘partitura’ suonata dai robot, nonché l’output sonoro rappresentato con dei vettorscopi”. Il risultato? Un album senza confini di genere, tra classica contemporanea e avanguardia, con la particolarità di un suono prodotto da una vibrazione fisica in uno spazio reale, ma controllato da remoto.

VALENTINA SILVESTRINI L Elaborato dagli studi Renzo Piano Building Workshop e Alvisi Kirimoto + Partners, il master plan del (possibile) rinnovamento dell’Auditorium Parco della Musica a Roma “nasce dall’idea di espandere le aree pubbliche del complesso e di rivitalizzare il giardino pensile con nuove attività, amplificandone la natura di parco urbano connesso al sistema di parchi cittadini e in particolare a Villa Glori”, spiega l’architetto Massimo Alvisi. Presentato durante il festival Città in Scena, il progetto si qualifica come “un intervento di landscape importante, che completa il complesso connettendolo alle aree del villaggio Flaminio, dello stadio di Nervi e del MAXXI”. Con un investimento di circa un milione di euro, si punta anche a “riqualificare la serra esistente per farla diventare un piccolo spazio per co-working, biglietterie per gli eventi all’aperto e info point”, conclude Alvisi.

Anna Maria Maiolino e Nil Yalter Leoni d’Oro alla carriera della Biennale Arte 2024 GIULIA GIAUME L Vanno all’artista brasiliana Anna Ma-

ria Maiolino (italiana di nascita) e all’artista turca residente a Parigi Nil Yalter i Leoni d’Oro alla carriera della 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque / Foreigners Everywhere. Le due vincitrici, che saranno premiate il giorno dell’inaugurazione della prossima Biennale Arte sabato 20 aprile 2024 a Ca’ Giustinian, sono state scelte dal curatore dell’esposizione Adriano Pedrosa e approvate dal Cda della Biennale presieduto da Roberto Cicutto. Entrambe le artiste parteciperanno per la prima volta alla Biennale Arte nel 2024: Maiolino con una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie delle sue sculture e installazioni in argilla; Yalter con una riconfigurazione dell’installazione Exile is a hard job, insieme alla sua iconica Topak Ev, collocate nella prima sala del Padiglione Centrale.


MICKALENE THOMAS: BLACK SEXINESS

LIVIA MONTAGNOLI L Roma torna a investire sul suo patrimonio ar-

cheologico. E nell’ambito del più ampio progetto di riqualificazione dell’area archeologica centrale (CArMe), l’amministrazione capitolina svela le prime carte. Sul finire del 2023 è toccato al Foro di Traiano, dove riprende forma la Basilica Ulpia, progettata da Apollodoro di Damasco. L’intervento di anastilosi finanziato con 1 milione e mezzo di euro dal magnate uzbeko Alisher Usmanov (convinto a investire sul progetto dall’ex sindaco Ignazio Marino), ha rialzato le colonne superstiti del secondo ordine dell’imponente basilica, ricostruendo una porzione di trabeazione. Ammonta invece a 5 milioni il fondo per il recupero del Parco Archeologico del Celio, ora parco pubblico con esposizione di materiali lapidei, al cui interno è nato il Museo della Forma Urbis, allestimento permanente dei frammenti della Forma Urbis Romae, gigantesca pianta marmorea della Roma antica incisa tra il 203 e il 211 d.C. sotto l’imperatore Settimio Severo.

DESIRÉE MAIDA L È Wael Shawky (Alessandria d’Egitto, 1971) l’artista selezionato dall’Egitto per la 60. Mostra Internazionale d’arte di Venezia, in programma dal 20 aprile al 24 novembre 2024 e curata da Adriano Pedrosa. Shawky concentra la sua ricerca su temi che indagano il mondo contemporaneo, riletti attraverso le tradizioni culturali e religiose mediorientali e per mezzo di differenti media, tra cui disegno, scultura, video, performance. Tra le sue opere, la più nota è la trilogia di video Cabaret Crusades – The Horror Show File (2010), The Path to Cairo (2012) e The Secrets of Karbala (2015). Inoltre, il 17 aprile a Palazzo Grimani verrà inaugurata una mostra dell’artista dal titolo I Am Hymns of The New Temples, co-curata da Massimo Osanna (Direttore Generale dei Musei del Ministero della Cultura), Andrea Viliani (direttore del Museo delle Civiltà di Roma) e Gabriel Zuchtriegel (direttore del Parco Archeologico di Pompei), e presentata in anteprima internazionale lo scorso maggio al Parco Archeologico di Pompei nell’ambito del programma d’arte contemporanea Pompeii Commitment. Materie archeologiche.

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Mickalene Thomas, Jet+14

Biennale Arte 2024 a Venezia. Wael Shawky rappresenterà l’Egitto e avrà una mostra a Palazzo Grimani

Un progetto da 20 anni installa pietre d’artista sul selciato di Siena GIULIA GIAUME L Con Tempo Zulu un nutrito

7 gruppo di artisti, chef e intellettuali è stato invitato dal gruppo di artisti-curatori Francesco Carone, Gregorio Galli, Bernardo Giorgi e Christian Posani a imprimere il proprio segno nella pavimentazione della città, 9 dando vita a un percorso accessibile e lento, in continua espansione. Ecco tutte le pietre. 1 1. piazza Matteotti: La qualità è precisione nella vita, di Mario Avallone 2. piazzetta Grassi: Le pietre nella lingua 2 Piazza del Campo registrano gli intervalli del mondo, 10 8 di Iain Chambers e Lidia Curti 4 3. via dei Servi: Pax, di Alfredo Pirri 4. piazza del Duomo: Gorgo centrifugo 6 e centripeto, di Luca Pancrazzi 5 5. piazzetta Silvio Gigli: Arborescences, di Michele Dantini 6. via Stalloreggi: Intarsio (103), di Fabrizio Prevedello 7. Porta Camollia: Stones and tulips, di Erich Gongrich 8. vicolo della Fortuna: Tre23, di Filippo Frosini 9. piazza Antonio Gramsci: Dammi i colori, di Anri Sala 10. piazza San Giovanni: Piccolo Cantico (echoes), di Loris Cecchini

NEWS

OPERA SEXY

La “nuova” Roma archeologica: la rinascita della Basilica Ulpia e il Museo della Forma Urbis

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n Europa non è molto nota (può vantare solo una personale al Musée de l’Orangerie di Parigi nel 2022), ma negli Stati Uniti è una vera celebrità. Infatti, pur avendo dato inizio alla sua carriera espositiva solo nel 2009, con la prima mostra al Brooklyn Museum nel 2012, ha un curriculum davvero impressionante per mostre e premi. Mickalene Thomas, nata a Camden, New Jersey, nel 1971, oggi vive a New York City e si dà un sacco da fare. È diventata una paladina dell’arte afroamericana e del femminismo, concentrando la sua attività esattamente nella realizzazione di sensuali ritratti di donne nere, sotto la bandiera spiegata dell’orgoglio razziale e matriarcale. Figlia di Sandra Bush, nota modella, Mickalene è cresciuta in una famiglia allargata dove, racconta, “gli uomini di solito entravano e uscivano di galera e alcuni anche dalle droghe, mentre le ragazze sfornavano figli già in verde età. Era chiarissimo il fatto che a tenere insieme la famiglia fossero le donne. Mia mamma, le mie nonne, le mie zie sono state per me di grande esempio, insegnandomi la fierezza del mio corpo e del mio essere”. È così che, una volta scopertasi omosessuale, la sua attenzione si punta senza altre distrazioni sul corpo femminile nero. E lo fa mettendo assieme una combinazione piuttosto audace di elementi disparati, che rendono la sua arte diversa da tutto e immediatamente riconoscibile. Si tratta infatti di assemblaggi, più ancora che semplici collage, tra ritagli di giornali, pennellate di acrilici, stesure di smalti e applicazioni di strass scintillanti, per realizzare opere di dimensioni notevoli, di solito un metro e mezzo per due, con effetti di sovrapposizioni materiche. Una sua serie famosa è quella realizzata partendo da pagine di riviste e calendari erotici Anni ‘50 come Jet o il periodico francese Nus Exotique. Erano scatti anonimi in bianco e nero di donne bianche, che lei coniuga con sovrapposizioni a incastro di fotografie di donne nere, sue amiche o amanti, tutte orgogliosamente sguardo in macchina, ridenti occhi-negli-occhi. Anche il risultato formale, naturalmente, appare composito: partendo da caleidoscopiche scomposizioni cromatiche ispirate allo storico artista americano Romare Bearden e in parte anche a Matisse, scivola poi a citare direttamente più Léger e Manet che Warhol, in un pastiche visivo che sfiora insidiosamente il Kitsch ma che si giova di una indiscussa spettacolare vivacità, in una sorta di riscrittura black-is-beautiful della recente storia dell’arte “bianca” e dello stesso desiderio erotico. mickalenethomas.com

FERRUCCIO

GIROMINI

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Uno sguardo a Dicolab, progetto di formazione gratuita che unisce cultura e digitale

Realizzato dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali e promosso dal Ministero della Cultura nell’ambito del PNRR Cultura 4.0 agire sul cambiamento delle istituzioni, delle organizzazioni e dell’intero sistema. L’offerta formativa Dicolab. Cultura al digitale che la Fondazione sta sviluppando agisce in tal senso: corsi multimediali (MOOC), attività in presenza, webinar, podcast, video lezioni e laboratori pratici per nutrire l’ecosistema del patrimonio culturale con ulteriori strumenti e competenze. Percorsi formativi verticali da un lato sulle principali funzioni e, dall’altro, sulle figure professionali, per fornire learning path continui, sempre aggiornati ed efficaci. Chi può accedere ai corsi del sistema Dicolab. Cultura al digitale? FP: I corsi sono aperti, gratuiti e disponibili sulla nuova piattaforma e-learning della Fondazione (fad.fondazionescuolapatrimonio.it, ndr). Sono progettati a partire dalla mappatura delle competenze e delle esigenze formative espresse da operatori delle PP.AA., da musei, archivi, biblioteche, soprintendenze, università, scuole di specializzazione, imprese e professionisti della cultura e dei servizi. Con loro, da oltre un anno, abbiamo attivato un dialogo, fatto di campagne di rilevazione, questionari online, interviste e focus group, per garantire un catalogo sempre aggiornato e su misura lungo tutto l’arco del progetto.

Sono passati due mesi dal lancio di Dicolab. Cultura al digitale e sono già oltre 12.000 gli iscritti ai corsi dedicati alle competenze digitali per il settore culturale. Grande interesse per il sistema formativo realizzato dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, promosso dal Ministero della Cultura - Digital Library nell’ambito del PNRR Cultura 4.0 e finanziato dall’Unione europea – Next Generation EU. “È un progetto di ampio respiro e lunga visione che contribuirà a dar vita ad un originale ecosistema culturale, teso ad affrontare le sfide e a cogliere le opportunità del processo di trasformazione digitale del patrimonio culturale” ha dichiarato Vincenzo Trione, Presidente della Fondazione Scuola dei beni e attività culturali. Ne abbiamo parlato con Alessandra Vittorini, Direttore della Fondazione, e con Fabrizio Pedroni, Dirigente dell’Area Digital Education and Training della Fondazione. Come nasce Dicolab. Cultura al digitale? AV: Dicolab. Cultura al digitale nasce dall’esigenza di contribuire all'ampliamento delle competenze dei professionisti e degli operatori delle organizzazioni, protagonisti delle sfide

legate alla trasformazione digitale in atto nel patrimonio culturale. La Scuola dei beni e delle attività culturali, grazie all’esperienza maturata nella formazione e nella ricerca in ambito culturale, è il promotore ideale dello sviluppo di un nuovo ecosistema digitale culturale e, per questo, è stata individuata dal MiC come soggetto attuatore del progetto. Il sistema formativo si colloca all’interno del Piano Nazionale per la Digitalizzazione del patrimonio culturale, che affida alla formazione il compito di integrare e aggiornare competenze indispensabili per curare, gestire e valorizzare il patrimonio culturale anche nella sua nuova dimensione digitale. I percorsi formativi offerti da Dicolab rappresentano una grande opportunità per mettere in atto la transizione digitale nel settore culturale. Quali sono le sfide maggiori in questo senso? AV: Affrontare l’innovazione e la trasformazione che coinvolgono il sistema del patrimonio culturale significa lavorare prima di tutto sulle persone: la sfida strategica della trasformazione digitale non può avanzare senza un investimento sulle competenze degli operatori, per

Come vengono certificate le competenze acquisite dai partecipanti? FP: Per misurare l’efficacia della proposta formativa e tenere traccia sia a livello quantitativo che qualitativo dei corsi completati e dei risultati dei partecipanti, la Fondazione si è dotata dello strumento dell’Open Badge: uno standard di certificazione utilizzato a livello europeo, che attesta i contenuti della formazione, gli strumenti utilizzati e le competenze acquisite. Quando un partecipante completa la fruizione dei contenuti e supera le prove previste dal corso riceve l’Open Badge, spendibile in tutte le sedi europee e nazionali più qualificate. Quali sono gli obiettivi a breve e lungo termine del progetto? FP: L’obiettivo attuale e prospettico del progetto è accompagnare persone e organizzazioni che si occupano di cura, tutela e gestione del patrimonio culturale nel continuo processo di evoluzione digitale nel settore. Per centrarlo, è fondamentale fornire loro le competenze necessarie, ascoltarne i bisogni e creare luoghi, fisici e virtuali, di scambio di buone pratiche. Crediamo che l’eredità che il progetto Dicolab debba lasciare siano comunità attive e consapevoli di persone, istituzioni e organizzazioni culturali in grado di gestire il patrimonio, sia nel presente che nel futuro, espandendone i confini fisici e generando nuove opportunità per la diffusione della cultura in Italia e nel mondo.


I corsi di Dicolab. Cultura al digitale mappatura dei bisogni delle persone all’empatizzazione con le loro aspettative e timori, fino al raggiungimento di prototipi di nuovi servizi basati sulle precedenti analisi.

Dei corsi già disponibili sulla piattaforma e-learning della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, approfondiamo alcuni tra i più interessanti per lo sviluppo di competenze digitali per il settore culturale. ‣ Musei e Digitale Creare un sito web: strumenti e strategie Ciclo di webinar on-demand È ben nota l’importanza del sito web per un museo e, fino a pochi anni fa, un’ampia fetta dei musei italiani non ne disponeva. Oggi, grazie anche alle necessarie chiusure pandemiche, il loro rapporto con il digitale si è certamente evoluto. Studiare il funzionamento e le strategie per utilizzare al meglio i siti web dei musei significa contribuire a rendere l’istituzione sempre più efficiente ed accessibile. Dicolab offre una serie di webinar a riguardo, disponibili on demand, tenuti da Sara Dominique Orlandi, Silvia Bendinelli, Luca Melchionna, Elisabetta Modena, Sara Radice, Michela Cascasi, esperti del settore con background differenti (dal project management alla comunicazione digitale, dalla storia dell’arte all’architettura). Inoltre, i partecipanti potranno acquisire preziose competenze nell’ambito del copywriting e dello storytelling digitale, ma anche una maggiore conoscenza del sistema museale nazionale, delle strategie più rilevanti per l’accessibilità online e della terminologia tecnica utile alla contrattazione con professionisti e/o agenzie per la costruzione di un sito web.

‣ Comunicare nel mondo digitale Corso multimediale Come funziona la comunicazione interna ed esterna di un’organizzazione culturale? Nel corso multimediale Comunicare nel mondo digitale, Prisca Cupellini (Responsabile Ufficio Comunicazione e Digital Fondazione MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo) e Adriana Pagliara (esperta in strategie di marketing per aziende, cofondatrice del gruppo di consulenza in strategie di comunicazione e marketing HumanMarketers) approfondiscono strategie di comunicazione, marketing, storytelling digitale e gestione di comunità online, con un occhio di riguardo agli importanti temi dell’empatia e dell’inclusività. ‣ Lo Human Centered Design per le organizzazioni culturali - Corso multimediale Come suggerisce il nome stesso, per “Human Centered Design” si intendono tutte quelle pratiche di progettazione che mettono al centro l’essere umano e le sue esigenze. Il corso multimediale di Dicolab, tenuto dall’architetto dell’informazione ed experience designer Maria Cristina Lavazza, mira a formare professionisti in grado di creare valore aggiunto a partire da un’esperienza appositamente studiata per accogliere e assecondare i bisogni del fruitore. Al termine del corso, i partecipanti avranno appreso le diverse fasi della progettazione attraverso lo Human Centered Design, dalla

‣ Diritto e digitalizzazione del patrimonio culturale - Corso multimediale Un settore ancora fin troppo poco conosciuto quello della legislazione dei beni culturali, ancor di più se accostato ai suoi interessanti risvolti digitali: in questo corso multimediale, attraverso lezioni teoriche e casi studio (italiani e internazionali), gli avvocati Maurizio Campagna e Isabella De Porcellinis approfondiscono i modelli innovativi sulla gestione della proprietà intellettuale. Una tematica estremamente attuale, se pensiamo alle rivoluzioni in questo senso legate alla diffusione della blockchain, degli NFT, ma soprattutto delle intelligenze artificiali generative, con il caldo dibattito sul diritto d’autore relativo ai documenti e alle immagini di cui si servono.

Questi sono solo alcuni dei tanti corsi, laboratori, seminari e incontri di alto livello formativo offerti da Dicolab. Tra gli ambiti di studio troviamo project management, comunicazione digitale, produzione di contenuti, archivi digitali, fundraising e molto altro. Potete consultare il catalogo completo dei corsi attualmente disponibili on demand scannerizzando il QR code qui sotto.

Impronte. Un podcast di cultura al digitale Non solo corsi, webinar e seminari: Dicolab esplora la cultura digitale anche attraverso uno dei mezzi di divulgazione e intrattenimento più in voga degli ultimi anni: il podcast. Impronte nasce con l’obiettivo di raccontare le modalità di intersezione fra cultura e nuove tecnologie, che producono nuovi orizzonti creativi ed estetici. In ciascuno degli otto episodi del podcast, disponibile sulle principali piattaforme, diversi esperti (Donata Columbro, Simone Arcagni, Valentina Tanni, Carola Frediani, Iolanda Pensa, Luca De Biase e Fabio Viola) sono chiamati a esplorare argomenti come l’Intelligenza Artificiale, il futuro degli smartphone, gli sviluppi della digital art, la realtà virtuale e aumentata. Potete ascoltare tutti gli episodi gratuitamente seguendo il QR code qui a fianco.


QUEERSPECTIVES

Il festival di musica sperimentale Terraforma cambia format e sede

SASHA GORDON: PITTURA, IDENTITÀ E AUTO-ACCETTAZIONE

CLAUDIA GIRAUD L Nell’anno del decennale dalla nascita, Terraforma – festival di sperimentazione artistica e sonora, con un focus sulla sostenibilità ambientale – annuncia una svolta: non esisterà più nella forma attuale e non sarà più a Villa Arconati di Bollate, alle porte di Milano. Lo storico edificio e il suo parco sono stati in questi anni teatro di un importante progetto di rigenerazione urbana, sviluppato insieme alla Fondazione Augusto Rancilio. Presto vi terremo aggiornati sul cambio sede, il programma e la nuova anima del festival.

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E L I S A B E T TA

R O N C AT I

NECROLOGY

Sasha Gordon, Concert Mistress, 2021, olio su tela, Institute of Contemporary Art Miami

ell’universo creativo della pittrice Sasha Gordon (1998, Somers) la tela diventa uno specchio delle sfide e delle conquiste che permeano la sua vita. I colori le permettono di intraprendere un viaggio che intreccia identità, lotta contro i pregiudizi e arte visiva e la fanno emergere come una voce audace e innovativa nel panorama dell’arte contemporanea. Lo testimonia la mostra, inaugurata a dicembre 2023 all’ICA Miami, non a caso intitolata Sasha Gordon: Surrogate Self, a cura di Alex Gartenfeld e dei collezionisti e mecenati Irma e Norman Braman. Alle opere già in collezione permanente vengono affiancati, fino al 10 marzo 2024, dei lavori più recenti. Sasha Gordon, figlia di un americano di origini ebree-polacche e di una coreana trasferitasi negli Stati Uniti, ha sperimentato sin dall’infanzia la complessità delle sue radici culturali. Cresciuta nella città di Somers, non distante da New York, assieme al fratello Alex, Sasha è stata vittima di episodi di razzismo fin dai primi anni di scuola. Queste esperienze hanno plasmato la sua visione del mondo, generando una sensazione di “non normalità” dei suoi tratti somatici e delle sue origini che le ha causato attacchi d’ansia e disturbi ossessivo-compulsivi. Tuttavia, la passione per l’arte l’ha da subito aiutata a far fronte anche ai momenti più difficili, nonostante rifiutasse di ritrarre se stessa o soggetti non caucasici. Nel 2016 Sasha ha varcato le porte della Rhode Island School of Design, iscrivendosi al corso di pittura e orientandosi verso la ritrattistica iperrealista, senza più bisogno di celare le sue origini e l’appartenenza alla comunità LGBTQIA+. È proprio durante questo periodo di studio (si è diplomata nel 2021) che l’artista dà vita all’opera intitolata The Bath, considerata un punto di svolta nella sua produzione. Nel dipinto Sasha Gordon ritrae delle donne asiatiche nude, compresa se stessa, in uno stabilimento balneare. Dopo The Bath il tema del ritratto e dell’autoritratto verrà spesso indagato dall’artista con inventiva e un particolare umorismo che riescono a rendere per certi versi reali anche gli elementi più bizzarri. Così, nei suoi lavori più recenti, Sasha Gordon spesso si rappresenta in una condizione metamorfica, trasformandosi, di volta in volta, in un animale o in un elemento vegetale. Decine di avatar che dimostrano allo spettatore come possano esistere centinaia di conformazioni corporee differenti che sfidano tabù e standard di rappresentazione. Le sue opere hanno ben presto attirato l’attenzione del gallerista Matthew Brown, che ha iniziato ad esporle, ricevendo un’ottima ricezione. Alcuni lavori sono stati inclusi nelle collezioni permanenti dell’Hammer Museum di Los Angeles, del Museum of Fine Arts di Houston, dell’ICA Miami e del Los Angeles County Museum of Art. Luce, cromie intense, figure dagli sguardi penetranti sono i tratti distintivi della pittura di Sasha Gordon, eseguita sempre con colori ad olio che le consentono di ottenere una particolare lucidità e che, in parte, si devono a un viaggio a Roma fatto durante gli studi. Dal punto di vista dei temi, oltre all’esplorazione del sé, i ricordi d’infanzia si mescolano a tematiche del suo vissuto più recente come in Like Froth, in cui racconta della fine di una relazione amorosa. Dipingere per l’artista diventa un mezzo per affrontare sentimenti che non ha mai provato prima: scava nelle profondità dell’animo rendendo visibile il suo sentire non tanto per il pubblico quanto per se stessa. Le opere d’arte sono il mezzo migliore per rivendicare uno spazio in quanto donna appartenente ad una comunità multirazziale e non eterosessuale. Così la pittura non è solo un atto di ribellione contro le limitazioni imposte dalla società, ma anche un invito a esplorare le complesse stratificazioni dell’identità umana attraverso il filtro vivace e innovativo dell’arte.

CARL ANDRE (16 settembre 1935 – 24 gennaio 2024) L ENZO MOSCATO (20 aprile 1948 – 13 gennaio 2024) L MAURO EVANGELISTA (1963 – 13 gennaio 2024) L ELIO CARMI (1952 – 8 gennaio 2024) L AURELIO REPETTO (10 novembre 1933 – 1 gennaio 2024) L EUGENIO RICCOMINI (5 maggio 1936 – 25 dicembre 2023) L GIOVANNI ANSELMO (5 agosto 1934 – 18 dicembre 2023) L TONI NEGRI (1 agosto 1933 – 16 dicembre 2023) L LORENZO RIVA (3 ottobre 1938 – 16 dicembre 2023) L CARLO GUARIENTI (1923 – 5 dicembre 2023) L LÉONARD GIANADDA (23 agosto 1935 – 3 dicembre 2023) L ELLIOTT ERWITT (26 luglio 1928 – 29 novembre 2023) L LUCA SABATELLI (3 giugno 1936 – 24 novembre 2023) L ENZO ROSSI RÒISS (14 settembre 1937 – 20 novembre 2023) L DAVIDE PALUDETTO (1970 – 11 novembre 2023) L DAVIDE RENNE (7 luglio 1977 – 10 novembre 2023) L JOE TILSON (24 agosto 1928 – 9 novembre 2023) L CARLO AMBROSINI (15 aprile 1954 – 1 novembre 2023) L MATTHEW PERRY (19 agosto 1969 – 28 ottobre 2023) L ROBERT IRWIN (12 settembre 1928 – 25 ottobre 2023)


LE 10 OPERE PIÙ COSTOSE AGGIUDICATE IN ASTA NEL 2023

1 Pablo Picasso, Femme à la montre, 1932 $139,363,500 Sotheby’s, New York

2 Gustav Klimt, Dame mit Fächer, 1917 £85,305,800 ($106,756,354) Sotheby’s, Londra

3 Claude Monet, Le bassin aux nymphéas, 1919 $74,010,000 Christie’s, New York

4 Jean-Michel Basquiat,

5 Gustav Klimt, Insel im Attersee, ca. 1901 $53,188,500 Sotheby’s, New York

6 Francis Bacon, Figure in Movement, 1976 $52,160,000 Christie’s, New York

7 Richard Diebenkorn,

Recollections of a Visit to Leningrad, 1965 $46,410,000 Christie’s, New York

8 Mark Rothko,

Untitled (Yellow, Orange, Yellow, Light Orange), 1955 $46,410,000 Christie’s, New York

9 Wassily Kandinsky, Murnau mit Kirche II, 1910 £37,196,800 ($44,758,691) Sotheby’s, Londra

10 Henri Rousseau, Les Flamants, 1910 $43,535,000 Christie’s, New York

Fonte dati: Artnet Price Database Tutti i prezzi indicati includono il Buyer’s Premium. Pablo Picasso, Femme à la montre, 1932. Courtesy of Sotheby’s

I cambiamenti di rotta evidenti nel mercato dell’arte nel 2023 sembrano indicare anche gli orientamenti per il nuovo anno. E gli aggiustamenti, le correzioni che hanno caratterizzato gli scorsi dodici mesi possono essere la nuova normalità che ci attende in quelli a venire. Non ci azzardiamo – e nemmeno ci compete – a tratteggiare previsioni su volumi di affari o fatturati nel 2024, ma di certo possiamo prendere atto e osservare le nuove configurazioni strutturali del mercato, che sono andate e andranno a calmierare le accelerazioni speculative di un passato recentissimo, i picchi di aggiudicazioni e i record che difficilmente si ripeteranno con la stessa frequenza nel breve termine. Quante cose possono cambiare in un anno? Parecchie, se solo a novembre 2022 la collezione Allen da Christie’s portava il fatturato di New York a 3,2 miliardi di dollari, mentre per la sessione analoga del 2023 le attese oscillavano tra 1,5 e 2,6 miliardi di dollari, con una flessione del 25-30% e non pochi segnali di inquietudine, a rivelare un rallentamento degli andamenti difficilmente ignorabile e legato a volatilità economica e instabilità geo-politica. Anche se i capolavori-trofeo non sono mancati, così come sono restati solidi i patrimoni dei collezionisti ultramilionari tracciati dall’ultimo report di Art Basel e UBS e una certa permanente attitudine agli investimenti in arte. Per quanto indebolita da una maggiore prudenza e con preferenze, in termini di fasce di prezzo, per valori economici che hanno puntato verso il basso, la scommessa della domanda d’arte si è fatta più selettiva e guardinga, meno propensa a tuffarsi in spese folli e iper-speculative, ma è restata solida in presenza di opere di qualità e provenienza prestigiosa. I risultati delle aste dell’anno appena trascorso sono chiaramente quantificabili e visibili, con fatturati in calo e percentuali di contrazione a due cifre. Questo dato però ha anche altri livelli di complessità, perché ad aver subito il contraccolpo maggiore sono stati soprattutto i lotti oltre i $10 milioni, mentre le opere con prezzi inferiori ai $50,000 sono IL GIRO D’AFFARI DELLE MAGGIORI state caratterizzate da CASE D’ASTA NEL 2023 un’intatta fiducia, con un Christie’s, Sotheby’s e Phillips incremento del 18% per per le aste di Old Master, Impressionist, Modern, numero di vendite. Valori Post-War e Contemporary Art aggregati inferiori al passato, dunque, ma volume di affari sostenuto, soprattutto per spese più contenute rispetto all’anno da record del 2022, in conseguenza an2022 2021 2019 che di tensioni geo-politiFonte: ArtTactic che e ostacoli economico-finanziari, tra tasso di inflazione e di interesse sul denaro che hanno rallentato le transazioni in arte, lasciando salvo, e anzi in incremento, l’investimento nel mondo lusso. Con una certa dose di rischio all’orizzonte, la predisposizione all’acquisto dei collezionisti internazionali non appare intaccata. Più probabilmente si è raggiunto un certo punto di equilibrio tra offerta e domanda di beni d’arte e collezionabili, mentre va configurandosi quello che in economia si definisce un “soft landing”: un atterraggio morbido che pare essere l’esito inatteso rispetto alla crisi nera che si prefigurava, senza dimenticare la capacità di adattamento e la resilienza dell’offerta artistica. Ciò che andrà ricalibrato nel 2024 sarà dunque piuttosto l’aspettativa di venditori e compratori, sulla base dei differenti scenari che vanno prendendo forma nel mondo.

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a cura di CRISTINA MASTURZO

El Gran Espectaculo (The Nile), 1983 $67,110,000 Christie’s, New York

L’atterraggio morbido del mercato dell’arte

MERCATO

TOP 10 LOTS

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APPUNTI PER UNA STORIA DI ARTE FIERA A BOLOGNA

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al 5 al 16 giugno 1974, tra i padiglioni della Fiera Campionaria, si tiene la prima “Mostra - Mercato” d’arte contemporanea. Ne è responsabile Maurizio Mazzotti, illuminato dirigente di BolognaFiere. Una scommessa giocata sulla disponibilità di una decina di gallerie - tutte italiane, la maggior parte di Bolognache si autotassano per fondare la manifestazione. È la prima fiera del settore in Italia, preceduta solo dalla Kunstmesse di Basilea e da qualche iniziativa analoga come i Kunstmarkt di Colonia e Düsseldorf, o il Marché de Paris. L’anno seguente apre le porte la prima vera e propria edizione di Arte Fiera, con una sorprendente moltiplicazione delle gallerie partecipanti, che arrivano a essere 202. Compare anche una sezione fotografica: la prima idea di manifestazione collaterale. In controtendenza rispetto al pensiero critico del momento, Arte Fiera punta sul grande pubblico e su un collezionismo interessato all’arte contemporanea; e, molto prima che si giungesse a un’inar-

restabile proliferazione delle mostre, si propone come un’occasione di aggiornamento sullo stato dell’arte. L’edizione del ’77, con 240 espositori, fa di Bologna un centro di mercato e informazione artistica tra i più stimolanti in Italia, pur in un nuovo clima di contestazione che scuote la città. In quei mesi Arte Fiera si pone in una posizione di avanguardia attraverso la prima “Settimana internazionale della Performance”, curata da Renato Barilli con la collaborazione di Francesca Alinovi e Roberto Daolio negli spazi della Galleria Comunale d’Arte Moderna adiacenti al quartiere fieristico. Anche la quasi contestuale apertura della Galleria civica e l’attività di alcune intraprendenti gallerie private rendono Bologna un centro vitale. Negli anni successivi Tommaso Trini organizza per la fiera, negli spazi della Galleria comunale, la mostra esemplare sul tema della committenza pubblica Sistina Società per Arte, mentre un convegno su “Autonomia critica dell’artista”, curato da Con-

cetto Pozzati, alimenta il dibattito sul potere della critica. In quel contesto, un critico sui generis come Achille Bonito Oliva si auto elegge “artista dell’anno”. Nel 1980 la fiera d’arte si interrompe per tre anni: il tempo di ripensarne fisionomia e destino, in attesa di superare la crisi del mercato. Si riprende nel 1983. La nuova stagione punta su “cinque categorie chiave”: galleristi, artisti, collezionisti, critici e direttori di museo. Si apre ai giovani, prima con sezioni dedicate all’Accademia di Belle Arti e poi, nell’edizione del 1988, con una rassegna di 100 giovani artisti under 35. Dal1985 viene organizzata una sezione che ogni anno accoglie alcune gallerie di un paese europeo per offrirne uno spaccato artistico aggiornato: Germania, Svizzera, Belgio, Francia, Olanda, URSS, Polonia. Arte Fiera si evolve sempre più da mostra-mercato a produttrice di manifestazioni collaterali non mercantili, dibattiti e convegni: un osservatorio per collezionisti e grande pubblico sul sistema dell’arte, su protagonisti consacrati e su emergenti, ma anche su figure del primo Novecento oggetto di

ARTE FIERA 2024: LE COLLABORAZIONI Migliore azienda per il 2023 secondo Artribune per il suo impegno nella cultura (Una banca da seguire che potrebbe diventare la seconda banca italiana impegnata sul fronte dell’arte), BPER Banca, forte del suo rapporto col territorio, è Main partner di Arte Fiera per l’edizione 2024. Tra le altre sinergie c’è quella con Stefauto, dal 1952 nel marchio Stefanelli, che mette a disposizione Courtesy car EQ, auto elettriche di Mercedes Benz, per una guida ecologica e allo stesso tempo confortevole ed elegante. Nella regione “stellata” per i motori, la fiera di Bologna si distingue anche per la collaborazione con Ducati, il brand d’eccellenza per le moto, che sostiene il progetto Percorso, un itinerario che collega una selezione delle gallerie nella Main Section attraverso il tema comune del disegno, linguaggio trasversale e universale, che unisce artisti di generazioni e stili differenti.


È LA PRIMA FIERA DEL SETTORE IN ITALIA, PRECEDUTA SOLO DALLA KUNSTMESSE DI BASILEA E DA QUALCHE INIZIATIVA ANALOGA COME I KUNSTMARKT DI COLONIA E DÜSSELDORF, O IL MARCHÉ DE PARIS. Nel biennio 2017-2018 la direzione artistica è affidata ad Angela Vettese, che esordisce con “Tra mostra e fiera: entre chien et loup”, un convegno internazionale sull’ibridazione tra esposizioni e fiere. Un approfondimento teorico sull’identità di Arte Fiera come evento capace di tenere insieme mercato e informazione culturale. Nel 2019 subentra a Vettese come Direttore artistico Simone Menegoi. Fra le sue iniziative, la creazione di Pittura XXI, una sezione che intercetta il rinnovato interesse per la pittura; Opus Novum, una serie di commissioni di opere inedite ad artisti italiani affermati; un significativo programma di performance, affidato prima a Silvia Fanti Xing (2019-2022) poi a Bruna Roccasalva - Fondazione Furla (dal 2023).

50 ANNI DI ARTE FIERA SECONDO IL DIRETTORE SIMONE MENEGOI Arte Fiera compie 50 anni. Ecco come è cambiata la mamma di tutte le fiere italiane da quel 1974 fino ad oggi. E come sarà nel 2024 Quello dei cinquant’anni, per una fiera d’arte, è un traguardo solenne. Come festeggiarlo? Abbiamo scelto di concentrarci sulle origini: sull’edizione pilota del 1974 e su quelle immediatamente successive, che in pochi anni resero Arte Fiera un punto di riferimento imprescindibile in Italia, in Europa e oltre. Due mostre di studio gettano uno sguardo su quel periodo. La prima è dedicata al catalogo dell’edizione del 1974, le cui pagine, riprodotte e ingrandite, permetteranno agli spettatori di scoprire le dieci gallerie - tutte italiane, la maggior parte di Bologna, due attive ancora oggi - che presero parte a quell’avventuroso esperimento, mentre una cronologia ragionata, a cura di Clarissa Ricci, permetterà di seguire l’evoluzione della fiera dal ’74 alla fine del decennio. La seconda mostra si concentra invece su un tema fondamentale ma poco esplorato: la performance ad Arte Fiera. Esaminando il ricco programma di azioni dal vivo dell’edizione del 1976, Uliana Zanetti, Curatrice delle collezioni al MAMbo, dimostra che, ancora prima della celeberrima Settimana internazionale della Performance del 1977, la performance era di casa ad Arte Fiera. Non ha mai cessato di esserlo: lo dimostrano le tante azioni dal vivo presentate in fiera degli ultimi anni, curate prima da Silvia Fanti / Xing, ora da Bruna Roccasalva, Direttrice artistica della Fondazione Furla, che presenterà una nuova produzione dell’artista peruviana Daniela Ortiz: Tiro al Blanco. Continuiamo a parlare degli anni Settanta, ma allargando lo sguardo dalla fiera alla città di Bologna. "Opus Novum", la commissione di un’opera inedita a un artista italiano affermato, per il 2024 è stata affidata all’artista-fotografa Luisa Lambri, celebre per le sue immagini di architetture moderniste rarefatte e prossime all’astrazione. Lambri ha scelto di collegare con il suo lavoro due edifici simbolo dell’architettura bolognese degli anni Settanta: la chiesa di Santa Maria Assunta a Riola di Vergato (BO), l’unica opera permanente di Alvar Aalto in Italia, terminata nel 1978, e il Padiglione de L’Esprit Nouveau, copia filologicamente accurata di un’architettura effimera di Le Corbusier degli anni ’20, costruita nel 1977 all’ingresso del quartiere fieristico. Dal primo edificio, la chiesa di Aalto, Lambri ha tratto alcune nuove immagini; dal secondo, il Padiglione de L’Esprit Nouveau, le suggestioni per selezionare altri scatti, di periodi diversi della sua carriera e ugualmente inediti, che insieme alle foto della chiesa di Aalto andranno a comporre una mostra nel Padiglione intitolata appunto L’Esprit Nouveau. Cito per ultima un’opera che ci riporta alla commissione Opus Novum dell’anno passato, affidata ad Alberto Garutti. Nei giorni della fiera sveleremo la seconda parte della commissione: una lapide della serie Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora, collocata in modo permanente all’ingresso principale del quartiere fieristico. È l’omaggio di Arte Fiera a uno degli artisti italiani più importanti degli ultimi cinquant’anni - e un modo per consolarci di non poter festeggiare insieme a lui, mancato pochi mesi fa, i primi 50 anni di Arte Fiera. SIMONE MENEGOI

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revisione critica. Nel 2004 Silvia Evangelisti, già consulente della fiera, ne diventa la prima direttrice artistica; resterà in carica fino al 2012. Fra le sue numerose iniziative, Bologna Art First (dal 2006), una collaborazione col Comune che vede alcuni luoghi storici cittadini ospitare installazioni e opere di artisti proposti da gallerie presenti in fiera. In seguito, la manifestazione prenderà il nome di Art City, e sarà coordinata dal direttore del MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna, nuovo nome della Galleria d’Arte Moderna. A partire dal 2013, con l’arrivo di Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti come Direttori artistici, la manifestazione rafforza la propria identità storica di fiera italiana. Un esempio in quell’anno è la mostra Storie Italiane curata da Laura Cherubini e Lea Mattarella, il cui percorso tematico è l’ultimo secolo d’arte nel nostro Paese. Seguono, nel 2014 e 2015, le esposizioni a cura di Marco Scotini Il piedistallo vuoto e Too early too late, dedicate rispettivamente all’arte dei paesi dell’Est europeo e del Medio Oriente nelle collezioni private italiane. Nel 2016 Arte Fiera festeggia le sue prime 40 edizioni; fra gli eventi speciali, una proiezione di River of Fundament (2014) di Matthew Barney al Teatro Comunale.

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1974 Nasce Arte Fiera, la prima fiera di arte contemporanea in Italia

1975 Arte fiera accoglie più di 200 gallerie contro le 10 dell’edizione zero

1977 Settimana internazionale della Performance a cura di Renato Barilli, con Francesca Alinovi e Roberto Daolio

1980 Mostra collaterale “Sistina società per l’arte” a cura di Tommaso Trini

1983 Arte Fiera riapre dopo due anni di pausa e una intensa operazione di rebranding

1985 Si inaugura una serie di focus tematici su vari Paesi stranieri

ARTE FIERA: 50 ANNI DI RICORDI a cura di SANTA NASTRO

GRAZIA TODERI artista Il mio primo ricordo di Arte Fiera risale al 1977, ero al primo anno del Liceo Artistico di Bologna, città profondamente colta, alternativa, internazionale. E felice, dove ci si ritrovava ogni giorno senza appuntamento per parlare di politica, arte, musica, cultura in Piazza Maggiore. In mattinata capannelli di uomini discutevano animatamente di politica, poi arrivavano i più giovani. E persone da tutto il mondo. Così quello era il luogo dell’informazione, con Piazza Verdi in zona Universitaria e la Feltrinelli sotto le Due Torri. Fu in quel momento di utopico ottimismo che crebbero nuove torri, progettate dall’architetto giapponese Kenzo Tange. Moderne, alternative alle antiche Due Torri, salivano lentamente alla fine di via Stalingrado. Dopo di loro campagna e tangenziale. Sotto quelle Torri nascevano Arte Fiera, la Galleria d’Arte Moderna, il Teatro Europa, il Padiglione dell’Esprit Nouveau disegnato da Le Corbusier. Bologna affrontava con coraggio un progetto difficile, nuovo e alternativo, di cultura e di economia.

FLAVIO FAVELLI artista Sarà stato la fine degli anni Novanta, faceva il solito freddo cane e tutti i galleristi andavano al Diana, dove si è sempre mangiato male, certo mai come Da Bertino e Da Vito, ma il cameriere, ieratico tricheco al carrello dei bolliti,

seduceva tutti. Avevo conosciuto Amnon Barzel e mi aveva comprato una foto ad Arte Fiera per il museo di Tel Aviv. Lo andai a prendere in auto quella sera, lui alloggiava al Palace Hotel, un’ammiraglia con ancora qualche colpo in canna, oggi spelacchiato con un inesorabile 6,7 su Booking. L’appuntamento era alle 20 e accostai con l’auto a fianco dell’entrata, in via Montegrappa, la zona del jet set bolognese, fra il cinema Fulgor, il ristorante Da Nello e la gelateria Da Gianni, coppetta in stile Giorgio Beverly Hills. Entrai e chiesi alla reception del signor Amnon Barzel. “Non c’è nessun con questo nome, signore”, mi disse gentilmente il portiere. Rimasi meravigliato. Non sapevo che fare e attesi sotto al portico. Dopo pochi minuti, Amnon uscì dall’albergo.

SILVIA EVANGELISTI curatrice Quando nel 1974 è nata ArteFiera io frequentavo l’Università e naturalmente ero curiosissima di vedere una fiera d’arte, per me una assoluta novità (allora esisteva solo Basilea, ma lo sapevano i collezionisti italiani più appassionati). Ho cominciato subito a lavorare all’interno come standista per una galleria di Torino, che si chiamava Documenta, e così ho conosciuto i più importanti galleristi italiani del tempo, ed anche molti stranieri; allora ero una giovane studentessa carina e vivace e spesso mi invitavano a fare colazione insieme a loro o a cena. Tra tutti alcuni sono rimasti nella mia memoria come

esperienze straordinaria, come ad esempio il grande Giorgio Marconi, da cui ho imparato molte cose, o il mitico Leo Castelli, americano di Trieste, e sua moglie Ileana. Indimenticabili. Poi nel 1988 Maurizio Mazzotti, manager di Arte Fiera e casualmente padre di una mia studentessa dell’Accademia di Belle Arti, Giorgia, mi chiamò come “esperta” per aiutarlo nella selezione delle gallerie da invitare. Qui comincia la mia trentennale collaborazione con Arte Fiera, di cui nel 2003 il Presidente di allora Luca Cordero di Montezemolo mi offrì il ruolo di direttore artistico, che ho svolto fino all’edizione del gennaio 2012. Metà della mia vita professionale è legata ad Arte Fiera che oggi compie mezzo secolo. Auguri di cuore, Arte Fiera!

GIORGIO FASOL collezionista Ho partecipato ad Arte Fiera fin dalle prime edizioni trovandola già allora stimolante: Bologna confermava il suo fermento culturale anche nella fiera. Le gallerie straniere hanno cominciato a partecipare fin dalle prime edizioni e di anno in anno è cresciuta di interesse tanto da attrarre anche i grandi collezionisti internazionali. Il merito di questa affermazione iniziale si deve sicuramente agli anni di direzione di Maurizio Mazzotti. Nel 1989 fui invitato a partecipare alla mostra “Il futuro presente” curata da Germana Galli con altri 10 collezionisti: ognuno


1988 Grande mostra dedicata a 100 giovani artisti under 35

1992 Omaggio a Joseph Beuys

esponeva cinque opere di artisti della propria collezione; fu un piacere per me aver conosciuto in quell’occasione Angelo Baldassarre, Carlo Clerici, Giorgio Franchetti, Giuliano Gori che già allora erano considerati i più importanti collezionisti non solo d’Italia. Il successo di Arte Fiera si è poi consolidato negli anni, in particolare quando direttrice era Silvia Evangelisti e presidente Luca Cordero di Montezemolo o in tempi recenti con il binomio Simone Menegoi ed Enea Righi. In ogni caso Arte Fiere è sempre stata per me un appuntamento irrinunciabile nel calendario delle fiere internazionali.

MASSIMO ORSINI Presidente Mutina Per me Arte Fiera significa letteralmente il primo incontro con l’arte contemporanea. Ricordo con un po’ di nostalgia i giorni in cui andavo negli anni ’80 andavo a Bologna a visitare la fiera, per curiosare tra i nomi delle gallerie internazionali e scoprire gli artisti che che avrebbero lasciato in me un’impronta indelebile. La fotografia è stata il mio primo e grande amore, ma la pittura e la scultura hanno altrettanto contribuito a plasmare la mia visione del mondo. Ciascuna di queste espressioni artistiche mi ha spinto a riflettere su nuovi modi di interpretare la realtà, aprendo finestre inaspettate sulla creatività umana. Riconosco il notevole lavoro di Simone Menegoi nella sua nuova direzione, un capace riorientamento internazionale che ha preso avvio da un profondo dialogo con il territorio. È stato per me un passo naturale deci-

2006 Nascita di Bologna Art First, poi dal 2013 Art City

2014 Arte Fiera compie 40 edizioni

dere di sostenere Arte Fiera, contribuendo all’ideazione di progetti speciali. Questa iniziativa è guidata con maestria dalla nostra curatrice, Sarah Cosulich, che ci accompagna in un affascinante viaggio di valorizzazione e ricerca: Mutina for Art.

DAVIDE MAZZOLENI Galleria Mazzoleni È sempre un grande piacere per noi tornare ad Arte Fiera, siamo legati a questa fiera che da cinquant’anni si è affermata come tradizione sia per le gallerie d'arte sia per il mercato dell’arte in Italia. Negli ultimi anni, la fiera ha saputo adattarsi e ampliarsi con un maggiore respiro degli allestimenti e delle opere esposte. È un’occasione che ad inizio anno ci permette di ritrovare i collezionisti e appassionati d’arte che ci seguono e vengono in visita ogni nuova edizione e che ci permette di conoscere o scoprire i programmi espositivi di un ventaglio importante di realtà attive nel mondo dell’arte, tendenze e nuove proposte.

MARIO CRISTIANI, LORENZO FIASCHI, MAURIZIO RIGILLO Galleria Continua Ad Arte Fiera ci legano ricordi bellissimi. È la prima fiera alla quale abbiamo preso parte. Correva l’anno 1991, avevamo aperto la galleria da poco più di un anno. Arrivammo con il nostro furgone stracarico di opere di giovani artisti, praticamente nostri coetanei. Di entusiasmo ne avevamo da vendere ma le vendite invece stentavano a partire. Fu Silvia Evangelisti (all’epoca consulente di Arte Fiera e, qualche anno dopo, Direttrice Artistica) la prima persona a darci fiducia vedendo in noi un potenziale. Per incoraggiarci (e per permetterci di pagare le spese dello stand e del campeggio dove allog-

2017 Convegno “Tra mostra e fiera: entre chien et loup”

2023 Opus Novum #5: Alberto Garutti

2024 50 anni di Arte Fiera

giavamo) comprò alcune opere e ci presentò moltissime persone. Fu un’esperienza magnifica che si è rinnovata, anno dopo anno, fino ad oggi. Siamo cresciuti insieme a Arte Fiera, è la fiera più longeva d’Italia e negli ultimi anni, grazie alla nuova direzione, ha saputo crescere e cambiare in meglio. Possiamo sicuramente affermare che la fiera di Bologna è un punto fermo della nostra storia e del nostro percorso.

FOCUS ARTE FIERA 50

1987 Rassegna di videoarte a cura di Lola Bonora

LUCA DI MONTEZEMOLO Imprenditore Arte Fiera è stata una delle manifestazioni più importanti durante i miei lunghi anni alla Presidenza di Bolognafiere. Era per me, insieme al Motorshow, la fiera di cui ero più appassionato visto che ero presidente della Ferrari e allo stesso tempo grande appassionato e collezionista d’arte moderna. Arte Fiera poi aveva un grande potenziale di sviluppi e io mi posi 3 obiettivi principali: incrementare il numero e la qualità delle gallerie con una forte selezione dei partecipanti; invitare e coinvolgere galleristi esteri per rendere Arte Fiera più internazionale. Tra i più bei ricordi ho il primo anno in cui vidi arrivare galleristi americani, francesi, svizzeri ed inglesi che vennero ad esporre ad Arte Fiera ed insieme a loro arrivarono tanti collezionisti e giornalisti stranieri. Infine, incentivare il Comune di Bologna, i galleristi, le fondazioni artistiche bolognesi e la città intera a promuovere eventi durante i giorni di Arte Fiera così da aprire la nostra bellissima città ad appassionati di tutto il mondo. Sono stati anni importanti ed indimenticabili. Oggi nel fare gli auguri di buon compleanno ad Arte Fiera per i suoi primi 50 anni e, malgrado la concorrenza con altre iniziative simili in Italia, le auguro altrettanti anni di ancora maggiore successo!

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A UN PASSO DAL MUSEO. LA PERFORMANCE AD ARTE FIERA NEL 1976

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l 29 aprile 1977 Gabriella Cardazzo, condirettrice insieme al fratello Paolo della Galleria del Cavallino di Venezia, scriveva ad Alan Sonfist: “this year I plan to stay in Bologna very little; there is a particular section of the fair for video and performances and we are not allowed to make performances in our booths”. La “sezione particolare” della Fiera menzionata nella lettera era, verosimilmente, la Settimana Internazionale della Performance curata da Renato Barilli, che quell’anno si sarebbe svolta nella prima settimana di giugno presso la vicinissima Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna e che non era affatto una sezione della Fiera, ma la più vasta rassegna di performance mai realizzata in uno spazio pubblico italiano. Eppure, la lettera di Gabriella Cardazzo esplicita ciò che molti galleristi avevano percepito, visto che proprio la Fiera, nel dissuadere i suoi espositori dal realizzare performance nei loro stand, li invitava a proporle al museo bolognese con due lettere datate rispettivamente 28 febbraio e 20 aprile. Un “dirottamento” intenzionale, dunque, che la Fiera sostenne con un determinante contributo finanziario, motivato – plausibilmente – da ciò che era accaduto tra i suoi padiglioni un anno prima, dal 22 al 30 maggio 1976. Arte Fiera 1976 era stata infatti contraddistinta da due impressionanti sequenze di performance dal vivo, proposte distintamente da due coppie di gallerie: la stessa Galleria del Cavallino con la Ronald Feldman Fine Arts da un lato e la Pari Editori & Dispari con lo Studio Morra

La performance di Hermann Nitsch allo stand della Galleria Pari & Dispari, Arte Fiera 1976

IL PROGRAMMA DI ARTE FIERA 2024: PREMI E BOOK TALK Promuovere l’arte contemporanea significa innanzitutto sostenere gli artisti, gli operatori culturali, la ricerca e le nuove idee. Ecco perché ad Arte Fiera insieme a partner di eccellenza l’arte viene premiata attraverso un bouquet di importanti iniziative. Si parte con il Premio ANGAMC ideato dall’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, un riconoscimento alla carriera all’attività di un gallerista affiliato alla rete. Il Premio BPER, laddove il tema dell’inclusione sociale rappresenta uno dei fiori all’occhiello delle buone pratiche della banca, acquisisce ed espone in una delle sue sedi, un’opera sensibile alla questione femminile, a prescindere dal genere dell’artista. Anche la Collezione Righi, di Enea Righi, con un riconoscimento alla seconda edizione, acquisirà un’opera per implementare le collezioni del museo MAMbo, concentrandosi in particolare sul lavoro delle ultime generazioni di artisti italiani. Al secondo anno è anche il Premio Colophonarte, dedicato ai giovani under40 di qualsiasi nazionalità. Il vincitore potrà concepire e dare alle stampe un libro d’artista in una tiratura di 500 copie, accompagnata da un’edizione speciale in numero più limitato. Il Marval Collection, nato dalla passione di due collezionisti, Marco e Valeria, incrementa la collezione privata con un’opera di artisti emergenti o mid-career, offrendo inoltre la possibilità di una residenza. Del progetto Percorso e del sostegno di Ducati si è già detto: a questo si affianca il Premio Officina Arte Ducati,

che acquisisce un’opera realizzata con il medium del disegno, destinata alla collezione corporate dell’azienda, nel segno della velocità e dell’innovazione. Torna anche il Premio Osvaldo Licini by Fainplast, nato da un’idea dell’associazione Arte contemporanea Picena in collaborazione con il comune di Ascoli Piceno e col gruppo specializzato nella produzione di materiale plastico: la competizione premia un artista italiano. Uno dei cinque finalisti quest’anno sarà scelto nella sezione pittura di Arte Fiera. Il Premio Rotary alla sua undicesima edizione è aggiudicato dall’installazione più creativa della manifestazione, mentre lo Studio Spada Partners, alla sua terza collaborazione con Arte Fiera, acquisirà un’opera in fiera e la esporrà permanentemente nei propri uffici di Milano, già arricchiti da una collezione unica. Infine, The Collectors. Chain Prize by Art Defender è dedicato da tre anni alla fotografia. Presieduto da Walter Guadagnini e con una giuria di soli collezionisti, acquisirà un’opera fotografica per la propria collezione. Il programma di Arte Fiera si completa per il terzo anno con i Book Talk, presentazioni di libri e cataloghi d’arte a cura di Guendalina Piselli. Si parla, tra gli altri, dei Quaderni della Quadriennale di Roma, di Walking loaves di Luca Trevisani, di Oscar Giaconia. Parasite Soufflè, di West di Francesco Jodice, di Gruppo70 di Raffaella Perna, di Pozzati XXL, dedicato a Concetto Pozzati, del catalogo ragionato della scultura di Giò Pomodoro, e naturalmente di performance.


ULIANA ZANETTI

LA PERFORMANCE DI DANIELA ORTIZ

sopra: Daniela Ortiz. Photo Victor Serri, Courtesy of the artist and Laveronica gallery sotto: Maurizio Cattelan, BECAUSE, Mutina for Art @ Arte Fiera 2024

Si parla di performance non solo nella grande mostra curata da Uliana Zanetti negli spazi del Padiglione 25 per i 50 anni di Arte Fiera, ma anche grazie al progetto di Daniela Ortiz (Cusco, 1985), realizzato grazie alla collaborazione tra Arte Fiera e Fondazione Furla. Una sinergia nata nel 2023 con l’azione del collettivo Public Movement e curato da Bruna Roccasalva, direttrice artistica della Fondazione. Per il 2024, Ortiz, artista peruviana che con la sua pratica mette in discussione le dinamiche politiche, economiche e sociali del presente, con mostre e progetti all’attivo in musei ed istituzioni in tutto il mondo, presenta a Bologna Tiro al blanco, una installazione site-specific che sarà attivata attraverso una azione partecipativa. Come sempre nel lavoro di Ortiz, sotto la lente è la relazione egemonica tra Nord imperialista e capitalista e Sud del mondo, nella quale la cartina di tornasole, lo squilibrio nei rapporti di potere, fino al collasso e alle guerre, è l’industria militare e la produzione di armi.

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dall’altro. Sembra dunque probabile che il trambusto provocato, unito ad alcune trasgressioni, potesse aver suscitato, accanto a reazioni risentite di altri espositori, una certa apprensione tra i responsabili della Fiera. Rosanna Chiessi della Pari Editori & Dispari e Peppe Morra, in particolare, avevano proposto una delle controverse Azioni di Hermann Nitsch, già espulso dall’Italia nel 1974 a causa di una performance eseguita proprio allo Studio Morra a Napoli. A questa si erano aggiunti un intervento di Heinz Cibulka, allora assistente di Nitsch, che contro ogni regola aveva cucinato nello stand di Pari Editori & Dispari; la nudità di Geoffrey Hendricks, intento a rovistare tra fascine di rami e a segare un tronco; il dissacrante corteo nuziale di Giuseppe Desiato che si snodava fuori e dentro gli spazi fieristici. Vi si erano affiancati, inoltre, il Gioco di Takako Saito, l’Esposizione in tempo reale n. 13. I sogni n. 3 di Franco Vaccari, gli strumenti musicali di Joe Jones e la distribuzione di misteriose buste con negativi fotografici del famosissimo Urs Lüthi, curiosamente l’unico, tra tutti questi artisti, a non essere incluso da Barilli tra gli invitati alla Settimana Internazionale della Performance l’anno successivo. Si trattava di una significativa rappresentanza internazionale, con esponenti di Fluxus come Hendricks, Jones e Saito, e del Wiener Aktionismus come Nitsch e Cibulka, accanto ad alcune personalità singolari già conosciute nei circuiti della sperimentazione artistica. Anche il Cavallino e Feldman avevano proposto performance di artisti già noti o emergenti sia in Italia che all’estero: dagli americani Alan Sonfist e Douglas Davis agli italiani Vincenzo Agnetti, Anselmo Anselmi e Mario ‘Piccolo’ Sillani Djerrahian; dai britannici Marc Camille Chaimowicz, Angelo Bozzolla e Jimmy Boyle ai croati Sanja Iveković e Dalibor Martinis. Presenze scaturite dai tanti incontri e contatti che Gabriella e Paolo Cardazzo intrecciavano in quel periodo viaggiando incessantemente tra gli USA, la Gran Bretagna e la Jugoslavia e dei quali la stessa partnership con Feldman era un effetto. Benché alla base di entrambe le rassegne vi fosse un autentico impegno culturale, con galleristi che si comportavano più da mecenati e divulgatori che da mercanti, Paolo e Gabriella Cardazzo, a differenza di Chiessi e Morra, erano contestualmente impegnati ad esplorare forme di produzione che sottraessero queste opere al dominio dell’effimero, garantendo loro una maggiore diffusione e anche un possibile sbocco sul mercato. Durante la Fiera la Galleria del Cavallino produsse probabilmente almeno quattro opere video: Lezione di design di Agnetti, Reading Marx di Davis, Un jour violent di Iveković e The Bologna Tape di Sonfist, alle quali va, forse aggiunto Modern Prayer di Tom Marioni. A questo episodio, già conosciuto ma ancora non sufficientemente approfondito, Arte Fiera dedica in occasione del suo cinquantenario la mostra “Praticamente nulla da vendere”. La performance ad Arte Fiera 1976 che, oltre a documentare le performance di quella straordinaria edizione di Arte Fiera, permette di illuminare un segmento dei molteplici circuiti che permisero alla performance – mentre era al suo apogeo e, tuttavia, prossima a una fase di temporaneo ma brusco declino – di compiere il passo che separava gli spazi commerciali della Fiera da quelli istituzionali della Galleria d’Arte Moderna di Bologna.

MAURIZIO CATTELAN: IL RITORNO A BOLOGNA Mutina è ad Arte Fiera con un progetto speciale. Il brand di ceramica che può contare sulle creazioni delle più grandi firme del design italiano e internazionale rinnova la sua partnership con la fiera da quattro edizioni, cogliendo anno dopo anno l’opportunità per mettersi in gioco. Nel 2024 l’azienda di Fiorano Modenese propone un progetto espositivo modulato intorno a Maurizio Cattelan. L’artista torna in fiera a distanza di oltre 30 anni dalla sua apparizione come “infiltrato”, nel 1991, quando si presentò a Bologna con uno stand abusivo (un banchetto a forma di campo da calcio, con piano in polistirolo rivestito di panno). Stavolta, sarà Mutina a offrirgli un palcoscenico adeguato a presentare BECAUSE, “un corto circuito che diviene racconto, tra regole infrante e complicità”. Il display creato per l’occasione è la collezione ceramica Fringe, disegnata per Mutina da Michael Anastassiades, mentre a curare il progetto è Sarah Cosulich, curatrice di Mutina for Art, percorso non-profit che dal 2017 l’azienda ceramica dedica all’arte contemporanea.

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IL CILE DELL’ARTE E DELLA CULTURA A 50 ANNI DAL GOLPE


FEDERICA

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Tendone contro la dittatura di Pinochet in occasione della Biennale di Venezia del 1974, Campo San Polo. Immagine tratta dal volume B74-78, Lorenzo Capellini, Un racconto fotografico, Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia, 2023. Courtesy La Biennale

STORIES CILE

Il 2024 segna il cinquantesimo anniversario dalla Biennale di Venezia che fu dedicata al popolo cileno, sconvolto dal Colpo di Stato che rovesciò il governo del socialista Salvador Allende. Cambiano così anche la cultura e lo spazio pubblico, con esiti universali e sempre attuali L A PA G L I A

li eventi che hanno seguito il Golpe in Cile dell’11 settembre 1973 e la dedica della Biennale di Venezia al popolo cileno nel 1974 ci rammentano ancora oggi la fondamentale importanza del Paese sul piano sociopolitico e culturale internazionale. Il Cile, che si sviluppa stretto e lungo alla fine del mondo, pur nella sua dimensione ridotta e nella collocazione geografica appartata, con la sua storia ha influenzato molti altri Paesi, anticipando ciò che il mondo, per alcuni versi, avrebbe vissuto più avanti, seppur non nei termini feroci di un regime militare. Era il 1970 quando Salvador Allende, medico, socialista e leader di Unidad Popular, vinceva le elezioni presidenziali dopo tre tentativi. Il suo successo era sotto lo sguardo del mondo e l’Europa seguiva con attenzione il suo progetto. Nel 1969 fu tra i promotori della coalizione di partiti e movimenti di sinistra che cercavano di instaurare una democrazia nuova. Definita la via cilena al socialismo, quella di Allende è stata una rivoluzione popolare dolce, lontana dall’URSS e dalla lotta armata di Cuba, fermata col sangue dopo tre anni dall’insediamento. Il mondo era diviso in due dalla Guerra Fredda e l’azione di Unidad Popular s’inseriva in un territorio di grandi disparità sociali. L’economia nazionale era caratterizzata dallo sfruttamento privato, straniero, delle risorse pubbliche. Unidad Popular e Allende attuarono una progressiva partecipazione popolare nella cosa pubblica e, nel quadro di una riforma economica pianificata, necessaria per far fronte alla crisi, vennero approvate le leggi di nazionalizzazione delle imprese. La cosa preoccupava gli Stati Uniti, che avevano interessi diretti ma, soprattutto, non volevano che le politiche socialiste si estendessero ulteriormente in Cile e non solo: alcuni documenti dell’Archivio di Sicurezza Nazionale degli USA desecretati nel 2020 esprimono chiaramente la preoccupazione che a seguire le orme di Allende fossero anche i Paesi europei, in particolare Francia e Italia, oltre a confermare la mano di Kissinger e Nixon nel rovesciamento del presidente cileno. Nel frattempo erano tornati nel Paese i cosiddetti Chicago Boys, studenti dell’Università del Cile andati a frequentare la Scuola di Economia guidata da Milton Friedman a Chicago. La loro presenza offrì alla Giunta militare il sostrato culturale e il modello economico per sorreggere la dittatura. Arrivò l’11 settembre 1973, e con esso l'attacco a La Moneda, il suicidio di Allende e l’inizio del “laboratorio Cile”. Una “prova generale” della trasformazione sociale che poi sarebbe stata globale, e fu lì agita dalla dittatura e dal neoliberismo che questa stava per introdurre.

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MURALISMO: DAL MESSICO AL CILE, VIAGGIO SENZA RITORNO Chissà se il sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, quando pensò all’arte per la ricostruzione, aveva in testa i murales Muerte al invasor di David Alfaro Siqueiros, realizzati nella città di Chillán nel 1940. Era il 1939 quando le regioni Septima e Octava del Cile furono devastate da un potentissimo sisma e tutti i Paesi latinoamericani si mossero per aiutare nella ricostruzione. Allora Siqueiros era in carcere, con l‘accusa di aver partecipato al complotto che condusse all’omicidio di Trotskij, ma la sua pena fu convertita in esilio per intercessione dell’Ambasciatore cileno a Città del Messico, Reyes Espíndola, e del Console Generale, Pablo Neruda. Fu così che il muralismo arrivò nella biblioteca della nuova scuola fatta costruire dal Messico post-rivoluzionario. Siqueiros, il più innovatore tra i muralisti messicani, segnò fin dalle origini il muralismo cileno, che si distingue per alcune caratteristiche precipue: il tratto ideologico e di rivendicazione sociale e la dimensione collettiva della pratica. Muerte al invasor, infatti, vide anche la partecipazione di un gruppo di pittori cileni, guidati da Laureano Guevara, che aveva appreso la tecnica del murale in Danimarca. Siqueiros nella Escuela México aveva dipinto la storia del Messico e del Cile, i cileni andranno avanti negli anni proprio con temi storici e sociali, con una svolta decisiva negli anni Sessanta, quando il muralismo cileno si trasformò in strumento di propaganda politica, a servizio delle campagne presidenziali del socialista Salvador Allende, ma anche del democristiano Eduardo Frei Montalva. Nacquero così le brigate muraliste – clandestine – composte da studenti, militanti, artisti, il cui apice di azione si raggiunge tra il 1970 e il 1973, durante il mandato presidenziale di Allende. Il murale cileno si lega al contingente politico, sostiene la causa sociale di Unidad Popular, a differenza di quello messicano che riportava la lotta politica rivoluzionaria alla costruzione di una identità nazionale attraverso il ricorso alla storia pre-conquista. Nei murales cileni compaiono stelle, colombe, fiori, mani tese, colori base e grossi contorni neri delle figure piatte. Il messaggio è diretto, spesso si alternano a scritte vicine a quelle delle affiche istituzionali (come quella della campagna diffusione del latte per tutti). Il senso di unione del popolo e della centralità dello stesso è sempre espresso, come in El primero gol del pueblo chileno di Matta, realizzato nel 1971 a La Granja – sobborgo di Santiago – in una piscina pubblica, insieme alla Brigada Ramona Parra. A partire dal settembre 1973 i murales vengono cancellati. Le brigate ricompaiono verso gli anni Ottanta come forma di resistenza, in appoggio alle popolazioni. Cambia la formalizzazione visiva e da un lato ritraggono i volti di eroi popolari come Victor Jara, Pablo Neruda, Violetta Parra, Gabriela Mistral, dall’altro recuperano il tema dei lavoratori e dei sindacati. È difficile trovare documentazione dell’azione dei muralisti, sia per il carattere clandestino delle brigate, sia per l’azione di “pulizia” operata dalla Giunta militare. Ma l’opera di Siqueiros e il murale di Matta sono ora protetti dal Consejo Nacional de Monumentos Nacionales.

L’ESTETICA TEATRALE DEL GOLPE, I CORPI E LO SPAZIO PUBBLICO

In uno dei saggi contenuti in Errante, Erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica (Mimesis, 2022), Diamela Eltit – scrittrice e membro del collettivo CADA, Colectivo Acciones de Arte – racconta le ore del Golpe come fossero una messa in scena teatrale, in cui ciascun militare si muoveva nello spazio secondo una precisa scrittura. L’attacco aereo, i bombardamenti e poi il coprifuoco e il silenzio rotto solo dalle mitragliate, così descritti rimandano chiaramente all’immagine del cambiamento dello spazio pubblico e dei corpi che lo abitavano, costringendo alla dimensione domestica, anticipatrice di quella individualista propria della società neoliberista. L’estetica teatrale in qualche modo introduce la costruzione a tavolino di nuovo modo di stare al mondo: l’applicazione pratica del neoliberismo quale fatto totale, come direbbe l’antropologo Marcel Mauss. Il Cile – molto prima della Gran Bretagna di Thatcher e degli USA di Reagan – ha vissuto la società frantumarsi e lo spazio pubblico passare da dimensione collettiva di costruzione democratica a sfera relazionale fondata sul calcolo. Per la prima volta le teorie di Friedman presero corpo, attraverso il piano economico presentato dai Chicago Boys a Pinochet, che lo adottò sino a fondare sui principi lì espressi la Costituzione del 1980 ancora vigente. Nella scena raccontata da Diamela Eltit a un certo punto fanno la loro comparsa i cartoni animati, strategia di distrazione di massa adottata dal neo-regime per intrattenere (e indottrinare) il popolo con la televisione nelle prime ore del Golpe. I cartoon erano ov-


STORIES CILE

11 SETTEMBRE 1973: LE DRAMMATICHE ORE DEL GOLPE

07:35 Il presidente Salvador Allende arriva al Palazzo de La Moneda insieme ai suoi consiglieri

07:55 Allende si rivolge alla Nazione per informare che un settore della Marina aveva isolato la città di Valparaíso come fatto di sollevazione contro il Governo

Santiago del Cile

Valparaiso

09:55 Carri armati entrano nel perimetro del Palazzo Presidenziale

10:15 Il Presidente Allende si rivolge ancora al popolo cileno attraverso le frequenze di Radio Magallanes. È il suo ultimo discorso prima del suicidio, nel suo studio 11:00 I militari attaccano il palazzo de La Moneda con una raffica di spari

11:52 Il primo aereo Hawker Hunter lancia missili sul portone principale e gli uffici laterali del Palazzo. 12:02 Viene attaccato il secondo piano dell’ala sud. Viene incendiata la facciata, così come il tetto e la bandiera nazionale sull’entrata principale 14:20 Allende chiede ai presenti nel Palazzo di uscire. Saluta tutti assicurando che sarebbe uscito per ultimo. Si sente uno sparo provenire dal Salone Indipendenza; qui verrà trovato il corpo del Presidente 14:30 I soldati che avevano occupato il primo piano de La Moneda fanno uscire il personale rimasto all’interno

a destra: Manifesto con la foto di Salvador Allende e in sovrimpressione le parole del suo ultimo discorso radiofonico, poche ore prima di morire, 1973. Courtesy Fondazione Lelio e Lisli Basso Onlus a sinistra: Manifesto del Comitato nazionale di solidarietà col Cile, 1982. Courtesy Fondazione Lelio e Lisli Basso Onlus

viamente nordamericani, infarciti di imperialismo, così come già denunciato nel libro Para leer el Pato Donald (1971) del cileno-argentino Ariel Dorfman e del belga Armand Matterlat. Il saggio propone una lettura marxista dei fumetti Disney, evidenziando il messaggio capitalista e razzista dietro l’apparente innocenza. Non stupisce che – pubblicato in Cile all’inizio del percorso di IL CILE HA VISTO LA SOCIETÀ emancipazione dall’imFRANTUMARSI E LO SPAZIO perialismo economico USA – in dittatura venne PUBBLICO PASSARE DA bruciato e ne fu impedita DIMENSIONE COLLETTIVA DI la ristampa. COSTRUZIONE DEMOCRATICA A Durante le campagne di Allende e di Unidad PoSFERA RELAZIONALE FONDATA pular, lo spazio pubblico SUL CALCOLO era espressione e contesto di partecipazione popolare. Fu il periodo d’oro della grafica e del muralismo, gli artisti visivi – come anche i letterati e i musicisti (era il periodo della Nueva Canción Chilena) – in larghissima parte appoggiavano la via socialista. Il Cile era tappezzato di affiche che nel Paese avevano una lunga tradizione, arri-

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ARTE E RESISTENZA. IL COLLETTIVO CADA Il Golpe militare è stato ovviamente un colpo anche per l’arte, causando un iniziale fermo, ma soprattutto mettendo in crisi il sistema e lo sviluppo della ricerca degli artisti. La frattura fondamentale fu in ordine al contesto espositivo, cosa che implica la concezione stessa dell’arte: vi fu chi riteneva che le opere dovessero continuare a proporsi nelle istituzioni e chi, di contro, sentiva la necessità di uscire nelle strade. Nacque in questo contesto, nel 1979, CADA – Colectivo Acciones de Arte, in qualche modo guidato dalla critica Nelly Richards, che aveva già teorizzato la cosiddetta Escena de Avanzada, fatta di arte visiva, poesia, scrittura critica, letteratura. CADA era composto dagli artisti Lotty Rosenfeld e Juan Castillo, dalla scrittrice Diamela Eltit, dal poeta Raúl Zurita e dal sociologo Fernando Balcells. Gli obiettivi del collettivo erano da una parte rompere l’isolamento dell’arte cilena, avvicinandola alle neoavanguardie internazionali, dall’altra agire una forma di resistenza in cui esprimere la coincidenza tra arte e vita, artista e individuo nella società. Fare arte in strada – con performance, installazioni, scrittura e interventi grafici – non significava esclusivamente uscire dal museo ma operare una forma nuova di coinvolgimento sociale, nella sfera d’opposizione alla dittatura. L’azione più nota del collettivo è probabilmente NO +, anche per la più vasta incidenza nella comunicazione di piazza, fuori dagli immediati limiti temporali e territoriali del Cile. Tra il 1983 e il 1984 NO+ compare scritto sui muri e in diversi cartelli per la strada; a partire da questo intervento e indipendentemente da CADA, i cileni vi hanno poi aggiunto specifiche anti-regime come No + dictadura o No + desaparecidos. Il segno + nella sua veste di croce era già stato utilizzato da Lotty Rosenfeld in Millas de cruces sobre el pavimiento, azione installativa che trasformava la linea separatoria delle corsie stradali in una sequenza di croci, applicandovi del nastro adesivo bianco. In tal modo l’artista convertiva la direzione in dislocazione, segnando il punto di rottura dell’ordine prestabilito e restituendone l’effetto cimiteriale; si appropriava delle strade con un gesto sovversivo, che metteva in chiara evidenza il sommerso. L’azione è stata poi ripetuta più volte in Cile e nel mondo; la sua linea di croci di fronte la Casa Bianca non può che alludere pure al legame tra gli Stati Uniti e il Cile di Pinochet. Se guardiamo alla scena artistica attuale, è possibile riconoscere in CADA l’ascendente di artisti nati successivamente e di alcune artiste afferenti al neofemminismo cileno, particolarmente per l’approccio intersezionale che alcune esprimono, in linea con i movimenti di protesta sociale.

Janet Toro, La sangre, el río y el cuerpo, Río Mapocho, Santiago, Cile, 1990. Photo Verónica Soto. Courtesy l’artista

vata dall’Europa del XIX Secolo e adottata fin dal 1920 come forma di comunicazione politica. Così come per i murales, i manifesti vennero subito distrutti o cancellati; la pulizia dai simboli di Unidad Popular prese significativamente il nome delle politiche di sbiancamento razziale di memoria coloniale (blanqueo), evidenziando una continuità tra neoliberismo e colonialismo, già disvelata da Para leer el Pato Donald. Seguirono la distruzione di monumenti, la rinominazione e la ridefinizione d’uso di spazi pubblici ed edifici, in nome di un nazionalismo che avrebbe poi segnato pure gli altri Paesi guidati dal neoliberismo, in piena contraddizione con il libero scambio di merci e la globalizzazione che genera. Dall’estetica pubblica all’estetica dei corpi, la ripulitura dai segni di “sovversione” colpiva tutto.

GLI EFFETTI DEL GOLPE SUL PIANO INTERNAZIONALE

Si diceva, all’inizio, dell’influenza che la storia cilena del secondo Novecento ebbe sul piano internazionale. In questo quadro non va trascurata la posizione dell’I-


STORIES CILE

talia tra i due blocchi della Guerra Fredda. Poco dopo il Colpo di Stato, la rivista Rinascita pubblicò il primo dei tre articoli di Enrico Berlinguer sui “fatti cileni”. Il Segretario del Partito Comunista Italiano, pur evidenziando le differenze tra Italia e Cile sotto il profilo sociopolitico, istituzionale, culturale e produttivo, mise tuttavia in evidenza le analogie tra i Paesi e, richiamando l’attenzione di chi era impegnato per la libertà dei popoli, indicava da subito le responsabilità degli Stati Uniti. Dalle riflessioni sulla “lezione cilena” elaborò il progetto del Compromesso storico, destinato a naufragare con l’omicidio di Aldo Moro. Nel frattempo, iniziò il periodo dell’esilio e in particolare l’Ambasciata italiana a Santiago ospitò moltissimi, poi aiutati a scappare dal Paese. In Italia le vicende in corso colpirono particolarmente la sensibilità di quella che ancora era l’epoca delle Ideologie; non va dimenticato il tentato Golpe Borghese del 1970 e la costante attenzione a possibili derive fasciste. In Europa si moltiplicarono le manifestazioni a sostegno del pueblo chileno. A Milano, attorno alla Galleria di Porta Ticinese si organizzò la Mostra Incessante per il Cile, che dal 1973 al 1977 ospitò interventi ed

opere di artisti e collettivi di studenti, diventando così l’epicentro di innumerevoli mobilitazioni. A Londra, nel 1974, nacque il collettivo Artists for Democracy, composto da David Medalla, Cecilia Vicuña – uscita nel ‘73 dal Cile –, John Dugger e dal critico Guy Brett, che avevano l’obiettivo di offrire un aiuto materiale ai movimenti di liberazione nel mondo. Il gruppo rimase attivo fino al 1977 e il suo primo intervento fu Arts Festival for Democracy in Chile, al Royal College of Art, a cui fu invitato anche Matta, per realizzare dei murales. L’artista, che viveva oramai da molti anni fuori del Cile, aveva comunque espresso il suo appoggio alla causa socialista e nel 1971 aveva realizzato, a Santiago, il murale El primer gol del pueblo chileno, anche questo poi oggetto del blanqueamiento. È del 1973 la mostra al Museo Civico di Bologna, Insieme a Matta per il Cile. La storica dell’arte Paulina Caro Troncoso, nel segnalare la partecipazione di Matta ai molti eventi internazionali a favore del popolo cileno, rileva come anche la sua collezione di arpilleras fosse sintomo di un preciso impegno nella rete di solidarietà, offrendo al contempo nuove opportunità d’indagine su come queste opere fossero uscite dal Paese durante la dittatura. Le arpilleras – piccoli lavori tipicamente cileni, di tradizione femminile e realizzati con ricami su tessuti di recupero – negli anni Settanta ebbero come tema principale proprio i fatti del Golpe, ben celati da simbologie e segni capaci di superare il limite della censura, come scrisse Brett sulla rivista femminista britannica Spare Rib nel 1977. E arriviamo alla Biennale di Venezia, che nel 1974 offrì il suo appoggio solidale. L’edizione fu infatti dedicata al popolo cileno per volontà dell’allora Presidente dell’ente, il socialista Carlo Ripa di Meana. Nel 2023 è uscito B74-78. Lorenzo Capellini. Un racconto fotografico, dedicato agli anni della sua presidenza e pubblicato proprio da La Biennale. Il volume si apre con Matta che dipinge, e con il ritratto degli Intillimani invitati ad esibirsi. Fu un’edizione anomala, inaugurata alla presenza di Ortensia Allende, moglie del presidente del Cile, e caratterizzata dagli interventi dell’artista cileno e di Emilio Vedova nelle calli, da spettacoli teatrali, concerti e mostre di manifesti.

GLI ANNI OTTANTA: DOPO LA STASI GLI ARTISTI SI RIPRENDONO LE STRADE

L’esperienza del Cile evidenzia il rapporto tra assunzione di responsabilità sociale, economia neoliberista e spazio pubblico, come nesso tra esperienza IL CAMBIAMENTO DELLO SPAZIO umana, politica e artistica. Nella transizione PUBBLICO E DEI CORPI CHE LO repentina tra percorso ABITAVANO COSTRINGE ALLA democratico e dittatura neoliberista, fu invitaDIMENSIONE DOMESTICA, bile una stasi iniziale ANTICIPATRICE DI QUELLA dell’espressione cultuINDIVIDUALISTA PROPRIA DELLA rale pubblica, ma alla fine degli anni Settanta SOCIETÀ NEOLIBERISTA gli artisti iniziarono a riprendersi le strade. Nacque CADA, Colectivo Acciones de Arte (1979-1985) che faceva dello spazio negato al corpo il campo alternativo all’istituzionalità dei musei. Agire significava non solo esprimere una denuncia, ma soprattutto riconfigurare lo spazio pubblico.

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MUTAMENTI E MONUMENTI Durante quello che in Cile viene chiamato l’estallido social, ossia la serie di proteste di massa che hanno infuocato Santiago del Cile nel 2019, nasce il collettivo Monumentos Incomodos. Un gruppo di giornalisti, urbanisti, architetti e artisti inizia a questionare sullo spazio pubblico e i monumenti, a partire dalle manifestazioni che avevano come epicentro Plaza Italia, da quel momento rinominata dai manifestanti Plaza Dignidad. Dove ora vi è soltanto un plinto, campeggiava la statua a cavallo del Generale Baquedano, ottocentesco eroe nazionale che ha guidato la conquista dell’Araucania e la guerra del Pacifico contro il Perù. Il monumento di Baquedano, sebbene inizialmente abbia vissuto di riflesso le azioni dei manifestanti (bandiere, scritte, foto e corpi vi sono stati issati), ha finito per assumere in sé i termini del conflitto, simbolo del patriarcato colonialista che il neocompattato corpo sociale riconosce come espressione parentale dell’oppressione e dello sfruttamento proprio del neoliberismo, che ferisce le sue carni. In quei giorni difficili, i membri fondatori di Monumentos Incomodos osservano la spontanee risignificazioni della statua equestre e iniziano a raccogliere su Instagram le fotografie di quel monumento, e di tutti gli altri – nel Paese e nelle Americhe – che causano disagio. Quando gli Stati Uniti vivono Black Lives Matter e si torna a gridare all’abbattimento dei monumenti “scomodi”, il Cile spontaneamente riscrive l’immagine dei suoi eroi; lo fa nelle piazze e lo fa con Photoshop nelle reti sociali. Il collettivo Monumentos Incomodos dichiara come ragione di nascita l’assenza di un dibattito istituzionale sulla gestione del patrimonio in oggetto, riferendosi all’esempio delle commissioni pubbliche istituite negli U.S.A. Dunque, Monumentos Incomodos è di per sé l’espressione delle istanze di opposizione al neoliberismo, pur incarnandolo nei termini in cui è un’iniziativa privata che – in effetti – assume la guida intellettuale di una base che agisce. Guardando alla sua origine si rilevano delle specificità che possiamo sintetizzare in: non si tratta solo di ciò che il Cile è, se non anche di quello che la piazza vuole che il Cile sia. La riflessione sul monumento non è svincolabile dalla richiesta di una nuova Costituzione. La contestazione non ha a che vedere solo con lo scollamento tra il simbolo del potere di tipo maschile – bianco, conquistatore o militare – e una società plurale, il nodo precipuo è in ciò che i manifestanti vogliono per il futuro del Cile. In fondo non si tratta di contestare esclusivamente il simbolo del potere, ma anche di creare un simbolo della “rivoluzione”. Rimosso dal piedistallo per il restauro post estallido – su decisione del Consejo de Monumentos Nacionales de Chile –, il Generale Baquedano viene di volta in volta sostituito da donne, esponenti della comunità LGBTQIA+ o dei popoli originari, membri vari delle comunità che nella nuova Costituente hanno poi trovato rappresentanza. La stessa proposta – tra le molte in dibattito – di posizionare i monumenti scomodi nella natura è ricondotta a un’idea di riscrittura dello spazio pubblico fondata sulla simbiosi inscindibile tra naturale e culturale, riconosciuta dai nativi del Cile ed estranea alla cultura contemporanea occidentale, sostiene il collettivo (sebbene sarebbe interessante leggere la questione alla luce della filosofia del postumano).

IL CILE NEL SECONDO NOVECENTO

1969

Viene fondato il partito Unidad Popular. Terza candidatura di Salvador Allende alla Presidenza (la prima nel 1952, la seconda nel 1964)

1970

Allende diventa il Presidente del Cile

1971

Nazionalizzazione delle miniere di rame

1971-73

Intensificazione del processo di Riforma Agricola con espropriazione massiva dei terreni

1973

Colpo di Stato; Pinochet assume il controllo del Paese

1974

Viene creata la DINA, polizia segreta responsabile di omicidi, torture e violazione dei diritti umani

1975

I Chicago Boys assumono la gestione economica del Cile

1980

Viene approvata la nuova Costituzione basata sui principi economici del neoliberismo

1988

Nasce la Concertación de Partidos por la Democracia, coalizione di opposizione Plebiscito. Vince il NO: il Cile rifiuta Pinochet e sceglie di andare a nuove elezioni

1989

Riforme costituzionali e nuove elezioni presidenziali. Ritorno alla democrazia

1990

Patricio Aylwin (DC) assume la carica di Presidente

Monumento al Generale Baquedano, Santiago del Cile, 2019. Crediti Monumentos Incomodos. Photo Patricio Mora


STORIES CILE

I CHICAGO BOYS E IL NEOLIBERISMO NELL’OPERA DI PATRICK HAMILTON Il precipuo carattere neoliberista della dittatura cilena ha esteso i suoi effetti in democrazia; la stessa Costituzione del 1980 è stata redatta sul modello economico della scuola di Milton Friedman che, in riferimento al Cile, parlava della necessità di una “terapia shock”, rivelatasi essere il Colpo di Stato e l’instaurazione assoluta dei principi neoliberisti, difficili da scardinare una volta assorbiti. La volontà dei cileni di cambiare la Costituzione non ha trovato espressione compiuta; la direzione del cambiamento che viene espressa nelle piazze ancora non trova riscontro in un’alternativa giuridica fondamentale. Si evidenzia dunque una dualità che, letta nell’ottica neoliberista, cresce intorno ad altri dualismi: società e individuo, Stato e mercato, servizi e profitto. The Chicago Boy’s Project (“El ladrillo”) dell’artista Patrick Hamilton (nato nel 1974) riflette proprio sul piano economico elaborato dagli studenti cileni della Scuola di Economia dell’Università di Chicago, nell’ottica della sua applicazione. Una volta rientrati in patria, i Chicago Boys produssero il volume chiamato popolarmente “El Ladrillo” (il mattone) che, consegnato nelle mani di Pinochet, effettivamente costruì il nuovo Cile. Su quest’idea dell’edificazione e sui i suoi effetti si sofferma Hamilton, con un’installazione che si muove sulla discrasia tra la crescita economica e il costo umano del lavoro. Il suo progetto si compone di varie opere; quella centrale consta di un tavolo su è disposto un archivio di documenti legati alla dittatura e alla sua strategia politico-economica, sopra i quali sono posizionati i mattoni (“ladrillos”), ad incastro uno sull’altro, come fossero edifici. L’installazione è bagnata dai colori della bandiera del sindacato anarchico dei lavoratori. Ma il rosso e il nero rimandano pure al romanzo di Stendhal, che con questi simboleggiava la coesione reazionaria tra Monarchia e Clero che in Francia, con la Restaurazione, represse gli intenti di cambiamento popolare, così come in Cile fecero Giunta militare e neoliberismo in una dinamica di sostegno vicendevole. L’uso dei mattoni refrattari sostiene l’idea della resistenza allo shock termico, da leggersi con riferimento alla temperatura sociale, per altro in un contesto, quello neoliberista, che sgretola la società proiettandola in una dimensione di sfruttamento opportunistico e disparità. L’estetica costruttivista formula, in termini plastici, un campo di battaglia solo apparentemente fisso nel tempo.

Altri artisti seguirono quelle orme. Nel 1986 con la performance Dos Preguntas, Janet Toro – che aveva lasciato la pittura – in collaborazione con Claudia Winther tentò di ricompattare la comunità dissolta facendo appello al sentimento. Le due, ferme in strada, avevano appeso al collo un cartello, ciascuna con una domanda: “Perché sei triste?”, “Perché sorridi?”. Con un gesto DALL’ESTETICA PUBBLICA semplice, che presuppoALL’ESTETICA DEI CORPI, neva l’offerta di ascolto basata sulla comune LA RIPULITURA DAI SEGNI DI esperienza del dolore “SOVVERSIONE” COLPIVA TUTTO (difficile non ravvedere una vicinanza all’installazione di Alfredo Jaar, Estudios sobre la Felicidad, 1979-1981), l’artista riuscì a raccogliere attorno a sé i passanti e l’attenzione dei Carabinieri. Dunque, Toro agì la momentanea ricostruzione del tessuto sociale attraverso una silente dinamica di dono, sempre per richiamarci al già citato Marcel Mauss. La storia del Cile offre l’opportunità di sondare l’esperienza anzitempo dell’individualismo nella frantu-

Patrick Hamilton, The Chicago Boy`s Project (“El Ladrillo”), 2018-19. Collezione Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid e Collezione Solari Del Sol, Santiago del Cile

mazione dello spazio pubblico che, in effetti, nella società governata dal libero mercato non scompare, ma piuttosto si parcellizza. Lo spazio da collettivo diviene campo d’interesse di gruppi sempre più piccoli, dunque le azioni degli artisti, in dittatura, spesso cercavano forme di dialogo con le comunità, finendo così per estendere lo spazio (nulla a che vedere con la futura arte relazionale e la successiva deriva retorica). Sul finire degli anni Ottanta, inoltre, si svilupparono alleanze tra artisti nelle lotte comuni, di contro all’edonismo o individualismo del post-collettivo tipico del superamento delle neoavanguardie. È dunque legittimo domandarsi, alla luce di quelle esperienze e delle azioni performative della più recente scena – perlopiù espresse durante le proteste sociali – se queste ultime pratiche siano figlie dell’opposizione al neoliberismo o, piuttosto, non derivino in qualche modo dallo stesso.

FINE DITTATURA. I LUOGHI SIMBOLO E I MOVIMENTI SOCIALI DEL NUOVO MILLENNIO

Col ritorno alla democrazia negli anni Novanta, il Cile ha iniziato un progressivo investimento nelle politi-

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FEMMINISMI CILENI: UNA QUESTIONE Se, dunque, da un lato vi era un’urgenza di vita e di morte da affrontare, forse dall’altra questo aspetto potrebbe aver favorito un neofemminismo intersezionale in democrazia, o quantomeno uno sguardo più ampio, come apparso nelle varie performance estemporanee durante le più recenti proteste. Non è il caso del collettivo LASTESIS che, per il solo fatto di agire nello spazio pubblico e di coinvolgere varie persone, rompendo la distanza con chi osserva, in qualche modo concretizza la visione di Judith Butler dell’azione performativa quale processo di riconoscimento pubblico. In questo senso s’intravede un legame con la scena anteriore, sebbene la loro azione si concentri su posizioni strettamente femministe. Abbiamo tentato un faccia a faccia – mediato da una sola domanda ciascuna – tra loro e Patricia Rivadeneira, attrice e membro di Cleopatras, gruppo di teatro, musica e danza, attivo nell’ultima decade della dittatura.

Parlare di movimento femminista in Cile risulta complesso, come lo può essere per qualunque Paese che abbia subìto una dittatura negli anni in cui la coscienza femminista prendeva forma. La giornalista Patricia Mayorga riferisce di averlo conosciuto al suo arrivo in Italia, nel 1975; Diamela Eltit, in Errante, Erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte e politica, parla di false narrazioni al proposito. Di certo la pressione della contingenza politica ha orientato la lotta dei vari gruppi di donne – formatisi in particolare negli anni Ottanta – sulla denuncia degli omicidi, delle sparizioni e delle violazioni dei diritti umani. Lo stesso CADA – che pur aveva due componenti femministe – con l’opera Viuda (1985) poneva l’attenzione sulla donna come soggetto sociale che dipendeva dalla sfera dell’uomo: il ritratto della moglie di un assassinato venne pubblicato su diverse riviste con il testo “Guardare il suo gesto estremo e popolare. Prestare attenzione alla sua vedovanza e alla sopravvivenza. Intendere un popolo”.

Nella postura di “contrattacco al neoliberismo”, come avete definito la vostra relazione con questo modello totalizzante in Cile, e nella lotta femminista, quanta concertazione c’è tra arte e l’attivismo? LASTESIS: Mettiamo l’arte al servizio dell’attivismo ma questo non è il fine ultimo, consideriamo che debba prevalere la prima. In quanto artiste difendiamo questa dimensione creativa a livello estetico però considerando l’estetica – nel nostro agire – sempre come politica. Qual è la posizione di Cleopatras rispetto al femminismo storico e al nuovo femminismo cileno? Con LASTESIS avete avuto modo di confrontarvi anche pubblicamente… Patricia Rivadeneira: Cleopatras è più vicina a Virginie Despentes che alle femministe storiche. Il nostro contributo è stato quello di dichiarare che l’unico modo per destrutturare il patriarcato è attraverso la liberazione sia femminile che maschile, una rivoluzione per tutti. Onestamente le lotte in democrazia sono molto diverse. Durante la dittatura i testi degli spettacoli dovevano essere inviati a un servizio governativo che li revisionava e li censurava, tanto che quando scrivevo spesso mi autocensuravo e riempivo tutto di metafore. Ora sembra molto ridicolo, ma la poesia è stata in un certo modo forzata o indotta dalla censura.

che culturali, che ha incluso l’apertura di nuovi spazi in un lungo cammino verso la memoria. Agli inizi degli anni 2000 nell'edificio de La Moneda si è aperto un centro culturale, tentando una risemantizzazione nel quadro della più ampia NELLA TRANSIZIONE REPENTINA riqualificazione urbana, TRA PERCORSO DEMOCRATICO denominata Proyecto Plaza de la Cuidadania. E DITTATURA NEOLIBERISTA, FU Così come la dittatura INVITABILE UNA STASI INIZIALE aveva agito la sua cancelDELL’ESPRESSIONE CULTURALE lazione, il Governo della Concertazione operò un PUBBLICA cambiamento per rendere l’area una zona di rinascita e condivisione. Nel quadro della costruzione di Siti della Memoria s’inserisce l’Estadio Chile, dal 2003 rinominato Estadio Victor Jara, in omaggio al cantautore esponente della Nueva Canción Chilena, massacrato in quello

che fu, nei primi anni del regime, il più grande centro di detenzione, tortura ed esecuzione del Paese. Tra gli altri interventi, anche Villa Grimaldi è stata convertita in luogo di cultura. Qui operava la DINA-Dirección de Inteligencia Nacional, in un possedimento appartato, quasi ai margini della campagna, cosa che facilitava le operazioni a cui fu destinata: la soppressione dei partiti di sinistra. La riconversione dei luoghi e il continuo rinnovarsi delle denominazioni, a seguito degli stravolgimenti sociopolitici di 50 anni fa, suggerisce di guardare al dibattito intorno alla monumentalistica – molto forte in Cile e condotto dal collettivo Monumentos Incomodos – con riferimento alla mancanza di continuità storica, che il filosofo Christopher Lasch ravvedeva tra le cause della disintegrazione dello spazio pubblico nel neoliberismo. Il tema ci riconduce alla fugacità dell’oggi, implementata dalla stessa dottrina. Che la ciclica cancellazione in qualche modo non la faciliti? Che non crei un cortocircuito confondendo ulteriormente cause ed effetti?


Il Cile degli anni 2000 esprime ciclicamente le sue richieste di superamento delle disparità sociali attraverso la voce dei movimenti studenteschi, che pure partono da naturali richieste particolaristiche. Ma l’istruzione e la sanità sono inevitabilmente i campi in cui il neoliberismo agisce in maniera cruciale. Nelle manifestazioni sociali e studentesche degli ultimi anni hanno trovato espressione anche molti artisti e studenti d’arte, rinfocolando la lunga tradizione cilena di commistione fra le arti e l’attivismo politico. Abbiamo rivolto alcune domande a Daniel Cruz, professore presso l’Universidad de Chile e direttore del MAC – Museo di Arte Contemporanea di Santiago. Molti artisti emergenti hanno sviluppato la loro pratica durante l’estallido social o nel più ampio contesto delle proteste studentesche. Dal tuo punto di vista qual è il rapporto tra il movimento degli studenti e la scena artistica cilena? Immagino che dall’interno dell’Istituzione universitaria, a cui anche il MAC afferisce, la visione sia più chiara... È importante sottolineare che il movimento studentesco è emerso, nel suo primo atto nel 2006 con la cosiddetta revolución pingüina, il cui nome allude a un certo inquadramento nel sistema scolastico [ndr. la locuzione fa riferimento anche alla divisa scolastica]. Du-

rante quell’anno abbiamo assistito all’alzarsi della voce degli studenti della scuola di base e della secondaria, che hanno manifestato in modo trasversale. Sono stati loro a portare alla ribalta la crisi dell’istruzione e l’urgenza di un cambiamento. Quella generazione ha ormai più di 30 anni. Se facciamo due conti, i laureati di oggi nelle università cilene, in particolare nei corsi d’arte, sono quelli che si sono mobilitati fin dal primo anno di scuola. Questo non è un fatto di secondo piano, perché parla di una generazione che conosce l’intera curva delle implicazioni di una mobilitazione, gli aspetti positivi così come le sconfitte e le desolazioni. Ricordo chiaramente come il 2011 sia stato un anno fondamentale per la didattica dell’Università. Ci sono stati molti mesi di sospensione delle attività a causa della richiesta di un cambio nell’approccio all’istruzione. In quel contesto abbiamo conosciuto molti portavoce degli studenti che ora sono al potere. Ricordo che le azioni di mobilitazione furono un punto di svolta creativo, in cui i laboratori più audaci abbozzarono una serie di azioni che oggi potremmo inquadrare come post-scultura. Lo sfogo sociale (o estallido social) dell’ottobre 2019 è la voce che continua a ripercuotersi in uno scenario che è ancora irrisolto. Il movimento femmi-

LASTESIS, Valparaíso, 20/11/2019 a sinistra: Cleopatras, copertina del disco Cleopatras, Hueso Records, 2006. Courtesy le artiste

nista è stato molto chiaro nelle sue richieste che, dal punto di vista della pratica artistica, hanno attraversato le generazioni e le nazionalità. Se guardiamo alla proposta del collettivo LASTESIS e alla sua performance El Violador Eres Tú, vi ritroviamo un chiaro esempio di rivendicazioni trasversali che anticipano la scena globale e si trasformano in un testo universale, una geofonia globale.

STORIES CILE

LE UNIVERSITÀ COME CUORE DEI MOVIMENTI SOCIALI. INTERVISTA A DANIEL CRUZ

Una cosa che trovo molto interessante nella scena cilena – anche andando ben oltre la storia del XX secolo – è questa connessione tra movimenti sociali, arti visive e linguaggio verbale o scrittura... LASTESIS ne è un esempio interessante. L’intersezione interdisciplinare nasce dalla pratica collettiva, che emerge necessariamente da un abbassamento dell’intensità dell’io. Questo modo di progettare, creare e ricercare fa necessariamente prevalere la visione plurale e ampia della collaborazione. Forse da qui nasce il legame con i movimenti sociali, nei termini in cui c’è una connessione con la ricerca del bene collettivo. Poi il rapporto tra arte visiva, linguaggio verbale o scritto fa parte dell’esplorazione che è in corso fin dalle avanguardie del XX secolo, e questo non riguarda solo la scena locale, è piuttosto un modo per capire che la costruzione del collettivo implica la disponibilità a entrare in uno spazio di nuove intersezioni che arricchiscono l’individuo e mettono in tensione derivati e paradigmi. L’interdisciplinarità è una zona di tensione che promuove l’indisciplina, se ben proposta. Altrimenti è una risposta che omogeneizza qualsiasi tipo di racconto o narrazione. Tornando al tema dell’istruzione. Come è cambiata dal 2006 a oggi? Ritieni che si sia sviluppata una coscienza un po’ meno capitalista in questo campo? Penso che siamo ancora a un bivio importante. La pandemia ha reso più complessa una scena già stagnante e credo che ci vorrà tempo per colmare le carenze affettive, la mancanza di contatto e di incontro, che sono nate da anni di clausura. L’educazione necessita ancora di miglioramenti sostanziali che siano in dialogo con il mondo che abitiamo. La crisi, o meglio la lettura delle crisi che affrontiamo, fa parte di un esercizio permanente, e forse il campo delle arti contemporanee ha il privilegio di poter osservare e proporre un approccio più denso, che definirei di consapevolezza del mondo e degli enigmi che ci accompagnano.

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IL MUSEO D’IMPRESA CASI STUDIO, BUONE PRATICHE, PROSPETTIVE

Gallerie d'Italia - Torino. Photo Andrea Guermani


FA B I O

Q

SEVERINO

uando parliamo di musei, parliamo certamente di conservazione, educazione e divulgazione; ma parliamo anche (e questo è vero soprattutto per i musei d’impresa) di posizionamento e di comunicazione di una visione: in una parola, di storytelling. Il seguente articolo si pone come obiettivo l’andare a rintracciare i motivi che spingono grandi aziende della moda, dell’automotive, del beverage, dello sport (e non solo) a scegliere il museo come forma per raccontarsi al pubblico. Qual è stata la domanda all’origine? La stessa che già ispirò nel lontano 2007 la pubblicazione Heritage Marketing (F. Severino, M. Montemaggi) per i tipi di Franco Angeli. Ovvero qual è il linguaggio che usa un’azienda quando realizza un museo, che non è il suo campo da gioco? Cosa tale azienda vuole dire, che lingua usa per andare a segno? Il museo è uno strumento distintivo e progressivamente sempre più diffuso – e, permettetemi, nobilitante – per raccontare un’idea (imprenditoriale in questo caso) e il suo modo di realizzarla. Le risposte che scaturirono in quel libro erano: posizionamento distintivo, ampliamento dei canali di dialogo con i propri pubblici, orgoglio per quel che si è fatto e come lo si è fatto. Il museo d’impresa è uno strumento che permette di andare in profondità; è ricco di opportunità (tanto per il suo animatore che per il destinatario) nel raccontare il talento di un innovatore (Ferrari o Armani, giusto per citarne due, non sono altro che quello). Senza ombra di dubbio è un oggetto culturale al pari di ogni altro museo con collezioni storiche o artistiche. In un museo d’impresa, qualsiasi questa sia, c’è del resto sia storia (tanto dell’impresa stessa quanto sociale) sia arte (i prodotti), quanto meno dal punto di vista della capacità innovativa e creativa.

STORIES MUSEI D'IMPRESA

Una creatura particolare, il museo d’impresa. Sta di fatto che aziende come Juventus, Campari, Ferrari scelgono di comunicare i propri valori al pubblico utilizzando la formula museale. In questa indagine, i motivi di una scelta che si rivela vincente

IL MUSEO D’IMPRESA OGGI

Quindici anni dopo, la risposta a quella stessa domanda si è evoluta. Non è un caso che oggi siano molte di più le imprese che hanno realizzato un proprio museo, così come più eterogenee sono le modalità con le quale lo hanno fatto. Alcuni di questi sono stati aperti tanti anni fa, anche venti, come Ferragamo o Ducati, e spesso sono anche cambiati quindi nella “forma”, come il primo dei due ad esempio. Innanzitutto, abbiamo raggiunto una milestone: tutti i musei d’impresa raccontano una storia, essendo dei contenitori. Ma la storia che c’è dietro risulta più evidente che in altre tipologie di proprietà museali.

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COME SONO PERCEPITI I MUSEI D’IMPRESA? UN’INDAGINE DI IZI LAB IZI Lab, divisione di IZI spa, ha realizzato per l’articolo un’analisi social su tredici musei. Con i suoi tools informatici è andata a cercare gli hashtag di queste istituzioni, tre di tipo tradizionale e dieci d’impresa, per vedere cosa ne scrivono le persone. Sono stati presi in considerazioni tre canali: Instagram, Tripadvisor e Google. Il periodo di osservazione va dal 01/01/2023 al 27/11/2023 e i musei ricercati sono stati: Sesto San Giovanni (MI) Modena Galleria Campari Museo Casa Enzo Ferrari Milano Maranello (MO) Museo della Scienza Museo Ferrari e della Tecnica San Cesareo sul Panaro (MO) Museo Horacio Pagani Torino Galleria d’Italia Torino

Bologna Museo Lamborghini Museo Ducati Museo Ferruccio Lamborghini Firenze Galleria degli Uffizi Museo Ferragamo Gucci Garden

Roma Macro

9.249 recensioni 25.163 recensioni 37.309 post I dati delle reazioni ai contenuti Instagram dei musei presi in considerazione dimostrano una relativamente ristretta platea di utenze, ma tanti like in proporzione e un sentiment dei commenti molto positivo

Le emozioni rilevate a partire dalle interazioni con i post dei 10 musei considerati Sentiment per Topic

Topic Emofy

I contenuti dei 10 musei presi in considerazione su Instagram, Tripadvisor e Google

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La variazione del trend del sentiment generale rilevato su Instagram nel periodo di osservazione

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L’emotività è sempre altissima e di valore positivo: “gioia” vince su tutti. Gli Uffizi, per diversi parametri, sono l’unica realtà museale che presenta delle discrepanze rispetto agli altri. Vuoi per i numeri (quasi 5 milioni di visitatori annui, dieci volte il più frequentato dei musei d’impresa, il duo Ferrari) e per la eterogeneità del pubblico: urbano, turista, straniero. Infatti, per gli Uffizi spuntano lamentele e un minor grado di entusiasmo unanime.

Sentiment

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La provenienza di chi scrive recensioni dei musei presi in considerazione

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CONCLUSIONI DELLA RICERCA Come ingaggio all’indagine c’era il capire se, lontani dall’esperienza di visita, ci fossero commenti negativi o più articolati del mero entusiasmo raccolto sul posto. Non è così: il pubblico dei musei d’impresa è fan della marca, della sua storia e dei suoi prodotti. Va alla ricerca del “mito”. Ne trova rappresentazioni autorevoli nei musei come descritto nell’articolo. In fase di giudizio, quei pochi attivi sui social che abbiamo monitorato, manifestano altissima soddisfazione e gradimento dell’esperienza. Lo stesso, seppur con minore plebiscito, si può dire dei musei tradizionali, quanto meno per i tre che abbiamo osservato, un super classico (e campione) gli Uffizi, un originale come il Museo della Scienza, uno piccolo ma di autorevole nicchia come il Macro di Roma.

CHI HA RACCOLTO I DATI IZI spa opera da quasi 40 anni nel mercato nazionale e internazionale dell’assistenza tecnica, della consulenza e della ricerca economica per conto di committenti pubblici e privati. Negli ultimi anni IZI – oltre a rafforzare i settori di assistenza e supporto alla PA – ha sviluppato un nuovo core business nel mondo delle indagini di mercato e del monitoraggio della qualità dei servizi pubblici. In particolare, la passione per la ricerca, i numeri, e il mondo digitale, ha dato vita alla divisione digitale IZILab che dal 2020 coniuga tecniche e metodi di intelligenza artificiale e machine learning con sistemi di ricerca tradizionali per fornire una consulenza su misura su temi quali web reputation, social media analysis e data visualization.


STORIES MUSEI D'IMPRESA

I MUSEI DELL’AUTOMOTIVE IN ITALIA Il settore dell’automotive italiano ha una sua località di riferimento ed è l’Emilia-Romagna. Imprese gloriose sono nate lì e un po’ alla volta hanno aperto il loro musei e le loro fabbriche alle visite al pubblico. Un’efficiente organizzazione di iniziativa pubblico-regionale, la Motor Valley, ne facilita l’accesso. I musei di Ferrari, Lamborghini, Pagani, Ducati e Maserati (quest’ultima per ora solo con la visita alla produzione) sono un viaggio tra brand iconici, oggetti di lusso, tecnologia, sport, società e senza dubbio sogno. Ferrari ha due sedi e un’organizzazione da polo culturale, attrae una quantità di pubblico da capogiro per il semplice fatto di ciò che è e di cosa rappresenta nell’immaginario collettivo. Lamborghini produttore, senza sovrapporsi ai fondatori, con una totale essenzialità mostra le sue auto nel tempo ed è un tripudio all’estetica e alla tecnica. Pagani celebra il suo omonimo artista inventore artigiano che, come un sarto o un gioielliere, crea dei pezzi unici e perfetti. Ducati, uno dei primi musei qui, si racconta soprattutto attraverso i suoi successi sportivi e fa di un enorme casco rosso una sala espositiva e un auditorium, forse per dirci che la testa e la sicurezza sono al centro della bellezza della velocità e dell’ebbrezza sportiva.

La risposta è probabilmente perché la storia da racMuseo Ferrari - Maranello contare è univoca e circoscritta, essendo il promotore di questo genere di musei un’impresa, ovvero un soggetto ben definito, con un’idea, un progetto e un business da perseguire. Altre tipologie di musei – e ne è pieno – rischiano facilmente di essere meno risoluti nel linguaggio e negli obiettivi. Penso ai tanti musei pubblici che spesso faticano a trovare (e quindi a saper raccontare) una propria storia “finita”. Nel senso di avere una propria compiutezza e organicità. Nei musei d’impresa l’identità la fanno i prodotti realizzati, il know-how e IN UN MUSEO D’IMPRESA, la genialità del suo fondatore. QUALSIASI QUESTA SIA, L’inchiesta è iniziata C’È SIA STORIA SIA ARTE, dall’analisi dell’immagine, ovvero come l’imQUANTO MENO DAL PUNTO presa si racconta attraDI VISTA DELLA CAPACITÀ verso l’uso del museo e il INNOVATIVA E CREATIVA percepito del suo pubblico. L’identità è quello che mi sento di essere, l’immagine è quello che dico di me e come lo recepisce il mio destinatario. È emerso un mondo ricco di tante forme di storytelling, scelte comunicative diverse. Il fine, comprensibilmente, è ancora oggi sempre lo stesso: il posizionamento distintivo. È interessante vedere come questo si possa estrinsecare nelle forme più varie. È prezioso aggiungere a questa analisi bottom up ma laterale, anche il percepito del cliente visitatore. Il museo d’impresa si rivolge ai fan di quel brand e di quei prodotti,

l’emozione è forte per tutti i visitatori, le lamentele (pare) infinitesime. C’è così tanto amore in queste visite, sono sempre e comunque delle esperienze intense, anche nelle esposizioni più basiche di prodotto, come nel Museo Lamborghini.

L’INDAGINE DI IZI LAB

Michele Pignatti Morano, direttore dei Musei Ferrari (il top in questo segmento con 600mila presenze l’anno), sottolinea quanto sia inutile fare indagini sui visitatori nel museo, perché questi sono sempre sovraeccitati per dove sono e cosa vedono. La più attendibile misura di gradimento, sostiene Pignatti Morano, la si può trovare invece sui social, nelle metriche di canali terzi. La IZI Lab, società che realizza indagini mercato, ha gentilmente fatto una piccola survey per Artribune con dei propri tools informatici innovativi di rilevazione – i risultati li potete trovare nei grafici alla pagina accanto. L’elemento comune dei vari musei aziendali studiati è che in tutti si racconta la relazione imprenditore/impresa con la società. Si percepisce una richiesta di legittimazione, dolce tutto sommato, anche se il più delle volte è velata di autocelebrazione. Le persone (i dipendenti e i fornitori) e i territori in cui un’impresa produce sono sempre esplicitamente parte integrante di quella esperienza qual è la fondazione di un’attività di successo, edificante per chiunque vi abbia a qualche titolo partecipato.

I TRE TIPI DI MUSEI D’IMPRESA

Per semplificazione raggruppiamo i musei d’impresa in tre tipologie. Vi sono quelli legati al prodotto, con

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MUSEI D’IMPRESA TRA MODA, AUTOMOTIVE E BEVERAGE Moda, automotive e beverage sono probabilmente i tre settori merceologici che da più tempo e in misura maggiore di altri si sono cimentati in questo esercizio di marketing: creare una fedeltà con i clienti (potenziali, reali o semplici fan) facendo leva su un’identità forte (da declamare o da articolare). La moda ha i suoi appeal. È un settore di grande fascinazione creativa, per un pubblico trasversale, ovvero chiunque a prescindere da chi se la compri o se la possa permettere. In più è legata a una figura simbolica e riconoscibile, un genio, lo stilista. L’automotive, invece, ha un pubblico prevalentemente di genere (maschile), ha anch’essa una star – il fondatore, più genio tecnico che artistico – che incarna la tecnologia, simbolo da sempre di progresso, ed è status symbol (al pari della moda). Al beverage, invece, si riconosce meno genialità nell’inventiva creativa, ma non ha limiti di genere ed è veramente per tutti. È ascrivibile a un immaginario collettivo di gioia, divertimento, spensieratezza e socialità. In buona sostanza: a tanti piace la moda, molti amano l’auto, tutti bevono. Un’altra caratteristica dell’impresa moda è il nutrirsi del proprio passato. Mentre l’automotive punta sull’innovazione, sul progresso, sulle prestazioni (tipici valori maschili tra l’altro), sebbene oggi guardi più all’efficienza e alla sostenibilità, la moda reinterpreta invece la sua storia, in un inesauribile dialogo e relazione sociale. Il vestirsi come il muoversi sono società. Il bere più di tutti è divertimento. Per la moda, la propria storia (artistica e sociale) è così importante che tutte le imprese oggi hanno un archivio ben funzionante e altamente utilizzato internamente. Non solo fa parte dell’attività quotidiana degli stilisti – il ripassare cosa si sia fatto in precedenza (loro stessi ma anche gli altri) – ma ancor più in questi ultimi anni sono in gran voga la riproposizione del già fatto e visto, la rivisitazione, l’attualizzazione o anche come semplice kick-off ispirazionale. Qui si coglie una nuance: c’è il vintage e c’è l’heritage. Il primo, potremmo dire, è lo stile e il prodotto di un tempo neanche troppo lontano, in qualche modo rivisto e riproposto oggi. All’heritage invece si può dare la connotazione di qualcosa di storicizzato, che serve per lo più da ispirazione, da cifra stilista, per i nuovi creativi o per la continuità dell’identità aziendale. Diversi musei della moda (per esempio Armani e Gucci) lo mostrano esplicitamente in alcune sale espositive.

intenzioni per lo più celebrative; quelli legati al ruolo sociale, con intenzioni legittimanti. Infine, vi sono quelli legati all’arte, alla sua promozione e divulgazione, quindi con intenzioni filantropiche. Incipit diversi sono lo specchio di visioni aziendali diverse, con un uso differente del marketing, tra l’altro più o meno esplicito perché il museo non sempre vi afferisce. Tutti i musei d’impresa, a prescindere dalla tipologia sopra menzionata, puntano all’awareness distintiva, alla reputazione, alla loyalty di clienti e dipendenti. I musei della moda partono sempre dall’archivio storico, dalla sua esposizione, relativamente pubblica. Vestiti e accessori, fotografie e disegni sono la prima espresNEI MUSEI D’IMPRESA L’IDENTITÀ sione di un museo della LA FANNO I PRODOTTI REALIZZATI, moda. Il loro storytelling ripropone l’approccio IL KNOW-HOW E LA GENIALITÀ delle relative aziende. In DEL SUO FONDATORE altre merceologie la componente celebrativa è legata più al prodotto che al produttore, forse perché questi è una figura ritenuta meno creativa, meno personaggio, almeno dal punto di vista del glamour. Si pensi, per esempio ai settori del beverage e dell’automotive. L’imprenditore (Ferrari, Campari, Lamborghini, Pagani…) è percepito dal pubblico meno creativo e fascinoso, viene rappresentato quindi diversamente.

I musei si dedicano più al racconto dell’azione imprenditoriale nella società e nei territori in cui operano, o hanno operato nascendovi. Si pensi a Ferrari e Campari: storie familiari e di comunità. Hanno meno la star (lo stilista) e più il leader (ahimè quasi sempre maschile). Poi ci sono i musei filantropici, come le fondazioni Prada e Louis Vuitton, che né raccontano né accennano l’azienda stessa. Si promuove l’arte, ovvero la bellezza come ideale sociale e di sviluppo umano. Sono infatti anche dei soggetti giuridici a sé, musei aziendali nei limiti che condividono il nome del brand che lo promuove e sostiene. Il Museo Armani è a cavallo tra i due, non escludo che nel tempo lasci (o porti altrove i suoi prodotti) e si concentri sulla filantropia artistica. Ferragamo ha fatto un’evoluzione del genere. Ha lasciato, dopo qualche anno di apertura, la sua storia cronologica e oggi racconta invece con esposizioni annuali qualcosa di sé ma nel legame con la società e il tempo. Ma al di là di ciò che questi musei della moda hanno deciso di raccontare, come lo raccontano? Ognuno parla con toni diversi, trasmettendo un’identità propria e un’immagine unica. Il digitale in generale è uno strumento non abusato, forse perché l’oggetto, moda o automobile che sia, abbia un’originalità che il museo, nella sua più classica delle funzioni, raccoglie, conserva ed espone al pubblico. Non vi si può rinunciare - giustamente, aggiungerei, quello che la gente cerca è la matericità, ancor prima del racconto intorno. Altri musei, seppur d’impresa, sono intrinsecamente


diversi. Il Museo Juventus è un’iniziativa per il La sede della fabbrica e grande pubblico, che ha come scopo alimentare una galleria Campari a Sesto fede. Il calcio è sport e lo sport è identificazione. Ci si San Giovanni. sente parte di una squadra, spesso simbolo omonimo Photo Enrico Cano di comunità, orgoglio. Diversamente uno stilista lo si adula e comunque rimane qualcosa di lontanissimo. Lo sport richiede affiliazione emotiva, partecipazione continua, fede sanguigna e carnale. Quello che emerge è che i musei d’impresa hanno le idee chiare perché hanno necessità di distinguersi. Ognuno di TUTTI I MUSEI D’IMPRESA, fatto racconta pezzi diA PRESCINDERE DALLA versi di sé (o anche TIPOLOGIA, PUNTANO tutt’altro come le imprese filantropiche), con ALL’AWARENESS DISTINTIVA, ALLA uno storytelling fatto REPUTAZIONE, ALLA LOYALTY DI molto di “cose”, di materia, e poco di “immagini”, CLIENTI E DIPENDENTI perché i sogni – almeno lì – vanno “toccati”. I pubblici sono numerosissimi perché a caccia di amore. L’amore oggi sta nel consumo, nel desiderare di avere, per essere, per identificarsi o farsi riconoscere. Ci si veste per piacere o per farsi notare. Si scelgono le auto per sentirsi liberi, col proprio stile. Si beve per stare con gli altri, per abbassare freni inibitori, per gusto. Settori diversi (moda, automotive, beverage, sport, credito…) partono tutti dalla stessa origine e con giri diversi giungono tutti allo stesso punto di arrivo. Essere considerati come essi si sentono, come del resto ogni essere umano: unici.

Prendiamo in considerazione i musei di quattro imprese di rilevanza nazionale e non solo: Italgas, Intesa Sanpaolo, Campari e Generali. Italgas ha scelto di posizionarsi puntando sulla “ricostruzione” della propria storia come testimonianza di uno spaccato di società. Rendere fruibile il suo archivio di 3km di documenti (per lo più amministrativi e commerciali) – anche frutto di tante acquisizioni societarie nel tempo, con conseguente presidio in tanti territori d’Italia – ha significato poter raccontare una propria idea di Paese. Lo storytelling, in questo caso, è la digitalizzazione dei documenti, la loro fruibilità è online o esperienziale presso la sede del museo. La digitalizzazione (ancora in corso) punta sull’innovazione, grazie a macchinari e know-how raro, a tal punto che li “prestano” ad altri archivi d’impresa che stanno chiedendo loro di aiutarli a raccontarsi. Intesa Sanpaolo col suo imponente progetto Gallerie d’Italia e le sue diverse sedi, è partita dalla quasi ostentazione della sua potenza economica, esibendo il patrimonio artistico posseduto (quadri per lo più), arrivando poi a recuperare e aprire al pubblico sue sedi monumentali. Ha trasformato enormi cubature in disuso in zone centralissime delle città in location straordinarie, ampliando altresì i contenuti esposti ad altre forme d’arte. Sicuramente l’iniziativa più innovativa è quella di Torino, dedicata alla sola fotografia e alle committenze site specific. Campari, nell’immediata provincia milanese, in un’atmosfera suggestiva tra fabbrica storica e la rivisitazione di Mario Botta, ammalia il suo pubblico con la sua centenaria comunicazione commerciale (curata nel tempo da artistici magnifici, primo fra tutti Depero) contestualizzandola col suo territorio di appartenenza. Gruppo Generali ha una fondazione sociale dal nome poco marketing The Human Safety Net. Recentemente ha deciso di riaprire una parte delle Procuratie Vecchie a Venezia con un museo esperienziale. Con un bel progetto di recupero dell’archistar sir David Chipperfield (Pritzker Prize 2023) si sono inventati di raccontare l’essere umano attraverso il suo potenziale, con un percorso di esercizi e prove-gioco personali, che conducono il visitatore a conoscersi e a capire il prossimo.

STORIES MUSEI D'IMPRESA

IL CASO DI ITALGAS, INTESA SANPAOLO, CAMPARI E GENERALI

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IL PARERE DEI MUSEI 1

Chi è il visitatore del vostro museo d’impresa?

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Cosa si aspetta il visitatore dal vostro museo d’impresa?

ANITA TODISCO CURATRICE GALLERIA CAMPARI La varietà del pubblico di un museo d’impresa è determinata dalla trasversalità di temi che esso permette di evocare, dai molteplici tagli che possono essere dati al percorso di visita e dalla inevitabile diversità di discipline implicate nella narrazione del marchio. Nel caso di Galleria Campari vengono ospitati gruppi di studenti universitari, gruppi aziendali per percorsi di team building, dipendenti di Campari Group da tutto il mondo per formazione sulla storia dell’azienda, partner commerciali dell’azienda, media e PR, addetti ai lavori (bartender), associazioni culturali, tour operator, pubblico generico. Le provenienze sono varie, con una preponderanza di visitatori provenienti dal territorio di riferimento. Sicuramente si aspetta di scoprire di più sul marchio, di come questa storia e questa memoria siano rilevanti oggi e di cosa sia Campari Group ai giorni nostri. La visita in Galleria permette di immergersi in tante storie, vive e reali, che costituiscono l’universo Campari: dell’arte, della pubblicità e del design, ma anche dell’imprenditoria, di un territorio e ovviamente della società, degli usi e dei costumi dal 1860 a oggi, dei modi di stare insieme e della convivialità che ruotano attorno a un rituale come quello dell’aperitivo Campari. Speriamo che il visitatore possa apprezzare l’azienda che si apre all’esterno, si racconta, dà accesso alla sua memoria e attualità, a un dietro le quinte unico. L’auspicio più importante è che il visitatore possa poi fare tesoro di questi racconti per un consumo più consapevole, responsabile e informato, avendo fatto proprie storie e informazioni uniche rispetto alla cultura del prodotto e alla sua storia, diventando parte e testimone di una visione di imprenditoria di valore e lungimirante partita oltre 160 anni fa. Le attività di Galleria Campari (visite guidate, masterclass, conversazioni, mostre temporanee e molto

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Cosa vi aspettate dal vostro visitatore?

altro) puntano a rendere il patrimonio aziendale accessibile e attuale. Con un museo di impresa si apre infatti un dialogo non nostalgico con il passato, si crea un filo rosso tra i visitatori di oggi e chi commissionò e creò il materiale d’archivio, rafforzandone le visioni originarie. Si evidenza al grande pubblico come molti valori di Campari abbiano attraversato il tempo arrivando fino ai giorni nostri, attualizzati ma allo stesso tempo immutati. Il messaggio è affidato a oggetti, documenti, immagini, fotografie, filmati: un patrimonio unico, espressione di cultura e di creatività, che offrono un racconto della storia produttiva e imprenditoriale del nostro Paese. La direzione verso la quale si muovono queste realtà, e l’Associazione Museimpresa che li coordina, è quella dell’innovazione nella creazione di percorsi che rappresentino sempre più delle vere e proprie esperienze. Le storie imprenditoriali vengono spesso raccontate attraverso strumenti multimediali, i percorsi si fanno sempre più articolati e densi di contenuti. Un’altra tendenza è quella di costruire connessioni tra i vari Musei di Impresa creando veri e propri circuiti museali che coinvolgono i territori di riferimento con iniziative che vanno al di là delle esposizioni permanenti: eventi, convegni, presentazioni, attività comuni, costruendo sempre più progetti in collaborazione con Enti e istituzioni formative e culturali. La visione, e l’auspicio, è che gli Archivi di impresa siano sempre più centri di ricerca e produzione culturale, vere e proprie opere d’arte da attivare in modo rilevante e integrato per promuovere l’esperienza di tanti saperi, storici e attuali.

STEFANIA RICCI DIRETTRICE MUSEO FERRAGAMO La mission del Museo Ferragamo non è solo quella di raccontare la storia del fondatore Salvatore Ferragamo e dell’azienda ma anche di comunicare i valori su cui si è fondata ed esprimere l’apertura e l’interesse del marchio verso gli aspetti più significa-

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In che modo l’impresa utilizza il suo museo aziendale?

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In che direzione devono andare i musei d’impresa?

tivi della contemporaneità. A tal proposito, molteplici sono le tipologie di visitatori che frequentano il museo: i dipendenti dell’azienda e le rispettive famiglie, chi vive nel territorio dove l’impresa opera, scuole e università, appassionati di moda e di storia del costume e infine turisti, essendo l’impresa Ferragamo e il suo museo radicati in una città come Firenze che registra un numero elevato di presenze turistiche. Il visitatore si aspetta di conoscere e approfondire la storia dell’impresa, i valori fondanti ma anche vuole capire quale è il suo orientamento verso il futuro e verso i suoi stakeholder. Desidera essere guidato nell’approfondimento dell’heritage del marchio e sempre più coinvolto in modo interattivo: il museo non è dunque solo un luogo di esposizione di oggetti, ma anche uno spazio in cui il percorso espositivo deve generare emozioni, riflessioni e, perché no, occasione di intrattenimento. Grazie alle sue attività, che mettono in connessione passato e presente e ambiti diversi (dalla moda all’arte, al design, alla storia economica e sociale), il Museo Ferragamo si aspetta una sempre maggiore affluenza di visitatori e diversificazione tipologica, un coinvolgimento interattivo del pubblico, che in questo modo diviene attore del percorso espositivo e strumento di comunicazione diffusa dei valori del marchio Innumerevoli sono le funzioni di cui viene investito un museo d’impresa come il Museo Ferragamo. Il museo è uno strumento fondamentale di comunicazione della storia dell’impresa e dei suoi valori. Dimostra la durabilità nel tempo del marchio che rappresenta, la sua coerenza, il suo definito DNA. Agisce come strumento di formazione sui contenuti dell’heritage dell’impresa presso i dipendenti, i fornitori, tutti coloro che lavorano per e per conto dell’azienda, le scuole, e le università, il territorio in cui opera. È il luogo della ricerca e dell’innovazione, traendo spunto e ispirazione dalla storia passata dell’impresa.


KATYA CORVINO RESPONSABILE HERITAGE LAB ITALGAS Il visitatore tipo è laureato, risiede nel Nord Italia e ha un’età compresa tra i 30 e i 44 anni. È un utente appassionato di storia, cultura e arte, ed è motivato dal desiderio di conoscere il processo produttivo, le innovazioni e la storia dietro al prodotto. Questo vale per molti musei e archivi d’impresa, ma non sempre per Heritage Lab, che rappresenta un caso unico di laboratorio e insieme museo, dove l’oggetto dell’esposizione è il lavoro degli operatori e delle operatrici della digitalizzazione complessiva del patrimonio culturale Italgas. Non c’è un prodotto iconico da ammirare, ma un processo da conoscere. I nostri visitatori sono principalmente scuole e università, delegazioni aziendali, ricercatori e cittadini che accedono al museo per tour guidati nei laboratori o in occasione di incontri, talk e workshop. I visitatori di un museo di impresa si aspettano di avere un’opportunità di approfondimento e di conoscenza di un prodotto o di un processo produttivo. In Heritage Lab abbiamo voluto dar vita a un tipo di fruizione che si inserisce nel percorso di trasformazione digitale di Italgas. Lo spazio di Heritage Lab è quello di un museo digitale che permette però una visita estremamente concreta all’interno di una vera e propria linea di produzione, nonché della sua storia e della sua evoluzione. Il sentimento che più registriamo dai nostri visitatori è lo stupore. Stupore e meraviglia per un progetto che appare avveniristico e innovativo. Come Heritage Lab, ci aspettiamo che il nostro pubblico sia interessato e coinvolto nell’esposizione, che possa scoprire ed apprezzare la storia e il contributo dell’azienda e che possa diventare a sua volta ambasciatore dei nostri valori. Soprattutto con il coinvolgimento delle scuole, il nostro obiettivo è di stimolare una riflessione sui valori di sostenibilità, impatto dell’azienda nella società, ma anche educare alla corretta

consultazione delle fonti in rete, che provengano dai siti, social, o da supporti diversi, in considerazione anche delle nuove frontiere che stiamo esplorando grazie all’AI. La creatività è spesso sinonimo di disposizione di elementi noti in combinazioni nuove. Conservare oggetti, disegni e progetti nel corso della storia aziendale significa costruire l’archivio storico del futuro che verrà riscoperto per comunicare, consultare, rivedere e soprattutto creare idee nuove con suggestioni che vengono dal passato. Questo accade in Heritage Lab, museo-laboratorio che è strumento di comunicazione e ispirazione per Italgas, ma anche luogo di consolidamento dei valori e dell’identità aziendale, nonché della relazione interna con i dipendenti e del rapporto con territorio e comunità. Non vi è un’unica linea di sviluppo. In generale, crediamo che i musei d’impresa debbano sempre cercare strategie di narrazione nuove adattandosi alle tendenze culturali e tecnologiche emergenti per rimanere rilevanti e attraenti nel tempo, con programmi educativi che mirino all’edutainment. Quello che stiamo constatando in Heritage Lab è che è opportuno recuperare una dimensione materiale di fruizione dell’oggetto, specialmente con i bambini. Le nuove generazioni, nate in un ambiente che è digitale di per sé e sempre connesso, provano forse più stupore dall’interazione fisica con un misuratore del gas che dalla navigazione del suo modello virtuale. Il prossimo passo di Heritage Lab potrebbe essere quello di diventare una grande wunderkammer che espone oggetti fisici e digitali, in grado quindi di restituire una doppia fruizione.

PAOLO GARIMBERTI PRESIDENTE MUSEO JUVENTUS Il visitatore dello Juventus Museum è prevalentemente un appassionato di calcio e in particolare della Juventus. Solo una piccola parte del nostro pubblico (circa il 13%) dichiara di non essere tifoso della Juventus, né appassionato di calcio. È prevalentemente di sesso maschile e ha un’età compresa tra i 35 e i 50 anni. La provenienza è trasversale da tutto il territorio nazionale, coerentemente con la distribuzione dei nostri tifosi. Una percentuale non trascurabile (5%) però è rappresentata dal pubblico stra-

niero che si concentra prevalentemente nei periodi estivi. Vuole capire com’è nata l’impresa, a quali principi si ispira, quali sono le finalità e gli obiettivi. Conoscere il passato per capire il presente e il futuro. Ad esempio, nel nostro museo è conservata la panchina sulla quale sedevano gli studenti del liceo D’Azeglio che fondarono la Juventus nel 1897. Il nostro pubblico si aspetta il racconto della storia del Club, attraverso oggetti, immagini, testimonianze e di vedere rappresentati i suoi protagonisti. In realtà, oltre a tutto questo, poi trova molto di più, essendo il nostro un Museo in cui si racconta anche lo storia del calcio nazionale e più in generale di un intero Paese.

STORIES MUSEI D'IMPRESA

I musei d’impresa devono nel tempo essere sempre meno autoreferenziali e diventare un modello culturale al pari delle altre istituzioni, uno strumento dinamico di conoscenza e di apertura verso tematiche e riflessioni che coinvolgono la società contemporanea e la comunità in cui il museo opera.

Che diventi più partecipe alla vita dell’impresa. Alcuni visitatori vogliono approfondire ogni contenuto, sono curiosi, attenti, informati e impiegano anche due ore o più per visitare il nostro spazio di 2.000 mq. Altri, invece, impiegano molto meno tempo, soffermandosi solo sui contenuti di loro interesse. Per questo motivo, e veniamo alla domanda, non ci aspettiamo nulla di particolare dal nostro pubblico, dobbiamo anzi essere bravi noi ad intercettare e soddisfare ogni loro esigenza o aspettativa, per quanto a volte molto diverse tra loro. Il Museo per la Juventus è certamente anche un prodotto di natura economico-commerciale: si autofinanzia e anzi riesce da sempre a generare utili netti. Ma la sua valenza principale è di tipo istituzionale: rappresenta un vero e proprio asset a disposizione degli stakeholders e shareholders di Juventus. Serve per eventi, per creare rapporti con altre imprese del settore e del territorio, non da ultimo per celebrare le vittorie sul campo e gli anniversari significativi. E per valorizzare al meglio il proprio Museo ogni azienda deve prima capire l’importanza del concetto di heritage. La nuova sala che raccoglie tutti i trofei vinti dalla Juventus (Trophy Temple), inaugurata di recente, adempie proprio a questa funzione. Oggi non basta più raccontare la propria storia, visto che è disponibile su qualsiasi portale web. Bisogna saper coinvolgere il visitatore, sorprenderlo, intrattenerlo e, soprattutto, farlo emozionare. In questo il ruolo della tecnologia e dei supporti multimediali è primario.

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IL DIVERTIMENTO RIBELLE L’ALTRO VOLTO DEL 1978

Photo Gian Paolo Barbieri


GIULIO

I

STORIES 1978

Un anno passato alla storia per avvenimenti tragici ma che cela un fervido clima culturale: 1978 fa rima certamente con terrore e Brigate Rosse, ma anche con Raffaella Carrà, femminismo, Ugo Tognazzi e diffusa voglia di rompere gli schemi. Un anno che fu uno snodo creativo SOLFRIZZI

l 1978 è un anno che sintetizza la dualità di una decade al contempo tesa e rassicurante, paurosa e sognante, tradizionalista e all’avanguardia. I programmi scolastici oggi non l’affrontano perché non c’è tempo, ma prodotti recenti come il film Esterno Notte di Marco Bellocchio e il documentario Raffa (disponibile su Disney+), che racconta la vita e la carriera di Raffaella Carrà, possono offrire scorci di storia e cultura tanto recente quanto ancora poco assimilata; prodotti che mostrano il 1978 nelle sue contraddizioni, nel suo essere sì un momento di terrore, ma anche di voglia di divertirsi e di cambiare, in un’Italia diventata irriconoscibile. Un anno di snodo.

IL RAPIMENTO MORO, LE BRIGATE ROSSE E IL TERRORISMO

Partiamo, però, con ordine. Si parla di paura e incertezza quando si pensa al ‘78 perché un’organizzazione militante ed eversiva di estrema sinistra, chiamata Brigate Rosse (BR), smosse il Paese sequestrando e uccidendo Aldo Moro, fondatore del partito Democrazia Cristiana ed ex Presidente del Consiglio dei Ministri. Tra il 1970 e il 1987, le BR intrapresero una propaganda armata contro il capitalismo, colpendo i bersagli che lo rappresentavano e svolgendo una serie di azioni terroristiche. Le vittime, infatti, spaziavano da docenti universitari a passanti, esercitando con violenza il loro ideale di Italia che a molti fa paura tutt’oggi, sebbene non sia stato mai concretizzato. Le Brigate Rosse sono state anche altro prima di essere tali. Il cosiddetto autunno caldo, quello del 1969, funge da punto di svolta per gli operai che si riunivano in collettivi politici alternativi alle organizzazioni sindacali: la lotta armata sembra possibile così come tanto altro. La stessa lotta a cui si pensava durante alcuni incontri di un gruppo milanese della sinistra extraparlamentare, il Collettivo Politico Metropolitano (CPM), che riuniva piccoli collettivi locali di operai e studenti di Milano. E la stessa lotta armata a cui si incominciava a credere dopo la bomba a Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, nel centro del capoluogo lombardo, e le due bombe scoppiate contemporaneamente a Roma. I responsabili di questi attentati terroristici per alcuni appartenevano ai gruppi della sinistra extraparlamentare e per altri ai gruppi di estrema destra, aiutati dai servizi segreti di Stato. Quella lotta, infine, vibrante nei movimenti giovanili del '77, che nell'ottobre 1978 Giorgio Gaber accusa di velleitarismo dal palco del Teatro Duse di Bologna, nel suo spettacolo Polli d'allevamento, poi diventato un album.

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RAFFAELLA CARRÀ E LA VOGLIA DI LIBERTÀ

In quel momento, confusionario e inaspettato a pochi anni dalla chiusura con il fascismo – che è ritornato d’attualità il 7 gennaio 2024 per commemorare i morti di Acca Larentia a Roma com’è usanza fare dall’anno dell’omonima strage, proprio il 1978 – si incominciò a parlare di “strategia della tensione”. Noi non la affronteremo da un punto di vista politico, ormai storico, come fece un giornale britannico che introdusse l’espressione per definire azioni mirate a provocare e incolpare la sinistra italiana, dove il partito comunista era politicamente legato al blocco sovietico. Piuttosto, parleremo della tensione dell’animo di artisti e cittadini, eccitati culturalmente a tal punto da cambiare, nel loro piccolo, la società. Tra questi, Raffaella Carrà fu sicuramente la più democratica, perché le sue intenzioni non erano difficili da comprendere: lei scelse il linguaggio dei costumi e del piccolo schermo. Ma che sera è, infatti, il programma televisivo con cui ritorna in Italia dopo una pausa trascorsa in Spagna. Il caso ha voluto che la Rai mandasse in onda le puntate, già registrate, dal 4 marzo al 22 aprile 1978, durante i giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. E proprio in occasione di quel varietà, Raffaella Carrà decise di contrastare l’austerità di un’Italia pronta ad ascoltarla tra Luca, una canzone che parla del suo amore per un ragazzo omosessuale, il ritornello “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù” e il balletto in abito da suora sexy del costumista Luca Sabatelli, che indignò la Chiesa. Banalità oggi (o no?), ma al tempo la

Raffaella Carrà nell'abito da suora sexy disegnato da Luca Sabatelli. Ma che sera, 1978

sessualità non era un tema su cui si sensibilizzava in prima serata. Il programma venne poi chiuso con anticipo, poiché ritenuto inopportuno in quel momento. Eppure, a guardarlo furono in media 27 milioni di italiani, che in un modo o nell’altro ascoltarono qualcosa di libero.

IL 1978 TRA CINEMA, MUSICA, ARTE E DESIGN

Quella libertà d’espressione venne ricercata anche altrove dagli stessi italiani. Alle urne trionfò il diritto all’aborto, considerato reato dal codice penale fino al 22 maggio del 1978; nelle sale vinse Il vizietto con Ugo Tognazzi, il film italiano più visto di quell’anno, che affrontava in maniera sottile e attraverso la comicità l’accettazione dell’omosessualità e gli stereotipi legati a questa. Ma parlava anche di “famiglia, tradizione, matrimonio in bianco e benedizione del Papa” per nascondere il caso fittizio del presidente di un partito conservatore che muore nelle braccia di una prostituta minorenne e afrodiscendente: temi, tabù e paure che accomunano anche una parte dell’attuale classe politica. Della stessa libertà d’espressione c’era traccia nell’album Zerolandia di Renato Zero, che cantava “sai è difficile farlo con me” nella canzone Triangolo mentre indossava una tutina gialla attillata e sfoggiava un trucco glitterato. Renato, d’altronde, è stato un personaggio coraggioso, che ha avviato discorsi su cosa fosse “maschile” e cosa “femminile”, provocati dall’abbigliamento e dall’atteggiamento di un uomo che ricordava, a modo proprio, gli internazionali David Bowie e Mick Jagger. Le piume e gli


1 GREASE (R. Keisler) 1.842.000

2 IL VIZIETTO (E. Molinaro) 1.549.000

3 SUPERMAN (R. Donner) 904.000

4 IL PARADISO PUÒ ATTENDERE (W. Beatty, B. Henry) 786.000

5 AMORI MIEI (Steno) 711.000

6 IL CACCIATORE (M. Cimino) 690.000

7 PARI E DISPARI (S. Corbucci) 662.000

8 LA CARICA DEI 101 [riedizione]

(W. Riethermann, H Luske, C. Geronimi) 650.000

9 ASSASSINIO SUL NILO (J. Guillermin) 617.000

10 DOVE VAI IN VACANZA (M. Bolognini, L. Salce, A. Sordi) 602.000

Dati raccolti in 16 città capozona. Fonte: “Giornale dello Spettacolo”

STORIES 1978

IL BOX OFFICE ITALIANO NELLA STAGIONE 1978/79

abiti da scena circensi, i testi provocatori e le vocine, erano espedienti per stuzzicare un pubblico che rischiava di essere assuefatto da contenuti intonsi e unilaterali, figli di una televisione che non offriva molte vie di fuga. L’arte, invece, cosa raccontava? Di monocromaticità, molto diffusa negli Anni Settanta, e di “disseminazione”, quindi della rottura del quadro in frammenti collocati su parete, come fece l’artista Pino Pinelli, tra i protagonisti della corrente che lo storico dell’arte Filiberto Menna definì pittura analitica. Una tipologia che ricorda una società, quella italiana, frammentata a causa di avvenimenti LE BOMBE E GLI che prescindevano dal ATTENTATI, I RAPIMENTI libero arbitrio, e per questo provocavano tenE LE UCCISIONI, CHE sione. Ma il mondo RIMANGONO ELEMENTI dell’arte italiano, tra gli anni Settanta e Ottanta, FONDAMENTALI NELLA travolto anche NARRAZIONE DI QUELLA fu dall’Arte Povera di GerDECADE, HANNO FORSE mano Celant e dalla DISTOLTO L’ATTENZIONE Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, pur DALLA RIBELLIONE conservando alcune istanze della Pop Art. CULTURALE CONTRO Ercole Pignatelli è uno VISIONI, IDEE E TEORIE dei rappresentati di quePREDEFINITE sto movimento artistico, che sembra manifestare insieme all’operato di Pinelli una certa volontà di ribaltare ciò che era arte nella mente di tutti fino ad allora. Attenzione, però, a parlare di “divertimento”, perché il pittore della disseminazione e della monocromaticità dissente: “era una sofferenza essere un artista, perché si era consapevoli di essere prigionieri del monocromo e perché non si voleva essere dei semplici seguaci, ma fare qualcosa di proprio che dimostrasse la passione per l’arte contro il tempo”.

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LA MOSTRA FEMMINISTA ALLA BIENNALE DI VENEZIA DEL 1978 Anche nelle istituzioni del mondo dell’arte il 1978 ha significato un momento di ribellione allo status quo e rivendicazione dello spazio femminile. Nell’ambito della 38esima Biennale di Venezia, l’artista e poetessa Mirella Bentivoglio cura la mostra Materializzazione del linguaggio (Magazzini del Sale, 20 settembre – 15 ottobre 1978). Concepita come la narrazione del “rapporto fra la donna e il linguaggio” e dedicata all’operato di 80 artiste internazionali, la rassegna fu il risultato di sette anni di ricerca di Bentivoglio e si dimostrò un trasgressivo insieme di materiali eterogenei e di pratiche individuali e collettive: a partire da volumi di poesia e prosa sino a libri d’artista, performance, video, disegni, grafiche, appunti e tanto altro. Il filo conduttore era, anche, il rifiuto del patriarcato, oltre all’autorappresentazione in un clima di conquiste e di aspirazioni. Chi era Mirella Bentivoglio Nata nel 1922 a Klagenfurt (Austria), l’artista e poetessa ha vissuto a Roma. Il suo lavoro si è concentrato sulle poetiche verbo-visuali, trattando di poesia concreta e poesia visiva, tra composizioni con parole e immagini, collage e tecniche grafiche. Si è anche occupata di poesia-oggetto, che consiste in interventi linguistici su oggetti e ambienti. Ha curato iniziative di arte al femminile, pubblicato monografie, poesie e saggi, e condotto ricerche sulle artiste del Futurismo italiano. È morta nella Capitale nel 2017. Il design non era molto distante da quell’apparente necessità di ribaltare tutto per un mondo diverso, artisticamente parlando. Alessandro Guerriero, infatti, lo fa fondando nel 1976, insieme alla sorella Adriana, l’atelier di progettazione e design Studio Alchimia, il primo gruppo di progettisti-produttori che ha lavorato confrontandosi e che oggettivizzò le idee della post-avanguardia italiana concependo “sia uomini sia donne in uno stato turbolento e sbilanciato” e credendo UNA RIBELLIONE PACIFICA E MAI VIOLENTA, nell’importanza della memoria e della tradiGRAZIE A CUI ALCUNI ARTISTI HANNO zione, prive della retoPERSINO RIMOSSO DALLA PROPRIA MENTE rica che in quel decennio aveva imperato. Il gruppo IL TERRORE DI QUEL PERIODO, FACENDO si è sviluppato, come si DELL’ARTE UN ANTIDOTO E AL CONTEMPO legge sul manifesto uffiUNO STRUMENTO ciale, in “un periodo di transizione in cui [gli uomini] sono attanagliati da una paura indefinita derivante dalla perdita di molti valori un tempo considerati assoluti. Ritrovarsi è essenziale, e Alchimia lavora su quei valori considerati negativi: sulla debolezza, sul vuoto, sull’assenza di essere e sulla profondità, che oggi passano in secondo piano rispetto a ciò che è in superficie, pieno e violento, come cose da eliminare”.

I DUE VOLTI DEL 1978

Questi esempi, che non sono eccezioni, forniscono una visione alternativa a quella lugubre del 1978. Le bombe e gli attentati, i rapimenti e le uccisioni, che rimangono elementi fondamentali nella narrazione di quella decade, hanno forse distolto l’attenzione dalla ribellione culturale contro visioni, idee e teorie predefinite. Una ribellione pacifica e mai violenta, grazie a cui alcuni artisti con cui abbiamo dialogato hanno persino rimosso dalla propria mente il terrore di quel periodo, facendo dell’arte un antidoto e al contempo uno strumento. Una ribellione presente persino nell’elezione di un ex partigiano, Sandro Pertini, come Presidente della Repubblica, rendendo il 1978 un anno da ricordare e ancora da studiare per tutto quello che ha rappresentato.

PINO PINELLI Pittore e docente

“Il tempo passa e non pensi sempre agli anni Settanta, ma fu un periodo di sviluppo e crescita per me grazie al premio San Fedele. Il mio approccio artistico non era ancora del tutto definito, ho imparato sul campo tra lo studio e l’insegnamento. Ricordo la mia mostra personale a Roma, dove ho conosciuto lo storico dell’arte Filiberto Menna con cui sono diventato amico. In quel periodo usavo la pelle di daino nei miei dipinti, sentivo la necessità di stendere la mano per far sì che anche la pittura si facesse toccare. Ero, però, vittima del monocromo, che al tempo andava molto. Vivevo questo con una certa ossessione cercando nuove vie. Alla fine, la vita del pittore è un po’ disperata: cerchi, vai in studio ma non sai cosa vai a fare. Ricordo anche quando muovevo i frammenti del mio rettangolo tagliato, ma pensavo a come andare oltre la dimensione del quadro”. GIAN PAOLO BARBIERI Fotografo

In quanto fotografo, il 1978 ha assunto un significato diverso per la tua arte? Già da qualche anno mi recavo alle Seychelles, avevo iniziato una ricerca artistica in quelle terre, dove cercavo di rifugiarmi e ritrovare me stesso. Ma non potevo sottrarmi completamente a ciò che accadeva in Italia. La mia creatività ha avuto massima espressione anche grazie agli incontri con stilisti come Versace, Saint Laurent, Tivioli, Lancetti... per nominarne alcuni con cui ho collaborato e dato vita a un periodo di tanta sperimentazione: dall’utilizzo di nuovi materiali, come le plastiche colorate e il plexiglass, all’azione


Che ricordi hai da un punto di vista artistico di quell’anno? Ricordo una mostra che ebbe luogo a Roma in quell’anno, Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini, inaugurata alla storica Galleria dell’Oca. Ero a Roma per un lavoro di moda e per caso mi ritrovai a visitarla. Mi aveva colpito per l’accostamento tra i lavori di Mario Merz e i principali pittori italiani del Novecento. Aveva suscitato in me tanto scalpore in quanto era riuscita ad abbattere barriere stilistiche, cronologiche e persino ideologiche, facendo convivere un interprete delle Neoavanguardie con artisti che avevano reso incandescente la pittura italiana della prima metà del XX secolo. Ha avuto effetti sulla tua carriera o sul tuo processo creativo? Sicuramente sì, anche se più inconsciamente. Il turbinio di emozioni, scosse e idee che mi hanno condotto a quel tipo di produzione sono state condizionate da ciò che il mondo viveva. Soprattutto dal punto di vista artistico si è innescato un interesse nelle neoavanguardie che mi ha portato ad apprezzare sempre di più Merz, tanto da inserire dei tributi al suo lavoro in alcune delle mie foto realizzate per Gianfranco Ferré. Le viene in mente un’immagine precisa, sua o meno, quando pensa al 1978, magari scattata in quell’anno? Ricordo un servizio che realizzai per Vogue Italia in Venezuela. Ero con Laura Alvarez e dovevamo scattare delle pellicce, l’editoriale si chiamava Pellicce Selvagge. Mi ero “fissato” affinché la modella diventasse un tutt’uno con la pelliccia, proprio come se fosse il suo manto. Cercavo di farla mimetizzare nella natura, tra gli alberi e le piante, le truccavo il volto in base ai colori del manto e la invitavo a muoversi tra le foglie proprio come se fosse nel suo habitat naturale. Mi è a cuore lo scatto nel quale è arrampicata su un albero. Mi ero ispirato al dipinto di Segantini Le cattive madri. Si potrebbe parlare di ‘divertimento ribelle’ nel 1978? Assolutamente sì. Il 1978 ha visto emergere un divertimento ribelle in molte

forme d’arte, compresa la fotografia. L’arte è un mezzo attraverso il quale esplorare e contestare lo status quo. La creatività si mescolava con l’impegno sociale e questo connubio dava vita a riflessioni sulla società e sulla relazione con essa.

che io ho iniziato a fare le contro-lezioni circa nel 1968, quando frequentavo la facoltà di Architettura. GABRIELE MAYER Costumista

ALESSANDRO GUERRIERO Designer

Nel 1976 hai fondato Studio Alchimia. La tua attività ha mai risentito di quel periodo? La mia attività da progettista si viveva come un passero solitario, perciò no. Noi, d’altronde, lavoravamo sulla superficie delle cose. Ne ho invece risentito nel privato, perché facevo parte in quel periodo del Partito Comunista. Ho letto sul manifesto di Studio Alchimia questa frase: “sia uomini sia donne [sono] in uno stato turbolento e sbilanciato, le loro vite sono caratterizzate da dettagli”. Il nostro era un riferimento generico, in quanto ci ribellavamo al bel design. Ad esempio, quell’anno lavorammo a delle stoffe dedicate allo sterminio della comunità Maya in Guatemala. Come descriveresti il vostro modo di fare design all’epoca? Partivamo da un titolo, poi passavamo al testo e infine agli oggetti. Un approccio più da scrittore o da poeta. In un periodo di cambiamento nella vita quotidiana di tutti, anche di coloro che non volevano cambiare in nulla, ciò che creavi trovò maggior senso? Non credo. L’attenzione dei media italiani era minima nei nostri confronti, perché i riflettori erano sempre su chi pubblicizzava sui giornali. Ci descrivevano come dei matti che facevano cose, e infatti mi disperavo quando, quelle rare volte, acquistavano nostre creazioni. Non sapevo come fare. E secondo te si può parlare di divertimento ribelle in relazione al 1978? Divertirsi è una parola da utilizzare con cautela [ride], perché ci relazionavamo ad un mondo contrario al nostro. Pensa

STORIES 1978

che coinvolgeva i modelli nei miei scatti. Ricordo un passaggio fondamentale della mia vita: conobbi Gianfranco Ferré che in quell’anno seguì la sua prima campagna da stilista per Baila dei Mattioli. Da quel momento, oltre a ritenerci complici sul lavoro, ci riconoscemmo amici.

Cosa facevi nel ‘78? Molto cinema, teatro e televisione. Ma non so perché, ricordo bene un locale dove quell’anno si riunivano le femministe a Roma, nella zona doveva viveva un mio caro amico. La moda degli anni Settanta di cosa trattava in Italia? Per la produzione del cinema e del teatro, gli argomenti erano quelli che si trattavano nella quotidianità. Mi viene in mente il film La classe operaia va in paradiso, più o meno di quel periodo, e Il vizietto. Però nella mia carriera quell’incertezza e quel terrore non hanno causato qualcosa di negativo; anzi, hanno stuzzicato scrittori e autori. Sono stati, il terrore e l’incertezza, un mezzo che i creativi hanno usato per contrastarli. So che hai lavorato anche con Sabatelli, il costumista di Raffaella Carrà in Ma che sera, programma televisivo del 1978 molto contestato. Che ricordo ne hai? Io ricordo la libertà di quel periodo. Tra gli anni Settanta e Ottanta si è fatto la qualunque, dalla droga al divertimento. C’era la possibilità di fare tutto e ci si divertiva. Si può parlare, quindi, di divertimento ribelle? Certo, era una formula per sdrammatizzare. E Raffaella, con cui hai lavorato, ha rivestito un ruolo culturale per gli italiani in quel famoso anno? Non direi. Lei era un personaggio che univa tutti captando gli interessi del pubblico, senza prendere le parti di qualcuno e senza mai essere volgare. Gli abiti che creavo per lei non erano da star, piuttosto erano fatti per la sua persona. Ricordi la camicetta semitrasparente nera che indossò per intervistare Madre Teresa di Calcutta in diretta tv?

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IL 1978 SULL’ASSE DEL TEMPO

LA MODA ITALIANA NEL 1978 “Ogni fatto storico, ogni grave crisi si riflette nella moda; qualcosa ti resta dentro anche se non ne sei cosciente, e sono convinto che la moda militare delle scorse stagioni sia stata provocata, forse a livello inconscio, dal fenomeno delle Brigate Rosse”, affermava un Gianni Versace esordiente dopo aver presentato la collezione autunno-inverno 1978-1979. Lo stilista, infatti, propose in passerella uniformi strutturate in pelle, ovvero giacche, mantelle, trench e cappotti; quest’ultimi bordati di fucsia, giallo senape e verde smeraldo: tutti elementi del guardaroba dai rimandi velati a ciò che indossavano coloro che stavano tormentando in quel periodo l’Italia. Questo apparentemente bizzarro interesse per il loro vestiario significa anche analizzare il modo in cui si presentavano i ragazzi e le ragazze, gli uomini e le donne delle BR per smontarli e comprenderli da un punto di vista estetico. LA SATIRA DI WALTER ALBINI E LA BORGHESIA DI GIORGIO ARMANI Nel frattempo, lo stilista italiano Walter Albini faceva qualcosa di diverso: mostrare l’aspetto dei movimenti estremisti degli anni di piombo. La sua collezione autunno-inverno 1976-1977 Guerriglia Urbana, tra passamontagna, ponchos, grandi sciarpe e ankle boots, è il chiaro esempio di una rappresentazione diretta e anche satirica in quanto caricatura di uno stile che è diventato tale inconsciamente, da bravi iconoclasti quali erano i brigatisti. Diversamente, Giorgio Armani rappresentava un uomo e una donna che non venivano toccati dal fenomeno delle Brigate Rosse, perciò la parte più borghese della società, rinchiusa in casa e in quei luoghi sicuri che erano rimasti, insieme ai propri completi giacca e pantaloni, vestiti drappeggiati e alle proprie bluse, camicie e polo. Armani li aveva ammorbiditi nel loro essere strutturati; destrutturandoli, appunto, ma sacrificando alcune convenzioni e mantenendone altrettante. IL DIVERTIMENTO DI MISSONI E MOSCHINO Contrariamente, nel 1978 Missoni si divertiva con la maglieria a righe colorate e ristampava alcune immagini del fotografo Alfa Castaldi (1926 - 1995), considerato tra i padri della fotografia di moda italiana, per un omaggio al marchio in occasione del venticinquesimo anniversario. Le foto, scattate tra il 1967 e il 1970, già annate difficili per l’Italia, sono divertenti e immortalano una donna altrettanto giocosa tra lavorazioni a rete e zig zag, esperimenti con tinture di filati fiammati e nude look, mantenendo pur sempre il labile concetto di eleganza. La stessa da cui partiva, proprio nel 1978, lo stilista Franco Moschino, per diffondere il kitsch con colori, design impensabili e motti satirici, a suon di cheap and chic (economico ed elegante). IL RITORNO DELLA MODA DEL 1978 Eppure, il 1978 non è solo un ricordo. Le passerelle contemporanee, da Fendi a Prada, Mordecai e Magliano, mostrano una moda proletaria e in parte simile a ciò che i membri delle Brigate Rosse indossavano. Sono ritornati completi al limite delle divise, tasconi ovunque, balaclava, stivali massicci e colori-non-colori con cui mimetizzarsi nel tessuto sociale. Le motivazioni sono diverse e 46 anni dopo si nascondono dietro definizioni come utility wear e gorpcore, ma l’aspetto esteriore è pressoché lo stesso.

7 gennaio Strage di Acca Larentia a Roma 4 marzo Raffaella Carrà torna sulla televisione italiana con il suo programma Ma che sera 16 marzo Aldo Moro viene rapito dalle BR, le sue guardie del corpo uccise

6 maggio Il corpo di Aldo Moro viene ritrovato senza vita a Roma 13 maggio Entra in vigore la legge Basaglia, che sancisce la chiusura dei manicomi 22 maggio

L’aborto viene regolato e decriminalizzato con la legge n.194/1978

2 giugno La XXXVIII Biennale d’Arte di Venezia inaugura, con il titolo Dalla Natura all’Arte, dall’Arte alla Natura

9 luglio Sandro Pertini presta giuramento come settimo Presidente della Repubblica

20 settembre Inaugura la mostra Materializzazione del linguaggio a cura di Mirella Bentivoglio 1° ottobre I carabinieri del generale Dalla Chiesa irrompono nel covo delle BR, recuperando documenti preziosi per il Caso Moro

18 ottobre

20 ottobre

Nel suo spettacolo Polli d'allevamento al Teatro Duse di Bologna, Giorgio Gaber prende di mira i movimenti giovanili del '77, accusandoli di velleitarismo e conformismo

Esce nelle sale Il Vizietto con Ugo Tognazzi, il film italiano più visto dell’anno


Gli anni Settanta sono stati anche il momento in cui gli italiani omosessuali hanno rivendicato le proprie libertà. Infatti, le canzoni di Raffaella Carrà, Il vizietto di Ugo Tognazzi e il sesso a cui alludeva Renato Zero sono i sintomi di un cambiamento che partiva dalla gente comune. La stessa alla base del F.U.O.R.I., acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano e associazione dedita alla lotta per i diritti degli omosessuali. Fondata nel 1971 e operativa fino al 1982, ha anche tradotto le necessità della comunità gay nella rivista omonima su cui il fondatore Angelo Pezzana, libraio e parlamentare, scrisse per l’editoriale del primo numero: “Noi oggi rifiutiamo quelli che parlano per noi. [...] Per la prima volta degli omosessuali parlano ad altri omosessuali. Apertamente, con orgoglio, si dichiarano tali. Per la prima volta l’omosessuale entra sulla scena da protagonista, gestisce in prima persona la sua storia [...]. Il grande risveglio degli omosessuali è cominciato”. Artribune lo ha raggiunto per ripercorrere la storia del F.U.O.R.I., passando per il 1978. Sei il primo deputato dichiaratamente gay della storia d’Italia. Com’è successo? L’avvicinamento alla politica la devo a Marco Pannella, che portò il Partito Radicale alle elezioni nel 1976. Un uomo molto fantasioso, che decise di non limitarsi a quattro rappresentati in Parlamento, istituendone altrettanti per lavorare al di fuori, tra cui c’ero io. Era fantasioso anche perché volle come primi candidati solo donne e come secondi solo uomini omosessuali. Ricordo il mio primo intervento pubblico: “Sono un omosessuale che finora ha vissuto la propria omosessualità nei luoghi in cui voi ci avete condannato a stare e che adesso […] vuole fare politica”. Sei anche colui che ha sdoganato il termine “omosessuale” sulla stampa italiana… Questo lo devo al giornalista de La Stampa Luciano Curino. Lui c’era nel 1969, quando noi del movimento omosessuale abbiamo contestato il congresso al teatro di Sanremo, dove un’associazione di psichiatri voleva preparare un documento per dichia-

cui incontrarsi per conoscere nuova gente e diffondere le nostre iniziative. Sai, non c’erano bar o discoteche, perciò noi uomini omosessuali cercavamo persone con cui scopare [sì, è il verbo giusto, come sottolinea Pannella] nei cinema di terza e quarta visione, in cui si entrava da soli e si usciva in due. Oppure nei gabinetti pubblici. Sempre nel 1978, abbiamo tenuto a Torino il festival del cinema omosessuale.

rare l’omosessualità una malattia. Fu in questo momento che io gli consigliai di riportare il termine “omosessuale” sul giornale perché sarebbe stato il primo (al tempo si usavano termini come "pederasta"), e curiosamente lo usò il giorno dopo. Parlando di politica, in che modo questa era presente nel F.U.O.R.I. sia come movimento sia come rivista? Non abbiamo mai avuto una linea ufficiale. Ognuno credeva o non credeva in ciò che voleva, perché le ideologie sono la fine del pensiero libero, come mi insegnò Pannella: noi eravamo degli omosessuali che lottavano per la liberazione dell’omosessualità. Però, devo ammettere che mi sono subito sentito a casa quando partecipai al primo congresso del Partito Radicale. Mi presentai come “omosessuale” e loro, che godevano di un certo umorismo, mi risposero che non fosse una novità lì. Quando ci siamo sentiti telefonicamente, il ’78 non sembrava dirti molto, questioni politiche e sociali a parte... ...In realtà ce ne sono state di cose. Ricordo una vignetta dell’artista Silver che mi rappresentò in Parlamento mentre un deputato diceva: “Signor Presidente, c’è Pezzana che mi tocca il culo”. Questa rappresentazione non era ovvia ai tempi. Il F.U.O.R.I nel 1978 prese in gestione pure una discoteca a Torino, il Disco Dance, perché cercavamo un luogo alternativo ai soliti, in

STORIES 1978

LE ORIGINI DEL MOVIMENTO OMOSESSUALE ITALIANO NEGLI ANNI SETTANTA

In quel famoso anno, è uscito Il vizietto con Ugo Tognazzi, per cui sei stato consulente dopo essere tornato dalla Russia per una manifestazione in supporto del regista Sergej Paradžanov, imprigionato poiché omosessuale. Paradžanov faceva quasi dei film religiosi, ma non obbediva all’Unione Sovietica. Allora lo imprigionarono accusandolo di falsificare denaro e vendere raffigurazioni di santi ai turisti, che era vietato. Io seguii molto bene l’evento e fui spinto da Pannella ad andare in Russia, assicurandomi che avrebbe smosso il Parlamento italiano se mi avessero torto un capello. Volevo protestare ma sapevano del mio arrivo a causa di una telefonata ad un amico, intercettata nel suo ufficio, e non andò come volevo. Ma una giornalista americana riprese la notizia e in Italia si stava parlando dell’accaduto. Così Tognazzi, che non avevo mai conosciuto di persona, mi invitò a cena per vedere in anteprima Il vizietto e ricevere un parere in quanto uomo omosessuale socialmente attivo. È un film facile, fatto per le masse ma pro-gay e con un cast che li coinvolgesse veramente. Allora, a parte l’estrema attualità dell’accaduto, il 1978 è stato rilevante per te e per il movimento omosessuale italiano? Certo. Cosa credi sia cambiato durante quella decade per il movimento omosessuale italiano? È difficile dare un giudizio su qualcosa che ti ha cambiato, ma può dire molto il fatto che il F.U.O.R.I. fosse l’unico movimento di liberazione [omosessuale] diffuso sia in Italia sia all’estero.

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PRERAFFAELLITI • GOYA • PICASSI E MIRÒ• GIOTTO E FONTANA• TOULOUSE-LAUTREC• RICHTER

38 DIETRO LE QUINTE DELLE GRANDI MOSTRE • LA MAPPA DELLE GRANDI MOSTRE


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PRERAFFAELLITI / FORLÌ

A Forlì Preraffaelliti e Old Master: un dialogo ininterrotto

Marta Santacatterina

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ei progetti del Museo Civico San Domenico di Forlì è sempre forte l’attenzione al possibile dialogo tra i linguaggi artistici delle varie epoche e quelli dell’Ottocento. Per la primavera 2024 il comitato scientifico ha scelto di concentrarsi sui Preraffaelliti, quel gruppo di artisti che, a metà del XIX secolo, ha saputo compiere un’autentica rivoluzione nell’Inghilterra vittoriana. E non solo lì, come emerge dal corpus di ben 320 pezzi che comprendono anche sculture e oggetti d’arte decorativa: dai disegni per vetrate a preziosissimi cofanetti, e poi maioliche, carte da parati, arazzi, oggetti d’arredo. Ma la peculiarità dell’esposizione è che per la prima volta i dipinti ottocenteschi vengono accostati a quelli degli “Old Master” italiani che hanno rappresentato i loro espliciti modelli. “Abbiamo raccolto circa 40 opere antiche”, spiega Cristina Acidini, una delle curatrici insieme a un team di studiosi italiani e internazionali “dai lavori di Cimabue, Giotto, Simone Martini, e poi di Guariento, Beato Angelico, Botticelli, che è uno dei

Dal 24 Febbraio al 30 Giugno 2024

PRERAFFAELLITI A cura di Cristina Acidini, Francesco Parisi, Liz Prettejohn e Peter Trippi Museo Civico San Domenico P.le Guido da Montefeltro, 12 - Forlì mostremuseisandomenico.it

miti più amati dal Preraffaelliti. Abbiamo ‘convocato’ anche, per l’area veneta, Giorgione, Tiziano, Veronese, Palma il Vecchio: modelli di riferimento meno famosi ma che hanno ispirato i canoni della bellezza femminile. Quelle donne opulente, dalle belle chiome, riprese in primo piano, sono tutte ‘figlie’ di Tiziano e di Palma il Vecchio”.

QUANDO GLI INGLESI SCOPRIRONO IL MEDIOEVO ITALIANO in alto: Edward Burne-Jones, William Morris and John Henry Dearle (designers), Morris & Co. (produttore, tessuto by Robert Ellis, John Keich, John Martin, and George Merritt), Arazzi del Santo Graal - L'Armamento dei Cavalieri, progettato nel 1890, tessuto nel 18981899; arazzo ad alto ordito con trama in lana e seta su ordito in cotone, Collezione privata a destra: Evelyn De Morgan, Flora, 1894, olio su tela. Barnsley, Trustees of the De Morgan Foundation Ford Madox Brown, Deposizione, 1868, olio su tela The Faringdon Collection Trust, Buscot Park, Oxfordshire

Nel 1848 in Italia si scatenarono le guerre di indipendenza. Nello stesso anno, in Inghilterra, la rivoluzione scardinò lo scenario artistico: “Tre giovanotti di circa vent’anni si discostarono dalla linea formativa della Royal Academy, dove pure erano studenti, non sopportando più gli stili dell’epoca. Si trattava di Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais e William Holman Hunt che decisero di rivolgersi alle suggestioni del gothic revival”, prosegue la curatrice. Nacque così la Confraternita dei Preraffaelliti, che elesse come riferimenti assoluti i capolavori italiani del Medioevo e del primo Rinascimento. Epoche la cui scoperta, in Gran Bretagna, avvenne soprattutto


PRERAFFAELLITI / FORLÌ

LA SORELLANZA La figura della donna è stata uno dei cardini della pittura preraffaellita. Sono ben note le vicende, anche tragiche, del rapporto tra Dante Gabriel Rossetti e le sue modelle, a cominciare dalla moglie Elizabeth Eleanor Siddall (che fu anche poetessa e pittrice, unica donna a esporre in una mostra dei Preraffaelliti nel 1857), a cui seguirono Fanny Cornforth e Jane Morris, consorte di William che è riconoscibile nell'opera di Rossetti esposta in mostra La donna alla finestra. Tuttavia le donne non furono solamente muse dei pittori preraffaelliti: i più recenti studi stanno infatti mettendo in luce il ruolo attivo della parte femminile che affiancava la Confraternita. Non si può non citare la sorella di Dante Gabriel, Christina Rossetti, che fu poetessa sensibile e che nella sua epoca era ritenuta una voce importante della cultura, poi dimenticata fino agli anni Settanta del Novecento. In mostra si convocano alcune delle esponenti di quella che si sta oggi delineando come una “Sisterhood”: ne sono esempi i lavori di Evelyn De Morgan, presente con Flora, splendida reinvenzione dell’allegoria di Botticelli, o ancora le testimonianze di Maria Eufrosyne Spartali Stillman e di May Louise Greville Cooksey.

grazie a John Ruskin, una figura chiave per la formazione degli artisti: “Fu lui a lanciare l’arte del passato divulgandola attraverso testi, illustrazioni e acquarelli”, spiega Acidini. “Basti pensare al successo che ebbero i suoi libri, quali ‘Le pietre di Venezia’ e ‘Mattinate fiorentine’”. Sull’onda dei viaggi di Ruskin, alcuni degli esponenti della Confraternita soggiornarono in Italia per studiare dal vivo i capolavori del passato, e in particolare Burne Jones giunse varie volte nel Belpaese. mentre Rossetti, nonostante le sue origini italiane, non mise mai piede nella Penisola. Il viaggio non era tuttavia l’unico metodo per studiare gli “Early Italian Painter”: “In quegli anni in Inghilterra stava infatti arrivando una grande quantità di opere italiane. Con l’età napoleonica molti luoghi di culto erano stati espropriati e i loro patrimoni requisiti, mentre andando verso l’Unità d’Italia le grandi famiglie si trovarono impoverite a causa dello spostamento degli equilibri politici e finanziari. Entrarono così sul mercato quantità massicce di opere che vennero acquistate alacremente dagli inglesi, dando luogo a collezioni straordinarie; fu in questo periodo che si formò la prima grande comunità museale di Londra, che poi diventerà la National Gallery” spiega Acidini.

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Watts è al centro della sezione dedicata al “venetismo”. Si indagano inoltre i ruoli che ebbero gli inglesi che abitavano a Firenze: “Non soltanto mandavano in Inghilterra fotografie o copie fatte da loro stessi, ma pure opere d’arte, perché erano anche mediatori e mercanti. Per loro tramite arrivarono in Inghilterra materiali straordinari”, racconta Acidini. Il cerchio si chiude con degli artisti italiani: anche nel nostro Paese, infatti, si sviluppò una sensibilità per il Medievale e il Rinascimento, ad esempio da parte di Giuseppe Cellini, Guido Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis: tutte figure che negli anni seguenti sfociarono nel Simbolismo e nell’Art Nouveau, accompagnando l’epilogo del Preraffaellismo.

COME SARÀ LA MOSTRA DEI PRERAFFAELLITI

3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

Le opere realizzate prima di Raffaello fecero una profonda impressione negli artisti inglesi, ed ecco allora che gli Old Master sono protagonisti dell’incipit della mostra, ritornando pure in altre sale con accostamenti puntuali ai lavori dei Preraffaelliti. Dopo un focus su John Ruskin, segue l’approfondimento sulla nascita della Pre-Raphaelite Brotherhood. “La fase eroica e fondativa, trainata da Dante Gabriel Rossetti, comprende esempi molto importanti, come i primi studi su Dante Alighieri dello stesso Rossetti: emerge la tematica fondamentale dell’incontro tra Dante e Beatrice e l’interesse per la Vita Nova, quella produzione di prose e sonetti giovanili in cui il Sommo poeta racconta il suo amore totalmente immaginario”. Si ammira anche un dipinto di William Holman Hunt che raffigura Isabella e il vaso di basilico, una rivisitazione poetica di John Keats basata sulla novella di Boccaccio, a dimostrazione di quanto fossero importanti anche le fonti letterarie italiane. Il percorso prosegue con il secondo Preraffaellismo, basato sul sodalizio tra Rossetti, Edward Burne-Jones e William Morris. Quest’ultimo – che oggi chiameremo un grande designer – diede il via al movimento Arts and Craft, il cui stile informò per molto tempo l’estetica inglese, contribuendo al perdurare del gusto preraffaellita fino all’inizio del Novecento. La mostra accoglie inoltre espressioni cronologicamente lontane dal momento fondante, nonché diverse ispirazioni: Frederic Leighton, ad esempio, prese a modello anche Michelangelo e addirittura Guido Reni, mentre George Frederic

L’Abbazia di San Mercuriale, costruita nel XII secolo, che porta il nome del primo vescovo della città Le architetture di piazza Saffi, mix di epoche e stili, con la chiesa romanica di San Mercuriale i quattrocenteschi palazzo del Podestà e palazzo Albertini, l’architettura razionalista del palazzo delle Poste La Rocca di Ravaldino, classica fortezza difensiva medievale con torrioni circolari e mura a protezione della cittadella

Museo San Domenico


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GOYA / MILANO

Con Goya, l’artista diventa cittadino Stefano Castelli Fino al 3 marzo 2024 l sonno della ragione genera mostre”, si è cominciato a dire scherzosamente qualche tempo fa parafrasando Goya, per commentare la proliferazione di esposizioni non abbastanza ragionate: mostre che attraevano il pubblico di massa con un grande nome nel titolo per poi presentarne una ridotta quantità di opere minori. La stagione di Palazzo Reale di Milano smentisce questa tendenza, con un programma di livello che comprende tra l’altro proprio una mostra del rivoluzionario maestro spagnolo. Mentre la concomitante rassegna su El Greco (fino all’11 febbraio) soddisfa per ampiezza e importanza, quella su Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746-Bordeaux, 1828) non si struttura come retrospettiva completa, ma propone un affondo mirato che coordina approccio storico e sguardo contemporaneo. E va sottolineato per inciso come la compresenza dei due autori sia stimolante, perché in entrambi i casi ci si trova al cospetto di due anticipatori che, con sguardo retrospettivo, mettono in discussione (senza smentirla, ma sfumandola) la collocazione temporale del cambio di paradigma che a fine Ottocento/inizio Novecento scinde definitivamente antico e contemporaneo. Tornando a Goya, la mostra curata da Víctor Nieto Alcaide è intitolata La ribellione della ragione, e riunisce settanta opere tra dipinti e incisioni. Pur abbracciando a campione le diverse fasi della sua carriera, il percorso si focalizza in particolare sui momenti di deviazione, sulle successive rivoluzioni che superano i canoni dell’epoca e allo stesso tempo ripensano e modificano radicalmente la pittura dell’artista. L’allestimento dà il ritmo di queste evoluzioni, caratterizzato da una progressione dalla luce al buio, con l’intervallo del rosso che contrassegna il tema della guerra.

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DALLA CORTE AI TEMI POPOLARI

Nella prima sala, l’Annibale vincitore del 1771, l’Autoritratto al cavalletto del 1785, il Carlos IV e la Maria Luisa de Parma del 1789 gettano le basi del discorso, illustrando il punto di partenza della sua evoluzione stilistica dall’apprendistato al riconoscimento come pittore di corte, dunque come ritrattista di grande genio ma fedele ai criteri della committenza. La presenza in apertura dell’autoritratto facente parte del ciclo incisorio dei Capricci funziona come anticipazione di ciò che accadrà in seguito. La seconda sala introduce invece già il primo dei diversi passi fuori dai sentieri tracciati che si incontreranno nel corso della mostra. Pur rimanendo nell’ambito della corte, i dipinti affermano individualità in particolare nei temi “popolari”. Costituiscono uno degli apici

GOYA. LA RIBELLIONE DELLA RAGIONE A cura di Víctor Nieto Alcaide Palazzo Reale Piazza Duomo 12 - Milano palazzorealemilano.it

inaspettati della mostra le corride dipinte e incise e ancor più le piccole tele che illustrano momenti di gioco infantile. In quest’ultimo ciclo, in particolare, l’espediente pittorico raggiunge vertici altissimi nonostante o forse a causa della stilizzazione, colore e disegno si mescolano già alla perfezione (fenomeno che nella storia dell’arte si diffonderà solo diversi decenni dopo), lo sguardo è già “dalla parte del popolo” (come avverrà compiutamente e svelatamente solo a fine Ottocento con la pittura socialisteggiante).

GOYA, PITTORE SU COMMISSIONE

a destra: Francisco Goya (attribuito a) Il Colosso, post 1808, olio su tela, Museo Nacional del Prado, Madrid in basso: Francisco Goya, Il manicomio. Dalla serie “Cuadros de fiestas y costumbres”, 1808-12, olio su tavola, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Nel capitolo dedicato alle commissioni (si vedano qui tra l’altro La cattura di Cristo, 179799, San Francesco Borgia si congeda dalla sua famiglia, 1788 circa, e La Vergine con san Gioacchino e sant’Anna, 1786 circa) i temi della pittura sacra diventano il campo di una lotta inesausta e inesauribile tra buio e luce – e si instilla già il sospetto che, in Goya, le tenebre si guadagneranno definitivamente la scena. L’oscura grandeur della pittura dell’artista sboccia poi pienamente nelle sezioni successive, dove


GOYA / MILANO

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MODERNITÀ INCARNATA

Ma la rivoluzione deflagra e si infiamma definitivamente nelle ultime sale, intitolate rispettivamente Vigilare e denunciare; Goya e la guerra; La libertà critica e l’allargamento dell’immaginazione. L’artista diventa critico sociale, si congiungono arte e vita (non tanto con riferimento alla biografia dell’artista ma a ciò che gli succede attorno), la satira si ritaglia uno spazio di primo piano. Soggetti come

COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

sfilano i ritratti di stupefacente intensità che rimangono forse la sua produzione più nota e amata, o comunque quella dal tocco più immediatamente riconoscibile. Basti citare, qui la María Gabriela Palafox y Portocarrero, marquesa de Lazán (1804 circa), il Don Francisco García de Echaburu (1785 circa) o il Mariano Goya “Marianito” del 1813-15, in cui sembra di vedere già occhieggiare la successiva rivoluzione, quella di Manet. Nella sezione dedicata alle amicizie dell’artista in ambito illuminista, poi, ci si trova davanti a un altro momento di deviazione e straniamento. I volti dei ritratti qui riuniti abbandonano un po’ di maestosità per concedersi una caratterizzazione intensissima: l’inusitata resa del viso del Juan de Villanueva (1800-05) è, ad esempio, uno dei molti passaggi “perturbanti” della mostra. Manicomio, Processione di flagellanti, Scena di inquisizione (tutti e tre oli su tavola del 180812) vengono nobilitati pittoricamente senza essere addolciti - al contrario - e introducono alla nuova temperie oscura, infuocata e senza compromessi, per poi passare al tema della guerra: qui, il Colosso (posteriore al 1808) attribuito a Goya è un perfetto manifesto filosofico dei lati oscuri della società umana. Ad esso si affianca un’ampia selezione delle più importanti incisioni dell’artista, dai Disastri della guerra ai Capricci (in alcuni casi accompagnate dalla lastra appena restaurata). L’Autoritratto del 1815 e il Tío Paquete (1819-20 circa) rappresentano infine una sorta di riassunto di tutto quanto esplorato nel corso dell’esposizione, tele che appaiono come ricettacoli dell’oscurità del mondo ma che sono allo stesso tempo ricchi di vitalità, per quanto martoriata e dolente. L’esposizione milanese dimostra come con Goya l’idea di modernità politica e quella di Illuminismo si compiano a livello visivo, perché l’artista diventa pienamente cittadino. Entrano in gioco nella pittura l’analisi della situazione sociale e storica, l’idea di movimento dinamico

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La nuova Edicola Magenta, sorta dal recupero di un chiosco grazie all’associazione Zona Blu. Lo spazio espositivo su strada si propone come snodo culturale, con la collaborazione di un vivaio urbano, librerie indipendenti e uno studio creativo Le spettacolari sculture di Ron Mueck in mostra a Milano. In partnership con la Fondation Cartier, la Triennale presenta la prima esposizione italiana dell’artista iperrealista australiano e alle sue monumentali sculture Moiré Gallery, galleria e concept store di Ouafa Tahoun da poco aperta all’interno di un palazzo storico. Qui convivono oggetti di design, opere d’arte e installazioni, collezioni di haute couture

Palazzo Reale

della Storia (come invocazione del progresso oppure diagnosi di regresso), il confronto tra ideale e situazione storica contingente. E anche rimanendo in campo artistico, la rivoluzione di Goya è assoluta, perché anticipa la stagione dell’artista come individuo e creatore autonomo, non imbrigliato in canoni e precetti. Il che significa anticipare l’arte moderna.

DEL GROTTESCO E DEL BRUTTO: SI MOSTRA IL GOYA PIÙ PROSAICO Una delle grandi innovazioni di Goya è l’introduzione di un registro “basso” all’interno dei canoni della grande pittura. L’atmosfera del perturbante percorre tutta la sua opera e in varie fasi si concretizza in affondi relativi al grottesco, ai temi popolari, al “brutto”. Nella mostra milanese, la presenza di questi spunti costituisce un sottotesto del percorso espositivo. Il primo incontro con i temi popolari è quello con le Corride e i Giochi di bambini, dove la scelta del registro è un volano per l’innovazione formale. Ma anche nei ritratti celebrativi si insinua il germe del grottesco, che diventa poi conclamato in dipinti come El tío Paquete: la deformità del cieco madrileno ritratto da Goya non è meno “eroica” delle effigi su commissione dei sovrani, il brutto diventa soggetto a pieno titolo senza scale di valore con il bello classicamente inteso. Se il Manicomio e la Processione di flagellanti sono perturbanti soprattutto a livello di atmosfere, l’introduzione del grottesco nelle incisioni satiriche fa saltare qualsiasi convenzione. Il continuo sovrapporsi e ibridarsi tra l’uomo e la sua componente bestiale di questi fogli non ha nulla da invidiare a livello di efficacia all’arte satirica che si svilupperà nel Novecento durante la Prima Guerra Mondiale. Guerra che, ovviamente, è un tema fondamentale in questo ambito, un argomento che attraversa diversi cicli e che richiede di essere trattato secondo “canoni inversi” di bellezza e bruttezza.


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PICASSO E MIRÒ / MADRID / BARCELLONA

Finisce l’anno di Picasso. L’ultimo omaggio tra Madrid e Barcellona in dialogo con Mirò Picasso; due le visioni estetiche: lo stile Picasso e il linguaggio Mirò; due e diametralmente opposte anche le scelte di vita in reazione al regime totalitario in Spagna e agli orrori della guerra: il ritorno in patria di Joan, che si isola a Mallorca in un universo artistico intimo e simbolico; la violenta protesta espressa attraverso le immagini plastiche di Pablo, che sceglie l’esilio volontario in Francia fino alla morte. A raccontare tutto questo sono un centinaio di opere, provenienti da musei e collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, che dialogano con altrettanti pezzi appartenenti al fondo dei due musei di Barcellona, coinvolti anche in un interscambio di capolavori. Sulla collina del Montjuic, nelle sale progettate da José Luis Sert

Fino al 25 febbraio

MIRÒ PICASSO

Federica Lonati he Pablo Picasso (Málaga, 1881 - Mougins, 1973) e Joan Mirò (Barcellona, 1893 - Palma, 1983,) si conoscessero e che, negli anni Venti e Trenta, avessero frequentato lo stesso ambiente parigino e il circolo dei Surrealisti, è un fatto noto. Meno noto, invece, è che tra i due artisti spagnoli ci fossero amicizia e stima reciproche, che rimasero immutate anche negli anni di maturità e vecchiaia. Fra gli ultimi appuntamenti di questo Anno di Picasso, in cui è caduto il cinquantesimo anniversario della morte dell’artista, una mostra racconta il legame artistico e intellettuale con Joan Mirò, che come lui scelse di lasciare parte della propria eredità a Barcellona con la creazione di un museo, e un'altra è dedicata alla produzione del 1906, anno della trasformazione verso la modernità.

C

IL SODALIZIO TRA PICASSO E MIRÒ A BARCELLONA

La mostra Mirò-Picasso, allestita fino al 25 febbraio, si configura come un evento unico e pieno di sorprese. Un’esposizione impostata sul doppio, sul dialogo e anche sulle differenze fra due figure fondamentali dell’arte del Novecento. Due le sedi: la Fundació Mirò e il Museu

Curata da Margarida Cortadella, Elena Llorens, Teresa Montaner e Sonia Villegas Museu Picasso e Fundació Mirò Barcellona fmirobcn.org museupicassobcn.cat Fino al 4 marzo

PICASSO 1906 La gran transformación Curata da Eugenio Carmona Museo Nacional Centro del Arte Reina Sofia - Madrid museoreinasofia.es

a sinistra: Pablo Picasso, Le Tre Ballerine, 1881–1973, olio su tela, 2153 × 1422 mm © TATE © Succession Picasso/DACS 2024 a destra: Joan Miró, Donna, uccello, stella (Omaggio a Pablo Picasso), 1966-1973, Olio su tela, 245 x 170 cm © Museo Nacional Reina Sofia

per la Fundació Mirò, sono stati trasferiti per l’occasione l’opus n.1 della serie de Las Meninas (1957) e un malinconico Arlecchino di Picasso, ritratto di Leonide Massine datato 1917. Nello storico Palazzo Berenguer de Aguilar, al Borne, sono ospitati invece l’Estrella Matinal di Mirò, una delle otto meravigliose Costellazioni, e LLama en el espacio y mujer desnuda, piccolo olio datato 1932 che rivaleggia per intensità di gesti e tinte forti con il Gran Desnudo en un sillón Rojo di Picasso, del 1929. In entrambe le sedi l'esposizione Picasso-Mirò di Barcellona segue le tracce del medesimo racconto cronologico sviluppate intorno a sette grandi temi trattati come tappe di un unico viaggio. L’incontro; la Parigi del Surrealismo; pittura e scrittura; anni di guerra; dall’assassinio della pittura alla ceramica; lo stile Picasso, il linguaggio Mirò; e, infine, Mirò che rende omaggio a Picasso, in vita e dopo la morte. Curati da Elena Llorens e Margarida Cortadella del Museu Picasso e da Teresa Montaner e Sonia Villegas della Fundació Mirò, gli allestimenti sono complementari e si basano sul confronto/raffronto fra temi, soggetti e tecniche artistiche, per sottolineare la mutua influenza, i progetti simili e le esperienze comuni dei due grandi maestri. È il caso della partecipazione “politica” al Padiglione della Repubblica durante l’Expo di Parigi del 1937: Picasso


PICASSO E MIRÒ / MADRID / BARCELLONA con Guernica e Mirò con un intervento murale realizzato direttamente sulle pareti del padiglione e purtroppo distrutto subito dopo; e ancora la presenza di entrambi alla decorazione monumentale del Quai Defense, a Parigi, negli anni Cinquanta, o come artisti ospiti al Richard Daley Center di Chicago, tra gli anni Sessanta e Settanta. Il frequente gioco di specchi, il raffronto serrato fra opere diverse per stile, ma simili per contenuti, permettono di individuare i tanti punti in comune nell’universo di Mirò e di Picasso: la medesima spinta innovatrice e il desiderio rivoluzionario di abbattere le convenzioni, di esplorare nuovi linguaggi (come la poesia e l’illustrazione per l’editoria) o di recuperare l’artigianalità nell’arte, con sculture, collage e opere in ceramica.

A MADRID UNA MOSTRA SULL’ANNO DELLA MODERNITÀ DI PICASSO

Diversa per impostazione critica, ma altrettanto rilevante per contenuti, è la mostra Picasso 1906. La grande trasformazione, allestita al Museo Reina Sofia di Madrid fino al 4 marzo. In questo caso, il curatore Eugenio Carmona ha scelto di circoscrivere il racconto biografico all’anno precedente la creazione de Les Demoiselles de Avignon, capolavoro oggi esposto al MoMa di New York che si considera l’opera simbolo della modernità in Picasso. Carmona raccoglie riflessioni sue e di altri studiosi per porre al centro della propria indagine il 1906, quando l’artista trascorre i mesi estivi a Gósol, località

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CRONOLOGIA DI UN RAPPORTO: PICASSO E MIRÒ PABLO RUIZ PICASSO (Malaga, 1881 – Mougins, 1973)

JOAN MIRÒ (Barcellona, 1893 – Palma de Mallorca, 1983)

1917

Barcellona Miró assiste al debutto di PARADE, spettacolo dei Ballet Russes con scene e costumi di Picasso

1920

Parigi Miró incontra per la prima volta Picasso

1921

Parigi Mirò espone alla Galerie La Licorne

1922

Parigi Mirò si installa nel atelier di rue Blumet 45

1924

Parigi Mirò assiste al debutto del balletto surrealista Mercure, con scene e costumi di Picasso

1930

Parigi Picasso e Mirò espongono collages nella collettiva alla Galerie Germans

1937

Parigi Picasso e Mirò partecipano entrambi al Padiglione della Repubblica spagnola all’Expo

1940

Barcellona/Palma di Mallorca Mirò ritorna in Spagna a causa dell’occupazione nazista in Francia. Picasso sceglie di restare a Parigi

1955

Parigi Picasso e Mirò partecipano alla decorazione della sede dell’Unesco

1963

Chicago Picasso e Mirò sono chiamati dal sindaco Dailey a realizzare opere d’arte pubblica per la città Barcellona Apre il Museo Picasso, per volontà del pittore e di un gruppo di amici catalani

1968

Barcellona Picasso dona alla città le 55 opere della serie Las Meninas. All’Hospital de Santa Creu si tiene la gran retrospettiva di Mirò organizzata dal Comune.

1973

Avignone Doppia esposizione di Picasso con le sue ultime opere.

1974

Parigi Mostra di Mirò al Gran Palais.

1975

Barcellona Apertura della Fondazione Joan Mirò

1981

Barcellona Mirò celebra l’amico Picasso nel centenario della nascita

L’ANNO DI PICASSO, UNA FESTA EUROPEA In virtù dei recenti accordi bilaterali, Pablo Ruiz Picasso avrebbe oggi il doppio passaporto: quello spagnolo di nascita e quello francese di residenza. Non è un caso che per celebrare il cinquantesimo anniversario della morte del grande artista – scomparso a Mougins, in Provenza, l’8 aprile del 1973 – sia nata per la prima volta una commissione bi-nazionale, guidata dai rispettivi Ministeri della Cultura, che ha coordinato un fitto calendario di mostre internazionali iniziato nell’autunno 2022 e che si concluderà nei primi mesi del 2024. L’eredità di Picasso, la straordinaria forza della sua arte e il fascino indiscusso della sua personalità sono tutt’ora vivi e sono il simbolo dell’arte del Ventesimo secolo, con tutte le sue contraddizioni. Per scelta del comitato delle celebrazioni, ciascuna delle mostre – che si sono svolte soprattutto in Spagna e in Francia, ma anche in Italia, negli Stati Uniti, in Svizzera, Belgio, Romania e Principato di Monaco - ha esplorato un tema specifico della vasta quanto eclettica produzione di Picasso, affrontando anche episodi o relazioni meno note all’interno della sua lunga biografia. Grazie soprattutto alla generosità di prestiti concessi dal Musée National Picasso di Parigi e dal Museu di Barcellona e alla proficua collaborazione con gli eredi del pittore, si sono potute ammirare opere meravigliose, spesso mai esposte in pubblico, che hanno permesso di fare luce su alcuni aspetti dell’arte di Picasso meno noti o persino inediti. Ne è emerso lo straordinario dialogo estetico con i maestri del passato, come Velázquez, Goya, El Greco ma anche Poussin; l’interscambio artistico e intellettuale attraverso le relazioni personali: con lo scultore Julio González, il mercante Daniel-Henri Kahnweiler, la stilista Coco Chanel, la collezionista e scrittrice Gertrude Stein, la prima compagna Fernand Olivier e l’amico Joan Mirò. E, non ultimo, alcune mostre hanno approfondito le tecniche del disegno e della ceramica nell’arte di Picasso, il rapporto fra sacro e profano nonché una rilettura in chiave contemporanea della sua opera. L’obiettivo delle commemorazioni è stato dunque consegnare alle nuove generazioni un’immagine di Picasso a 360 gradi, riletta alla luce dell’estetica contemporanea e depurata dagli stereotipi; forse, ma non del tutto, riscattata dalle accuse di misoginia.

dei Pirenei di Lérida, in compagnia della prima amante Fernande Olivier. All’epoca il giovane Picasso, concluso il cosiddetto periodo rosa, sperimenta nuovi linguaggi plastici, soprattutto attraverso il disegno del corpo nudo (maschile e femminile); si dedica inoltre alla rilettura di maestri come El Greco, Corot e Cézanne e scopre, gradualmente, le immagini dell’arte antica e primitiva: greci, iberi, egizi, etruschi, il romanico catalano e la cultura africana. Nelle sala del Reina Sofia sono esposte una serie di rappresentazioni di corpi nudi, perlopiù disegni su carta come Nudo con mani giunte, dell'Art Museum di Dallas, e i Due fratelli del Musée Picasso di Parigi; una sala intera è dedicata a Fernande, giovane donna dipinta in stile agreste, ispirato dall’ambiente di Gosol; e, tra tanti oggetti fonte di ispirazione, non mancano una serie di figure dalle fisionomie già marcatamente “primitive”, tra i quali bellissimi torsi e sculture in legno o in bronzo. Significativa la presenza a Madrid del celebre Ritratto di Gertrude Stein, dal Met di New York, non solo perché dipinto proprio nel 1906, in stile classico con tratti già primitivi, ma anche per sottolineare il livello transculturale dell’attività di Picasso, l’influenza delle avanguardie francesi e il ruolo svolto dalla scrittrice e collezionista americana nell’opera dell’artista spagnolo.


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GIOTTO E FONTANA / NUORO

Giotto e Fontana, lo spazio d’oro al MAN di Nuoro

Fausto Politino

L

o spazio è il problema cardine dell’arte figurativa fin dalle origini. Il nuovo progetto del Man di Nuoro, GIOTTO | FONTANA. Lo spazio d’oro, è impostato in tal senso, indagando il rapporto tra la ricerca spaziale di Lucio Fontana (Rosario, 1899 - Comabbio, 1968) e il senso dello spazio nelle creazioni di Giotto di Bondone (Colle di Vespignano - Vicchio, 1267 circa – Firenze, 1337), senza tralasciare la valenza simbolica del colore oro, che include la possibilità dell’infinito e dell’altrove.

L’ORO, GIOTTO E LA ROTTURA DELLA BIDIMENSIONALITÀ

Com’è concepita la spazialità dall’arte bizantina e medievale? L’ancoraggio al reale e la tridimensionalità tendono a perdere consistenza. Non ci deve essere “traccia di pesantezza terrena. Bisogna purificare la visione da

Fino al 3 marzo 2024

GIOTTO FONTANA. LO SPAZIO D’ORO Da un’idea di Chiara Gatti. Testi scientifici a cura di Andrea Nante Paolo Campiglio, Serena Colombo e Chiara Gatti MAN Nuoro via Satta, 27 - Nuoro museoman.it

a sinistra: Giotto (e bottega), Due apostoli, 1325-1330, Tempera e oro su tavola, Fondazione Giorgio Cini, Venezia a destra: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 196061, buchi, olio e graffiti su tela, MART Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2023

ogni contingenza”, scriveva Massimo Cacciari nel piccolo saggio Adelphi del 2007 Tre icone, se si vuole rendere visibile l’invisibile. Ciò che prevale è il fondo oro dei mosaici e delle tavole che sacralizza il manufatto artistico. L’oro non è concepito solo come colore: è un simbolo che rimanda al divino e che connota ieraticamente le figure dipinte nelle icone. Irrigidite in schemi prefissati che escludono l’espressività e il movimento, sono prive di corporeità. La quotidianità è inesistente, il vissuto è tagliato fuori. Del paesaggio neanche a parlarne. Poi arriva Giotto che fa saltare, mediante una nuova visione della realtà e dello spazio, la staticità delle immagini creando scene dinamiche e narrative. In che modo? “Bucando” la sacralità dello spazio. Il fondo oro si modifica: non è più lontana distaccata trascendenza, ma si trasforma in un cielo reale soggetto ai mutamenti atmosferici, diventa lucente e cristallino nelle giornate di primavera, rischiarato dalla luce della luna


GIOTTO E FONTANA / NUORO

La Cappella degli Scrovegni, dal nome del suo committente Enrico, fu affrescata in un tempo relativamente breve: dal marzo del 1303 al marzo del 1305. L’edificio rimase proprietà privata fino al 1880 quando si concluse la controversia tra la famiglia Foscari Gradenigo e il Comune di Padova che dopo averla acquisita la inserisce nel patrimonio della città. Il capolavoro di Giotto è l’affresco meglio preservato al mondo e la più elevata espressione del suo genio creativo. Affresco che occupa l’intera superficie interna della Cappella descrivendo la Storia della Salvezza in due percorsi diversi: il primo con le Storie della Vita della Vergine e di Cristo raffigurate lungo le navate e sull’arco trionfale; il secondo, che inizia con i Vizi e le Virtù visibili nella parte inferiore delle pareti maggiori, si conclude con l’imponente Giudizio Universale in controfacciata. e delle stelle, nell’oscurità. L’artista innesta il senso della terza dimensione. Basta guardare con attenzione la cappella degli Scrovegni a Padova, affrescata nel 1303-1305, dove progetta e realizza un’illusione architettonica: quella dei due coretti dipinti sulla parete di fondo, che sembrano la continuazione dello spazio reale della cappella. Giotto spazioso, lo definisce Roberto Longhi nel 1952, “per i due finti vani” che “bucano” il muro. Il grande pittore si allontana consapevole dall’astrazione rappresentativa, dalla bidimensionalità, dal linearismo e dalla frontalità, suggerendo che anche l’esperienza spirituale è inseribile in uno spazio tangibile. E che il fondo oro non è già più la condizione irreale della tradizione pittorica bizantina, ma il “mezzo per manifestare la Luce Intelligibile”.

IL DIALOGO CON FONTANA

La mostra tematica del Man quindi vuole far dialogare due autori che hanno influenzato nel profondo l’arte occidentale. Da un lato Giotto, il primo artista, per Ghiberti e Vasari, che abbia tratto ispirazione dalla natura e sia stato in grado di captare un’idea di realtà, e che sarà poi adottato da Novecento, il movimento che auspica il ritorno alle forme classiche e che riconosce a Giotto il merito di aver contribuito a definire l’idea occidentale della forma artistica. Due apostoli è la prima opera chiamata in causa. pubblicata per la prima volta da Miklòs Boskovits nel 2018. La raffinatezza e la grandiosità del disegno fanno ritenere che si tratti di un prodotto realizzato nella bottega e sotto la supervisione di Giotto, databile tra la metà e la fine del terzo decennio

3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI, IL CAPOLAVORO DI GIOTTO

del Trecento. In una fase matura dell’attività giottesca. I due personaggi, nella loro solennità, sono perfettamente inseriti nello spazio. Uno spazio dorato, arioso, profondo. Come nella Maestà di Ognissanti, in cui la corte celeste, Madonna e Bambino compresi, sono inseriti in un ambiente concreto. L’infinito diventa realtà fisica, toccabile. E l’oro sembra abbandonare la propria valenza simbolica. Dall’altro Lucio Fontana, con il Concetto spaziale del MART di Rovereto. La scenografia nuova di Giotto si muta in uno spazio mentale realmente tridimensionale. L’artista di origine argentina non lo rappresenta ma lo costruisce. Lo crea. E lo può fare in quanto scaglia la mente oltre la superficie della tela per attingere a “un altrove da afferrare con le mani, da ghermire nella materia, da reificare in una immagine, in un corpo, in un volto o in un gesto”, come aveva precedentemente scritto la direttrice del Man Chiara Gatti. La fisicità del nostro ambiente, in cui siamo e in cui interagiamo con le opere, non è più opposta allo spazio ideale della creazione artistica, ma si lega ad esso mediante i buchi e le fenditure sulle tele. Tagli, buchi che non vanno interpretati secondo un’ottica distruttiva ma costruttiva, come aperture che si spalancano sull’enigma. Sono varchi che Fontana produce nella ricerca dell’oltre. Oltre che non sappiamo cosa sia. E neanche l’artista ne è a conoscenza. Ma lui non è obbligato a fornire risposte, solo a porre domande. E lo fa proponendo non un quadro nel senso tradizionale del termine ma un concetto. Come a dire che l’opera non tende a rappresentare qualcosa. Superando ogni legame con la residua tradizione figurativa è diventata un concetto reso visibile. “Scoprire il Cosmo”, sostiene Lucio Fontana, “è scoprire una nuova dimensione. È scoprire l’infinito. Così, bucando questa tela – che è la base di tutta la pittura – ho creato una dimensione infinita”. L’essere riuscito a concretizzare un’altra dimensione mentale è ancor più evidente nei dipinti d’oro. Oro che perde la propria connotazione cromatica per assumere quella dell’astrazione antinaturalistica, impossessandosi della totalità dello spazio. Oro che implica nella sua conformazione visivo-compositiva la luce stessa. Che diventa elemento plastico basilare quando Fontana realizza le prime sculture al neon. Il dialogo che la mostra propone a distanza di secoli è credibile. Condivisibile nel chiamare in causa due autori accomunati dalla stessa motivazione:

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La street art, che si ammira in primis in viale Sardegna, con il ciclo dedicato ad Angelo Caria e il murale de Il giorno del Giudizio di UndiciSei Squad, ma anche nella chiesa di Santa Croce e in piazza Italia Lo storico caffè Tettamanzi, salotto letterario della Belle Époque fondato nel 1875, dove si ritrovavano artisti e pensatori dell’epoca. Oggi è ancora sede di mostre d’arte L’impresa femminile Desacrè Design Sartoriale Creativo Ecosostenibile, al lavoro con tessuti e materiali non convenzionali per realizzare accessori di design e capi d’abbigliamento unici

MAN

la materializzazione dell’immateriale, la tensione verso l’infinito e il trascendente. Che ha alle proprie spalle una riflessione letteraria molto articolata, immersa nel tormento della pittura per la figurazione dell’assoluto. Uno nome per tutti, Georges Bataille, che declama la violenza che un artista/uomo fa a stesso per dire l’infinito che lo abita. Che lo tortura in modo esagerato per i limiti degli strumenti di cui dispone. Ma è una necessità alla quale l’artista non può sottrarsi: non può cessare di rispondere.


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TOULOUSE-LAUTREC / ROVIGO

Henri de Toulouse-Lautrec e la Parigi fin de siècle. La mostra a Rovigo Livia Montagnoli

I

manifesti pubblicitari, i disegni su teatri e bordelli, ballerine e circensi della Parigi fin de siècle, i dipinti che testimoniano la vivacità della scena artistica parigina a cavallo tra il XIX e il XX Secolo. Difficile imbrigliare l’attività di Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 1864 - Château Malromé, 1901), pur passato alla storia massimamente come primo artista “pubblicitario”, al lavoro per aziende e locali dell’epoca, in una definizione monolitica. Nato nella Francia meridionale, l’artista visse e interpretò con sguardo acuto e tecnica raffinata la fase di transizione tra Impressionismo ed Espressionismo, sperimentando la mondanità parigina da habitué dei ritrovi dei bohémien, ma dimostrando anche una spiccata visione imprenditoriale nell’intuire le connessioni che l’arte poteva stabilire con la pubblicità.

NELLA PARIGI FIN DE SIÈCLE

A Rovigo, la mostra a cura di Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard (direttrice del Museo Toulouse-Lautrec di Albi), con la collaborazione di Nicholas Zmelty per la parte grafica, si prefigge di raccontare la complessità dell’artista. E, attraverso di lui, mettere in scena la Parigi del tempo, crocevia artistico che avrebbe posto le premesse per le principali novità espressive del XX Secolo. Nel decennio tra il 1890 e il 1900, la capitale francese

fu uno dei principali centri culturali europei, polo di attrazione per quei giovani in cerca di nuove idee e confronti con una comunità artistica internazionale. L’Esposizione Universale del 1889 sublimò questa dimensione, mentre artisti provenienti da tutto il continente si ritrovavano in città, animando bistrot e cabaret, caffè e cenacoli intellettuali di ogni sorta, di giorno e di notte: la libertà di opinione e d’azione si affiancava alla libertà dei costumi. A promuovere l’appuntamento espositivo di

Palazzo Roverella è la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, e il sostegno di Intesa Sanpaolo. La mostra propone, accanto ai dipinti di Toulouse-Lautrec, anche una selezione dei suoi pastelli, beneficiando di prestiti da importanti musei americani ed europei, oltre che francesi; accanto stanno le opere di realisti, impressionisti, simbolisti, con cui l’artista condivise esperienze e momenti di vita quotidiana – a Parigi, il pittore si era stabilito a


TOULOUSE-LAUTREC / ROVIGO

COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

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Palazzo Angeli, da poco recuperato e oggi sede della Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Ferrara, affrescato alla fine del Settecento da Giovan Battista Canal La Pescheria Nuova, frutto di un ammodernamento ottocentesco del vecchio mercato ittico che ne ha valorizzato l’impianto neogotico e le decorazioni in stile Liberty

Palazzo Roverella

TOULOUSE-LAUTREC E LA PUBBLICITÀ. I MANIFESTI INFLUENZATI DAL GIAPPONISMO

Obbligatorio il focus dedicato agli immancabili affiches, i manifesti che Toulouse-Lautrec produsse con fare non troppo prolifico – qualità che invece caratterizzò il suo approccio al lavoro, nonostante la scomparsa prematura a 36 anni, per gli ictus provocati dalle complicazioni dell’alcolismo – ma con efficacia deflagrante, ispirato dalle stampe giapponesi, con tagli compositivi audaci, forme stilizzate e pose inconsuete, colori capaci di attirare l’attenzione. Un approccio evidenziato in mostra nella sezione sul giapponismo, che individua l’adesione dell’artista francese a metodologie compositive e arditezze prospettiche – che citano le rappresentazioni dell’ukiyo-e – ma anche il suo interesse per attori e figure del teatro.

LA VISITA ALLA MOSTRA DI PALAZZO ROVERELLA

Il percorso di visita si snoda attraverso oltre 200 opere, di cui 60 firmate da Toulouse-Lautrec, di cui si cerca di rappresentare l’intera attività superando le etichette troppo rigide attribuite

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L’ALTRO TOULOUSE-LAUTREC

Il tempio di Santa Maria del Soccorso, ribattezzato La Rotonda: il monumentale edificio ottagonale è riccamente decorato con teleri e sculture barocche, ma la sobrietà delle linee architettoniche tradisce la vicinanza di chi la progettò con il Palladio

Montmartre, e aveva esposto per la prima volta le sue opere al cabaret Le Mirliton di Aristide Bruant, nel 1885, anno in cui si legò sentimentalmente a Suzanne Valadon.

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alla sua opera. Un’opportunità per cogliere il gusto e le tendenze che orientavano la società dell’epoca, e approfondire vicende meno note covate dalla scena artistica parigina di fine Ottocento, come la parabola del movimento Dal 23 febbraio al 30 giugno 2024

“La semplice menzione del nome Toulouse-Lautrec evoca una sfilza di cliché e idee preconcette sulla Parigi di fine secolo, Montmartre e la bohème”. Non potrebbe essere più chiaro, Nicholas Zmelty, nel saggio a sua firma confluito nel catalogo della mostra di Palazzo Roverella. Più che paragonare Lautrec a un Emile Zola dell’arte – affibbiandogli ambizioni da cronista che non ha mai rivendicato – Zmelty preferisce evidenziare la sua insaziabile curiosità, che lo porta a catturate le vibrazioni del mondo contemporaneo, affinando quel tratto via via più sintetico che caratterizza soprattutto i suoi disegni e le litografie, a partire dagli anni Novanta del XIX secolo. Pragmatico ed epicureo al contempo, fu devoto principalmente “a un’indipendenza di spirito coltivata con accanimento fino alla fine dei suoi giorni”. Un artista soggetto “a incessanti evoluzioni e innovazioni della sua pratica”, precisa Fanny Girard nel saggio che scava nel processo creativo di Lautrec. Girard, direttrice del museo dedicato all’artista nella sua cittadina natale, sottolinea infatti come “formatosi presso artisti accademici, Toulouse-Lautrec abbia saputo attingere al bagaglio tecnico acquisito per inventare un nuovo linguaggio fluido e moderno, eccellendo nella pittura così come nel disegno, nei manifesti e nella litografia”. Persino nell’ultima opera dipinta, raffigurante un esame alla facoltà di medicina, si può apprezzare la voglia di sperimentare, attraverso “una materia colorata che si fa più presente”. Solo la morte prematura, nel 1901, metterà fine ai suoi esperimenti.

HENRI DE TOULOUSE - LAUTREC A cura di Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard, con la collaborazione di Nicholas Zmelty Palazzo Roverella via Laurenti 8/10 - Rovigo palazzoroverella.com

a sinistra in alto: Henri de Toulouse-Lautrec, Etude de nu. Femme assise sur un divan, 1882, olio su tela, Albi, Musée Toulouse-Lautrec. Foto © F. Pons, Musée Toulouse-Lautrec, Albi, France a sinistra in basso: Henri de Toulouse-Lautrec, Divan Japonais, 1893, litografia a matita, pennello, spruzzo e retino su carta di cotone, mm 785,8 x 595,3. Museum of Fine Arts, Boston in alto: Henri de Toulouse-Lautrec, Docteur Gabriel Tapié de Céleyran, 1894, olio su tela, Albi, Musée Toulouse-Lautrec. Foto © F. Pons, Musée ToulouseLautrec, Albi, France

artistico francese Les Arts Incohérents, anticipatore di molte delle tecniche adottate dalle avanguardie del Novecento, come il Dadaismo. Tutte le opere del gruppo, date per disperse da oltre un secolo, sono state ritrovate nel 2018 e la mostra di Palazzo Roverella è la prima occasione per poterle nuovamente ammirare. C’è spazio anche per il mondo del cabaret artistico, rappresentato da Le Chat Noir, fondato nel 1881: il locale attirò da subito la schiera degli artisti simbolisti e anche uno dei litografi più interessanti del periodo, Henri Rivière, creatore di numerosi spettacoli di théâtre d’ombre che divennero rapidamente uno degli eventi notturni e delle attrazioni più ricercate della città. Mentre un salto temporale e spaziale introduce all’ultima sezione, che si concentra sull’opera di Toulouse-Lautrec come fonte d’ispirazione per gli artisti italiani del primo Novecento – da Ugo Valeri a Luigi Bompard e Anselmo Bucci –, attratti dalla libertà espressiva e dal tratto nervoso e fortemente grafico dell’artista francese.


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GERARD RICHTER / ST. MORITZ

Gerard Richter, ritorno in Engadina che pervade un dopoguerra difficile, tanto più in una Germania distrutta ed occupata che lo vedrà in fuga dalla Repubblica Federale verso le libertà d’Occidente. Così, spoglia di sovrastruttura direbbe Marx, la pittura di Richter si presenta nella sua natura artigiana, non partigiana e non schierata in senso politico, e questo anche quando agli inizi dipinge gerarchi nazisti e le loro vittime tratti da foto di giornali e album di famiglia.

RITORNO IN ENGADINA

Nicola Davide Angerame

C

he Gerard Richter (Dresda, 1932) sia uno dei massimi pittori viventi, le aste lo confermano, e ciò malgrado sia un pittore senza ideologia, senza un’assertiva filosofia dell’arte. Seguendo l’adagio di John Cage, a cui nel 2006 ha dedicato una serie di sei tele astratte che ora sono in mostra permanente alla Tate Modern di Londra, Richter sostiene anche lui: “Non ho niente da dire e lo dico”. Disarmato ma non per questo debole, il pittore tedesco non è però un “manierista”, non usa la citazione e non attraversa la storia dell’arte come un supermercato delle forme e degli stili, come Achille Bonito Oliva ha spesso teorizzato rispetto all’artista post-neoavanguardie. Il suo lungo sperimentare tecniche e approcci differenti serve ad alimentare una forma d’innocenza, dello sguardo come dello spirito, ben narrati in Opera senza autore, il film che Florian Henckel von Donnersmarck ha dedicato al pittore tedesco nel 2018.

PITTURA ARTIGIANA

Ma per capire la posizione di Richter nella storia dell’arte occorre considerare la sua capacità tecnica, per la quale ogni dipinto esprime una sintesi tra idea creativa e pratica

Fino al 13 aprile 2024

GERHARD RICHTER: ENGADINA a cura di Dieter Schwarz Segantini Museum Via Somplaz 30 - St. Moritz segantini-museum.ch

Gerhard Richter, Silsersee (Lake Sils), 1995. Olio su tela, 41 x 51 cm. Private Collection. Courtesy Sies + Höke, Düsseldorf © Gerhard Richter 2023

costruttiva, tra la qualità dell’occhio-mente e quella della mano. Richter non nutre l’ossessione per l’evoluzione del linguaggio pittorico che aveva Picasso, né partecipa delle angosce esistenziali che Rothko traduceva nella sua astrazione di profondità, eppure è tra di loro e con loro, in un certo modo. “Allievo” della Pop Art, così come di Fluxus, Richter propone una pittura “depurata” dal quel culto per gli ideali

Sulle orme di Giovanni Segantini e di Friedrich Nietzsche, che qui hanno trascorso parte della loro vita lasciando tracce indelebili, Richter torna ad esporre in Alta Engadina dopo circa trent’anni dalla sua personale presso la Nietzsche-Haus. Questa volta si tratta di un evento in più sedi, presso le abitazioni museo che furono del pittore italiano e del filosofo tedesco, più la nuova sede di Hauser & Wirth St. Moritz, che accolgono oltre 70 opere provenienti da musei e collezioni private, tra cui dipinti, fotografie dipinte, disegni e oggetti selezionati da Dieter Schwartz, uno dei massimi conoscitori del lavoro di Richter. Le opere esposte sembrano il controcanto visivo di quel che Nietzsche scriveva all’amico Carl Von Gersdorff in una lettera spedita da Sils-Maria il 28 giugno del 1883: “Ancora una volta sento che la mia vera patria e l’unico luogo di incubazione del mio pensiero è questo e nessun altro”. Forse, anche per Richter è stato un po’ così.

UNA CERTA IDEA DI PAESAGGIO

I primi dipinti di montagne di Richter risalgono al 1968, quando si allontana dalla figurazione (e dalle umane vicende) per avvicinarsi al sublime che la natura evoca, verso un’astrazione che spinge la pittura agli estremi. La mostra è il resoconto di uno sguardo inquieto che attraversa generi e mezzi per imporsi una libertà che ha reso il lavoro di Richter così emblematico. Il suo paesaggio montano, molto diverso da quello di Segantini, appare come un soggetto ben adatto per allestire l’incontro e lo scontro tra fotografia e pittura. Gli effetti fotografici della sfocatura, che appaiono in opere quali St.Moritz del 1992 o in Silsersee del 1995, così come la pittura applicata sulla stampa fotografica (Piz Bernina o Silsersee, Maloja, entrambi del 1992), confermano Richter come pittore foto-irrealista, come artista che aspira alla conciliazione tra l’occhio meccanico registratore di realtà e l’occhio pittorico che, nel suo resistere al fascino della macchina, applica La pittura come forma di difesa.


INTERVISTA AD ANDREA ISOLA

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Come nasce una grande mostra. L’exhibition designer Andrea Isola Ci illustri gli step che portano dall’idea al taglio del nastro di una mostra? Per prima cosa incontro i committenti e faccio con loro i sopralluoghi alla location, quindi studio il tema della mostra, gli artisti esposti, il progetto curatoriale in modo da capire cosa si intende comunicare al pubblico. In questa fase valuto anche le tipologie delle opere (dipinti, sculture o installazioni) e individuo le criticità. Segue la progettazione in 2D e in 3D, cercando di disegnare il percorso che devono fare i visitatori nonché di armonizzare l’allestimento con il tema. Una volta raggiunta un’idea condivisa con i clienti, scelgo i fornitori che devono realizzare pareti, teche, grafica, colori ecc. Infine coordino l’organizzazione del cantiere sulla base di un cronoprogramma, con costante supervisione fino all’opening.

Andrea Isola, Credits Camilla Ferrero, 2023

Marta Santacatterina

Cosa succede quando capitano degli imprevisti dell’ultimo minuto? Io mi ripeto sempre un mantra: “Non ci si deve mai affezionare alle proprie idee”. Può succedere che si debba cambiare la posizione di un’opera, ad esempio perché vedendola dal vivo si capisce che sta meglio altrove, e accetto sempre queste modifiche se hanno un senso. Capitano anche imprevisti relativi ai trasporti, e in

questo caso cerco di risolvere la situazione in modo che la mostra abbia comunque la sua logica. In questo mestiere la flessibilità è doverosa e bisogna sempre tener presente che l’allestimento deve essere funzionale all’esposizione. Qual è stato il progetto più sfidante? La sfida più importante è stata la prima volta che ho progettato da solo e per intero Unfair a Milano. Il cantiere è durato molte settimane e gli stand da allestire erano davvero tanti. Qual è il carattere distintivo dei tuoi progetti? L’accessibilità universale, a cui in pochi pensano. Ad esempio per la mostra di Ligabue alla Galleria Bper di Modena (2022) ho progettato pareti e vetrine in modo che anche i visitatori in carrozzina potessero avvicinarsi alle opere per osservarne i particolari. Dove vedremo i tuoi allestimenti nei prossimi mesi? Sto progettando lo stand di Allemandi per Artefiera a Bologna, oltre a una nuova mostra che inaugurerà in aprile sempre alla Galleria Bper. Per inizio maggio allestirò invece Exposed, il nuovo festival di fotografia di Torino e la nuova edizione di Unfair.

A

ndrea Isola è un exhibit designer. Ma cos’è, esattamente, un exhibit designer? “È un progettista di allestimenti di mostre e fiere d’arte” ci spiega Isola. “In sostanza io sono un architetto del mondo dell’arte e mi occupo della progettazione di mostre, stand, fiere, festival d’arte. Tra i miei committenti ci sono fondazioni, gallerie e altre organizzazioni”. Per Andrea Isola l’allestimento deve riunire in un’unica idea progettuale il tema della mostra, le opere e la location. Abbiamo rivolto alcune domande al professionista, in modo da sviscerare tutti gli aspetti del suo lavoro che fonde tre fattori fondamentali: “Il tema, le opere e la location, che non possono mai andare in contrasto l’uno con l’altro”. Quali sono i plus che offri ai tuoi clienti rispetto ad altre figure che allestiscono mostre? Lavoro da molti anni nell’ambiente dell’arte, ho a che fare con tutti i professionisti del settore e sono specializzato proprio nell’allestimento delle mostre. Leggo, studio, visito esposizioni e ho quindi maturato un profilo dedicato a questa mansione. Poi mi occupo di tutti gli aspetti dell’allestimento e consegno il risultato “chiavi in mano”, senza che il committente debba trattare con i fornitori o gestire altri aspetti tecnici.

Mostra All These Fleeting Perfections, Biblioteca Civica A.Geisser, Torino, credits Nicola Morittu


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GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE

MILANO

GALLARATE

BRESCIA

Fino al 3 marzo

Fino al 7 aprile

Fino al 9 Giugno

GOYA La ribellione della ragione Palazzo Reale palazzorealemilano.it

DADAMAINO 1930 – 2004 Museo MA*GA museomaga.it

I MACCHIAIOLI Palazzo Martinengo bresciamusei.com

Fino al 10 marzo RODIN E LA DANZA Mudec - Museo delle Culture mudec.it Fino al 10 marzo RON MUECK Triennale Milano triennale.org

TORINO Fino al 10 giugno LIBERTY. Torino capitale Palazzo Madama Museo Civico d’Arte Antica palazzomadamatorino.it Fino al 1 aprile 2024 HAYEZ L’officina del pittore romantico GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea gamtorino.it

MANTOVA Fino al 18 febbraio RUBENS! La nascita di una pittura europea Palazzo Te centropalazzote.it

GENOVA Fino al 7 aprile CALVINO CANTAFAVOLE Loggia degli Abati - Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it BOLOGNA Fino all’11 febbraio GUERCINO NELLO STUDIO Pinacoteca Nazionale di Bologna pinacotecabologna.beniculturali.it FIRENZE Fino al 7 aprile ALPHONSE MUCHA. La seduzione dell’Art Nouveau Museo degli Innocenti arthemisia.it Fino al 3 aprile NAMSAL SIEDLECKI. Endo Museo Novecento museonovecento.it NUORO Fino al 3 marzo GIOTTO, FONTANA Lo spazio d'oro MAN - Museo d’arte Provincia di Nuoro museoman.it


GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE ROVERETO

PADOVA

Fino al 3 marzo

Fino al 12 maggio

DÜRER. Mater et melancholia MART mart.tn.it

DA MONET A MATISSE. French Moderns 1850-1950 Palazzo Zabarella zabarella.it TRIESTE Dal 22 febbraio al 30 giugno VAN GOGH. Capolavori dal Kröller Müller Museum Museo Revoltella museorevoltella.it VENEZIA Fino al 18 marzo MARCEL DUCHAMP E LA SEDUZIONE DELLA COPIA Collezione Peggy Guggenheim guggenheim-venice.it FERRARA Fino al 25 febbraio

FORLÌ Fino al 30 giugno PRERAFFAELLITI. Rinascimento moderno Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it

ACHILLE FUNI. Un maestro del Novecento tra storia e mito Palazzo dei Diamanti palazzodiamanti.it ROMA Fino al 1 aprile ESCHER Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it Fino al 5 aprile FIDIA Musei Capitolini, Villa Caffarelli museicapitolini.org Fino al 5 aprile AALTO - Aina Alvar Elissa. La dimensione del progetto MAXXI maxxi.art

NAPOLI Fino al 7 aprile NAPOLI AL TEMPO DI NAPOLEONE Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano gallerieditalia.com

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SHORT NOVEL a cura di ALEX URSO 76

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Inquadra il QR per leggere l'intervista con l'artista





The Social Hub Bologna

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O

gni tanto, stando attenti a non parlarsi addosso, si può anche in questo spazio far riferimento a noi stessi. Ad Artribune. Accennando al nostro progetto editoriale con l’obbiettivo di affrontare però questioni più ampie. Europee in questo caso. Artribune si è sviluppata ed è evoluta molto, specie in questo ultimo quadriennio. Come fare per crescere ancora dunque? Semplice, direte voi, puntare sull’internazionalizzazione. Eh già, bella forza. Ma per passare dalle parole ai fatti ci vuole una strategia, oltre che risorse ingenti. Acquisire case editrici in altri Paesi è un po’ velleitario, andare noi all’estero col nostro marchio può risultare spericolato, creare nuovi brand editoriali da zero decisamente rischioso. E allora? E allora ci si potrebbe alleare. Federarsi, creare dei poli orizzontali che possano innescare delle sinergie e delle ottimizzazioni non solo sul piano dei contenuti (grazie alle AI il problema della barriera linguistica sta venendo meno), ma anche su quello delle catene di forniture, dei professionisti (esempio: non ciascuno col proprio avvocato, ma un grande studio internazionale che serve tutti), dei servizi digitali. Senza parlare delle strategie integrate sul mercato pubblicitario, offrendo alle grandi istituzioni europee e internazionali delle piattaforme su cui investire in cambio di una visibilità realmente continentale. Siamo oltretutto in un momento favorevole, nella possibilità di guardare queste alleanze senza sudditanza. Se aprite Similarweb (lo strumento più attendibile che indica a quanto ammonti il traffico di qualsiasi sito web) potete confrontare i risultati di Artri-

bune con quelli di qualsiasi competitor (o meglio, di qualsiasi potenziale partner) in Europa. Scoprirete che non c’è nessuno nel continente che ha le nostre dimensioni. Significa che in una ipotetica rete culturale di siti, magazine, editori europei di certo non sfigureremmo per una volta.

EDITORIALI

PER UNA FEDERAZIONE EUROPEA DEI GIORNALI DI CULTURA

Federarsi, creare dei poli orizzontali che possano innescare delle sinergie e delle ottimizzazioni non solo sul piano dei contenuti, ma anche su quello delle catene di forniture, dei professionisti, dei servizi digitali” Per innescare questi meccanismi, però, occorrono delle misure incentivanti, degli sgravi, dei vantaggi a farlo. Non si chiedono i classici “soldi all’Europa” intendiamoci, basterebbe qualche accorgimento che facesse venire voglia agli operatori – noi in primis – di muoversi in questa direzione. Proprio di questo ho parlato lo scorso lunedì 22 gennaio 2024 a Torino all’iniziativa Per un Rinascimento Europeo della Cultura - Idee per un Mercato Comune organizzata dall’europarlamentare Mercedes Bresso in vista delle elezioni europee del prossimo novembre. Speriamo che alcuni concetti e spunti si trasformino in atti e norme.

MASSIMILIANO

TONELLI

ALCUNE TESTATE D’ARTE E CULTURA RILEVANTI A LIVELLO EUROPEO

REGNO UNITO

GERMANIA

FRANCIA

ITALIA

SPAGNA

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IL PENSIERO FEMMINISTA E L'ARTE DELLE DONNE

é

bastata una parola (“patriarcato”) pronunciata dalla sorella di una vittima di femminicidio per scatenare il putiferio. Nervo scoperto di un nemmeno tanto strisciante ritorno all’ordine, di una società divisa dalla volontà di predominio degli uomini, sempre sottotraccia per quanto sconfessata dai più. Come donne, artiste, curatrici, critiche, intellettuali a più di cinquant’anni dai primi scritti delle studiose e attiviste femministe del dopoguerra quali Betty Friedan, Juliet Mitchell, Germaine Greer, la storica dell’arte Linda Nochlin e tante altre che hanno aperto nuovi orizzonti sul tema delle soggettività femminili, dobbiamo ancora ritenere “naturale” ciò che è null’altro che convenzionale, come affermava John Stuart Mill già nel 1869 nel suo esemplare pamphlet sulla sottomissione delle donne? Rispetto alle premesse di oltre cinquant’anni fa occorre chiederci: perché siamo ancora qui? Non tutte le artiste sono femministe, non tutti i simpatizzanti sono donne. Donne si diventa, affermava Simone de Beauvoir, la madre di tutte noi, moltissimi anni fa. Il bersaglio della critica femminista non è oggi e non è mai stato i maschi in quanto tali, ma la cultura patriarcale che fa da piedistallo allo strapotere che gli uomini tuttora esercitano, e la perenne diminuzione della figura femminile ancora imperante sia nella cultura “alta” sia in quella popolare.

2%

il peso delle opere prodotte da artiste donne sui ricavi globali del mercato delle aste tra il 2008 e il 2019 (fonte: artnet)

78,7

la differenza in milioni di dollari fra il prezzo più alto raggiunto in asta da un’opera di un artista vivente di sesso maschile (Jeff Koons, Rabbit, $ 91.1 milioni) e di sesso femminile (Jenny Saville, Propped, $ 12.4 milioni)

79 la posizione globale dell’Italia su 146 Paesi presi in considerazione riguardo alle differenze di genere in quanto a retribuzione (fonte: Global Gender Gap Report 2023)

l’anno in cui, secondo il World Economic Forum, è previsto il raggiungimento della parità di genere

Il bersaglio della critica femminista non è oggi e non è mai stato i maschi in quanto tali, ma la cultura patriarcale che fa da piedistallo allo strapotere che gli uomini tuttora esercitano Come affrontare, dunque, un linguaggio che esclude, se non sfidandolo? La convenzione del nudo femminile, arrendevole e complice allo sguardo maschile viene demolita dalla body art già negli anni Sessanta con feroce ironia da molte artiste europee e statunitensi, oltre a un’agguerrita avanguardia giapponese. Nei suoi peep show, Yayoi Kusama, sdraiata con il corpo nudo decorato a pois, si offre quale oggetto delizioso al visitatore che sco-

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stando la tenda vede lei ma anche se stesso in mille rifrazioni allo specchio, obbligato suo malgrado ad affrontare il proprio voyeurismo. La body art, alla quale Lea Vergine ha dedicato un saggio nel 1974, è stata importante perché rende esplicita l’intersoggettività, ossia la relazione intercorporea tra le persone, ponendo al centro dell’attenzione la dimensione performativa, il corpo in azione, una dimensione dell’arte che accomuna gran parte dell’umanità in tutto il mondo. Utilizzare il proprio corpo come forma d’arte vuol dire collassare soggetto e oggetto, un’operazione che rivela l’angosciosa necessità di gridare la propria diversità non riconosciuta. Ricordiamo l’immagine di Hanna Wilke, il suo bellissimo volto sfigurato da piccoli chewing gum, nella forma di tante

mini vulve. Il titolo dell’opera è S.O.S. una disperata richiesta di aiuto, (Starification Object Series), 1974. Ci vuole tutta l’energia di una figura eroica come Jenny Saville per affrontare, dall’interno della convenzione pittorica occidentale, il tema dell’ambiguità dei corpi: magnifici, imponenti, lacerati, doloranti, dalle identità plurali, dal genere ambiguo, come nel dipinto intitolato Passage (2004). Studiose femministe quali Iris Marion Young e Judith Butler teorizzano una riconcettualizzazione del corpo, in cui il vecchio slogan “Il personale è politico” acquista nuovo significato. Fino ad arrivare all’inclusione dei corpi ritenuti un tempo abietti, i corpi dello scandalo, espulsi dal linguaggio, oggetto di tabù, irrappresentabili, oggi finalmente ammessi nella sfera pubblica. Il corpo queer viene risignificato, riappropriato, normalizzato, disinnescando il ribrezzo e rendendo visibile il dolore, come in alcuni lavori di Kiki Smith oppure di Mike Kelley. E in Italia? La questione femminile fatica a emergere nel dibattito pubblico. Persino Carla Lonzi, femminista e storica dell’arte, rimane isolata, inascoltata, senza interlocutori tra i pensatori, poeti ed intellettuali dell’epoca, se non come intervistatrice degli artisti suoi coetanei cui dà la parola nel celebre Autoritratto (1969) tra i quali c’è una sola donna, Carla Accardi. Nel dare la parola direttamente agli artisti, compie un lavoro ermeneutico assolutamente inedito che segna una svolta che supera finalmente la finzione di un “io” universale, sempre declinato al maschile. Lonzi non lo sostituisce con un pensiero al contrario, binario, ma con un’apertura a soggettività diverse collocabili nel qui ed ora. Del resto, come ha scritto nel 2011 Michela Murgia in un saggio poco conosciuto intitolato Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna, non c’è da meravigliarsi se in Italia le donne si siano affermate con un notevole ritardo, oscurate per secoli dall’immagine femminile per eccellenza, quella della mater dolorosa, per definizione passiva, potenziale vittima, soprattutto madre, mai padrona del proprio destino.

ANNA

DETHERIDGE


I

curriculum di molti tra coloro che ce l’hanno fatta, almeno tra gli artisti italiani, mostrano una clamorosa assenza di studi in licei artistici e accademie d’arte. Questo però non vale per la media: per un Cattelan senza diploma ci sono dieci Paola Pivi, Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò (per riferirmi solo ai mid-career) che sono stati nell’aula di un maestro. Dopo la morte di Alberto Garutti, i suoi allievi hanno creato un serpentone di testimonianze su Whatsapp che testimoniano non solo il loro affetto per l’artista che li ha seguiti come studenti, ma anche l’importanza di avere potuto godere nel ruolo di discente di un docente all’altezza (alcune di queste testimonianze verranno presto pubblicate). Luciano Fabro, che ha tenuto la cattedra di scultura per molti decenni a Brera, ha addirittura pubblicato quelle che riteneva essere le sue lezioni essenziali. Olafur Eliasson ha deciso di insegnare mentre lavora: il suo studio, che coinvolge un centinaio tra designer, ingegneri, tecnici del suono, cuochi eccetera, organizza ciclicamente dei workshop che diventano momenti formativi alla maniera delle antiche botteghe, anche se con competenze avveniristiche. È notorio il sistema di insegnamento della Staedelschule di Francoforte, collegata all’iconica galleria Portikus. Gli studenti possono stare in aula giorno e notte, perché la scuola si definisce come un “esperimento permanente”; hanno come docenti nomi del calibro di Daniel Birnbaum, Isabelle Graw, Tobias Rehberger, Willem de Rooij; tra i docenti onorari ci sono Kasper König e Wolfgang Tillmans, tra quelli a rotazione un novero pieno di nomi noti. Una giuria assegna uno stipendio agli studenti migliori e ogni anno Portikus ospita mostre degli alunni con tutto quanto si può chiedere nel mondo dell’arte professionale, dai monitor a un buon comunicato stampa. A Chicago gareggiano tra di loro diversi istituti per la formazione artistica, tra cui primeggia l’Art Institute anche perché ci insegna Mary Jane Jacob, curatrice di mostre anche nel mondo esterno all’Accademia, che agisce come Executive Director of Exhibitions: gli studenti non solo hanno studi per lavorare anche da soli e uno spazio comune per esporre, ma hanno anche una direttrice di professionalità eccelsa. Se i casi sono di questo tipo, frequentare una scuola d’arte conviene. In ogni caso è esistito un vero Educational Turn negli studi di arte sperimentale, con autori come Mick Wilson, Jan Kaila, Henk Slager, la stessa Mary Jane Jacob che hanno dato al problema dell’insegnamento artistico un inquadramento teorico. Anche alcune organizzazioni europee, come il gruppo ELIA finanziato dall’Unione Europea, si muovono su questa direzione. C’è molto da imparare. Purtroppo, ci sarebbe anche molto da spendere, cosa giustificata se si pensa che il placement degli studenti d’arte non è affatto difficile: l’importanza delle immagini nel mondo digitale fa sì che diventare un grande

Portikus, Staedelschule, Francoforte

artista sia difficile, ma trovare un posto in ambito metaverso sia facile. Il problema è che le Accademie di Belle Arti italiane, da qualche anno inserite per legge nell’ambito dell’Alta Formazione Artistica e Musicale (AFAM), sono state sviluppate in un numero abnorme, soprattutto nel Sud, non per seguire esigenze degli studenti ma per creare posti di lavoro statali. Alla persona del futuro artista è sempre stata prestata poca attenzione, come se lo si ritenesse poco più di un artigiano o di un giovane in attesa di arrivare all’età del lavoro. Quindi si è concepito un sistema di reclutamento degli insegnanti che ricalca quello delle scuole medie, cioè tiene in maggiore considerazione l’anzianità di servizio del curriculum. Gli stipendi sono considerevolmente più bassi di quelli dei docenti universitari, quindi è difficile sperare che i due sistemi finiscano per unificarsi: si tratterebbe di aumentare la spesa pubblica in modo considerevole. Così il curriculum di opere, riconoscimenti, mostre internazionali non serve quasi a nulla, se non talvolta per falsare le graduatorie di concorsi che raramente – e questo accade anche nelle Università – hanno un iter basato solo sul merito. E poi, perché un artista dovrebbe vincolarsi ai circa 1800/2000 euro mensili che gli arrivano dall’insegnamento, se ha già un mercato avviato? In qualche caso per dedizione e vocazione, ma è difficile sopportare certe limitazioni nel proprio lavoro. Teniamo conto che ci sono aule in cui gli studenti non hanno spazio vitale nemmeno per un cavalletto, soprattutto nelle accademie più grandi e dove è maggiore l’afflusso degli studenti stranieri. La presenza di visiting professor di fama e comunque di iniziative che innalzano il livello è dovuta alla buona volontà di direttori e docenti.

È vero, negli anni sono nati correttivi come accademie private – che hanno il difetto di trattare gli studenti come clienti e che spesso puntano più sulla pubblicità che sulla sostanza – e alcuni nuovi corsi universitari con componenti laboratoriali importanti, a Venezia, a Bolzano, a Milano. Certo è che la scommessa dei DAMS, nati negli anni Settanta e diffusi da Bologna in tutta Italia, è stata persa, per mancanza di spazi e tempi dedicati all’azione pratica. E qui possiamo riflettere: la nostra cultura sembra disprezzare tutto ciò che non è verbale, non è numerico e utilizza un linguaggio iconico o ancora peggio pratico, che mescola le facoltà razionali con quelle intuitive, emotive e manuali. In parte si tratta di un problema antico, per il quale anche Leonardo si definiva uomo “sanza lettere” e si impegnò in una battaglia per fare riconoscere alla pittura lo statuto di “arte liberale”. Non siamo andati molto avanti: la concezione delle arti visive come campo del sapere non è mai stata davvero accolta. D’altronde, a rafforzare questa mentalità, nel ventennio fascista abbiamo visto montare la supremazia del verbale su qualsiasi altra forma di sapere, incluso quello scientifico, che ha attraversato la Riforma Gentile e che ancora aggredisce il nostro sistema di formazione, dalle primarie al dottorato. Non c’è molto da fare, a questo punto, se non cercare di indurre gli studenti a circolare anche per sedi straniere, affinché portino indietro una coscienza più evoluta del ruolo delle immagini e di cosa possa significare studiarne i meccanismi interni. Perché non solo imparino che si può chiedere un atelier e un computer fornito dalla scuola, ma anche che l’arte, o qualsiasi cosa si voglia fare con forme, movimento, stimoli sonori e spaziali, ha un background gnoseologico prima ancora che pratico, ed è là per parlarci di noi tutti e non per “esprimere se stessi”: uno svarione ottocentesco che porterebbe anche i più dotati su strade misere, egocentriche e prive di rilevanza collettiva.

ANGELA

EDITORIALI

EDUCAZIONE ARTISTICA: BUONE PRATICHE INTERNAZIONALI E CRITICITË ITALIANE

VETTESE

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ARTE E NATURA. QUALI PROSPETTIVE? Negli scorsi decenni gli artisti non hanno esitato a utilizzare corpi di animali nelle proprie opere. Ora che gli orizzonti sono cambiati come si colloca questo tipo di arte nella sensibilità contemporanea? Siamo passati da uno sguardo prettamente antropocentrico a uno sguardo orizzontale? O l’arte e la storia dell’arte giustificano questo approccio? È facile gioco usare un corpo non nostro: posARTISTA E CO-FONDATRICE siede la presenza della RAVE EAST VILLAGE ARTIST vera vita piegata ad uso RESIDENCY e consumo dell’artista, e l’orrore della sua assenza nel momento in cui non lo attraversa più. Ma in questo passaggio storico, così significativo per la nostra specie, diventa invece necessario sollevare lo sguardo ‘più in alto e più lontano’ (cfr. Norberto Bobbio), verso paesaggi di coesistenza ancora da definire. Con la mostra AAA Animal Among Animals, curata da RAVE e Gabi Scardi alla Spazzapan Galleria Regionale d’Arte Contemporanea di Gradisca d’Isonzo, abbiamo iniziato lo scorso anno una prima ricognizione di opere che attraversano questo sentire, dove si possano riconoscere le basi di una crescente coscienza antispecista e figurare relazioni basate sul riconoscimento della diversità e su una mutualità dello sguardo. Proprio perché l’arte può avere la capacità di immaginare scenari altri, di aprire soglie che non sono ancora state varcate e concepire percorsi sconosciuti al di là delle barriere, persino di specie.

ISABELLA PERS

Commentando con Cattelan un elefantino di Carsten Höller dissi CURATORE che non era una delle sue opere più riuscite; Maurizio rispose: “Sai, un animale funziona sempre.” Difatti trovo molte delle opere che hanno usato la tassidermia ancora oggi molto interessanti come La ballata di Trotkij di Cattelan, i maiali di Wim Delvoye, squalo e mucca di Hirst, le sculture fatte con insetti-scarabei di Fabre, gli uccellini impiantati sul muro di Vedovamazzei, oppure Beuys che nel 1965 si aggirava per la galleria Schmela di Düsseldorf con una lepre morta in braccio a cui spiegava i quadri esposti. Mi accorgo che gli esempi sono tutti di artisti uomini e ciò porta a sforzarmi nella ricerca di artiste donne. Mi vengono in mente le zebre alpine e gli orsi “pupazzi” di Paola Pivi, ma ancor più Isabella e Tiziana Pers che salvano gli animali dal macello in cambio di una loro opera, portandoli a vivere nella loro fattoria. Sono atteggiamenti opposti di fronte a quali io scelgo il terzo quello della libertà d’espressione. Essendo un critico curatore dipendente dall’arte la valuto per questo, anche se, per finire, direi che con le sorelle Pers nessun animale è perso.

GIACINTO DI PIETRANTONIO

Esiste una differenza fondamentale tra il CURATRICE tentativo di raccontare il mondo intorno a sé e la tendenza a utilizzare animali nella realizzazione di opere, fosse anche opere di denuncia. In questo secondo caso si tratta di una strumentalizzazione, con l’animale non umano visto come oggetto da trattare, non come soggetto senziente da rispettare. Credo che sul tema urga interrogarsi. Per questo quando, alcuni anni fa, ho cominciato ad occuparmi della rivista di studi critici sugli animali Animot, ho subito sentito il bisogno di pubblicare il saggio di Giovanni Aloi, Animal Studies and Art: Elephants in the Room che analizza proprio gli aspetti materiali del fare arte, e come questi abbiano sempre compreso il consumo di “materia animale”. Oggi, in una cornice di maggiore consapevolezza rispetto alle implicazioni dell’azione umana compresa quella degli artisti, l’adozione di un approccio più consapevole mi pare imprescindibile, e rientra nella necessità più ampia di ripensare lo stare al mondo dell’uomo a partire da un principio di convivialità e di coesistenza, piuttosto che di dominio e di violenza. Riflettere sulla questione può costituire inoltre l’occasione per chiedersi cosa significhi, in termini di etica, di coerenza e di postura, fare cultura. Credo ci sia ancora molto da fare; siamo ancora infinitamente lontani da una situazione “orizzontale”.

GABI SCARDI

Il corpo è sempre stato usato nella storia ARTISTA dell’arte. Le forme performative non prettamente teatrali hanno avuto sviluppi e prospettive differenti nel tempo, ma appartengono alla stessa famiglia dei progetti che hanno visto impegnati artisti del Secondo Novecento o del XXI Secolo. Parlo delle Sacre Rappresentazioni o di quelle forme ibride di azioni non drammatiche con uomini, cavalli e altri animali, che, nella Roma di metà Seicento coinvolsero anche Gianlorenzo Bernini. Ma si può arrivare fino, ovviamente, agli spunti performativi di avanguardie storiche come il Futurismo. Il corpo è sempre stato centrale. E la vita in un’opera è una componente che nessuna riproduzione o scultura può sostituire. Il rapporto tra Beuys e il coyote è una variabile che trova il suo valore non nella sua rappresentazione o nella

GIAN MARIA TOSATTI


Sicuramente sono cambiate le prospetCO-DIRETTORE PER LE tive, gli intenti e le ARTI VISIVE DELLA TENUTA stesse ragioni per cui i DELLO SCOMPIGLIO diversi esseri umani e non umani abitano o costituiscono le opere d’arte. Mentre in passato, gli animali o le piante, ad esempio, venivano interpellati per la loro rispettiva simbologia o come metafora di una determinata condizione umana, nell’attualità l’orizzonte e lo sguardo stanno radicalmente mutando, anche se non sempre in modo completamente consapevole. La critica si sta assumendo la responsabilità di promulgare un cambio di paradigma in atto basato sulla ricostruzione di un nuovo sistema di relazioni tra l’essere umano e ciò che lo circonda in una dimensione orizzontale, inclusiva e collettiva. Il mutamento climatico, il rapporto con le altre specie, le problematiche postcoloniali, le diaspore, i populismi o i suprematismi sono oggi al centro della critica teorica e delle urgenze degli artisti in cui emerge una ricerca incentrata su modelli etici inclusivi, la tutela della diversità, il riconoscimento della differenza e la capacità di immaginare delle alternative sostenibili.

ANGEL MOYA GARCIA

L’arte ha molte possibilità. Se il suo ruolo può ARTISTA E CO-FONDATRICE essere anche quello di RAVE EAST VILLAGE ARTIST anticipare scenari posRESIDENCY sibili, talvolta nel panorama contemporaneo assistiamo invece al reiterarsi di schemi sorpassati, dove l’alterità animale è ancora violentemente oggettivata e ridotta a ‘materiale’, depauperata della sua identità ontologica, della sua stessa biografia (persino alla Biennale di Venezia abbiamo letto didascalie di animali in tassidermia classificati come ‘mixed media’). Questa ricerca del sensazionalismo attraverso un’estetica che esclude l’etica era stata definita (riguardo a Damien Hirst ad esempio) ‘immoralismo cognitivo’ (cfr. Kieran Cashell). Tale approccio ha certamente a che fare con il periodo storico che lo aveva generato, e al quale resta indissolubilmente legato. Ma è proprio qui che risiede lo scarto: nella possibilità oggi di attraversare il nostro tempo facendoci carico delle sue ombre, avendo il coraggio di evolvere gli immaginari verso qualcosa che ancora non c’è.

TIZIANA PERS

Siamo sempre stati abituati a guardare gli CURATRICE altri animali non come individui ma come materiali e prodotti, in un processo di oggettificazione continuo, intrinseco nel nostro modo di rapportarci con i viventi. Ne mangiamo la carne, ne usiamo la pelle, ne sfruttiamo la forza. Assistiamo a corpi smembrati, assenti, dentro e fuori dallo spazio vitale dove l’opera vive e accade. L’utilizzo dei corpi animali è in questo senso reiterazione di un atteggiamento ben più radicato, concezione per cui ci consideriamo cima di una piramide inesistente, anziché parte di un sistema circolare condiviso. Della prospettiva antropocentrica raccogliamo tutto: per questo è diventato urgente educare lo sguardo, in un’ottica che definirei di necessaria coesistenza. Le pratiche artistiche e curatoriali hanno la responsabilità di aprirsi a una riflessione sull’alterità, dando forma a possibili immaginari per il futuro.

MARTINA MACCHIA

a cura di SANTA NASTRO

Uno sguardo non più antropocentrico già lo CRITICO E CURATORE avevano sperimentato Giuseppe Penone o Joseph Beuys fin dalla fine degli anni Sessanta. Mi pare che col tempo queste posizioni si siano radicalizzate e abbiano incluso nell’indagine questioni allora ancora di là da venire, cioè di là da diventare problematiche. Il rapporto con l’animalità soprattutto. Credo che gradualmente nell’arte sia emersa l’esigenza di valutare in modo nuovo l’animalità, anche grazie alle ricerche più recenti, e spesso spiazzanti, sulla psicologia animale e l’etologia in generale. Oggi ci sono le possibilità e anche i rischi offerti dall’Intelligenza Artificiale che sta facendo le sue apparizioni anche nell’ambito artistico. Da tempo l’artista delegava la realizzazione dell’opera alla “macchina”, la macchina fotografica prima, il computer poi, ma con la robotica la macchina rischia di prendere totalmente il posto del soggetto umano. Per ora i risultati non mi sembrano interessanti se non sul piano puramente formale, ma il campo è quanto mai aperto al nuovo, vedremo. Certo ci sarà da ridiscutere sul ruolo dell’artista che le pratiche anti-autoriali delle avanguardie avevano marginalizzato, sarà il caso di valutare se converrà andare fino in fondo e delegare tutto al robot o recuperare un ruolo più pregnante per la soggettività senza che questo sembri reazionario…

GIORGIO VERZOTTI

Ogni forma di controllo su un corpo è un ARTISTA abuso. La differenza tra un atto artistico che include animali umani e non umani è che i primi hanno scelto di essere lì e di prendere parte a quell’azione, i secondi no. All’animale non umano non è mai stata data la possibilità di scelta. Viviamo nell’epoca del consenso, eppure continuiamo ad usare ed abusare del corpo degli animali, aspettandoci che stiano lì per noi. La visione antropocentrica permea ancora il mondo dell’arte: l’ultima ostentazione è stata la mostra “New Egg” di Vedovamazzei, a cura di Nicolas Ballario, ospitata da Villa San Quirico durante l’ultima art week torinese. Entrare in una stanza e guardare dei polli in gabbia, ah no, scusate, in dei pollai domestici, è stata l’ennesima dimostrazione di come l’arte fallisce nel tentativo di evolvere il proprio sguardo nei confronti degli animali. “Ogni pollaio lancia infatti grandi messaggi” dice Ballario, ma si sa, una gabbia anche se d’oro, nega comunque la libertà.

GIULIA COTTERLI

TALK SHOW

sua intenzione, ma, appunto, nell’interazione. Da allora, è vero che molto è cambiato. Ma tutto cambia continuamente. In un periodo della storia un gesto può esser letto in un certo modo, poi un secolo dopo può assumere un altro significato. È normale. L’unica cosa importante è che la necessità che sta dietro un gesto, non venga soffocata dalla specifica sensibilità di un certo tempo. Nell’arte i gesti necessari restano rivoluzionari in ogni tempo, anche quando non ci piacciono. I gesti che non hanno una vera e verticale necessità, invece, sono sprecati sempre.

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LA PROSSIMA CRITICA? LA CRITICA PROSSIMA

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uel che manca a tutti i critici è l’anatomia dello stile” sentenziava Flaubert. Inutile negarlo, negli ultimi tempi si è riacceso anche in Italia un dibattito sulla critica d’arte, per alcuni versi verrebbe da dire “finalmente!”, per altri ahimè non si può non pensare “ancora?” e, aggiungere, “con quali prospettive?”. A onor del vero chi scrive si era occupato di tale argomento anni fa proprio su queste pagine, con specifico accento su una supposta (crisi della) formazione dei futuri critici. Ora però l’obiettivo comune sembra essersi spostato sulla sopravvivenza di un “mestiere”, sugli ostacoli che si incontrano nel cammino per raggiungere una posizione e sui pericoli che si corrono nell’avvicinarsi alle tanto agognate vette critiche.

La recensione e l’intervista, così come il saggio critico, hanno piena validità a patto che le si collochi in un contesto di stretta attualità, senza vene nostalgiche La prima domanda attorno alla quale ruotano (rare quanto) significative riflessioni è: dove? Siamo veramente sicuri che le pagine culturali dei quotidiani siano, in ultima analisi, le uniche sedi ufficiali in cui ravvisare i barlumi di una flebile fiamma critica? Una tale convinzione non solo sembra collocarsi tremendamente fuori dal tempo (riviste di ogni genere, blog, webzine e persino profili social sono luoghi altrettanto vivi), ma corre il rischio perfino di declassare snobisticamente tutto ciò che non appartiene alla suddetta categoria. Senza contare che ancora oggi, nel 2024, non è possibile aspirare a una piena trasparenza delle modalità attraverso le quali raggiungere quei pulpiti privilegiati. La seconda questione che serpeggia tra articoli, lettere aperte e obiezioni è: come? Ovvero, c’è un modo, un formato precipuo, una griglia testuale che più di altre rappresenta il pensiero critico? Ecco comparire allora l’ennesimo elogio della recensione e il rimpianto per la

Dalla serie degli Artoons di Pablo Helguera

sua presunta dipartita, amen. Siamo proprio sicuri però che quello strumento spuntato, vessato da più parti, a volte addirittura non accettato, negato, combattuto a suon di diffide (e non di repliche) potrebbe rappresentare la zattera per superare la tempesta? E allora l’intervista, la conversazione con l’autore / artista, la possibilità di incalzare l’interlocutore e di sentire la sua viva voce? A mio parere entrambe le soluzioni, così come il saggio critico, hanno piena validità a patto che le si collochi in un contesto di stretta attualità, senza vene nostalgiche.

Potrebbe anche la negazione, il dire no, il sottrarsi, l’agire coscientemente per non aderire a un sistema ritenuto viziato essere comunque valutato in tal senso, come una presa di posizione politica?

Un terzo interrogativo si pone di conseguenza: quando? Qual è il metro che stabilisce la validità di una scelta critica? È chiaro che esporre le proprie ragioni in merito a un’opera, una mostra, un progetto o l’intera programmazione di uno spazio espositivo, esprimere il proprio parere motivandolo stia alla base di ciò che siamo abituati a chiamare critica. Ma potrebbe anche la negazione, il dire no, il sottrarsi, l’agire coscientemente per non aderire a un sistema ritenuto viziato essere comunque valutato in tal senso, come una presa di posizione politica? La critica ventura una chance di sopravvivenza potrebbe trovarla nella prossimità, da non confondere con il localismo, ma da praticare intervenendo su ciò che si conosce e si frequenta assiduamente, su ciò che si vive e che diventa parte dell’esperienza, su ciò con cui si stabilisce un rapporto continuativo, una relazione dialogica basata sul confronto aperto, anche nell’occasione in cui questo significhi non esprimere consenso.

CLAUDIO

MUSSO


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opo Bakunin non c’è più stato in Europa alcun concetto radicale di libertà”, così Walter Benjamin commentava la lettura di Nadja, una delle opere capitali di Breton e del Surrealismo. Quest’anno, l’avvento del movimento surrealista compie cento anni. Fondato nell’ottobre del 1924 con il celebre Manifesto del Surrealismo, da allora ha avuto una lunga fortuna. Ma tra tutte le interpretazioni di questo movimento, saggi e letture critiche, la parola libertà, che Benjamin colse tempestivamente (1928), è stata la sua colonna portante. Certo, mai come in quell’esperienza Arte e Rivoluzione sono state così vicine fino a confondersi. E nel 1938 Breton, insieme a Trotskij, ospiti di Frida Kahlo e Diego Rivera in Messico, scriverà il celebre testo Per un’arte rivoluzionaria indipendente: proclamare l’identità di arte, rivoluzione e libertà costituiva un imperativo etico per molti artisti. Erano gli anni delle feroci dittature che sarebbero sfociate nella guerra. Non bisogna dimenticare che in Italia la conoscenza del Surrealismo fu ostacolata, poiché considerata sovversiva, e solo una ristretta cerchia di artisti e intellettuali poterono avere rapporti con i protagonisti del movimento; soprattutto ad avvantaggiarsi di questo rapporto fu la versione metafisica e il realismo magico di De Chirico e Savinio. La vicinanza del Surrealismo ai

L’ascesa del Surrealismo

il termine “surrealista”

Tristan Tzara, fondatore 19 del movimento Dada di 20 cui Breton fa parte, arriva a Parigi 19 Breton abbandona 22 ufficialmente il Dada Breton pubblica 19 il Manifesto del 24 Surrealismo 19 In occasione della guerra 25 in Marocco, il movimento surrealista si avvicina al Comunismo Breton si iscrive al 19 Partito Comunista 27

19 Prima mostra di artisti 31 surrealisti (Dalì, de Chirico, Ernst, Miró) negli USA, ad Hartford

Il MoMA di New 19 York organizza una 36 mostra dedicata al Surrealismo e al Dada

19 Breton e Trotskij scrivono 38 Per un’arte rivoluzionaria Allo scoppio della 19 indipendente Seconda Guerra Mondiale, 39

molti artisti surrealisti lasciano l’Europa e si stabiliscono negli USA

La sovversione dell’evidenza, del luogo comune, è sempre una questione aperta, soprattutto oggi problemi politici del tempo può essere colta da questa espressione lapidaria di Breton, scritta nel n°6 della Rivoluzione Surrealista del 1° marzo 1926: “I soli quadri che amo... sono quelli che reggono davanti alla fame”. Quante opere, oggi, reggerebbero di fronte a questa espressione? Tra i nemici dei surrealisti, oltre ai cosiddetti partiti conservatori e fascisti, alleati fedeli delle dittature, figurano alcune categorie di oggetti come gli orologi, che sono considerati dei mostri, poiché scandiscono il tempo di produzione in funzione dello sfruttamento del lavoro senza limiti (come oggi). L’orologio è il nuovo patto col diavolo cui soccom-

19 Guillaume Apollinaire 17 usa per la prima volta

19 Max Ernst, Jean Arp e 55 Joan Miró sono premiati alla Biennale di Venezia

bono intere masse sottoposte a ritmi di lavoro massacranti, misurati fino al secondo. A meno che, come suggerivano Vitrac e Breton, non si capovolgano le lancette e si scopra che il tempo è una nostra invenzione, e perciò può essere datore di sorprese visionarie come succede nei sogni. È in questo sovvertimento delle regole – tempo compreso – che Benjamin fu colpito dall’idea di libertà avanzata dai surrealisti. Ma fu colpito anche dal fatto che gli oggetti abbandonati e portati nel quartiere delle pulci di Parigi – SaintOuen – erano portatori di visioni sovvertitrici del mondo dell’arte, che avrebbero dato vita ad opere importanti denominate, dopo Duchamp, Objet trouvé. In quei resti, abbandonati, c’era qualcosa da riscattare: l’incontro fortuito tra un oggetto e un soggetto, come nel celebre passo di Lautréamont: l’incontro fortuito tra un

ombrello e la macchina da cucire. D’altra parte, lo humour, nell’accezione di Breton, è un parafulmine della psiche (paratonnerre), come spiega nella prefazione all’Antologia dello humour nero. Il parafulmine rovescia l’angoscia o la collera, neutralizzandone gli effetti nichilisti e autodistruttivi attraverso la distanza dello scherzo. L’idea che l’esistenza è altrove – come recita la battuta finale del Manifesto – è stata il nervo portante di tutte le trasgressioni ed esplorazioni che i surrealisti hanno praticato. Come è accaduto ad alcuni protagonisti delle seconde avanguardie. Jean-Jacques Lebel – cresciuto in compagnia di Breton, Duchamp, Leiris, Man Ray e altri surrealisti – mi ha raccontato di una performance fatta da Felix Guattari durante il primo Festival Internazionale Polyphonic, negli Stati Uniti

EDITORIALI

SPETTRI DEL SURREALISMO

L’idea che l’esistenza è altrove è stata il nervo portante di tutte le trasgressioni ed esplorazioni che i surrealisti hanno praticato (1979). “Felix – ricorda Lebel – a un certo punto s’è buttato in acqua, poi è ritornato sulla scena, s’è seduto a terra a gambe incrociate, microfono alla mano e s’è messo a fare un discorso delirante, magnifico, sulle problematiche mondiali. Due giorni dopo, prese parte a una delle mie performance con Ferlinghetti, Heidsieck e altri...dove ha registrato sul palco il famoso Sogno di Yasha, scambiando tutti i ruoli del malato, dell’oratore e dello spettatore – che ho utilizzato per la mia grande scultura Monumento a Felix Guattari. Una performance che il mio amico Gilles Deleuze definì ‘un Souk libertario’”. La sovversione dell’evidenza, del luogo comune, è sempre una questione aperta, soprattutto oggi. Dopo cento anni, il Surrealismo, in quanto pedagogia della rivolta, risulta sempre attuale.

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IL CATALOGO DI MUSEO, DAI COCCODRILLI AL DIGITALE

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adamina, il catalogo è questo” canta Leporello, illustrando le innumerevoli conquiste del suo padrone a un’attonita Donna Elvira. Pochi anni prima dell’esordio praghese del Don Giovanni di Mozart (1787), era stato pubblicato quello che si può considerare il primo catalogo moderno di museo, in cui a ogni opera è riservata una breve scheda, con le informazioni essenziali e una succinta descrizione: La Galerie Electorale de Dusseldorff, ou catalogue raisonné et figuré de ses tableaux di Nicolas de Pigage, uscito a Basilea nel 1778. I dipinti della Galleria Elettorale vi sono anche riprodotti, in tavole che raffigurano una ad una le pareti delle diverse sale in cui era esposta la raccolta: una sorta di anticipazione delle visite virtuali della nostra era tecnologica. Il catalogo di Pigage è preceduto da una tradizione di volumi illustrati dedicati a singole collezioni, che partiva dalla fine del Cinquecento e che aveva conosciuto una notevole fioritura nel secolo seguente, con un buon numero di ‘cataloghi’ delle collezioni naturalistiche e antiquarie italiane (Imperato, Calzolari, Moscardo, Cospi, Kircher) e di altre parti d’Europa (quella di Ole Worm a Copenhagen). Corredati spesso di vedute d’insieme di questi musei di curiosità, sono fonti indispensabili e affascinantissime per conoscere le modalità di allestimento di raccolte come queste (vi si vede di tutto: coccodrilli appiccicati al soffitto come enormi gechi, pesci e uccelli delle più diverse specie, idoli egizi e animali fantastici). Al Catalogue raisonné della galleria di Düsseldorf è seguita un’enorme produzione di cataloghi museali, che si sono sempre più imposti come strumenti scientifici fondamentali, differenziandosi tra cataloghi che hanno continuato a privilegiare un’informazione concisa e altri che presentano schede molto ampie e approfondite (dei veri e propri saggi) sui singoli pezzi di una raccolta. Nel frattempo è nato e si è sviluppato anche il catalogo di mostra, che ha subìto nel corso del tempo un’evoluzione ancora più sensazionale di quella del suo omologo museale: da opuscoli non illustrati di poche pagine, in cui le opere sono solamente elencate (come i cataloghi delle mostre fiorentine nel chiostro della Santissima Annunziata, pubblicati – tra i primi – a partire dal 1706), si è passati a volumoni riccamente illustrati, con testi introduttivi e ampie schede, che in nessun modo possono essere usati come supporti della visita. Il catalogo di mostra ha insomma assunto la veste di un volume d’arte sempre più indipendente dalla rassegna che ne è all’origine, come prova anche il fatto che spesso i cataloghi non sono pronti per l’inaugurazione, ma escono molto tempo dopo, se non a mostra finita. Tra i cataloghi dei musei e delle mostre si possono scorgere delle frizioni, che riflettono il rapporto problematico che spesso si rileva, a un livello più generale, tra gli uni e le altre: su una certa opera si trovano più informazioni (e riproduzioni migliori) nei cataloghi delle mostre in cui quell’opera è stata esposta, che non nel catalogo del museo che la custodisce normalmente, o perché il catalogo del museo è troppo sinte“

Tra i cataloghi dei musei e delle mostre si possono scorgere delle frizioni, che riflettono il rapporto problematico che spesso si rileva, a un livello più generale, tra gli uni e le altre

in alto: Courtesy Mo(n)stre

tico, o perché è vecchio e da aggiornare, o perché non c’è proprio; e, a questo proposito, è stato più volte rilevato come il rallentamento nell’attività di catalogazione di un museo sia dovuto al fatto che direttore e personale scientifico siano più impegnati su altri fronti, a cominciare da quello dell’organizzazione di mostre temporanee e del confezionamento dei relativi cataloghi. È vero anche, d’altro canto, che questa contrapposizione si è talvolta ricomposta in un quadro di fruttuosa armonia, come quando la redazione di un catalogo di museo ha potuto beneficiare dei progressi scientifici apportati dai cataloghi delle mostre riguardanti le raccolte di quel museo svoltesi negli anni precedenti. Da qualche anno il catalogo di museo si trova ad affrontare la sfida imposta dal digitale e dalla rete. I siti di molti dei principali musei del mondo offrono repertori online delle loro collezioni (completi o meno), da cui si ricavano le informazioni essenziali e buone riproduzioni, spesso scaricabili. Questo però non significa la fine del catalogo come volume cartaceo, che sembra ancora lo strumento più indicato non tanto per reperire notizie su singole opere, quanto per apprezzare la consistenza e le caratteristiche di una determinata raccolta nel suo complesso e per conoscerne la storia.

FA B R I Z I O

FEDERICI


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osa cambierebbe nell’esperienza delle mostre se, da domani, fosse vietato l’uso dei cellulari? Artisti, curatori, critici d’arte, studiosi, nessuno sfugge ormai al mondo dei social media che sempre di più definiscono spazi altri in cui continuiamo a interagire e relazionarci. La loro evoluzione ha inciso radicalmente anche sul modo in cui l’arte viene fruita e, nello specifico, su come le mostre vengono affrontate. Piattaforme quali Instagram e TikTok, grazie alla loro immediatezza visiva e alle accattivanti strategie narrative, svolgono oggi un ruolo cruciale nella diffusione, promozione e presentazione delle esposizioni, offrendone un’anteprima attraverso la condivisione di immagini curate, storie, video e altri contenuti. Una volta che la mostra inaugura, soprattutto se ha guadagnato notorietà grazie a vari fattori – tra cui anche efficaci campagne di comunicazione sui social – quella stessa anteprima si intensifica per mano dei visitatori traducendosi in un’esplosione di contenuti che, se da un lato permette di superare le barriere geografiche e temporali, restituendo l’atmosfera di momenti espositivi diversamente invisitabili, dall’altro può comportare la quasi completa condivisione di quanto esposto. La prima impressione di un’opera o di un’esposizione avviene perciò, spesso, attraverso lo schermo di uno smartphone, riducendo l’elemento sorpresa ma, soprattutto, creando specifiche aspettative. Si provi adesso a indossare i panni delle prime persone che visitano la mostra. La drammaturgia del fotografare, filmare e poi postare incide significativamente anche sulle modalità con cui si fruiscono le esposizioni. Il cellulare diviene una protesi fisica e visiva, determinando il nostro comportamento nello spazio: ci ritroviamo con le braccia più o meno tese per scattare foto, lo sguardo concentrato sullo schermo per controllare l’inquadratura o rivolto alla fotocamera per fare selfie, ancora, a fare giravolte per le giuste riprese di un video, di una storia o di un reel. Insomma, una performatività del corpo che diviene parte dell’esperienza stessa, con il conseguente rischio di una percezione più superficiale e una maggior attenzione alle opere che

appaiono più efficaci sullo schermo. Ma è anche questa stessa drammaturgia a rappresentare un incentivo per visitare una mostra, un desiderio di presenzialismo – un’affermazione del “ci sono o ci sono stato!” – così come l’opportunità di costruire e rafforzare una particolare immagine personale.

Una performatività del corpo che diviene parte dell’esperienza stessa, con il conseguente rischio di una percezione più superficiale Sarebbe sicuramente interessante, nella probabile impossibilità di portare a termine il compito, tentare di condurre uno studio su come, quali e quante immagini condivise dal pubblico circolino liberamente sul web. Si tratta, infatti, di fotografie spesso ritagliate, ingrandite, filtrate e modificate che possono differire significativamente dall’originale e talvolta stravolgere l’intenzione stessa dell’artista, raggiungendo una totale autonomia. Tuttavia, più un’opera o una mostra si presta alla condivisione sui social, maggiori sembrano essere le sue possibilità di successo, un aspetto che può arrivare a incidere sia sulle programmazioni espositive che sulla progettazione degli allestimenti. Gli stessi artisti ne sono sempre più consapevoli, il che solleva interrogativi su come e quanto l’attrattiva di essere instagrammabile possa influenzare anche la produzione artistica.

La recente mostra Oltre la soglia di Leandro Erlich, tenutasi da aprile a ottobre 2023 a Palazzo Reale a Milano, ha presentato installazioni site-specific complesse, palazzi dove i visitatori potevano arrampicarsi virtualmente e case che apparivano sospese in aria; tutte opere che, giocando con la realtà e modificando la percezione dello spazio, stimolavano i visitatori a scattarsi fotografie, trasformando la mostra in un fenomeno social. Diversamente vi sono molte opere che sono state create ben prima dell’era dei social media ma che oggi vi trionfano. Nemmeno lontanamente destinate ad avere successo su queste piattaforme, sono state concepite come installazioni ambientali e partecipative ottenendo nel tempo un grande successo mediatico: è il caso delle Infinity Room di Yayoi Kusama, create a partire dagli anni Sessanta o la più recente Upside Down Mushroom Room di Carsten Höller realizzata nel 2000 e oggi uno dei punti di forza dell’allestimento della Fondazione Prada di Milano. Tornare indietro è impossibile, e non si possono certo negare gli enormi vantaggi che i social media hanno portato in termini di visibilità e accessibilità nell’arte. Appare però fondamentale mantenere un approccio critico e consapevole, così che l’esperienza culturale non venga (troppo) compromessa dall’influenza pervasiva dei social media.

GIULIA

EDITORIALI

TRA (IPER)ESPOSIZIONE E REALTË. COME I SOCIAL STANNO CAMBIANDO IL MODO IN CUI VIVIAMO L'ARTE

Z O M PA

Instagram, mostre e Gen Z (nati tra il 1995 e il 2010)

91,3%

usa Instagram per cercare informazioni sulle mostre

70,4%

ricerca su Instagram le esperienze di altri visitatori della mostra

61,9%

dichiara che basa la scelta su quali mostre visitare in base a informazioni reperite su Instagram

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Fonte: Kang, H. W., Park, S. W., Joo, Y. J., and Rhee, B. A. 2020. A study on sharing exhibition experience of Generation Z through Instagram posting

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