Grandi Mostre #37

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DUCHAMP • BRÂNCUSI • EL GRECO • KAPOOR • VON GLOEDEN E MAPPLETHORPE • FUNI

37 DIETRO LE QUINTE DELLE GRANDI MOSTRE • LA MAPPA DELLE GRANDI MOSTRE


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MARCEL DUCHAMP / VENEZIA

Marcel Duchamp a Venezia La copia non è un limite Alberto Villa

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a dicotomia fra originale e copia si situa fra le questioni più arcaiche dell’estetica (perché legate all’arché, al principio di tale disciplina). Ben nota è la posizione di Platone sul concetto di mimesis: gli oggetti sensibili non sono altro che ombre di idee originarie, situate nell’Iperuranio e accessibili solo attraverso la filosofia. Per non parlare della scarsa considerazione che il pensatore greco aveva dell’arte, in quanto copia di una copia, e dunque doppio inganno. Tante sono state le reinterpretazioni o le critiche alle teorie platoniche. Curiosamente, fra le più convincenti c’è proprio quella di un artista, nato oltre duemilatrecento anni dopo. Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968), fra i più dirompenti artisti del Novecento (nonché regista e abilissimo scacchista), compì una personale rivoluzione dei rapporti di valore tra copia e originale. Oggi un’interessante mostra alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, curata Paul B. Franklin, esplora questa peculiare ossessione dell’artista francese, i cui riverberi nella storia della cultura fibrillano oggi più che mai nei meme e nel dibattito dell’autorialità dell’intelligenza artificiale. Alle opere già presenti nella Collezione Peggy Guggenheim si aggiungono importanti prestiti di istituzioni museali italiane e internazionali, ma anche un’ampia selezione della collezione di Attilio Codognato.

IL POTERE SEDUTTIVO DELLA COPIA

Quello della copia è un tema che, come suggerisce il titolo della mostra, ha un potere seduttivo su Duchamp: attraverso l’esasperazione della riproduzione, l’artista può superare quel gravoso vincolo valoriale tra originale e copia. Nelle sale sarà facile imbattersi nelle medesime opere ripetute, ogni volta con la variazione di un dettaglio, spesso con taglio ironico. Fa sorridere, per esempio, la versione “rasata” della famosa L.H.O.O.Q., che risulta quindi essere una normale Monna Lisa: la copia della copia, perdendo i baffi, ritorna originale, senza esserlo davvero. In Duchamp, tutto è copia e originale allo stesso tempo. Una posizione a dir poco scomoda, soprattutto se comparata a quella fortunatissima di Walter Benjamin, che vedeva nella riproduzione una perdita dell’aura dell’opera. Sappiamo che il filosofo tedesco era a conoscenza delle avventure estetiche duchampiane, e pare avesse anche scritto un capitolo a riguardo

Fino al al 18 marzo 2024

MARCEL DUCHAMP E LA SEDUZIONE DELLA COPIA Curata da Paul B. Franklin Collezione Peggy Guggenheim Dorsoduro, 701-704, Venezia guggenheim-venice.it

in alto: Marcel Duchamp con l’esemplare non ancora completato di da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy (Scatola in una valigia) 1935–41, in casa di Peggy Guggenheim. La fotografia è in origine pubblicata in Time, 7 settembre 1942. a destra: Marcel Duchamp e la seduzione della copia, Collezione Peggy Guggenheim, Ph. Matteo De Fina © Association Marcel Duchamp, by SIAE 2023

destinato al suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che però non fu inserito nella versione finale del testo. Al di là dell’evidente capacità della mostra di raccontare il rapporto tra originale e copia nell’opera del dadaista più celebre di sempre (riuscendo in alcuni brani ad essere essa stessa un esempio di tale rapporto), Marcel Duchamp e la seduzione della copia possiede anche un valore scientifico e documentario non indifferente, che emerge nella riproduzione di interviste e nella presentazione di preziosi documenti biografici dell’artista.


MARCEL DUCHAMP / VENEZIA

INTERVISTA AL CURATORE PAUL B. FRANKLIN

Nonostante la rivoluzione di Duchamp nel concetto di copia, la ricerca dell’originalità assoluta (che potremmo dire non esista) rimane profondamente radicata nell’arte contemporanea. Duchamp non è responsabile della sua eredità. Non possiamo ritenerlo responsabile dell’importanza continuativa attribuita all’originalità assoluta (un concetto che sicuramente avrebbe respinto) nell’arte contemporanea. Come ha dichiarato nel 1961: “Non voglio

distruggere l’arte per gli altri, ma solo per me stesso, questo è tutto”. Se noi, artisti e appassionati d’arte, continuiamo a valorizzare e persino a idolatrare l’originalità nell’arte, è un riflesso dei nostri pregiudizi e delle priorità culturali e commerciali personali. E forse anche delle nostre carenze intellettuali e creative. Questa mostra è stata resa possibile anche grazie a un notevole prestito di opere da parte di Attilio Codognato. Perché la sua collezione è così importante per lo studio di Duchamp? Fin dagli anni Settanta, Attilio Codognato ha costruito una collezione completa e coerente delle opere di Duchamp. Essa include sia opere uniche sia esempi di quelle prodotte in edizioni, realizzate dagli anni Dieci agli anni Sessanta. Quando vista nel suo complesso, la collezione di Attilio Codognato – che comprende stampe, disegni, collage, ready-made, fotografie, ecc. – incarna molte delle tematiche e delle idee chiave che hanno reso Duchamp uno degli artisti più radicali della sua generazione. In Marcel Duchamp e la seduzione della copia, la maggior parte della collezione di opere di Duchamp in possesso Attilio Codognato viene esposta pubblicamente insieme per la prima volta.

COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

In che modo la mostra vuole raccontare un artista di cui tanto si è scritto e discusso come Duchamp? Si tratta della prima mostra museale focalizzata specificamente sull’ossessione di Duchamp per replicare e riprodurre il suo lavoro. Invece di un approccio cronologico, sono stati individuati temi particolari che esplorano le tante modalità individuate da Duchamp per duplicare il proprio lavoro senza semplicemente copiarlo. Questa mostra si differenzia dalla maggior parte di quelle dedicate all’artista perché dimostra che non era solo un artista concettuale, ma anche un abile e innovativo artigiano – termine da lui preferito – che non ha mai rinunciato alla manualità.

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Il nuovo spazio indipendente Panorama, in Campiello San Zulian, figlio di un progetto che unisce un curatore, un ristoratore e un’agenzia di eventi e si propone di diventare luogo d’incontro per l’arte e la cultura. Il tutto, in 20 metri quadri Il Teatro Goldoni, il più antico della città, riaperto dopo 7 mesi di restauro che hanno visto la sostituzione delle poltrone della platea, l’adeguamento dell’impianto elettrico e audio, e il piano di manutenzioni straordinarie necessarie Fino al 26 novembre è aperta alle Stanze della Fotografia la mostra Pino Settanni – I Tarocchi, ciclo-culto di un genio della fotografia con 60 immagini tra pittura e magia

Collezione Peggy Guggneheim

LA VALIGIA DI PEGGY GUGGENHEIM La dialettica originale-copia nell’opera di Marcel Duchamp trova il suo apice in una celebre serie dal titolo de ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy (Boîte-en-valise): valigie rivestite in pelle di vitello contenenti scatole organizzate in scomparti, al cui interno trovano spazio riproduzioni dei capolavori del maestro francese. Stampe di vario genere, fotografie e minuziosi modellini sono inseriti in un complesso marchingegno a incastro, perfettamente ordinato all’interno di una valigia con tanto di serratura. La Boite-en-valise è un’antologia, un museo portatile, se vogliamo uno pseudo-catalogo ragionato; ma soprattutto è un’opera d’arte essa stessa, nonché una chiave di lettura del rapporto tra Duchamp e Peggy Guggenheim: alla collezionista americana era destinata la prima versione della serie deluxe – comprensiva delle riproduzioni di 69 opere e di un pezzo originale – che conta ventidue esemplari. Per Peggy Guggenheim, Duchamp fu un caro amico, ma anche un prezioso mentore e consigliere: fu lui a introdurla all’arte moderna, ad aiutarla a formare una propria sensibilità a quelle avanguardie a cui poi Guggenheim dedicò un’intera vita. La valigia in questione è dunque esposta nella mostra veneziana e ne costituisce il fulcro. Sbirciando nella teca che la custodisce, il

visitatore può facilmente riconoscere la versione in miniatura di Fontaine, l’orinatoio più famoso della storia dell’arte e ready-made per eccellenza, ma anche la sua opera più criptica: La mariée mise à nu par ses célibataires, même (meglio nota come Il Grande Vetro), che tra gli altri significati nasconde il racconto di un amplesso non riuscito, facendosi carico di una componente autobiografica relativa al difficoltoso rapporto di Duchamp con il sesso, come soleva raccontare la collega Louise Bourgeois. Tutte le versioni della valigia contengono una riproduzione in collotipia colorata a pochoir di una delle sue tele più importanti per dimensione e complessità, intitolata Le Roi et la reine entourés de nus vites (Il re e la regina circondati da nudi veloci) e realizzata nel maggio 1912. La valise di Peggy Guggenheim si distingue non solo per la serratura firmata da Louis

Vuitton, ma per la presenza, come pezzo “originale”, del coloriage che ha fatto da prototipo per la riproduzione della collotipia. L’originale della copia (e copia a sua volta), o una copia originaria, tanto per complicare le cose. Si apprezza dunque ancora di più la scelta di esporre il dipinto in questione nella medesima sala della valigia: è qui che la mostra raggiunge il suo più alto gioco di rimandi, intrecciando biografia, estetica e rigorosi divertissement.


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CONSTANTIN BRÂNCUSI / TIMIȘOARA

Constantin Brâncuşi, lo scultore dell’infinito Niccolò Lucarelli

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onsiderato uno dei padri della scultura contemporanea, capace di superare i confini geografici e culturali di una singola opera d’arte trasformandola in un dono all’umanità, Constantin Brâncuși (Hobiţa-Peştişani, 1876 - Parigi, 1957) viene celebrato nella nativa Romania da una bella mostra curata da Doina Lemny, con opere dai primi del Novecento agli anni Trenta. Nato in un villaggio rurale dell’Oltenia, uomo schivo, umile, onesto e coerente, Brâncuși mise il potere alla fantasia, e fu convinto assertore dell’importanza della visione individuale di ogni singolo artista, del suo legittimo prevalere su qualsiasi scuola o movimento, della necessità di dialogare con il pubblico, di non chiudere un’opera nella cornice dell’accademismo. Dopo gli studi alla Scuola d’arte di Craiova e all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, nel 1904 si spostò a Parigi; sulle prime s’interessò al lavoro di Auguste Rodin e visse una breve stagione legata al figurativo. La mostra prende infatti le mosse da qui, con sculture come Orgoglio (1906) o Tormento (1907), che rivelano una mano assai raffinata. Ma Brâncuși, persona non banale e aperta all’oltre, optò ben presto per un’altra direzione: il metodo della molatura diretta, che gli permise di esprimere al meglio il suo interesse per i materiali grezzi quali bronzo, marmo, legno e gesso, che lavorava con pazienza alla costante ricerca dell’infinito e della forma perfetta, quella nella quale la sintesi formale raggiunge il suo più alto grado e non rimane niente da togliere. La prima fase di questa nuova stagione, sotto l’influenza di Modigliani e Derain la cui lezione apprese a Parigi, è caratterizzata dall’interesse per il Primitivismo, che la mostra racconta attraverso opere quali Danaïde

(1909), Il bacio (1909) o ancora La saggezza della Terra (1908), che ben riassumono questo nuovo ideale artistico: il tratto si fa più semplice, ma l’opera acquista verità, quella filosofica che va oltre l’apparenza e racchiude l’essenza degli esseri viventi, in maniera diretta o simbolica che sia. Su questi presupposti, alla ricerca della purezza formale e concettuale, Brâncuși guardò all’astrattismo, anche se a detta dello stesso scultore “quelli che definiscono astratto il mio lavoro sono degli imbecilli. Ciò che chiamano astratto è in realtà la cosa più realistica, perché ciò che è reale non è l’esterno ma l’idea, l’essenza delle cose”. Parole dalle quali emerge l’approccio “asiatico” dello scultore, più attento all’essenza che alla fisicità; e invero i concetti e le emozioni che trasferisce alla materia sono indubbiamente concreti, quiete fiaccole di civiltà che illuminano un cammino senza soluzione di continuità. L’interesse per l’astrattismo (qualunque valore Brâncuși desse alla parola) procedeva in parallelo con l’interesse per la cultura dell’Asia Orientale, in particolare il misticismo indiano e il confucianesimo cinese. Due dottrine che l’artista studiò a lungo, oltre a soggiornare due volte in India fra il 1933 e il 1937, dove progettò anche un tempio dalla simbolica forma di uovo, purtroppo mai realizzato. Inoltre, studiò a lungo l’insegnamento del mago, poeta, eremita e monaco buddista tibetano Milarepa (1051 – 1135) e forse non è un caso che fra i mille mestieri svolti prima di riuscire a fare dell’arte una carriera, ci sia anche quello di indovino: un modo, avrebbe detto Tiziano Terzani, per provare a scavare verso il fondo delle anime umane. Probabilmente è così che lo intendeva anche Brâncuși, perché da artista indagò la verità dei soggetti scolpiti, fossero esseri umani o animali. E sullo sfondo, l’anelito della vastità dell’orizzonte, dell’infinito spaziale e temporale: le sue opere, infatti, riecheggiano differenti culture e modi di pensare, dall’Europa all’Asia, con i medesimi simboli che assumono significati diversi. Qui sta la grandezza senza tempo di Brâncuși: le sue sculture accolgono idealmente chiunque, perché chiunque può trovarvi tracce del proprio vissuto, materiale e spirituale. Opere che sono autentici doni all’umanità, capitoli di una storia trasversale nel nome della pace e del dialogo.

Fino al 38 gennaio 2024

BRÂNCUȘI: ROMANIAN SOURCES AND UNIVERSAL PERSPECTIVES Curata da Doina Lemny Muzeul Național de Artă, Timișoara mnar.ro a sinistra: Constantin Brâncuși, Bird in Space, 1932-40. Peggy Guggenheim Collection, Venice (Solomon R. Guggenheim Foundation, New York) in basso: Constantin Brâncuși, Romanian Sources and Universal Perspectives, 2023, installation view at Muzeul Național de Artă, Timișoara. Courtesy Muzeul Național de Artă, Timișoara


CONSTANTIN BRÂNCUSI / TIMIȘOARA TRE DOMANDE ALLA CURATRICE DOINA LEMNY Quali elementi di novità porta la mostra? Ho chiarito fin dall’inizio che questa mostra non è una retrospettiva. È molto difficile organizzarne una, e poi non credo riesca a mettere in luce gli aspetti più sottili della creazione dell’artista. Per l’occasione, ho ritenuto utile dimostrare il continuo legame di Brâncuși con il suo Paese d’origine. Molte leggende sono circolate su di lui: giornalisti “di seconda mano” affermavano senza documentazioni che Brâncuși fosse un artista maledetto dal regime comunista. Questo è il motivo per cui ha deciso di lasciare in eredità il suo laboratorio parigino allo Stato francese. Ma tutte queste accuse non hanno alcun supporto documentario. Questa mostra presenta il legame indistruttibile di Brâncuși con il suo paese, l’eredità romena che portò con sé fino alla morte. Ho messo in risalto la sua formazione artistica a Bucarest, poi il sostegno e l’incoraggiamento che ha ricevuto dai suoi connazionali durante i suoi primi anni a Parigi, le commissioni che ricevette, una

COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

Come è nato il suo lavoro su Brâncuși? Da un’ardente passione per la scultura. Ho sempre avuto una sensibilità per la tridimensionalità perché mi costringe a pormi domande sulla materia, sulla costruzione, sull’equilibrio. Nel 1992, quando ho avuto la possibilità di vedere da vicino le opere di Brâncuși, si è accesa in me una fiamma di felicità. Guardavo le sue opere ed ero felice di poterle vedere da vicino. Poi, con Marielle Tabart, ho lavorato a un catalogo sulla collezione delle sue opere presso il Centre Pompidou, occupandomi principalmente degli archivi. Che gioia entrare di nuovo nel mondo di Brâncuși: con tutti i suoi scritti in franco-romeno, la corrispondenza con gli amici, la corrispondenza romantica – il mio ultimo libro riguarda il rapporto dell’artista con i suoi ammiratori e amanti (Brancusi e le sue muse, Parigi, Gourcuff- Gradénigo, 2023) –, sentivo che con lui si stava creando un legame per tutta la vita. E poi, davvero, vivo con Brâncuși e sento che ci sono ancora aspetti da scoprire.

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Tra i progetti di Timișoara Capitale Europea della Cultura 2023, da non mancare è la Torre dell’Acqua Iosefin, già sede del governatorato, dell’università, di una base militare sovietica e, dal 20026, dell’Istituto d’Arte della città. Ora si erge a polo culturale La mostra (r)evolution? lived histories 1945-1989-2022 al Memoriale della Rivoluzione. Aperta fino al 31 dicembre, fa rivivere con toccanti documenti d’archivio i giorni della sollevazione popolare contro il regime di Ceaușescu fra il 16 e il 22 dicembre 1989 Il Bastione Maria Teresa, grande struttura fortificata costruita nel 1736. Oggi, oltre che museo, è una destinazione popolare tra i locali, che amano visitare il suo ampio cortile interno per rilassarsi e ammirare la splendida vista della città

Muzeul Național de Artă

delle quali, la più importante e di cui era felice e orgoglioso, per il monumento di Targu Jiu. Alcune opere importanti come Il bacio, La muse endormie, Maïastra, L’uccello nello spazio e La colonna infinita segnano questo legame indistruttibile con il suo Paese, che lo ha sempre onorato e celebrato, anche durante il regime. Qual è la lezione di Brâncuși per gli artisti di oggi? Dal mio punto di vista è stato un modello di lavoro appassionato, volontà, modestia e umiltà. Aperto al mondo – riceveva nel suo studio tutti coloro che volevano vedere le sue opere e anche, nelle serate “ubriache” – lavorava sempre da solo, nell’intimità del suo studio. Aveva bisogno di silenzio, di tranquillità per entrare in dialogo con la materia. Il segreto di Brâncuși è questo potere di ritirarsi ed entrare in uno stato di creatività, la creazione per lui non era un gioco, era qualcosa di profondo, molto profondo che nasceva da lui stesso. Sidney Geist, che dagli anni ‘60 ha studiato l’opera e l’uomo e che lo ha capito meglio, alla domanda: “Che cosa c’era di più romeno in Brancusi”, ha risposto: “Aveva il senso dell’artigiano, ai tempi dei suoi studi a Craiova. Lo aveva nella sua natura. Aveva una buona testa. Era un bravissimo artigiano, era il più grande scultore tecnico che abbiamo avuto”. E penso che dovrebbe essere una bella lezione di vita e di creazione per gli artisti di oggi.


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EL GRECO / MILANO

El Greco al Palazzo Reale di Milano. Quando la pittura è un’anomalia temporale Cinquecento testimonia del cambio di scala a favore di formati notevolmente più grandi e dell’introduzione dell’inusitata gamma cromatica che caratterizzerà l’artista – qui già espressa ma non del tutto conclamata, come colta un attimo prima di esplodere definitivamente.

MODELLI DA TRADIRE E SUPERARE

Sul periodo italiano si concentra ad ogni modo tutta la prima parte della mostra, che comprende confronti con opere di Tiziano, Bassano, Correggio, Tintoretto. Confronti che evidenziano differenze più che somiglianze, dimostrando come le ispirazioni, per il maestro cretese, non siano nuovi canoni da introiettare e semplicemente declinare, ma spunti da assimilare per meglio essere superati o addirittura traditi. Il Cristo agonizzante con Toledo sullo sfondo (1604-1614) rappresenta in mostra il primo incontro con lo stile di El Greco impresso nella mente di tutti: la figura del Cristo si allunga e affusola inusitatamente, il volto è caratterizzato in modo straordinariamente “familiare”, la composizione e l’atmosfera nel suo insieme sono di impressionante disinvoltura e modernità. I volti sono protagonisti assoluti, grazie alla Stefano Castelli

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crivere di El Greco (Doménikos Theotokópoulos, Creta, 1541-Toledo, 1614) appare per certi versi un’impresa inutile: si tratta di uno dei pochi artisti della storia la cui opera parla letteralmente da sola, ovvero basta completamente a se stessa. Lasciarsi andare alle sensazioni generate dai suoi colori, dalle sue forme, dalla conformazione visiva concreta delle sue composizioni è infatti del tutto legittimo e sufficiente, perché la forma da lui creata contiene in sé tutto il concetto – si potrebbe pensare a lui, in questo senso e col senno di poi, come al fondatore di un approccio meta pittorico. D’altro canto, però, è vero che gli argomenti che la sua pittura suscita sono infiniti. In primis per l’assoluta anticonvenzionalità della sua poetica che attiene alla sfera dell’impensabile, considerando l’epoca di esecuzione - le sue tele e le sue tavole producono, anche all’ennesima visione, una sensazione di anomalia temporale, di straniamento dato dal fatto che ciò che si vede non sembra corrispondere alla data d’esecuzione.

CINQUE SEZIONI PER UN PERCORSO ANALITICO E ISTINTIVO

La mostra che il Palazzo Reale di Milano dedica a El Greco affianca in effetti questi due aspetti e approcci. L’analisi della sua evoluzione negli anni, il raffronto con autori coevi e il parallelismo tra la sua vita e la sua opera vengono affrontate con un percorso sufficientemente analitico, che però non impedisce di lasciarsi andare a una fruizione immediata e intuitiva delle opere, ovvero di perdersi nelle sue visioni percorrendo liberamente le sale e trascurando eventualmente gli “apparati”. La mostra curata da Juan Antonio García Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon riunisce quarantuno opere di El Greco, suddivise in cinque sezioni. Il percorso si apre, inaspettatamente rispetto alla visione comune che si ha del grande pittore, con il Trittico di Modena (1567-69), altarolo che concentra in pochi centimetri tutto l’universo che esploderà nei grandi dipinti successivi e che testimonia del precoce abbandono della maniera cretese per adottare lo stile veneziano. Subito dopo, il confronto diretto tra le due Annunciazioni realizzate negli anni Settanta del

Fino al 11 febbraio 2024

EL GRECO Curata da Juan Antonio García Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon, con il coordinamento scientifico di Mila Ortiz Palazzo Reale Piazza Duomo 12 - Milano palazzorealemilano.it

a sinistra: El Greco, Laocoonte, Olio su tela, National Gallery of Art Washington © Courtesy National Gallery of Art, Washington a destra in alto: El Greco, Jerónimo de Cevallos, Olio su tela, Museo Nacional del Prado, © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado. Madrid a destra in basso: El Greco e bottega, San Francesco d'Assisi e frate Leone meditano sulla morte, Olio su tela, Museo Nacional del Prado, Madrid © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado, Madrid


EL GRECO / MILANO loro caratterizzazione, anche nella Sacra famiglia con Sant’Anna (1590 circa), mentre nel San Martino e il mendicante (1597-99) l’apparato visivo/sensoriale dell’artista si mette in moto con tutte le sue componenti. La figura affusolata del mendicante e il panneggio del suo cencio giungono tramite il paradosso a una sensuale carnalità, per niente idealizzata; il Santo è regale ma allo stesso tempo estremamente terreno grazie ai lineamenti; il pelame del cavallo abbacina con la sua luce allo stesso tempo assoluta e prosaica.

COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

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Il nuovo spazio tutto dedicato a Bruno Munari. Nato al posto della storica Libreria exTemporanea 121+, in via Savona 17/5, si prospetta il posto perfetto dove riscoprire l’artista totale ma anche sé stessi, lasciando libera la propria creatività La prima sede internazionale della galleria portoghese Bessa Pereira, in via Tortona 30, che ora si dà al contemporaneo. La galleria di Lisbona inaugura lo spazio con una mostra di João Louro Le molte iniziative dedicate a Maria Callas per i festeggiamenti del centesimo anniversario della sua nascita (il prossimo 2 dicembre). Tra gli spazi che offrono mostre, proiezioni e collezioni di memorabilia il Teatro alla Scala, le Gallerie d’Italia e il Piccolo Teatro

Palazzo Reale

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LA FORTUNA TARDIVA DI EL GRECO, UN MAESTRO “POSTUMO”

FUORI DAI CANONI

Altre vertigini (prospettiche o meglio antiprospettiche, cromatiche, tattili, sensuali) giungono dalla sezione sulle scene sacre, in particolare nel Battesimo di Cristo (1608-21) oppure nella Spoliazione di Cristo del 1582: in quest’ultima tela è difficile non scambiare la maniera di trattare i personaggi con quella adottata da artisti nati molti secoli dopo, gli Espressionisti di inizio Novecento, ad esempio. Risulta toccante la prosaicità (nel senso più alto possibile) di dipinti come la Sacra famiglia con Santa Elisabetta e San Giovannino (1585-90) o della coeva Maddalena penitente. Il San Sebastiano del 1577, poi, trova la sua forza semplicemente

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dal fatto di non essere inscrivibile in nessun canone, né contemporaneo all’autore né successivo, mentre i vari ritratti di santi messi a confronto in questa fase dell’esposizione fanno capire come la sua parabola artistica non tendesse semplicemente a una evoluzione lineare, ma fosse un cammino scosceso, irto di ripensamenti e di idee sempre nuove. Un bizantinismo estremamente sui generis anima la sezione sul concetto di icona, con la frontalità straniante di opere come la Veronica col volto santo (1577-80) e le varie effigi del Cristo. Mentre la conclusione del percorso propone l’unica opera di genere mitologico dell’artista, il Laocoonte del 1610-14. Inutile dire che, anche qui, il proverbiale gruppo scultoreo viene rivoluzionato dall’interno, presentandosi come “esploso”, smembrato e ricomposto secondo linee di forza alternative ma altrettanto potenti rispetto al modello ispiratore.

DESCRIZIONE IMPOSSIBILE

La sensazione di anomalia temporale è dunque costante, al cospetto di El Greco in generale e in questo caso lungo tutto il percorso della mostra. Se è vero che a un secolo e mezzo dalla sua riscoperta l’occhio contemporaneo può finalmente cogliere appieno il suo interesse e la sua grandezza al di là dell’anomalia, il senso di inspiegabilità rimane. Per descrivere le sensazioni generate dalla pittura di El Greco, si potrebbe forse ricorrere alla letteratura. Pochi anni fa, la scrittrice Léonor de Récondo ha trascorso un’intera notte da sola all’interno del Museo El Greco di Toledo, allo scopo di fornire il suo contributo alla collana Ma nuit au musée – il riferimento valga per inciso anche come sprone agli editori italiani che finora hanno tradotto due soli libri di questa serie. Nel volume che è risultato da questa esperienza, La Leçon de ténèbres (Stock, 2020), così descrive proprio la Spoliazione di Cristo, presente a Palazzo Reale in prestito da Toledo: “Quella tunica rossa è un grido al centro della tela, da subito soffocato dalla grazia dello

Il riconoscimento della pittura di El Greco giunse “a scoppio ritardato”. Non prima dell’Ottocento, quando, ad esempio, Théophile Gautier lo definì precorritore del Romanticismo. Ma è solo con il Novecento che la storia dell’arte gli riserva un posto d’onore. Nel 1902 la sua prima monografica si tenne al Prado, nel 1908 Manuel Bartolomé Cossío pubblicò un saggio di riferimento su di lui, nel 1910 viene fondato a Toledo il Museo El Greco. Fece seguito tra le altre la voce dell’influentissimo critico Roger Fry, ma furono soprattutto gli artisti delle Avanguardie a eleggerlo come loro precursore e a decretarne la fortuna postuma: gli esponenti del Blaue Reiter, gli Espressionisti, Pablo Picasso, fino a Jackson Pollock.

sguardo e del movimento della mano. Il rosso si riflette sull’armatura del guerriero. Specchio di metallo, che presto rifletterà il corpo nudo del Cristo. Quel corpo nudo che non vedremo. La tunica non sposa il corpo, no, ha una sua vita autonoma. È come nessun’altra, allo stesso tempo protezione, oggetto di pudore e già tessuto di memoria, di sangue versato”. Eppure anche qui, non a caso, la descrizione si rivela in ultima analisi insufficiente: l’autrice finisce infatti per immaginare una visionaria unione carnale con El Greco stesso, tesa a sublimare le sensazioni generate dalla pittura.


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ANISH KAPOOR / FIRENZE

Flettere la realtà Anish Kapoor a Firenze nero di Kazimir Malevič, 1915, per la vicinanza tra la kapooriana Endless Column, 1992, e l’omonima scultura di Constantin Brâncuși, 1918) sia come un’azione iperomantica sia come un qualcosa di “muscolare”, che esprime forza e una forma di Resistenza, di disobbedienza vitale, per la sua indiscutibile qualità di sovvertire l’ordine delle cose e delle idee. Nella monumentale opera Svayambhu (2007), la massa cerosa penetra l’architrave tardo quattrocentesco con spinta equivoca e di forte impatto scenico, senza offrire un tempismo unitario, come succitato, e una versione netta e stabile della macchina artistica, così da rovesciare continuamente stimoli e significati. Emerge la considerazione dell’artista verso il limen ermeneutico del fenomeno artistico, in particolare nei riguardi della materia e del colore rosso, pigmento che offre un campo d’indagine verso l’interiorità del colore, che presta un richiamo alla carne e alla sessualità; la soglia in questo frangente può essere intesa Luca Sposato

3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

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crivere di Anish Kapoor (Mumbai, 1954) è introspettivo, corposo e complesso quanto osservare le sue opere. Di origine indiana, ma trasferitosi a Londra nei primi anni Settanta, la ricchezza delle tematiche proprie della sua arte impone certamente una buona dose di attenzione per attraversare le soglie della seduzione cui le sculture di fama mondiale sono riuscite a maturare. L’alternativa è arrendersi a un voyeurismo macrofilo. Già nel titolo della mostra ideata per Palazzo Strozzi di Firenze, Untrue Unreal, a cura di Arturo Galansino, si svela una direzione extra-sensoriale per invitare il pubblico a godere in profondità dell’esperienza fruibile, mettendo in discussione non le opere in sé, palesi ed eloquenti, bensì le individuali capacità percettive. Grazie ad espedienti tecnici innovativi, come in Non-Object Black (2015) – caratterizzato dal Vantablack, materiale capace di assorbire più del 99,9% della luce visibile – si genera una “sovrapposizione di stati” cui la simultaneità è quantificabile in un tempo indeterminato, sfasato dalla fruizione, e la spazialità aggiunge una “quarta dimensione”, filo-suprematista. Entrare nell’opera site specific del cortile palatino, Void Pavilion VII (2023), punta un’esperienza quantistica, vicina al paradosso di Schrödinger. Le opere pullulano di contrappunti semantici, e si possono definire, anche per i colti e continui riferimenti storico-artistici (oltre al Quadrato

Chambres, nuovo format espositivo, negli spazi esterni e interni dell’mH Florence & Spa, a cura degli artisti Pantani-Surace e Paolo Parisi. Lo spazio presenta opere di ex allievi delle Accademie di Belle Arti italiane In attesa dell’apertura della Stanza segreta di Michelangelo, annunciata dal direttore generale dei Musei Massimo Osanna per novembre 2023, da non perdere è la nuova uscita del Museo delle Cappelle Medicee disegnata da Paolo Zermani Il nuovo allestimento per gli autoritratti e ritratti di artisti, dal Quattrocento al Ventunesimo secolo, video artisti e fumettisti inclusi, alle Gallerie degli Uffizi

MUSEO NOVECENTO PALAZZO STROZZI

Fino al 4 febbraio 2023

ANISH KAPOOR. UNTRUE UNREAL Curata da Arturo Galansino Palazzo Strozzi piazza Strozzi, 1 - Firenze palazzostrozzi.org a sinistra: Anish Kapoor, Endless Column, 1992, tecnica mista, pigmento in basso: Anish Kapoor, Void Pavilion VII, 2023 tecnica mista, vernice photo © ElaBialkowskaOKNOstudio

anche come “nascita” o “ambiguità”, ritrovando in un lavoro come A Blackish Fluid Excavation (2018), un corpo cavernoso ravvisabile da un lato come una vulva, dall’altro come un pene, quella paradossale “sovrapposizione di stati” tipica del maestro britannico. Pertanto, cosa può legare dialetticamente, o “quantisticamente”, Untrue Unreal con un contesto Rinascimentale? La risposta è l’Alchimia. Le scienze esoteriche pongono come principio basilare la trasmutazione della materia attraverso uno “scambio equivalente” per preservare l’equilibrio naturale. Le ultime due sale, con i pezzi specchianti di Vertigo (2006), Mirror (2018) e Newborn (2019), e le pietre di ardesia tinte di blu di Angel (1990), sono le proposte encomiastiche di una surrealtà perennemente ricercata. Il faccia a faccia con una dimensione talmente palpabile ed ermetica obbliga un confronto con il proprio ego, espletato nel riflesso deformato delle grandi sculture levigate, rimarcato nello stordimento sublime di trovarsi di fronte ad un Abisso linguistico, incarnazione di un blocco ontologico di un personale godimento estetico. L’abisso è mobile, vive dentro e fuori del nostro essere, nella durata dell’osservazione dell’opera d’arte. E se si scruta a lungo nell’arte di Kapoor, anche l’arte scruterà dentro ciascuno.


WILHELM VON GLOEDEN E ROBERT MAPPLETHORPE / FIRENZE

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Il classico in fotografia Mapplethorpe e von Gloeden a Firenze Angela Madesani

di Lawrence Alma Tadema e di quei pittori inglesi che già si spostavano dal Romanticismo al Decadentismo e al Simbolismo.

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otrebbe forse essere l’amore per la classicità e per la plasticità quello che accomuna due straordinarie personalità del mondo della fotografia, il nobile Wilhelm von Gloeden e Robert Mapplethorpe. Novanta gli anni che li separano, il primo nasce nel nord della Germania nel 1856, l’altro a New York nel 1946. Eppure i due lavori hanno molto in comune, entrambi interessati al nudo come espressione di bellezza del corpo, in particolare maschile, entrambi raffinati cultori della grecità e dell’arte italiana del Rinascimento. Il Museo del Novecento di Firenze ospita una loro mostra, dal titolo Beauty and Desire, curata da Sergio Risaliti con Eva Francioli e Muriel Prandato, organizzata con la collaborazione della Robert Mapplethorpe Foundation e della Fondazione Alinari per la fotografia. La rassegna sottolinea la volontà di mettere in risalto il legame tra l’arte contemporanea e l’arte antica, in una città in cui ogni cosa deve fare i conti con un passato straordinario, e in cui, tuttavia, l’arte contemporanea ha avuto e continua ad avere un ruolo di primo piano. In mostra sono circa cinquanta fotografie di Mapplethorpe, suddivise per sezioni tematiche, grazie alle quali è possibile mettere a fuoco il rapporto tra il fotografo e l’arte antica. Abbiamo chiesto al curatore Sergio Risaliti di parlarci della mostra. Il tema del classico potrebbe essere definito il punto di unione fra Mapplethorpe e Von Gloeden? Classico certo, ma anche anticlassico. C’è una vicinanza profonda con Michelangelo. Qui cogliamo la corporeità, la fisicità, l’energia che traluce in forma di bellezza, di grazia, di venustà tra un corpo e l’altro. La fotografia di Mapplethorpe è unica, straniante, provocatoria. Vi è un’eccedenza rivoluzionaria, eretica. Sono corpi che trasudano bellezza, energia perlopiù di ragazzi neri. I protagonisti di Von Gloeden, invece, erano ragazzini efebici. In entrambi vi è uno spregiudicato erotismoeretismo rispetto ai canoni classici che hanno dominato nella cultura occidentale dal Rinascimento in poi. Entrambi sono antiaccademici. Così come è antifilologica la costruzione della mostra. Non c’è consequenzialità paratattica. C’è, piuttosto, un filo di coscienza di certi archetipi scultorei e pittorici, interiorizzati da Mapplethorpe. Emerge in entrambi un’evidente suggestione rispetto alla loro educazione religiosa cristiana, che è anche un’educazione iconografica. Parecchie delle loro immagini

Quale il ruolo in mostra delle fotografie di scultura dei fratelli Alinari? Fanno da trait d’union fra i due. Von Gloeden ha in sé una componente pittorica ma anche letteraria e poetica. È stato quello un momento culturale in cui si percepiva una fortissima suggestione verso il sud, la Magna Grecia. Stiamo parlando della rinascita del mito di Pan. Nel 1872 Nietzsche aveva scritto La nascita della tragedia, il dibattito tra apollineo e dionisiaco era alla moda. Sono passati quarant’anni dalla prima mostra di Mapplethorpe a Firenze, a Palazzo Antonelli Augusti Castracane dalle 100 finestre. Quella mostra è stato un vero shock, finivano gli Anni di piombo in cui era avvenuta una cancellazione totale della fisicità, della corporeità, della bellezza del corpo maschile e femminile. Stava esplodendo l’AIDS con tutte le sue paure. In quel momento lui si permette di farci conoscere la corporeità quasi esuberante ma luminosissima, la venustà di corpi maschili e femminili non solo di neri ma di gay, bodybuilder, danzatori. Anche nell’attuale mostra emerge questo rapporto molto cosciente che ha a che fare con il mondo della danza e del body building. Mi pare che tutto questo sia più che mai contemporaneo, in un momento come il nostro di forte puritanesimo, che censura perfino il David. In Mapplethorpe e von Gloeden non c’è mai caduta in un basso materialismo, tanto meno nel perverso e nella pornografia. Resiste qualcosa di luminoso e di misterioso. Fino al 14 febbraio 2023

MAPPLETHORPE – VON GLOEDEN BEAUTY AND DESIRE derivano dalla storia dell’arte europea religiosa. Emergono archetipi, che Aby Warburg avrebbe chiamato Pathosformel.

A cura di Sergio Risaliti Museo Novecento piazza Santa Maria Novella, 10 – Firenze museonovecento.it

Nei diversi autoritratti dei due artisti, presenti all’inizio della mostra, vi sono delle pose emblematiche. Mapplethorpe si autoritrae come Lucifero/Dioniso, l’angelo ribelle e il dio della metamorfosi, della tragedia. L’altro si autorappresenta ricalcando l’autoritratto cristico di Dürer o in altri casi come un profeta. Era un tedesco. Le sue opere ci riportano anche alle scene bucoliche

in alto: Robert Mapplethorpe, Ajitto, 1981 © Robert Mapplethorpe Foundation in basso: Wilhelm von Gloeden, Caino, 1900-1905 ca. © Archivi Alinari, Firenze


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ACHILLE FUNI / FERRARA

Achille Funi a Ferrara, un maestro del Novecento tra storia e mito dei “primitivi” italiani. In Funi risalgono al 1921 le prime opere in cui prevalgono densi recuperi figurativi che attingono al repertorio iconico ferrarese. In Maternità sono evidenti gli echi della pittura del Quattrocento padano. Il dipinto, presentato alla Biennale veneziana del 1922, è recensito da Filippo de Pisis. Il primo a inquadrarlo nella tradizione pittorica ferrarese: “ Si vede una florida madre che sorregge sulle braccia il suo bambino, con gli occhioni neri e il naso un po’ schiacciato… Il piccolo braccio, con la mano che tocca quella della madre, e la linea del corpo di lei con la dolce testa reclinata, rispondono a un ritmo armoniosissimo”. Ne La terra del 1921, Funi tocca il punto più alto del suo classicismo. La figura è impostata di profilo. Con le braccia tese verso l’alto. Sembra invitare l’osservatore ad andare oltre il limite preteso dalla cornice. Fausto Politino

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L’INTERPRETAZIONE DEL FUTURISMO

L’inizio della rassegna comprende le prime prove accademiche del giovane Funi. Cha abbandona anzitempo per condividere una fase futurista tutta sua, scaturita dalla frequentazione di Boccioni, Carrà, Russolo e Bonzagni. Una testimonianza in tal senso la si trova nell’Uomo che scende dal tram del 1914, per la scomposizione delle forme e il notevole senso dei volumi. Anche se non condivide fino in fondo la radicalità, il dinamismo di Boccioni. Il Ritorno all’ordine Il visitatore viene poi messo di fronte alle tele che testimoniano il Ritorno all’ordine. Tra la seconda metà degli anni Dieci e gli inizi degli anni Venti, in Europa si registra un progressivo tendere verso stili che rispettano la tradizione. Assumendo gli stilemi, di volta in volta, del Classicismo, del Realismo Magico, della nuova oggettività. A quello che, a detta di Cocteau, viene definito rappel à l’ordre. Per realizzare qualcosa che ripristini nei ritmi e nei volumi il rigore

3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI

errara la città natale di Achille Funi (1890 – 1972) – artista che ha vissuto da protagonista i maggiori movimenti che hanno contraddistinto la cultura italiana della prima metà del Novecento, Futurismo, Realismo magico, Muralismo – gli dedica una vasta rassegna antologica. Centoventi opere, tra dipinti ad olio e a tempera, acquerelli, disegni a carboncino e a sanguigna, fino ai cartoni preparatori per i grandi affreschi e i mosaici, che offrono la possibilità di rivedere l’intero percorso creativo del pittore.

Il nuovo Palazzo dei Diamanti, restaurato su progetto dello studio Labics, la cui proposta (vincitrice del concorso bandito nel 2017 dal Comune di Ferrara) ha visto l’adeguamento funzionale e l’ampliamento dell’edificio disegnato da Biagio Rossetti nel 1492 I giardini nascosti lungo il Corso Ercole I d’Este, asse portante della città circondato da orti, giardini, fontane, alti filari di pioppi, tra cui spicca Parco Massari, progettato nel 1780 dall’architetto ferrarese Luigi Bertelli per il marchese Camillo Bevilacqua Il museo di Palazzo Schifanoia, edificato su impulso di Alberto V d’Este sul finire del XIV secolo e ampliato sotto il ducato di Borso d’Este. Il complesso, che ha riaperto al pubblico nel 2022 dopo un lungo restauro, conserva le collezioni civiche di numismatica, codici miniati, ceramiche, sculture

IL FILO DIRETTO CON CÉZANNE

Nel Ragazzo con le mele, ancora del 1921, è impossibile non vedere il filo diretto che collega Funi a Cézanne, che aveva detto: “Con una mela stupirò Parigi”. Anche se le mele del primo sono più lucide, carnose, levigate, meno macchiate rispetto a quelle del secondo, in entrambi prevale lo stesso approccio concettuale: non si limitano ad una mimetica rappresentazione del reale. Tendono a trascenderlo. Un accenno merita anche l’Autoritratto con la brocca blu. Con l’artista di tre quarti che tiene un pennello in modo tale che risalti la fisicità del suo giovane corpo, senza tuttavia compromettere le esigenze dettate dall’armonia formale. Il percorso continua con le creazioni degli anni Trenta e Quaranta dove a prevalere sono i paesaggi, le nature morte, la pittura storico-mitologica. Percorso che si conclude con la stagione della pittura murale, tecnica antica e gloriosa caduta in disuso nella modernità ma che Funi riprende e rinnova sulla scorta dell’esempio trainante di Sironi. Dal 28 ottobre 2023 al 25 febbraio 2024

ACHILLE FUNI. UN MAESTRO DEL NOVECENTO TRA STORIA E MITO A Cura di Nicoletta Colombo, Serena Redaelli e Chiara Vorrasi Palazzo dei Diamanti Corso Ercole I d'Este, 21 – Ferrara palazzodiamanti.it a sinitra: Achille Funi, Ragazzo con le mele (Il fanciullo con le mele), 1921, olio su tela, Mart, Collezione VAF-Stiftung a destra: Achille Funi, Autoritratto con la brocca blu, Milano, collezione privata, 1920


INTERVISTA A FEDERICA PAROLINI

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Come nasce una grande mostra: quando l’allestimento è “drammaturgico” molto importante, soprattutto nella fase iniziale. Mi sono quindi immaginata una “drammaturgia” che potesse sostenere la curatela e l’aspetto più soddisfacente è stato vedere come il linguaggio del melodramma coincida, nell’Ottocento, con quello della pittura.

Federica Parolini, photo Mario Rota

Marta Santacatterina

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uanto conta l’allestimento nel progetto globale di una mostra? Moltissimo, perché grazie al lavoro dei professionisti che se ne occupano, l’idea curatoriale viene tradotta in sale, percorsi, apparati multimediali ed elementi decorativi. Per rendersene conto basta, ad esempio, recarsi all’Accademia Carrara di Bergamo e visitare la mostra Tutta in voi la luce mia, il cui allestimento è stato curato da Federica Parolini. Parolini, di mestiere, fa la scenografa e si occupa soprattutto di opera lirica: è quindi la figura ideale per una mostra che intende fornire a chi la visita gli strumenti per comprendere l’influenza del melodramma sulle arti visive dell’Ottocento.

di Gaetano Donizetti. Come ha affrontato la sfida dell’allestimento? L’idea di partenza è stata quella di dare la possibilità di entrare in un mondo che si svela e che mostra i meccanismi alla base del melodramma, che sono gli stessi dei soggetti dei dipinti. Per concretizzare il progetto mi sono confrontata con Ferdinando Mazzocca, i cui studi sono per me un punto di riferimento, nonché con opere che fanno parte del mio bagaglio visivo quando lavoro agli allestimenti di un’opera lirica. Il lavoro a fianco del curatore è stato

Cosa significa, per lei, allestire una mostra d’arte? Mi sono interrogata profondamente sulla questione e mi sono resa conto che i miei progetti sono l’espressione di una storia che viene raccontata. Infatti immagino degli spazi dove allo spettatore accade qualcosa e degli ambienti capaci di illustrare la fruizione delle opere esposte. L’allestimento pertanto non si conclude in una singola sala, ma si svolge progressivamente, seguendo le indicazioni dei curatori. Veniamo a Tutta in voi la luce mia: l’Ottocento è l’età del melodramma, e Bergamo è la patria

Accademia Carrara, Tutta in voi la luce mia, photo Mario Rota

Quali sono i punti salienti del percorso di questa mostra all’Accademia Carrara? Innanzitutto ho pensato a tanti spazi in successione, come se fossero dei cambi scena che accompagnano il passaggio dei visitatori, ai quali vengono proposte delle connessioni tra il melodramma, le opere figurative e la città di Bergamo. Ad esempio all’ingresso ho posizionato un vero e proprio fondale scenico, varcato il quale si ammirano – sotto un cielo stellato – tre dipinti connessi a Il diluvio universale, spettacolo che debutterà a Bergamo il 16 novembre durante il festival Donizetti. Si è inoltre ricostruito un camerino che evoca il dietro le quinte degli spettacoli lirici e poi, grazie a un “paesaggio fantastico”, abbiamo posto l’attenzione sui teatri italiani, per esporre di seguito i ritratti dei protagonisti del melodramma italiano, da Verdi a Rossini e a tanti celebri interpreti. Non mancano le installazioni multimediali, mentre l’ultima sala è dedicata agli spettacoli. Un’onda sonora accompagna i dipinti divisi per categorie: Maria Stuarda, Anna Bolena e Romeo e Giulietta. Dall’ingresso all’uscita i visitatori attraversano così un’esperienza caratterizzata da colori, musiche e ovviamente immagini che li proiettano in un mondo passato ma che ancora oggi, in tutto il mondo, va quotidianamente in scena all’interno dei teatri d’opera.


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GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE

MILANO

BERGAMO

BRESCIA

Fino all’11 febbraio

Fino al 14 gennaio

Dal 20 gennaio al 9 giugno

EL GRECO Palazzo Reale palazzorealemilano.it

TUTTA IN VOI LA LUCE MIA Pittura di storia e melodramma Accademia Carrara lacarrara.it

I MACCHIAIOLI Palazzo Martinengo amicimartinengo.it

Dal 31 ottobre al 3 marzo GOYA La ribellione della ragione Palazzo Reale palazzorealemilano.it

VENARIA REALE

Fino al 28 gennaio

Fino al al 28 gennaio

VINCENT VAN GOGH Pittore colto Mudec - Museo delle Culture mudec.it

TURNER PAESAGGI DELLA MITOLOGIA La Venaria Reale lavenaria.it

RIVOLI Dal 2 novembre al 25 febbraio MICHELANGELO PISTOLETTO Molti di uno Castello di Rivoli castellodirivoli.org TORINO Fino al 14 gennaio 2024 MIRÓ. Sogno e colore Palazzo Chiablese museireali.beniculturali.it Fino al 1 aprile 2024 HAYEZ L’officina del pittore romantico GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea gamtorino.it

GENOVA Dal 16 novembre al 1 aprile ARTEMISIA GENTILESCHI Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it PARMA Fino al 10 dicembre BOCCIONI Prima del Futurismo Fondazione Magnani-Rocca magnanirocca.it Fino al 4 febbraio KEITH HARING Radiant Vision Palazzo Tarasconi palazzotarasconi.it MODENA Fino all’11 febbraio 2024 CARSTEN NICOLAI FMAV - Fondazione Modena Arti Visive fmav.org

NUORO Fino al 3 marzo GIOTTO, FONTANA Costruire lo spazio MAN - Museo d’arte Provincia di Nuoro museoman.it


GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE

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ROVIGO Fino al 28 gennaio TINA MODOTTI La fotografia in mostra Palazzo Roverella palazzoroverella.com

VENEZIA Fino al 18 marzo MARCEL DUCHAMP E LA SEDUZIONE DELLA COPIA Peggy Guggenheim Collection guggenheim-venice.it

FERRARA

BOLOGNA

Fino al 25 febbraio

Fino al 28 gennaio

ACHILLE FUNI Un maestro del Novecento tra storia e mito Palazzo dei Diamanti palazzodiamanti.it

VIVIAN MAIER ANTHOLOGY Palazzo Pallavicini palazzopallavicini.com Fino all'11 febbraio GUERCINO NELLO STUDIO Pinacoteca nazionale pinacotecabologna.beniculturali.it

FIRENZE Fino al 4 febbraio ANISH KAPOOR Untrue Unreal Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org Fino al 30 novembre MAPPLETHORPE VON GLOEDEN Beauty and Desire Museo Novecento museonovecento.it

ROMA Dal 31 ottobre al 1 aprile ESCHER Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it Fino al 10 marzo HELMUT NEWTON. Legacy Museo dell’Ara Pacis arapacis.it Fino al 4 febbraio FAVOLOSO CALVINO Scuderie del Quirinale scuderiequirinale.it PALERMO Fino al 12 gennaio WILLIAM KENTRIDGE You Whom I Could Not Save Palazzo Branciforte palazzobranciforte.it

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