Artribune #63

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L STUDIO VISIT L

NOVEMBRE L DICEMBRE 2021

#63

SAVERIO VERINI [ curatore ]

Giulia Poppi o ancora qualche difficoltà a definire con precisione il sentimento che provo di fronte alle opere di Giulia Poppi. I suoi lavori hanno spesso le sembianze di conglomerati esuberanti e coloratissimi, la cui origine – organica? artificiale? – risulta del tutto nebulosa. La materia della quale sono fatte le sue opere pare provenire da un altro pianeta; un minerale inventato – una kryptonite – che può suscitare ribrezzo o, al contrario, desideri ai limiti della commestibilità. Per lo più ingombranti e invadenti, gli interventi di Giulia Poppi possono anche assumere forme sottilissime e manifestarsi attraverso trasparenze sofisticate; in ogni caso, a prescindere dalla loro dimensione, l’impressione è che siano irriducibilmente fuori luogo, figlie di uno stato d’animo e di un ardore a cui è difficile dare un nome. Forse è per questo che l’ultima installazione realizzata da Poppi ha per titolo un’onomatopea, Sffsssshh: un fruscio, un colpo di frusta, un processo di ebollizione, lo sfrigolio di una saldatura – evocazione di qualcosa a cui probabilmente il suono riesce a dar corpo meglio di una parola di senso compiuto. L’artista sottopone i materiali a trattamenti quasi alchemici: li plasma, li modella, li forza, ne scopre proprietà inaspettate. È per questo che, nonostante il carattere sfuggente delle sue opere, credo di poter dire con certezza che Giulia Poppi sia una scultrice.

H

In genere preferisco non utilizzare il termine “lavoro” per riferirmi a un’opera o a una pratica artistica. Eppure, nel tuo caso, trovo si addica perfettamente a quello che fai: azioni meccaniche, tentativi di combinazione tra elementi eterogenei, esperimenti sulla tenuta dei materiali. Come avrai potuto intuire dai titoli dei miei lavori, per i quali utilizzo spesso onomatopee, non sono molto abile nell’uso delle parole. Quindi tendo a usare le parole “lavoro” e “opera” come sinonimi. In ogni caso, sicuramente, sono più interessata alla dimensione dell’opera che a quella della pratica o del lavoro. Anche la sperimentazione, nel mio caso, è finalizzata alla ricerca di

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materiali che attivino un immaginario, al quale cerco di dare una forma concreta. Poco fa ti ho definito scultrice. Ti ci ritrovi? Non do molto peso a questo tipo di cose. D’altra parte, è vero, io mi occupo di materia e di spazio; e se essere scultrice vuol dire occuparsi di materia e di spazio, allora può andar bene. Istintivamente mi capita di cercare affinità e corrispondenze tra gli artisti. Devo ammettere che non è così semplice trovare qualcuno a cui somigli. Forse è perché sono relativamente ignorante sugli altri artisti? Probabilmente tendo più a guardarmi attorno, a cogliere spunti altrove, anche in modo fortuito. Ad esempio, per Glassblock – opera che ho realizzato a Bologna in occasione di una mostra collettiva curata dall’artista Massimo Bartolini nel 2019 – il punto di partenza è stato una frase che ho letto nel libro di Richard Bach, Illusioni. La frase, parte di un dialogo tra due personaggi, suonava più o meno così: “È una tua superstizione il fatto che non si possa nuotare sulla terra e camminare sull’acqua”. Ecco, con Glassblock ho cercato di inseguire un’immagine impossibile, provando a renderla concreta: ho così realizzato un elemento che ostruisse lo spazio e cioè una parete in vetrocemento, ma fatta in tessuto, quindi fasulla. Un materiale apparentemente pesante come il vetrocemento si rivelava

mobile, cedevole; oltretutto si trattava di una specie di ostacolo, per superare il quale era necessario scostare la tenda e dunque toccare l’opera. Mi sembra che tu cerchi di suscitare una curiosità in chi osserva l’opera, spingendolo a chiedersi: di che materiale sarà fatta? Mi piace che ci sia un legame sensuale con le cose, un’empatia fisica. E mi interessa molto il fatto che un’opera generi prospettive anomale, che possano attrarre e repellere contemporaneamente. Per questo mi servo spesso di materiali poco nobili, grezzi, ma che rivelano proprietà sorprendenti. In effetti alcune tue installazioni sembrano composte da organismi che si ribellano al loro statuto, raccapriccianti. Quasi splatter. Però non sono una fan del genere! Mi fermo a qualche film di David Cronenberg. Posso dire d’essere attratta dalla bellezza che deriva da equilibri che si vengono a creare in maniera inedita, incongruente – e che può sconfinare nel raccapricciante, appunto. Trovo che ci sia qualcosa di magico nella decomposizione… Mi viene in mente la mostra Sbranksbunkdum, realizzata nel 2018 alla Gelateria Sogni di Ghiaccio, a Bologna. Ancora un’onomatopea! Sì, mi piaceva il suono di una pallina – però enorme – che rimbalzasse nello spazio

BIO Giulia Poppi è nata a Modena nel 1992. Si è formata all’Accademia di Belle Arti di Bologna, città nella quale vive. Nel 2016 fonda lo spazio espositivo Malgrado, curandone la programmazione insieme ad altre artiste. Ha esposto in gallerie, spazi indipendenti e istituzioni, tra cui: Spazio Volta, Bergamo (2021); straperetana, Pereto (2021); Manifattura Tabacchi, Firenze (2020); Premio Michetti, Francavilla al Mare/ Pinacoteca Nazionale di Bologna (2020); Premio AccadeMIBACT, Palazzo delle Esposizioni, Roma (2020); CarDrde, Bologna (2019); CampoBase, Torino (2019); P420, Bologna (2018 e 2016); Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna (2018); MAMbo, Bologna (2017); Localedue, Bologna/Torino (2017); Biennale Giovani, Monza (2017). Nel 2017 ha vinto il contest indetto da Illy, realizzando una versione dell’iconico barattolo di caffè. Nel 2019 ha vinto il premio del collezionismo ArtUp a Bologna ed è stata in residenza alla Manifattura Tabacchi di Firenze. giuliapoppi.com


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