Artribune Magazine #39

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Zaha Hadid ·

Roberto Cuoghi ·

ROMA

NAPOLI

Il Maxxi rende omaggio a Zaha Hadid (Baghdad, 1950 – Miami, 2016), quello stesso luogo che, a detta di Patrick Schumacher, ha radicalmente cambiato l’approccio compositivo dello studio e che le valse lo fino al 14 gennaio Stirling Prize nel 2010. Profondamente afa cura di Margherita fascinata dai virtuosismi del Barocco ma Guccione e Woody Yao anche dall’uso plastico che Pier Luigi Nervi MAXXI faceva del cemento armato, Zaha Hadid ha Via Guido Reni 4a da sempre avuto un rapporto culturalmente 06 3201954 proficuo con la Penisola. fondazionemaxxi.it L’Italia di Zaha Hadid racconta i cinque progetti italiani realizzati: il Terminal Marittimo di Salerno, la stazione AV di Afragola, il Messner Museum a Plan de Carones, la Torre Generali per City Life a Milano e il Maxxi. Presenti anche progetti rimasti su carta o in fase di sviluppo, come il Museo d’arte nuragica e contemporanea di Nuoro, Jesolo Magica Centro commerciale e Jesolo Magica Hotel and Business Centre. Un’ampia selezione di oggetti poi – allestiti su sinuose pedane in fiberglass nero pensate da Woody Yao, direttore di Zaha Hadid Design – illustra i sodalizi che da sempre la progettista ha intrecciato con i migliori brand del made in Italy. Lei che ci ha abituato ad architetture muscolari, da percorrere, a spazi che acquistano potenza volumetrica nell’esprimere linee di forza nette, taglienti o vorticose si dimostra, anche qui, un architetto che gioca con il design, più che un designer vero e proprio. I suoi oggetti restano architetture in scala, opere scultoree, iconiche e quasi mai funzionali. Se ancora pare prematuro parlare di legacy, appare chiaro quanto sia importante il senso complessivo dell’operazione, anche se non interamente sfruttato. Se la retrospettiva ospitata la scorsa estate a Venezia, infatti, presso Palazzo Franchetti, appariva maestosa, ricca, stratificata e ben capace di raccontare davvero la complessità del pensiero della progettista, le sue radici e la sua evoluzione nel tempo, questa romana risulta un omaggio a tratti debole, per quanto generoso, di quello che la cultura italiana ha davvero rappresentato per lei. Va detto che la natura delle due mostre è differente e risulterebbe errato definire parziale questa esperienza del Maxxi solo perché ha un taglio curatoriale meno global e più local. Resta però qualcosa di artefatto, a tratti malinconico, che si percepisce vividamente: sarà la penombra, saranno i tanti schermi che animano la scena, sarà che si vede che è un’opera incompiuta. Come se la regina avesse abdicato prima del tempo, avendo ancora molte cose da dire.

Roberto Cuoghi (Modena, 1973) incarna il processo stesso dell’arte: infinita sperimentazione di materiali che prendono vita o scelgono di morire, alla ricerca di tecniche capaci di dar loro voce; appassionata e ossessiva auto-scoperta di una predisposizioa cura di Adrea Bellini ne la quale, più che meramente artistica, e Andrea Viliani è alchimistica ed esistenziale. Tirar fuori, MADRE come gli alchimisti dal piombo, la speranVia Settembrini 79 za e la luce dall’ombra, è il fil rouge della 081 19313016 retrospettiva al Madre – già ospite del CAC madrenapoli.it di Ginevra –, che presenta i cicli dell’autore come mondi autonomi, ma che finisce per risultare molto unitaria e compatta, poiché delinea il profondo flusso di continuità fra le opere: l’energia caparbia, irragionevole ma irriducibile, di errore, sintomo e malattia, intesi come portatori sani della forza vitale che il nostro snaturante controllo non ha più. Merito anche dell’allestimento, incernierato su Megas Dakis, ritratto emblema della fantasmagoria sperimentale di Cuoghi. Un’energia disturbante eppure prolifica pervade il viso del collezionista greco Dakis Joannou, come i granchi in ceramica per la sua DESTE Foundation invasero nel 2016 l’isola di Hydra nella performance Putiferio. Gli stessi granchi punteggiano il display del Madre, a riprova di un percorso unitario, ribadito dal colore delle pareti – un ciano apparentemente tranquillizzante – e da un mare nero, tra ombre di personaggi dipinti, cupi e lirici, fino all’apparizione, grazie al gioco di riflettori, di Pazuzu, la scultura del dio-demone assiro posta nel mezzanino. Nella concertazione allestitiva, se il piano intermedio funziona come camera-inconscio oscura, la project room al piano terra, con le fornaci-scultura utilizzate in Putiferio, finisce per costituire il laboratorio-fondamenta di un metaforico forgiare non solo i granchi, ma tutta la mostra e tutta la materia vivente di cui è composta l’arte di Cuoghi. Anche Il Coccodeista e altri lavori che ricordano l’ossessività insita nella prassi di Cuoghi assumono il senso di un procedimento non distruttivo, ma empatico e psicodrammatico, portato all’estremo, un voler assumere su di sé i processi del disturbante rimosso. Esattamente come, in un’armonica struttura ciclica, le sculture di uccelli a conclusione dell’itinerario – prime sperimentazioni della tecnica poi portata alla Biennale di Venezia con l’Imitatio Christi –, nell’abbandonarsi della materia alle modificazioni (de)generative innescate dai microrganismi, mettono in scena quella che può sembrare morte, ma è in realtà concedersi a una palingenesi catartica.

giulia mura

diana gianquitto

Maurizio Finotto ·

Cucchi | David ·

BOLOGNA

SAN GIOVANNI VALDARNO

Ci si attarda a leggere le scritte, tra buffe raffigurazioni del malcapitato e ritratti divini: l’incidente in autostrada, l’accertamento del fisco, il lavoro andato per traverso, la guarigione dalla gastroenterite e il trasferimento da Cavarzere a Bologna per approdare all’Accademia, abbandonando finalmente la professione di odontotecnico. Ogni episoMAMBO dio biografico di Maurizio Finotto (Venezia, Via Don Minzoni 14 1968) diventa una tavoletta votiva realizzata 051 6496611 su frammenti recuperati dal mare, ex voto mambo-bologna.org che si affiancano l’uno all’altro per comporre un retablo in grado di stimolare inopportuni ma inevitabili sorrisi. Sulla parete di fronte, il video La lingua dei miracoli, nel quale l’artista presenta questi omaggi “divini” alla mamma e alla nonna; e le due donne, con spontanea partecipazione e commozione – a cui difficilmente si riesce a rimanere indifferenti – ricordano e commentano gli eventi che li hanno ispirati.

Un incipit leopardiano ispira una mostra dal curioso carattere metafisico. Poche le opere, fra arazzi, sculture, dipinti, degli artisti Enzo Cucchi (Morro d’Alba, 1949) ed Enrico David (Ancona, 1966). Gli arazzi in lana di David spiccano nelle sale per le forti bicromie che riproducono immagini stiliza cura di Rita Selvaggio zate di animali ed elementi naturali, piccoli CASA MASACCIO frammenti di un quotidiano sospeso in una Corso Italia 83 dimensione senza tempo, immemoriale, 0559 126283 mentre echi medievali scaturiscono dalle casamasaccio.it opere di Cucchi. Una quiete atavica avvolge le sale, a racchiudere una tensione latente, pronta a uscire come l’uccello in gabbia di leopardiana memoria. Una mostra allestita con discrezione, senza soffocare le antiche sale di Casa Masaccio a San Giovanni Valdarno, che accolgono poche opere ciascuna; opere che, seppur collocate a distanza l’una dall’altra, riescono a dialogare attraverso un impalpabile filo narrativo.

marta santacatterina

niccolò lucarelli

Dario Carratta ·

Alessandro Twombly ·

ROMA

ROMA

Con uno sguardo che setaccia il quotidiano per creare cortocircuiti oftalmici tra il reale e quello che reale non è, Dario Carratta (Gallipoli, 1988) struttura un percorso fatto di corpi, di gesti aperti alla fantasia, alla fiaba, al sogno di un sogno. Sniff my leather jacket, prima personale organizzata alla fino al 25 settembre Richter Fine Art, è pensata come una quaRICHTER FINE ART dreria o una pulitissima Kunstkammer, doVicolo del Curato 3 ve la carica espressiva della pittura graffia 340 0040862 l’occhio dello spettatore per dar vita a un galleriarichter.com dialogo mancato, a un’interruzione, a uno spettacolo visionario e vivace. Un’automobile in corsa, un ragazzo che poggia il peso della vita su un muro: maschere tragiche e beffarde si aggrappano sulle pareti del per ricercare disperatamente un nome, una voce. Al piano inferiore, un burattino guarda l’immagine di un paesaggio caraibico, quasi a schernire la vacanza, a evidenziare un paese dei balocchi sempre più astratto, lontano.

Dipinti su tela e carta di recente produzione e una scultura in bronzo animano la monografica di Alessandro Twombly (Roma, 1959) alla Galleria Alessandra Bonomo di Roma. Per l’artista la natura è metamorfosi. In qualsiasi forma. Dal blu delle sorgenti d’acqua ai fiori, al deserto. E in quest’ultimo contesto la luce diventa quasi accecante e il ALESSANDRA BONOMO giallo e i colori si assopiscono. Si affievoliVia del Gesù 62 sce il contorno e la forma diventa miraggio. 06 69925858 Un vago ricordo. Flebile e poetico richiamo. bonomogallery.com Ma, quando i paesaggi si confondono, prende vita lo spietato gioco delle sovrapposizioni. Come nella serie de I Monti Pallidi, il racconto delle Dolomiti. Delle lunghe passeggiate tanto care all’artista. E nei ricordi riemergono montagne, rocce e nebbie. Dai rossi ai neri, dagli ocra ai blu. La poetica di Twombly emerge dall’istintività del tratto, nell’imprevedibilità del segno. A volte macchia, a volte massa, altre volte mistero.

antonello tolve

michele luca nero

RECENSIONI

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