Artribune Magazine n.3

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Marisa e la collezione7

Carl Andre: tagliare lo spazio8

Fragilità, provvisorietà, incompiutezza. Tutta l’opera di Marisa Merz (Torino, 1931) vive dentro la testimonianza di un fare che non ha fine, di un respiro continuo e appartato, di un messaggio che non supera il limite del sussurro e della reliquia. “Quando penso a Marisa Merz”, ha scritto Claudio Parmiggiani, “penso alle sue mani, alla sua mano. È là che risiede lo spirito del suo lavoro”. Il che è come dire: penso a un’intimità che si rende manifesta, restando intima, a un’azione che non intende eternare cose, ma custodirle, interrogarle, esplorarne l’anima. Non si va mai oltre una tessitura precaria, un blocco di argilla cruda, una tela o una carta dove il disegno rimane a uno stadio di “prefigura”. Un universo enigmatico, senza tempo e insieme fatto solo di tempo, di durata, di continuità. Senza titolo (1997), collocato in una stanzetta, subito dopo l’androne d’ingresso, è una costellazione composta da otto triangoli di fili di rame lavorati “a maglia” che dal pavimento salgono sulla parete con un andamento a spirale. È un lavoro di pazienza, di mania a cura di Chiara Bertola esecutiva, di procedura interminabile. Solo che in FOND. QUERINI STAMPALIA questa esposizione l’opera della Merz, con tutta la Castello 5252 - Venezia sua cornice energetica ed emozionale, viene messa 041 2711411 in dialogo con la quadreria del Palazzo. fondazione@querinistampalia.org Questa trama di fili si trova a confronto con la www.querinistampalia.it Presentazione al tempio di Bellini; alcuni disegni dalla levità straordinaria sono accostati ai ritratti della famiglia Querini; un volto scuro su fondo oro è avvicinato a una Sacra Conversazione. È il tentativo di farci assistere a una migrazione di motivi, ipotesi, composizioni: è la volontà di far transitare corpi e gesti dalla classicità alla contemporaneità, cancellando ogni antitesi tra le epoche. Il tema più spesso affrontato è quello del volto, dell’identità, ma ogni rappresentazione del sé è posta come congettura, se non addirittura come problema. E allora prende senso l’avvicinare quello “scherzo di luce” che è la Testa di bambino di Medardo Rosso a una carta che pare un autentico universo di eleganza e di enigmi irrisolti. Come ha senso porre uno degli idoletti barbarici in creta di fronte a uno specchio. L’immagine viene riflessa senza più l’alto piedestallo su cui è posta e dà l’impressione di essere sospesa, spirituale, di un altro mondo. Come le Scarpette (del 1968) in filo di nylon lavorato a mano, che danno letteralmente forma all’impronta e corpo all’ombra. Tutto è posto sotto il segno del divenire. L’intera mostra pare ricondurre la coscienza del mondo fuori da un sistema fisso e ridefinire l’ordine delle cose, dei luoghi, dei tempi.

“Usare i materiali come tagli inferti allo spazio piuttosto che tagliare i materiali nello spazio”. A introdurre con questa frase il proprio lavoro è Carl Andre (Quincy, 1935; vive a New York), che ha scelto gli spazi di Museion per la sua prima retrospettiva italiana. E mentre fuori dal museo la città vibra, grazie all’undicesima edizione del festival Transart, la luce del sole immerge le sculture del maestro americano, ingigantendole, come se si trovassero sul fondo del mare. Grandi opere selezionate per rendere omaggio al progenitore delle neoavanguardie minimali. Andre, infatti, a partire dagli anni ‘60, è diventato un modello di artista in netta contrapposizione rispetto alla tradizione scultorea europea. Oggi, a pochi mesi dal conferimento del prestigioso premio della Roswitha Haftmann Stiftung di Zufino all’8 gennaio rigo, il Museion passa in rassegna l’intera carriera a cura di Roland Mönig e Letizia dell’artista americano. Una ventina di lavori – dalla Ragaglia MUSEION fine degli anni ‘50 a oggi – selezionati da collezioni Via Dante 6 - Bolzano pubbliche e private, sono stati installati tra il primo 0471 223413 e il quarto piano del museo altoatesino. Se, ogni info@museion.it giorno, per puro caso, si potesse visitare la retrowww.museion.it spettiva in totale solitudine, il fortunato avventore sarebbe protagonista di una scena esatta, scandita, unica. L’allestimento, infatti, prevede la perfetta successione di materiali caldi e freddi; lastre metalliche e volumi lapidei che obbligano l’occhio dell’osservatore a continue messe a fuoco. E a cambi d’attenzione. Sebbene il percorso sia fitto, al pianoterra si può camminare sulle 225 lastre in acciaio di Napoli Squar (2010) o godere dei tre totem in legno di noce africana di Glärnisch, Urn e Star (2001). Mentre al quarto piano si può mettere piede sulla passerella dei Roaring Forties (1988), calpestando 46 lastre metalliche per 23 metri di lunghezza totali; poco distante è inoltre possibile, se non doveroso, lambire le curve di 7 Part Sort, del 1972. Seppure apparentemente poco visibili rispetto alla magniloquenza dei restanti progetti, ci sono anche gli inediti Poems, opere testuali che assieme a una selezione di libri d’artista descrivono in maniera completa la densità visionaria dello scultore americano. Non dimenticate, infine, per completare l’intero percorso, di oltrepassare le pareti vetrate di Museion per recarvi in prossimità del ponte antistante la facciata. Di fronte al fiume. Lì, in esterno, è possibile visitare la lunga serpentina triadica della bianca Wirbelsäule (colonna vertebrale) del 1984, realizzata a Basilea e raramente esposta.

Luigi Meneghelli

Ginevra Bria

Tutto giù per terra9

I’m a Material Man10

Bisogna per necessità tenere lo sguardo basso quando si entra negli spazi della Galleria Massimo De Carlo, altrimenti non si riesce ad apprezzare il lavoro di Massimo Bartolini (Cecina, 1962), qui alle prese con due opeMASSIMO DE CARLO re che raccontano una visione “all’inVia Ventura 5 - Milano giù” delle cose e del mondo. Dopo esser stata protagonista 02 70003987 delle famose e diversamente declinate Aiuole, la terra, base info@massimodecarlo.it per l’esistenza di ogni cosa, torna al centro della produziowww.massimodecarlo.it ne dell’artista toscano sotto forma di scultura in bronzo. Tanto per chiarire che, ora come ora, è la stabilità ciò che più ci serve. Ma la terra è anche il livello a cui l’artista costringe delle luminarie da festa patronale – solitamente verticali e solitamente utilizzate per creare portali, non pavimenti – per apprezzare le meraviglie di una stratificazione. Se poi questa nuova terra pulsa e s’illumina al modulare del suono di una voce, ecco, la vita è fatta.

Difficile resistere all’implicito divieto di toccare le opere. Ci si consola allora con il colore, che Tilman Hornig (Zittau, 1979; vive a Dresda) regala generosamente alla parete e al metala cura di Gianni Romano lo, sfruttando tutte le possibilità del CORSOVENEZIAOTTO cangiantismo, “sporcato” laddove rischierebbe di diventare Corso Venezia 8 - Milano troppo squillante. Plastica novecentesca, accademia tedesca, 02 36505481 creazione impulsiva, l’artista trasmette il proprio piacere info@corsoveneziaotto.com tattile. Sintesi di tanta solidità – tavole, acciaio, vetro – la www.corsoveneziaotto.com leggerezza. Scultura, design (ma si può parlare di design tout court per i tre tavolini fatti di curve altimetriche?) e pittura tout court, con quadri in cui lattine schiacciate sembrano avere un ruolo totemico. Al piano superiore, il “dialogo” con la scuderia fissa, tanto per mettere le carte in tavola a inizio stagione: Arman, Nunzio, Uncini, Cingolani, Melotti, Long.

Max Mutarelli

Anita Pepe

Alieno, ma non troppo11

Sacro Serrano12

Il racconto per immagini di Asuka Ohsawa (Torrance, 1973; vive a New York) prepara sottilmente all’avvento di un disastro. Motivo di contrasto tra alieni e umani è una piovra, oggetto di venerazione per gli uni e ordinario nutriTHE FLAT mento per gli altri. Dai suoi tentacoli, osseVia Frisi 3 - Milano quio e distruzione fuoriescono in egual misura, senza però destare 02 58313809 grandi preoccupazioni nei personaggi e nell’osservatore. Eppure carasi-massimo@libero.it lo scontro è imminente: si accende di colore in un sordo e muto www.carasi.it attacco che non apre al confronto, ma che si trincera dietro un timore congenito verso altre possibili letture. Una lotta surreale e senza colpe, se non “quelle” arbitrarie di possedere diversi Dna culturali. Un racconto che, nella sua apparente immediatezza, rilegge alcuni brani di storia passata e recente, di vincitori e vinti, di esseri umani e alieni. Nello stesso momento, sullo stesso pianeta.

Dio incarnandosi ha divinizzato la carne, e solo i cristiani valorizzano sia l’anima che il corpo. Andres Serrano (New York, 1950), cristiano dichiarato, dà forma all’essenza carnale del Cristianesimo con questa nuova GALLERIA PACK serie di lavori – Holy Works, appunto Foro Buonaparte 60 - Milano – in cui la trasgressione cede il passo all’iconografia quieta 02 86996395 della ritrattistica sacra, riletta con gli occhi di un laico deinfo@galleriapack.com voto che ha fatto della sacralità del corpo – e della materia www.galleriapack.com – il terminus ad quem della propria produzione artistica. La fotografia è il suo medium: in mostra, una serie di ritratti desunti dalla realtà e trasfigurati in un climax che reinventa la tradizione della pittura religiosa. Dopo la personale di Basilè, Pack presenta un’altra bella mostra in cui si reinventa la tradizione, mentre il mezzo fotografico ostende un senso altro del concetto di pittura.

Serena Vanzaghi

Emanuele Beluffi

RECENSIONI 89


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