Poesia in periferia
Supplemento n° 3 al freepress Le Periferie
a cura dell’Ass. Cult. Arrivo APS
Agosto 2024
Dopo 15 numeri del freepress Le Periferie, abbiamo ritenuto opportuno proporvi una selezione di poesie frutto di una raccolta settimanale dove, ogni domenica, l’attore e regista Daniele Timpano ci inviava un brano. Quello che andiamo a presentare è un filotto di 11 poesie, ricevuto in ordine cronologico. Vorremmo, nel nostro intento, ridare un posto centrale alla poesia, relegata troppo spesso ai margini, o troppo spesso abusata. Il poeta, si sa, è colui che da due punti distinti riesce a vederne uno solo, capace cioè di coniugare lo spazio e il tempo personale con quello eterno, grazie alla parola fermata, perché scritta.
Poesia in periferia è stata una rubrica che ci ha accompagnato per i primi dieci numeri del freepress. Abbiamo ritenuto opportuno riprenderla, ampliarla, darle voce e, in qualche modo, centralizzarla, pur costituendo un supplemento, come giusto che sia qui, ora. Questo è il terzo numero!
Lanciamo un appello: spediteci le vostre opinioni, i vostri pensieri, le vostre composizioni letterarie per crescere insieme e dare voce a chi ne ha poca e roca, cercando di rendere visibile l’invisibile, per una volta. Usciamo dall’isolamento e con delicatezza lasciamoci andare, cooperiamo e sosteniamoci a vicenda. Insieme è meglio.
Noi non abbiamo certezze, non proponiamo sicurezze. Mettiamo la passione, la voglia, il tempo, l’energia per emozionarci per un no, per andare avanti, per farci contagiare dall’innominabile, dall’impensabile, dal non programmato, non aspettato. La sorpresa sta dietro l’angolo, va colta, mangiata e digerita.
E frutta un verbo, essere.

È cinto da un muro ch’è alto tre spanne, la via lo circonda.
Di fuori si vedon le frutta mature. Son alberi grandi che piegano i rami dal peso possente dei pomi.
I pomi maturi riluciono al giorno.
Nel mezzo dell’orto v’è un mucchio di sassi, di pietre ruinate: v’è sotto sepolta la vecchia padrona dell’orto.
Aveva cent’anni la vecchia viveva nell’orto, viveva di frutti, soltanto di frutti.
La gente al narrarlo fa il segno di croce. Nessuno à mai colto quei frutti nessuno à varcato quel muro.
Soltanto alla sera vi ridon civette a migliaia.
E cadono e cadono i frutti maturi, s’ammassano ai piedi dei tronchi robusti s’ammassan s’ammassan mandando profumi soavi.
Aldo Palazzeschi, L’orto dei veleni, 1905
A sessant’anni di distanza dal movimento milanese e fiorentino sento parlare spesso e volentieri di futurismo. Se ne parla con reale curiosità serenamente e con benevolo sorriso non di rado con entusiasmo specialmente per parte dei giovani che assaltano il superstite per esaminare documenti ricevere informazioni e notizie sopra un fenomeno del tutto sconosciuto e attualissimo.
Dopo il feroce ostracismo dato fino dal suo nascere al futurismo la cosa potrebbe sembrare stupefacente come nessuna al mondo, invece è naturalissima e non stupisce affatto. Il futurismo non poteva nascere che in Italia paese volto al passato nel modo più assoluto ed esclusivo e dove è d’attualità solo il passato. Ecco perché è attuale oggi il futurismo perché anche il futurismo è passato.
Aldo Palazzeschi, Il futurismo, 1972
Ho viaggiato nella navicella oscillante sopra l’Oceano bluastro trascorrente intorno alle stelle nel cielo, ho reso omaggio alle potenze celesti. Stavo immerso a contemplarle, ho bevuto l’etere eterno staccatomi del tutto dalla terra: lassù ho riconosciuto la scrittura delle stelle e nelle loro orbite e rivoluzioni ho visto disegnato il ritmo divino che, potente, ogni minimo suono trasporta verso l’ondeggiante armonioso slancio. Ma ahimè! vengo trascinato verso il basso, nebbia vela il mio sguardo e rivedo i confini della terra, nuvole mi spingono indietro. Ahi! la legge della gravità afferma ora i suoi diritti, nessuno della razza terrestre vi si può sottrarre.
Karoline von Günderrode, Il pilota della mongolfiera 1804
Ora l’autunno sfoglia le cime fiorite, ora rivela i rami scoperti intirizziti. Cadono foglie e pampini alla crudezza del vento, come lodole stecchite. L’Autunno caccia grumi di nubi pigre e fa scompigli: il sole s’affaccia e torna tristezza e bonaccia.
Così t’avvolgi, cuore di nebbie, ma le radici stanno rivolte al cielo: -albero divelto è la vita fuor dalla terra onde beveva i giorni. Novembre, incubo di ritorni, desideri spietati, impeti strozzati. Novembre, fissità del tempo giornate senza ore fiume senza sponde corrente senza bagliori: perplessità: nulla.
Se n’è andato docile in quella buona notte soffiando sangue e saliva dalle labbra insottilite in piccole bolle sierose esplodenti silenziose e bambine. Come annunciato al mattino “È finita” ha detto, con precisione, constatando, senza rancore, con poco dolore, con ragionevole certezza. Appena una turbata nostalgia, confidando al figlio maggiore che di lì a undici ore non sarebbe stato lì. Se n’è andato docile in quella buona notte come docile non ha vissuto. Infuriava, il padre mio, quando la luce accecava ma docile se n’è andato al morire della luce.
Lorenzo Gioielli, A mio padre, 2014
Non c’è marmo che pianga la vita che rinserra, sopra la nuda terra non c’è orma di vanga.
La croce più superba ha il color d’amaranto, in tutto il camposanto ci son tre cespi d’erba
Coi sol che piovon smorti sopra le croci oscure piegano i fior risorti fra le grame verzure
e l’occhio dell’augello che svaria su, nel cielo, si ricopre d’un velo se guarda quel cancello.
Titta Matteotti, Il cimitero abbandonato, 1906
C’era una volta un babbo pacchiano senza volto ma solo un sopracciglio triste e nero e aveva una gamba sola e niente braccia perché era un militare
Saltellando saltellava a una mangiatoia ecco arrivava
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“Spiacente, se ne è appena andato!”, disse la vocetta burrosa di una mucca popputa nei pressi
“Ma io sarei il proprietario!” Interesse zero. “È mio!”
Il bovino non partecipa Il bovino se ne va
Il pacchiano ordigno saltellante saltellò via tutto sudato e buon milite ignoto camminò camminò un po’ di poco e naturalmente cadde
Daniele Timpano, 1997
Padre e madre caduti frutti che non potevano marcirmi attaccati mentre nudo imparavo a reggere il cielo come un uccello sul dorso, lasciando campi e case affondare. L’azzurro torna a coprire la terra. Trattengo nel becco il ricordo, il seme che sono stati.
Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell’acqua della fonte
La bava degli impiccati.
Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull’erba secca del prato
I denti dei fucilati.
Mordere l’aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d’uomini
Mordere l’aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d’uomini
Ma noi s’è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l’hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.
Franco Fortini, Canto degli ultimi partigiani, da “Foglio di via”, 1946
Questa notte che la notte fa morire e la lebbra della tua paura chiusa tra i nostri passi. Questo gioco è un martirio, tu ti scopri e vivi nei miei attimi incerti trai forza da queste ore senza sogni in cui cerco di cogliere lampi d’intesa fuochi come nomi.
Mi lascio avvolgere dalla giovinezza dei tuoi gesti né voglio vederli sotto altra luce che questa di una notte che la notte fa morire. Dovremo piangere a lungo, lasciare che i sentimenti ci scoprano tenebre come l’incerta sorte dei sogni.
Mi lascio avvolgere dalla bianca tenerezza delle alghe e dai ricordi che mia madre nutre di me dal caldo fiato delle bestie e dal sudore delle tue braccia. Dovrai piangere a lungo e bruciare fiori come roghi prima che il nome torni a tanti cadaveri ignori che le radici tornino verdi nei corpi e il sangue alle tue labbra
Francesco Smeraldi, da Improvviso, 1961
Salve, animali del Nord America.
Salve, coyote, tamia, puma.
Non c’è niente che potessi fare. Non sarò stato capace a fermare i cartoni animati.
Salve, amici morti ovunque.
Salve, amici semi-dimenticati, perduti.
Avrete ancora avuto voglia di ricordarmi ancora col sorriso?
Le mie parole non vi avranno trattenuti. Addio, nemici! Sani e salvi!
Nemici forti, sempre sorridenti, pimpanti di vigore e di energia!
Non ho bastone e non ho sasso; le mie parole non vi spezzeranno un osso.
(Oh, sassi e spessi ruvidi bastoni! Sistematemi voi!
Mi dispiace avervi messi in mezzo!)
Jimmie Bob Durham, Non sarà stato abbastanza, 2005
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