Poesia in periferia
Supplemento n° 1 al freepress Le Periferie
a cura dell’Ass. Cult. Arrivo APS
Marzo 2024
Dopo 15 numeri del freepress Le Periferie, abbiamo ritenuto opportuno proporvi una selezione di poesie frutto di una raccolta settimanale dove, ogni domenica, l’attore e regista Daniele Timpano ci inviava un brano.
Quello che andiamo a presentare è un filotto di 11 poesie, ricevuto in ordine cronologico. Vorremmo, nel nostro intento, ridare un posto centrale alla poesia, relegata troppo spesso ai margini, o troppo spesso abusata. Il poeta, si sa, è colui che da due punti distinti riesce a vederne uno solo, capace cioè di coniugare lo spazio e il tempo personale con quello eterno, grazie alla parola fermata, perché scritta.
Poesia in periferia è stata una rubrica che ci ha accompagnato per i primi dieci numeri del freepress. Abbiamo ritenuto opportuno riprenderla, ampliarla, darle voce e, in qualche modo, centralizzarla, pur costituendo un supplemento, come giusto che sia qui, ora.
Lanciamo un appello: spediteci le vostre opinioni, i vostri pensieri, le vostre composizioni letterarie per crescere insieme e dare voce a chi ne ha poca e roca, cercando di rendere visibile l’invisibile, per una volta. Usciamo dall’isolamento e con delicatezza lasciamoci andare, cooperiamo e sosteniamoci a vicenda. Insieme è meglio.
Noi non abbiamo certezze, non proponiamo sicurezze.
Mettiamo la passione, la voglia, il tempo, l’energia per emozionarci per un no, per andare avanti, per farci contagiare dall’innominabile, dall’impensabile, dal non programmato, non aspettato. La sorpresa sta dietro l’angolo, va colta, mangiata e digerita. E frutta un verbo, essere.

Sublime specchio di veraci detti, mostrami in corpo e in anima qual sono: capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti; bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; giusto naso, bel labro, e denti eletti; pallido in volto, più che un re sul trono:
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; irato sempre, e non maligno mai; la mente e il cor meco in perpetua lite:
per lo più mesto, e talor lieto assai, or stimandomi Achille, ed or Tersite: uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
Esco alla notte contro gli amici lampioni. Son gli occhi dei nuovi mostri terreni. Sfavillano la luce ignota a’ miei avi. Mi fan l’aria moderna onde questo respiro d’uomo semplice diventa verso libero di poeta complesso. Amo le ombre lunghe a sbarra dei lampioni e vi cammino con piedi sicuri e sogni di vertigine come l’equilibrista sul filo teso al precipizio.
E più amo i fogliami d’alberi del viale che la luce elettrica dipinge ad acquerello sul cartone prolisso dei lastricati. E più amo la mia ombra che pare lo svelto impaccio della mia stessa anima fra’ miei piedi.
Dici:
per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano. Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era appena cominciato.
E il nemico ci sta innanzi più potente che mai.
Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso una apparenza invincibile. E noi abbiamo commesso degli errori, non si può più mentire.
Siamo sempre di meno. Le nostre parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha travolte il nemico fino a renderle irriconoscibili.
Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi? O contare sulla buona sorte?
Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua.
Bertolt Brecht, A chi esita, 1935
Ho un sacco di amici morti e vie in cui vago a tutte le ore a occhi aperti o chiusi sperando di incontrarli.
Ho una quantità di rubriche con nomi depennati, due pendole e una dozzina di orologi che da anni non sento ticchettare.
Ho un grosso ombrello nero che ho paura di aprire in casa, e anche quando metto piede fuori, non importa quanto forte piove.
Come un calzolaio perso in una scarpa che sta riparando, non alzo quasi mai lo sguardo da quello che sto facendo con un piede nella fossa, ovvio.
Charles Simić, da Hotel Insomnia, 1992
Mi hai detto che sei vicina a me, ma dove sei?
Non ti trovo.
Ti ho cercata nel letto, dietro alla tenda, nei vetri della finestra.
Ti ho scambiata per il termosifone e ho parlato ore con lui.
Sebbene avesse cose molto interessanti da dirmi non eri tu.
No, non eri tu.
Poi mi son guardato dentro e t’ho trovata, esangue e pallida, addormentata.
T’ho guardata zitto, ho atteso il tuo risveglio, t’ho curata, accarezzata, t’ho guardata. Ma eri tu?
No, non eri tu. Ero io.
Tu eri altrove, impiccata alla tua solitudine, a fare il conto dei tuoi giorni e delle tue notti.
Noncurante di me, impiccato alla mia presunzione, a fare il conto dei tuoi giorni e delle tue notti.
Ivan Talarico, Dialogo con termosifone, da Ogni giorno di felicità è una poesia che muore, 2014
Una volta c’era un uomo, tutto solo egli viveva; ed il tempo trascorreva giorno e notte, notte e giorno.
Sempre immobile sedeva: statua o sasso lui sembrava, ma per terra tutt’intorno alcun’ombra non gettava. Bianchi gufi appollaiati stavan sopra la sua testa. Era inverno e il plenilunio rischiarava la foresta. Strofinando il forte becco aspettavano l’estate. Ecco giugno, ecco le notti dalle stelle illuminate. Come un morto egli era fermo sia d’estate che d’inverno.
Una dama venne un giorno: eran grigi i suoi vestiti.
Un momento a riposare si voleva lì fermare.
Ai capelli tutt’intorno rami verdi già fioriti si intrecciavan vagamente nel crepuscolo lucente.
Come sorto dalla pietra si svegliò l’uomo d’un tratto: l’incantesimo è spezzato che lo aveva incatenato nella notte lunga e tetra. L’afferrò, l’abbracciò stretta, carne ed ossa bene strinse.
L’ombra della poveretta a sé attorno avvolse e cinse. Grigia dama, ahimé, da allora quelle vie più non percorre. Sole e stelle più non vede. Nel profondo ella dimora ed in quella oscura sede non c’è giorno e non c’è notte. Ma una sola volta all’anno quando si aprono le grotte e si svegliano le cose più nascoste e misteriose, lei ritorna, e insieme stanno a danzare fino all’aurora, uomo e dama, e fanno allora sulla terra un’ombra sola.
J. R. R. Tolkien, La sposa dell’ombra, 1962
Stai appollaiata nel bus fuori da predesignate accoglienze più in alto rispetto a ergonomie decise da qualche architetto, al di sopra anche delle nostre teste di passeggeri o clienti un po’ assonnati, seduta sul cassone copriruota dello snodato 791. Perché non si è mai visto un uccello, anche il più indifeso cardellino, non fare di un albero la propria casa e dei suoi rami esserne la canterina, scintillante gemma.
Valerio Cruciani, da Box(e) La scatola dei pugni, 2019
Occhi color di Rhum nel bicchiere che brilla occhi color mattino specchiato nell’acqua tranquilla occhi-passione della mia maggiore occhi-piacere della mia minore occhi nuovi umidi e felici venuti a risplender per me nel posto d’occhi che si chiusero in quest’anni e ch’eran morati e castagni verdi e celesti come i vostri
Occhi belli delle mie figliuole così luminosi nelle giornate sole pronto soccorso contro le tristezze più delle bianche risa e de’ baci ciliege e di tutte le vostre carezze
Occhi grandi delle mie bambine così piccine che guardate tutte in tondo alla scoperta del mondo cinematografo gratuito per le vostre curiosità enorme bazar di novità con libero ingresso all’infinito
Sui vostri occhi sereni finestre tonde sul paradiso terrestre io chino spesso il viso per rivedere quel che avete visto per tornare come voi siete per richiamare sopra i vostri specchi i miei ricordi più cari e più vecchi
Ma se troppo mi accosto ogni spettacolo sparisce La vostra pupilla brillante di gioia si turba e s’incupisce scolorandosi poi nel bigio-noia e ne’ vostri occhi non più vivi si rifletton soltanto i miei da grande occhi stanchi e cattivi.
Giovanni Papini, 1915
Ve ne sono che amiamo come fratelli più puri e che hanno vissuto meglio di noi.
Ve ne sono in straordinari caratteri e che non si capiscono, anche dopo un lungo studio.
Ve ne sono che non valgono nulla; altri che costano prezzi considerevoli. Ci sono libri che parlano di re e regine, e altri di povera gente.
Ve ne sono le cui parole sono più dolci che stormire di foglie a mezzogiorno. Franco, quando bruceremo tutti i libri!
Franco Cordelli, A André Gide, da Il Cordelli immaginario, in “Nuovi argomenti” 57, gennaio-marzo 1978
Cacando l’altro giorno ebbi a sentire
Quella gabella che al mio cul dovevo; Ma l’odore non fu quel che credevo,
Ché dal puzzo credetti di morire.
Oh! se qualcun m’avesse in tal martire
Portata quella che sempre attendevo, Cacando
Io certo avrei saputo a lei coprire
Il suo buco davanti, come devo.
E lei col suo ditino, in gran sollievo, Il mio buco di dietro garantire, Cacando
Ho messo sul muso al mio pensiero laccato di nero un fazzoletto cloroformizzato e l’ho lanciato sul tetto di un grattacielo.
Poi spiccato un salto mi son messa a nuotare nell’aria attraverso i raggi del sole cristallizzata di gioia e di libertà. Ho tirato le trecce alle stelle nascoste
più bionde che mai dietro il paravento celeste e sospesa ad esse ho dondolato sul mondo.
Così ho rincorso le nuvole ho parlato col vento che messosi a farmi la corte ha tirato un sospiro che mi ha lanciato nel vuoto.
Ed ho rotolato giù giù
perdendo di vista le stelle Ho chiuso gli occhi atterrita e quando l’apersi mi ritrovai adagiata vicino daccapo al mio pensiero laccato di nero.
L’ho messo a tracolla e l’ho dovuto portare peccato di nuovo con me.
Adele Clelia Gloria, futurista, “Pensiero a tracolla”, da FF. SS. “89” Direttissimo, 1934
Ti ha piaciato?


Scrivici









