E LA CURVA
Mappe itinerari progetto


Goethe affermava che “solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma”, ma si potrebbe aggiungere che solo a Roma si possono comprendere appieno anche le altre città. Il libro si presenta come un viaggio selettivo all’interno della forma urbana di Roma, osservata attraverso una cinepresa investigativa che parte dal Grande Raccordo Anulare, restringendo progressivamente il campo visivo per scoprire nuovi (o dimenticati) itinerari esplorativi del DNA della città. Secondo il mito, Roma nasce quadrata, ma è la geometria della curva che ha caratterizzato la sua evoluzione, diventando uno strumento tanto progettuale quanto immaginifico. Dai deliri visionari di Piranesi, alla rilettura critica delle mappe storiche, emerge una Roma dove la magica persuasio svela un volto nuovo, dominato dalle forme curvilinee.
Superstudio, nel 1969, sottolineò il carattere evolutivo del tessuto romano con il progetto del Monumento Continuo del “Grand Hotel Colosseo”, che qui diventa la premessa immaginifica per un’indagine più ampia. Muovendosi dalla periferia verso il centro, dal passato archeologico al presente contemporaneo, la cinepresa critica dell’autore individua le forme curvilinee che aprono a riflessioni che vanno ben oltre Roma, permettendo di osservare le “azioni” progettuali delle nostre città.
In copertina Grand Hotel Colosseo, Superstudio (1969). MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo. Collezione MAXXI Architettura. Archivio Superstudio
Cristian Sammarco
ROMA E LA CURVA
Mappe itinerari progetto
Prefazione di Fabrizio Toppetti e postfazione di Flavia Rossi
Volume stampato con i fondi del progetto di “Avvio Ricerca 2023” codice progetto 00331, Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Architettura e Progetto.
Cristian Sammarco Roma e la curva
ISBN 979-12-5953-074-5
I edizione giugno 2025
Editore Anteferma Edizioni S.r.l. via Asolo 12, Conegliano, TV edizioni@anteferma.it
Copyright Questo lavoro è distribuito sotto Licenza Creative Commons
Attribuzione – Non commerciale – No opere derivate 4.0 Internazionale
Prefazione di Fabrizio Toppetti Introduzione
Mappe e visioni curvilinee di Roma
Itinerari di curve nella Roma della magica persuasio
Il GRA. Il cerchio icona di Roma
Curva su curva
La curva resistente di Pompeo
La curva di Roma fuori da Roma
Il concorso per l’area ex Metalplex di Benevento
La crisi dell’edificio speciale ludico-scenico contemporaneo
New York City/Roma
Conclusioni
Iconografia della curva Esedre romane di Andrea Bentivegna
Prefazione
Fabrizio Toppetti
Nell’introduzione, l’autore di questo originale e avvincente studio sulla città eterna, si interroga sui motivi per i quali studiare ancora Roma e i suoi segni. La risposta, senza un minimo di suspense, ci viene fornita due righe sotto per mezzo delle parole di Fernand Braudel: perché “la storia di una civiltà è una ricerca all’interno di antichi dati, per trovare quelli che oggi sono validi”. Una risposta che rimanda direttamente a quella specificità della cultura italiana che, secondo il filosofo Roberto Esposito, fonda il proprio potenziale evolutivo nel rapporto con l’origine, ove paradossalmente la spendibilità nel presente è funzione del radicamento nel passato e che, soprattutto, ci legittima a considerare la presunta inattualità di questo lavoro in una prospettiva operante e propositiva, dunque progettuale.
Parlare di forma della città, al di fuori della cerchia ristretta di coloro che si occupano di morfologia urbana, negli ultimi anni sembrava essere fuori moda e credo che in una certa misura, almeno per una parte della nostra cultura disciplinare, lo sia ancora. Eppure, se le città sono la massima espressione della nostra
civiltà e oggi ospitano la maggioranza delle persone al mondo, è necessario occuparci anche della loro forma. Perché la forma incide sui caratteri estetici ma anche sulle valenze prestazionali dello spazio che abitiamo, dunque seppure indirettamente sulla qualità della nostra vita.
Di fronte alla crescita esponenziale di organismi urbani che da un certo momento della storia sembrano espandersi senza criteri e regole si è spesso insistito sulla celebrazione elusiva del caos, sull’impossibilità di controllare poteri e interessi economici e sull’inutilità di stabilire principi d’ordine di carattere qualitativo, affidando esclusivamente ai parametri quantitativi il compito di porre dei limiti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. L’urbanistica che da tempo (salvo rarissime eccezioni) non contempla più la dimensione del disegno urbano, e il disimpegno (o la marginalizzazione) degli architetti migliori non hanno giovato alla qualità del nostro habitat.
Ciò nonostante, come giustamente sostiene anche Sammarco, tutto è forma. La forma della città, oltre le vedute a volo d’uccello
e le rappresentazioni bidimensionali, è plastica, multiscalare e avvolgente, delinea gli invasi spaziali, determina le loro qualità, i loro caratteri precipui e distintivi, la loro pressione atmosferica. In definitiva la loro abitabilità.
In ciascun contesto, dal tessuto compatto della città storica alle frange estese e ascalari delle periferie contemporanee, ravvisiamo forme, l’importante è saperle individuare e comprenderne le ragioni. Solo in questo modo è possibile operare per renderle leggibili, rafforzarle, stemperarne la perentorietà, inscriverle in configurazioni nuove, metterle in relazione tra loro. Ma c’è di più. Se la forma, giusta la definizione di Vittorio Gregotti, è “il modo nel quale gli strati sono disposti nella cosa” e la figura è “il potere di comunicazione di quella configurazione”, siamo pienamente legittimati ad agire anche sui valori figurali per estrarne ed esaltarne il potenziale iconico e simbolico. La scelta di selezionare e isolare un solo morfema, nelle varie manifestazioni nelle quali si rintraccia – abbandonando il rigore sequenziale dei procedimenti e l’attitudine a spiegare fenomeni complessi sulla base di passaggi analitici – non consente di costruire una visione ove, per usare (a sproposito) una celebre e controversa locuzione di De Saussure, tout se tient come fatalmente accade negli studi di morfologia urbana. Proprio per questa ragione questo studio fornisce indizi preziosi che, nella loro parzialità, compongono un quadro frammentario e al contempo generativo di sicuro interesse, restituito in una sequenza di disegni che sono belli perché capaci di focalizzare l’attenzione sulle parti
alludendo al tutto, aprendo prospettive e interpretazioni progettuali lontane da quel determinismo che è il principale vulnus della tradizione degli studi sopra richiamati.
Se poi la città è Roma e il morfema è la curva ne viene fuori, e non potrebbe essere altrimenti, una tassonomia della meraviglia e della sorpresa che attraverso itinerari del possibile passa dall’iconografia storica all’esperienza dell’anello del GRA, dal Colosseo al crescent di Vigna Murata, dal Campo Marzio piranesiano ai vari giacimenti sommersi e/o affioranti.
Il tutto con una disinvoltura disarmante, in una dimensione onirica transcalare e transtemporale, trascendendo il metodo e fornendo una possibile interpretazione che a me piace leggere, come peraltro il testo a tratti suggerisce, secondo un’interpretazione ampia e probabilmente scorretta, del concetto albertiano delle “parti accomodate insieme”, muovendo dalle relazioni.
Dunque dalla configurazione del vuoto e dai legami di solidarietà tra le parti, poiché ciascun elemento, singolo o in associazione con altri, viene percepito, misurato, vissuto, a partire dallo spazio effettivamente praticabile e praticato.
Introduzione
Roma assorbe, brucia e trasforma.
Tutto è forma e la forma ha una sua identità che lascia un segno sondabile e investigabile, sia in quanto unità, sia in quanto relazione con le altre unità plurali. Roma è un’entità fisica e, come ogni realtà costruita nel visibile, può essere interpretata attraverso la lente della semiotica. Partendo da questo presupposto, il presente volume è il risultato di una ricerca sul segno: si configura come una guida alternativa e inesplorata alla forma urbana di Roma intesa come terreno di sperimentazione architettonica della figura della curva tra spazio e tempo. È doveroso però fare una breve precisazione sul tema del segno (ancor prima di esplicitare perché Roma e perché la curva) senza sconfinare eccessivamente nelle discipline filosofiche, in quanto la città di Roma, nello specifico l’evidenza fenomenica dei suoi segni curvilinei, è il tema principe nel campo fisico di questi studi.
Andrea Pinotti, partendo dalla declinazione offerta da Charles Sanders Peirce, afferma che il representamen (il segno) è distingu-
ibile in tre classi in base al rapporto che istituisce con l’oggetto rappresentato: icon, index e symbol. Peirce delinea un processo di riformulabilità dei significati dei segni in cui «l’icona si basa su una relazione di somiglianza tra il segno e il rappresentato (per esempio un ritratto rispetto al suo modello). Abbiamo a che fare con un tipo di segno che possiede in sé stesso una qualità rappresentativa, cioè la capacità di rappresentare nel senso di “stare per”, al posto di, di fungere da sostituto dell’oggetto rappresentato»1.
Representamen iconici sono, nella letteratura, i dipinti o i diagrammi e un esempio pratico, secondo Pinotti, è la mappa di una metropolitana, un segno che ha un rapporto di similarità con il referente. L’indice invece «si fonda su un rapporto fattuale, una connessione fisica con l’oggetto che ne determina una modificazione»2. È indice tutto ciò che ci fa trasalire o che attira la nostra attenzione in un rapporto di contiguità come rombo e tuono, fumo e fuoco. Il simbolo è in ultimo un significante che rimanda all’oggetto secondo una regola e che, in questa ricerca, può indicare le caratteristiche formali riconosciute da una comunità o semplicemente dall’osservatore di tale segno.
Le tre classi desunte da Pierce identificano in questa disamina tre famiglie di curve che divengono l’espediente per la trattazione di tematiche interferenti, parallele e in aderenza. L’icona è identificata nella figura del cerchio, in questa ricerca il Grande Raccordo Anulare di Roma, segno che ha sostituito nell’immaginario altre icone della città. L’indice si riscontra in quei tessuti edilizi che, curva su curva, hanno modificato il DNA della città, rimanendo persistenti e riconoscibili, e che trovano, nel dato archeologico, il sostrato attivo della città. Il simbolo è rappresentato infine da quegli oggetti urbani curvilinei e singolari che, attraversando la città, incontriamo nella forma di totem e sentinelle, oggetti che permettono di identificare degli itinerari alternativi di esplorazione spaziale dell’Urbe attraverso il tema della curva e del progetto.
1 A. Pinotti, Il primo libro di teoria dell’immagine, Einaudi, Torino, 2024, pp. 10-11.
2 Ivi, p. 11.
Lo studio della forma curvilinea per mezzo di questi tre representamen diviene dispositivo, inteso come la rete che si stabilisce tra il detto e il non detto, tra gli elementi fisici (comprese le strutture architettoniche), le proposizioni morali, i discorsi filosofici e le leggi. Giorgio Agamben, esplorando il pensiero di Foucault, sostiene la sua idea di dispositivo come risposta a un’urgenza di un dato momento storico con funzione prettamente strategica3.
Dunque perché studiare ancora Roma e i suoi segni, i suoi dispositivi, e di conseguenza la sua morfologia, il suo tessuto edilizio? Roma ha bisogno urgentemente di attenzioni oggi come ieri, in ogni singolo momento delle sue trasformazioni metamorfiche poiché, come affermava Fernand Braudel, «la storia di una civiltà è, dunque, una ricerca all’interno di antichi dati, per trovare quelli che oggi sono validi» 4. I dati in questione che possono riaccendere un dibattito su una lettura di Roma di carattere generativo sono proprio i segni tra i quali selezionare delle famiglie di forme (in questo caso quelle curvilinee) che permettano di investigare fattori interni ed esterni al campo architettonico.
Nonostante su Roma, più di qualsiasi altra città, molti abbiano scritto e parlato in diversi contesti disciplinari, è possibile riassumere in poche righe il segno che ha lasciato dentro ogni studioso che vi si approcciasse, per mezzo di una frase di Sigmund Freud contenuta in una lettera destinata alla moglie Marta durante il soggiorno nella capitale nel 1912: «Il mio progetto per la vecchiaia è sicuro: non un cottage, ma Roma»5. Un ulteriore assunto di Freud6, dal forte carattere profetico, mette in risalto la forza generatrice e d’ispirazione della città eterna: «facciamo dunque un’ipotesi fantastica, che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e
3 Cfr. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Milano, 2006.
4 F. Braudel, Le Monde actuel. Histoire et civilisations, Belin, Paris, 1963.
5 Freud visitò Roma sette volte tra il 1901 e il 1923.
6 Dalla sua opera Il disagio della civiltà
ricco, una entità in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti»7.
Nel campo dell’architettura un’interpretazione porterebbe a considerare Roma come un organismo vivo, segnato incessantemente e stratificato, in cui le forme non perdono mai la loro riconoscibilità ma accolgono le trasformazioni in una dimensione di permanenza sia del segno sia della loro entità psichica, senza un tempo definito e concluso. Tutto è aperto al cambiamento, ma al tempo stesso è resistente, nella città di Roma.
Come si è anticipato, questa ricerca si struttura attraverso tre sezioni che affrontano differenti filoni di investigazione sul tema della curva a Roma e dei suoi segni. La prima ricostruisce un itinerario alternativo di lettura attraverso mappe e visioni sulla città sino a focalizzarsi sul segno iconico del Grande Raccordo Anulare. Una lettura che si materializza nell’individuazione di itinerari architettonici contemporanei che raccontano un possibile viaggio attraverso oggetti curvilinei che partendo dal modello della strada-museo “dell’Appia Antica” si formalizzano in due selezionate sequenze di luoghi e opere. Il primo lungo il GRA e il secondo lungo le anse del Tevere.
La seconda sezione si concentra su un primo approfondimento di scala. Partendo da uno dei luoghi attraversati del secondo itinerario si propone una lettura del Campo Marzio e delle sue trasformazioni. Una lettura che si sgancia dal tessuto e fa un ulteriore salto di scala per focalizzarsi sull’organismo edilizio curvilineo formatosi sul (e dal) teatro di Pompeo. Caso studio, quello dell’antico edificio per spettacoli, che permette di esplicitare la necessità di agire con rigore metodologico nella ricerca archivistica e nel confronto con gli studi di archeologica e topografia antica.
La terza sezione del libro affronta invece il tema dell’architettura curvilinea della rovina come terreno fertile per la ricerca
7 S. Freud, Il disagio della civiltà, in J. Flescher (a cura di), Collana Psicoanalitica n.3, Editrice Scienza moderna, Roma, 1949, p. 205.
progettuale. Si esce dal limite fisico del Grande Raccordo Anulare per analizzare come Roma sia presente come “entità psichica” (e non solo) anche al di fuori dei suoi confini divenendo materiale di progetto e come lo studio delle sue forme sia uno strumento immaginifico ai fini della pratica architettonica in contesti altri. I segni curvilinei appena descritti e sondati a diverse scale prendono corpo nell’apparato iconografico del testo che si presenta come il principale strumento di viaggio della ricerca. È uno strumento di viaggio perché ripercorre gli itinerari attraverso la lente di una fotografa di architettura (Flavia Rossi) impegnata da anni in campagne sul patrimonio architettonico del XX secolo italiano. Il suo obiettivo fotografico ha documentato passo dopo passo la creazione degli itinerari, affiancandosi al tratto grafico dei disegni in divenire. Tra questi segni su cui si struttura la ricerca si ribadisce sempre la forza della curva, figura-segno-elemento geometrico che permane come protagonista della forma urbana dalla città antica a quella contemporanea.
In questa introduzione alle tre sezioni della ricerca è utile anticipare alcuni temi sulla lettura del Campo Marzio attraverso l’opera di Giovan Battisti Piranesi e sul ruolo induttivo che ha avuto l’incisione analizzandola come progetto generatore di un possibile dibattito sul tema della curva.
In primis Franco Purini che, parlando della grande macchina post-barocca del retro dell’altare di Santa Maria del Priorato di Piranesi, ci consegna una visione altra della Roma contemporanea: «un allucinato oggetto plastico che non ha più un’identità certa perché non è un’architettura né una scultura né un perfetto teorema della spazio»8.
Si riferisce alla sfera, prodotto sublime della linea curva. Curva che nell’incisione del Campo Marzio è il motore progettuale per una foresta di segni, un tappeto di figure che si muove paratatticamente sul piano del foglio e che non è stato indagato a suffi-
8 F. Purini, Progetti di trascrizione, in Dimensioni del disegno. Rappresentazione e verità, R. De Rubertis (a cura di), Officina, Roma, 2005, p. 23.
cienza nella sua dimensione di macchina investigativa: «nel Campo Marzio il grande incisore veneziano fa scomparire totalmente l’effetto reale allestendo al suo posto una rigogliosa sfioritura di tipologie architettoniche che si organizzano in generi e specie proponendo l’idea di una inarrestabile coltivazione biologica, quasi un’aggressione parassitaria agli elementi fondamentali del racconto architettonico»9. Sempre Purini prosegue offrendo uno spunto di ricerca che non è stato ancora colto nella sua potenzialità, affermando che «utilizzando gli strumenti digitali sarebbe di grande interesse tradurre questi materiali, nei quali non c’è soltanto la metropoli contemporanea ma anche il linguaggio architettonico degli ultimi due secoli, in un modello virtuale entro il quale viaggiare. Sarebbe un viaggio di grande suggestione che consentirebbe sicuramente di scoprire aspetti ancora nascosti dell’architettura piranesiana»10 ma soprattutto di comprendere le forme, le figure e i segni di Roma. Vincenzo Fasolo, nel 1956, indagò, attraverso un saggio illustrato11, la dimensione sperimentale dell’opera piranesiana del Campo Marzio, sostenendo che l’archeologia sia l’espediente e non il fine per fantasticare sulla composizione formale di architetture che di antico avevano solo una possibile matrice comune di rimandi classici e lessicali. Che cosa è quindi il Campo Marzio di Piranesi? Sicuramente non una rappresentazione della Roma antica ma una città concettuale di cui l’archeologia è un substrato non fisico ma ideale. Il punto di partenza per una sperimentazione urbana. È un abaco infinito di soluzioni spaziali e geometriche che si perdono le une dentro le altre fiorendo in tassonomie del comporre. Manfredo Tafuri valorizzò la dimensione concettuale del Campo Marzio in due contributi: Per una critica dell’ideologia architettonica (1969) e L’architettura come “utopia negativa” (1971)12, affermando che la maschera archeologica indos-
9 Ibidem
10 Ibidem
11 Si fa riferimento a V. Fasolo, Il Campomarzio di G. B. Piranesi, in Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura, n. 15, Roma, 1956.
12 I due articoli compaiono rispettivamente in due libri di Manfredo Tafuri: Progetto e utopia. Ar-
sata dal Campo Marzio non ha ingannato nessuno. Nei suoi scritti Tafuri sosteneva che il piano era un disegno volto alla sperimentazione, pullulante di forme, che segnalava la rivolta di Piranesi contro tipi e istituzioni borghesi stagnanti. Secondo Victor Plahte Tschudi, che ha ripreso le fila del pensiero tafuriano, Piranesi come architetto è riuscito a mandare in cortocircuito il riciclaggio “postmoderno” del passato classico: «l’incessante disegno geometrico più che semplicemente scontrarsi con le testimonianze antiche, secondo Tafuri, mostrava lo scontro stesso come l’unica posizione metodologica onesta che gli architetti, allora come oggi, potevano assumere nei confronti del passato»13. Questo “incessante disegno geometrico”, liberato da Fasolo dal velo dell’archeologia, diviene un manifesto metodologico di estrazione formale della modernità del XX secolo. Roma ancora una volta è guida per sperimentazioni teoriche che, riprendendo il pensiero di Purini sulla questione, non devono essere circoscritte a una semplice operazione di estrazione di volumetrie. Le Corbusier nel 191514 è spaventato dalla sovrabbondanza tipologica del Campo Marzio e fugge via da ogni tentativo di svelamento (come farà per la mappa di Roma di Pirro Ligorio). Estrae i suoi solidi guida, che diventeranno oggetto e metodo dell’approccio moderno di lettura selettiva dei dati del reale del ’90015.
chitettura e sviluppo capitalistico, Laterza, Roma-Bari, 1973, e La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, Einaudi, Torino, 1980.
13 V. Plahte Tschudi, Conceptual Campo Marzio, in Giambattista Piranesi. Sognare il sogno impossibile, M. C. Misiti, G. Scaloni (a cura di), Libro multimediale: https://www.piranesimultimediale.it/ (ultima consultazione settembre 2024).
14 «Nel 1915, l’architetto svizzero Le Corbusier, allora noto come Charles-Édouard Jeanneret, si stabilì alla Bibliothèque Nationale di Parigi per studiare le stampe antiche. Osservando la mappa ricostruttiva dell’antica Roma di Pirro Ligorio, l’Anteiquae Urbis Imago del 1561, Jeanneret distillò dalle fantasiose ricostruzioni di questa mappa alcune forme geometriche di base – un cubo, un cono, una piramide ecc. – e convertì le sue scoperte in un diagramma pubblicato per la prima volta nella rivista L’ésprit Noveau (1920) e più tardi in Vers un architecture (1923) di Le Corbusier. Mentre era in biblioteca, Le Corbusier guardò anche il Campo Marzio di Piranesi. In questo caso, però, non ha potuto o non ha voluto “guardare attraverso” la pletora di elementi come aveva fatto con la mappa di Ligorio. Al contrario, sembrava consistere di “nient’altro che portici, colonnati e obelischi!!! È pazzesco. È orribile, brutto e idiota. Non commettere errori, è tutt’altro che grandioso”. Spettava a Fasolo penetrare la superficie ornata e fissare le forme nascoste». Ibidem
15 Sugli studi lecorbusieriani sull’argomento si fa riferimento a D. Philippe, Ch. E. Jeanneret à La Bibliothèque Nationale Paris 1915, in Architecture-Mouvement-Continuité, n. 49 (Numéro spécial Le Corbusier), Parigi, 1979, pp. 9-12.
Tolta dunque la patina archeologica del Campo Marzio si affronta una lettura alternativa della mappa piranesiana attraverso il tema della curva. Sono centinaia le strutture curvilinee inventate da Piranesi nel suo abaco partendo dal cerchio e dall’arco, dall’ellissi, al fluire delle sponde del Tevere come curve tese, scattose e vibranti, e solo attraverso un’operazione di ridisegno è possibile comprendere il ruolo che la curva ha nella costruzione del proprio immaginario antico. La curva per l’incisore è la più grande scoperta della Roma degli antichi romani e strumento organizzativo delle sequenze spaziali multiple della forma urbana. È il segno che governa la composizione della città. Purini ci invita a una ricostruzione tridimensionale dell’intera mappa, senza però una selezione formale o per temi, per comprendere l’organismo nella sua totalità. Questa operazione diverrebbe l’inseguimento di un’immagine senza una percezione selettiva dei suoi elementi e la restituzione di un paesaggio, di una topografia costruita. Si è avviato così in questa ricerca un ridisegno delle sole forme curvilinee presenti nell’incisione che ha permesso di rendere visibile e sondabile una possibile struttura madre del disegno che è stata la guida per gli elaborati presenti nell’apparato iconografico di questo libro che costruiscono i primi possibili itinerari di curve romani.
Un’esplorazione delle caratteristiche della curva nella disciplina teorico-critica dell’architettura non è stata affrontata mai in uno studio sistematico sul tema, ma attraverso rimandi alla pratica del progetto. Tra i diversi contributi sull’argomento, si riporta un frammento del testo di Andrea Pernici: «come è stato già notato qualche anno fa da Fulvio Irace su Domus, l’arco è uno di quegli elementi-figura costitutivi dell’ordine classico (elemento della continuità iperstatica: ripreso in maniera emblematica da Sironi nella triennale di Milano del 1933, come figura continua e assente di nodi) rimasto come inconscio della architettura moderna. A
mio avviso ad esso si possono ricondurre (al sistema archivoltato, integrato e assimilato nell’ordine classico) come matrice, tutte le famiglie di elaborazione moderna sul tema della linea e della superficie curva. Non a caso di esso si sono appropriati per primi gli ingegneri, assolutizzandolo nella forma calcolata e relativizzandolo nell’uso specialistico della struttura (superamento di grandi luci). Mentre appartiene al mondo più simbolico, metaforico dell’Art nouveau prima e del Futurismo poi, la reintroduzione delle forme costruttive legate alla problematica della curva: come specificità di linguaggio. La linea curva sembra disporsi e riproporsi in maniera privilegiata ad esprimere, nella famiglia di interrelazioni che genera, quel mondo e quell’istanza di movimento puro, di energia dinamica, tipiche del moderno: così come in Fisica la vibrazione ondulatoria della luce»16. Pernici evidenza il bisogno (dunque anche il valore resistente) della figura della curva e la sua trasmissione nella composizione della modernità. Approccio curvilineo, quello al progetto, che viene in questa ricerca trattato sia nella dimensione costruttiva di itinerari esplorativi, sia come materia di progetto per le architetture della rovina. Ovvero quelle archeologie curvilinee che sono esportazione della curva di Roma, fuori da Roma. Il Mediterraneo d’altronde è un teatro circondato da centinaia di teatri, e Roma è il centro di questa composizione di curve. Una costellazione di forme dalla matrice morfologica comune. Comprendere con un affondo, il DNA di Roma, può aprire alla comprensione, e a nuove interpretazioni, anche di altre realtà costruite.
16 A. Pernici, Alcuni punti riflessivi sui non-luoghi come luoghi della post-visione e come luoghi della post-abitazione, in Figure dell’atopia, M. Negroni (a cura di), Gangemi, Roma, 1996, p. 31.
Mappe e visioni curvilinee di Roma
«Solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma» Johann Wolfgang von Goethe
Goethe affermava che «solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma»1, e non deve essere stato facile comprenderla e per molti disegnarla. Cercare una chiave di lettura, nel mondo della rappresentazione, che rendesse trasmissibile la sua complessità. Complessità che abbisogna di semplicità. Di un segno (o più segni) riconoscibile e rappresentante. Le carte storiche pervenuteci sono assimilabili a cartelloni pubblicitari, ovvero strumenti di comunicazione, che, girando per l’Europa, mostravano la città come una collana dalle numerose perle. A volte vi si mostravano solo le perle, le sue architetture, a volte si cercava la strada per denunciare schematicamente la struttura della collana nella sua generalità; il suo modello.
Roma ha assunto l’epiteto di “eterna” non per la presenza fisica e visibile dei suoi monumenti antichi, delle sue perle, di quei frammenti marmorei che affiorano con forza dalla sua forma urbana sintetica, ma per la sua capacità di riuso e adattamento delle
1 Cfr. J. W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. di G. Castellani, Mondadori, Milano, 1987.
forme originali costituenti l’ossatura della città: il centro storico odierno dell’Urbe è il risultato di stratificazioni e trasformazioni rappresentanti un unicum nella storia della forma delle città, poiché il sostrato originale, il tessuto della Roma antica – in particolare del Campo Marzio – è un caso studio isolato e irripetibile di grandi forme urbane coesive e unitarie curvilinee (un tessuto speciale utilizzando un’accezione muratoriana del termine), le cui caratteristiche formali hanno organizzato le fasi di tutta la città medievale e moderna, sino, per riverberazione, a quella contemporanea. Carlo Aymonino riferendosi a questa forza di permanenza diceva: «La città è dunque un luogo artificiale di storia in cui ogni epoca – ogni società giunta a diversificarsi da quella che l’ha preceduta – tenta, mediante la rappresentazione di sé stessa nei monumenti architettonici, l’impossibile: segnare quel tempo determinato, al di là delle necessità e dei motivi contingenti per cui gli edifici furono costruiti. Una sorta di eredità, di permanenza, diretta a testimoniare le aspirazioni e le ambizioni, personali o collettive, attraverso strumenti durevoli: i monumenti di pietra, in marmo, in ferro, in cemento. E la bellezza di una città, il suo poter essere “arte”, è data proprio dalla contraddizione esistente fra l’assunto iniziale – il motivo per cui sorse il monumento – e la realtà continuamente mutevole dell’uso che viene fatto di tale eredità – come di tutte le eredità – […] La “testimonianza” dei monumenti resta cioè valida proprio in virtù delle continue trasformazioni o adattamenti che questi, presupposti “eterni” al loro nascere, subiscono nel tempo storico-sociale; riconfermando in ciò il loro carattere di validità temporale che quanto più dura tanto più tende, al limite, a una possibile “eternità” – intesa come continuità di una presenza»2 . Le parole di Carlo Aymonino non valgono solo per gli oggetti architettonici, per le emergenze, ma permettono di traslare questi concetti e presupposti teorici alla forma urbana stessa della città di Roma. Un’eternità intesa come “continuità di presenza”
2 C. Aymonino, Il significato delle città, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 17-18.
ma anche di segno, di rappresentazione nell’immaginario e poi nel reale. Il cerchio, l’icona costruita del GRA (il Grande Raccordo Anulare di Roma), è un representamen di cui (come si tratterà) Roma aveva bisogno di confermare e in cui riconoscersi. Prima del GRA bisogna però muoversi nelle piante di Roma curvilinea nel tempo, senza perdere temi di ricerca che sottendono alla loro costruzione disegnata e che sono indispensabili per comprendere il DNA della città, nonostante il loro superficiale apparire di materiale esterno alla narrazione. È doveroso partire da quello che c’era prima. Dalla mancanza di riconoscibilità della forma curvilinea nelle prime rappresentazioni di Roma. La problematicità della ricostruzione di una topografia della forma urbana altomedievale di Roma è un argomento da sempre dibattuto tra gli storici dell’arte, di architettura e gli archeologi: sia Etienne Hubert che Richard Krautheimer lamentano la mancanza di una documentazione dettagliata della trasformazione urbana di Roma tra il V e il XIII secolo. Le piante e le vedute di Roma sono tutte più tarde; ma ci consentono di immaginare la città medievale e i suoi dintorni. La prima planimetria pervenutaci, oltre a quelle redatte in maniera simbolica, fu disegnata nel 1323 da fra Paolino da Venezia: essa però si fonda su una redazione dei Mirabilia3 datata al 1280, e potrebbe essere la copia di un originale duecentesco. Nonostante resti nel quadro dell’astratta cartografia medievale, questa pianta ci dà un’immagine primitiva della città quale appariva agli occhi dei contemporanei. L’importanza di questa rappresentazione di Roma è desumibile dalla comparazione con altre vedute più tarde della città di autori umanisti come Taddeo di Bartolo da Siena o i fratelli Limbourg nelle Très riches heures du Duc de Berry che rappresentano la città attraverso i due temi dell’oggetto-monumento e del recinto-contenitore che
3 Per Mirabilia Rome, dal latino mirabilis traducibile con “meraviglie di Roma”, si intendono delle guide di viaggio per l’uso in particolare dei pellegrini in visita a Roma. Questa letteratura periegetica medievale serviva a guidare il visitatore tra i monumenti antichi e moderni della città e fu anche “guida” per la ricostruzione topografica della città continuando spesso a influenzarne, con numerose invenzioni fantastiche, delle false rappresentazioni.
assume, quasi magicamente, la forma di un cerchio perfetto. Essi al contrario di fra Paolino sono però ancora legati a un’immagine medievale della rappresentazione urbana, i cui antecedenti più mirabili sono l’affresco di Roma di Cimabue ad Assisi e la Bolla d’oro di Ludovico il Bavaro del 1328. L’operazione di astrazione e ridisegno denota come in tutte le rappresentazioni di Roma siano sempre presenti gli elementi comuni delle mura, come recinto e limite dell’Urbe (deformato in forma perfetta come cerchio), il corso del fiume Tevere (con le sue curve a tratti morbide e a tratti nervose) e i monumenti pagani e cattolici. Nella Bolla d’oro e nell’affresco del Cimabue i monumenti tutti, in quanto sono rappresentati anche chiese e palazzi, sono un unico organismo solidale che non lascia spazio alle altre aree della città, ovvero al tessuto residenziale e alle aree libere destinate all’agricoltura e pascolo4. In queste immagini Roma è memoria dell’antico e sede del potere religioso; è un monumento continuo non gerarchizzato nelle sue parti: i grandi organismi edilizi speciali si perdono l’uno nell’altro e sono distinguibili solo per alcune caratteristiche formali curvilinee come la cupola (il Pantheon) o le merlature del cilindro (Castel Sant’Angelo) che sono spesso punti fermi delle rappresentazioni. Nell’immagine dei fratelli Limbourg, invece, i monumenti vengono indicati nella loro ipotetica posizione topografica e compaiono i rilevi naturali della città occupati dagli edifici esistenti. Lo spazio tra una forma architettonica e un’altra non è ancora però rappresentato nelle sue caratteristiche fisiche ma lasciato libero: una superficie piana e astratta su cui gli edifici e i rilievi sono disposti come oggetti su un “vassoio” lecorbusieriano. Nella pianta di Taddeo di Bartolo invece iniziano a comparire i primi percorsi orientati verso l’ansa del Tevere, centro della vita medievale e moderna di Roma, ma non vi è ancora traccia della “casa” e del tessuto urbano, mentre è rappresentata una forte verticalità formale e figurativa attraverso i campanili e le torri difensive.
4 Roma sino all’Unità d’Italia era sempre stata divisa tra “abitato”, l’area costruita nell’ansa del Tevere, e “disabitato”, il paesaggio agreste, poi definito romanticamente bucolico, che dal Campidoglio arrivava sino alle mura di porta San Giovanni senza soluzione di continuità.
Prima vera rappresentazione della morfologia urbana della Roma medievale è dunque la pianta di fra Paolino: qui il protagonista non è il singolo edificio speciale o l’accostamento di molti di essi in una “città-monumento”, ma è l’unità della casa a consegnarci la misura della città e con essa i diversi percorsi su cui si attesta. La residenza è rappresentata attraverso il simbolo universale della casa con tetto a doppia falda e la presenza della porta, dell’ingresso sul percorso che, immediatamente, ci rimanda ai dettami sulla lettura del tessuto edilizio. Sono riconoscibili percorsi, spazi pubblici e la relazione tra percorso e polo – si noti come dal supposto teatro di Marcello il percorso arrivi sino al Castel Sant’Angelo. Il tema della permanenza della resistenza della forma curvilinea inizia a essere presente in questa rappresentazione medievale in quanto, isolando alcuni elementi del disegno come l’area del teatro di Marcello, sono riconoscibili i fornici occlusi e occupati da abitazioni e le case a schiera formatesi tra le rovine: sono “topografie architettoniche” che si pongono come elementi organizzatori della forma della città così come i percorsi romani ancora riconoscibili. È comunque bisognoso ricordare che «la Forma Urbis nei codici di Paolino non è espressione di una sintesi ma un tentativo ancora primitivo di rappresentazione della realtà per parti: il confine convenzionale ovale che le è stato assegnato delimita solo un assemblaggio di pezzi diversi, i molti percorsi tra i luoghi di interesse [sono] costruiti e posizionati ognuno con un proprio interno punto di vista, evidenziato anche dal verso della scrittura»5 .
Al contrario, gli artisti che dal ’400 dipinsero o disegnarono vedute di Roma, rappresentando panorami o singoli edifici, intesero senz’altro mostrare la città com’essa era: Masolino (1435), il disegnatore del Codex Escurialensis (fine XV sec.), Marten van Heemskerck nel suo soggiorno a Roma tra il 1532 e il 1536, Wijngaerde e Naldini nelle loro vedute panoramiche tra il 1550-70. Sebbene siano tarde, queste raffigurazioni rappresentano fedelmente
5 M. Bevilacqua, M. Fagiolo (a cura di), Piante di Roma dal Rinascimento ai Catasti, Edizioni Artemide, Roma, 2012, p. 101.
il quadro d’insieme e i singoli elementi sopravvissuti al Medioevo o eretti su impianto medievale: il contrasto fra il nucleo edificato e i terreni circostanti, coltivati o no, che si estendevano sino alle Mura Aureliane; la folla di case, torri, chiese e monumenti antichi emergenti dall’abitato; le case, che appaiono rispondenti alle descrizioni contenute negli atti di compravendita dal X secolo in poi, e che quindi risalgono probabilmente all’età medievale6. Altri artisti e maestri del Rinascimento si sono invece soffermati sulla figura del cerchio come strumento di trasmissione della realtà morfologica di Roma, sfidando la dimensione dell’immaginifico. Nel 1527 Marco Fabio Calvo ci consegna una rappresentazione narrativa dell’evoluzione di Roma in tre disegni, dal quadrato al cerchio, passando per la forma ottagonale. L’autore pone come punto di arrivo della perfezione della forma urbana data dal tema del recinto, delle mura, la perfetta anularità, che egli associa alla Roma imperiale. In questa ultima rappresentazione circolare la città supera la concezione di arcipelago regio, che si regge sulle strutture naturali e topografiche, per una superficie organizzata radialmente sul tema delle porte e delle grandi emergenze monumentali. È un abaco di strutture, ognuna all’interno di una determinata fetta della città. Questa operazione grafica era frutto di un esponente di un Rinascimento che nell’Alberti trovava un punto di partenza per la comprensione e organizzazione della realtà. Leon Battista Alberti infatti, nella sua pianta di Roma, opera non con la volontà di una rappresentazione critica della Forma Urbis, ma con la progettazione di un codice crittografato in cui, all’interno della forma circolare, è possibile trovare le coordinate delle architetture della città. Il tema delle coordinate, e del cerchio, continua come figura geometrica fondamentale per la rappresentazione di Roma, e quando, nel 1907, Christian Hülsen, è chiamato a ridisegnare l’Itinerario Einsedliense, si avvale, a distanza di quattrocento anni, sempre della curva conclusa. Oggi quel
6 Cfr. R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’Elefante, Roma, 1984, p. 295 e seguenti.
cerchio immaginario, ma visualizzabile, è atto fisico nel Grande Raccordo Anulare.
È interessante però, prima di affrontare le tematiche dell’evoluzione storica del Campo Marzio, cercare nuove visualizzazioni della Roma contemporanea che trascendono dalle carte storiche ma che riescono comunque a esplicitare e a comunicare la Forma Urbis odierna. Vi sono due visualizzazioni grafiche, diametralmente opposte, di elementi della costruzione della disciplina architettonica che possono essere prese in prestito per questo studio. Il legno, ovvero il tronco nel suo taglio orizzontale, e il suono. La rappresentazione del tipo della struttura interna dell’albero è un sistema ad anelli concentrici le cui componenti, partendo dalle definizioni del Dizionario visuale di architettura (edizione 2008), permette di individuare tematiche descrittive ed esplorative. Il centro di questo sistema è il midollo, identificabile nel centro storico della città, ovvero «l’asse del cilindro centrale formato da una sostanza molle, intorno alla quale si forma il primo anello di crescita»7. Vi è poi il durame, la parte più dura, definito massello nella pratica architettonica della costruzione. Durame che è il nostro tessuto compatto, ottocentesco, zoccolo duro formale della città europea. L’alburno invece è la fascia anulare della prima periferia che, in continuità con i fabbricati umbertini, presenta una resistenza urbana, una persistenza, simile a quella del durame ma inferiore. L’alburno è divisibile in zona “estiva” e “primaverile”: la prima è lo strato duro e compatto, mentre la seconda presenta cellule (identificabili nella struttura arcipelago della città) molto più grandi e visibilmente separate. Prima della corteccia, la scorza della città, il suo limite, vi è il floema, ovvero il «complesso di tessuti che portano la linfa dalle foglie a tutto l’insieme delle cellule dell’albero»8. Questo è assimilabile alla grande massa porosa e viva della periferia di Roma. È qui che avvengono le grandi trasformazioni della città ed è lo spazio in cui l’assenza
7 C. Broto, Dizionario visuale di architettura, Linksbook, Barcelona, 2008, p. 159.
8 Ivi, p. 146.
di progettualità mostra le più grandi lacune ma il più alto potenziale d’intervento.
Il diagramma del suono presenta un’ulteriore trasposizione del tema nel mondo figurativo della rappresentazione. Un sistema di anelli concentrici il cui centro non è identificabile in una massa o un elemento puntale ma come punto di partenza per la frequenza, la lunghezza d’onda e la sua ampiezza: una linea sinusoidale a dispersione. È la lunghezza d’onda a rappresentare il rapporto tra il centro storico e il suo arcipelago periferico da raggiungere: la «distanza misurata nella direzione della propagazione dell’onda»9. Una linea sinusoidale a dispersione che raccoglie graficamente i flussi spasmodici delle radiali che si muovono intorno alla direzione lineare, andando in penetrazione nei tessuti urbani intorno. Queste possibili visualizzazioni inusitate di Roma permettono di sintetizzare in maniera astratta tutte quelle trasformazioni che hanno portato alla città della “borgatosfera” di Mattioli, tralasciando l’analisi cartografica consueta dei PRG (Piano regolatore generale), delle IGM (Istituto geografico militare) e delle CTR (Carta tecnica regionale), che se da una parte sono lo strumento analitico prettamente scientifico degli studi sulla città, dall’altra abbisogniano di una volontà immaginifica “altra” per pensare Roma e i suoi territori sotto prospettive nuove che trovino nella selezione di una famiglia di forme uno strumento alternativo. La curva è così scelta come uno dei possibili dispositivi di conoscenza e strumenti strategici di comprensione della realtà di Roma.
9 Ibidem.
Iconografia della curva
Grand Hotel Colosseo, Superstudio, 1969.
MAXXI Museo Nazionale delle
Arti del XXI secolo. Collezione
MAXXI Architettura. Archivio Superstudio.


Itinerari

Roma e il Lazio.
Disegno critico della forma urbana di Roma radiocentrica con i suoi sistemi circolari: il Gra, le Mura antiche della città sino ai sistemi crateriformi dei laghi vulcanici a nord e sud (Bracciano e i Castelli Romani).
Disegno di Cristian Sammarco.

Gli itinerari curvilinei. Rappresentazione dei tre possibili itinerari che tengono insieme le forme curvilinee delle architetture della città. Arco e linea organizzano, tangendo e attraversando, la pianta della città attraverso esplorazioni spaziali sul tema. Disegno di Cristian Sammarco.
Appia antica o l’itinerario modello
L’itinerario dell’Appia antica su disegno del Canina. Sequenza spaziale di oggetti “sorprendenti” nel loro rapporto diretto o indiretto con l’osservatore: dal sistema delle mura ai grandi complessi in aderenza e tangenza all’elemento lineare della via Appia. Disegno di Cristian Sammarco.


Il GRA. Il GRA, 1946-2011 su progetto di Eugenio Gra.


Dentro e fuori.
Chiudersi nella forma e aprirsi verso il paesaggio. “Piano di zona n. 5, Serpentara II”, 1979, progetto di P. M. Lugli, M. Picciotto e F. Coccia. Flavia Rossi.


Costruire paesaggi curvilinei. Flavia Rossi.
Il secondo itinerario. Il Tevere ha raccolto e organizzato sequenze di organismi e architetture curvilinee. Disegno di Cristian Sammarco.
Tevere guida di una città di curve
Itinerario 2

ICONOGRAFIA DELLA CURVA

Lo spazio tra le curve. Piazza Grecia, Villaggio Olimpico, 1957-1960. Flavia Rossi.
Una curva stretta in un recinto. Mausoleo di Augusto. Flavia Rossi.




Postfazione
Flavia Rossi Fotografa
Vivo a Roma da sempre e la vivo come una costante autobiografia, fatta di paragrafi che si sovrascrivono in continuazione. Ho dei ricordi ben definiti e particolari per molti posti dove sono stata o nei quali mi piace tornare. Ogni ritorno si accompagna a dei piccoli rituali, come per esempio entrare in uno stesso negozio o rileggere con gli occhi e scattare di nuovo una vecchia foto fatta anni prima, per stupirsi di piccole differenze, marcare appunto un nuovo passaggio, come se mi muovessi nelle stanze di un appartamento della memoria. Per questi motivi e altri che cercherò di spiegare più avanti, sono molto felice di aver potuto fornire il mio apporto a questa ricerca. Considero che per un fotografo sia un arricchimento confrontarsi con le altre figure professionali come l’architetto, lo storico, l’urbanista ecc. perché quello che mi piace della fotografia è che essa sia, fondamentalmente, una modalità per costruire una relazione con le persone. Il testo affianca le fotografie e vanno di pari passo per portarvi per mano in questa indagine su “Roma e la curva”.
Roma ha una sua bellezza irregolare, decadente e piena di fascino, da ammirare ma anche da proteggere. Ti fa sentire solo al mondo e allo stesso tempo ti fa credere di possederla e ti comunica la sensazione di appartenere al mondo intero, qui e ora. La città diventa per me una scenografia, nella quale, decisa l’inquadratura, aspetto il momento di massima tensione per scattare la foto. Una cosa a cui presto molta attenzione è la scelta della luce, quando possibile. Per il resto poi è anche bello che ci siano elementi che non si possano effettivamente controllare e questo succede spesso quando si fotografa l’architettura e la città. Non tutti lasciano spazio a queste imperfezioni, invece credo sia un aspetto importante da rispettare. Per superare qualunque scorciatoia in cui ci si riduce all’istantaneità di fotografie veloci, magari anche tecnicamente perfette e morte, l’osservazione risulta essere il punto di partenza della pratica fotografica. La mia ossessione in tal senso deriva dalla caratteristica di essere una persona curiosa e con una forte immaginazione, dal mio desiderio di conoscere la vita guardando le persone e il paesaggio, creando un rapporto empatico: investire tempo significa dare amore e rispetto alla pratica fotografica.
Tramite la fotografia possiamo fare una ricerca effettiva alla radice degli eventi che vanno a generare un paesaggio. L’osservazione di un luogo porta con sé il camminare in quel posto, d’altronde si dice che le buone foto si facciano con i piedi – citando Gabriele Basilico. Si fanno misurando lo spazio con passi lenti prima di decidere dove posizionare il cavalletto, e poi aspettando con pazienza, con sguardo lento, che la pancia della macchina, obbediente, rumini e digerisca l’immagine. «Nei luoghi modificati dalla civiltà urbana, nei territori che diventano un’altra cosa, chiedendomi ogni volta: cosa succede qui, dove prima c’era qualcos’altro? Solo la fotografia può gettare su questi luoghi uno guardo che è assieme scientifico, soggettivo e politico».
Lavorare a Roma e la curva durante l’estate 2024 mi ha permesso di girare con questo tipo di sguardo in una città che ormai non si svuota più come negli anni ’90, con molti cantieri del Giubileo in
corso, ma che conserva sempre quella luce magica e rosa al tramonto e un po’ pungente al mattino presto.
Passeggiare intorno a una curva è forse uno dei modi più facili per comprendere quanto il numero di passi e il tipo di ottica montata sulla macchina siano veramente fondamentali per una sua corretta rappresentazione. L’elemento curvo si esaspera o si annulla, ti avvolge o ti respinge a seconda della tua posizione da satellite o da corpo estraneo. Tragedia e commedia, gioia e dolore sono sempre parte della stessa esperienza ed è importante non voler dare delle risposte, delle puntuali verità con la fotografia, ma rendere visibili le domande che un luogo inevitabilmente porta nella sua visione. Questo atteggiamento di incertezza aumenta il mio grado di concentrazione e attenzione al dettaglio: si osserva con maggiore profondità e si ottiene maggiore profondità narrativa. Dubito, cogito, ergo sum.
Ringraziamenti
Il primo pensiero di gratitudine va senza dubbio alla mia città, Roma, un testo incompiuto che mi regala ogni giorno nuove scoperte e ispirazioni. Un grazie di cuore al professor Fabrizio Toppetti con il quale sto condividendo non solo un percorso di ricerca architettonica ma soprattutto di crescita personale. In lui ho trovato un mentore sempre pronto a incoraggiarmi e a condividere generosamente la passione per il disegno e la progettazione.
Ringrazio Viola Bertini, preziosissima, che ogni giorno mi ricorda gli obiettivi a cui tendere e chi ha condiviso con me lo spazio del laboratorio Babele in questi anni. In particolare, un grazie va a Vincenzo Moschetti per i preziosi confronti teorici e umani e a Marco Rosati. Un grazie a Camilla d’Alessandro per il supporto grafico in questa ricerca e ad Andrea Bentivegna per il suo prezioso contributo. Un sincero ringraziamento va a Flavia Rossi, per l’amore che riversa nel lavoro di fotografa di architettura e per la sua visione che ha arricchito questa ricerca. Ci sono poi gli amici. Loro sono con me ogni giorno a supporto di tanta fatica quotidiana. Grazie.
Il mio più profondo ringraziamento va però alla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto in questo viaggio nelle forme, e al mare. Roma non ha il mare, ma lo sento ogni giorno vicino, ed è una presenza che mi dà conforto.
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L'elenco che segue è composto esclusivamente dalle pubblicazioni richiamate all'interno del volume.
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2025

Cristian Sammarco, nato nel 1990, è un architetto e ricercatore, PhD in Architettura. Dal 2022 è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP) dell’Università La Sapienza di Roma. Già tutor del Master internazionale ALA (Architecture, Archaeology and Landscape) dal 2021 al 2022, dal 2016 ricopre il ruolo di assistente alla didattica nei laboratori di composizione architettonica e urbana. La sua attività di ricerca si concentra sulla morfologia urbana e i paesaggi archeologici, con un interesse particolare per l’analisi del “DNA” delle città e delle figure che ne hanno saputo interpretare i caratteri. Dal 2021 è nel board editoriale della rivista “Panteon Magazine”. La sua carriera professionale come architetto è iniziata nel 2013, con esperienze di tirocinio presso lo studio Proap di João Nunes a Lisbona, e successivamente a Barcellona e Roma. Ha lavorato come Senior Architect per lo studio Pace, con sede in Kuwait, e ha partecipato a numerosi concorsi di progettazione. Tra i suoi progetti più rilevanti si ricorda il Museo Civico del Territorio a Poli (RM) del 2022. Ha all’attivo diverse pubblicazioni, tra cui “L’architettura della permanenza. Persistenze e mutazioni delle strutture seriali curvilinee antiche nella città contemporanea” (Quodlibet, 2022), “Michelangelo è sempre attuale!” in “Bruno Zevi e la didattica dell’architettura” (Quodlibet, 2019), e “Il deserto dei pozzi. Appunti per una nuova cartografia del Sahara”, in DAR n. 5 (2024).
19,00 €
ISBN 979-12-5953-074-5

“Roma ha assunto l’epiteto di eterna non per la presenza fisica e visibile dei suoi monumenti antichi, delle sue perle, di quei frammenti marmorei che affiorano con forza dalla sua forma urbana sintetica, ma per la sua capacità di riuso e adattamento delle forme originali costituenti l’ossatura della città”. Tra queste forme originali, la curva si distingue come un dispositivo investigativo privilegiato. La curva consente di esplorare la città attraverso il tempo e lo spazio, aprendo a riflessioni che toccano temi come la sorpresa, la persistenza e la sovrascrittura. È un elemento che racconta la capacità di Roma di trasformarsi senza mai perdere la propria essenza. Roma, infatti, è come un libro di forme che si può rileggere continuamente, trovando ogni volta nuovi significati, nuovi capitoli da esplorare instancabilmente.